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Design for peace
Lo studio veronese Abcplus ha preso parte al programma che ha dato ospitalità a giovani architetti ucraini nell’impegno congiunto per la progettazione di alcuni luoghi della futura necessaria ricostruzione
Design for peace è il motto evocativo e potente scelto come titolo per il bando indetto dal Consiglio Nazionale degli Architetti e dall’Ordine degli Architetti di Roma (con il sostegno del Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale della
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Presidenza del Consiglio dei ministri e con il patrocinio dell’Ambasciata d’Ucraina in Italia), finalizzato a ottenere una nuova possibilità di reinserimento lavorativo nel nostro paese per giovani professionisti ucraini under 35 in fuga dalla guerra.
Il programma prevedeva di associare cinque studi italiani ospitanti ad altrettanti giovani architetti profughi, affidando a ciascun abbinamento un edificio particolarmente colpito dal conflitto, al fine di proporre un progetto-concept nella prospettiva di una futura ricostruzione.
Tra i cinque team ospitanti selezionati anche il veronese Abcplus, che ha accolto all’interno del proprio gruppo di lavoro l’architetto Anastasia
Streelets Zamryka, giovane professionista proveniente da Kharkiv. Di questa esperienza
Damiano Capuzzo, co-founder dello studio, ci ha raccontato che prima del progetto è stato fondamentale lavorare sull’incontro, perché se l’idea di pensare un futuro per gli edifici è sicuramente virtuosa, insieme alle cose vanno ricostruite le persone e le relazioni. Fra i tanti scogli da superare ci sono stati la lingua, un diverso bagaglio culturale e non da ultimo l’ingombrante trauma della guerra, impossibile da ignorare. Solo dopo si è parlato di architettura mediando fra le diverse sensibilità nell’interpretare il costruito, nel percepire gli spazi e nel misurare quanto e come conservare un edificio.
Infatti, il lavoro realizzato da Abcplus e Streelets Zamryka si è concentrato sulla sede della facoltà di economia di Kharkiv, un edificio storico progettato a inizio Novecento da uno degli architetti ucraini più rappresentativi dell’epoca, che se per lo studio host rappresentava una tela tutta nuova su cui lavorare, per l’ intern non era altro che un pezzo della propria città di provenienza. Sono immaginabili le difficoltà di progettazione a distanza di un edificio che dopo i colpi della guerra conserva quasi solamente la facciata monumentale e le cui condizioni di stabilità sono intuibili ma non accertate. I limiti oggettivi però sono stati superati dalla speranza per il futuro, con i soli riferimenti di alcune foto e un rilievo laser scanner ottenuti con la collaborazione del rettore della stessa università. Seguendo anche la prospettiva del nuovo masterplan per la ricostruzione di Kharkiv affidato all’architetto britannico Norman Foster, il progetto passa dalla scala dell’edificio a quella urbana, creando nuovi flussi di attraversamento e nuove sinergie fra brani di città. Nel concept le facciate dell’edificio vengono conservate in memoria della storia passata, mentre all’interno del complesso si modifica il senso di quello che viene fatto accadere. Il progetto interviene svuotando la quota zero, in un processo in cui viene incorporato il parco antistante al complesso universitario, collegato a sua volta a una delle piazze più importanti della città. Il livello di penetrazione all’interno della corte centrale viene completamente aperto, abbassato e collegato con l’esterno tramite una scalinata, così da creare un attraversamento continuo non solo di studenti e accademici ma anche di cittadini. L’attacco a terra diviene una zona completamente sospesa che origina una piazza coperta pubblica contenente una multiforme offerta di destinazioni d’uso, che la rendono fruibile sia dalla struttura universitaria che indipendentemente da essa. Ai piani superiori vengono conservate le destinazioni accademiche con aule e spazi per l’insegnamento, per arrivare infine alla copertura che, interamente scoperchiata dal tetto, diviene terrazza destinata all’incontro fra le persone con spazi per lo studio e la socializzazione. L’edificio, denso di attraversamenti e relazioni, diviene manifesto dei valori di una società che vuole rinascere dalle ceneri della guerra. Lo scorso aprile, a Roma, durante il convegno “Costruttori di pace – Visioni di cooperazione professionale e rigenerazione sociale e urbana” è stata inaugurata la mostra che ha presentato il lavoro portato avanti dai cinque studi italiani e dai professionisti ucraini. Al di là della effettiva fattibilità costruttiva di tutti i progetti, tema che attualmente rappresenta un’incognita e che d’altra parte non vuole nemmeno essere il focus del bando, il messaggio che ha sotteso i progetti esposti ha un denominatore comune. L’architettura ha come caratteristica intrinseca un grande potenziale generatore, motore di tutte le grandi ricostruzioni post-belliche. Ma proprio perché architettura non è semplice costruzione, a fare la differenza è l’aspetto culturale che attraverso accoglienza, dialogo, relazione e confronto, diviene volano per la ricostruzione di una società consapevole, virtuosa e aperta che rifiuta la guerra e la distruzione. •