135 Terza edizione — Anno XXXI n. 4 Ottobre/Dicembre 2023 Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane SpA — Spedizione in Abbonamento Postale – 70% NE/VR – ISSN 2239-6365
RIVISTA TRIMESTRALE DI ARCHITETTURA E CULTURA DEL PROGETTO FONDATA NEL 1959
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Masterplan
Innesti a San Zeno
Sulla misura della città
Ritrovare l’urbs picta
Santa Chiara reparata
Libero arbitrio
Ripensando all’Itinerario di Luigi Trezza
Nel segno di AV
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CONSIGLIO DELL’ORDINE • Presidente Matteo Faustini • VicePresidenti Paola Bonuzzi Cesare Benedetti • Segretario Chiara Tenca • Tesoriere Leonardo Modenese • Consiglieri Andrea Alban, Michele De Mori, Andrea Galliazzo, Alice Lonardi, Roberta Organo, Fabio Pasqualini, Francesca Piantavigna, Leopoldo Tinazzi, Enrico Savoia, Alberto Vignolo
Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXXI n. 4 • Ottobre/Dicembre 2023 rivista.architettiverona.it
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DIRETTORE RESPONSABILE Matteo Faustini
DIRETTORE Alberto Vignolo
EDITORE Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 architetti@verona.archiworld.it
REDAZIONE Federica Guerra, Angela Lion, Luisella Zeri, Laura Bonadiman, Damiano Capuzzo, Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi, Marzia Guastella, Giorgia Negri, Federico Morati, Luca Ottoboni, Alice Lonardi rivista@architettiverona.it
DISTRIBUZIONE La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta all’indirizzo https://architettiverona.it/distribuzione/
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CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PER LA PUBBLICITÀ Cierre Grafica Paolo Pavan: T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it
CONTRIBUTI A QUESTO NUMERO Filippo Ambrosini, Brunella Bruno, Denis Caprini, Luciano Cenna, Michele De Mori, Stefano Lodi, Dario Nicoletti, Carlo Mardersteig, Paolo Zoppi
STAMPA Cierre Grafica www.cierrenet.it
CONTRIBUTI FOTOGRAFICI Lorenzo Linthout, Diego Martini, Michele Mascalzoni
EDITING & IMPAGINAZIONE AV studio
SI RINGRAZIANO Silvia Bonagiunti, Vittorio Cecchini, Federica Provoli
L’etichetta FSC ® garantisce che il materiale utilizzato per questa pubblicazione proviene da fonti gestite in maniera responsabile e da altre fonti controllate.
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Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.
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PROGETTO
PROGETTO
Sulla misura della città di Damiano Capuzzo
Santa Chiara reparata di Angela Lion
EDITORIALE
Masterplan di Alberto Vignolo
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PROGETTO
Dall’officina ceramica alle domus al palazzo di Brunella Bruno
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PROGETTO
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PROGETTO
Ritrovare l’urbs picta di Federico Morati
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PROGETTO
Libero arbitrio di Federica Guerra
Innesti a San Zeno di Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi
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INTERIORS
SAGGIO
Nascosto in piena vista di Alice Lonardi
Ripensando all’Itinerario di Luigi Trezza di Stefano Lodi
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ODEON
ODEON
Liquido, poetico di Luisella Zeri
Ci mette il becco LC Trasformare per conservare di Luciano Cenna
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ODEON
Futura campanella di Alberto Vignolo
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QUASI ARCHITETTI
Idee per il recupero urbano di Filippo Ambrosini, Denis Caprini
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ODEON
Nel segno di AV di Paolo Zoppi, Dario Nicoletti
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INTERIORS
Una sottile linea rossa di Marzia Guastella
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ODEON
ODEON
Super Mario Arch. di Alberto Vignolo
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ODEON
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Santa revisione di Federica Guerra
Su un monte di plastica di Michele De Mori
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STUDIOVISIT OFF
Amburghese per caso di Carlo Mardersteig
INTERIORS
Profumo d’ufficio di Luca Ottoboni
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Masterplan
L’araba fenice degli strumenti progettuali e il suo tocco salvifico e/o mellifluo
Testo: Alberto Vignolo
Illustrazione: Giacomo Bagnara
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C’è stato un tempo in cui maestri e professoroni godevano nell’accapigliarsi con animosità faziosa, magari in qualche aula universitaria non ancora paludata o attraverso le belle riviste che furono, a proposito della immortale tenzone tra piano e progetto. Fino ad arrivare magari a scismi accademici, o semplicemente – facile immaginarlo – a gustose baruffe all’ombra di qualche ostarìa o bàcaro che fosse. Poi, certo, c’erano gli originali – qualcuno si ricorda ancora del mitico GDC? – che non si rassegnavano all’idea di questa contrapposizione e che anzi propugnavano le virtù della scala intermedia, nonostante dovessero accontentarsi di una definizione vischiosa come quella di “piano-progetto”, in mancanza di meglio. Poi un bel giorno, chissà quando, arrivò il “masterplan”: e tutto fu subito masterplan. Termine salvifico e buono per ogni occasione, da tenere pronto nell’armadio della strumentazione progettuale: un po’ come il tubino nero delle signore bon ton. Che sia il ridisegno delle aiuole di un giardinetto o la fondazione
di una città nuova, ecco il nostro bel masterplan pronto a scendere in campo, con la felice spensieratezza che tanto, non essendo uno strumento codificato, per ognuno è ciò che vuole che sia. Inevitabile pensare alla proverbiale araba fenice:
« Forse questa felice incoscienza terminologica è l’inevitabile conseguenza di un quadro normativo divenuto parossistico »
che vi sia ciascun lo dice, [come] sia nessun lo sa. C’è anche chi si è cimentato nell’arduo compito di provare a definire teoricamente lo statuto disciplinare di questo benedetto strumento all’interno della pratica professionale, con tanto di libello neneista (Né piano né progetto1); per non parlare di quel gustosissimo romanzo (The Masterplan2) che ne fa una sorta di catalizzatore della vanità
degli architetti. Forse questa felice incoscienza terminologica è l’inevitabile conseguenza di un quadro normativo divenuto parossistico, per cui a parlar di progetto ci si muove come fra i gusci d’uova (e il preliminare, e l’esecutivo...): per non dire del livello “di massima” e di quello “generale” (che rischia spesso di essere sui generis). E crescendo di scala, ancora più scivoloso appare il territorio del piano, soprattutto dopo lo scisma tra assetto e intervento, o tra governo e regole (a secon seconda delle varianti regionali). Potrà salvare capra e cavoli il nostro buon masterplan? Forse dovremmo intanto liberarci di questa matrice anglosassone, foriera di ambiguità e di fraintendimenti: va bene che anche le azioni sul territorio possono essere lette come un gioco di ruoli, ma da qui a farne un rapporto padrone-schiavo – master-slave - tra parte dominate (il potere? gli enti ? il real estate?) e parte sottomessa (i cittadini? i comitati? le associazioni?) ce ne passa. E i “poveri” architetti, da che parte li mettiamo? Coi buoni o con i cattivi? Dipende: i buoni coi
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1 Marco Ardielli, Masterplan: né piano né progetto, INU Edizioni, 2013. Cfr. A. Braioni, Di cosa parliamo quando parliamo di masterplan, in «AV», 93, pp. 114-116. 2 Reinier de Graaf, The Masterplan, Archis, 2020. L’autore è uno degli storici soci dello studio OMA.
01. Giacomo Bagnara, Masterplan,2023.
buoni, i cattivi coi cattivi... E il finale, sembra quello di un qualche reality televisivo: se sbagli, sei fuori dal mercato immobiliare (ma non è forse così?). Proviamo allora a mettere da parte il master-meister e a tornare al buon vecchio magister: e subito ci accorgiamo che, invece, un “piano maestro” sarebbe qualcosa di bonario e rassicurante. Sembra già di sentire il rumore del gessetto sulla lavagna, e tutt’al più l’odore dei buoni vecchi pennarelli Pantone: altro che l’esercito roboante dei render scintillanti, con tutta la potenza di fuoco delle loro scintillanti seduzioni digitali – e non è che l’inizio, stanti le già mirabolanti capacità dimostrate nel campo dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale. Un passo ulteriore: in ossequio alla parità di genere, ecco un bel “piano-maestra”: e sembra di sentire l’odore di vaniglia e una bonaria carezza sulle testoline dei pargoliprogetti, da far crescere con amore e in armonia. Così le parole cambiano la prospettiva sul modo in cui cambiano le città.
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N.B. Queste considerazioni di carattere del tutto generale possono essere lette, anche ma non solo, pensando allo stato attuale della gestione del territorio di Verona. Ma non solo.
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Foto di Diambra Mariani Cfr. pp. 83-85.
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PROGETTO
Innesti a San Zeno Due progetti per due nuovi edifici residenziali contermini nel tessuto storico del quartiere propongono un serrato dialogo tra forme dell’architettura contemporanea e riferimenti al contesto
Progetto 1: ASA Studio Albanese Foto: Andrea Garzotto
Progetto 2: Roberto Grigolon Lisa Zorzanello Studio Foto: Luigi Scattolin
Testo: Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi
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Verona
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I progetti illustrati in queste pagine sono il risultato di due percorsi paralleli che hanno portato alla trasformazione urbanistica di un intero isolato, all’interno del tessuto consolidato del quartiere di San Zeno, la cui radicata matrice storica ha svolto un ruolo importante nella definizione delle proposte. Il Piano degli Interventi del 2011 aveva introdotto la formula degli accordi pubblico-privato, regolamentati da specifiche schede norma (ex art. 6 della L.R. Veneto n. 11/2004), in risposta alle manifestazioni d’interesse pervenute a seguito di un bando. Nell’area compresa tra i vicoli Broglio e Abazia, che collegano via Pontida a piazza San Zeno, sono stati così realizzati due interventi residenziali relativi a due lotti attigui, con una superficie complessiva di circa 2.500 metri quadrati, derivanti dai rispettivi Piani Urbanistici Attuativi (n. 373 per vicolo Broglio e 612 per vicolo Abazia). Quest’area ospitava in passato lo stabilimento del Calzificio Recchia-Fraccaroli-Dotti, attivo fino agli anni Sessanta, che aveva occupato fino a centotrenta operai. La sua obsolescenza, causata dall’avvento delle fibre sintetiche, ha portato allo smantellamento negli anni Settanta, lasciando frammenti delle coperture e molte strutture perimetrali in opera mista. Gli interventi, vincolati dalle disposizioni delle rispettive schede norma, richiedevano un’edificazione che rispettasse il tessuto storico e soddisfacesse specifiche funzioni all’interno dell’area. Di particolare rilevanza è stata l’attenzione rivolta al mantenimento del muro di cinta, un elemento che, al di là delle prescrizioni normative, ha costituito il punto di partenza per entrambi i progetti. Lo stato di partenza del lotto vedeva la presenza di un porVicolo ticato a servizio del compenBroglio dio manifatturiero degli anni Trenta, successivamente demolito, e del muro di cinta – manufatto testimoniale da preservare secondo la scheda norma –, lo stesso muro che circonda l’intero comparto urbano tra vicolo Broglio, via Pontida e via Da Vico. I vari settori della cortina edilizia sul vicolo risalgono a epoche diverse, essendo stato demolito e ricostruito più volte nel corso degli ultimi due secoli, caratterizzando indiscutibilmente l’immagine del contesto sanzenate.
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01. Veduta da vicolo Broglio del nuovo edificio: la facciata, il muro esistente e sullo sfondo il campanile della basilica di San Zeno. 02. Fotopiano con in evidenza i due edifici su vicolo Broglio e vicolo Abazia. 03. Vicolo Broglio: schizzi di studio con le prime ipotesi di progetto e la relazione con il paramento murario a confine del lotto. 04. Dettaglio del muro con l’inserimento dei nuovi elementi metallici. 03
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PROGETTO
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05. Pianta del piano terra e del piano primo. 06. Veduta del fronte principale dell’edificio su vicolo Broglio. 07. Dettaglio del nuovo ingresso in metallo ricavato nel muro di cinta. 08. L’intervento visto dall’esterno del lotto e il rapporto con il muro. 09. Lo spazio dei patii interni ricavati sul fronte strada.
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La progettazione del nuovo organismo edilizio è stata affidata nel 2016 agli architetti ASA Studio Albanese di Vicenza. Il concetto progettuale iniziale, come evidenziato dagli schizzi di studio, ha primariamente indagato il rapporto con il contesto, concentrandosi sulla relazione tra il nuovo costruito e la preesistenza. In questo senso il progetto si configura come un nuovo volume in intonaco chiaro, arretrato rispetto al filo strada, dall’aspetto compatto e molto essenziale, in dialogo per contrasto con la tessitura riccamente stratificata del paramento murario esistente, realizzato con opera mista in sassi d’Adige, mattoni e malta. La volumetria è stata suddivisa in quattro abitazioni, tra cui un appartamento a torre su tre livelli e tre appartamenti duplex. Ogni residenza ha un piccolo giardino frontale e uno sul retro. A completamento dei servizi è stato realizzato un piano interrato con autorimessa e cantine. L’impostazione generale prevede una zona giorno al piano terra, suddivisa tra living e pranzo-cucina, caratterizzata da un rapporto di grande permeabi-
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COMMITTENTE Dalla Verde Immobiliare PROGETTO ARCHITETTONICO ASA Studio Albanese Flavio Albanese, Franco Albanese PROGETTISTI Giuseppe Pianezzola Giuseppe Dal Molin DATI DIMENSIONALI Superficie: 1.500 mq CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2016-2017
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10. Il prospetto interno e i giardini. 11. Veduta della facciata est dell’edificio.
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lità con l’esterno attraverso l’utilizzo di ampie vetrate, e zona notte al piano superiore. L’appartamento a torre, posizionato all’inizio del lotto e dal sedime più compatto, gode anche di un balcone al piano primo e una terrazza in copertura. A questa chiara impostazione distributiva corrisponde altrettanta chiarezza nel disegno degli alzati, oltreché nella scelta dei materiali e nella gestione delle finiture. Il disegno delle aperture segue uno schema in cui i piani terra sono caratterizzati da grandi porte finestre orizzontali e quelli superiori da porte finestre a tutta altezza, caratterizzate da una spiccata verticalità. La proporzione contemporanea del piano terra è mascherata rispetto alla pubblica vista dalla presenza del muro di cinta, mentre i tagli verticali dei piani superiori si accordano perfettamente all’intorno e, pur garantendo una generosa illuminazione degli ambienti interni, riescono a trasmettere il necessario senso di privacy alle zone notte. Il tutto è trattato con pochi segni semplici e lineari, che sottintendono un buon approfondimento del dettaglio architettonico.
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Alcuni esempi di questo approccio possono essere rappresentati dagli scuri impacchettabili in nicchia delle porte finestre, dal lavoro di ridisegno e sostituzione della tradizionale gronda stondata con un profilo rettangolare custom made in rame, perfettamente integrato con lo sporto. Anche la scelta di intervenire con portali in corten dai profili essenziali per forare il muro di cinta, testimonia questa sensibilità progettuale. Nel complesso, tutto il disegno delle parti metalliche si mantiene essenziale ed è gestito con attenta sobrietà. L’intervento di via Broglio di ASA Studio Albanese può quindi essere definito come un caso esemplare di contemporaneo calato in un contesto storico, in cui il senso del progetto risiede nella capacità di instaurare una misura di rapporto, trovata grazie alla chiarezza delle premesse nella fase di definizione del nuovo corpo edilizio e allo studio del particolare in fase realizzativa.
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12-13. Vicolo Abazia: schizzi di studio per l’inserimento del nuovo edificio nel tessuto storico del quartiere e prime ipotesi compositive di progetto. 14. Il rapporto fra l’intervento, dove emergono le tessiture murarie in laterizio, e il campanile sullo sfondo.
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15-16. Pianta del piano primo e del piano terra. 17. La relazione fra l’edificio e il contesto: il mattone faccia a vista come elemento di unione fra edifici di epoche storiche diverse. 18. Disegno del fronte su vicolo Abazia. 19. Il prospetto frontale (foto di Guido Zanderigo).
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Il lotto su vicolo Abazia è stato protagonista di un concorso privato a inviti tra alcuni studi veronesi, conclusosi nell’aprile 2015 con l’assegnazione dell’incarico agli architetti Roberto Grigolon e Lisa Zorzanello. Il progetto vincitore aveva l’obiettivo di coniugare un edificio compatto, integrato nel tessuto storico di San Zeno, con un volume tecnologico che garantisse comfort e soluzioni energetiche avanzate. L’edificio si presenta di fatto come un elegante doppio involucro: un guscio interno di vetro destinato ad accogliere le funzioni abitative, e un involucro esterno realizzato interamente in laterizio, privo di sporgenze, ma arricchito da logge incise nello spazio fra i due strati. Nonostante le modifiche apportate dalla committenza durante lo sviluppo del progetto abbiano smorzato la chiarezza di impostazione mostrata nella fase concorsuale, il progetto ha offerto l’opportunità di reinterpretare i caratteri tipologici degli edifici romanici, già indagati nel restauro della vicina Torre Abbaziale curato dall’architetto Libe-
ro Cecchini tra il 1987 e il 1992. Le trame dell’elegante tessitura in laterizio hanno definito un ritmo di facciata che sottolinea gli elementi architettonici dell’edificio. Il basamento, così come la scansione di marcapiani e architravi della facciata, costituisce un disegno complessivo che ridefinisce l’eredità storica del contesto, dando vita, al contempo, ad un edificio contemporaneo e silenzioso. L’operazione di studio e analogia con l’esistente è frutto di un’accurata analisi condotta dagli architetti, che hanno sapientemente ripreso e trasformato elementi caratteristici dell’architettura storica, come il laterizio, i contrafforti presenti nella residenza dell’Abate o gli elementi lapidei dei frontoni della Basilica. L’edificio si sviluppa su tre livelli fuori terra e ospita sette alloggi, con un piano interrato dedicato a parcheggi, cantine e vani tecnici. Il nuovo ingresso è ottenuto da un varco aperto sul muro perimetrale, testimonianza del fabbricato industriale precedente. Dal punto di vista costruttivo, l’edificio adotta un
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sistema tradizionale con telaio strutturale in cemento armato, tamponamenti in laterizio e doppio isolamento sia sul lato esterno che interno. L’aspetto più interessante è il rivestimento in laterizio, realizzato con la tecnologia delle pareti ventilate: i mattoni, sostenuti da elementi metallici ancorati alle strutture portanti, creano una intercapedine che garantisce ventilazione e riduce i carichi termici sulla facciata. Anche la cromia del laterizio è stata oggetto di attenta analisi, definendo il giusto equilibrio tra sabbia e argilla e la temperatura di cottura in sintonia con le sfumature del contesto. Uno spazio significativo è dedicato all’uso della pietra della Lessinia, unica varietà di marmo presente nell’intervento, impiegata per le pavimentazioni degli ambiti comuni e per gli elementi di finitura del paramento in laterizio. Il risultato è un edificio concepito e realizzato in cinque anni, un periodo eccezionalmente lungo per l’edilizia, ma necessario per un’architettura sartoriale che riflette un’attenzione al dettaglio e un impegno nella costruzione, capaci di rispettare l’identità dei luoghi.
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COMMITTENTE Logge San Zeno PROGETTO ARCHITETTONICO arch. Roberto Grigolon arch. Lisa Zorzanello COLLABORATORI-CONSULENTI ing. Antonio Marco Foroni (prog. esecutivo, coordinamento generale, direz. lavori da 2019), ing. Paolo Crescini (direz. lavori fino 2019), Luigi Scattolin (prog. esecutivo), arch. Antonio Dal Cero (render), arch. Flavio Pachera (identità dei luoghi), ing. Franco De Grandis (strutture), ing. Arrigo Andreoli (impianti), arch. Andrea Malesani (sicurezza) IMPRESE E FORNITORI Impresa Mantovani (opere edili), Climatech Impianti meccanici), Centro Produzione Infissi (infissi), Rewal (impianti elettrici) CRONOLOGIA Piano Urbanistico Attuativo: 2015 Progetto: 2015-2017 Realizzazione: 2018-2020
20. Disegno di dettaglio della facciata in laterizio. 21. Immagine complessiva dell’intervento. 22. Veduta del prospetto nord.
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Sulla misura della città Un intervento di rigenerazione urbana all’interno della città storica, contribuisce alla riflessione critica sul necessario equilibrio tra storia ed innovazione, attraverso la rilettura della cortina edilizia consolidata
Progetto: Archingegno
Testo: Damiano Capuzzo Foto: Diego Martini
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Le città, e con esse i tessuti consolidati o in via di parziale trasformazione, sono il luogo di una consuetudine costruttiva che nella sequenza urbana si caratterizza per l’insieme di elementi misurati e misurabili alla scala dell’edificio. Ogni architettura è quindi parte di un contesto storico, urbano e sociale sottoposto nel tempo alle modificazioni che dipendono dal mutare delle condizioni al contorno: tanto quanto il contorno stesso evolve attraverso le trasformazioni delle singolarità architettoniche che lo compongono. La relazione che tende dunque a regolare i processi di cambiamento e rigenerazione dell’ambiente urbano dovrebbe essere garanzia imprescindibile del mantenimento dei valori riscontrabili nei centri storici, ovvero del pregio e dell’eleganza delle cortine storiche e di una dimensione di scala che concorre a definire la percezione stessa di una città vivibile. L’intervento che lo studio Archingegno ha recentemente completato per Palazzo Mastino ridefinisce parte di un isolato del quartiere della Cittadella a Verona, riportandone alla contemporaneità il senso di continuità storica e di appartenenza visiva. Costruito in luogo di un’officina meccanica dismessa diventata nel tempo discoteca e infine sala bingo, il progetto propone una lettura critica della compatta cortina edilizia del contesto in cui è posto: da una parte l’edificato del secondo dopoguerra lungo via Bertoni, con edifici di grandi dimensioni, dall’altra il tessuto denso di matrice ottocentesca sui vicoli San Domenico e Croce Verde, con l’alternanza di case di piccole e medie dimensioni a intercludere piccole corti. Reinterpretando la complessità tipologica e spaziale del luogo, il progetto è impostato attorno a tre corti; l’an-
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01. Veduta aerea del nuovo complesso residenziale all’interno del comparto urbano della Cittadella. 02. La planimetria generale evidenzia la continuità tipologica dell’isolato strutturato su piccole corti. 03. Scorcio su Vicolo Croce Verde.
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« L’esito architettonico è certamente definito dalla capacità del modello di declinare il rapporto e l’interazione con l’intorno » damento curvilineo dei fronti segue i tracciati urbani e articola il ritmo su una composizione dinamica. Una ricca variazione volumetrica, senza rinunciale a una sintesi che ne supporta il carattere contemporaneo e innovativo, riesce a mantenere evidente il legame con il contesto delle differenti scale dimensionali preesistenti. Nel passaggio dalla regola urbana a quella dell’oggetto architettonico, la volontà di assecondare la compresenza di tessuti e alternanze stilistiche si mantiene quale elemento guida della composizione, dove il progetto gioca sulla diversificazione delle facciate attraverso la scomposizione dei fronti lunghi in porzioni minori. Le ampie logge sviluppate sulla verticale mantengono nella sequenza un
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PROGETTO 04. Piante dei piani fuori terra. 05. Su via Bertoni il prospetto si relaziona con l’edificato novecentesco preciso e regolare. 06. Su Vicolo Croce Verde l’edificio alterna la linearità
Sulla misura della città del piano terra al dinamico ritmo dei livelli superiori. 07. Lo sfalsamento dei volumi lungo Vicolo San Domenico.
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dialogo armonico con la proporzione dell’edificato storico; l’alternanza e la variabilità delle bucature concorrono alla percezione di un prospetto che non compare mai nella sua interezza, bensì nell’apparente accostamento di frazioni le cui variabili di dettaglio producono, sul principio insediativo dell’aggregazione lineare, una geometria articolata e dinamica. L’esito architettonico è certamente definito dalla capacità del modello di declinare, pur nella sua integrità stilistica, il rapporto e l’interazione con l’intorno, definendo una dimensione che ricostruisce e riconnette l’assieme urbano. Nelle parole dell’architetto Carlo Ferrari, co-fondatore di Archingegno, è una “cortina stradale quasi metafisica” sul fronte ovest di via Bertoni, dove il marcapiano in pietra bianca di Vicenza e la cadenza regolare delle forometrie segnate
da cornici in rilievo si pone in continuità con i solidi fronti novecenteschi; “compatta e razionale” verso il lungo lato sud di vicolo San Domenico, dove la regolarità delle forature scandisce un ritmo preciso, contrastato dalle grandi finestre puntuali e dai vuoti delle logge; “vivace e volumetrica” sul fronte nord, dove le facciate appaiono scolpite dai bow-window al piano primo e dall’arretramento su più livelli dei fronti superiori. In termini dimensionali il complesso, che sviluppa una volumetria totale di circa dodicimila metri cubi su quattro piani fuori terra, accoglie cinquanta alloggi con tagli diversificati, spazi direzionali al piano terra e due piani interrati di autorimessa. Lo scavo propedeutico al cantiere aveva peraltro riportato alla luce una serie articolata di resti appartenenti ad alcune domus suburbane (cfr. l’artico-
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COMMITTENTE Immobiliare Re Capital PROGETTO architetti Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli / Archingegno COLLABORATORI arch. Alessandro Martini, arch. Marco Rizzi, geom. Andrea Chelidonio CONSULENTI SM Ingegneria, prof. Claudio Modena (progetto strutture) Ingea (progetto impianti) IMPRESE E FORNITORI VE.CO Costruzioni (impresa generale), Svai Service (cappotti, cartongessi, finiture), Mazzi Impianti (impianti tecnologici), Fiorini & Adami (impianti elettrici), Peloso Infissi (serramenti) CRONOLOGIA Progetto e Realizzazione: luglio 2017-novembre 2023
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PROGETTO 08. La sezione trasversale restituisce il ritmo alternato tra il volume costruito e le corti. 09. L’edificio si inserisce nel contesto urbano senza rinunciare alla propria contemporaneità. 10. La negazione dell’angolo su via Bertoni sottolinea uno degli ingressi all’edificio.
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11. Le corti interne rappresentano uno spazio intimo che agisce anche da naturale termoregolatore dell’edificio. 12. Veduta di una delle corti dalla terrazza di copertura.
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lo seguente), delle quali si erano conservati ampi tratti di pavimentazioni; in accordo con la Soprintendenza si è deciso di esporre i ritrovamenti all’interno dello spazio condominiale, rendendone unici gli ambienti di ingresso al piano terra attraverso un allestimento espositivo curato da Archingegno, la cui fruizione alla collettività è stata garantita da un accordo pubblico-privato che assicura l’accesso agli spazi su richiesta. Il processo di sviluppo della proposta ha interessato molteplici aspetti di sostenibilità, guidando non solo la progettazione in termini di scelta dei materiali, ma anche la gestione delle risorse attraverso la compresenza di fattori di uso diretto e indiretto. La tipologia costruttiva con struttura in cemento armato e pareti esterne in calcestruzzo areato termoisolante ha permesso di contenere i costi, garan-
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PROGETTO
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13-14. L’androne di ingresso con l’installazione delle pavimentazioni romane ritrovate in loco.
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tendo elevate prestazioni energetiche a favore di un alto comfort percepito. Le corti favoriscono il mantenimento di un microclima specifico e consentono strategie per la ventilazione passiva e il raffrescamento naturale limitando il ricorso a sistemi meccanici di rinfrescamento, fungendo inoltre da zona cuscinetto con un affaccio intimo e protetto per le zone interne degli appartamenti. Le facciate dell’intero complesso sono rivestite da un sistema a cappotto rifinito in intonaco di colore chiaro, in continuità cromatica con i toni della pietra di Vicenza che, sempre nella reinterpretazione della tipologia
architettonica consolidata, disegna il basamento dei fronti come elemento che nelle variazioni di altezza – riscontrabili soprattutto lungo il prospetto sud – concorre a recuperare la relazione tra il dettaglio basamentale di via Bertoni e quello ottocentesco di vicolo San Domenico. All’eleganza discreta degli esterni si contrappone un lato interno dal forte senso di intimità. Se la scansione dello spazio esterno è regolata dalle figure regolari delle aperture che riprendono l’aspetto della città, i vuoti interni reinterpretano il tema dalle case di ringhiera dove le corti, di fatto dei piccoli giardini pensili posti
al piano primo, sono circondate dai ballatoi di distribuzione delle unità abitative. Ecco la passeggiata nello spazio dei ballatoi e nei giardini, sorta di rifugi segreti progettati per gli attraversamenti, dove grandi alberi filtrano la luce naturale che bagna i prospetti interni suggerendo la permanenza, dove le storie si incrociano e si mescolano o solo per un attimo si sfiorano, dando vita a un senso di quotidianità e appartenenza. Questi spazi silenziosi e calmi per luce, colori, vegetazione e materiali sono luoghi di pace e rilassatezza che aumentano la qualità di vita degli utenti. La distribuzione a ballatoio
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15. Scorcio notturno dell’ingresso su Vicolo San Domenico. 16. Porzioni di pavimentazione in battuto cementizio di epoca romana.
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17-18. Frammenti del contesto urbano visti dalle ampie finestre del piano attico. 19. Veduta dal basso di uno dei fronti urbani.
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permette di far corrispondere il preciso e regolare ritmo delle facciate alle disposizioni più varie degli ambienti interni, consentendo anche l’accesso al tetto terrazza per gli attici dell’ultimo piano, caratterizzati dalla varietà di orientamenti e con ampie vedute sul paesaggio urbano. Palazzo Mastino rappresenta un edificio urbano pensato secondo una visione della città legata all’integrale e armonica comprensione di un insieme che è sommatoria di parti infinitesimali; quell’infinitesimo agire che è così decisivo per l’abitare; quell’infinitesima attività che costituisce i fondamenti della nostra disciplina.
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ARCHINGEGNO Lo studio Archingegno dal 1998 ad oggi ha progettato e realizzato edifici pubblici, residenziali e terziari, con particolare esperienza nella progettazione di spazi per il lavoro. I soci fondatori Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli considerano l’architettura come intreccio di elementi storici e contemporanei, con l’obiettivo di realizzare architetture di qualità, tecnologicamente avanzate, sostenibili ed efficienti. Tra i lavori dello studio, la Cantina Valetti a Bardolino («AV» 108, pp. 26-33) e la nuova chiesa della Beata Vergine Maria in Borgo Nuovo a Verona («AV» 118, pp. 22-29). www.archingegno.info
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PROGETTO
Dall’officina ceramica alle domus al palazzo L’indagine di archeologia urbana condotta preliminarmente al cantiere per la costruzione del nuovo edificio e le sue risultanze
Testo: Brunella Bruno
SABAP Verona, Rovigo e Vicenza
I pavimenti di età romana esposti negli androni di “Palazzo Mastino” provengono dallo scavo archeologico che ha preceduto la realizzazione del complesso residenziale. Lo scavo, condotto negli anni 2017–2018, ha messo in luce le trasformazioni che caratterizzarono, nel corso della storia, l’area in cui sorge l’edificio, a partire dalla prima età imperiale fino all’età moderna. Particolarmente importanti si sono rivelati i resti di una o più domus suburbane di cui si erano conservati ampi tratti delle pavimentazioni. Per favorire la conoscenza storica e archeologica dell’area in cui oggi sorge il Palazzo e ripercorrere vicende del cantiere costruttivo, si è deciso di esporre le pavimentazioni all’interno dello spazio condominiale, una volta completato il restauro dei manufatti e con le dovute garanzie di custodia e sicurezza. Tale scelta, supportata da un innovativo accordo pubblico-privato, è sembrata il modo migliore per garantire la valorizzazione e fruizione delle testimonianze archeologiche nel luogo stesso del rinvenimento. Il deposito dei reperti, di proprietà statale, è stato autorizzato dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e paesaggio di Verona, Rovigo e Vicenza con un accordo siglato in data 24/06/2022 con l’immobiliare Re Capital.
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Le indagini archeologiche Lo scavo preliminare all’attività edilizia, previsto dalle norme del Piano di Assetto del Territorio del Comune di Verona e dalle prescrizioni della Soprintendenza, ha interessato un’area urbana ampia di 1.155 mq e si è svolto con oneri a carico del Committente. Si è trattato di un grande cantiere archeologico urbano che ha visto l’impiego sul campo, per circa un anno e mezzo non continuativo, di una decina di archeologi professionisti. Secondo la prassi dell’archeologia urbana, l’indagine è stata effettuata con metodo scientifico nel rispetto delle esigenze di tutela e ricerca, adeguandosi alle esigenze del cantiere edilizio e del progetto costruttivo.
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Le indagini hanno preso il via dopo la demolizione degli edifici preesistenti. Sono intervenuti sul campo anche ditte di restauratori per lo stacco dei pavimenti e il prelievo degli affreschi crollati. Allo scavo sono seguite attività di sistemazione e archiviazione dei reperti, oggi conservati entro circa 150 cassette nei magazzini della Soprintendenza, e le operazioni di restauro e collocazione su telaio dei lacerti pavimentali, in vista della loro esposizione. La fase dell’atelier ceramico L’area in cui sorge l’attuale Palazzo Mastino in età romana era collocata fuori dalla cinta muraria a poche centinaia di metri dal percorso della via che collegava il vicus di Hostilia sul Po con la valle dell’Adige, coincidente con la via Claudia Augusta (corrispondente all’attuale via del Pontiere). La zona, assai vicina all’Adigetto, era servita anche da una bretella stradale che collegava la via Postumia e la via Claudia Augusta, di cui si sono trovate tracce in piazza degli Arditi. La presenza di vie di comunicazione e la disponibilità di acqua favorirono la nascita, verso l’età augustea, di un vasto atelier ceramico concentrato soprattutto nella parte più orientale del cantiere (aree B e C). L’area produttiva era organizzata secondo zone funzionali e comprendeva forni, vasche per la decantazione dell’argilla, pozzi. Diverse sono le modifiche e le ristrutturazioni registrate, dovute al fatto che le istallazioni erano strutture precarie e dopo un certo periodo d’uso andavano rifatte. Le vasche, di varie dimensioni e rivestimento, sono indicative delle diverse lavorazioni alle quali era sottopo-
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DIREZIONE INDAGINI ARCHEOLOGICHE E RESTAURI Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza Soprintendenti: Fabrizio Magani, Vincenzo Tiné Funzionario archeologo: Brunella Bruno INTERVENTO ARCHEOLOGICO MULTIART soc. coop. (Verona) Archeologa responsabile: Paola Fresco Restauratori: Patrizia Toson (affreschi), Diego Malvestio & C. (consolidamento, stacco e restauro dei pavimenti) PROGETTO ALLESTITIVO arch. Carlo Ferrari - Archingegno
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01. Veduta del cantiere con gli archeologi al lavoro. 02. Il cantiere in una veduta dall’alto; le lettere indicano i diversi settori dlelo scavo. 03. Individuazione dell’area nel contesto della città romana. 04. Discarica di frammenti ceramici, scarti di lavorazione dell’atelier ceramico.
« Lo scavo ha messo in luce le trasformazioni che caratterizzarono nel corso della storia l’area in cui sorge l’edificio » sta l’argilla grezza prima di avviare la manifattura ceramica vera e propria. I forni documentati in via Bertoni sono del tipo verticale e formati da un rudimentale praefurnium di forma circolare, un’imboccatura quadrata e una camera di combustione a forma rettangolare/quadrata rivestita di mattoni crudi modellati con argilla grossolana mescolata a paglia sminuzzata. Sulle pareti interne delle camere sono state spesso ritrovate le pilae che costituivano la base di partenza degli archi di sostegno del pia-
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Dall’officina ceramica alle domus al palazzo
PROGETTO 05. Vasellame prodotto nell’atelier ceramico. 06. I resti di un pozzo circolare realizzato con ciottoli a secco. 07. La domus dell’area A.
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no di cottura, mentre il pavimento basale era costituito da ghiaia e in un solo caso da mattoni crudi. Non sono pervenuti esempi integri, né dei piani di cottura, né delle camere di cottura, spesso soggette a crolli. Interessante infine, la presenza di pozzi circolari realizzati con ciottoli a secco indicativi di come funzionasse il drenaggio dell’area artigianale. L’articolato atelier, che ha restituito enormi quantità di scarti ceramici, fu cancellato dopo pochi decenni per un nuovo piano urbano che prevedeva la trasformazione dell’area da produttiva a residenziale. Le strutture furono rasate e riempite dalle macerie delle loro demolizioni, ad eccezione di alcune murature che costituivano i divisori delle differenti aree produttive, utilizzati nella fase abitativa ed anche nei periodi successivi.
La fase delle strutture residenziali (domus) I dati archeologici evidenziano che nell’area furono realizzate due domus tra loro affiancate: la prima nell’area A – le cui strutture erano appartenenti a due principali fasi architettoniche -la seconda nelle aree B e C, dove però le strutture non si erano conservate e si presentavano assai lacunose. Della domus dell’area A si è scavato un settore di ca 256 mq, caratterizzato da un cortile colonnato circondato da file di ambienti: sui due lati superstiti si sono individuati alcuni vani inizialmente dotati di pavimenti in cementizio riferibili alla fine del I sec. a.C. – inizio I sec. d.C. Come avviene un po’ ovunque a Verona, gli ambienti della domus furono completamente rinnovati verso la media età imperiale, con modifiche strutturali, ampliamenti planimetrici e nuove decorazioni sia alle pareti che ai piani pavimentali, questi ultimi sostituiti da tessellati policromi. Sono riferibili a questa ristrutturazione due mosaici policromi geometrici uno dei quali, caratterizzato da un’imposta-
zione geometrica centralizzata, segnala la destinazione del vano alla sosta e al ricevimento. Del secondo, assai frammentario e lacunoso, poco si può dire se non che presentava un motivo a rombo policromo con diagonali. La domus dell’area A All’esterno degli ambienti, in uno dei corridoi porticati che circondavano il cortile si sono recuperati, in numerosi frammenti, gli intonaci dipinti appartenenti a due diversi soffitti riconducibili all’età severiana. Il primo, a fondo bianco, con una decorazione geometrica modulare a rete di ottagoni adiacenti con i lati formati da linee spezzate verdi e rosse alternate, profilati internamente da una riga nera cui segue una coroncina di grossi punti gialli e verdi con, al centro, un fiorone a petali campaniformi rossi. Del secondo soffitto, molto complesso, non è al momento possibile ricostruire lo schema che appare costituito da una rete di cassettoni e scene figurate dionisiache.
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08-09. Frammenti del primo e del secondo soffitto dagli scavi della domus dell’area A. 10. La domus dell’area C. 11. Disegno archeologico del vano con il mosaico. 12. Pavimenti in cementizio.
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Nella zona meridionale del cantiere (B e C) le evidenze, come si è detto, risultavano più labili: si è rinvenuto qui un altro mosaico a tessere bianche nere e piccole inserzioni policrome, all’interno di una piccola struttura quadrata. La presenza, presso gli angoli SW e SE di due plinti, ha suggerito l’ipotesi di un vano inserito in un porticato aperto verso est.
Le vicende successive L’abbandono delle domus avvenne in un unico momento per cause non definite e fu seguito da numerosissimi interventi di spoglio dei materiali costruttivi, oltre ad azioni di livellamento e “rasatura”. Nel periodo medievale, quando l’area fu occupata da insediamenti monastici, il lotto indagato sembra essere stato adibito ad orto e caratterizzato da lunghi muri divisori delle proprietà. Le vicende edilizie successive risultano difficili da tracciare con chiarezza per le drastiche asportazioni causate dalle occupazioni dell’ultimo secolo. Alcune vasche rettangolari affiancate con uno spazio aperto al
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centro, facenti parte di un impianto artigianale legato alla produzione del salnitro – uno dei tre elementi che servivano per la preparazione della polvere da sparo – sono state collegate alla connotazione militare dell’area, iniziata con la costruzione della Cittadella nel corso della dominazione viscontea, ma poi continuata anche durante il governo della Serenissima. I documenti attestano a partire dal XVI secolo l’esistenza di strutture abitative di proprietà della famiglia Orti Manara, ai cui impianti edilizi, leggibili ancora nei catasti ottocenteschi, si sono ricollegate alcune murature e una cantina con volta a botte.
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PROGETTO
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Il restauro delle Case Mazzanti restituisce alla piazza simbolo della città uno dei sui elementi più iconici mettendo in luce alcuni elementi architettonici e pittorici rappresentativi della vita dell’edificio e della città
Progetto: arch. Andrea Aloisi, arch. Ferdinando Forlati Testo: Federico Morati
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Tra gli edifici che definiscono la forma urbana di Piazza delle Erbe a Verona, le Case Mazzanti rappresentano senz’altro uno dei monumenti più iconici e significativi. Ancora oggi le facciate dell’edificio, decorate con motivi geometrici, floreali ed allegorie, donano un carattere unico alla piazza che fu il cuore politico e finanziario della città antica, catturando l’attenzione del visitatore moderno così come poteva avvenire in passato. Infatti, più ancora che per l’aspetto architettonico, le Case Mazzanti colpiscono per essere l’essenza stessa di quella Verona conosciuta come Urbs Picta, titolo che la città guadagnò grazie al gran numero di affreschi che ricoprivano le pareti dei palazzi nobiliari. Oggi gli importanti lavori di restauro sulla porzione centrale del complesso, condotti congiuntamente dagli architetti Andrea Aloisi e Ferdinando Forlati, permettono di ammirare l’edificio ammantato di una ritrovata lucentezza, arricchito inoltre dalla restituzione di alcuni elementi architettonici e pittorici di cui si ipotizzava solo l’esistenza. Eseguiti su iniziativa privata a distanza di circa quarant’anni da un precedente intervento sulle superfici affrescate, i restauri hanno preso avvio da un attento studio della storia del manufatto e delle sue componenti, a partire dalle massicce fondazioni di epoca romana, passando per le ricostruzioni medievali, le trasformazioni rinascimentali e arrivando fino agli sviluppi più recenti. Il fronte di maggior rilievo è senza dubbio quello su Piazza delle Erbe, dove troviamo un porticato del tardo Quattrocento aggettante rispetto al volume principale delle case, sorretto da colonne in marmo rosso ad eccezione di una singola colonna, curiosamente in marmo Nero di Roveré.
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Sopra al loggiato ne esisteva un secondo costituito da bifore che si susseguivano per l’intera facciata, sostituito nel tempo da una infilata di finestre più o meno anonime e dalla costruzione di alcuni balconi. Le bifore erano composte da una colonnina lapidea centrale con capitello, in cui si evidenziava lo stemma nobiliare della famiglia di riferimento, intercalate da pilastri in muratura a sostegno della terrazza soprastante. Durante i lavori di restauro, non potendo procedere alla riapertura integrale dell’antico loggiato, sono state messe in luce le colonne con una riquadratura della muratura di tamponamento a contorno, oltre che mettere in risalto la
« L’intervento per le Case Mazzanti vuole farsi volano per un recupero culturale più ampio, che includa quel patrimonio della Verona Urbs Picta di cui è parte » 02
01. Veduta di scorcio del loggiato e della facciata dipinta su Piazza delle Erbe dopo il restauro. 02. Particolare della dedica a Matteo Mazzanti posta all’interno del palinsesto figurativo sulla piazza. 03. Estratto di una stampa cinquecentesca (1564) con una veduta delle Case Mazzanti.
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Ritrovare l’urbs picta
04. Dettaglio di una delle lunette sottostanti il loggiato durante il cantiere di restauro. 05. Tavola di progetto con la stratificazione degli intonaci trecenteschi e di quelli eseguiti successivamente alla realizzazione del loggiato. 06. Rilievo del prospetto interno del Volto Barbaro prima dell’esecuzione dei restauri. 07. Veduta del Volto Barbaro da via Mazzanti verso Piazza delle Erbe. 08. Particolare dello stemma cittadino e della fascia policroma messi in luce nel Volto Barbaro.
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sagoma degli originari archi a tutto sesto con lievi differenze cromatiche e superfici sfondate. Questa soluzione cerca di conferire alla facciata una nuova tridimensionalità che ricordi il progetto originario; solo nelle loggette centrali dove i tamponamenti erano eseguiti in modo molto precario è stata proposta e ottenuta l’apertura integrale delle aperture. Durante i sondaggi propedeutici alla demolizione controllata degli intonaci del piano terra, in corrispondenza delle lunette sottostanti gli archivolti del loggiato, sono emerse preziose testimonianze relative ad alcune ghiere decorative che impreziosivano gli originari accessi all’edificio scaligero. Si tratta quindi di intonaci antichi, eccezionali per quanto riguarda i rinvenimenti di pitture trecentesche antecedenti alla realizzazione del loggiato stesso. In altre lunette sono invece vi-
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COMMITTENTE Condomini Case Mazzanti PROGETTO ARCHITETTONICO E DIREZIONE LAVORI arch. Andrea Aloisi arch. Ferdinando Forlati CONSULENTI dott. Riccardo Battiferro Bertocchi (storia dell’arte), arch. Fausto Randazzo-Ianus (rilievi laser scanner e restituzione fotografica), R&C Art-dott. Stefano Volpin (analisi chimiche) PROGETTO ILLUMINOTECNICO Alma Artis-Accademia Belle Arti di Pisa, Giorgio Butturini (light design), Marco Pozzerle (illuminotecnica), Marco Tonon (museologia), Hikari (illuminazione museale), DEF (sistemi di controllo), Ximula (realtà virtuale) IMPRESE arch. Mauro Zammataro, Susanna Bertolucci, Cristina Giacalone, Silvia Gravina, Margherita Noventa, Eugenia Vittoria Olivari, Giovanna Zanotti (restauratori), VE.CO srl, Bottega del Restauro (restauro elementi lignei)
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sibili decorazioni relative alla fase storica post loggiato, raffiguranti le attività di bottega ivi presenti. La rimanente parte della facciata è dominata dagli straordinari cicli pittorici eseguiti principalmente a partire dai primi decenni del Cinquecento, successivamente al subentro della famiglia Mazzanti nella proprietà dell’immobile. Qui le allegorie dell’Ignoranza e dell’Invidia realizzate in ordine gigante dal pittore mantovano Andrea Cavalli – allievo del celebre Giulio Romano – spiccano su un impaginato pittorico composto da un pattern di superfici marmoree in tonalità a contrasto. Pattern che si compone di riquadri geometrici che racchiudono cerchi, rombi ed esagoni. Completano la facciata una dedica alla memoria di Matteo Mazzanti e la rappresentazione – sempre attribuita al Cavalli – di quella che sembrerebbe essere una gio-
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CRONOLOGIA Progetto: 2017 Realizzazione: 2020-2022
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PROGETTO 09. Particolare di una delle finestre su via Mazzanti con decoro in simulazione del marmo rosso. 10. Fotorestituzione del prospetto su via Mazzanti prima dei restauri. 11. Il fronte su via Mazzanti a lavori ultimati.
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Ritrovare l’urbs picta 12-13. Veduta notturna da Piazza delle Erbe, stato attuale e simulazione del progetto illuminotecnico. 14. Dettagli dello sporto di gronda con l’ancoraggio dei corpi illuminanti.
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vane simile a Madonna Verona che invita alla conservazione della città. A una delle estremità del loggiato, in corrispondenza di un adattamento del passo delle arcate, è presente un passaggio coperto denominato Volto Barbaro, che collega la Piazza delle Erbe con la retrostante Via Mazzanti. Gli interventi eseguiti in questo ambito sono riassumibili nel recupero di alcune porzioni di affreschi eseguiti alla fine del Quattrocento durante la ricostruzione del volto voluta dal Capitano del Popolo Zaccaria Barbaro, a cui si deve il toponimo. Una fascia policroma posizionata appena al di sotto del solaio ligneo e due stemmi circondati da ghirlande di alloro e nastri, uno di questi raffigurante lo stemma cittadino mentre del secondo non ci rimangono che i contorni. Su via Mazzanti, invece, il prospetto si presenta come un coacervo di fo-
rometrie, aggetti e materiali diversi, con una estesa balconata che percorre quasi per intero il terzo piano collegandosi a terra con uno lungo scalone. L’intera composizione della facciata è il frutto del susseguirsi di interventi stratificati nel tempo, sempre meno coerenti tra loro, con elementi quattrocenteschi a cui si affiancano altri ottocenteschi e finestre cinquecentesche che convivono con omologhe del secolo scorso. La lettura del progetto ha idealmente identificato tre livelli orizzontali sovrapposti; in quello sommitale, parzialmente protetto dall’importante aggetto dello sporto di gronda, il restauro ha evidenziato gli intonaci antichi dipinti con i medesimi schemi geometrici del fronte su Piazza delle Erbe, ma a tonalità invertite, forse per agevolarne la vista dato il ridotto campo prospettico.
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La fascia direttamente sottostante è quella che per la perdita dello strato finale delle malte appare con una tessitura muraria in mattoni lasciata a vista, in dialogo con gli elementi superiori e sottostanti. Dal livello della balconata in giù, le superfici intonacate frutto di una serie di interventi attuati nel tempo, con il susseguirsi di strati sovrapposti disomogenei e discontinui, sono state rimosse e sostituite con malte di calce naturale additavate con terre naturali e/o velate successivamente. Sono inoltre stati rimossi gli elementi oscuranti incongrui dei fori architettonici, come persiane e scuretti a battente. Infine, in contemporanea al restauro del manufatto è stato sviluppato un progetto illuminotecnico per la valorizzazione delle superfici affrescate e la riproposizione virtuale di quelli che oramai hanno perduto forma e colore. In questo modo l’intervento per le Case Mazzanti vuole farsi volano per un recupero culturale più ampio, che includa quel patrimonio della Verona Urbs Picta di cui è parte. Infatti, nonostante la perdita mate-
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riale di gran parte di quel patrimonio pittorico, e fatta eccezione per la pittura ex novo degli affreschi scomparsi, le poche facciate storiche ben preservate e il previdente lavoro di Pietro Nanin che nel 1864 si preoccupò di riprodurre con fedele accuratezza i dipinti all’epoca ancora visibili ci regalano oggi un’idea piuttosto precisa di come potessero apparire le pitture murali che trasformarono la città di Verona in un enorme palcoscenico, dove veniva messa in scena una perenne rappresentazione. Questo spettacolo non era un semplice sfoggio di potere economico delle famiglie della borghesia: le allegorie, le storie, i personaggi mitologici o sacri, i paesaggi, resi accessibili a tutti grazie al linguaggio universale della pittura, costituivano un continuo rimando a un’appartenenza culturale e territoriale che nei secoli ha costruito l’identità culturale della città. Questo risvolto progettuale propone un intervento illuminotecnico sugli affreschi cinquecenteschi della facciata di Case Mazzanti, attraverso l’uso specialistico delle più avanzate
tecniche di illuminazione a led. L’obiettivo è di valorizzare gli affreschi esistenti con una illuminazione permanente mirata sulle superfici e i colori da porre in risalto, garantendone la miglior fruizione dalla piazza, e contestualmente operare una “restituzione impermanente” degli affreschi compromessi, attraverso la proiezione sulla facciata di una ricostruzione dell’opera ottenuta dallo studio degli acquerelli del Nanin e dai frammenti del dipinto ancora visibili. La realizzazione di questo progetto, che si ipotizza venga esteso ad altri palazzi del centro antico, rifugge dall’identificarsi con uno spettacolo hi‐tech puramente finalizzato all’intrattenimento, ma è finalizzato all’apporto di valori culturali e storici, promuovendo un concetto di cultura pienamente fruibile dalla cittadinanza. Il proiettore sarà installato in cima a una struttura a torre allestita appositamente per l’evento, da utilizzare anche come supporto per “raccontare” l’installazione attraverso contributi grafici e sonori.
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ANDREA ALOISI FERDINANDO FORLATI I due progettisti, titolari degli omonimi studi professionali, hanno unito le forze nell’ambito di questo importante restauro e lavorato in sinergia con tutti gli altri componenti dell’ampio gruppo di tecnici e restauratori. Andrea Aloisi, nato a Verona nel 1964, si laurea nel 1990 allo IUAV di Venezia con una tesi di restauro. Ha lavorato a Londra e in Toscana fino al 1992; tornato a Verona, ha esercitato la libera professione nel campo del recupero edilizio residenziale e monumentale. Ferdinando Forlati, nato a Verona nel 1958, si laurea nel 1984 allo IUAV con una tesi di restauro. Fino al 1986 lavora manualmente nell’esecuzione di restauri di pietre e affreschi. Dal 1989 intraprende la libera professione, continuando a lavorare sia nel campo del restauro monumentale che nella progettazione di edifici in bioarchitettura.
15. Veduta del fronte su Piazza delle Erbe a lavori ultimati (foto di Lorenzo Linthout).
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Un nuovo tassello del lungo processo di recupero del complesso monumentale di Santa Chiara restituisce all’uso collettivo l’ex Coro delle Monache attraverso un rigoroso restauro conservativo
Progetto: arch. Gianni Perbellini Testo: Angela Lion
Foto: Michele Mascalzoni
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È una storia lunga e articolata quella che ha coinvolto l’architetto Gianni Perbellini e il suo studio a favore del complesso di Santa Chiara, posto alle spalle di piazza Isolo e ai piedi della salita di San Giovanni in Valle, la cui tappa più recente è il complesso intervento di restauro dell’ex Coro delle Monache. Costituito da un unico ambiente a pianta pseudo trapezoidale di elevata altezza (circa 8-9 metri sotto la falsavolta), è infatti incastrato a nord tra la Casa del Mille - già recuperata come Ostello della Gioventù negli anni 1998-2000 (cfr. «AV» 108, pp. 8691) -, il campanile e una porzione dello stesso coro, a est con le case AGEC di Corte del Duca – un intervento risalente agli anni Settanta - a ovest con il portico dell’Ostello e l’abitazione del custode e infine a sud con la ex chiesa. “Le analisi preliminari, come spesso accade nei progetti di restauro, non sono mai completamente esaustive, per cui pragmaticamente finiscono per commistarsi con le varie fasi esecutive dei lavori obbligando una serie di aggiornamenti in corso d’opera, come nel caso in esame”: così scrive lo stesso Perbellini nella lunga relazione che accompagna il progetto di restauro del Coro. Sin dalle prime fasi, infatti, erano state individuate le criticità sotto il profilo statico della copertura e del piano di appoggio del pavimento. Ma il sottotetto risultava del tutto inesplorato da quando, con i lavori negli anni Settanta, era stato occluso l’unico accesso esistente. In fase di cantiere, una volta realizzata una copertura provvisionale, la situazione si è rivelata assolutamente precaria. Sono state pertanto poste in opera su un cordolo perimetrale in muratura armata delle capriate metalliche di 13 metri circa di luce, poste a fianco di quelle lignee esistenti; alla nuova struttura metallica è affidato il compito di sostenere il nuovo manto di copertura, mentre le capriate lignee, una volta consolidate, fungono unicamente da sostegno del soffitto della falsavolta cinquecentesca (la cui realizzazione era stata causa della compromissione dell’efficienza statica della copertura). Non è stato invece possibile ripristinare il sottomanto costituito da pianelle laterizie, ma queste sono state recuperate poi per la pavimentazione dell’aula. La messa in sicurezza della falsavolta ha consentito di risarcire gli estesi distacchi dell’intradosso che stavano per minacciare il grande tondo centrale af-
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01. Veduta dell’aula del Coro di Santa Chiara a lavori ultimati. 02. Mappa catastale (1905) con individuazione del fabbricato oggetto d’intervento. 03. Veduta dall’alto del complesso con evidenziata la copertura dell’ex Coro delle Monache. 04. Pianta piani terra con indicazione degli ambiti di intervento.
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frescato con Cristo in Gloria tra i santi , oggetto a sua volta di un restauro pittorico. L’altro fronte di intervento dal punto di vista statico ha interessato il basamento: pur risultando piuttosto profonde le fondazioni delle pareti d’ambito, uno scavo anomalo realizzato negli anni Ottanta aveva rivelato come il vano fosse in realtà costipato con materiali poco coerenti. Il progetto ha pertanto previsto la creazione di una sorta di zattera, in grado di galleggiare sul terreno poco omogeneo, che non interferisse staticamente con le pareti perimetrali e sottostanti. Per quanto riguarda l’interno, il grande vano dell’ex
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Santa Chiara reparata
PROGETTO 05. La struttura lignea della copertura all’inizio del cantiere. 06. Dettaglio delle nuove capriate metalliche affiancate alla struttura lignea preesistente. 07. Particolare della ricostruzione di una porzione della falsavolta. 08. Schemi progettuali per lo studio della della nuova struttura di sostegno della copertura.
coro si presentava già nei primi anni Duemila piuttosto degradato e spoglio, privato degli stalli, dell’organo e di ogni arredo e corredo che lo identificassero come lo spazio centrale finalizzato alla preghiera delle monache in clausura. Il progetto si è posto l’obiettivo della salvaguardia non solo di tutte le superfici decorate – compreso il grande tondo centrale - ma anche di quelle scialbate dell’intero involucro. Lo stato di consistenza ai nostri giorni recava infatti diversi aspetti problematici dovuti alle vicende storiche dell’edificio. Nel corso dell’Ottocento, per poco più di un quarantennio, il convento era passato in mano militare, subendo i danni di un uso incongruo; a ciò si aggiunse un incendio che coinvolse gli edifici della corte orientale, testimoniato dalle centine delle vele e dei pennacchi del fianco est in parte carbonizzate, e dai vasti rappezzi degli spazi centrali adiacenti al tondo affrescato, ricostruiti in incannucciato in luogo dello stuoiato d’origine.
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« Un intervento che rientra nei canoni di un rispettoso restauro conservativo, attraverso il recupero di adeguate tecnologie tradizionali » 06
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Alla medesima epoca risale la trasformazione finalizzata all’Adorazione Perpetua, con la realizzazione di un alto baldacchino (oltre quattro metri) per l’ostensione del SS. Sacramento al di sopra del già ricco altare. Veniva così annullato il tradizionale carattere francescano del Coro, sostituendo la pala dell’altare con la visione diaframmata da un’enorme griglia dell’ostensorio della chiesa, riducendo la stessa mensa dell’altare al solo ruolo formale di arredo sacro. Il grande tondo affrescato rimaneva così come unica immagine sacra; anche i saggi stratigrafici sulla volta e sulle pareti del coro hanno evidenziato una finitura a marmorino di buona fattura ma priva di decorazioni, ad esclusione del tondo centrale e di alcuni frammenti lateralmente all’altare, a differenza di molti impianti conventuali del tempo. Le cause della mancata realizzazione di quel programma de-
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COMMITTENTE Centro Cooperazione Giovanile Internazionale PROGETTO ARCHITETTONICO E DIREZIONE LAVORI arch. Gianni Perbellini CONSULENTI ing. Fausto Pivetta (calcoli statici) IMPRESE ATI Costruzioni Edili Scattolini Cordioli (appaltatore) Resinproget (consolidamento capriate lignee), P.L.F. di Padovani Rossano (strutture metalliche), Massimo Tisato Restauri (restauri pittorici), Rupiani (serramenti lignei nuovi e restaurati), Termica Sistemi (impianti di riscaldamento), M.E.C.O. Impianti (impianti elettrici) CRONOLOGIA Progetto restauro ex chiesa e Coro delle Monache: 2003 Realizzazione (stralcio Coro delle Monache con annessi e servizi): 2016-2019
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corativo che le forme architettoniche suggerirebbero potrebbero risalire alle due epidemie di peste che tra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento hanno decurtato lo stesso convento di circa il 60% delle sue presenze, congiuntamente alla dimostrata fragilità strutturale della soffittatura. Anche se si potrebbe ipotizzare che le famiglie nobiliari veronesi, che avevano sponsorizzato la fondazione e che sostenevano la vita del convento, preferissero realizzare un elevato standard decorativo nella chiesa (aula dei fedeli), che ne conteneva le tombe e ne rappresentava la” vetrina”, piuttosto che arricchire la chiesa interiore (Coro delle Monache), spazio di clausura interdetto a tutti. Le trasformazioni ottocentesche avevano comportato anche la costruzione di un nuovo altare, probabilmente utilizzando l’apparato lapideo di uno dei
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09. Prospetto sulla corte e sezione longitudinale sul coro e sulla chiesa (con fotorestituzione). 10. Il portico esterno riqualificato.
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11. L’aula prima del restauro. 12. Analisi del fonte principale del Coro. 13. Scorcio dell’altare restaurato. 14-15. Il grande tondo centrale affrescato con Cristo in Gloria tra i santi: veduta a restauro ultimato e condizioni antecedenti.
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COMMITTENTE Centro Cooperazione Giovanile Internazionale PROGETTO ARCHITETTONICO E DIREZIONE LAVORI arch. Gianni Perbellini CONSULENTI ing. Fausto Pivetta (calcoli statici) IMPRESE ATI Costruzioni Edili Scattolini (Coes) e Cordioli (appaltatrice) Resinproget (consolidamento capriate lignee), P.L.F. di Padovani Rossano (strutture metalliche), Massimo Tisato Restauri (restauri pittorici), Rupiani (serramenti lignei nuovi e restaurati), Termica Sistemi (impianto di riscaldamento), M.E.C.O Impianti (impianto elettrico) CRONOLOGIA Progetto restauro ex chiesa e Coro delle Monache: 2003 Realizzazione (stralcio Coro delle Monache): 2017-2019
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due soppressi nella zona presbiterale della Chiesa. L’altare, sito sulla parete del Coro verso la chiesa, risultava addossato con una sghembatura, forse nel tentativo di correggere l’andamento inclinato dello stesso muro, su cui invece sono presenti le decorazioni dell’altare originale rimaste celate sotto gli intonaci. In fase di restauro si è reso necessario connettere la struttura lapidea al muro cui era semplicemente appoggiata. Per quanto riguarda la serie delle aperture, è leggibile la sovrapposizione di almeno due diversi ritmi compositivi legati alle varie riforme sei-settecentesche e a quelle successive al 1860, modificate ancora dai restauri del 1906 con cui erano state introdotte due scale laterali che portavano ai matronei della Chiesa di rimpetto al baldacchino dell’esposizione (elementi tutti scomparsi dopo i lavori del 1980).
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Le finestre, ancora funzionanti sulla parete occidentale sono state ripristinate nelle misure originali, mentre le aperture murate, le cui sguinciature erano ancora percepibili, sono state evidenziate dal trattamento superficiale del muro. Il pavimento del Coro, costituito da un tavolato soprammesso e realizzato dopo il 1860, risultava infine più alto rispetto alla presunta quota originaria. Durante i lavori degli anni Ottanta la parte centrale dell’assito era stata demolita e vi era stato effettuato uno scavo. In quella fase era emerso il grande portone medievale, con gli sguinci inclinati da sud verso nord (nel senso del traffico), che rappresenta l’ultimo vestigio degli edifici medievali che hanno preceduto il convento. Di questo portone, nel corso dei lavori per il solaio pavimentale, si sono anche ritrovati all’interno del muro del coro i due ‘tampagni’. I
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PROGETTO
Santa Chiara reparata
16. Particolare con il “tampagno” del portone. 17. L’accesso all’aula tramite il portone. 18. Il fronte della casa del custode e il porticato di accesso all’ex Coro. 19. Dettaglio di uno dei fronti interni.
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loro basamenti, rispetto a quella che potrebbe essere stata la quota del primo pavimento, risultano più bassi, evidenziando un suolo inclinato che la forma dagli spigoli arrotondati dei blocchi lapidei, lascia presupporre digradasse verso l’attuale aula, forse un tempo area cortiva. Nei confronti del progetto generale di restauro del complesso chiesastico di Santa Chiara, quello del Coro delle Monache rappresenta il primo stralcio che si conclude risolvendo le problematiche statiche – è stata scalata di qualche punto la classifica del rischio sismico – e di accessibilità, rendendolo così disponibile per le funzioni collettive previste (aula multifunzionale). Un intervento che rientra nei canoni di un rispettoso restauro conservativo, attraverso il recupero di adeguate tecnologie tradizionali. La conservazione del complesso monumentale rimane tuttavia ancora monca della ex chiesa con i suoi apparati decorativi, elemento rilevante del sistema, nonché della cappella del Cristo con l’annesso alloggio del Cappellano. L’auspicio è che anche questi tasselli del complesso vengano restituiti al quartiere e alla città.
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GIANNI PERBELLINI Nato a Verona nel 1936, si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1962. Il suo timbro professionale porta il n. 67. Una vita di passione, tutt’ora operativa, per l’architettura, in particolare per il restauro, l’urbanistica e il paesaggio. Numerosi gli incarichi pubblici e nelle associazioni di tutela (Istituto Italiano dei Castelli, Europa Nostra, I.C.O.M.O.S.), le attività didattiche e le pubblicazioni. Lo Studio Perbellini, in associazione con il figlio Giovanni Elia, ha sede nel cuore della prima collina di Verona, sulle Torricelle: una vera e propria officina di idee. www.studioperbellini.it 20
20. Interno dell’aula: veduta verso il fronte nord. 21-22. Stato attuale della ex chiesa e della cappella del Cristo.
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STORIA & PROGETTO
LIBERO ARBITRIO
Le vicende costruttive del palazzo degli Uffici finanziari a Verona di Libero Cecchini e gli interrogativi circa il suo futuro destino tra tutela e ruolo urbano
Testo: Federica Guerra
Verona
Immagini: Archivio Studio Cecchini
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Il tessuto storico delle città è caratterizzato da una trama minuta di edilizia residenziale la cui realizzazione attraversa i secoli, gli stili, testimonia gli usi e le attività che si svolgono dentro la città, ne testimonia il grado di sviluppo, il progresso, l’idea di città che le diverse generazioni di abitanti hanno voluto realizzare. E poi esistono gli episodi eccezionali, i “monumenti”, che rappresentano l’autocelebrazione della società civile, i luoghi esemplari non solo per uso o per particolare amenità, ma proprio per la capacità che hanno di porsi in specifico rapporto con quel tessuto urbano e con gli altri monumenti. È questo il ruolo che ci sembra possano assumere alcuni episodi significativi che meglio di altri hanno saputo costruire “una parte di citta”: è il caso dell’edificio per gli ex Uffici Finanziari di Lungadige Capuleti di Libero Cecchini, realizzato a partire dal 1966 sull’isolato compreso tra il fiume, le mura viscontee di via Pallone, la via Shakespeare con la chiesa seicentesca di San Francesco al Corso, e l’edificio in due corpi con portico centrale aperto, che fungeva da ingresso al vecchio Campo della Fiera1. L’interesse che questo edificio suscita non è quindi solo per la sua qualità architettonica, di cui tutta l’opera di Cecchini è portatrice, ma è soprattutto per il sapiente ruolo che l’edificio ha saputo costruire con il suo intorno, per il suo insostituibile compito di ricompattare un tessuto urbano di frangia mai chiaramente definitosi nel corso della formazione della città e, in definitiva, per la funzione ordinatrice che esso svolge in quella parte di città. L’area, infatti, fa parte del più vasto Quartiere Cittadella realizzato a partire dall’epoca viscontea come roccaforte militare. Divenuta strategicamente inutile a partire dal Cinquecento, fu ricondotta dai veneziani a uso civile: fu lo stesso Sanmicheli, soprintendente alla fabbrica delle mura, che si occupò di liberare l’area “dividendo le case et terreni in tanti pezi come li parerà meglio”. Fu proprio questa riconversione che lasciò ampie aree indefinite all’interno del compendio Cittadella,
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01. Plastico della prima versione del progetto Cecchini per gli Uffici finanziari di Verona. 02. Planimetria generale con l’inquadramento urbano del progetto. 03. Veduta di scorcio del fronte principale dell’edificio da Lungadige Capuleti.
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04. Controcampo del fronte principale su Lungadige Capuleti. 05. Veduta aerea dell’isolato in un’immagine d’epoca nelle fasi di completamento del cantiere. 06. Assonometria a volo d’uccello: è visibile la versione iniziale delle coperture e della palazzina del Catasto, poi modificati in fase esecutiva.
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tra cui quella adibita, tra il 1898 e il 1948, a Campo della Fiera, con la costruzione di una doppia schiera di capannoni destinati all’esposizione dei cavalli. A seguito degli eventi del secondo conflitto mondiale parte dei fabbricati della Fiera risultarono inagibili, mentre i pochi rimasti vennero adibiti temporaneamente, nel primo dopoguerra, a uffici comunali a supporto della sede di Palazzo Barbieri fortemente danneggiata. Con la ricostruzione, trasferite le manifestazioni fieristiche in ZAI, l’area cade in uno stato di abbandono che perdura fino all’indizione nel 1965, da parte del Ministero del Tesoro, di un Appalto-Concorso Nazionale per la “Progettazione e costruzione di un fabbricato per sede di Uffici statali e di un edificio alloggi sul suolo dell’ex Campo Fiera”. Al Concorso a carattere nazionale parteciparono nomi noti come Pierluigi Nervi, ma il progetto risultato vincitore fu quello del raggruppamento costituito dall’Impresa Mazzi di Verona con Libero Cecchini per la parte architettonica, gli 06
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ingegneri Giulio Sagramoso per la parte strutturale e Federico Cossato per la parte impiantistica, insieme all’artista scultore Vittorio di Colbertaldo2 , il cui intervento era previsto dalla Legge 29 luglio 1949, n. 717 che prevedeva l’obbligo, per le opere pubbliche, di destinare una quota del costo di costruzione all’inserimento di un’opera artistica. Il progetto di Libero Cecchini rispondeva alle complesse esigenze dimensionali del bando, ed era caratterizzato da un impianto geometrico costituito da quattro corpi a «C» rivolti rispettivamente verso altrettanti coni ottici: il fiume Adige e la porta dell’ex fiera sull’asse principale, collegati tra loro da un percorso al piano rialzato che ne consentiva la trasparenza; e la vista dell’attacco a terra delle
« Ma è soprattutto la funzione urbana, il ruolo che l’edificio ha saputo costruirsi all’interno della parte di città che vanno salvaguardati, oltre ai caratteri formali dell’edificio » mura viscontee verso la città e della chiesa di San Francesco al Corso dalla parte opposta, lungo un’asse visuale secondario. Questo impianto geometrico, apparentemente rigido aveva nei corpi scala differenziati tra pubblico e personale, nella distribuzione dei vari uffici e nello studio dei flussi di utenti sicuramente uno dei suoi maggiori pregi, oltre a un rapporto paesaggistico straordinario con le emergenze architettoniche circostanti e al contempo con la vista che dagli uffici si poteva ammirare verso il fiume e la collina fortificata. In fase di sviluppo del progetto esecutivo furono apportate delle modifiche: i due corpi a «C» sui fronti principali (lato Adige e lato città) furono uniti a livello di gronda, in modo da dare una linea unitaria alla copertura e nelle stesso tempo classificare i due fronti quali principali; la palazzina per le residenze dei dipendenti
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dirigenziali fu sostituita da un ulteriore corpo a uffici dove per molti anni ha trovato collocazione l’Agenzia del Territorio (Catasto). Dalla Relazione di progetto leggiamo le intenzioni di Cecchini che puntava innanzitutto ad alleggerire la “pesantezza” della volumetria richiesta dal bando in una serie di corpi che, restituendo l’unità architettonica, fossero tuttavia “più articolati e leggeri possibile”3 . E poi, proprio per il continuo riferimento alla presenza delle mura – per “non gareggiare con la loro massa lineare… salvandone la continuità… per non interrompere la continuità del loro attacco a terra” – l’edificio era stato progettato su pilotis. La massa compatta dell’edificato riesce a mantenere la geometria ordinatrice dell’area e, proprio perché pensata come un alternarsi di vuoti e pieni, al contempo a liberarsi della sua pesantezza a favore della percezione delle importanti emergenze storiche contigue, un raffinatissimo esercizio di stile a cui Cecchini ci ha abituato nei suoi numerosi interventi a Verona e nel resto d’Italia. Oltre a questi aspetti fondamentali vanno sottolineate poi le specifiche caratteristiche architettoniche e materiche: la soluzione dell’attacco a terra e quella della gronda, dove “la finestratura fino al limite del soffitto, rende più aereo il cappello del tetto… e determina un piano morbido di colore e di forma”; ma anche l’uso della pietra nei
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07. Veduta prospettica dell’edificio dalla riva opposta del fiume: il rapporto con le mura viscontee. 08. Particolare del prospetto con le diverse tipologie di aperture e l’accostamento tra il calcestruzzo a vista e le lastre in Rosso Verona.
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09. Piante piani terra, rialzato, primo e secondo. 10. Sezione lungo il percorso principale rialzato tra Lungadige Capuleti e Via da Porto. 11. Veduta dall’interno verso uno dei cortili, con il disegno delle aperture a filo copertura e più ribassate, per permetterne la fruibilità. 12. Veduta serale del percorso longitudinale sopraelevato rispetto alla quota dei cortili interni. 13-14. Sezione e veduta interna di uno dei corpi scale per il pubblico. 09
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rivestimenti combinata con il calcestruzzo a vista, l’intonaco a calce neutro – usato in quegli anni nel cantiere di Castelvecchio da Carlo Scarpa – ne hanno fatto un esempio per l’architettura del secondo Novecento. L’edificio, da tempo dismesso come sede degli uffici finanziari a causa del loro trasferimento in altre sedi e per lo più inutilizzato, è passato nei primi anni Duemila in mano privata, con il rischio di interventi liberalizzati sul costruito che potrebbero comportare la manomissione del complesso o addirittura la sua totale perdita. Il pregio di questo edificio, al contrario, muove a una riflessione sulla tutela di questi grandi contenitori che non passa necessariamente dal mantenimento della loro funzione originaria – che in ogni caso necessiterebbe di adeguamenti soprattutto impiantistici e di efficientamento energetico – ma deve sapere cogliere quei caratteri costitutivi che, attraverso un processo progettuale mirato, possono caratterizzare un intervento di riqualificazione compatibile con la tutela, senza la quale andrebbero irrimediabilmente perduti. Ma è soprattutto la funzione urbana, il ruolo che l’edificio ha saputo costruirsi all’interno della parte di città che vanno salvaguardati, oltre ai caratteri formali dell’edificio. Ecco allora che il mantenimento dei corpi scala, piuttosto che le linee di gronda, o i rivestimenti in Rosso
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Verona, possono diventare, se sapientemente guidati, elementi preziosi e riconoscibili di un processo di riqualificazione urbanistica, anche all’interno di un vincolo così come recentemente richiesto alla Soprintendenza e al Ministero dalla Associazione Culturale architetto Libero Cecchini: perché l’apposizione del vincolo diretto possa rappresentare un’opportunità e non un ostacolo alla salvaguardia di un pezzo importante della storia del Novecento veronese.
1 Realizzato dall’Ufficio Tecnico Comunale, su progetto di Alfonso Modonesi, tra il 1927 e il 1930. Cfr. Vincenzo Pavan, Le opere del regime. La Fiera di Marzo e la Cittadella, in Pierpaolo Brugnoli (a cura di), Urbanistica a Verona (1880-1960), Ordine degli Architetti della Provincia di Verona, 1996, pp. 179-182. 2 Erano previste l’esecuzione di due pannelli
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con opere decorative ispirate al lavoro degli Uffici Finanziari e una statua in bronzo di San Matteo, protettore degli impiegati alle Finanze e alle Imposte, alta circa tre metri. 3 Dalla ‘Relazione illustrativa – All 1’ al progetto di Concorso.
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15. Dalla riva opposta del fiume, il basamento dell’edificio si proporziona al muro d’argine. 16. Accesso al percorso di spina centrale sopraelevato rispetto alla quota della strada 17. Luci e ombre dal percorso sopraelevato verso Via da Porto.
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Nascosto in piena vista
Un piccolo spazio di lavoro ad uso uffici nasce dalla riflessione sul voler mostrare ciò che di solito è nascosto dandogli dignità come “decoro funzionale” Progetto: Zarcola
Testo: Alice Lonardi
Foto: Delfino Sisto Legnani, Marco Cappelletti
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Il duo “vero-milanese” composto da Edoardo Giancola e Federico Zarattini, attivo circa dal 2014 opera tra le due provincie grazie al legame con le rispettive terre d’origine. Lo studio lavora sulla relazione tra le preesistenze senza distinzioni e mutazioni mimetiche, sviluppando una ricerca sui metodi costruttivi in progetti nazionali e internazionali. Il loro interesse è quello di lavorare su alterazioni che trasformano e si mimetizzano nell’atmosfera del contesto; queste alterazioni vengono realizzate con una sincerità tecnologica. Intendendo come “alterazione mimetica modificare le preesistenze architettoniche o dei luoghi in maniera da non percepire un contrasto immediato, creando un’ambiguità tra vecchio e nuovo.” Mentre l’espressionismo tecnologico si traduce invece in “una sincerità realizzativa in cui elementi come la tradizione costruttiva, le tecniche elementari, materiali e i loro vincoli, vengono utilizzati per disegnare gli elementi costruttivi che esprimono la loro condizione.” Dopo una formazione comune al Politecnico di Milano sono seguite differenti esperienze post laurea: tra queste, quella che ha segnato in entrambi un momento di cambiamento importante nell’approccio alla costruzione è stata la collaborazione con gli architetti norvegesi Sami Rintala e
Dagur Eggersston, che ha permesso loro di avvicinarsi alla pratica dell’autocostruzione. La ricerca su differenti metodi costruttivi consente di approdare a ciascun progetto con una varietà di prospettive e molteplici approcci; ciò si intuisce in particolar modo, scorrendo le pagine del loro sito (www.zarcola.com), da progetti come Troppotondo arena e Troppecolonne bar per il Terraforma, o la casa vacanze Ziggurat in Ungheria.
« Per contrappasso in questo caso nulla viene celato, ma tutto viene disegnato fino al minimo dettaglio » Zarcola ha fatto quindi tesoro dei rispettivi background culturali e competenze per dedicarsi a progetti che spaziano dalle residenze private ai progetti urbani fino alle installazioni site-specific, lavorando così sia con la preesistenza che ex novo. Questa duplicità del loro lavoro si evince particolarmente nel rapporto col le rispettive aree geografiche di influenza: mentre a Milano il contesto urbano, per forza di cose, obbliga a confrontarsi con metrature ridotte e un approccio di tipo allestitivo, a Verona – nello specifico nei monti
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Lessini – il contesto rurale e la sua storia portano spesso a interfacciarsi con preesistenze e metrature ben più consistenti. All’interno del loro lavoro si inserisce un caso particolare, quello del progetto Fedeli Office. Si tratta di un piccolo progetto direzionale realizzato a Verona nel 2017 per una committenza privata, uno studio di commercialisti la cui richiesta la progettazione della nuova sede per gli uffici collocati in uno stabile nuovo con gli interni completamente al grezzo. La sfida progettuale è quindi stata quella di ricreare una determinata atmosfera tramite il disegno dei singoli elementi tecnici pensati per essere lasciati a vista e convivere poi nella loro moltitudine. Per quanto riguarda la disposizione non vi sono grandi particolarità: oltrepassando l’ingresso un corridoio distribuisce a destra gli uffici e pro-
FEDELI OFFICE PROGETTO ARCHITETTONICO Zarcola arch. Edoardo Giancola arch. Federico Zarattini DATI DIMENSIONALI Superficie utile: 154 mq CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2017
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01. Veduta frontale della parete “vibrante” in vetrocemento. 02. Dettaglio del contrasto materico in entrata. 03. Controcampo sull’entrata. 04. Dettaglio dei corpi illuminanti. 05. I servizi totalmente rivestiti in mosaico nero. 05
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06. Planimetria degli uffici. 07. Dettaglio del controsoffitto in fogli d’acciaio integrati con i corpi illuminanti lineari. 08. Materiali di finitura a contrasto.
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prio per questo motivo il disegno si è concentrato nella zona d’ingresso. Area inizialmente cieca che invece è diventata il pretesto per creare la parte più scenica e l’“effetto sorpresa”: una quinta di separazione in vetro cemento, la quale lascia filtrare la luce naturale. Questa membrana vibrante cela, dapprima solo in parte per poi svelare grazie a delle aperture ovoidali, la vista agli uffici retrostanti. Ciò che ha guidato tutto il progetto è stata sicuramente la volontà dei progettisti di lasciare a vista e dare una dignità a tutti gli elementi tecnici che di solito vengono nascosti perché considerati meno nobili; in particolare sono stati progettati ad hoc tutti gli elementi tecnici, le canalizzazioni dell’aria, impianti elettrici ed elementi di illuminazione. Per contrappasso in questo caso nulla viene celato, ma tutto viene disegnato fino al minimo dettaglio, e diventa “decoro funzionale”: dal controsoffit-
to in foglio d’acciaio che per gravità pende e che allo stesso tempo si integra diventando un tutt’uno con i corpi illuminanti lineari, fino alle porte disegnate su misura con l’imbotte che cela i comandi elettrici, le maniglie delle porte e anche il battiscopa in grés rosso, come la pavimentazione, impostato però a 45°. La dualità si scorge anche a livello cromatico, dove il bianco e il nero si alternano, fatta eccezione per il pavimento in cotto. La scelta materica è infatti ricaduta su materiali “tecnici” ed economici, che restituissero però fin da subito l’idea di ufficio e che in qualche modo fossero legati all’edificio in cui si collocano. L’approccio innovativo di Zarcola riunisce in questi interni elementi tipici di uno scenario moderno rivisitati in chiave contemporanea.
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INTERIORS
Una sottile linea rossa
L’allestimento di uno spazio destinato a coworking al piano ammezzato di un palazzo nel centro di Verona combina fortemente la componente architettonica al disegno degli arredi Progetto: co.arch studio
Testo: Marzia Guastella Foto: Diambra Mariani
Che il ruolo della condivisione nella società contemporanea sia assolutamente predominate, non vi sono dubbi. Se si osserva in particolare l’ambito professionale, questa visione è immediatamente associata alla pratica del coworking, sicuramente densa di aspetti positivi e multidisciplinari. Oltretutto, la progettazione di spazi ad essa dedicati si inserisce tra le strategie urbane che contribuiscono maggiormente allo sviluppo sostenibile e creativo delle città puntando al riuso dell’esistente e alla diffusione di una vera e propria cultura sociale.
to introducono questo spazio situato al piano ammezzato di un palazzo settecentesco nella centralissima via Cappello. I soffitti bassi definiscono fin da subito una dimensione raccolta, preservata da storiche mura opportunamente liberate dalle stratificazioni sommatesi nel tempo. Anche il layout distributivo mostra chiaramente l’antica configurazione e accoglie diverse soluzioni adatte a ogni tipo di esigenza: uffici privati, postazioni singole, sala riunioni. Le nuove pareti divisorie, infatti, sono state concepite come elementi legge-
01. Assonometria di progetto. 02. Veduta prospettica sullo spazio comune del coworking rimarcata dalla peculiare presenza delle travi rosse.
« Un contesto fresco e giovanile dove soddisfare un’esigenza lavorativa e favorire la condivisione di un’idea e di uno spazio» Per molti, il coworking è anche uno stile di vita. Lo sanno bene Elena e Umberto, professionisti veronesi che, dopo aver vissuto in prima persona questa realtà, hanno deciso di esaudire un grande desiderio chiamato Mezzanine Coworking, affidando il progetto allo studio milanese co.arch (cfr. «AV» 129, pp. 56-60, e 133, pp. 32-39). La prospettiva sull’intradosso della volta e il divertente tappeto puntina-
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Una sottile linea rossa
03. Disegno delle pareti divisorie in legno e policarbonato. 04. Dettaglio del pavimento vinilico puntinato. 05. Ingresso sala riunioni.
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ri da accostare all’esistente con estremo riguardo attraverso una struttura in legno di betulla che incornicia un pannello in policarbonato rigato, consentendo di avere ambienti riservati senza rinunciare alla luce naturale proveniente dalle grandi aperture ad arco affacciate sulla corte interna. Intorno, le pareti esistenti sono state trattate con un intonachino di argilla bianco caldo che rivela una texture ruvida in sintonia con il carattere rustico delle travi in legno, accuratamente ripulite e riportate alla condizione originale attraverso un trattamento a cera. Le diverse altezze, dovute alla presenza ora delle travi ora della volta, hanno determinato precise scelte progettuali al fine di rendere gli spazi idonei all’attività. Per il pavimento è stato scelto un materiale vinilico di impronta sostenibile che ha reso la superficie omogenea
e continua occupando uno spessore minimo. Inoltre, il pattern ricorda la tecnica del seminato alla veneziana mentre il colore rosso diventa un segno distintivo del progetto poiché utilizzato anche per sottolineare l’intervento strutturale eseguito con l’inserimento delle travi metalliche. Sottili profili di luce led illuminano lo spazio insieme a iconiche lampade o elementi più versatili che completano ciascuna postazione risolta da un tavolo modulare con un piano in legno di betulla su una struttura metallica di colore nero. Dunque, la componente architettonica si combina fortemente al disegno di arredi progettati con estrema purezza per dare forma a un contesto fresco e giovanile dove soddisfare un’esigenza lavorativa e favorire la condivisione di un’idea, un progetto o semplicemente di uno spazio.
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MEZZANINE COWORKING PROGETTO ARCHITETTONICO co.arch studio arch. Giulia Urciuoli arch. Andrea Pezzoli IMPRESE E FORNITORI Reverse (pareti divisorie, tavoli in metallo e legno di betulla) Tavolini SM22 su disegno Edisal Floor (pavimento vinilico) Aerre (serramenti) Flos, Faro (luci) CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2021 09
06. Ambiente voltato con postazioni singole risolte da tavoli modulari in legno e metallo. 07. La sottile linea rossa segna ogni ambiente, anche il bagno.
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08. Targa d’ingresso con il logo del coworking. 09. Apertura ad arco vista dalla corte interna del palazzo.
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Profumo d’ufficio
L’architettura d’interni degli spazi di lavoro per la sede di una catena di profumerie combina soluzioni di grande effetto scenico entro i limiti di un budget contenuto Progetto: arch. Andrea Giuriato Testo: Luca Ottoboni
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A pochi chilometri dal casello autostradale di Verona Sud si trova il quartier generale di Ethos, uno dei pochi consorzi indipendenti da un gruppo internazionale operante nel settore del beauty. L’azienda ha trovato sede in uno stabile adibito a uffici sito in via Enrico Fermi, trasformandone una porzione in un moderno spazio di lavoro e offrendo ai suoi dipendenti ambienti e attrezzature che denotano una grande attenzione al loro benessere. Autore del progetto è l’architetto Andrea Giuriato, che ha saputo dosare gli interventi per perseguire l’intento della riduzione dei costi con soluzioni dal grande effetto scenico. In un contesto, quello degli spazi per uffici, in cui il risultato finale sicuramente non è caratterizzato da grandi virtuosismi di stile, il progetto è comunque riuscito a dare un senso non scontato allo spazio. Nel percorrere infatti i diversi ambienti si percepisce chiaramente il ritmo incalzante nel susseguirsi di diverse sensazioni sia fisiche che acustiche. Gli spazi che accompagnano dall’ingresso agli uffici infatti sono ora dilatati ora ristretti, i rumori si fanno sordi accanto alla sala conferenze per tornare normali nei corridoi in prossimità degli uffici. In questo gioco ritmico i protagonisti sono i materiali e i colori opportuna-
mente scelti per identificare i diversi spazi e le diverse funzioni di ognuno. Entrando si è accolti da due grandi tende plissettate che muovono l’ingresso e curvando verso il front desk segnano il percorso. I due spazi, molto luminosi grazie alla luce del grande cavedio interno, tramite l’utilizzo delle tende risultano dinamici e snelli senza perdere in luminosità ed effica-
« In questo gioco ritmico i protagonisti sono i materiali e i colori opportunamente scelti per identificare i diversi spazi » cia. Se infatti in ingresso la funzione della tenda è quella di accennare il percorso e di creare uno spazio aggiuntivo di contenimento e raccolta tra questa e il muro, nella zona del front desk la funzione è quella di dare all’occorrenza la privacy necessaria ad uno spazio centrale di continuo passaggio. Con il semplice movimento della tenda, che scorre su un binario illuminato, ecco che ora si apre diventando un open space ora chiudendosi, quasi come fosse un paralume, definisce uno spazio più raccolto e i percorsi interni degli spazi in comune. Tutti gli ambienti sono disposti at-
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torno ai due grandi volumi che accolgono le funzioni comuni: la sala riunioni e la sala conferenze. Entrambe sono distinte dal trattamento superficiale, reso materico dall’intonaco scuro in contrasto con il resto della palette di colori scelta per gli spazi degli uffici sui toni pastello. Il fondale rivestito da doghe di legno cannettate che si pone di fronte alla
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sala conferenze segna anche l’ingresso ai principali uffici. Per ovviare a problematiche tecniche di acustica che la sala conferenze avrebbe creato, la scelta dell’architetto di trattare il corridoio con pannellature fonoassorbenti si rivela assieme un espediente funzionale ma anche estetico: una soglia dall’acustica sorda che anticipa l’ingresso agli uffici. Qui il colore è il protagonista, indicando puntualmente le diverse funzioni delle stanze, guidando i percorsi per gli uffici, i bagni, la sala mensa e persino una piccola sala fitness con due grandi specchi tondi che fronteggiandosi creano un gioco di riflessioni. Le geometrie curve scelte dall’architetto per caratterizzare gli spazi si ritrovano puntualmente nelle pitture ma anche negli arredi. Questo intervento dell’architetto Andrea Giuriato è un riuscito esempio di come gli spazi di lavoro per uffici possono essere resi più dinamici e funzionali senza compromettere la qualità architettonica e sensoriale degli ambienti, anche con un occhio di riguardo al budget.
PROGETTO ARCHITETTONICO arch. Andrea Giuriato CONSULENTI arch. Michele Cicala (laserscanner), arch. Giacomo Rizzi (render), ing. Fabio Colombo (computi), ing. Contin (termotecnico), ing. Berzacola, Matec (elettrotecnico) IMPRESE E FORNITORI Concordia (opere edili), Schüco (serramenti), Fakro (lucernari), Tecnocop (lattoneria copertura), Made (tendaggi), Forme di Luce (illuminazione), Mazzi Impianti (impianti), Nicolis Impianti (imp. elettrici), Mantotech (imp. meccanici), Lino Albano (arredi) CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: 2023 04
01. Lo spazio del front desk con la tenda semichiusa che definisce l’ambiente. 02. L’ingresso con la tenda plissettata illuminata. 03. Dettaglio delle tende. 04. La sala fitness con i grandi specchi che creano il gioco di riflessioni. 05. La sala conferenze con le sedie nelle tonalità pastello. 06. Corridoio degli uffici con i colori a parete che definiscono le diverse funzioni degli ambienti.
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SAGGIO
Ripensando all’Itinerario di Luigi Trezza
Nella ricorrenza dei duecento anni dalla morte dell’ingegnere e architetto veronese (1752-1823) un contributo sulla sua intensa attività di studio sull’architettura italiana, in particolare del Cinquecento Testo: Stefano Lodi 01
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Oltre alle opere edificate, Luigi Trezza ha lasciato un gran numero di fonti per poterne ricostruire la biografia e l’attività, una quantità di materiale di prima mano che ha pochi confronti in genere e nessuno a Verona in merito agli architetti attivi tra il XVIII e il XIX secolo. Oltre a circa quattrocento fogli di disegno (tra rilievi di architetture del Rinascimento, progetti e esercizi grafici non destinati ad essere messi in opera) molti dei quali di altissima qualità formale e alcuni manoscritti di soggetto tecnico. In questi testi sono conservati elenchi relativi agli architetti conosciuti durante la propria carriera, notizie sull’avviamento della professione e l’elenco delle opere costruite e di quelle rimaste allo stato di progetto. Insomma tutto quello che serve per ricostruire la figura del più attivo professionista operante a Verona al passaggio dei due secoli. Eppure è davvero modesta la consistenza bibliografica sulla figura e l’opera di Luigi Trezza nonostante lo stesso architetto veronese abbia lasciato, appunto, agli studiosi tutti i mezzi per mettere a fuoco la sua lunga e complessa attività. Non c’è dubbio che (al di fuori di studi d’insieme sull’architettura veronese) in relazione alla cultura veneta del Settecento il suo nome sia legato all’opera di rilevo degli edifici di Michele Sanmicheli e, a questo proposito, il richiamo a Trezza è più evidente nel caso di lavori che riguardano l’architettura del Cinquecento (nello specifico quella sanmicheliana appunto). Sostanzialmente i pochissimi contributi su Trezza sono relativi per la più parte a circostanze non immediatamente legate all’attività progettuale o ad altri aspetti come sono gli scambi epistolari, momenti specifici del viaggio in Italia, aspetti del corpus dei
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disegni, ma manca del tutto l’analisi dell’architettura costruita, fatta eccezioni per i contesti dove il materiale grafico permette singoli approfondimenti quasi mai svolgendo un riscontro sull’edificato o sulle fonti archivistiche relative all’attività progettuale. Un imponente e noto manoscritto conservato alla Biblioteca Civica di Verona (ms. 856) riguarda uno dei momenti più significativi della vicenda professionale di Luigi Trezza, quella del viaggio effettuato in sei mesi nel 1795 verso Roma e il Regno di Napoli già oggetto di studio dell’importante monografia di Paolo Carpeggiani e Laura Giacomini. Il tragitto oltre alle mete principali è denso di soste tra l’Emilia, la Toscana, il Lazio, appunto il regno
di Napoli e, sulla via del ritorno, ancora Roma, le Marche, la Romagna e nuovamente altre città dell’Emilia. Il viaggio di studio sulle architetture antiche e moderne di Roma è uno dei momenti salienti della formazione di un giovane architetto: tra i veronesi che avevano preceduto Trezza si ricordano Alessandro Pompei, Ignazio Pellegrini, Adriano Cristofali (quest’ultimo maestro di Trezza). Della generazione degli architetti attivi a Verona dopo la metà de XVIII secolo Trezza (in quanto a topografia degli incarichi ricevuti) è il più sedentario: tutti gli edifici vengono innalzati nel territorio veronese mentre, ad esempio, Dal Pozzo e Cristofali operano anche in quelli limitrofi e Pellegrini lascia la sua città per far-
01. Roma, Mercati di Traiano, prospetto (L. Trezza, Itinerario, c. 293). 02. Roma, palazzo Caffarelli, prospetto (L. Trezza, Itinerario, c. 242).
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03. Roma, villa Chigi detta Farnesina, particolare della pianta e del prospetto della loggia (L. Trezza, Itinerario, c. 245).
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vi ritorno solo in tarda età dopo una lunga permanenza fiorentina. Trezza ha quarantatré anni quando si mette in viaggio, non è un giovane in formazione che poteva essere indirizzato precisamente da un accompagnatore e magari anche sostenuto economicamente come era accaduto per Cristofali che aveva potuto viaggiare grazie al sostegno del marchese Giovan Battista Spolverini. Trezza è nel pieno della carriera (forse in parte sostenuto economicamente da un suo committente, il ricco mercante Vincenzo Faccioli che lo accompagna nella parte iniziale del viaggio) dotato comunque di una propria sicurezza finanziaria che gli permette di separarsi dall’attività professionale per sei mesi e, supponiamo di conseguenza, di decidere autonomamente il tragitto dell’itinerario, le mete e gli edifici da avvicinare (anche se come vedremo si avvale dei suggerimenti di numerosi colleghi locali nelle soste del viaggio). Il diario perviene tra i fondi della Biblioteca Civica di Verona assieme a tutti i disegni e i manoscritti e le raccolte di incisioni e disegni altrui per lascito testamentario. Il manoscritto di Trezza consta di una eccezionale quantità di informazioni testuali (ovviamente accanto a schizzi e rilievi) che ne fanno un unicum: oltre cinquecento facciate e intorno ai duecento disegni. Il titolo dato dal suo autore al diario è Itinerario di me Luigi Trezza descritto localmente cadaun giorno del mio viaggio. Tramite poi l’Indice della fabbriche esaminate nel viaggio e quello delle Città incontrate nel viaggio, elenchi stesi dallo stesso Trezza, è possibile sempre recuperare le tappe e sostanzialmente l’articolazione del percorso svolto. Inoltre attraverso la Serie delli nomi dei personaggi conosciuti durante il viaggio,
altro testo approntato dall’autore, si conoscono i nomi di tutte le personalità incontrate nei sei mesi di viaggio. Sono presenti innumerevoli annotazioni grafiche che naturalmente sono una della parti portanti del manoscritto e che vanno dal rapido schizzo al rilievo e ridisegno accurato talvolta acquerellati con cromie diverse. L’opera di Trezza (e anche il modo di vedere l’architettura durante il viaggio) è l’effetto dell’‘asse ereditario’ che muove da Scipione Maffei e attraversa l’opera di Alessandro Pompei, di Girolamo Dal Pozzo e di Adriano Cristofali: coloro che per tutto il secolo avevano sostenuto l’applicazione di un classicismo di impronta cinque-
« Oltre alle opere edificate, Luigi Trezza ha lasciato un gran numero di fonti per poterne ricostruire la biografia e l’attività » centesca (come è noto sanmicheliana prevalentemente, ma non solo: giuliesca e palladiana) dal quale Trezza solo tardivamente si sarebbe in parte allontanato (almeno nei progetti ideali) nel corso dell’ultima fase della sua esistenza cioè proprio dopo il viaggio di studio. Occorre ricordare il significato dell’incarico affidato nel 1769 al giovane Trezza su sollecito del console britannico a Venezia Joseph Smith di rilevare le opere di Sanmicheli, di Giulio Romano e di altri architetti del Rinascimento che avevano operato in particolare a Verona e Mantova, operazione che avrebbe accompagnato l’architetto veronese per tutta la vita tra primi rilievi, ridisegni e ste-
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sura di fogli rifiniti. Questa impresa era stata stimolata anche da un progetto di edizione dei disegni, avviato nel 1772 ma da subito interrotto, che avrebbe avuto altri risvolti con il coinvolgimento dell’architetto irlandese Michael Shanahan e dell’incisore vicentino Cristoforo Dall’Acqua per la realizzazione di tavole sugli edifici dell’architetto veronese del Cinquecento. Inoltre a proposito dell’opera di Sanmicheli Trezza era rimasto lungamente in contatto con Tomaso Temanza fornendogli disegni e considerazioni sull’opera dell’architetto veronese in vista della stesura della relativa biografia da parte dello storico lagunare. Si può dire che la formazione sui testi architettonici del Cinquecento, indipendentemente dall’aver effettuato un viaggio nella città eterna, era già avvenuta tramite il confronto costante con l’opera di Sanmicheli, di Giulio Romano e, in misura minore, di Palladio. Il Veneto era infatti l’altra meta della formazione di un architetto soprattutto per il mondo britannico tramite gli interessi della generazione successiva a quella di Lord Burlington che dopo aver conosciuto a fondo Palladio aveva iniziato ad ricercare le opere dei suoi contemporanei. Trezza a questo punto tramite i rilievi degli edifici di Sanmicheli poteva ritenersi il maggiore conoscitore della sua opera considerandosi in una posizione sostanzialmente senza termini di confronto e ciò lo avrebbe facilitato nell’atto di ‘ricavare la regola dalla pratica sanmicheliana’. Con tale bagaglio alle spalle Luigi Trezza intraprende il viaggio con lo scopo di svolgere un’Osservazione di ogni cosa appartenente alla mia professione di architetto ed ingegnere e quindi lo sguardo è rivolto ampiamente an-
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che agli aspetti tecnico costruttivi degli edifici che visita, descrive e riproduce graficamente. Una delle costanti è il confronto con la riflessione storiografica (e cioè non solo con la storia) che aveva imparato ad esercitare tramite l’attività giovanile di rilievo, gli scambi con Temanza (oppure con altri architetti come Giacomo Quarenghi che a Verona nel 1775 avrà attinto anche alle conoscenze di Trezza su Sanmicheli e sull’altare Fregoso di Danese Cataneo) e le letture delle quale è possibile ricostruire ben poco. Circa queste ultime, come aveva osservato già Carpeggiani, Serlio e soprattutto Palladio e in parte Vignola sono opere che stanno alla base della formazione dell’architetto veronese (è per questo che Trezza si interroga sul modo che Palladio ha avuto di ricostruire il foro di Nerva o apprezza con Vignola l’architrave del teatro di Marcello) e in merito ai contemporanei è provata la lettura dei testi di Milizia in particolare espressamente citato per la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore e Mercati di Traiano. Ed è verosimile che lo sferzante giudizio del teorico pugliese sulla facciata di palazzo Canossa (la cui sommità era stata alterata al principio del settimo decennio del secolo) sia stato uno dei fattori che ha indotto Trezza ad escluderla sorprendentemente dalla raccolta che contiene i rilievi definitivi dell’architettura sanmicheliana. A proposito dello sfavorevole giudizio vigente sull’architettura gotica il parere di Trezza sembra meno tagliente tanto nel caso del duomo di Siena, di quello di Pisa, della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Viene da chiedersi se la lezione maffeiana, quella ricavata dalla Terza parte della Verona Illustrata, che ben era conosciuta da Trezza il quale da qui ricava
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04. Roma, Sant’Andrea in via Flaminia, prospetto (L. Trezza, Itinerario, c. 103).
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05. Caprarola, palazzo Farnese, particolare del cornicione (L. Trezza, Itinerario, c. 323).
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elementi per il proprio esercizio attributivo, sia stata determinante. Scipione Maffei infatti non dimostra un atteggiamento negativo per le opere veronesi medievali (Santa Anastasia, Castelvecchio, la torre dei Lamberti) e si noti che il capitolo sulle fabriche moderne comincia proprio da qui ovvero dall’età immediatamente successiva a quella comunale (poi lo stesso Milizia avrebbe distinto tra gotico antico e gotico moderno). Tuttavia riserve (sulla base delle competenze acquisite e del continuo confronto, inespresso, ma immaginiamo fondante per i propri giudizi) vengono mostrate anche per palazzi romani del primo Cinquecento a vario titolo legati alla scuola di Raffaello come palazzo Caffarelli o palazzo di Jacopo da Brescia il cui bugnato gli ricorda Sanmicheli. Nel caso del primo edificio Trezza rinuncia ad illustrare la sopraelevazione recente che intacca il partito originale e si limita ai due livelli inferiori chissà quanto indotto a riconoscere una somiglianza (piuttosto che con palazzo Lavezola-Pompei e soprattutto per l’impiego delle colonne binate e della balaustrata al di sotto delle finestre) con il veronese palazzo della Gran Guardia da lui rilevato in gioventù. Ma ancora sulla base delle occupazioni giovanili Trezza si muove verso Montefiascone il cui duomo era attribuito a Sanmicheli dall’autorevolezza delle parole di Vasari, sconfessate dall’ignoranza di un canonico locale che lo assegna a Bramante con sconcerto del Veronese che poi fatica veramente a riconoscere l’impronta del maestro del Cinquecento dopo le manomissioni dovute a Carlo Fontana in seguito all’incendio del 1670. Se per il Seicento il giudizio è poco favorevole (in particolare verso Pietro da Cortona) e meno drastico per Bernini
(su fontane del tutto positivo) il Settecento romano è più apprezzato nelle figure di Galilei, Vanvitelli, Valadier ma il giudizio è negativo su Fuga. La Roma dell’epoca è come abbiamo detto la meta all’interno del Grand Tour di nobili ed intellettuali, la destinazione dei giovani stranieri in fase di formazione che durava diversi anni come per gli artisti stranieri che si portavano a Roma quali pensionnaires dell’Accademia (di Francia o di quella della Pace) o gli indipendenti che, come Trezza, completavano le loro conoscenze. Il veronese qui ha modo di avvicinare Antonio Canova, Giuseppe e Giulio Camporese, Giuseppe Valadier e altri saranno i compagni (non solo occasionali) con i quali si incontra nelle altre città e dai quali riceve indicazioni sulle mete da visitare e materiale per favorire i propri studi. Accade nel caso dei disegni passatigli dal bolognese Mazzoni o quelli su palazzo Farnese a Caprarola proprio mentre va costituendosi da parte degli stranieri uno specifico interesse per le opere di Peruzzi, Michalangelo e Vignola del quale a vario titolo lo stesso Trezza tiene conto nel bene, a proposito dell’interesse per Peruzzi e Vignola e nel male sulla scorta di Milizia (come ha notato Laura Giacomini) circa Michelangelo. Possiamo dire che Trezza ha letto Milizia (Serlio, Palladio e Vignola come abbiamo detto) ma per altro nelle varie visite si fa accompagnare da esperti dei vari luoghi non solo a Roma con Camporesi (a Ferrara Luigi Bertelli, a Firenze Pietro Conti). E nonostante a Caprarola Trezza voglia pervenire alla ‘totale intelligenza di tutta l’opera’ dovrà agire aiutandosi con materiale grafico altrui mentre lo stesso architetto veronese sceglie elementi ora la pianta, ora sezioni, più raramente la
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facciata, ora particolari come le finestre: non si tratta quindi di un rilevamento totale. Sulla base della lezione di Milizia, Michelangelo appare come una figura di secondo piano, poi il Barocco è in genere sottorappresentato benché apprezzamenti per alcuni aspetti come scaloni o giardini siano palesemente espressi da Trezza. Del complesso di San Pietro (del quale boccia la facciata) apprezza l’opera di Bernini per il Colonnato e il Baldacchino, ma esprime riserve sulla Scala Regia. La cupola, anche sulla scorta della probabile conoscenza delle Memorie istoriche della Gran Cupola del Tempio Vaticano, pubblicate da Giovanni Poleni per il restauro della struttura, è analizzata con l’occhio dell’ingegnere. Ma Trezza avrebbe liquidato le cappelle Sistina e Paolina come stanzoni pur apprezzando le figure di Michelangelo e a Santa Maria del Popolo o a San Luigi dei Francesci non nomina, per restare nel campo delle arti figurative, Caravaggio pur citato nelle guide. Circa il viaggio nel Regno di Napoli ove ammira in particolare il palazzo degli Studi e la reggia di Caserta portandosi alla colonia di San Leucio spicca l’interesse per gli scavi di Pompei e di Ercolano prestando attenzione al Museum Hercolanense come, per inciso, si era o si sarebbe dimostrato interessato al Museo Pio Clementino, alla collezione a Palazzo Pitti o a quella della reggia di Colorno. Il bagaglio di descrizioni corredate dai disegni contenuto in un manoscritto di circa cinquecento carte è reso immediatamente comprensibile attraverso gli indici stesi da Trezza medesimo che elencano precisamente le tappe del viaggio, i luoghi visitati, le personalità conosciute con lo scopo evidente di rendere fruibile il testo
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anche ai colleghi liberi di consultarlo, tanto da essere lasciato in eredità alla biblioteca veronese assieme a tutti i disegni e ad altri manoscritti come abbiamo più volte detto e ad alcuni volumi tra i quali quello che è immediatamente collegabile con questo viaggio ovvero N. 320 vedute delli fabbricati antichi e moderni di Roma e di altri luoghi di Agapito Franzetti. Dopo il ritorno a Verona Trezza è occupato immediatamente a sistemare parte del materiale grafico relativo al viaggio. Ad esempio fornisce la pianta di Santo Spirito a Firenze errando sul numero delle nicchie del braccio del transetto, ma pare ipotizzabile che al rientro nella sua città abbia usato materiale (disegni e incisioni) reperiti durante il viaggio e abbia proceduto nel completamento del suo manoscritto. A Trezza questa deve essere sembrata una tappa risolutiva della sua vita perché nel 1796 avrebbe anche ordinato e definitivamente sigillato anche il ms. 1010 che raccoglie il lavoro preliminare di rilievo delle architetture venete e mantovane del Rinascimento. Qui si trovano anche le elaborazioni di fogli contenuti nel diario relativi al palazzo degli Studi di Napoli, all’ingresso di villa Borghese, alla cappella Chigi, al cornicione di palazzo Farnese. È comunque un fatto eccezionale che accanto ai disegni del diario si trovi una tale quantità di testo: questa spesso si sovrappone allo schizzo o al rilievo tanto da poter sembrare superflua come accade, ad esempio, per il Tempietto di San Pietro in Montorio. Rispetto ai rilievi sanmicheliani contenuti nel ms. 1010 si osserva che mancano quasi sempre scale metriche e l’indicazione delle misure è assai infrequente persino nei disegni più precisi e complessi come per il San Vitale di Ra-
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venna dove è presenta la scala metrica. È vero che Trezza talvolta ricava i disegni, come si è detto, da fogli altrui ma pare davvero che la descrizione testuale possa concorrere, anche a rischio della ripetizione, a fornire quanti più dati possibile in una condizione di rilevamento dell’esistente ben più precaria di quanto Trezza avesse fatto sui monumenti dell’Italia settentrionale fino a quel momento.
06. Ravenna, San Vitale, pianta (L. Trezza, Itinerario, c. 447).
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07. Roma, villa Giulia, particolare del prospetto interno (L. Trezza, Itinerario, c. 382).
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Esiste, per completare l’argomento, una miscellanea in due volumi praticamente sconosciuta, un vero diario per immagini delle curiosità, della vicenda personale e delle amicizie dell’architetto veronese. Si trovano incisioni di tipi decorativo, piante di città, illustrazioni di monumenti antichi, planimetrie di edifici ecclesiastici, la riproduzione di molti archi di trionfo recenti, di vasi ritrovati negli scavi di Pompei e una veduta di Paestum (raccolti evidentemente durante il viaggio nel regno di Napoli), una del camposanto di Livorno innalzato su progetto del veronese Ignazio Pellegrini e visitato durante la permanenza toscana. Quello che qui conta sottolineare è che negli album sono conservate alcune stampe relative ad edifici cinquecenteschi esito di doni ricevuti o di acquisti effettuati durante il viaggio in Italia del 1795 sono le incisioni di Giovanni Giacomo Rossi su palazzo Farnese a Caprarola che Trezza aveva potuto osservare solo con molta rapidità limitandosi al rilievo di sotterranei, scala e cortile come, oltre alle sue stesse parole, dimostrano alcuni dei disegni conservati nell’Itinerario. Ecco quindi che la sezione e la rappresentazione del prospetto del palazzo oggetto delle due incisioni potevano colmare la lacuna. Per quanto riguarda le opere di Jacopo Vignola villa Giulia manca di una descrizione nel diario, ma vi viene rappresentata tramite una serie di disegni che riguardano pianta, sezioni (anche relative al ninfeo) pur mancando la veduta della facciata che è viceversa, contenuta in un’incisione della raccolta miscellanea in argomento. Anche nel caso del palazzo romano di Jacopo da Brescia (per il quale non era possibile per Trezza avanzare qualche paternità) un’inci-
sione propone il nome di Baldassarre Peruzzi evidentemente non troppo accettata nella cultura architettonica del tempo se l’architetto veronese non se ne serve per le sue considerazioni attributive. È plausibile quindi che la collezione di incisioni di Trezza potesse essere più ampia, ma anche i casi considerati permettono di comprendere che l’architetto cerca di avere un controllo sullo studio degli edifici del Cinquecento anche quando non gli è stato possibile avvicinarli o poterli rilevare completamente e che tramite i contatti con i numerosissimi suoi corrispondenti egli abbia in parte supplito a queste ovvie mancanze. In merito all’attività di progettista di Trezza varrà la pena notare che si dimostra interessato (ora negativamente ora con un certo compiacimento) a circostanze progettuali che anche nella sua città si erano verificate e che, per ragioni diverse, non avevano visto la luce. Circa il bolognese palazzo Ranuzzi Trezza critica il fatto che i montanti del timpano ricadano ben entro la distanza dei sostegni sottostanti. Circa il palazzo romano della Consulta il Veronese apprezza la balaustra sommitale e la sua interruzione. Si tratta di aspetti che aveva sviluppato anche Adriano Cristofali, maestro di Trezza, per il progetto di palazzo Sagramoso a Zevio (poi rimasto incompiuto) e per l’idea iniziale della balaustra di palazzo Canossa che probabilmente, come nel palazzo romano che Cristofali aveva potuto vedere a Roma, prevedeva l’interruzione al centro per ospitare lo stemma della famiglia. Non sembra che siano immediatamente riconoscibili effetti sulla produzione progettuale o almeno non lo sono nei dati puramente stilistici: il viaggio a Paestum e qui soprattutto
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la piramide del parco di villa Pallavicini probabilmente generano la porta dorica nel progetto per le Carceri ad uso di una grande città o per quello per la sistemazione della sorgente nel giardino di villa Perez; le finestre del palazzo pubblico di Bologna passategli da Mazzoni hanno un riflesso sui progetti di finestre dorica e ionica che stanno tra i fogli di disegno. Ma non c’è dubbio che il viaggio consente a Trezza soprattutto di verificare il proprio metodo progettuale e che in tal modo l’architetto avesse potuto mettere alla prova i propri riferimenti culturali verso il classicismo di matrice cinquecentesca e anzi di convincersi della bontà della sua scelta unita all’ammirazione per il mondo antico. È altrettanto vero che pur dopo la pratica dei rilievi del Rinascimento compiuta dagli anni giovanili e con questo supplemento di conoscenza dato dal viaggio, Trezza forse non ha mai sentito la necessità di pervenire alla stesura di un testo (come invece stava pensando di fare Bartolomeo Giuliari) per commentare i disegni delle fabbriche sanmicheliane sebbene, leggendo il testo dell’itinerario e confrontandolo con i più tardi lavori di Albertolli e di Ronzani e Luciolli, Trezza dimostri di saper trattare ed esplicitare le conoscenze in termini squisitamente grammaticali, costruttivi ed anche materiali. Ma alla fine è anche probabile che Trezza fosse persuaso della propria mancanza di una prospettiva storiografica nella quale collocare un suo testo. Purtroppo, e quasi scontatamente, non c’è modo di sapere se il diario depositato alla Biblioteca Civica per lascito testamentario perché potesse in qualche parte essere di utilità alcuni miei riflessi e osservazioni da me fatte sulle fabbriche vedute e delineate come dice
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il suo autore sia servito a qualche altro viaggiatore veronese prima di mettersi in movimento. La domanda, tutto sommato, vale anche per i disegni di soggetto sanmicheliano lasciati a loro volta alla biblioteca: vivente il suo autore sono stati utilizzati, oltre che da Temanza, da John Soane che è a Verona nel 1779 e nel 1780, più tardi da Ferdinando Albertolli in vista della stesura di Porte di città e fortezze; da Gaetano Avesani forse poi da Giuseppe Barbieri principale allievo di Trezza. Il 1823, anno della morte del nostro architetto, è anche l’anno della pubblicazione a stampa del primo fascicolo del capitale lavoro di edizione delle opere di Michele Sanmicheli ef-
« Oltre alle opere edificate, Luigi Trezza ha lasciato un gran numero di fonti per poterne ricostruire la biografia e l’attività » fettuato da parte di Francesco Ronzani e Gerolamo Luciolli con i testi stesi da Gaetano Pinali. In fin dei conti se l’avvio del lavoro di ridisegno dell’opera di Sanmicheli dopo la metà del Settecento avviene a contatto con i più vividi fermenti della cultura veronese e, come si è visto, internazionale, è probabile che durante la sua esistenza Trezza affianchi con le sue illustrazioni lo svolgimento della riflessione sull’architettura del Cinquecento veronese, ma non ne sia un protagonista attivo. Viceversa Gaetano Pinali con l’acquisto della biblioteca di Tomaso Temanza e dei disegni di Palladio alla fine del secolo aveva posto le basi per incrementare la sua autorevolezza nel campo della sto-
ria dell’architettura (rifluita appunto nella stesura dei testi dell’opera edita da Ronzani e Luciolli a partire dal 1823 sull’opera di Sanmicheli) mentre Bartolomeo Giuliari nel dare alle stampe il volume sulla cappella Pellegrini nel 1816 aveva offerto al lettore le proprie considerazioni storico critiche che avevano principiato a formarsi oltre vent’anni prima, quando l’architetto aveva iniziato ad occuparsi del restauro dell’edificio sanmicheliano. Trezza, almeno da questo punto di vista, resta ai margini di tali vicende pur essendo parte determinante dei loro presupposti. L’unico candidato a trarre utili suggerimenti dal diario di Trezza avrebbe potuto essere lo stesso Pinali che nel 1824, da poco deceduto Trezza e ancora più avanti negli anni di quanto non fosse accaduto a quest’ultimo, compie un viaggio verso Roma, ma con un tragitto ben diverso che aveva compreso Genova e la Sicilia. Trezza aveva assunto via via incarichi pubblici (sotto i domini napoleonico e asburgico) che molto probabilmente lo avevano fatto apparire meno attraente agli occhi di Pinali dal momento che il polemico archeologo vicino agli ambienti carbonari veronesi era stato emarginato dalla cultura ufficiale di parte austriaca. Questo non significa che l’Itinerario di Trezza non fosse stato esaminato da nessuno ma, così come avviene per i rilievi di architettura del Rinascimento, anche per il diario di viaggio pare che il significato post mortem sia in parte inattuale, superati i primi dall’edizione a stampa delle opere di Sanmicheli il secondo dalle guide che sempre più numerose dal tardo Settecento illustravano le varie realtà urbane dal punto di vista delle emergenze monumentali.
Nota Queste considerazioni ritornano in parte su quelle avanzate dallo scrivente presentando, nella primavera del 2012 all’Università di Verona accanto agli autori, il volume P. Carpeggiani, L. Giacomini, Luigi Trezza architetto veronese. Il viaggio in Italia (1795), Santarcangelo di Romagna (RN), 2011. Per altri riferimenti bibliografici in merito al contenuto del testo che si pubblica si vedano G. Orefice, L’itinerario toscano di Luigi Trezza, architetto veronese, in Storia dell’Urbanistica, Toscana/XI. Architetti in viaggio: suggestioni e immagini, a cura di G. Orefice, Roma 2005, pp. 33-54; S. Pasquali, Le inquietudini di un principe: Auguste Hubert, Francesco Bettini e Luigi Trezza nella Villa Pallavicini lungo la via Salaria, in Architetti e ingegneri a confronto. L’immagine di Roma fra Clemente XII e Pio VII, a cura di E. Debenedetti, vol. III, Roma 2008, pp. pp. 75-90; S. Lodi, Michele Sanmicheli nei disegni di Luigi Trezza. Il ms. 1784 della Biblioteca Civica di Verona, Verona 2012. Per ulteriori studi che esaminano particolari aspetti del viaggio di Trezza si segnalano inoltre L. Giacomini, Una lettura tecnico ingegneristica del paesaggio italiano. Osservazioni dal taccuino di viaggio dell’architetto veronese Luigi Trezza, e F. Mangone, Il sito di Pompei a fine Settecento e il resoconto di Luigi Trezza, entrambi in Un palazzo in forma di parole. Scritti in onore di Paolo Carpeggiani, a cura di C. Togliani, Milano 2016, pp. 254-264 e pp. 290-297 rispettivamente.
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Giorgio Bonagiunti, copertina del “numero zero” della seconda serie di «AV». Cfr. pp. 101-104.
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Nel segno di AV
L’incontro veronese con Mario Botta ha offerto un’ampia rassegna dei progetti recenti dell’architetto ticinese assieme alle sue riflessioni sulle condizioni attuali e future della professione
Protagonista della prima e della seconda serie della rivista, Giorgio Bonagiunti (1929-2023) ha caratterizzato fortemente l’immagine grafica di ArchitettiVerona
Ci mette il becco LC Trasformare per conservare Sono necessarie progettazioni ardimentose ma intelligenti perchè Verona superi la crisi di stanchezza che sembra imbrigliarla nel suo effimero attuale
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Santa revisione
Futura campanella
La nuova versione del progetto per il compendio delle ex caserme nei pressi del Forte Santa Caterina e gli interrogativi circa il ruolo urbano dell’intera area e sulle sue possibili connessioni
Il comune di Albaredo d’Adige ha preso parte alla mega procedura concorsuale nazionale per l’individuazione del progetto finalizzato alla costruzione del nuovo polo scolastico
99. Liquido, poetico Accoppiata scarpiana con una visita alla BPV seguita dall’anteprima veronese di un documentario sul rapporto tra l’architetto veneziano e la cultura giapponese
112. Su un monte di plastica Un bizzarro progetto dei primi anni Settanta per la pratica dello sci alle porte della città si rivela inaspettatamente pioneristico di una realtà oggi sempre più diffusa
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Super Mario Arch. L’incontro veronese con Mario Botta ha offerto un’ampia rassegna dei progetti recenti dell’architetto ticinese assieme alle sue riflessioni sulle condizioni attuali e future della professione
Testo: Alberto Vignolo
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on è certo la prima volta che lo si vede a Verona, anzi: eppure il racconto che Mario Botta ha fatto del suo lavoro recente in un incontro a fine settembre negli spazi di M15 ha offerto diversi spunti di riflessione. Sarà che, assieme ai celebratissimi “cent’anni di professione” per la ricorrenza dell’istituzione degli ordini, nel 2023 il Nostro ha festeggiato i suoi primi tondi 80, buona parte dei quali spesi nel fare architettura. Solo i colleghi più maturi, oramai, possono ricordare un’era “ante Botta”, mentre per tutti gli altri l’architetto ticinese ha sempre rappresentato una presenza costante nel panorama architettonico internazionale. Amate o detestate – con tutti i distinguo del caso – le sue opere hanno sempre suscitato interesse e motivo di dibattito, dalle piccole case ticinesi degli esordi ai grandi complessi monumentali della maturità. Per la sua lezione veronese, Mario Botta ha presentato una scelta di alcuni lavori recenti, “cercando di estrarre per ognuno di loro gli elementi più rappresentativi e il significato temporale che emerge come possibilità del lavoro degli architetti”. “Parlare di architettura – ha continuato l’architetto ticinese – è un modo per penetrare quello che è stato fatto. Le immagini arrivano sempre a posteriori ma aprono delle prospettive, e il vero senso di questi incontri è cercare di capire che cos’è il mondo di oggi: dal momento in cui progettavamo le opere mostrate sono passati alcuni anni, e quindi è interessante il confronto con i colleghi per cercare di capire dove siamo arrivati, qual è la complessità del mondo che ci è amica o che ci ostacola”. Dopo questa premessa Botta ha aperto una finestra sulla sua “fortunata carriera”, spaziando dal Teatro alla Scala di Milano, con la nuova torre su via Verdi che ha consentito l’ampliamento degli spazi scenici, ai progetti urbani italiani, da Sesto San Giovanni (area ex Campari) e Treviso (ex Appiani) a Torino (ex acciaierie fiat). Qui con la Chiesa del Santo Volto si è aperto il capitolo degli edifici di culto, oggetto di sperimentazione morfologica e simbolica alle varie scale, dal progetto per la Chiesa di Sambuceto (Chieti, in corso), alle grandi basiliche di Namyang (Corea del Sud) e Leopoli in Ucraina (in costruzione), per finire con la
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piccola cappella Granato nello Zillertal (Austria). La dimensione internazionale del lavoro di Botta non poteva precludersi le occasioni cinesi – hotel a Shanghai, biblioteca e museo del Campus della Tsinghua University a Pechino –, ma è nella nativa Svizzera che il cerchio si chiude, con opere che vanno dalle Terme di Baden al Ristorante Fiore di Pietra sul Monte Generoso, dall’osservatorio Space Eye nei pressi di Berna al Teatro dell’Architettura di Mendrisio, una delle opere simbolicamente più importanti in virtù del fondamentale ruolo dello
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01-03. Cappella Granato, Penkenjoch, Zillertal (Austria), 2011-2013: veduta interna, il contesto nella stagione invernale e inquadramento
territoriale. 04. Matteo Faustini consegna a Mario Botta un simbolico riconoscimento per il suo intervento veronese.
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stesso Botta nella fondazione dell’Accademia sui progetti in corso dei quali rendeva partecipi di Architettura di Mendrisio, scuola dove ha anche i suoi allievi. “Un personaggio straordinario, insegnato e che ha anche diretto. unico. Non so se fosse un grande architetto come E parlando di scuola, non si poteva mancare di inventiva, ma era un grandissimo architetto per la sollecitare un ricordo della figura di Carlo Scarpa, sensibilità che aveva verso i materiali: qualunque il “Maestro” per antonomasia che Botta ha avuto materiale esigeva rispetto, che fosse ghiaia o che il privilegio di incontrare allo IUAV. “Perché fosse oro. Un Maestro così, alla fine del XX secolo, sono andato a Venezia? era il meglio che potesse Perché c’era Scarpa”, dare l’Europa come che però era all’epoca un forma rinascimentale di « Però non dobbiamo abdicare: maestro misconosciuto insegnamento”. io intravvedo nell’atteggiamento Nel dibattito e solo a posteriori gli dei giovani un grande potenziale seguente, Botta è è stato riconosciuto il valore che meritava: stato inevitabilmente di resistenza all’appiattimento basti dire che aveva un sollecitato sugli ex in atto » numero limitatissimo Magazzini Generali di studenti, sia perché di Verona e sui molti severo agli esami ma poi temi che il suo progetto perché non interessava. I pochi allievi, tra i quali il ha dovuto affrontare, a lavori sostanzialmente giovane Mario, hanno vissuto la parte migliore di terminati. Si è trattato di “una sfida epocale per Scarpa, anche la sua cifra aneddotica: non faceva Verona, che non era pronta ad affrontare una lezione ex cathedra ma raccontava quello che a lui pianificazione urbanistica di questo impegno e sembrava interessante, compresi i dubbi che aveva forse neanche una pianificazione economica di
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05-06. Cappella Granato, Penkenjoch, Zillertal (Austria), 2011-2013: piante con sezione e veeduta del “masso” sul pendio.
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Liquido, poetico
Accoppiata scarpiana con una visita alla BPV seguita dall’anteprima veronese di un documentario sul rapporto tra l’architetto veneziano e la cultura giapponese
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tale portata... Ma l’architettura è anche l’arte del possibile, quindi io credo di aver lavorato per fare quello che era possibile anche nei riguardi della città. Il progetto aveva delle ambizioni che andavano al di là di ciò che vediamo, ma forse i nostri obiettivi e quelli della città erano altri... Il fatto che non sia stato realizzato il roseto è una pugnalata tremenda che ho dovuto subire: per me il roseto era il gioiello, l’elemento di scambio per fare sì che il grande insieme degli ex Magazzini Generali potesse avere qualcosa in più... Non c’è un pentimento, ma credo che l’insieme migliorerà solo col tempo: fra vent’anni cresceranno gli alberi, si consolideranno i rapporti spaziali, cambieranno magari le destinazioni d’uso, perché è la città che cresce!” La riflessione sui Magazzini apre poi a un pensiero sullo stato attuale della professione, rivolto ai molti colleghi presenti. “L’itinerario tracciato rappresenta una sorta di bilancio degli ultimi dieci-quindici anni del mio lavoro. So che godo del privilegio di venire da una cultura nordica e post razionalista che mi mette nella condizione di giudicare ciò che faccio in un’ottica meno urgente del pragmatismo di cui forse c’è bisogno oggi: ma voglio dirvi che le difficoltà esistono per tutti. Conosco le vicissitudini e le difficoltà del fare bene questo lavoro, che credo sia destinato a trasformarsi: non sarà più un processo che possiamo controllare dalla A alla Z, inevitabilmente vinceranno le grandi imprese e i grandi investimenti dove noi non potremo più avere potere contrattuale. Però non dobbiamo abdicare: io intravvedo nell’atteggiamento dei giovani, che indirettamente seguo attraverso la Scuola di Mendrisio, un grande potenziale di resistenza all’appiattimento in atto. Tutto quello che si fa nel mondo si assomiglia, i materiali hanno perso la loro capacità espressiva e si è persa l’identità del luogo”. Ritorna in chiusura la lezione di Scarpa: “Quello del rapporto tra dimensioni e materiali è un ragionamento proprio di Scarpa, ma inesistente nella cultura del consumo odierna. Non c’è nessuno che pensi a una forma espressiva dei materiali e a come noi come architetti la possiamo realizzare”. Nessuno, se non Mario Botta.
Testo: Luisella Zeri
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n occasione della consueta iniziativa autunnale dell’ABI (Associazione delle Banche Italiane) con l’apertura al pubblico di alcune delle proprie sedi dal particolare significato storico e architettonico, anche quest’anno è stato possibile vedere (o rivedere) la sede centrale della Banca Popolare di Verona (ora BPM) sita in Piazza Nogara e progettata da Carlo Scarpa e Arrigo Rudi. Nell’ambito dello stesso evento, assieme alle visite guidate è stata proposta l’anteprima del documentario Il padiglione sull’Acqua, un viaggio estetico e poetico nell’immaginario scarpiano e nella sua passione per la cultura giapponese. Proposto nuovamente a Verona sul grande schermo a metà dicembre il film, firmato da Stefano Croci e Silvia Siberini – presenti nell’occasione – ripercorre l’ultimo viaggio giapponese effettuato dall’architetto veneziano. C’è qualcosa di catartico nell’aver visitato un’architettura scarpiana potendo godere subito dopo della visione del documentario: perché, se la nostra fortuna di essere architetti veneti, e in particolar modo veronesi, è quella di poter toccare con mano un gran numero di opere scarpiane e anche, volendo, i suoi disegni presso l’Archivio Scarpa di Castelvecchio, gli spazi della BPV rappresentano una perfetta sintesi di ciò che l’architetto ha consegnato al mondo attraverso la sua opera. Croci e Siberini però, con il loro documentario, hanno provato a compiere un passo ulteriore, scavando nel profondo del pensiero scarpiano utilizzando a pretesto l’itinerario da lui seguito nel 1978. Scarpa, anche per le sue origini veneziane, amava definirsi “Bizantino nel cuore, un europeo che salpa per l’Oriente”: e il documentario ambisce
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01. Il manifesto del docufilm scarpiano realizzato dai registi Stefano Croci e Silvia Siberini. 02-03. Fermi immagine dal documentario: Tea House e, di spalle, Tobia Scarpa con Mauro J.K. Pierconti.
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IL PADIGLIONE SULL’ACQUA Scritto e diretto da Stefano Croci e Silvia Siberini Prodotto da Caucaso (ITA), Freetowork (NL), Pop Homage (UK) Con la partecipazione di Ryōsuke Ōhashi, Tobia Scarpa, J.K. Mauro Pierconti, Guido Pietropoli, Giovanni Soccol, Guido Guidi, Francesco Zanon, Paolo Zanon, Shuho Hananofu VIDEO https://lnx.caucaso.info/ ilpadiglionesullacqua/
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idealmente, grazie al mezzo cinematografico, a rendere manifesta e a evocare la ricerca che egli operò in tale direzione. Le scelte di viaggio fatte da Scarpa nel ‘78 sono ancora oggi sottese da qualcosa di misterioso, perché l’architetto, che per la seconda volta visitava il Giappone, si mise sulle tracce del poeta errante giapponese Matsuo Bashō ripercorrendone gli itinerari nel tentativo di raggiungere l’antica capitale Hiraizumi. Scarpa trovò invece la morte in un tragico incidente a Sendai prima di raggiungere l’agognata meta, proprio nello stesso giorno in cui, trecento anni prima, mancò il poeta di cui stava seguendo i passi. Il documentario è un susseguirsi di testimonianze di amici, colleghi e collaboratori che provano a dare una risposta al perché Scarpa potesse aver compiuto quelle scelte particolari e che cosa stesse cercando in quel viaggio. La risposta che ciascuno prova a dare mescola i ricordi a una parola ricorrente che è bellezza, quasi come se Scarpa, nel suo peregrinare, stesse esplorando il senso più profondo del suo fare architettura, arte e cultura. Bellezza è anche la parola che sottende tutta la fotografia del documentario, alternando continui stacchi di camera in cui le immagini dei templi giapponesi si alternano a quelle delle opere. Nelle riprese ogni edificio viene smembrato, quasi a volerci aiutare attraverso questa frammentazione a
coglierne i dettagli per capirne l’essenza. Un contributo fondamentale a questa continua scomposizione è dato dall’acqua, elemento che per Scarpa è radice, materiale costruttivo e specchio in cui far riflettere le costruzioni. L’acqua, a sua volta, frammenta l’immagine fino al punto in cui templi e architetture si sovrappongono e la costruzione diventa sacra. Per un attimo, i nostri occhi diventano quelli dell’architetto durante il suo ultimo viaggio, e pare anche a noi di essere arrivati vicini all’essenza delle cose. Ma a questo punto l’acqua con il suo cerchio d’onda compie l’azione finale: l’immagine specchiata e rifranta più volte scompare e infine si ricompone nitida. Quello che eravamo riusciti a capire sfugge di nuovo e siamo costretti a rimetterci in viaggio, forse più consapevoli di prima, ma sempre in ricerca. Croci e Siberini rendono omaggio a Scarpa risarcendolo idealmente di quel viaggio incompiuto perché – spoiler – quello che aspetta lo spettatore al termine del documentario è proprio Hiraizumi, la meta del viaggio. Ma quanti viaggi è possibile compiere visitando le architetture di Scarpa? Ciascun edificio a modo propria diventa un mondo in cui ritirarsi e compiere un pellegrinaggio personale: perché la Tomba Brion, la Gipsoteca Canoviana, la Banca Popolare, i tanti progetti per la Biennale, sono essi stessi padiglioni sull’acqua, templi eterni custodi del senso dell’architettura.
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Protagonista della prima e della seconda serie della rivista, Giorgio Bonagiunti (1929-2023) ha caratterizzato fortemente l’immagine grafica di ArchitettiVerona
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Nel segno di AV Testimonianze: Paolo Zoppi, Dario Nicoletti Cura: Alberto Vignolo
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’è un legame lontano ma radicato che ci porta a ricordare Giorgio Bonagiunti, nato nel 1929 e mancato quest’estate. Qualche lettore stagionato, o qualche curioso che abbia scovato le annate storiche della rivista – tutti i numeri sono disponibili nell’archivio digitale sul sito – avrà senz’altro notato le belle copertine, a partire da quelle dei primi numeri con le variazioni di colore applicate ad alcune composizioni seriali di elementi architettonici e urbani filtrati da matrici tipografiche. Fu per l’appunto Bonagiunti, tolte le prime tre uscite, a curare copertine e impaginazione della rivista; il suo ingresso in redazione segnò anche il passaggio a quel formato “quasi quadrato” che ancora oggi ci caratterizza, e che all’epoca d’oro delle riviste di architettura era utilizzato da quelle più eccentriche e originali (Lotus International, Ottagono). Poi seguì la seconda serie (dal 1977 al 1986) con le costruzioni assonometriche e le iterazioni seriali. Nel 2009 tornò a disegnare una nuova copertina per il numero celebrativo dei cinquant’anni di «ArchitettiVerona». Non fu facile rompere la sua iniziale ritrosia, capendo poco alla volta il suo carattere schivo e silenzioso; ma si fece poi trascinare dall’entusiasmo, raccontando anche come la sua passione per la grafica gli avesse offerto da giovane una importante occasione professionale negli Stati Uniti, a seguito della vittoria in un concorso: ma la ritrosia ebbe il sopravvento e quell’occasione sfumò. Continuò invece a collaborare negli anni con la tipografica Cortella. Della sua attività come architetto disse invece poco, fatta eccezione per qualche cenno al progetto allora in corso di un nuovo stabilimento per la ditta Pedrollo, cliente storico dello studio Bonagiunti.
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01. Giorgio Bonagiunti intento a disegnare sul tavolo dello studio. 02. Biglietto di auguri dello studio Bonagiunti, 1969. 03. Copertina per il numero 84 di «AV»-
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Non era certo portato all’autocelebrazione o all’ostensione dei propri lavori, comè diventata consuetudine oggi: tant’è che risulta difficile a posteriori ricostruire le tappe della sua carriera, se non per frammenti come facciamo con alcune immagini in questa occasione. Il suo lavoro è legato in realtà a doppio filo a quello del fratello Bruno (1936), ingegnere prima e poi laureato anche in architettura “trascinando” il fratello maggiore a concludere gli studi allo iuav nel 1974. (Per inciso, Bruno è stato anche per breve tempo presidente dell’Ordine Architetti di Verona, tra il 1987 e il 1988 dopo le dimissioni dal suo ultimo mandato di Carlo Vanzetti, nominato in quanto già presiedeva la Commissione Parcelle).
04. Condominio Lilibeo, via Marsala, Verona (1969). 05. Condominio in Borgo Trento, via Bassini-via Mameli, Verona (1967). 06. Condominio in via Maldonado, Verona (1970). 07. Edificio per uffici e abitazioni, corso Porta Nuova, Verona (1970).
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Dai faldoni dello studio escono le immagini romanticamente ingiallite di alcuni edifici che riconosciamo come presenze familiari del panorama urbano veronese; intensa fu anche l’attività progettuale di case sul Garda, assieme ai molti interni dei quali è più difficile trovare traccia superstite. La creatività di Giorgio non si esauriva però nell’architettura, ma era accompagnata da una produzione artistica legata al clima culturale veronese di quegli anni, nel periodo e nella cerchia di personaggi come Francesco Arduini o Giorgio Olivieri. Chi da studente o da neo laureato frequentò lo studio, ricorda una sostanziale divisione dei compiti tra la progettazione architettonica, riservata al “creativo” Giorgio, e gli aspetti burocratici e strutturali di cui si occupava il pragmatico Bruno. Così testimonia Paolo Zoppi: “Nel 1968, iscritto ad architettura a Venezia, frequentavo il secondo anno quando l’Istituto fu occupato dal movimento studentesco e le lezioni sospese. Io desideravo fortemente raggiungere in fretta la meta che agognavo fin da piccolo, così su consiglio di un amico mi recai presso lo studio dei fratelli Bonagiunti chiedendo di poter essere inserito in qualità di collaboratore part-time, soprattutto per il desiderio di capire come funzionasse in pratica quel mondo. Fui accolto benevolmente da Giorgio (allora non ancora laureato, ma che tutti chiamavano architetto) e da Bruno, ingegnere edile. La prima impressione fu il
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08. Casa per vacanze a Torri del Benaco (anni Settanta). 09. Scultura in acciaio e pietra. 10. T-H-V-Verso sera, matita su carta (1987).
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grande entusiasmo e dedizione che ponevano nel loro lavoro, a qualsiasi livello e senza distinzione di importanza; l’impegno non teneva conto né di orari né di calendario. Inizialmente Giorgio, intuendo la mia totale inesperienza mi invitò a sedermi accanto a lui, in silenzio, ma semplicemente attento ad osservare come nascevano e venivano rappresentati i suoi progetti, con particolare attenzione perfino all’uso delle matite, dei colori e delle penne a china. Credo che questo sia il ricordo più bello che ho di lui, perché per tutti gli anni a seguire, quando non mi vedeva impegnato, lui mi sollecitava a sedermi ancora al suo fianco. Penso di aver imparato a fare architettura di più con gli occhi che con la pratica vera e propria. Questo suo modo di condividere il suo operato era una qualità molto rara, che farebbe il successo di tantissimi insegnanti”. A raccogliere il testimone di questo ricordo è Dario Nicoletti. “Nessuno è nato imparato, di certo non io e quando ventitreenne da poco laureato, grazie all’amico-fratello Paolo Zoppi già insediato nello
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studio di Lungadige Panvinio sono stato accolto dai fratelli Bonagiunti, da subito mi sono reso conto di quanto mi rincuorasse avere Giorgio vicino. I nostri tavoli guardavano in direzione opposta e tra loro c’era lo spazio per i due sgabelli. Ci voltavamo le spalle ma non in senso metaforico, anzi. Ne sono prova tutte le volte che Giorgio si è girato per aiutarmi a far fronte alle mie incertezze “sparse” sul tavolo. All’inizio con paziente spirito da maestro e poi con senso d’amicizia. Non provo a quantificare il numero di volte, è più efficace dire che se nella mia carriera professionale sono riuscito ad essere in qualche occasione veramente architetto lo devo a lui e a quello che mi ha insegnato con una non ostentata generosità. Insegnato direttamente discutendo dei miei lavori e indirettamente portandomi in cantiere o facendomi assistere agli incontri con clienti, impresari e artigiani risultando determinante nella mia formazione. Giorgio è stato architetto indipendentemente dal titolo che ha conseguito a oltre quarant’anni perché aveva l’architettura dentro, la viveva con
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11. Interno di studio notarile, Verona (anni Ottanta). 12-13. Edificio in lungadige Matteotti, Verona (1990): prospetto e atrio di ingresso. 14. Edificio in corso Milano, Verona (1980 circa). 15. Pedrollo, San Bonifacio: area ingresso uffici amministrativi (2001-2019).
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passione, con quella forza interna che permette ad alcune persone, nei vari campi della creatività, di esprimere se stesse. Era inoltre profondo conoscitore della grande stagione architettonica italiana e anche internazionale del Novecento, del design e della grafica che praticava lui stesso con maestria secondo l’approccio artigianale di allora con risultati che valutati oggi, non hanno nulla da invidiare a quelli dell’era digitale. Però pur avendo avuto una lunga carriera ricca di gratificazioni io ho sempre pensato che il suo bagaglio tecnico e creativo di progettista avrebbe potuto garantirgli riconoscimenti anche maggiori. Ma per conseguirli bisogna probabilmente avere anche caratteristiche più “concrete” che Giorgio, spirito libero, con sua piena serenità non aveva. Aveva invece tanti interessi al di fuori della
professione. Cito i due che ci accomunavano, i viaggi dai quali riportava oggetti d’arte di lontane culture scelti con sicura sensibilità e la fotografia dove mi sovrastava per la sua attrezzatura sempre all’avanguardia. E probabilmente aveva anche, come tutti, delle fragilità, forse anche una timidezza che nascondeva con atteggiamenti a volte burberi. Non sposato e senza figli, era molto legato alla famiglia d’origine, ai genitori, al fratello Bruno, al ricordo del fratello Renzo, alle nipoti. Il riferimento alla famiglia può sembrare inappropriato in questo contesto, ma io credo che non lo sia affatto se vogliamo raccontare veramente Giorgio. Non è un caso se lui e Bruno hanno sempre lavorato insieme e se si sono laureati in architettura insieme, Bruno già ingegnere. Senza però dimenticare che se la laurea è stata tardiva questo non gli ha impedito di svolgere comunque una breve esperienza come assistente presso la facoltà di architettura a Venezia. Giorgio mi ha insegnato tanto di architettura ma abbiamo parlato tanto anche di altro, di viaggi e di fotografia come ho già ricordato. Un giorno mi ha detto “Facciamo uno scambio, tu mi dai due tue fotografie di viaggio e io ti do due miei disegni”. Intendeva due disegni artistici che realizzava per suo diletto. Così abbiamo fatto, onorato io da una proposta che sentivo sproporzionata. I suoi disegni sono da allora nel mio studio, appesi al muro. Giorgio alle mie spalle, come cinquant’anni fa”.
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Santa revisione
La nuova versione del progetto per il compendio delle ex caserme nei pressi del Forte Santa Caterina e gli interrogativi circa il ruolo urbano dell’intera area e sulle sue possibili connessioni
Testo: Federica Guerra
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o scorso mese di luglio è stato presentato da parte dell’amministrazione cittadina un nuovo Masterplan per l’area del Forte Santa Caterina, compendio ex militare di vaste dimensioni posto nel versante sud est di Verona nei pressi di ciò che resta di un bel forte austriaco (Werk Hess). Sull’area era già stato elaborato un precedente progetto per localizzare i cosiddetti “Magazzini della Cultura”, un polo archivistico di ampie dimensioni che avrebbe dovuto raccogliere i diversi archivi e depositi di numerose istituzioni cittadine (cfr. Magazzini XXL, in «AV» 124, pp.94-96), che si era aggiudicato un congruo finanziamento statale. Il nuovo Masterplan muta completamente gli obiettivi dichiarati del progetto: non più finalità utilitaristiche – gli archivi – bensì la rigenerazione urbana del luogo a partire dalla valorizzazione delle aree verdi e degli spazi aperti in stretta relazione con i nuovi volumi previsti a servizio della comunità locale. Il mix di attività ipotizzate ruota intorno a una serie di nuclei funzionali – Polo della conoscenza, Polo dei mestieri, Polo dell’inclusione-housing sociale, Polo food km 0, Polo Forte Santa Caterina – all’interno dei quali è possibile immaginare molteplici
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attività, che vanno dalle aule studio ai laboratori artigianali, dall’ostello con ciclo-officina al mercato all’aperto. Tutta l’operazione, per quanto comunicato, rimane per ora a un livello di definizione sommario, con un’indicazione di massima dei volumi comunque in forte diminuzione rispetto a quelli del precedente progetto e concentrati nella porzione a sud dell’area; un primo
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01. L’area di progetto: fotopiano dello stato di fatto con gli ambiti di progettazione. 02. Planimetria generale di progetto (luglio 2023).
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RIGENERAZIONE URBANA, RECUPERO E VALORIZZAZIONE DELL’AREA DELL’EX FORTE ED EX CASERMA SANTA CATERINA COMMITTENTE Comune di Verona PROGETTISTI IQT, Barretta&Partners, TFE Ingegneria (coordinamento masterplan, spazi aperti, costruito) nuvolaB (polo social housing) Arteco (restauro e rifunzionalizzazione del forte) CRONOLOGIA Presentazione masterplan: luglio 2023
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03-04. Due schizzi progettuali relativi agli orti urbani e alle aree verdi.
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approfondimento delle destinazioni a verde è tratteggiata con poetiche immagini acquarellate che ne definiscono la voluta imprecisione. A una lettura della logica compositiva del progetto pare che la porzione costruita debba connettersi alla frangia del quartiere Pestrino, non cercando tuttavia di coglierne il principio insediativo né riconnettendo i tracciati originari né, ancora, trovando una qualunque connessione col manufatto del forte austriaco, pur oggetto di un intervento di recupero e valorizzazione. Si tratta sicuramente solo della punta di un iceberg di un processo che ha visto la presenza di ben cinque studi di architettura e ingegneria, e che poco lascia ancora intendere delle sue reali intenzioni, nonostante il riaggiustamento di rotta finalizzato a non perdere il treno “PNRR”. Tuttavia alcune perplessità emergono comunque, prima fra tutte – ancora una volta – l’uso del termine Masterplan: al di là delle destinazioni d’uso a cui si vuole votare l’area, quello che pare carente è proprio lo studio a grande scala del ruolo urbano dell’area, che non è un’isola slegata dal contesto ma una parte di città che, se si vuole “rigenerare”, necessita soprattutto di connessioni urbane che a questa scala andavano indagate e sulle quali ci si potevano aspettare iniziali ipotesi progettuali. Ancora una volta si insiste molto sulle funzioni puntuali da insediare, ma troppo poco sul perché di tali funzioni e non altre, sul ruolo che quest’area ha oggi e sulle sue possibili connessioni con gli altri oggetti urbani limitrofi: la diga di Santa Caterina, il Canale Milani, l’isola fluviale prospiciente, ma anche il
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Lazzaretto e il Parco dell’Adige Sud. Ci sembra manchi, insomma, una visione complessiva della parte di città che faccia veramente rientrare quest’area in un “sistema” di spazi che ne promuovano una vera rigenerazione, dettata da un suo nuovo ruolo urbano. Dopodiché potranno insediarsi queste funzioni o altre, quelle comunque dettate dal progetto urbanistico e non scelte a priori tra quelle più smart. Ne è esempio la previsione di insediarvi una considerevole superficie per “orti urbani... aperti a persone di tutte le età e dai diversi background, [per offrire]… un terreno comune di incontro, di crescita e di connessione” (dal fascicolo di presentazione del progetto). Ma a quale comunità si fa riferimento se la prima zona abitata, al di là delle lottizzazioni di via e vicolo Pestrino (peraltro a edifici
unifamiliari già dotate di ampi spazi privati), è il quartiere di Borgo Roma distante oltre un chilometro dall’area? Chi saranno gli utenti di questi orti urbani? Come raggiungeranno l’area? Quale trasporto pubblico potranno utilizzare? O forse gli orti urbani saranno a servizio della quota di housing sociale previsto nell’area? Ma allora il rischio non è quello di realizzare un comparto autoreferenziato, se non autosufficiente? Su queste questioni sarà interessante approfondire le iniziali proposte del Masterplan, perché questo non sia un semplice “manifesto d’intenti” ma un realizzabile progetto urbanistico.
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Ci mette il becco LC Trasformare per conservare Sono necessarie progettazioni ardimentose ma intelligenti perché Verona superi la crisi di stanchezza che sembra imbrigliarla nel suo effimero attuale
Testo: Luciano Cenna
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on capisco perché non ci si stupisca se si progetta una nuova strada di tot chilometri che colleghi due punti della città, e invece neanche ci venga in mente di poter proporre un progetto per una questione non strettamente funzionale alla mobilità. Eppure la città ne avrebbe serio bisogno di adeguamenti, non solo funzionali, per migliorare il suo tessuto e i suoi servizi, e perché no, il suo aspetto e restare viva. È come se escludessimo di operare una persona al di fuori dei suoi arti, per cui se ha mal di pancia le consigliamo purganti lassativi anziché l’appendicectomia di cui avrebbe bisogno per guarire. Forse uno spazio a verde urbano, o un nuovo edificio scolastico, o uno stadio per lo sport e perfino uno squarcio ambientale non sono altrettanto necessari di un percorso veicolare che faccia risparmiare dieci minuti? Perché se parliamo di centinaia di milioni per realizzare una nuova arteria stradale non ci spaventiamo e anzi cominciamo a fare i conti per accollarne i costi a questo o a quell’Ente pubblico, mentre invece…?
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Non ho la risposta, ma non vorrei che di questa deformazione parte non trascurabile della responsabilità l’avesse l’errata idea che la città sia un tabù. Che guai a metterci mano, come se nei secoli nessuno ci avesse già affondato il piccone. Ma erano altri tempi, direte. E allora, lasciatemi dire che a me pare che Verona necessiti di progettazioni ardimentose ma intelligenti per restare viva e superare la crisi di stanchezza che sembra imbrigliarla nel suo splendido effimero attuale. Quasi per gioco, su una cartina della città comincerei a segnare tutti quei punti in cui sono state segnalate disfunzionalità o situazioni critiche dovute a insufficienze di altra natura, tra le quali mi piacerebbe fossero annoverate le carenze di potenzialità espressive, cioè relative a quei siti dotati di potenzialità formali-ambientali non adeguatamente manifeste. Sono certo che lo scorcio del ponte Pietra, con alle spalle il colle coronato da Castel San Pietro e con il Teatro romano scavato ai suoi piedi, fino ai giardini della Giarina, potrebbe essere tra quelli più segnalati anche a motivo del suo tratto stradale lungo il fiume, da tempo particolarmente in discussione sia per motivi ambientali che strettamente funzionali. Tanto che è ancora di attualità il vecchio progetto di precedenti amministrazioni di saltare, almeno quel tratto critico, mediante un tunnel sub collinare (il compito del tunnel sarebbe anche più esteso stando ai suoi fautori). Ebbene, io proverei a rovesciare la questione per cui, anziché porla come soluzione viaria per risolvere un importante punto, molto critico sotto il profilo della mobilità veicolare, la proporrei in primis come soluzione urbanistico-paesaggistica intesa a valorizzare quel sito unico nella sua meravigliosa realtà e certamente tra i più rappresentativi delle
bellezze delle città italiane. È sottinteso che il modo proposto per risolvere la questione viaria non potrà che essere strettamente tecnico, pur nel totale rispetto per l’ambiente. Quindi, che sia un tunnel corto o lungo, invece di una strada in trincea o a livello, mi è indifferente. quello che interessa è che sia in grado di risolvere il problema viario e nel contempo, consenta di realizzare lo scopo, principale per me, di unire pedonalmente la città del Centro storico con quella della collina: Ponte Pietra con Castel San Pietro e il Teatro romano, il verde di piazzetta Molinari Bra con il verde della Giarina. Così che quando Verona avrà il suo “Museo della Città” negli ambienti allestiti in Castel San Pietro, ci si acceda a piedi attraversando uno spazio urbano paragonabile per qualità e bellezza a quanto offre Roma. Se poi, presi dal gioco, volessimo andare oltre, potremmo allargare il campo per prendere in considerazione la continuità funzionale tra Castelvecchio, il ponte Scaligero e tutto l’Arsenale – secondo un vecchio pallino, non solo mio, di una ovvietà lampante – e, perfino quell’ipotesi sull’Isola di Giulietta, ottenuta caratterizzando in modo medioevaleggiante quel tratto della città che ospita la casa del mito (il fatto che questa proposta non mi veda d’accordo non ha alcun peso). Sono certo che con una cartina della città in mano e facendo mente locale, in città ci siano molti altri siti che attendono l’occasione di apparire in tutta la loro bellezza attraverso un progetto di valorizzazione dello stato attuale, e penso che il più delle volte non occorra affrontare interventi impegnativi per le finanze comunali, ma solo credere fermamente che la conservazione della città passi dalla sua trasformazione. E che se non abbiamo il coraggio di affrontarla siamo perduti.
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Futura campanella Il comune di Albaredo d’Adige ha preso parte alla mega procedura concorsuale nazionale per l’individuazione del progetto finalizzato alla costruzione del nuovo polo scolastico 01
Testo: Alberto Vignolo
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i è conclusa all’inizio di quest’anno, con le seguenti code procedurali e ministeriali, la procedura che a livello nazionale ha portato alla scelta dei progetti per la realizzazione di ben 212 nuovi complessi scolastici, il tutto sotto la munifica copertura finanziaria del PNRR. “Futura: la scuola per l’Italia di domani” è il titolo significativo dato al concorso di progettazione in due gradi indetto dal Ministero dell’Istruzione tramite la piattaforma concorsi del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Tra i materiali posti alla base del concorso anche delle ambiziose linee guisa su “Progettare, costruire e abitare la scuola”, redatte da autorevolissimi componenti ma risolte di fatto in un elenco di auspici di buon senso e delle parole d’ordine del momento: una scuola di qualità, a basso consumo, sostenibile – poteva mancare? – una scuola aperta, attrezzata, connessa... tutte indicazioni ottime e condivisibili, rispetto alle quali in genere il discrimine è dato dai fondi a disposizione per la costruzione e soprattutto per la gestione, sia della scuola-edificio che della scuolacomunità didattica. All’interno di questo ampio sistema metodologico e organizzativo si colloca il comune di Albaredo
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d’Adige, l’unico selezionato nella provincia di Verona, con l’obiettivo di realizzare un nuovo polo scolastico comprendente sia la scuola primaria che la secondaria, distinte in due diversi corpi di fabbrica ma – auspicabilmente – organiche. L’area interessata dal progetto occupa circa 12.000 mq in contesto urbanizzato poco distante dal centro; su parte dell’area insiste l’attuale Scuola Secondaria Renato Simoni, della quale è prevista la demolizione
Progetto 1° classificato. Vittorio grassi architects 01. La biblioteca disposta attorno a uno dei vuoti cilindrici a doppia altezza. 02. L’atrio di ingresso-agorà con la gradonata tra i due livelli. 03. Veduta generale della nuova scuola in rapporto al contesto. 04. Il fronte principale con l’accesso all’edificio.
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Concorso di progettazione Giuria Veneto: Cosimo Damiano Mastronardi, Salvatore Artusa, Loredana Ficarelli (Presidente), Giuseppina Cannella, Leonardo Maruotti, Marco Pagnani
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FUTURA LA SCUOLA PER L’ITALIA DI DOMANI
COMUNE DI ALBAREDO D’ADIGE 1° CLASSIFICATO Vittorio Grassi Architects 2° CLASSIFICATO RECS Architects 3° CLASSIFICATO MIDE architetti
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analogamente alla non lontana Primaria Vivaldi. La sommatoria dei due istituti darà luogo a un complesso da 400 alunni, per un intervento complessivo di circa 9,5 milioni di Euro. La commissione giudicatrice incaricata della selezione su base regionale – per il Veneto, 12 siti da Albaredo a Zugliano (VI) – ha infine determinato la graduatoria tra i progetti partecipanti. Ad aggiudicarsi il concorso, e conseguentemente la progettazione nei vari step e la direzione lavori, è il raggruppamento guidato da Vittorio Grassi Architects, studio basato a Milano ma le cui radici affondano nell’esperienza del fondatore Vittorio Grassi all’interno del Building Workshop genovese di Renzo Piano. A seguire, tra i selezionati alla seconda fase, il progetto di RECS
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Progetto 2° classificato RECS architects 05. Veduta assonometrica generale. 06. Uno degli spazi aperti compresi tra i cluster delle aule. 07. Veduta esterna.
architects, studio con sedi italiane a Parma e a Milano, succursali a Dubai e a Belo Horizonte e uffici di rappresentanza in Cina a Pechino e Chengdu. Terzo gradino del podio infine per lo studio padovano MIDE architetti. Il confronto tra le proposte non può che essere sommario rispetto al lavoro approfondito e puntuale della giuria, il cui giudizio è sovrano. Il progetto vincitore ha puntato sulla compattezza del volume, sviluppando un edificio su due piani con una pianta ad L basata su tre navate inframezzate da due corridoi sull’ala principale e da uno solo sull’ala più piccola. Nell’ala più grande si collocano gli spazi della scuola elementare, mentre in quella più piccola la scuola media e, al piano terra, l’amministrazione in adiacenza all’ingresso. Nell’area libera di fronte alle medie sono collocati i campi esterni, in continuità col campo sportivo esistente; qui è previsto anche un futuro ampliamento dei volumi. All’interno della scuola, un atrio in comune tra elementari e
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medie, chiamato “agorà”, a doppia altezza e illuminato dalle grandi vetrate in facciata, permette l’accesso al primo piano attraverso le scale principali oppure di stazionare sulla gradonata che si caratterizza come uno spazio non solo di transito, ma anche di comunicazione e di interazione. Dal punto di vista architettonico, le facciate esterne sono ritmate da una successione di pannelli opachi intervallati da altri in lamiera metallica leggermente svasati, separati da snelli montanti che conferiscono verticalità all’edificio. Diverse le scelte del progetto RECS (secondo classificato). I cluster delle classi per elementari e medie sono distribuiti attraverso una galleria attrezzata anche come biblioteca. Infine MIDE (terzo classificato) punta su un impianto a matrice poligonale che si sviluppa attorno a una corte verde, con una “coda” rappresentata dalla nuova palestra da costruire in parte sul sedime dell’attuale scuola, una volta demolita. La corte è intesa come cuore degli spazzi collettivi e luogo di coesione tra i due istituti scolastici. E ora, come per tutti i lavori pubblici, si tratta di affrontare il faticoso iter dal progetto alla realizzazione.
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Progetto 3° classificato MIDE architetti 08. Veduta esterna del fronte con l’accesso principale. 09. Planimetria generali e schemi realizzativi per fasi. 10. Veduta della corte verde. 09
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Su un monte di plastica Un bizzarro progetto dei primi anni Settanta per la pratica dello sci alle porte della città si rivela inaspettatamente pionieristico di una realtà oggi sempre più diffusa Testo: Michele De Mori
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na volta a Verona si sciava sulla neve. Molti, infatti, ricorderanno gli impianti della Lessinia – dei quali rimangono ancora gli scheletri – che hanno permesso a migliaia di veronesi di approcciare gli sport invernarli. La prima struttura, uno skilift, fu realizzata nel 1964 a Bosco Chiesanuova in località Griez, a quota 1.267 metri grazie all’intraprendenza di Arrigo Dalla Valle. A questa segui, pochi anni dopo la BranchettoMonte Tomba, una moderna stazione sciistica con seggiovia biposto, quattro skilift e uno chalet. Lo sviluppo continuò anche nella vicina Conca dei Parpari, a Roverè Veronese, dove furono installate tre sciovie nei primi anni Settanta1. Chiaramente, gli impianti sciistici della Lessinia potevano funzionare solamente in presenza della neve – che cadeva abbondante in quegli anni – e quindi unicamente nella stagione invernale. Per ovviare questo “problema stagionale” uno dei più innovativi industriali veronesi, il commendatore Giordano Tomelleri aveva avuto l’idea di «realizzare un complesso sciistico funzionante tutto l’anno indipendentemente dalle più o meno favorevoli condizioni climatiche»2. Tomelleri era conosciuto per la sua creatività e lo spirito di innovazione, caratteristiche che lo avevano portato ad avviare in Borgo Venezia una società che operava nel campo della produzione di macchinari per la lavorazione automatica della frutta – la Meccanofrutta – inventando nuove attrezzature e registrando numerosi brevetti internazionali. La zona prescelta per la realizzazione di tale impianto non era, però, in Lessinia o su altre aree montane veronesi ma, bensì, in località Ponte
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01. Localizzazione del terreno sul versante ovest della dorsale Preafita, nei pressi di Montorio. 02. Inquadramento generale dell’impianto sciistico.
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trasformata in una realtà sempre più diffusa negli ambiti urbani, resa recentemente famosa dalla pista Copenhill realizzata sulla copertura del termovalorizzatore di Copenaghen, progettato da Bjarke Ingels6. Chissà se in un prossimo futuro si tornerà a discutere di sciare sulla plastica (biodegradabile) anche a Verona.
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03. Planimetria generale dell’impianto sciistico con indicate le diverse piste. 04. Edificio principale ad uso servizi e garni, prospetti laterali e sezione longitudinale.
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Florio, nei pressi di Montorio, sul versante ovest della dorsale della Preafita, poco distante dal Piloton, alla quota di circa 140 metri, interessando un’area di circa 35.000 m² di proprietà dell’industriale. La particolarità dell’impianto, che ne permetteva l’utilizzo per tutto l’anno, era dovuta alla realizzazione delle piste con «formelle di plastica poggianti sul terreno di studiate pendenze, in maniera da dare allo sciatore le stesse sensazioni piacevoli delle piste di neve»3. Questa pavimentazione di plastica sarebbe stata realizzata con pannelli di colore verde resi scivolosi dal continuo innaffiamento con acqua; nei punti di giuntura tra i pannelli era prevista la crescita di erba, in modo da integrarli con l’ambiente a verde circostante. L’impianto era composto da una pista per esercizi preliminari, una per principianti e due piste per i più esperti oltre ad una discesa per slittini. La lunghezza delle piste variava da 250 a 450 metri, con larghezza da 10 a 14 metri. L’ambizioso progetto, presentato agli uffici comunali il 9 gennaio 1970 per mano dell’ingegnere bolzanino Fausto Doga, contemplava anche la realizzazione di tre edifici a supporto dell’impianto per una superficie totale di 1.640 m². Il primo, posto a nord, era suddiviso in due blocchi: uno ospitava gli spogliatoi, i servizi, la palestra e un bar self-service che poteva contenere fino a 200 coperti; nel secondo blocco era previsto un garni (albergo che fornisce soltanto il servizio di prima colazione) con 22 camere. Quest’ultimo era pensato con «tetti sfalsati per dare una nota alpina all’ambiente» 4. Un secondo edificio, posto a sud, ospitava gli alloggi per il custode e per due maestri di sci; in ultimo, al centro del complesso, si trovava un belvedere composto da terrazza e piccolo bar «formato da una tipica piccola costruzione che ravvisi e s’intoni all’ambiente sportivo di montagna che si intende creare»5. Il progetto, però, non vide mai la luce; il suo iter venne rapidamente interrotto in quanto la destinazione non era compatibile con il Piano Regolatore. Una visione pioneristica, quella di Tomelleri, che oggi, a più di cinquant’anni di distanza, si è
All’epoca, lo sviluppo degli impianti sciistici nel veronese e nelle zone limitrofe era in piena espansione; si ricorda, ad esempio, il progetto “Recoaro 2000” ipotizzato nel 1969 e mai realizzato sul Carega. 2 Comune di Verona, Archivio Edilizia Privata, SK 28/1970, relazione tecnica, p. 2. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 4. 5 Ibidem. 6 Si rimanda all’attività della bergamasca società Neveplast, piste artificiali per lo sport e il divertimento, che ha installato i suoi prodotti in circa 1.900 siti in tutto il mondo. 1
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QUASI ARCHITETTI
Idee per il recupero urbano Il progetto per un’area dismessa posta nel quadrante orientale di Verona a Borgo Venezia suggerisce le potenzialità del disegno urbano quale strumento di rigenerazione e motore di nuove dinamiche sociali
Testo: Filippo Ambrosini, Denis Caprini Cura: Laura Bonadiman
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Nelle città moderna, il recupero urbano si presenta come una sfida complessa ma necessaria. Mentre su scala globale le metropoli crescono a ritmo serrato e la pressione sull’ambiente urbano diventa sempre più evidente, il recupero delle aree urbane esistenti emerge come un’alternativa intelligente e sostenibile per affrontare le complesse esigenze del futuro. Questa pratica diviene quindi risorsa per affrontare questioni quali il consumo di suolo, la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale. Tra i molti spazi che hanno perso il loro originario ruolo, spettatori passivi di un ritmo frenetico imposto dalla società contemporanea incapace spesso di valorizzare ciò che avrebbe un grande potenziale da esprimere, un significativo esempio è rappresentato a Verona dal complesso già sede della Croce Verde Verona e denominato “Fondo eredità Stegagno”, dal nome del benefattore che ha deciso di donarlo all’ente di pubblica assistenza volontaria. Un progetto elaborato come tesi di laurea ha previsto la riqualificazione dell’intero lotto di circa 8.000 metri quadri, fortemente caratterizzato da una componente storico industriale. Ad oggi il sito si compone di vari capannoni in uno stato di totale abbandono, con strutture fatiscenti e pericolanti. La ricerca si è focalizzata sulla riqualificazione della zona a nord del lotto mediante la costruzione ex novo di un complesso multifunzionale, mentre è proposta una possibile ristrutturazione delle due villette liberty presenti nell’area a sud a seguito della volontà espressa da Croce Verde di conservarle. L’obiettivo dell’ente di pubblica assistenza sarebbe quello di creare una “cittadella socio-sanitaria”
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01. Assonometria d’insieme del progetto di recupero urbano. 02. Fotopiano con inquadramento dell’area di progetto. 03. Il cancello d’ingresso alla ex sede della Croce Verde Verona. 04. Veduta a volo d’uccello del complesso “Fondo eredità Stegagno”, stato attuale.
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« Un “polmone verde” nel mezzo di un quartiere densamente urbanizzato vuole lanciare un messaggio positivo favorendo nuove dinamiche sociali» a disposizione della comunità, dove collocare la propria sede istituzionale e operativa. Il titolo dato al progetto, Green Lung, è emblematico dell’idea di dare vita a un polmone verde all’interno di un quartiere densamente urbanizzato e popolato. Il motore della trasformazione è dunque il verde, che funge da legante in un’ottica ecologica e di risparmio energetico, attra-
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verso l’utilizzo di energie rinnovabili e l’incremento di aree verdi a beneficio della cittadinanza nella sua totalità. La la piantumazione di numerose specie arboree e arbustive, circa cento tra alberi e piante, hanno l’obiettivo di generare un paesaggio urbano ricco di biodiversità e con un’al-
ta capacità di assorbimento di co2. La disposizione dei nuovi edifici segue uno schema morfologico a greca, definendo per negativo due ampie corti pensate come condensatori sociali, fruibili da un pubblico ampio e con lo scopo di rendere l’area un fulcro di interesse per gli abitanti
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QUASI ARCHITETTI 05. Sezione prospettica sugli edifici destinati a mercato e auditorium. 06. Pianta con l’attacco a terra degli edifici di progetto. 07. Sezione sull’edificio con il mercato rionale coperto. 08. Veduta della corte con gli orti urbani. 09. Veduta dello studentato.
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di Borgo Venezia. All’interno di una delle due corti è prevista la realizzazione di orti urbani di quartiere come incentivo di aggregazione per i futuri fruitori: dagli abitanti del quartiere agli studenti, fino ai lavoratori e ai volontari. Nei nuovi edifici il progetto prevede varie destinazioni, tra cui uno studentato comprensivo di mensa universitaria, voluta fortemente anche dall’associazione di pubblico volontariato. Un intero edificio è invece destinato alla sede istituzionale di Croce
Verde con relativi servizi: info-point, sala espositiva e aule modulabili per lo svolgimento di attività assistenziali, sala congressi e auditorium, oltre a un parcheggio sotterraneo per le ambulanze e gli altri mezzi assistenziali. Le villette esistenti a sud sono invece riservate a uffici, magazzini e archivi di Croce Verde. L’obiettivo di dar luogo a un polo attrattivo che incentivi la convivialità tra gli abitanti del quartiere ha portato inoltre a inserire una struttura per un mercato rionale coperto.
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ATENEO Università IUAV di Venezia Corso di Laurea Magistrale in Architettura PROGETTO GREEN LUNG: recupero urbano in Borgo Venezia, la trasformazione della sede di Croce Verde Verona in Via del Capitel AUTORI Filippo Ambrosini Denis Caprini RELATORI prof. Alberto Ferlenga prof. Emilio Antoniol (correlatore) ANNO ACCADEMICO 2020-2021
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Nell’intero complesso si è cercato di massimizzare il contatto internoesterno: al piano terreno infatti le ampie vetrate, caratterizzate dal disegno geometrico degli infissi in legno, garantiscono un dialogo continuo con l’ecosistema generatosi, rendendo gli spazi luminosi e vivi. Per gli abitanti del quartiere di Borgo Venezia e per le generazioni che verranno, riteniamo che sia necessario favorire dinamiche di sostenibilità ambientale e di risparmio energetico che migliorano la qualità della vita e che influenzano in maniera positiva l’ambiente circostante. In questo senso, un “polmone verde” nel mezzo di un quartiere densamente urbanizzato vuole lanciare un messaggio positivo, favorendo nuove dinamiche sociali nella comunità locale, aumentando così il raggio d’azione del processo rigenerativo.
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Architetti veronesi raccontano la loro esperienza professionale “fuori dalle mura”
Amburghese per caso
Un’origine germanica è il motivo iniziale dell’esperienza di Carlo Mardersteig nella città anseatica dove ha finito per stabilire la sua vita professionale
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Testo: Carlo Mardersteig Cura: Alberto Vignolo
Il protagonista dello StudioVisit/off di questo numero ci porta ad Amburgo, nel nord della Germania, città-stato sulle rive del fiume Elba ben nota alle cronache architettoniche anche recenti. Partendo da Verona, il suo percorso è stato però una sorta di ritorno all’antica patria della famiglia a cui deve il proprio nome, che non è certo ignoto – in particolare ai cultori dell’arte della stampa e della tipografia – per via del nonno, Giovanni Mardersteig, e della sua Stamperia Valdonega (ma questa è tutta un’altra storia). Attraverso i passaggi dalla formazione alla crescita professionale nelle sue varie tappe, assistiamo così al racconto della scena architettonica affacciata sul fondale di una grande metropoli nordeuropea.
Una “breve” esperienza Nonostante l’estetica del dettaglio, nel campo della stampa, sia stata quasi una ragione di vita per la mia famiglia, dopo due generazioni in questo ambito il passaggio alla terza mi ha dato la possibilità di scegliere l’architettura, pur non dimenticando nell’inconscio le mie origini. La “scoperta” dell’architettura risale a un episodio preciso nella mia memoria: nel 1985, a 13 anni, visitando con amici dei miei genitori una villa modernissima in calcestruzzo e legno nei dintorni di Udine. Da quel momento passo il mio tempo a spiare di nascosto i cantieri edili e, a scuola, a disegnare case (orribili), sopportando così gli anni del liceo scientifico. È quasi una liberazione l´iscrizione allo IUAV di Venezia nel 1990, una scuola che ho adorato: memorabili le lezioni con 400 studenti di professori come Francesco Venezia
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e Giuseppe Gambirasio, o le revisioni nei Giardini dei Tolentini dove si percepiva ovunque lo spirito di Carlo Scarpa (per non parlare della straordinaria vita notturna alternativa fra le calli veneziane…). Dopo una tesi sul riciclo dei materiali edilizi e un inizio di dottorato di ricerca subito messo da parte, capisco finalmente che la mia via è quella della progettazione. Il ritorno a Verona è solo una tappa guardando verso Milano: ma a un colloquio presso lo studio Gregotti Associati, visto il mio cognome mi consigliano di rivolgermi direttamente alla loro succursale di Berlino, dove architetti italiani di lingua tedesca erano molto ricercati. Purtroppo però il mio tedesco si limitava al cognome! Decido perciò dopo un corso intensivo di fare una breve (!) esperienza in Germania, e il caso vuole che approdi ad Amburgo: dove mi trovo a tutt’oggi.
L’approdo Lo studio dove ho iniziato a lavorare, Dinse Feest Zurl Architekten (1997-2005 e 2008-2011) è stato in realtà quasi una famiglia adottiva, grazie ai tre fondatori, allora cinquantenni, e a un gruppo di una ventina di architetti mediamente trentenni, che condividevano non solo le discussioni sui progetti per gli ultimi lotti rimasti non edificati dopo i bombardamenti della seconda Guerra mondiale, ma anche la vivissima vita notturna underground in stile londinese che caratterizzava l’Amburgo di fine anni Novanta. In alternativa (e non di rado) si passavano le notti a disegnare per i concorsi internazionali di architettura a cui prendevamo parte. A livello architettonico, DFZ perseguiva uno stile che gettava un ponte fra Carlo Scarpa e un minimalismo di derivazione scandinava, definendosi “classico moderno”. La mia vera formazione professionale è avvenuta qui, avendo la possibilità di progettare edifici che seguivo poi in ogni fase della realizzazione. Tra questi, a Berlino abbiamo recuperato quattro capannoni
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01. Edificio storico sul fiume Elba, schizzo per il recupero e l´ampliamento. Sulla destra, ritratto di Carlo Mardersteig (foto: Katrin Brunhofer). 02. Centro per l’auto d’epoca Meilenwerk a Berlino. 03. Schizzo per lo Shop SisiMizi ad Amburgo. 04-06. Teatro Ohnsorg: facciata, scala di collegamento interno e la sala (foto: Hagen Stier). 03
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07. Il prof. Volkwin Marg, cofondatore dello studio GMP (foto di Dario Aio). 08. Ripristino di una casa “Bauhaus” ad Amburgo, facciata. 09. Studio di fattibilità per il riuso di un “Bunker”.
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di un deposito di tram storico già destinati alla demolizione, facendone il centro multifunzionale dell’auto d’epoca Meilenwerk esteso su 16.000 mq; nel 2011 ad Amburgo, nel quartiere storico del Kontorhaus, realizziamo il teatro Ohnsorg, concepito come un corpo amorfo in legno scuro che custodisce al suo interno una sala da 420 posti, innestata in un edificio in pietra sotto tutela. L’esperienza con DFZ ha fatto maturare a pieno la mia iniziale passione per l’architettura, grazie alla libertà di progettare in un’atmosfera molto creativa, e anche grazie all’intenso dialogo con Isabell Feest, allora docente presso la scuola di architettura di Kiel. In parallelo, lo studio partecipava a mostre ed eventi come l’Architektur Sommer, manifestazione che ogni due anni propone ad Amburgo nei mesi estivi un fitto programma di eventi incentrati sull’architettura e rivolti al grande pubblico.
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Grande studio/piccolo studio Nel 2005 decido di fare una nuova esperienza, sfruttando per una volta la mia italianità a livello professionale e proponendomi a von Gerkan Marg & Partner, studio nato del 1965 ad Amburgo e sviluppatosi nel tempo come una delle realtà più attive a livello internazionali nel campo della progettazione architettonica. Ero venuto a conoscenza degli incarichi di GMP a Verona dopo la realizzazione della Fiera di Rimini, con il
progetto per il nuovo Ospedale di Borgo Trento e il masterplan per l’ampliamento della Fiera. L’idea di gettare un ponte verso l’Italia attraverso un grande studio specializzato nello sviluppo di progetti a scala globale mi affascina, e l’avventura ha inizio. Da GMP mi occupo quindi dei diversi progetti italiani allora in corso, e ho la possibilità di frequentare, soprattutto in occasione delle trasferte a Rimini, il professor Volkwin Marg, una figura assolutamente carismatica ed entusiasmante. In parallelo al lavoro negli studi, nel corso degli anni avevo svolto diversi progetti su commissione personale, sperimentando ulteriormente il costruire “dall’idea alla realizzazione” in prima persona. Così, dopo ulteriori quattro anni da DFZ, decido di mettermi in proprio facendo della mia formazione italiana un marchio: nel 2012 nasce lo studio Carlo Mardersteig Architetto (2012-2016). Ritornare a seguire in prima persona ogni fase dal progetto alla realizzazione mi entusiasma più del gestire a livello amministrativo un progetto più complesso. Con l’esperienza maturata, potevo offrire alla committenza di progetti medio-piccoli un’assistenza individuale che i grandi studi non potevano fornire, dal concept alla costruzione e anche al projectmanagement. Di questo periodo è il recupero e ampliamento di una villetta unifamiliare degli anni Venti a pianta quadrata (ad Amburgo viene
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10-12. Ampliamento della casa unifamiliare Kaffemühle (macina caffé): il nuovo volume verso la strada, veduta d’insieme dal giardino e veduta interna (foto: Hagen Stier).
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chiamata per la sua forma Kaffemühle, macina caffè), costruita in mattone faccia a vista scuro, alla quale viene affiancato un corpo a base rettangolare in intonaco bianco dove le aperture vengono raggruppate da differenti trattamenti delle superfici. Nel 2015 nel centro di Amburgo segue la ristrutturazione di un appartamento in un edificio Liberty vincolato, sempre ad Amburgo: qui, liberata la struttura originaria dalle superfetazioni degli anni seguenti, vengono inseriti nuovi elementi chiaramente leggibili, senza competere con gli imponenti ornamenti preesistenti. “pu-ma” In parallelo all’attività professionale, rimane costante nel clima culturale amburghese lo scambio di informazioni con altri colleghi anche attraverso il gruppo dei giovani architetti (AKJA, Arbeitskreis Junge Architekten) con il quale vengono realizzate mostre ed eventi al fine di suscitare l’interesse del pubblico per nuove idee progettuali. Proprio a partire da una
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di queste collaborazioni nasce nel 2016, assieme all’architetto Torben Pundt originario di Brema, il nuovo studio puma architekten (io sono il “ma”). Il mio socio porta nello studio un curriculum analogo al mio, e completa la passione italiana con il rigore tedesco. L’idea di dedicarsi a un mercato di nicchia con un concetto full service per il committente e soluzioni individuali viene ulteriormente sviluppato, ampliando il raggio di azione e il ventaglio di soluzioni da offrire. In linea di massima, ogni progetto nella fase iniziale viene valutato ed elaborato in maniera attiva in un dialogo costante da noi soci; nelle fasi successive vengono differenziate le competenze e il progetto viene seguito principalmente da uno dei due. La rete dei nostri committenti, che soprattutto nel settore privato spesso giungono attraverso referenze di lavori eseguiti in passato, è molto ampia e differenziata. Sostanzialmente, nel nostro lavoro sono da riconoscere due filoni principali: il recupero e la ristrutturazione di unità (abitative) preesistenti delle più svariate epoche (da fine Ottocento ai
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13. Recupero di un appartamento in stile Liberty (foto: Elke Sonntag). 14. Sala riunioni dell’edificio per uffici della società BGW (foto: Hagen Stier). 15-16. Ristrutturazione della Villa E53 a Eimsbüttel (Amburgo): veduta esterna e la mansarda.
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recuperi energetici di edifici anni Settanta) e il ripristino di architetture industriali. Esempi del lavoro sono il recupero di una tipica villa di fine Ottocento nel quartiere di Eimsbüttel ad Amburgo, o il recupero di una casa schiera in uno dei rari complessi edilizi degli anni Trenta che richiama il Bauhaus. Rispetto ai temi attuali della progettazione, nel recupero energetico degli edifici e nell’integrazione estetica dell’impiantistica e dei materiali coibentanti vediamo più che un limite una chance per l´architettura. Oggi anche in Germania il settore, a causa degli alti costi dei materiali e della mancanza di manodopera, è entrato in flessione: questa condizione suggerisce noi architetti di diventare più flessibili nell’offerta di servizi e di ottimizzare i processi di gestione del progetto.
Amburgo: la scena architettonica La struttura urbana di Amburgo fonda le sue origini nelle radici commerciali risalenti ai tempi della Lega Anseatica. La città odierna è costituita da quartieri con caratteristiche molto differenti, ognuno con un proprio centro, che nel tempo sono cresciuti assieme. Altona per esempio, che fino al 1864 era sotto il governo danese, è un quartiere molto vivo anche dal punto di vista socio-culturale. Dell’architettura storica pre-ottocentesca sono rimasti solo pochi edifici che si concentrano nel centro storico. A partire dal Novecento, con lo sviluppo dei rapporti commerciali con l’America, vengono lottizzate le aree al di fuori delle fortificazioni cittadine e costruiti interi quartieri caratterizzati da un gusto Liberty molto stilizzato. Tipici degli anni Venti sono invece i complessi residenziali di accento razionalista in mattone faccia a vista scuro, tra i quali spicca un edificio simbolo dell’epoca, il Chile Haus. Nella seconda guerra mondiale Amburgo viene bombardata pesantemente dagli Alleati; la ricostruzione offre
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17. Espressionismo del laterizio faccia a vista: la Chilehaus (1922-1924) dell’architetto Fritz Höger. 18. L’edificio HEW (1969) progettato dall’architetto danese Arne Jacobsen ad Amburgo. 19. Il nuovo simbolo di Amburgo: la Elbphilarmonie di Herzog & de Meuron, realizzata all’interno del progetto Hafen City.
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l’opportunità di sperimentare i nuovi concetti urbanistici della modernità, rigettando il classico isolato chiuso al cui posto nascono nuovi quartieri con un’edilizia aperta alternata ad aree verdi. L’architettura di Amburgo si apre poi verso l’internazionalizzazione, guardando in particolare ai vicini paesi scandinavi, subendo l’influsso del design nordico di Arne Jacobsen negli anni Sessanta. In tempi recenti, HafenCity è il più grande e ambizioso progetto di riqualificazione delle aree portuali e commerciali sul fiume Elba, realizzato sulla base di un masterplan dell´anno 2000 (redazione finale nel 2010) per l’edificazione di una superficie di 127 ettari con una molteplicità di funzioni. L´apice di HafenCity, tra le molte architetture firmate per una committenza facoltosa, è rappresentato dalla Elbphilarmonie, commissionata dalla città di Amburgo per sostenere la sua ambizione turistico-culturale e progettata dallo studio svizzero Herzog & de Meuron, completata nel 2016 e subito diventata “iconica”. Oggi, per gli architetti che vi operano, Amburgo rimane una città molto dinamica. Sull’edilizia residenziale, dopo anni di stallo, l´ex sindaco Olaf Scholz (l’attuale cancelliere tedesco) ha attivato nel 2016 un programma mirato a soddisfare il cresciuto fabbisogno di abitazioni per i ceti
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popolari. Purtroppo però il programma si è rivelato un trampolino per la speculazioni di grandi gruppi immobiliari, che hanno piuttosto realizzato abitazioni per i segmenti di reddito medio-alto, a differenza dell’intento iniziale. Se per le nuove costruzioni i tempi di sviluppo sono veloci, i vincoli legislativi sull’esistente sono sempre più restrittivi. Per impedire la trasformazione della struttura sociale abitativa e l’avanzamento della speculazione edilizia molti distretti del centro sono stati dichiarati “settori
a salvaguardia sociale”, con pesante limitazione degli interventi di ristrutturazione e iter burocratici piuttosto complessi. Amburgo è comunque una città molto varia e interessante per quanto riguarda il panorama architettonico. Per chi avesse intenzione di visitare la città anseatica, ricordo infine un tipico detto relativo al meteo (piove spesso): “non esiste il brutto tempo, ma solo l´abbigliamento sbagliato”. E soprattutto, occorre impratichirsi sul modo di salutarsi degli amburghesi: moooin!
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Impronta
LA BACHECA DI AV
Living. Space. Future. Impronta è un’azienda specializzata nella produzione di serramenti di design nata dallo spirito imprenditoriale e dall’unione di storie e talenti di un gruppo di artigiani nella storica cittadina di Treviso. Una realtà che si è sviluppata negli anni, grazie all’impegno e alla passione di un team che conta più di 60 persone. Modernità e tradizione si fondono in un’anima art-industriale, lo spirito artigiano si affianca alla tecnologia e all’innovazione dei processi produttivi. Un’anima che mira ad esaltare l’architettura contemporanea attraverso soluzioni che lasciano spazio alla luce riducendo l’impatto del serramento grazie a profili minimal dagli elevati standard tecnici. La costante voglia di migliorarci e di progettare soluzioni sempre più innovative ci ha permesso di collaborare con alcuni dei migliori studi di architettura italiani: Mide, Didonè e Comacchio Architects, Damilano studio e ddba Studio, che ci hanno scelti per incorniciare le proprie visioni architettoniche. Con la Divisione international valorizziamo invece il serramento Made in Italy in progetti internazionali, dal Medio Oriente agli USA. Presentiamo al mercato soluzioni tailormade, declinabili a seconda dell’utilizzo
Nelle immagini: Villa FG ddba studio Serramenti Impronta
dei materiali e della struttura architettonica scelta: legno, materia calda, icona di un’architettura più classica, senza tempo; legno minimal, contemporaneità con profili essenziali in abete, larice, red grandis, rovere o teak; alluminio, adatto a visioni moderne e dal design raffinato; legnoalluminio, connubio sinergico dei due materiali. Le collezioni si fondano sui 5 elementi di Impronta: design, luce, silenzio, benessere e sicurezza valorizzati in ogni nostro progetto per creare la cornice perfetta. Gli Atelier Impronta di Desenzano del Garda e Treviso sono il cuore delle collaborazioni con i progettisti e della consulenza ai clienti. Spazi aperti e poliedrici in cui vivere l’Impronta Experience, spaziare con la mente e immaginare sempre nuovi progetti e differenti soluzioni perfette per i nostri clienti. Sempre orientata al futuro, Impronta collabora con lo IED, Istituto Europeo di Design, insieme agli studenti del Master in Interior Design per un progetto dedicato alla finestra del futuro, tracciando nuove strade senza limiti di visione.
IMPRONTA S.R.L. VIA MANTOVA 4Q 25017 LONATO DEL GARDA (BS) T +39 0422 6066 WWW.IMPRONTAHOME.COM GARDA@IMPRONTA.INFO
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ADREMstudio - VR
Verona goes Piacenza: al Teatro della luce
ADREMstudio - VR
LA BACHECA DI AV
L’incontro con Davide Groppi presso la sua sede aziendale e la visita a due spazi espositivi nel capoluogo emiliano
Metà settembre, una calda giornata di fine estate e un classico torpedone pieno di architetti in movimento da Verona a Piacenza. La meta è Davide Groppi, ovvero la sede dell’azienda omonima di lampade – che ha uno dei suoi spazi esperienze a Verona presso Forme di Luce – ma anche un incontro con lo stesso fondatore e mentore del marchio, nato alla fine degli anni Ottanta partendo da un piccolissimo laboratorio nel centro storico di Piacenza e diventato col tempo simbolo di progetti originali e riconoscibili. La visita all’azienda, a contatto con le dinamiche produttive alla base di ciò che è poi destinato a diventare semplicemente “luce”, culmina poi nella visita al Teatro: così è denominato infatti lo showroom piacentino, sottolineando il carattere narrativo ed emozionale delle lampade Davide Groppi. La presentazione in forma di stand up comedy di Davide Groppi è un viaggio nell’estetica e nei significati di ogni progetto, in cui gioco e ironia sono l’anima del racconto.
IL LU M I N A ZI ON E
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DE SI G N
I L LU M I N A Z I ON E
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DE S I G N
Corso Milano, 140 - Verona - formediluceverona.it
Ma la gita-a Piacenza ha riservato ai Corso Milano, 140 - Verona formediluceverona.it
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partecipanti anche la visita a due spazi espositivi dove è intervenuto lo stesso Groppi per l’illuminazione. Volumnia è una galleria dedicata al design storico italiano che ha trovato sede all’interno di una chiesa rinascimentale sconsacrata: un volume immenso e affascinante, con gli oggetti posti tra le maestose colonne che si innalzano fino a dodici metri da terra. Decisamente più intimi gli spazi dell’Appartamento del Cardinale all’interno dello storico Collegio Alberoni, luogo di esposizione del nucleo più pregiato di una collezione che culmina nel capolavoro di Antonello da Messina, l’Ecce Homo.
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Dal 1890 EXCLUSIVE – CONCEPT – DESIGN
LA BACHECA DI AV
Sezionali - Basculanti - Serramenti - Carpenteria
Berti snc da oltre un secolo è l’eccellenza nella produzione di basculanti, sezionali e serramenti su misura. Con il suo brevetto risponde ai più severi standard di sicurezza oggi in vigore. Grazie alla conoscenza dei materiali e alla costante ricerca della perfezione offriamo una vasta gamma di soluzioni personalizzate per ogni cliente. L’azienda propone realizzazioni anche nell’ambito delle facciate residenziali, commerciali e industriali produce serramenti e infissi in alluminio affidabili e sicuri. L’estetica inoltre per Berti non è da meno. Importante per l’azienda è infatti creare un design d’impatto ed esclusivo in linea con le attuali tendenze dell’architettura.
BERTI SNC DI BERTI STEFANO VIA I MAGGIO 34 37012 BUSSOLENGO (VR) TEL +39 045 7150689 TEL +39 328 986 9051 WWW.BERTIVERONA.IT INFO@BERTIVERONA.IT
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2023 #04
Casa Capra falegnameria dal 1950 Falegnami figli di falegnami: un nome una garanzia da sempre 01-02. Il capostipite, Ettore Capra, e lo staff attuale. 03. Porta blindata motorizzata, classe 4, con pannello esterno in alluminio. 04. Ante battenti a tutto vetro per uno stile industrale minimalista. 05. Arredo su misura realizzato dalla nostra falegnameria. 01
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Forniamo un’ampia gamma di opere personalizzate: finestre e serramenti, porte interne e blindate, oscuranti e zanzariere, divisori d’arredo e porte in vetro, inferriate e opere di falegnameria, tutte garantite da certificate aziende del panorama internazionale. Casa Capra Falegnameria a Verona è presenza significativa nel mercato artigianale fin dal 1950, nata dall’esperienza, affidabilità, accuratezza e competenza di falegnami e figli di falegnami. In armonia con le esigenze della vasta clientela e in collaborazione con architetti e studi tecnici, progettiamo e realizziamo strutture per ogni ambiente, avvalendoci del nostro personale qualificato, per poter garantire nel tempo ottime rifiniture sia per i prodotti di nostra realizzazione che di marchi prestigiosi. Ci occupiamo con attenzione delle esigenze dei nostri clienti fin dalla fase di progettazione, successivamente nella fase di realizzazione e montaggio e infine con l’assistenza post-vendita. Con orgoglio valutiamo il buon “passaparola” come uno dei motivi principali della positiva crescita in tutti questi anni. Casa Capra rappresenta una delle aziende leader in Verona e provincia nella vendita di strutture per casa.
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LA BACHECA DI AV
Siamo una storica e significativa azienda ne mercato artigianale veronese di finestre, porte, strutture per la casa e l’arredo su misura d’interni. La prima falegnameria nasceva al Chievo nel 1950 per iniziativa di Ettore Capra; 28 anni più tardi inizia il mestiere di falegname anche il figlio Giorgio, che in pochi anni prende in mano le redini della azienda e che nel 1994 apre, con la moglie Nicoletta, il negozio in via Croce Bianca 31. Qui nasce il marchio Casa Capra. Negli anni successivi l’azienda si allarga, nuovi dipendenti entrano nello staff e con loro i tre figli di Giorgio. Nel 2016 la richiesta sempre maggiore di clienti desiderosi di affidarci tutti i lavori di casa spinge l’azienda ad ampliare ulteriormente i propri servizi: Casa Capra diventa “ristrutturazioni chiavi in mano”. La nostra azienda grazie alla competenza, professionalità, accuratezza del capostipite, del figlio e ora anche dei nipoti si è sempre più fatta strada nel panorama edilizio e nella positiva considerazione che tutti i nostri cari clienti ci hanno sempre dimostrato.
CASA CAPRA STRUTTURE PER LA CASA VIA CROCE BIANCA 31A 37139 VERONA TEL +39 045 890 1997 WWW.CASACAPRA.IT CASACAPRA@TISCALI.IT
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