2 minute read

Architettura a tappeto

Per chi ha già visto in apertura l’edizione 2023 della immarcescibile kermesse veneziana della Biennale di Architettura, ma anche per chi se la godrà nell’afa agostana o in versione decadente all’arrivo delle brume autunnali, non può mancare una riflessione che, al di là dei soliti lamenti – ma quelle prima erano meglio! – sappia fare tesoro della congerie di stimoli e sollecitazioni che ne derivano, nel bene e nel male. Del resto, ognuno riconosce il poco che è suo, sorvolando sul molto che non ha avuto o non avrà, o che non comprende: è la versione benevola di ciò che viene definito cherry picking Con questa consapevolezza, il rituale della riscoperta dei magici spazi dell’Arsenale o della quiete infranta dei Giardini – c’è chi ama partire da da una parte e chi dall’altra, per consolidato rituale – si compie a questo giro in un’atmosfera quasi soft: sarà la voluta laconicità di molti allestimenti improntati a un risparmio di risorse esibito come manifesto – sacrosanto, ma tendente a scivolare nel pauperismo –, o saranno le grandi quantità di superfici tessili, di tessuti e tappeti e feltri, di fili e trame e fibre intrecciate, tutto molto colorato ed etnico e decorativo, che vogliono parlare in senso molto generico di quella negritudine posta alla base dell’intero progetto curatoriale.

Advertisement

Di Biennali con architetti tutti “neri” se ne erano già viste tante: ma era il total look da architetto-vestitoda-architetto, per l’appunto, a dare questa dominate un po’ funerea. Stavolta invece il mood cromatico, al di là del colore della pelle che effettivamente tende all’abbronzato (come infaustamente potrebbe dire qualcuno) è decisamente acceso e vivace. Lo sono anche molte delle installazioni, accanto ad altre decisamente più terra terra, in senso letterale: ovvero fatte di accumuli di materia, di cataste di elementi di recupero, di trovarobato tra il pop e il folk, tutto comunque grazioso e interessante. Ma installazioni, appunto.

Non è una novità di questa edizione, ma lo vediamo in maniera sempre più estrema: l’aspettativa di vedere esposti bei progetti di architettura alla Biennale di Architettura pare diventata un’eresia. E non solo: per precisa scelta della curatrice Lesley Lokko, è stato bannato in questa occasione anche l’uso del termine architetto, nelle sue varie declinazioni, sostituito da quello un po’ opportunista di pratictioner. Pratictioner a chi? Sembra davvero che il buon senso sia finito al tappeto.

La traduzione di questo termine rimane in bilico tra “professionista”, soprattutto in termini medici, e “praticante”. Per chi predica la cura degli spazi potrebbe essere anche appropriato: ma ce lo immaginiamo un fantomatico Ordine dei Praticanti e Praticoni?

Di questa bella novità, sia pur condita in salsa veneziana – un saòr di inclusività, correttezza politica, sostenibilità, neutralità di genere e quant’altro necessario a essere moderne e moderni – non se ne sentiva davvero il bisogno. Già siamo sovraccarichi di etichettature settoriali tendente a incasellare ogni competenza in maniera sempre più rigida. E passi per i pianificatori, che poi sarebbero gli urbanisti di una volta, e i paesaggisti e i conservatori, questi ultimi comprendenti (o no?) i restauratori, ognuno sulle barricate del proprio fronte teorico. Ma come la mettiamo con i vari designer, urban o interior, industrial o graphic che siano? Con gli architetti del verde, del giallo, del rosso e del blu e di tutto l’arcobaleno? Di chi fa solo facciate e di chi invece si dedica al controllo dei costi o alla sicurezza dei cantieri? Eppure c’è un termine semplice e inclusivo, architetti: e basta, o se vogliamo quanto basta (q.b.), come il sale nelle ricette. E la Biennale di Architettura, che era nata come una gioiosa, accumulatoria, a volte faziosa ma indispensabile rassegna mondiale sullo stato dell’arte di costruire, a furia di inseguire la correttezza, che in questa edizione si veste di decolonizzazione e decarbonizzazione, rischia di dimenticarsi del suo specifico. Correttezza che è chiaramente e assolutamente necessaria, ma non sufficiente a fare una buona architettura, e una buona mostra. C’è ancora chi vorrebbe vedere una rassegna ampia e sistematica, senza tralasciare nulla: un’indagine a tappeto. •

This article is from: