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8-06-2001

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Global

TRASPARENZA TRANSPARENCY

Il manager del futuro: leadership, visione strategica e intelligenza emotiva The manager of the future: leadership, strategic vision, and emotional intelligence

Projects La trasparenza in architettura: volumi aerei e spazio globale Transparency in architecture: airy volumes and global space

News Steven Holl e la Parallasse Steven Holl and the Parallax 150 anni di Cementos Rezola 150 years of Cementos Rezola Ciments du Maroc: qualità record Ciments du Moroc: record quality Asia Cement a Bangkok Asia Cement in Bangkok Ciments Calcia e l’ambiente Ciments Calcia and the environment

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www.italcementigroup.com

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor Sergio Crippa Comitato di redazione Editorial Committee Silvestro Capitanio, Antonio Carretta, Marielle Desmarais, Gérard Gosset, Jean-Pierre Naud, Ofelia Palma Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

■ Global ■

■ Projects ■

■ News ■

In questo numero ■

Trasparenza Transparency

In this issue ■

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aV

La guerra dei talenti

The War for Talent

Intervista a Roger Abravanel

Interview with Roger Abravanel

aV

Leadership da condottiero

Commander-in-Chief Leadership Skills

Intervista a Eric Salmon

Interview with Eric Salmon

Carlo Alberto Carnevale-Maffè

Il governo strategico dell’impresa

Strategic Management of the Business

aV

Lavorare con l’intelligenza emotiva

Working with Emotional Intelligence

Intervista a Daniel Goleman

Interview with Daniel Goleman

Roberto Vaccani

Antropologia del manager

Managerial Anthropology

Gillo Dorfles

Progetto immateriale

Immaterial Project

Testi a cura di Texts by Carlo Paganelli

Geometria al naturale

Natural Geometry

Progetto di Kisho Kurokawa Architect & Associates

Project by Kisho Kurokawa Architect & Associates

Nuove scenografie urbane

New Urban Set-Design

Progetto di Avery Associates Architects

Project by Avery Associates Architects

Esperanto architettonico

Architectural Esperanto

Progetto di Murphy / Jahn

Project by Murphy / Jahn

Visioni ad assetto variabile

Visions on a Variable Axis

Progetto di Santiago Calatrava Valls

Project by Santiago Calatrava Valls

Trasparenze in viaggio

Transparencies On the Road

Progetto di Samyn et Associés

Project by Samyn et Associés

La materia sarà immateriale?

Will Matter Be Immaterial?

Progetto di Massimiliano Fuksas

Project by Massimiliano Fuksas

La presenza dell’assenza

The Presence of Absence

Progetto di Fox & Fowle Architects

Project by Fox & Fowle Architects

La merce e la sua metafora

Merchandise and Its Metaphor

Progetto di Gunter Henn

Project by Gunter Henn

La parallasse attraversata dall’uomo

Man Crosses the Parallax

Architettura, Edilizia e Ambiente

Architecture, Building and the Environment

Emporium Tower: il più prestigioso Emporium Tower: Bangkok’s Ultimate complesso residenziale e commerciale Residential and Commercial Complex di Bangkok Marocco: Qualità record Morocco: Record Quality

Come coniugare ambiente e cemento: l’esperienza di Ciments Calcia

www.italcementigroup.com

Copertina, Kisho Kurokawa, il Museo delle Scienze della prefettura di Ehime

Cover, Kisho Kurokawa, Ehime Prefectural Museum of Science

Mixing Environment and Cement: the Ciments Calcia Experience

4 8 12 18 21 ■

28 30 40 46 52 64 68 74 78 ■

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Chiuso in tipografia il 31 maggio 2001 Printed 31 May 2001


In questo numero In this issue di André-Yves Portnoff* by André-Yves Portnoff*

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N

elle indimenticabili e profetiche “Lezioni Americane”, Italo Calvino consegnava ai posteri una lucida e nitida introduzione al terzo millennio, filtrata da cinque categorie: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Una definizione ante litteram del mondo di Internet, una metafora a cinque facce che può essere anche applicata alle aziende. Nuove imprese che, abbandonate abitudini e processi consolidati, hanno bisogno di nuovi strumenti, nuovi modi di pensare la propria attività. Si sviluppano concetti originali, come l’intelligenza emotiva di Daniel Goleman, un’attitudine indispensabile per i leader di domani, in alternativa e a complemento delle tradizionali abilità tecniche o razionali. Emergono inediti modelli strutturali, come l’organizzazione “a rete”, dove l’azienda è il nodo di un “sistema di creazione del valore” più ampio, che richiede, secondo Carlo Alberto Carnevale, nuovi modelli di governo strategico. Le imprese, sostiene Roger Abravanel, saranno progressivamente orientate sempre più alla globalizzazione e all’innovazione. Un concetto quest’ultimo, sempre più vasto, che si applica non solo alla tecnologia, ma anche ai processi interni e alle persone. Cambia infatti il ruolo del manager, sempre meno “amministratore” e sempre più un “condottiero”, che “convince i propri collaboratori a fare cose che essi considerano impossibili, e li aiuta a farle”. Una guida con grande visione strategica, chiarezza nella definizione degli obiettivi ed estrema reattività. Il profilo, delineato da Eric Salmon, si completa con l’approfondimento di Roberto Vaccani, con l’analisi, nell’area del lavoro, del rapporto tra impegno e piacere, alla ricerca di un equilibrio adeguato alle nuove realtà lavorative. Nella sezione Projects, il concetto di visibilità diventa assoluto nella trasparenza, ricerca architettonica di una maggiore comunicazione tra interno e esterno, primitivo bisogno che Gillo Dorfles segue fin dagli albori, tra esaltazioni e oblio, fino ad arrivare all’attuale esplosione. Gli schermi in lamiera stirata della stazione di servizio di Houten, il “curtain wall” del Charlemagne Building, le pareti vetrate rotanti di Autostadt, la città dell’automobile di Wolfsburg, sono l’espressione di un linguaggio che ha fatto dell’understatement il suo credo: ancora la leggerezza, all’insegna di un’architettura che tratta le superfici come informazioni. Pareti-medium, interfacce tra spazio abitativo e persone, con la trasparenza come “pelle” intelligente, che muta la fisicità del cemento in un “sogno della materia”, come nel Museo delle Scienze di Ehime. Per arrivare alla metafora urbana del Cinema IMAX a Londra, dove l’epidermide in vetro strutturale amplifica e riverbera all’esterno l’identità di un grande centro di comunicazione. Nelle News, notizie da tutto il mondo di Italcementi Group, con i 130.000 metri cubi di calcestruzzo forniti da Asia Cement per la costruzione dell’Emporium Tower, la cronaca delle celebrazioni per il 150° anniversario di Cementos Rezola, il Premio Nazionale della Qualità, attribuito a Ciments du Maroc, l’esperienza “ecologica” di Ciments Calcia e la mostra milanese di Steven Holl nell’ambito degli “Incontri Millennium”.


I

n his unforgettable and prophetic “Lezioni Americane” (American Lessons), Italo Calvino created a lucid and straightforward introduction to the third millennium which he filtered into five categories: lightness, rapidity, exactitude, visibility and multiplicity. It can be considered an ante litteram definition of the world of the Internet; a five-faced metaphor that can also be applied to companies. These are new businesses that, abandoning habits and consolidated customs, have developed a need for new instruments; new ways of thinking about their work. Original concepts are being developed, like Daniel Goleman’s emotional intelligence; an indispensable attitude for tomorrow’s leaders; an alternative and potential complement to traditional technical and rational abilities. Unexpected structural models emerge, like the “network” organization in which the company is a knot within a greater “value-creation system,” one that requires, according to Carlo Alberto Carnevale, new models of strategic management. Businesses, Roger Abravanel believes, will become progressively and increasingly oriented toward globalization and innovation. This last idea is an increasingly vast concept that is being applied not only to technology, but also to internal processes and people. In fact the manager’s role is changing; he is becoming increasingly less an “administrator” and increasingly more a “leader” – one who “convinces his employees to do things that they consider impossible, and, furthermore, he helps them to accomplish these things.” He will be a guide with great strategic vision, clarity in the definition of objectives and possessing extreme reactivity. The profile, outlined by Eric Salmon, is completed within the in-depth examination by Roberto Vaccani, including an analysis of the relationship within the work area between commitment and pleasure, to the search for a balance that is adapted to the needs of the new work realities. In the Projects section, the concept of visibility has become absolute in transparency, architectural research for greater communication between inside and outside; a primitive need that Gillo Dorfles follows from its origins, between exaltation and oblivion, until reaching the current explosion. The expanded metal screens in the Houten gas station, the “curtain wall” of the Charlemagne Building, the rotating glass walls in Autostadt, the car city in Wolfsburg, are the expressions of a language that has made understatement its credo: lightness again, in the name of an architecture that treats surfaces as if they were information. Wall-mediums, interface between living space and people, with the transparency acting as an intelligent “skin,” capable of mutating the physicality of cement into a “dream matter” as in the Ehime Museum of Science. In order to arrive at an urban metaphor for the IMAX Cinema in London, in which the outer layer in structural glass amplifies and reverberates the identity of a great communication center to the external world. The News section, containing information from all over Italcementi Group’s world, features the 130,000 cubic meters of concrete supplied by Asia Cement for the construction of the Emporium Tower, chronicles of the celebrations for Cementos Rezola’s 150th anniversary, the National Prize for Quality given to Ciments du Maroc, the “ecological” experience of Ciments Calcia and the exhibition by Steven Holl in Milan, Italy within the framework of the “Incontri Millenium.”

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Global

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La New Economy ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nelle strategie e nei valori delle imprese. Cambia il business, cambiano mercati e consumatori e cambiano i modelli di governo dell’impresa. Meno manager e più leader, i condottieri dell’impresa del futuro dovranno essere dotati di visione strategica, dinamicità, velocità di cambiamento, ma soprattutto alta capacità di governo emotivo indispensabile per infondere forza al mandato organizzativo, entrare in contatto con i collaboratori motivando ed incoraggiando i talenti. Per guidare uomini e organizzazione verso un obiettivo comune. arcVision ne ha voluto parlare con Roger Abravanel, Eric Salmon, Carlo Carnevale, Daniel Goleman e Roberto Vaccani. The New Economy has represented a true revolution in the strategies and values of businesses. Business is changing, as are markets, consumers and the management models used by many companies. Less management and more leadership; business leaders of the future must be capable of strategic vision, dynamism, swift change and above all they must possess a high level of emotional management – an indispensable talent for infusing the organizational mandate with strength, making contact with coworkers and motivating and encouraging talent. They must be able to guide men and organizations toward a common objective. arcVision chose to talk about these issues with Roger Abravanel, Eric Salmon, Carlo Carnevale, Daniel Goleman and Roberto Vaccani.

La guerra dei talenti The War for Talent Intervista a Roger Abravanel* Interview with Roger Abravanel*

Governo dell’impresa, attenzione agli azionisti e capacità di innovare. Ma soprattutto leader capaci di portare l’azienda al successo Corporate governance, focus on shareholders’ expectations, the capacity for innovation and above all, leaders capable of leading a company to success

Roger Abravanel

L

a New Economy rappresenta un taglio, una cesura nel modo di fare business, ma anche nel modo di impostare e organizzare l’azienda per far fronte ai rapidissimi mutamenti dei mercati e dei consumatori. Al termine dell’attuale fase di ridefinizione di strategie e valori, il panorama che emergerà sarà profondamente diverso da quello di alcuni anni fa, ma anche da quello che abbiamo osservato nel recente passato. In cosa tenderà a differenziarsi l’impresa del futuro da quella di ieri e di oggi? L’impresa di domani si baserà su caratteristiche di forte evoluzione rispetto ad alcuni fattori fondamentali. Ma uno di questi appare in prospettiva come quello determinante e sarà la capacità di rispondere alle attese dei mercati dei capitali. Abbiamo vissuto una fase di passaggio rispetto alla New Economy, con il risultato che i mercati finanziari di domani saranno più forti, ma anche più esigenti rispetto a quelli di ieri. Le imprese innovative verranno nuovamente valutate con criteri di performance reale, lontani dai valori di fantasia che hanno caratterizzato gli

ultimi anni. Purtroppo, abbiamo assistito a una fase di elevata volatilità legata a forti speculazioni operate da alcune aziende, o da consulenti e guru poco seri, così come da società finanziarie. Ora torna ad emergere come criterio rilevante lo shareholder value, cioè la capacità di creare valore per gli azionisti e risponderne di fronte al consiglio di amministrazione e agli stessi azionisti. Può sembrare banale, ma le imprese che sapranno farlo avranno sicuramente più successo, e più duraturo, rispetto alle altre. Questa evoluzione riguarderà in modo indistinto tutti i settori e tutti i Paesi? Naturalmente vi saranno differenze di velocità sia tra settori che tra Paesi, ma la tendenza è quella che ho descritto. Ma è la realtà stessa che impone queste regole, determinate dalle prime fasi del processo di globalizzazione cui abbiamo assistito negli anni passati. E questa evoluzione sarà tanto più importante in quanto il processo di globalizzazione tenderà ad accelerare. Oggi possiamo dire che solo il 20% dei settori sono impostati in

modo globale, ma entro dieci anni saranno almeno l’80%. Settori che siamo abituati a considerare locali scenderanno in campo su scala internazionale. Un esempio estremo, che siamo abituati a considerare del tutto legato al luogo, è quello delle pompe funebri; ebbene, cominciamo a vedere strategie di espansione globale di queste imprese. Ed è un processo inarrestabile, fertilizzato dall’abbattimento delle barriere, dalla comunicazione universale, dai mercati dei capitali globali ma, soprattutto, da una domanda dei consumatori sempre più globalizzata. Quando si parla di New Economy si usa un termine generico che abbraccia molti fenomeni, il più rilevante dei quali è sicuramente l’innovazione tecnologica. In che modo impatta l’innovazione sull’impresa del futuro? Non c’è dubbio che il fattore innovazione determini il successo o l’insuccesso delle aziende. Tutte le imprese di successo sono organizzazioni orientate all’innovazione, intesa nel suo significato più ampio e, dunque, sia di tipo tecnologico che di tipo non tecnologico. Innovare significa lanciare sul mercato nuovi prodotti, o produrre in modo nuovo e più efficiente vecchi prodotti, ma significa anche gestire in modo innovativo l’organizzazione, posizionarla nel mercato in modo adeguato all’evoluzione della domanda e via dicendo. Insomma, l’innovazione si traduce nel dare ai clienti sempre qualcosa di nuovo sia in termini di prodotto che di processo, a prezzi più bassi e con un servizio più alto; significa anche organizzare l’azienda sul Web se questo porta a un migliore contatto con i mercati, con i clienti,


i partner e i fornitori. In quest’ambito, la tecnologia risulta il fattore centrale perché è abilitante del cambiamento ed è spesso premessa per il successo. Le idee innovative non nascono in un vuoto pneumatico. Una recente indagine ci ha rivelato che il 70% delle nuove idee nascono da persone inserite in aziende che sono orientate all’innovazione; è in quell’ambiente che nascono di frequente anche i nuovi imprenditori che inizialmente tentano di sviluppare l’innovazione nel loro contesto, ma qualora non ci riescano decidono poi di svilupparla per conto proprio, creando un’azienda più innovativa. Per questo motivo è fondamentale per ogni organizzazione sapere riconoscere, valutare e valorizzare queste figure di innovatori. Infine, è divenuto essenziale sapere accedere alla tecnologia, che nasce in spazi diversi come le università, i centri di ricerca, le nuove imprese, gli incubatori. È più importante l’organizzazione o sono più importanti i talenti? Quella dei talenti è la grande sfida per tutte le organizzazioni, per cui la domanda può essere presa dalle due parti, nel senso che l’organizzazione non si evolve, se non sa riconoscere i talenti e questi non riescono a esprimersi senza l’organizzazione. In una fase di crescita regolare e moderata, o in un periodo di ristrutturazione e disciplina, la gestione del personale si preoccupa assai poco di riconoscere i talenti emergenti. In una fase di forte cambiamento dei mercati e delle tecnologie, la ricerca dei talenti diventa invece un punto cruciale. Attenzione, però, perché

gestire i talenti è una cosa completamente diversa dal gestire il personale; in questo senso, la guerra dei talenti è già in atto e la vinceranno le organizzazioni che sapranno fare quanto detto finora: e cioè, soddisfare le attese dei mercati dei capitali, divenire aziende autenticamente globali e sapere impostare l’organizzazione verso l’innovazione. Da qui poi si parte con la problematica specifica della guerra dei talenti, che è fatta di capacità di reclutamento, motivazione, coinvolgimento, formule di compenso e via dicendo. La scarsa capacità di valorizzare i talenti si scontra spesso con il desiderio di molti manager e imprenditori di non perdere porzioni di potere o di controllo sull’azienda; il che ha frequentemente, come corollario, situazioni poco chiare e per nulla trasparenti, con effetti negativi anche sull’immagine esterna e il valore dell’azienda stessa. Come vede questo problema? Si tratta di una tematica scottante e che ricade, in linea generale, sotto il cappello della corporate governance. Un’azienda poco gestita o gestita in modo non condiviso è un’azienda a sconto rispetto ad altre. Abbiamo concluso da poco una ricerca sul valore delle imprese in rapporto alla relativa corporate governance e abbiamo scoperto che spesso gli azionisti sarebbero disponibili a pagare un premio anche consistente per un’azienda meglio governata; e questo premio varia da Paese a Paese, è del 30% in India, del 20% in Italia e del 10% in Gran Bretagna, dove si considera che le aziende siano meglio gestite. Quali sono le regole di una buona

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corporate governance? Certo la trasparenza, la tutela delle minoranze azionarie, meccanismi di merito e non di successione dinastica, garanzie rispetto al capital market, contendibilità sul mercato. Quest’ultimo elemento è di norma trascurato, ma è uno dei principali, perché la presenza di interessi forti costituiti in patti di sindacato compromette la possibilità di una rappresentanza di interessi minori raggruppati, ad esempio, dai fondi e dagli

investitori istituzionali. Questo è, ad esempio, un forte limite tipicamente italiano. Il manager dell’impresa del futuro: come lo vede? In questo vorrei essere molto preciso e sintetico: dovrà essere molto più leader e molto meno manager. Spieghiamoci. Il manager è colui che gestisce, amministra, controlla; il leader è colui che conduce i suoi uomini al successo, li motiva, li convince. Ricordo la definizione di Percy


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Barnevik, uno dei migliori manager che l’Europa abbia mai avuto e che diceva che il leader è colui che convince i propri collaboratori a fare cose che essi considerano impossibili, e li aiuta a farle. È di queste persone che le aziende avranno sempre più bisogno, e cioè di leader capaci di visione, in grado di comunicare, motivare ed incoraggiare i talenti. Ma, non dimentichiamolo, anche di costruire attorno a sé e all’azienda un social network di condivisione di valori e obiettivi nel senso descritto da Daniel Goleman nel suo saggio sull’intelligenza emotiva. * Roger Abravanel è direttore della società di consulenza strategica McKinsey in Italia. Laureato in ingegneria chimica al Politecnico di Milano, ha ottenuto il master con lode in Business Administration all’Insead di Fontainebleau. Ha pubblicato molti saggi su temi di competitività, strategie globali e corporate governance su riviste accademiche e di management e svariati articoli su importanti quotidiani, tra cui Il Sole 24 Ore. ■ ■ ■ ■ ■ ■

T

he New Economy represents a break with the past and a change in the old way of doing business. It also signals a shift in the operation and organization of a business. Companies are faced with rapidly changing markets and consumer tastes. The current phase of redefining strategies and values will

result in a business setting profoundly different from that of several years ago and even from that which we have most recently observed. In what ways will tomorrow’s business differ from that of yesterday and today? The business of tomorrow will be characterized by strong evolution in several fundamental factors. From our current perspective, one of these elements appears to be decisive – the capacity to respond to capital market expectations. We have lived through a transitional phase with respect to the New Economy resulting in financial markets of the future that will be stronger and more demanding than those of yesterday. Innovative businesses will be re-evaluated according to real performance criteria that are a far cry from the frivolous values that have marked the past few years. Unfortunately, we have been witnessing a phase of rising volatility linked to heavy speculation on the part of some companies, consultants and unprofessional gurus, as well as financial companies themselves. Now we are witnessing the re-emergence of shareholder value as a revealing criterion. This is best described as the capacity to create value for the shareholders and at the same time be liable to the board of directors and the shareholders. It may seem common, but the businesses that adopt these

codes will undoubtedly have greater and longer-lasting success than businesses that do not.

markets and, above all, by consumer demand that is proving to be increasingly international.

Will this evolution apply indifferently to all the various business sectors and assorted countries? Naturally, the rate of change will be significantly different among various sectors and countries, but the general evolutionary tendency will remain just as I have described. However, reality imposes these rules and regulations which are determined by the first phase of the globalization process already witnessed in preceding years. And this evolution will prove increasingly important as the globalization process continues to accelerate. Today we can say that no more than 20 percent of the sectors are organized on a global scale, but within the next ten years this number will grow to at least 80 percent. Industries that we have usually considered “local” will expand to operate on an international scale. One extreme example, usually viewed and classified as fundamentally local, is the operational scope of funeral parlors. Nevertheless, we are observing global expansion strategies in these types of businesses. It is an unstoppable market force, fed by the breakdown of pre-existing barriers, universal communication, global capital

When we speak about the New Economy we are using a generic term that encompasses many different phenomena, the most revealing being undoubtedly technological innovation. How might innovation influence the businesses of the future? Undoubtedly, the ability to innovate determines the success or failure of a business. Each flourishing company is an organization oriented toward innovation in its broadest sense, whether technological or non-technological. Innovation means launching new products into the market, or manufacturing established products in a new, more efficient way. But it also defines the management of an organization in a new way, positioning it in the market so that it is compatible with the evolution of demand and other market forces. Essentially, innovation means always providing the client with something new, both in terms of product as well as process, at lower prices and with improved service. It also signifies organizing the company on the World Wide Web if this brings about better contact with the market, clients, partners and suppliers. In this environment, technology proves to be the


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central factor because it allows for change and is often a requirement for success. Innovative ideas are not born in a vacuum. One recent survey revealed that people who work in innovation-oriented companies introduce 70 percent of all new ideas. This is the kind of setting that breeds new entrepreneurs. They are people who initially attempt to develop innovation in their given context but who, upon encountering barriers or limitations, decide to elaborate their ideas on their own, creating an even more innovative company. It is, therefore, fundamental that every business be able to recognize, evaluate and seize the opportunities presented by these innovative personalities. Finally, it has become an essential skill to access the technology born in places as diverse as universities, research centers, new businesses and incubators. Which is more important – the company or its talent pool? The question of talent is one of the great challenges for any business, and it can be tackled from two sides – an organization does not evolve if it cannot spot talent, and talent cannot develop without the company’s assistance. In a regular – or moderate – growth phase, or in a period of restructuring and strict

control, personnel management is barely or not at all concerned with recognizing emerging talent. In a period of strong market or technological change, the search for new talent suddenly becomes a crucial and deciding factor. Beware however, because managing talent is completely unrelated to managing personnel. In this sense, the battle over talent is already being waged and will be won by global and innovative businesses that are able to satisfy the expectations of capital markets. From this point on we must start to examine the specific problems entailed in the quest for talent – recruitment capabilities, motivation, involvement, compensation packages, to name a few. A limited ability to value talent often conflicts with the desire of many managers and businessmen to hold on to their share of power or control of the company. Consequently, this aspect leads to the development of misdirection, which in turn has a negative impact on the company’s external image and value of the company itself. What are your opinions regarding this problem? Here we are dealing with a hot topic that generally falls under the heading of corporate leadership. A poorly managed company, or a company that is run without consensus by

everyone involved, is a disadvantaged company with respect to its competition. We have recently concluded a research study on the value of a company in relation to its corporate leadership, and we have discovered that more often than not, shareholders would willingly pay a premium, even a consistent sum, for a better-managed company. This premium varies from country to country, running from 30 percent in India to 20 percent in Italy and 10 percent in Great Britain, where companies are believed to be better managed. What are the rules of good corporate leadership? Undoubtedly they would include transparency, safeguarding the interests of minority shareholders, merit reward mechanisms rather than dynastic succession, guarantees for capital markets and competitiveness in relation to the marketplace. This last element usually receives little attention, but it is one of the principal factors involved because the presence of strong interests represented by syndicates compromises the possibility of representing smaller grouped interests such as those of funds and institutional investors. This is, for example, a powerful and typically Italian limitation. How would you define the company manager of the future? Here, I would like to be very precise and concise: the

manager of the future must be much more of a leader and much less of a manager. Let me explain. The manager is the person who manages, administers, and verifies. A leader is a person who guides his people to success. He motivates them. He convinces them. I am reminded of the definition given by Percy Barnevik, one of the best managers that Europe has ever had. He stated that a leader is someone who convinces his co-workers to do the impossible, and then helps them to achieve precisely that. Companies will experience a growing need for just this kind of person, that is, for leaders capable of vision, able to communicate with, motivate and encourage the talent. But – and we must not forget this – they must also be able to build around themselves and the company a social network of shared values and objectives as described by Daniel Goleman in his essay on emotional intelligence.

* Roger Abravanel is director of the Italian unit of McKinsey, a strategic consulting firm. He holds a degree in chemical engineering from the Politecnico di Milano (The Milan Polytechnical University), and a master’s in business administration with honors from the Insead of Fontainebleau. He has published numerous essays on the subject of competitiveness, global strategies and corporate governance in both academic and management journals, as well as various articles in leading daily newspapers including the Italian Il Sole 24 Ore.


Leadership da condottiero Commander-in-Chief Leadership Skills Intervista a Eric Salmon* Interview with Eric Salmon*

Come sarà il manager di domani? Un leader capace di guidare uomini e organizzazione verso un obiettivo comune What will tomorrow’s manager be like? A leader capable of guiding employees and the organization toward a common objective

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Eric Salmon

I

l contesto in cui operano le imprese in tutto il mondo, ma specialmente nei Paesi più avanzati, sta cambiando con estrema rapidità. Da un lato la globalizzazione dei mercati e l’informazione in tempo reale, da un altro lato le tecnologie legate alle reti, impongono nuovi stili e nuovi modi di concepire la leadership. Come cambiano le skills richieste al manager nell’impresa del futuro? Innanzitutto vorrei chiarire un punto importante. Si è molto spesso parlato di una New Economy a proposito delle nuove realtà di Internet e della rete e se ne è almeno in parte esagerata la natura. In un certo momento mi ha ricordato la Nouvelle Cuisine, una bella presentazione in un piatto, ma con poca sostanza. Non dico che la New Economy sia come la Nouvelle Cuisine, ma certamente sono felice che ora sia in atto un ridimensionamento, che porta a ricordare, se non a capire, che Internet in sé è un mezzo e non un fine. Dunque, Internet è un ottimo sistema per gestire le aziende e per comunicare, e non si torna indietro. Occorre integrare le nuove tecnologie con la realtà economica di fondo, la nuova

economia con quella tradizionale. È questa la sfida che abbiamo davanti. In quest’ambito come cambiano le caratteristiche del management e, soprattutto, del top management? Una prima conseguenza è una nuova esigenza che i manager si trovano davanti di sapere comunicare, con i dipendenti, con il consiglio d’amministrazione e con la proprietà. Sempre più il manager deve essere come il direttore d’orchestra, sempre meno il genio creativo che vive nella campana di vetro e invia sporadici messaggi al di fuori. Occorre che il manager sappia guidare una squadra e sappia ricavarne il meglio, comunicando in modo chiaro gli obiettivi dell’azienda e facendo in modo che tutti i dipendenti vi aderiscano. D’altra parte, chi lavora in un’azienda oggi desidera conoscerne gli obiettivi; l’intera catena del sapere si è innalzata ed è indispensabile tenerne conto. Al top management si chiede dunque una grande capacità di guida e un’ampia visione; ma certo non viene meno la necessità del sapere

specifico, legato alla precisa funzione e professionalità di ogni singolo manager. Come cambierà, se cambierà, il mix tra queste due caratteristiche? È bene distinguere, perché la caratteristica del direttore d’orchestra capace di comunicare e di motivare ha più riferimento rispetto all’interno dell’azienda; rispetto all’esterno si continua a chiedere, e in misura crescente, che il manager abbia una visione strategica, perché i tempi di reazione del mercato e della concorrenza sono sempre più rapidi e se non si possiede una visione strategica ne conseguono delle scelte sbagliate. Quindi sono indispensabili delle conoscenze specifiche che consentano di definire e ridefinire la direzione strategica in cui sta procedendo l’impresa, per modificarla rapidamente non appena diventa necessario. Questa caratteristica, porta a cambiare il mix delle conoscenze professionali? Non credo, perché ogni manager proviene da un suo percorso di specializzazione, ma deve sapere evolvere in modo sempre più sofisticato per arrivare a possedere una visione e una capacità strategica, in una parola quella che chiamiamo la leadership. Guidare una squadra non è un problema di coordinamento, ma appunto di leadership. Vi è chi sostiene che nell’impresa di domani, ma più in generale nel mondo di domani, occorrerà sempre di più sapere cambiare: cambiare specializzazione all’interno di un’organizzazione, ma anche cambiare più spesso che in passato il proprio

posto di lavoro, e questo significa non solo apprendere, ma imparare a imparare con un processo continuo. È d’accordo con questa visione? A mio parere esistono due approcci differenti alla questione, uno più “latino” e uno più “anglosassone”. Il primo vede la carriera di un individuo in modo più lineare ed è quanto noi verifichiamo in Paesi come Francia o Italia, ma in generale nell’Europa continentale; si parte in una certa funzione, come il marketing o la finanza, e poi ci si deve in qualche modo liberare delle proprie caratteristiche per diventare un manager generalista capace di avere visione e di guidare l’impresa. Il mondo anglosassone è un po’ diverso e si concepisce la carriera in modo meno continuo e più “a pacchetto”, se posso usare questo termine. Una carriera può iniziare in azienda, può raggiungere determinati livelli di responsabilità, per sfociare poi in una nuova esperienza imprenditoriale, che a sua volta può essere a tempo e consentire un successivo reinserimento in un’organizzazione. La carriera è meno specialistica e meno lineare, anche se la preparazione di base non è meno completa. Questo pragmatismo tipico del mondo anglosassone è visto in Europa con qualche sospetto. Vede una convergenza tra questi due modelli nell’impresa del futuro? Penso di sì, anche se da noi verifichiamo una certa resistenza. Ma indubbiamente, la rapidità dei percorsi di carriera, che è una caratteristica del mondo anglosassone, sta arrivando anche in Europa, sotto l’influenza dei mercati finanziari, delle nuove idee


di corporate governance, dell’azionariato che è sempre più presente, specie attraverso i fondi. E, come si diceva prima, occorre che i manager imparino a cambiare e a non considerare il cambiamento solo come un rischio, ma soprattutto come una opportunità. È difficile che in futuro possa ancora darsi il caso di un manager che inizia la propria carriera in un’azienda e la svolga interamente fino ad accedere al massimo livello nella stessa azienda. La rapidità e la drammaticità delle svolte dei mercati o gli improvvisi cambiamenti nella struttura dell’azionariato sono tutti eventi ormai comuni, che provocano delle rotture che non consentono più questa continuità. E chi non è capace di adeguarsi rimane indietro. Quali implicazioni ha questo fenomeno sulle caratteristiche della formazione del manager? Vedremo sempre più il mondo organizzarsi da una parte in gruppi molto grandi e dall’altra in aziende molto più piccole di tipo imprenditoriale, anche attraverso spin-off e Lbo. E le caratteristiche conoscitive del manager saranno diverse nel primo rispetto al secondo caso. Arriverei a dire che sarebbe bene che il futuro manager pensasse prima a quale tipo vuole appartenere e vi si preparasse in modo specifico: mi sento un manager di grande azienda o un animale da nuova impresa? Nel primo caso la preparazione conseguente è quella che si ottiene nelle grandi università, nei master post-laurea, con esperienze di tipo globale che possono essere vissute anche con esperienze in grandi società di consulenza; nel secondo caso questi percorsi formativi sono meno importanti e sono invece più

utili conoscenze che portino a sviluppare gli aspetti imprenditoriali, con esperienze più specifiche anche se in un ambiente più ristretto. Questo non toglie che a un certo punto della carriera si possa cambiare, anche radicalmente. Il modello imprenditoriale si va diffondendo anche nella grande azienda, poiché al manager sono richieste non solo doti di esecuzione, ma anche di creatività in misura superiore al passato. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento di tipo organizzativo molto importante: le aziende hanno teso a modificare la tradizionale organizzazione gerarchica e accentrata per passare a un modello più piatto e decentrato, con maggiori contenuti di delega e di empowerment e, dunque, di responsabilità diffusa. È un processo destinato a proseguire? Le organizzazioni cambiano, evidentemente, per necessità e non per il gusto di farlo. Se prendiamo, ad esempio, un’azienda che cresce da locale a regionale e poi ancora a globale, con marchi globali e mercati globali, non può più mantenere delle strutture gerarchiche su base strettamente geografica, ma ha bisogno di adottare strutture diverse, come quelle di tipo matriciale, più o meno complesse. Il che può anche creare immense complicazioni nel processo decisionale, ed è questo il motivo per cui sono spesso avversate dai manager abituati ad assumersi determinate responsabilità e a prendere decisioni rapide e autonome. Ma in certi casi non si può fare a meno di modificare l’organizzazione perché nel tempo essa perde senso economico. Cambia la supply-chain e i manager si devono adattare e adeguare,

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team and for managers who are able to get the best performance from those around them. They communicate the company objectives in a clear manner and enable every employee to abide by them. On the other hand, people who work in a company today want to know these objectives. The entire chain of information has been brought to light, and recognizing and evaluating this is an indispensable ability.

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in qualche modo de-specializzandosi rispetto al passato e apprendendo ad imparare nuove capacità, nuove concettualità, nuove professionalità. In sintesi, quali saranno, o dovranno essere, le tre caratteristiche principali del manager di domani? Senza dubbio la visione strategica, la leadership e la rapidità nel cambiamento. La visione strategica, che significa dove portare l’azienda, in quali scenari, con quali concorrenti e quali clienti; la leadership, che significa sapere portare l’organizzazione verso gli obiettivi, inducendo a cambiare persone che non ne hanno spesso molta voglia; e, infine, una grande rapidità di riflessi e una grande velocità di cambiamento. * Eric Salmon ha fondato nel 1990 la società di executive search Eric Salmon & Partners, dopo un’esperienza di vent’anni con la Egon Zehnder International. In precedenza aveva lavorato per cinque anni nel gruppo Degremont in Francia, Italia e Stati Uniti. ■ ■ ■ ■ ■ ■

C

ompanies all over the world are working within a rapidly changing business environment, especially in the more advanced countries. Many factors ranging from the globalization of markets and availability of information in real time to the implementation of network technology are combining to cause this change. These factors impose new styles and new ways of understanding the concept of leadership. How will management skills change in the business environment of the future?

To begin with, I would like to clarify an important point. There has been a great deal of talk about a New Economy with regard to the novel realities of the Internet and the Web, but its true nature has been exaggerated, at least in part. At certain times and under certain aspects, this development has reminded me of the so-called Nouvelle Cuisine – a beautiful presentation on the plate, but far from filling. I am not saying that the New Economy is just like the Nouvelle Cuisine, but I am certainly happy to witness the current re-shaping of the New Economy. It leads us to recall, if not to understand, that the Internet is a means and not an end unto itself. Essentially, the Internet must be acknowledged as an excellent system for company management and communication, and we are not about to turn back the hands of time. Therefore, we must integrate the new technologies with the underlying economic realities and the new economy with the traditional economy. This constitutes the challenge facing us today. In this environment, how do the characteristics of management, and especially top management, change? One initial consequence is the development of a new need for these managers to confront the problems inherent in communicating with their employees, the board of directors and shareholders. Managers must function more and more like orchestra conductors and less like creative geniuses who live in ivory towers and send sporadic messages out to the rest of the world. There is a strong demand for managers who know how to lead a

Therefore, we are requiring our top management to exhibit a great capacity for leadership and broad vision. But it is certainly just as necessary to possess specific knowledge linked to precise functions and the professional character of each individual manager. How will the mix between these two characteristics change, if at all? It is important to distinguish between these two. The characteristic of an orchestra conductor capable of communicating and motivating applies more to the internal workings of the company. With respect to the

external environment, there is a continuing need, in growing measure, for managers to possess a strategic vision because markets and competition are reacting much more quickly than in the past. If one does not possess a strategic vision, then one is exposed to the consequences of mistaken choices. Therefore the specific knowledge that allows one to define and redefine the company’s current strategic direction becomes indispensable. It is necessary in order to allow for rapid modification of this strategic direction, as soon as it becomes a priority. Does this characteristic bring about a change in the mix of professional knowledge? I don’t believe so, because each manager comes from his own area of specialization. He must know how to evolve in an increasingly sophisticated manner so as to command strategic vision and ability – in other words, to display leadership.


Leading a team is not a matter of coordination but rather of leadership. There are those who maintain that in tomorrow’s business, and more generally in tomorrow’s world, we will need to increasingly know how to change. We will not only need to learn how to change specializations within the organization, but also change jobs altogether, more often than in the past. This will not only mean learning new things, but understanding how to learn as a continuous and on-going process. Do you agree with this vision of the future? In my opinion, there are two different approaches to this question, a rather “Latin” approach and a more “Anglo-Saxon” approach. The first approach views the career of an individual in a much more linear manner and is the kind of outlook that we see most often in France or Italy, and more generally in continental Europe. One begins with a given function, like marketing or finance, and subsequently must somehow learn to break free of their discipline in order to become a generalist manager capable of vision and of truly leading a company. The Anglo-Saxon world is somewhat different and envisions a career as being less linear and more of a “package deal,” if you will. An employee can begin in one company, reach certain levels of responsibility and then flow into a new entrepreneurial experience that may eventually provide a springboard to a more challenging position elsewhere. The career is less specialized and less linear, even if the basic training of individuals is no less complete. This is the kind of pragmatism that is typical of the AngloSaxon world and is viewed with some doubt in Europe. Do you see some convergence between these two models in the business of the future? I believe so, even if we have noted a certain resistance. But there can be no doubt that the speed of different career pathways, which is one of the characteristics of the AngloSaxon work world, is also arriving in Europe under the influence of financial markets, new ideas of corporate

leadership, and shareholders who are increasingly involved, especially through funds. And, as we were saying earlier, it will become necessary for managers to learn how to change and to learn to think of change not simply as a risk, but as an opportunity. It is difficult to imagine a future case in which a manager who begins his career in one company remains in that company for the rest of his life, eventually reaching the highest level of management within that same company. The speed and dramatic nature of market movement or the sudden and unexpected changes in the shareholder structure are both events that have by now become common, and they are things that more often than not provoke a break with the past and do not allow for this kind of continuity. Those who are unable to adapt will be left behind. What are the possible implications of this phenomenon with respect to the manager’s education and training? We will see the world increasingly organize itself into enormous business groups on the one hand and into very small entrepreneurial businesses on the other, including spin-offs and LBOs. And the cognitive characteristics of the manager will be different in the first case as compared with the second. I would even venture to say that it would be a good thing if the manager of the future first decided which kind of business he wanted to work in and then prepared himself in a specific manner. He may ask for example, “Do I feel more like the manager in a large company or am I more suited for a small business environment?” In the first case the appropriate training is the one offered in graduate and post-graduate programs at most large universities followed by global experience with large consulting firms. In the second case these training routes are less important. Here it is more useful to possess experiential knowledge to allow for the development of entrepreneurial talents, even if the knowledge is gained in a more narrowly defined environment. This does not diminish the fact that at a certain point in one’s career one can change, perhaps

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radically. The entrepreneurial model is also spreading somewhat even in large companies, in so far as managers are expected to exhibit not only the ability to execute, but also greater creativity than was expected of them in the past, too. Over the past few years we have witnessed an extremely important organizational transformation. Companies have tended to modify their traditional hierarchical and centralized organizational structure, moving toward a flatter, decentralized model with a greater share of delegation and empowerment, and, therefore more diffused responsibility. Is this a process that is bound to continue and expand? Obviously, organizations change because change is necessary and not simply for the thrill of trying something new. If we take, for example, a company that has grown from the local to the regional level and watch it expand to a global level, with global brands and global markets, we will see that it cannot possibly maintain hierarchical structures based on nothing more than geography. It must adopt new and diverse structures that are more or less complex, like those based on a matrix. This fact has the potential to create enormous complications for the decision-making process. For this reason, managers accustomed to taking on specific responsibilities and making rapid and

autonomous decisions often put up strong resistance to these changes. But in certain cases there is no choice but to modify the organization because, over time, attempting to maintain the status quo no longer makes economic sense. When the supply chain changes, managers have to change and adapt, as well. In some ways they must learn to access and develop new capacities, new concepts, new professions and leave their specialties behind. To summarize, what will be, or what should be, the three principal characteristics of tomorrow’s manager? Without a doubt these characteristics would be strategic vision, leadership and a capacity for rapid change. Strategic vision signifies a sense of which direction to take the company, knowing the upcoming business scenarios, and who will be your competition and possible clients. Leadership signifies knowing how to carry the organization toward its objectives and convincing or coercing people who are resistant to change to do so. Finally, managers will need to have speed and a capacity for quick reflexes to respond to new developments as quickly as they appear. * Eric Salmon established the executive search company, Eric Salmon & Partners, in 1990, following more than 20 years’ experience with Egon Zehnder International. Previously he worked for five years with the Degremont group in France, Italy and the United States.


Il governo strategico dell’impresa Strategic Management of the Business di Carlo Alberto Carnevale-Maffè* by Carlo Alberto Carnevale-Maffè*

Verso la “networked scorecard” Toward the “networked scorecard”

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Carlo Alberto Carnevale-Maffè

L

a “nuova” impresa è una sineddoche economica. Ovvero un’espressione riconducibile a una figura retorica che usa “una parte per il tutto”, un termine dai confini specifici per indicare una realtà più ampia. Lungi dall’essere isolata e indipendente nei processi di creazione di valore economico, la nuova impresa dell’economia interconnessa ha ormai assunto il ruolo di un “nodo” della più ampia rete definibile come il “sistema di creazione del valore”, trasversale rispetto alle dimensioni giuridiche e istituzionali delle aziende stesse, e costruito partendo dal fabbisogno servito per il cliente finale. Questa constatazione, ormai maturata nella sensibilità di molti protagonisti del mondo manageriale ed imprenditoriale, tuttavia, non si è ancora diffusamente tradotta in nuovi e consolidati modelli di governo dell’impresa. In sostanza, mentre i processi di creazione del valore sono indiscutibilmente evoluti verso approcci a rete, quelli di formulazione e governo della strategia sono rimasti ancorati ai confini economici ed organizzativi dell’istituzioneazienda. Si ripropone a livello di azienda il paradosso della complessità che si sta verificando sul fronte

dell’istituzione-Stato nazionale, dove ad esempio il progressivo affermarsi di politiche e di processi economici sovranazionali nel contesto europeo non vede una corrispondente evoluzione dei metodi di governo dell’economia a livello nazionale e locale. Così come uno Stato nazione, specie se di piccole dimensioni, dipende sempre di più per il proprio sviluppo dal grado di apertura al commercio internazionale, anche in un’azienda i risultati economici e competitivi tendono a essere sempre di più influenzati dal grado di collaborazione interorganizzativa. Spesso, infatti, la strategia di una singola azienda spiega solo una frazione dei suoi risultati competitivi. Nei Paesi con una diffusa presenza della piccola e media impresa, in modo particolare, la strategia di un’azienda dipende da molti fattori esogeni, dei quali il principale è proprio la sua limitata dimensione organizzativa media, che la rende strutturalmente dipendente da attività svolte al di fuori dei propri confini giuridici, e quindi influenzabile non solo dal contesto economico e competitivo, ma anche dalle prestazioni offerte dai propri partner industriali.

Orchestrare l’intero sistema di creazione del valore Se è vero che, secondo la scuola di pensiero che si richiama a Michael Porter, il vantaggio competitivo di un’organizzazione dipende in ultima analisi dalle attività che essa svolge, e se è plausibile che al crescere della complessità dei moderni processi di business corrisponda un’analoga e crescente complessità (nel numero e nella qualità) delle attività necessarie per gestirli, allora le radici della sostenibilità del vantaggio competitivo affondano probabilmente in terreni che non coincidono con gli angusti orticelli delle singole imprese. Una moderna azienda organizzata a rete, con numerose attività affidate a partner in outsourcing, dipende sempre di più dal contributo degli stessi partner nei processi di “creazione” del valore, pur rimanendo protagonista primaria dei processi di “allocazione” del valore creato. Essa si concentra quindi sull’esercizio a propri fini della titolarità di un “vantaggio competitivo interaziendale”, che non è più quindi in capo ad una specifica azienda, ma alla rete di attività interne ed esterne che essa riesce ad orchestrare. Lo scambio di beni e servizi è soggetto all’evoluzione dei costi di transazione tra le organizzazioni, ma anche i processi di orchestrazione, coordinamento e integrazione delle attività che supportano il vantaggio competitivo diventano acquisibili e governabili con modalità di tipo contrattuale e non necessariamente di tipo gerarchico, in un contesto economico che, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e ai fenomeni di globalizzazione finanziaria, riduce in maniera strutturale i tradizionali

costi di transazione. Ne consegue che i nuovi modelli di governo strategico delle imprese devono sempre più estendersi a prendere in considerazione processi e indicatori di performance esterni ai confini “politici” della gerarchia organizzativa aziendale, e includere attività che vengono svolte da partner e da collaboratori. I confini dell’impresa stanno all’economia aziendale contemporanea come i confini dello Stato nazionale stanno alla politica economica nel moderno contesto di interdipendenza regionale e globale: l’impresa può ancora incarnare il ruolo di principale “soggetto” della formulazione della strategia, ma non è più né l’unico né il principale “oggetto” della sua implementazione e della conseguente determinazione dei risultati, siano essi di tipo qualitativo oppure misurabili con dimensioni di natura economica. I limiti dei sistemi tradizionali di governo strategico Se consideriamo fondate queste premesse, i tradizionali sistemi di governo strategico si rivelano dunque soggetti a due importanti limiti: 1) sono storicamente legati a doppio filo ai confini amministrativi dell’azienda, per cui il processo di “consolidamento” dei risultati finanziari è ricalcato non tanto sui reali processi economici che li supportano, quanto piuttosto sulle recinzioni giuridiche determinate dalla titolarità del capitale di rischio, in quanto originariamente pensati come strumento di tutela per i fornitori di quest’ultimo, e non certo di governo per il management delle organizzazioni stesse; 2) sono spesso sbilanciati nell’attribuire esclusiva attenzione ai risultati di natura


economico-finanziaria, siano essi presenti o passati, oppure futuri, ma quasi sempre considerati in maniera non legata ai sottostanti processi di business. L’approccio della balanced scorecard, proposto da Robert Kaplan e David Norton agli inizi degli anni Novanta, ha avuto il grande pregio di suggerire un rimedio al secondo dei limiti sopra indicati, proponendo sia ai manager che agli azionisti di “bilanciare” le dimensioni con le quali formulare e implementare una strategia di business. Il modello della balanced scorecard ha infatti contribuito a rendere esplicito il fatto che i risultati economico-finanziari delle organizzazioni siano effetto di processi causali che dipendono da un complesso insieme di fattori, classificabili secondo gli autori in tre principali prospettive: quella dei clienti, quella dei processi di business interni e quella dei meccanismi di apprendimento e crescita. Peraltro, in riferimento al primo limite sopra citato, uno dei più comuni equivoci che si verificano nelle aziende dove si cerca di adottare questo moderno metodo di governo strategico è proprio quello di cadere nella trappola concettuale di applicare la balanced scorecard ai confini giuridici dell’azienda (al suo livello “corporate”, secondo la definizione anglosassone), e non all’appropriato contesto economico, che nell’intenzione originale degli autori è la “business unit”, a meno che questa non coincida con l’azienda stessa. La balanced scorecard offre infatti un utile servizio al management e all’intera organizzazione solo se si riferisce ad un preciso insieme di processi di business indirizzati alla creazione di valore economico per clienti ben identificati. Altrettanto

non avviene se essa viene adottata come strumento di semplice monitoraggio verticale, osservato dal generico punto di vista dell’impresa. Inoltre, chi guarda alla balanced scorecard spesso lo fa ponendo attenzione soprattutto agli indicatori di risultato, invece che alle relazioni causali che li legano. Il passaggio fondamentale dalla balanced scorecard pensata come strumento di semplice controllo dei risultati a quella intesa come modello di governo strategico risiede proprio nel saper spostare l’attenzione dagli indicatori di risultato alle relazioni causali che li legano tra loro e con gli obiettivi strategici dell’azienda. Una delle affermazioni più significative di Kaplan e Norton è che una strategia di business è fondamentalmente definibile come una serie di ipotesi sulle relazioni di causa ed effetto che legano gli specifici processi di creazione del valore e i relativi indicatori che li misurano. Ciò è tuttavia vero sia all’interno che all’esterno dei confini organizzativi dell’impresa, quindi quanto più un’impresa è organizzata a “rete” tanto più le relazioni causa-effetto dei processi di business sono trasversali rispetto ai confini giuridici dell’impresa stessa. La networked scorecard e i processi interaziendali Nei fatti, i modelli di governo strategico adottano ancora come “oggetto” di analisi l’azienda, laddove da un punto di vista di relazioni causa-effetto nei processi di creazione del valore il dominio di analisi più corretto è costituito dal sistema di creazione del valore allargato. È quindi opportuno integrare ed estendere l’originale contributo di Kaplan e Norton, soprattutto nei contesti industriali caratterizzati da

piccole e medie imprese, come quello di molti Paesi europei: la scorecard deve essere sì “bilanciata” (balanced) ma non deve rimanere confinata all’azienda, bensì essere interconnessa (networked) alla “rete” dei processi di creazione del valore interaziendali. La networked scorecard costituisce quindi il quadro concettuale più appropriato per formulare e governare le relazioni di causa ed effetto disegnate a partire dai sistemi estesi di creazione del valore, e non dai processi interni all’azienda. Obiettivi strategici e relativi lead indicators e lag indicators, ovvero indicatori dinamici e di direzione, da una parte, e indicatori statici e di ritardo, dall’altra, devono quindi essere proposti e misurati non solo e non tanto a livello aziendale, quanto a livello dell’intero sistema di creazione del valore, concepito come un’organizzazione estesa e non necessariamente regolata da meccanismi di governo gerarchici, bensì anche da relazioni di tipo contrattuale e spesso di natura al tempo stesso collaborativa e competitiva. Un apprezzabile tentativo di proseguire in questa direzione si può forse già cogliere tra le righe del recente libro degli stessi autori, dedicato al tema della strategy-focused organization. Secondo Kaplan e Norton, i principi di una organizzazione focalizzata sulla strategia sono riassumibili nei seguenti passi: • la traduzione della strategia in termini operativi • lo stimolo al cambiamento tramite leadership • la trasformazione della strategia in un processo continuo • la condivisione della strategia da parte di tutte le funzioni aziendali • l’allineamento dell’intera organizzazione alla strategia.

Proprio in quest’ultimo punto del processo suggerito da Kaplan e Norton si coglie il tentativo di estendere il quadro concettuale della formulazione e del governo della strategia oltre i confini dell’impresa, e di includere nel monitoraggio dei risultati anche le scorecards per i partner esterni, secondo una prospettiva estesa dell’organizzazione. Tuttavia l’approccio corretto non può limitarsi alla semplice giustapposizione di diverse balanced scorecards aziendali, ma deve proporre specifiche networked scorecards relative ai processi di creazione del valore, trasversali rispetto ai confini aziendali e basate sul fabbisogno servito nel cliente finale. Secondo questo nuovo criterio l’azienda rimane comunque il “soggetto” strategico che governa l’”oggetto” organizzativo costituito da uno o più processi di creazione del valore e può farlo usando le rispettive networked scorecards. In queste ultime, tuttavia, la prospettiva dei clienti non si limita ai clienti diretti dell’azienda, ma si focalizza su quelli finali, titolari del fabbisogno servito. La prospettiva dei processi di business non si restringe a quelli interni, come nella tradizionale balanced scorecard, ma comprende anche quelli svolti da partner esterni, e in generale tutte le attività critiche al fine della creazione del valore. Nella prospettiva dell’apprendimento e della crescita, le conoscenze e le innovazioni non sono necessariamente riferite ai membri e ai confini dell’organizzazione-soggetto, ma includono tutte le competenze rilevanti alle quali l’organizzazione-oggetto accede, in forma più o meno esclusiva e con modalità di coordinamento sia gerarchiche sia contrattuali. Infine, anche i risultati

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economico-finanziari non possono essere limitati ai confini delle poste di bilancio di una singola azienda, ma vanno integrati e consolidati con misure di performance trasversali ai confini giuridici: il ritorno su un investimento di natura tecnologica o sulla creazione di una competenza può non rivelarsi significativo se calcolato sulla base degli effetti sul bilancio della singola impresa, ma può contribuire grandemente al valore generato lungo l’intero processo di creazione del valore, e può quindi richiedere come equa contropartita un analogo impegno da parte del partner che ne viene maggiormente beneficiato. Tipico è il caso dell’investimento da parte di un’azienda in un call center che venga messo a disposizione dei canali distributivi: il ritorno puramente finanziario sull’investimento è normalmente molto basso, ma la scelta può venire

ampiamente giustificata se i canali distributivi che ne usufruiscono si impegnano a condividere con l’azienda almeno parte dei dati relativi ai clienti finali. Nuovi modelli di management, non solo nuovi modelli di business Un criterio come quello della networked scorecard è infine un invito a ribadire l’importanza delle nuove dimensioni della strategia di business che sono emerse nel recente dibattito sulle opportunità dischiuse dalla diffusione delle tecnologie Internet e quindi alla necessità per le nuove leve del management di aggiornare il proprio bagaglio di strumenti di governo strategico. Con lo sgonfiarsi della bolla speculativa che ha fatto crescere a dismisura i corsi azionari delle aziende con modelli di business legati a Internet, infatti, il riflusso psicologico degli operatori finanziari entro le rassicuranti

grotte dei criteri di governo strategico e valutazione più tradizionali rischia tuttavia di coinvolgere anche i guadagni concettuali più interessanti delle riflessioni emerse in questi ultimi anni: ovvero che tuttora mancano strumenti condivisi dalla comunità dei ricercatori e degli analisti per misurare il potenziale di crescita e di miglioramento della produttività di nuovi modelli di business. Nel momento in cui per gli investitori sono giustamente tornati a contare prima di tutto gli indicatori di redditività, ai manager e agli imprenditori che intendono continuare a sperimentare i nuovi modelli di processo economico resi possibili da Internet va tuttavia ricordato che le evidenze relative agli incrementi di produttività e di efficienza dei modelli organizzativi a rete non sono venute meno, e che per poterle sfruttare al meglio è il caso di rinunciare ad attendere l’improbabile ritorno di Godot sotto forma di Toro di borsa, e di cominciare a sperimentare forme più moderne ed aggiornate di management strategico. * Carlo Alberto Carnevale-Maffè è docente presso l’Area Strategia della SDA Bocconi, dove coordina numerosi corsi di Executive Education. È vice direttore per la didattica del Master in Internet Business e membro di “I-LAB”, il Centro di Ricerca sull’Economia Digitale dell’Università Bocconi. Ha svolto attività di docenza con la Stern School of Business della New York University e presso la Columbia Business School di New York. Contribuisce all’attività di associazioni internazionali quali Academy of Management, Strategic Management Society, Society of Competitive Intelligence Professionals, European Foundation for Management Development. È advisor strategico e consigliere indipendente nei consigli di amministrazione di aziende italiane e internazionali, tra le quali Vitaminic Spa, quotata sul Nuovo Mercato, e il Gruppo L’Unione Editoriale Spa. È membro del comitato tecnico-scientifico per il progetto Consip di e-procurement per la Pubblica Amministrazione del Ministero del Tesoro.

T

he “new” business is an economic synecdoche or in other words an expression that can be traced back to a rhetorical figure that uses “one part for everything,” a term with specific confines that indicates a much broader reality. Far from being isolated and independent from the processes of the creation of economic value, the new business of the interconnected economy has now assumed the role of a “knot” in the much larger network. It can be defined as the “system of value creation.” It is transversal with respect to a company’s legal and institutional dimensions, and is constructed from the start with a focus on the needs and satisfaction of the end-user. However, this assertion, which has by now matured in the minds of many players from both the managerial and entrepreneurial world, has not yet been widely transformed into new and consolidated business management models. Essentially, while value creation processes have unquestionably evolved toward a webbed approach, those of strategy creation and management have remained at the fringes of the economic and organizational framework of the “company” institution. We are seeing a reappearance on a company level of the paradox of complexity evident in the “national state” institution. For example, the progressive affirmation of supranational politics and economic processes on a European level are not accompanied by a corresponding evolution in methods of governing the economy on the national or even local level. In this way a nation-state, especially a small one, is increasingly dependent for its development on its degree of openness to international commerce. The same can be


said for a company: economic and competitive results tend to be increasingly influenced by the degree of inter-organizational collaboration. Often, in fact, the strategies of a single company explain only a mere fraction of its competitive results. In countries with a widespread presence of small- and medium-sized businesses, a company’s strategy depends particularly on numerous outside factors. The principal factor is that companies, on average, possess very limited organizational dimensions, which render them structurally dependent on activities conducted beyond the confines of their own jurisdiction. Therefore they are influenced not only by their immediate economic and competitive context, but also by the performance of their own industrial partners. Orchestrating the entire value creation system If it is true that, according to Michael Porter’s school of thought, an organization’s competitive advantage ultimately depends on its activities, and if it is plausible that the growing complexity of modern business processes implies a corresponding, analogous growth (both quantitative and qualitative) in the complexity of activities needed to manage them, then the roots that sustain any competitive advantage must run deep into terrain that does not coincide with the narrow garden-plots of the individual enterprise. A modern company organized within a network, with numerous activities entrusted to partners through outsourcing, is increasingly dependent on the contribution of those same partners to the processes of “creating” value, even as it remains the primary player in “allocating” the

created value. Therefore the company is focused on exercising control over the ownership of an “inter-company competitive advantage” – an advantage that is no longer attributed to a specific company, but rather to the network of internal and external activities that the company is able to organize. There is no question that the exchange of goods and services is subject to the evolution of transaction costs between various organizations. Likewise, the processes of orchestration, coordination and integration of the various activities that sustain competitive advantage can be acquired and managed through a method that is contractual and not necessarily hierarchical. All this takes place within an economic context that, as a result of new information technologies and the assorted phenomena of financial globalization, reduces the traditional costs of transaction in a structural manner. Consequently the new models of strategic management for businesses must be increasingly extended to consider processes and performance indicators that are external to the “political” confines of the company’s hierarchical organization. They must include activities carried out by partners and co-workers as well. The confines of a company are to contemporary business economics what the confines of the state are to the political economy within the modern context of regional and global interdependence. The company can still embody and fulfill the role of principal “subject” in the definition of strategy, but in today’s world we must admit that it is neither the only nor even the principal “object” of strategic implementation. Nor is it

primary in the subsequent determination of results, whether qualitative or measured by some kind of economic yardstick. The limitations of traditional systems of strategic management If we consider the previous assertions to be valid and sensible, then the traditional systems of strategic management reveal themselves to be subject to two important limitations: 1) Historically, they are strongly linked to the administrative confines of the company. This explains why the process of “consolidation” of financial results is modeled not so much on the very real economic processes that support them, but rather on the legal restrictions determined by ownership of the risk capital. This “consolidation” was originally invented as a protection instrument for the risk capital suppliers, and certainly not to govern the management of those organizations. 2) They are often unbalanced in attributing exclusive attention to results of an economic-financial nature, whether past or present, and sometimes even future, but are almost always considered in a manner that is not linked to the underlying processes of business. The approach known as the balanced scorecard, as proposed by Robert Kaplan and David Norton in the beginning of the 1990s, had the great advantage of suggesting a solution for the limitations mentioned above. It proposed to both managers and stockholders to “balance” the dimensions used to formulate and implement a business strategy. In truth, the balanced scorecard model contributed to making explicit the fact that an organization’s

economic-financial results are the product of causal processes that depend on a complex web of factors. These factors can be classified, according to the authors, into three main positions: that of the client, that of the internal business processes and that of the mechanisms for learning and growth. Furthermore, in reference to the first limitation cited above, one of the most common misunderstandings in companies attempting to adopt this modern method of strategic management is precisely that of falling into the conceptual trap of applying the balanced scorecard to the legal confines that bind the company (i.e. at its “corporate” level, according to the AngloSaxon definition), and not within the appropriate economic context. The economic context as originally intended by the two authors is the “business unit,” unless it coincides with the company itself. In reality, the balanced scorecard offers a useful service not only to management but to the entire organization only if it refers to a precise blend of business processes aimed at the creation of economic value for clearly-identified clients. Further benefits cannot be obtained if it is adopted as an instrument for simple vertical monitoring, observed from the company’s generic point of view. Furthermore, those who look to the balanced scorecard often do so focusing primarily on the various result indicators, rather than scrutinizing the causal relationships that link them. The fundamental leap in perception of the balanced scorecard – from instrument of simple performance monitoring to strategic management model – lies above all in its capacity to draw attention away from the result

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indicators and direct it toward the causal relationships that connect the results both to one another and to the company’s strategic objectives. One of the most significant affirmations made by Kaplan and Norton is that a business strategy can be fundamentally defined as a series of hypotheses on the relationships between cause and effect that bind the specific processes of value creation and the relative indicators that measure them. All of this is essentially true both inside and outside the organizational confines of the company, and therefore the more a given business is organized in “networks,” the more the cause and effect relationships of the business processes become transversal with respect to the legal confines placed on that same company.

The networked scorecard and inter-company processes With respect to the facts, the models of strategic management continue to adopt the company as the “object” of analysis. Meanwhile, from the point of view of the cause-effect relationships in the processes of value creation, the more correct dominion of analysis is constituted by the system of creation of added value. Therefore it must be opportune to integrate and extend the original contribution of Kaplan and Norton, especially in the industrial contexts characterized by small- and medium-sized businesses like those in many European countries. The scorecard must be “balanced,” but it must not become hemmed in and encircled by the company.

Rather it must be interconnected (networked) with the “web” of processes of inter-company value creation. Keeping this in mind, the networked scorecard constitutes the conceptual framework that is most appropriate for formulating and managing the relationships of cause and effect, which are determined based on the extended systems of value creation rather than the internal processes of a given company. Strategic objectives and related lead indicators and lag indicators – understood as indicators of dynamic and direction on the one hand, and of static and lateness on the other hand – must therefore be proposed and measured not only at the company level but at the level of the entire system of value creation. This system is conceived as an extended organization not necessarily regulated by the mechanisms of hierarchical management, but also by relationships that are contractual and often simultaneously co-operational and competitive in nature. Perhaps one appreciable attempt to move forward in this direction can be read between the lines of a recent publication penned by the same authors, and dedicated to the theme of strategyfocused organization. According to Kaplan and Norton, the principles of an organization focused on strategy can be summarized in the following steps: • the conversion of the strategy into operational terms • the stimulation for change through the leadership • the transformation of strategy into a continuous process • the sharing of strategy by all the company functions

• the alignment of the entire company along the guidelines of the strategy. It is in this last point of the process suggested by Kaplan and Norton that lies the attempt to extend the conceptual framework of strategy definition and management beyond the confines of the company and to include in the act of monitoring results even the scorecards of external partners, according to a widened perspective of the organization. All things considered, the correct approach cannot be limited to the simple juxtaposition of the company’s diverse balanced scorecards; it must offer specific networked scorecards relative to the processes of value creation, transversal to the confines of the company and based on the end-user’s satisfaction. In any case, according to these new criteria, the company remains the strategic “subject” that governs the organizational “object” constituted by one or more processes of value creation. It can do this using the respective networked scorecards. In this regard, the client’s perspective is not limited to the company’s direct clients, but rather is focused on the end-users, the satisfied owners. The perspective of the business processes is not restricted to internal processes, as with the traditional balanced scorecard, but also includes those conducted by external partners, and generally all activities that can be considered critical to the goal of value creation. With regard to the perspective of learning and growth, knowledge and innovation are not necessarily assigned to the members and the confines of the subject-organization, but extend to all relevant competencies to which the object-organization has access,


more or less exclusively and with coordination terms that are either hierarchical or contractual. In closing, even the economic-financial results cannot be limited to the confines of the balance sheets items of a single company, but must be integrated and consolidated with performance measurements that are transversal to the legal confines. The return on an investment of a technological nature or on the creation of a certain competence may not prove significant if calculated on the basis of the effects on the balance sheet of a single company. However, it may well contribute greatly to the value generated within the entire process of value creation, and therefore require as an equal counterpart a similar commitment from the partner who benefits most notably from the process. One typical case is that of investment on the part of one company in a call center that is then made available along distributive channels: the purely financial return on the investment is normally considerably low, but the choice may prove to be more than justified if the distributive channels, which benefit from it, commit themselves to share with the company at least part of the data relative to the end-users. Not simply new business models but new models of management A criterion like that of the networked scorecard is ultimately an invitation to underline the importance of the new dimensions in business strategies that have emerged from the recent debate over the opportunities presented by the spread of the Internet technologies. It therefore highlights the necessity by the new generation of managers to

update the range of instruments used in strategic management. In fact, with the deflation of the speculative bubble that prompted the disproportionate growth in the stock quotations of many companies with business models linked to the Internet, the psychological ebb of financial operators has caused most of them to retreat into the safer caves of the more traditional criteria of strategic management and evaluation. This is not without risk. All things considered, this “retreat” may also involve a withdrawal from the most interesting conceptual achievements won through the theoretical and practical reflections of the past few years. In other words, today we still lack instruments shared by the research community and analysts that can be used to measure the potential for growth and improved productivity of the new business models. At the very moment when investors have justifiably returned to evaluating first and foremost the various profitability indicators, managers and entrepreneurs who intend to continue exploring new models of the economic process introduced by the Internet must be reminded of this: that evidence of increased productivity and efficiency provided by the organizational models based on a network structure have not failed. In order to take advantage of them in the best possible manner, one must be prepared to give up on the alltoo-improbable return of Godot masquerading as a bull market, and begin to experiment with more modern and updated forms of strategic management. * Carlo Alberto Carnevale-Maffè is a professor at the SDA Strategy Area at Bocconi University in Milan, Italy, where he coordinates numerous courses for

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executive education. He is the vicedirector for didactics of the Master’s program in Internet Business and member of the “I-LAB,” Bocconi University’s research center dedicated to the digital economy. He has also taught at the Stern School of Business at New York University and at the Columbia Business School in New York. He is a regular contributor to the activities of international associations including the Academy of Management, the Strategic Management Society, the Society of Competitive Intelligence Professionals, and the European Foundation for Management Development. He is the strategic advisor and independent

counsel on the boards of directors of both Italian and international companies, including, among others, Vitaminic Spa (quoted on the Italian New Market) and L’Unione Editoriale Spa Group. He is also a member of the technical-scientific committee for the Consip e-procurement project for the public administration of the Italian Treasury Department.


Lavorare con l’intelligenza emotiva Working with Emotional Intelligence Intervista a Daniel Goleman* Interview with Daniel Goleman*

All’impresa del futuro occorrono sempre più dei leader capaci di entrare in contatto con i collaboratori e motivarli. Per fare ciò, le competenze tradizionali non bastano più The business of the future has a growing need for leaders capable of making real contact with their co-workers and motivating them. But in order to accomplish these goals, traditional skills no longer suffice tra il 20 e il 30%. Alla Pepsi Cola hanno registrato un miglioramento del 15-20% da quando hanno iniziato a stimolare l’uso dell’intelligenza emotiva tra i top manager.

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Daniel Goleman

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ei suoi libri, che sono stati dei best seller a livello mondiale, lei argomenta che le competenze lavorative basate sull’intelligenza emotiva ricoprono un ruolo molto più importante, per conseguire risultati di successo, di quanto non accada con le usuali skills di tipo tecnico e razionale. Inoltre, lei sostiene che porre in evidenza l’intelligenza emotiva porti un netto vantaggio sia agli individui che alle loro imprese. Ha potuto verificare queste sue ipotesi nelle aziende che hanno seguito i suoi consigli? Il riscontro è stato, finora, molto lusinghiero e questo specialmente dopo la pubblicazione di un mio articolo intitolato “What Makes a Leader”, sulla Harvard Business Review della fine del 1998 e che, a quanto mi ha riferito l’editore, è risultato quello di maggiore successo nella storia di questa rivista. Di questo articolo sono state stampate milioni di copie in tutto il mondo. Ora, io non sono in contatto con tutti coloro che hanno chiesto la ristampa, ma si tratta in massima parte di aziende che lo utilizzano per definire un corretto modello di leadership

che possa valere per il futuro. E come viene applicato in queste aziende il concetto di intelligenza emotiva? Posso farle tre esempi di altrettante aziende che in Italia lo stanno utilizzando, una è la Glaxo Italia, che sta applicando le idee di competenze basate sull’intelligenza emotiva per valutare i futuri leader, per capire chi emergerà nella prossima generazione di top manager. Analogamente, all’Eni usano i concetti di intelligenza emotiva per sviluppare le doti degli attuali manager e portarli ad affrontare con maggiori possibilità di successo le sfide del futuro. Infine, la nostra consociata Hay Group applica le idee di intelligenza emotiva alle Poste SpA, per contribuire a migliorare la qualità dei servizi e a sviluppare la leadership. Quale impatto hanno le competenze basate sulla emotional intelligence sulle prestazioni di un’azienda? Le implicazioni sono osservabili soprattutto sui risultati ottenuti. I leader d’azienda che applicano in modo efficace la loro intelligenza emotiva ottengono risultati decisamente superiori alla media, in una misura definibile

E cosa accade sotto il profilo organizzativo: l’intelligenza emotiva è più affine a un’organizzazione tradizionale o richiede un’organizzazione piatta e di tipo collaborativo? Ciò che deve veramente cambiare è il modo con cui i leader si rapportano ai propri collaboratori. In teoria, se fanno questo l’organizzazione potrebbe anche non cambiare. Ma devono imparare ad ascoltare i collaboratori, a motivarli, a persuaderli, a prenderli più seriamente e a considerare la loro personalità. Ma, certo, se pensiamo a come si può esprimere l’intelligenza emotiva, allora è preferibile che si producano sistematicamente contatti più facili e più numerosi, e questo ci fa pensare a un’organizzazione piatta e semplificata. Si può essere il leader più intelligente e sofisticato, con una forte propensione ai rapporti umani, ma se si resta nella torre d’avorio dell’ultimo piano e non ci si incontra mai con chi lavora nell’organizzazione è difficile coltivare questi rapporti con successo. Ritiene che per applicare in modo più efficace l’intelligenza emotiva occorra modificare la formazione tradizionale che viene impartita ai futuri manager? Ho parlato di recente di questo problema con il rettore della Stanford Business School e abbiamo raggiunto una conclusione. Che finora troppo spesso si sono selezionati gli studenti sbagliati per insegnare loro le cose sbagliate, perché ci si è concentrati esclusivamente sullo sviluppo delle conoscenze

analitiche, ignorando il loro potenziale come leader. Le istituzioni educative stanno, però, iniziando a capire che devono individuare gli studenti che hanno un potenziale ed educarli all’intelligenza emotiva, per farne i veri leader di domani. Già, ma come devono cambiare i professori per insegnare a usare l’intelligenza emotiva? È vero, questo è stato un problema fino a qualche tempo fa. Ma ora si stanno moltiplicando i corsi universitari e post-universitari dove gli insegnanti propongono in modo corretto un nuovo stile di apprendimento che faccia comprendere agli studenti cosa vuole dire nei fatti sviluppare delle capacità basate sull’intelligenza emotiva. Viviamo nel periodo della grande espansione della Net Economy. La rete è una rivoluzione con effetti positivi e negativi, ma certo tende comunque a diluire i rapporti personali a favore di un contatto virtuale mediato dal computer, dal telefonino o, in futuro, anche da altri apparecchi. Come si concilia questa tendenza con lo sviluppo e l’applicazione dell’intelligenza emotiva? Non c’è dubbio che la rete rischia di creare un problema per il semplice fatto che le persone non si incontrano fisicamente e non si parlano direttamente al telefono. Per cui non si crea un’empatia, non si determina una percezione reciproca. Da qui nasce il rischio di incomprensioni e difficoltà non volute. Perciò il pericolo esiste. Ma allo stesso tempo nascono anche delle nuove opportunità, perché i rapporti diventano più facili e più fluidi, le persone in un’organizzazione diventano più disponibili. Si può, quindi,


dire in un modo solo apparentemente paradossale che quanto più le persone dipendono dalla tecnologia, tanto più hanno bisogno di usare la loro intelligenza emotiva per sfruttare la tecnologia in modo veramente efficiente. Come vede modificarsi, sulla base delle tendenze in atto, l’impresa come la conosciamo e come sarà l’impresa del futuro? Credo che ci stiamo avviando verso un futuro nel quale le persone assomiglieranno sempre più a operatori liberi di scegliere, che si metteranno assieme per sviluppare uno specifico progetto, per cambiare poi affiliazione e alleanze per un successivo progetto. La carriera standardizzata – una persona, per un’impresa, per tutta la vita – come l’abbiamo conosciuta è in via di estinzione. Questo significa

che ciascuno di noi dovrà apprendere a gestire meglio sia la propria vita che la propria carriera. E che l’intelligenza emotiva diventerà una dote sempre più importante, se non cruciale, per consentirci di operare le scelte più appropriate. Le imprese di domani dovranno, dunque, tenere conto di questa realtà che, peraltro, è almeno in parte già in atto.

* Daniel Goleman è il creatore del concetto di intelligenza emotiva che ha proposto in due libri di grande successo: Emotional Intelligence (1995) e Working with Emotional Intelligence (1998). I libri sono stati pubblicati in 30 lingue e hanno venduto oltre cinque milioni di copie. Oggi Goleman è presidente della Emotional Intelligence Services, una società affiliata al Gruppo Hay. Inoltre è presidente del Consorzio per l’Apprendimento Emotivo nell’Ambiente di Lavoro, una istituzione della Rutgers University.

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n your books, which have been bestsellers on a global level, you argue that work skills based on emotional intelligence fulfill a much more important role in obtaining success than those based on the usual technical and rational capabilities. Furthermore, you argue that displaying one’s emotional intelligence carries a considerable advantage both for the individuals and for their businesses. Have you been able to verify these hypotheses in the companies that have followed your advice? The reaction has been, up until now, extremely flattering – especially in the wake of one of my articles entitled “What Makes a Leader?” published in the Harvard Business Review at the end of 1998. According to the editor, this issue was

the most successful one in the history of the publication. Millions of copies of this article have been published all over the world. Now, I admit that I am not in contact with all those who have asked for additional copies, but the majority of these requests come from businesses that utilize my arguments to define an appropriate leadership model on which they can rely upon in the future. And how is the concept of emotional intelligence applied in these companies? I can offer you three examples of just as many companies in Italy that are using it. One is Glaxo Italia, a company that is applying the ideas of competence based on emotional intelligence in order to evaluate future leaders and to understand who will emerge from the next generation of top managers. Another example is Eni, a company that is using the concepts of emotional intelligence to develop the existing talents of its managers, helping them to prepare to more successfully confront future challenges. Finally, our associate, the Hay Group, is applying the ideas of emotional intelligence within the company Poste SpA, to help them improve the overall quality of their services and to successfully develop their leadership. What impact do the capabilities based on emotional intelligence have on a company’s performance? The implications can be observed first and foremost by examining the results that have been obtained. The company leaders who have applied their emotional intelligence in a consistent and effective manner have obtained results that are decisively higher than average, by a measure that falls between 20 percent and 30 percent. At Pepsi Cola, they have recorded an improvement of 15 percent to 20 percent since they began promoting the use of emotional intelligence among their top managers. And what has happened to the organizational profile: does emotional intelligence work better with a traditional organization or does

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it require a flat and co-operative kind of organization? What really needs to change is the way in which business leaders interact and relate with their co-workers. In theory, if they are able to do this, then the organization would not necessarily have to transform itself. But they must learn to listen to their co-workers, motivate them, persuade them, take them more seriously and carefully consider their personality. However, undoubtedly, if we think of the possible ways in which emotional intelligence can be expressed, then it is certainly best to systematically produce easier and more numerous contacts, and this prompts us to think of a flat, simplified organization. It is possible to be the most intelligent and sophisticated leader, with a strong propensity for human relationships, but if this powerful individual remains in an ivory tower, shut away on the top floor and never meets the people who work in the organization, then it becomes difficult to cultivate these relationships successfully. Do you believe that in order to apply emotional intelligence in the most effective manner it is necessary to modify the traditional training methods that are used on future managers? I recently spoke about this problem with the dean of the Stanford Business School and we reached the following conclusion: all too often, up until now, the wrong students are chosen and subsequently taught the wrong things. This is because schools and their instructors are concentrating exclusively on the development of students’ analytical knowledge, ignoring their leadership potential. However, it must be said that educational institutions are beginning to understand that they must identify the students who possess this potential, and teach them the use of emotional intelligence so as to create the true leaders of tomorrow. Undoubtedly, but how must the professors change in order to teach the use of emotional intelligence? It is true that this remained a problem up until a while

ago. But now we are seeing a notable increase in university and post-graduate courses in which the instructors are offering, in a correct, productive manner, a new learning style that helps students concretely understand, in their lives and in their work, what it means to develop capacities based on emotional intelligence. We live in a period of great expansion of the Net Economy. The Internet has proved to be a revolution with both positive and negative effects, but in any case one that tends to dilute personal relationships and favor virtual contact through computers, cellular telephones and, sometime in the near future, other technological gadgets. How would you reconcile this trend with the development and application of emotional intelligence? There is no doubt that the Internet threatens to create problems, if only for the simple fact that people do not meet physically and do not speak directly over the telephone. Therefore, a certain required empathy is not created; individuals do not establish reciprocal perception. This gives rise to the risk of misunderstanding and unwanted difficulties. Therefore, the danger exists. However, at the same time, new and novel opportunities are also arising because

relationships are becoming easier and more fluid, and the people in an organization are becoming more available. It is possible to say, therefore, that in a way that is only apparently paradoxical, the more people depend on technology, the more they need to use their emotional intelligence to take advantage of the technology in a truly efficient manner. How do you see business as we know it modifying itself, based on current trends, and what will the business of the future be like? I believe that we are heading toward a future in which people will increasingly become the kind of freelance workers: individuals who are free to choose, who will work together in order to develop a specific project, and then change affiliation and alliances in order to work on some subsequent project. The standardized career – one person, one company, for life – that we have known until now is well on its way to extinction. This means that every one of us must learn how to best manage both his own life and his own career. I also believe that emotional intelligence will become an increasingly important, perhaps even crucial, talent required to make the most appropriate choices. Therefore, the businesses of tomorrow will have to take this reality into consideration.

Besides, this reality, is in part, already in progress. * Daniel Goleman is the creator of the concept of emotional intelligence, which he has outlined in two extremely successful books: Emotional Intelligence (1995) and Working with Emotional Intelligence (1998). These books have been published in 30 languages and have sold more than five million copies. Today, Goleman is president of the Emotional Intelligence Services company, an affiliate of the Hay Group. He is also president of the Consortium for Emotional Learning in the Work Environment, an institution at Rutgers University.


Antropologia del manager Managerial Anthropology di Roberto Vaccani* by Roberto Vaccani*

Stress e scelte lavorative Stress and Work Choises

Roberto Vaccani

Gli indizi Il 20% degli individui che popolano la terra sono implicitamente coinvolti in una sperimentazione antropologica senza precedenti. Il laboratorio socio/ambientale nel quale si realizza questo processo, riservato a pochi, è regolato dai paradigmi della cultura industriale che si possono sintetizzare nei seguenti punti: • La maggioranza della popolazione ha risolto i problemi di soddisfacimento dei bisogni primari accedendo a bisogni non ancora ben gerarchizzabili in termini di secondari, voluttuari, falsi bisogni. • Una considerevole massa sociale ha abbandonato gli originari contesti preindustriali e naturali per riversarsi, più quantitativamente che qualitativamente in ambienti urbani artificiali. • Gran parte delle attività lavorative ha perso il legame diretto con un manufatto visibile, la “decosificazione” di molte professioni produce incognite sul grado reale del loro contributo e sulla sostanziale utilità di chi le esercita.

• I mezzi d’informazione di massa hanno ristretto lo spazio e accelerato i tempi di richiesta di reazione. Oggi è possibile, per un quinto degli umani, percorrere il mondo in tempo reale e porre in essere decisioni rapide e modificative del mondo concreto. Ma questa onniscienza di dati cosmici e contemporanea praticabilità di decisioni rapide stenta a fare i conti con gli individui raziocinanti. L’intelligenza umana necessita di considerevoli tempi di pensiero intelligente tra input percettivo ed output decisionale al fine di cogliere gli aspetti più significanti di una realtà diventata vasta, complessa e interrelata. Tale realtà non può essere semplificata, come in un videogioco, da processi decisionali stimolo/risposta. In un mondo diventato piccolo e apparentemente a portata di mano come una palla da tennis e accelerato come un jet il formicolio dell’umanità industriale ha senso, nel presente e, soprattutto, nel futuro? Le trasformazioni nel panorama ambientale esplose in questi ultimi 50 anni impattano con la cauta

inerzialità dei tempi evolutivi del sistema fisiologico umano (filogenesi). Si può affermare che dal punto di vista delle mutazioni biologiche l’essere umano non ha subito cambiamenti molto significativi da un paio di milioni di anni e non è prevedibile una futura accelerazione dovuta a cause naturali. La specie umana ha saputo dimostrare un’enorme capacità di adattamento a contesti e culture diverse. Pur tuttavia è stimabile che le potenzialità di adattamento non siano infinite. Un indizio della difficoltà di adattamento del genere umano nei confronti degli ambienti intensivamente industrializzati lo si ricava da innumerevoli patologie, più o meno gravi, peculiari di tali contesti e genericamente ricondotte al fenomeno dello stress ed alle patologie psicosomatiche. Le società industriali hanno prodotto antidoti efficaci in grado di debellare e curare un’infinità di patologie, hanno raddoppiato la speranza della vita media. Ma, proprio la maggior longevità ha messo in evidenza una diffusa lotta sotterranea che l’evoluzione della specie ingaggia con i contesti ritenuti più avanzati, al di là della consapevolezza cognitiva degli individui che la testimoniano. Le intelligenze individuali e la loro dialettica individuo/ambiente La strabiliante esplosione di scoperte scientifiche e tecniche degli ultimi decenni ha permesso di modificare in modo, a volte radicale, ambienti e contesti sociali ma ha anche impresso una accelerazione stupefacente della comprensione del funzionamento umano inteso in termini di sistema psicobiologico.

Oggi sappiamo che nel nostro cervello convivono in dialettica alcune funzioni, o intelligenze che semplificando possono essere così riassunte: – intelligenza cognitiva analitica – intelligenza cognitiva sistemica – intelligenza emotiva – intelligenza motoria – intelligenza energetica. L’intelligenza cognitiva analitica

L’intelligenza cognitiva analitica (intelligenza di misurazione) è implicata in attività di percezione ambientale e di progettazione comportamentale tese ad ordinare, programmare, misurare, focalizzare nel dettaglio, eventi e situazioni di contesto. È da essa, e dalle stimolazioni ambientali che riceve e seleziona, che dipende la nostra, più o meno sviluppata capacità organizzativa di dettaglio. L’intelligenza analitica è particolarmente utile nel governo di sistemi e situazioni relativamente semplici e nutre una simpatia particolare per le cosiddette scienze “esatte” quali: ingegneria, architettura, economia, contabilità e attività professionali tecnico/specialistiche. L’intelligenza cognitiva sistemica

L’intelligenza cognitiva sistemica (intelligenza d’intuito e di stima) è coinvolta in attività percettive e comportamentali che classificano gli ambienti per analogie metaforiche, per similitudini tra copioni situazionali complessi. L’intelligenza sistemica ci assiste e ci orienta verso “intorni” intuitivi coerenti quando siamo in presenza di sistemi complessi, multifattoriali, dinamici e vasti. Essa ha un feeling particolare per materie di studio più umanistiche quali: filosofia, storia, sociologia, psicologia, arte e attività professionali

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eclettiche, artistiche, manageriali. Le intelligenze cognitive hanno un prevalente riferimento fisico con l’area di più recente evoluzione del cervello corticale. Le funzioni corticali analitica e sistemica nei processi di adattamento svolgono prevalentemente una funzione di front-office (dalla pelle a fuori) e ci aiutano a percepire nel dettaglio (analiticamente) ed in generale (sistemicamente) le condizioni e le aspettative del contesto che ci circonda. Tali intelligenze sono le detentrici dell’universo delle attese e della fattibilità ambientale. L’intelligenza emotiva

Sotto al cervello corticale si trova un sistema di strutture complesse denominato sistema limbico. Questa area cerebrale, di più antica evoluzione, svolge una funzione più centrata sul back-office (dalla pelle a dentro) e tende a mantenere in equilibrio dinamico positivo il sistema ecologico dei soggetti. L’intelligenza emotiva detiene l’universo del piacere e dello star bene peculiare di ogni singolo individuo. Essa svolge una

funzione importante nel governo e nella regolazione del sistema neurologico, endocrino ed immunitario. Questi tre sistemi intimamente interrelati svolgono una funzione importante nei processi fisiologici e patologici che caratterizzano gli stati di stress individuale. Il sistema limbico è fortemente implicato nell’apprendimento individuale in quanto memorizza, in base alla concreta esperienza degli individui, i nostri “luoghi” di attrazione e i nostri ”luoghi” di repulsione. Ambienti, situazioni, persone, cibi, bevande, materie di studio, attività lavorative, svaghi, passati al vaglio della nostra concreta esperienza, se vissuti positivamente assumono un significato emotivamente attraente, se vissuti negativamente entrano nella categoria dei fenomeni emotivamente repulsivi. L’intelligenza emotiva tende a farci ripetere tutte le esperienze ricche di processi e risultati percepiti come piacevoli e, contemporaneamente, ci spinge ad opporre resistenza nei confronti della ripetizione delle esperienze vissute come penalizzanti nel processo,

e fallimentari nel risultato. Le categorie esistenziali dei nostri mondi del piacere e di quelli del dispiacere edificano i nostri tratti di personalità prevalentemente nei primi vent’anni di esperienza individuale, è in questo periodo che si stabilizzano le nostre attitudini (tensioni piacevoli) e le nostre non-vocazioni (resistenze alla spiacevolezza). Quando siamo coinvolti in attività attitudinali o piacevoli la nostra energia biochimica è canalizzata positivamente e induce processi di stress fisiologico e di ricarica energetica. Al contrario, quando siamo coinvolti in attività non attitudinali o spiacevoli parte della nostra energia è implicitamente stanziata in processi di resistenza/rifiuto, in questi casi possono instaurarsi dinamiche di scarico energetico e di stress patologico. La ferrea funzione di contabile della positività e della negatività emotiva del sistema limbico ne rileva la sua missione di sistema premiante biologico teso a massimizzare gli stati di benessere dell’individuo e minimizzare quelli di malessere. Per comunicare col

proprietario il sistema limbico usa i suoi potenti strumenti neuro-endocrino-immunitari. In presenza di attività o situazioni piacevoli percepiamo tonicità psicomuscolare e resistiamo piacevolmente a notevoli carichi di lavoro psicocorporeo. In presenza di condizioni spiacevoli possono instaurarsi processi psicosomatici transitori e fisiologici di ritentività neuromuscolare (tensioni alle spalle, cefalee, difficoltà digestive, insonnia, eccetera). Se le condizioni di spiacevolezza situazionale sono di alta intensità e perduranti nel tempo i processi metabolici dello stress passano dalla fase fisiologica d’allarme a quella denominata di resistenza fino a giungere alla fase clinicamente significativa di esaurimento, in questa fase il sistema immunitario abbassa le sue difese e possono manifestarsi segnali patologici importanti (malattie cardiomuscolari, ulcere gastroduodenali, tumori). Gli stati individuali di stress sono soggettivi e aspecifici rispetto alla situazione che li provoca. Ciò che risulta stressante per un soggetto


direzione suggeritegli dal cervello emotivo. Se l’individuo compie azioni percepite come piacevoli l’intelligenza energetica fornirà energia canalizzata in misura dell’interesse/piacere e metterà in azione un loop neuro-endocrino-immunitario positivo (stress positivo). Ma se l’individuo è implicato in attività percepite come spiacevoli l’intelligenza energetica darà il via ad un loop neuro-endocrinoimmunitario negativo, di intensità proporzionali al tasso ed alla durata del dispiacere (stress negativo).

può non esserlo per un altro in ragione delle diverse percezioni emotive edificate da diverse esperienze individuali. L’intelligenza motoria

L’area cerebrale del cervelletto in collaborazione con altre aree subcorticali (sistema piramidale ed extrapiramidale) è in grado di memorizzare, una volta appresi e ratificati dall’esperienza, l’orchestrazione coordinata e finalizzata dei movimenti corporei. È questa intelligenza corporea che apprende innumerevoli procedure corporee, dalle più semplici come quella di svitare o avvitare un bullone, alle più complesse come quella di mantenere l’equilibrio da bipedi, oppure di guidare un automezzo, di praticare uno sport, di suonare uno strumento. È questa intelligenza che ci propone

procedure corporee coerenti con la situazione ambientale offrendoci misura ed eleganza corporea in semiautomatismo, permettendoci, così, di dedicare il resto del cervello a compiti di pensiero più astratto. Questa intelligenza in situazioni di stress positivo ci propone, attraverso i suoi legami neuromuscolari, il meglio dei gesti appresi. In condizione di stress negativo possono entrare in azione fenomeni psicosomatici di ritentività difensiva ad impacciare il coordinamento dei movimenti a detrimento della performance elegante. L’intelligenza energetica

L’area cerebrale di più antica formazione è quella del tronco encefalico, la quale, tra altre funzioni vitali (automatismi del battito cardiaco e della respirazione), ha la funzione di accumulare energia e di distribuirla in quantità ed in

Il manager tra dovere e piacere Si può affermare che le figure manageriali incarnano un prototipo sociologico peculiare ed emblematico dell’antropologia industriale. Chi ricopre tali ruoli non è certo più alle prese con pesanti bisogni primari, vive prevalentemente in contesti convenzionali urbanizzati, svolge attività decosificate, indirette e solo approssimativamente valutabili con indicatori qualitativi e quantitativi, è alle prese con fenomeni spazialmente estesi e poco definiti (globalizzazione). È esposto a tensioni temporali (accelerazione degli eventi aziendali e di mercato) ed è al centro del conflitto tra il decidere in fretta (efficienza) ed il decidere bene ed in modo ponderato (efficacia). Va aggiunto che tali ruoli implicano una notevole responsabilità professionale e personale, ed implicano un esercizio energetico e leaderistico tale da infondere tonicità d’azione a tutti i collaboratori. Nello scenario delle commedie industriali il ruolo del manager rappresenta una parte non facile da recitare per gli attori chiamati ad interpretarla. Una

parte che richiede, in maggior misura delle competenze, tratti attitudinali non facilmente rintracciabili e così sintetizzabili: • Buona capacità analitica, organizzativa e progettuale nell’affidare mandati ai collaboratori e nell’articolare il proprio piano di attività. • Ottima attitudine sistemica in grado di governare col pensiero metaforico ed astratto ambienti complessi, dinamici e multifattoriali. • Alta capacità di governo emotivo occorrente a reggere relazioni negoziali e conflittuali con diversi interlocutori. • Discreta eleganza non verbale, utile per riscuotere seduttività nelle attività di relazione pubblica. • Alta attitudine leaderistica, indispensabile per infondere forza al mandato organizzativo ed ai collaboratori che lo devono condividere. • Alta capacità di assumere in prima persona rischi decisionali. • Ottima attitudine a ponderare le decisioni ed a raccogliere, classificare ed elaborare convenientemente tutte le informazioni essenziali evitando le azioni d’impulso. Preso atto del non comune profilo attitudinale, della contemporanea diffusione numerica dei ruoli manageriali e dei criteri che guidano i percorsi di carriera non sempre attenti alle valutazioni attitudinali è intuibile che molti manager vivano disagi di adattamento ad un ruolo così pretenzioso. Ma anche gli individui che reggono attitudinalmente le attese manageriali si trovano frequentemente stressati oltre la frontiera del piacere di esercizio di mestiere spinti dai marosi aziendali a presidiare eventi e mandati non prevedibili e non sempre

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e di lavoro. Un’attività extralavorativa vissuta come piacevole da un manager, può sembrare incoerente e slegata dagli impegni lavorativi, ma è sostanzialmente coerente con la carica biochimica di un individuo che deve puntare soprattutto sulla canalizzazione energetica positiva per esercitare convenientemente la propria missione aziendale. Le aziende dovrebbero essere grate ai manager che, riempiendo di piacevolezza extralavorativa il loro tempo, fanno il pieno energetico anche per il lavoro. L’ecologia qualitativa dell’attore manageriale è inevitabilmente anche ecologia di esercizio di ruolo.

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graditi. Non sempre il manager riesce ad accordare le aspettative ed i dati di fattibilità provenienti dall’ambiente esterno con il piacere atteso dal suo ambiente interno. L’interiorizzazione dei disagi organizzativi, indotta dai ruoli manageriali, può favorire l’insorgere di fenomeni psicosomatici indesiderati, clinicamente conosciuti e spesso occultati per pudicizia di ruolo (perché il manager non deve chiedere mai!). La profilassi o la cura proponibili per tali eventi sono suggerite dalla stessa intelligenza emotiva che li fa insorgere a guisa di comunicazioni di servizio sul grado di insoddisfazione del cliente interno. In primo luogo è suggeribile che gli individui ponderino bene la sopportabilità attitudinale dei ruoli aziendali prima di assumerne il carico. In secondo luogo, puntando sul fatto che i mandati manageriali godono di alta discrezionalità decisionale di esercizio di ruolo e di

distribuzione del lavoro ai collaboratori, è consigliabile che chi li riveste, nei limiti concessi dalle responsabilità di funzione, articoli la divisione del lavoro in modo tale da delegare il più possibile attività meno attitudinali coprendo direttamente le funzioni più vocazionali. Ma, soprattutto, costatato che i doveri dell’attività manageriale confliggono spesso con il piacere energetico di chi li riveste, è consigliabile che i manager progettino una ricca e qualitativa vita extralavorativa. La piacevolezza degli affetti familiari, l’esercizio assiduo dell’attività sportiva preferita, la pratica impegnata di hobby e passatempi non rappresentano per i manager esperienze compensatorie e residuali ma sono parte fondante di una personalità che vuole essere positiva ed è messa alla prova da missioni organizzative stressanti. Non c’è di peggio che totalizzare ossessivamente la propria vita in un lavoro stressante per degradare la qualità di vita

* Roberto Vaccani svolge attività di consulenza direzionale e di sviluppo organizzativo presso numerose aziende di primaria importanza. È inoltre fondatore e responsabile del SES (Studio di Educazione Sociale) nonché docente di Organizzazione Aziendale e Comportamento Organizzativo presso l’Università Bocconi e la SDA. Il professor Vaccani è anche responsabile del Servizio Interno di Sviluppo della Didattica e dell’Apprendimento della SDA. È autore di numerose pubblicazioni sul tema delle relazioni esistenti tra professionalità, attitudini e carriera.

Indications Twenty percent of the individuals on this earth are implicitly involved in an unprecedented anthropological experimentation. This process, reserved for a few individuals, is being conducted within a socio/environmental laboratory regulated by the paradigms of the industrial culture. These paradigms can be summarized in the following points: • The largest portion of the population has solved the problems of satisfying primary needs by establishing access to needs that are not yet well

classified in terms of secondary necessities, nonessential desires and false needs. • A considerable portion of society has abandoned original pre-industrial and natural contexts in order to establish themselves, more quantitatively than qualitatively, in artificial urban environments. • A large part of the work activities has shed its direct link with visible manufacture, and this detachment from constructed things in many professions raises questions about the real level of their contribution and the substantial usefulness of those who practice them. • The various means of mass communication have restricted the space and accelerated the time within which people expect reactions. Today it is possible for one-fifth of mankind to travel around the globe in real time and make rapid decisions capable of changing the concrete world. But this omniscience about cosmic data and the contemporary feasibility of making quick decisions struggles to find balance in the minds of thinking individuals. Human intelligence requires considerable intelligent thinking time between perceptive input and decisional output in order to gather the most significant aspects of a reality that has become extraordinarily vast, complex and inter-related. Such a reality cannot be simplified, like a videogame, by decision-making processes that rely on nothing more than stimulus/response. In a world that has become small and seemingly as handy as a tennis ball and as fast as a jet airplane, does the


frenetic activity of industrial humanity make any sense in the present and, most importantly, in the future? Environmental changes have exploded over the last fifty years, impacting the cautious inertia of the evolutionary timing of the human physiological system (phylogenesis). We can confirm, from the standpoint of biological mutations, that the human being has not significantly changed for at least a couple of million years, and there is nothing to suggest any future acceleration due to natural causes. The human species has demonstrated an enormous capacity for adapting to radically diverse contexts and cultures. This capacity notwithstanding, we can nevertheless suppose that the potential to adapt is not endless. One indication of mankind’s difficulty to adapt to intensely industrial environments can be identified in the endless number of pathologies, more or less serious, that are particular to these contexts. These pathologies are generically traced back to what we generally refer to as stress and psychosomatic pathologies. Industrial societies have produced effective antidotes capable of eradicating and curing an infinite number of pathologies and have more than doubled man’s average life expectancy. But it is the greater longevity we have acquired that has highlighted a diffuse, subterranean battle. It is a battle being waged between the evolution of the species and the contexts we consider to be the most advanced, above and beyond the cognitive awareness of the individuals who witness it.

Individual Intelligences and their Dialectic of Individual vs. Environment The remarkable explosion of scientific and technological discoveries over recent decades has, in certain cases, permitted us to radically modify environments and social contexts. But it has also caused an astounding acceleration in the understanding of human functioning in terms of a psycho-biological system. Today we know that several functions or intelligences cohabit dialectically in our brain which, if simplified, can be summarized as follows: – Cognitive, analytical intelligence – Cognitive, systemic intelligence – Emotional intelligence – Motor intelligence – Energetic intelligence. Cognitive, Analytical Intelligence

Cognitive, analytical intelligence (measuring capacity) is involved in activities like perception of the environment and behavioral planning. It is intended to perform such tasks as ordering, programming and measuring, as well as focusing on details, events and contextual situations. It is from this kind of intelligence – and from the environmental stimulations that this intelligence receives and selects – that springs forth our more or less developed ability to organize details. Analytical intelligence is particularly useful in managing relatively simple systems and situations. This intelligence nurtures a special attraction to the so-called “exact” sciences such as engineering, architecture, economy, accounting and technical/specialist professions.

Cognitive, systemic intelligence

Cognitive, systemic intelligence (intuition and evaluation) is used in those perceptional and behavioral activities that classify environments according to metaphorical analogies, including comparisons between pairs of complex situations. Systemic intelligence helps orient us around intuitive, coherent “surroundings” when we are in the presence of large and complex systems composed of multiple and dynamic factors. This intelligence has a particular understanding of the more humanistic areas of academic study like philosophy, history, sociology, psychology and art, as well as professions that are eclectic, artistic and managerial. The cognitive intelligences possess a notable physical reference point in the most recently evolved areas of the cortical brain. The analytical and systemic functions of the cortical brain used in the processes of adaptation perform a primarily front-office function (from the skin outwards); they help us perceive even the most minute details (analytically), and more generally (systemically) the conditions and expectations that can be gathered from the surrounding context. These intelligences are hosts to the universe of waiting as well as to environmental feasibility. Emotional intelligence

Below the cortical brain we discover a system of complex structures known as the limbic system. This cerebral area, which has a more ancient evolution, performs a function more focused on the backoffice (from the skin inwards). It generally acts to maintain a positive and dynamic equilibrium within the

ecological system of the body in which it resides. Emotional intelligence contains each individual being’s universe of pleasure and of well-being. This kind of intelligence performs an important function in managing and regulating the neurological, endocrinal and immune systems. These three intimately inter-related systems are critical to the physiological and pathological processes that characterize individual states of stress. The limbic system is strongly involved in the learning process of each individual insofar as it memorizes the “places” that produce attraction and the “places” that produce repulsion, based on that individual’s concrete experiences: environments, situations, people, foods, drinks, different areas of study, work and employment activities, pastimes and all that has passed through the sieve of close scrutiny and that constitutes our concrete experience. If these things are experienced positively, then they assume an appealing emotional significance; if they are experienced negatively, then they become elements within a category of phenomena that we consider emotionally repulsive. Emotional intelligence tends to force us to repeat all the experiences that prove rich in processes and results perceived as pleasurable. At the same time, emotional intelligence also pushes us to resist and avoid the repetition of experiences that we categorize as unpleasant to endure, or that fail in their final result. The existential categories in our individual worlds of pleasure and displeasure build up our personalities most notably in the first twenty years of our experience, and it is within this period that

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our attitudes (pleasurable tensions) and non-vocations (resistance to displeasure) are basically established. When we are involved in attitudinal or pleasant activities, our biochemical energy is channeled positively and this induces processes of physiological stress and energetic recharging. On the other hand, when we are involved in activities that are non-attitudinal or that cause displeasure, a part of our energy is implicitly caught up in processes of resistance/refusal. In these cases it is possible for our psyche to set up dynamic processes of energy discharge or pathological stress. The ironclad function of accounting for positive and negative emotional energy within the limbic system reveals its mission as a biological system of reward that works to maximize the individual states of well-being and to minimize those of unhappiness or displeasure. In order to communicate with its owner, the limbic system utilizes its own powerful neurological, endocrinal and immune-system instruments. In the presence of activities or situations that are pleasurable we perceive psycho-muscular invigoration and we pleasantly resist considerable charges of psycho-corporeal labor. In the presence of unpleasant conditions, we witness the engagement of transitory and physiological psychosomatic processes of neuromuscular retention (tension in the shoulders, headaches, difficulties with our digestive system, insomnia…). If the situation’s unpleasant conditions are of a particularly high intensity and last for a considerable time, then the metabolic processes of stress change from the physiological phase of alarm to the so-called

phase of resistance, until we reach the clinically significant phase represented by breakdown. In the breakdown phase the immune system lowers its defenses and we begin to see the appearance of important pathological signals (cardiomuscular illnesses, gastroduodenal ulcers, tumors). Individual states of stress are subjective and non-specific with respect to the situation that provokes them. That which produces stress for one person may not prove stressful for another individual due to the diverse emotional perceptions established over time by the different experiences that each individual undergoes. Motor intelligence

The cerebral area of the little brain, in conjunction with other areas of the sub-cortex region (pyramidal and extrapyramidal systems) is capable of memorizing the coordinated and finalized orchestration of corporeal movements, once these movements have been learned and approved by experience. It is this very corporeal intelligence that learns innumerable physical procedures, from the most simple actions like that of screwing on or twisting off a screw bolt, to the most complex movements like that of maintaining equilibrium as a biped, or that of driving a car, playing sports or playing some musical instrument. It is this intelligence that prompts us to undertake corporeal procedures that are consistent with our environmental situation, providing us with bodily measure and elegance in semi-automatism. In this way it allows us to dedicate the rest of our brain’s considerable power to activities that involve more abstract thought. In situations

of positive stress this intelligence offers us, through its neuromuscular connections, the best of our learned gestures. In conditions characterized by negative stress we may witness the engagement of psychosomatic phenomena of defensive retention – phenomena that hinder the coordination of our movements, damaging our elegant performance. Energetic intelligence

The oldest formation of the cerebral area is that of the encephalic trunk. In addition to other vital functions (automatism of the heart beat and of respiration), it concentrates its efforts on accumulating energy and distributing it in quantities and directions recommended to it by the emotional area of the brain. If a given individual carries out actions that are perceived as pleasurable, then the energetic intelligence will supply energy channeled according to that required by inputs of interest and/or pleasure and will activate a positive neurologicalendocrinal-immune system loop (positive stress). But if the individual is involved in activities that are perceived as unpleasant, then the energetic intelligence will initiate a negative neurological-endocrinalimmune system loop of an intensity that is proportional with the level and the duration of the displeasure (negative stress). The manager divided between duty and pleasure We can affirm that managers embody a sociological prototype that is both peculiar to, and emblematic of, industrial anthropology. It can certainly no longer be said that the individuals who fulfill

these roles are dealing with heavy, onerous primary needs. They live primarily in conventionally urbanized contexts; they undertake activities that have been detached from constructed things, activities that are indirect and only approximately measurable with qualitative and quantitative indicators. These individuals are at grips with phenomena that are especially extensive and poorly defined (globalization). They are exposed to sequential tensions (the acceleration of business and market events) and they are at the center of conflict between deciding in a hurry (efficiency) and deciding carefully and in a well thought-out manner (efficacy). It must also be added that these roles imply a considerable level of professional and personal responsibility and require actions that reflect such energetic and leadership involvement as to infuse tonicity of action in all their employees. In the scene of industrial comedies, the role of the manager is difficult to play for the actors called upon to take the stage. It is a part that requires, according to the talent, attitudinal behaviors that are not easily represented and that can be summed up as follows: • Good analytical, organizational and project leadership capacities in delegating job responsibilities to employees and effectively articulating the accepted plan of action. • An optimal system-oriented attitude capable of governing and managing complex, dynamic and multi-faceted environments with metaphorical and abstract thought.


• A high capacity of emotional management, necessary to support and sustain negotiations and antagonistic relationships with different partners. • A good level of non-verbal elegance, which is useful in establishing an appealing demeanor in the various public relations activities. • An extremely high level of leadership ability, something that is indispensable in providing strength to the organizational mandate and to the employees who must share the same vision and strategy. • A high capacity for personally taking on the risks involved with decisionmaking. • An optimal attitude toward careful consideration of decisions and toward the proper gathering, classifying and elaborating of all information essential to avoiding actions prompted by impulse or whim. Considering this all-toouncommon attitudinal profile, today’s numerical diffusion of managerial roles, and the criteria that guide the pathways of this career which do not always pay close attention to necessary attitudinal measures, it is easy to understand that many managers live uncomfortably with and remain poorly adapted to what is an extremely demanding role. But even individuals capable of attitudinally withstanding the expectations of the managerial role often find themselves to be victims of stress that reaches beyond the pleasure produced by performing the role they have accepted. These individuals are pushed by the breaking waves of company policy to preside over events and fulfill responsibilities that cannot always be foreseen and are not often appreciated. The

manager is not always able to strike a balance and create agreement between the expectations and various feasibility data input that flow into his psyche from the external environment, and the pleasures and happiness expected by his internal environment. The interiorization of organizational discomfort, created in large measure by managerial roles, can favor the creation of undesired psychosomatic phenomena, clinically recognized and often hidden away by a strong sense of embarrassment inherent in the role (because a manager must never ask!). The appropriate preventive measures or acceptable cures for these events are suggested by the very emotional intelligence that brought on the disturbance in the first place. It brings such a cure to the surface in the guise of service communications about the degree of the internal client’s dissatisfaction. To begin with, one good suggestion is that the individual think carefully about the attitudinal sustainability of a given company role before he or she accepts the responsibility. Second of all, based on the fact that managerial mandates enjoy a high level of decisional discretion in conducting the tasks of a given role and in distributing work among employees, it is advisable that managers clearly articulate (within the limits of the responsibilities of their job description) the division of labor among their charges so as to delegate as much as possible the less attitudinal activities, and directly cover the more vocational functions. But, above all else, given the fact that the demands of managerial activities often conflict with the energy pleasure created within the

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people who fulfill them, managers should plan for a rich and qualitative life outside the office. The pleasure that can be gleaned from family affection, the assiduous practice of a preferred sport, or the practical involvement in a chosen hobby or pastime does not represent compensatory and residual experiences for the manager; rather it is a fundamental requirement of a personality that wants to be positive and is put to the test by stressful organizational assignments. There is nothing worse than completely and obsessively giving over one’s life to a stressful job, and there is no surer way to guarantee an absolutely degraded quality of life and labor. An extracurricular activity experienced as pleasure by the manager may seem inconsistent with and disconnected from his appointed work responsibilities, but it is fundamentally consistent with the biochemical charge on which any given individual must depend in order to channel positive energy effectively and efficiently in performing the various responsibilities entrusted

to him by the company. Businesses should be grateful to managers who, by filling their time away from work with pleasant, joy-provoking activities, return to their jobs with a full charge of positive energy. The qualitative ecology of the managerial actor is inevitably one and the same as the ecology of fulfilling a given role.

* Roberto Vaccani works as a consultant in directional management and organizational development for numerous leading companies. He is the founder and director of SES (Social Education Studio), as well as a professor of Business Organization and Organizational Behavior at the SDA and the Bocconi University in Milan, Italy. In addition, Professor Vaccani is in charge of the SDA’s Internal Department for the Development of Didactics and Learning. He is the author of numerous publications on the theme of the relationships between professionalism, attitudes and career.


Projects

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In architettura, la trasparenza non è negazione della materia ma solo un radicale cambio di identità. Attraverso la trasparenza del volume architettonico, il processo di dematerializzazione segue l’evolversi della tecnologia in un crescendo che pare non avere mai fine. Il futuro dell’architettura sembra dunque puntare verso il concetto di spazio globale, eliminando così la distinzione fra esterno e interno. In architecture, transparency is not a denial of matter; it is simply a radical change of identity. Through the transparency of the architectural volume, the process of dematerialization follows the evolution of technology in a growing development that appears endless. Therefore, the future of architecture seems to point toward the concept of global space, thereby eliminating the distinction between internal and external space.

Progetto immateriale Immaterial Project Trasparenza, preziosa conquista della nostra epoca Transparency, a Precious Achievement of our Era Gillo Dorfles*

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na delle osservazioni più acute fatte da Siegfried Giedion – il grande critico di architettura – è stata quella a proposito della trasparenza: del fatto cioè che certe popolazioni selvagge, nei loro primitivi disegni, cercavano sempre di fissare tutto ciò che era nascosto nel sottosuolo, come se lo stesso fosse trasparente. E, del resto, quale riproduzione del “vero” è più realistica di quella che raffigura anche quello che non è visibile all’occhio nudo ma che effettivamente esiste? Ma, se il selvaggio del paleolitico aveva cercato di infrangere, solo virtualmente, il diaframma tra sé e il mondo, ai nostri giorni questo diaframma spesso è caduto. Anzi, proprio il fatto d’abolire l’ostacolo tra l’interno e l’esterno di un edificio è stato una delle grandi conquiste del primo razionalismo. Gli albori del Movimento Moderno – culminato nelle opere magistrali dei Mies, dei Breuer, dei Kahn ecc. – sono spesso stati caratterizzati dalle scoperte dei curtain walls, delle pareti continue di vetro che trasformavano l’antico parallelepipedo trilitico d’un tempo in una sorta di voliera aperta agli occhi del passante e aperta, per l’abitante, alla visione del mondo circostante. L’entusiasmo per la casa su pilotis, per la facciata continua senza terrazzi, per la parete trasparente, doveva durare solo qualche decennio. Si comprese presto che l’uomo necessita molto spesso di un “abri”, d’un guscio chiuso nel quale rifugiarsi, protetto dagli sguardi del prossimo e anche dall’intromissione forzata e invadente del mondo esterno. Eppure la conquista della trasparenza non poteva essere abbandonata, la possibilità di valersi dei nuovi materiali – dal vetro al plexiglas, dalle resine sintetiche ai vari materiali plastici, dotati di transvisibilità – ha fatto sì che molto spesso l’architettura abbia fatto e faccia ricorso all’artificio della trasparenza: nelle volte da cui filtra la luce del cielo, nelle pareti che si accendono di mille luci notturne, la presenza del vetro e degli altri materiali analoghi ha impresso agli edifici urbani una dimensione mai prima esistita, che oltretutto si sposa con l’odierna condizione dell’uomo di far parte di una comunità (anche se purtroppo questa comunitarietà è spesso tutt’altro che gradita!). Dalla cupola trasparente del nuovo Reichstag berlinese, alle piramidi vitree dell’ingresso al Louvre, alle tante recenti costruzioni tecnologiche, ecologiche, dove la natura cerca di infiltrarsi entro le costruzioni umane o dove le costruzioni già in partenza si associano al verde della natura, è tutto un susseguirsi di realizzazioni come – per non dare che un minimo esempio – il nuovissimo Institute for Forestry and Nature Research a Wageningen di Stephan Behnisch completamente traslucido e dove il verde penetra all’interno a mo’ di serra; o come la grande “serra tropicale” in cui è stata trasformata l’antica stazione centra-

le di Madrid; o come il grattacielo di uffici di Renzo Piano a Sidney dove delle semipareti isolano gli appartamenti dal traffico cittadino; o come gli uffici 88 Wood Street di Richard Rogers a Londra; o ancora gli uffici statali di Bucholz e McEvoy a Dublino… La parete di molti edifici si è assottigliata, ha dimenticato il mattone, ha distanziato il pilotis, ha permesso allo spazio esterno di fondersi con quello interno e, molte volte, in alcune gigantesche costruzioni pubbliche – decisamente “pubblicitarie” come nel Tokyo Forum di Raphael Vign˘oli a Tokyo – ha permesso che le grandi pareti trasparenti costituissero la vera anima dell’edificio. Ma la trasparenza ha invaso non solo le aperture esterne, ma anche quelle interne verticali: quanti passaggi sotterranei, quanti mercati e ritrovi scavati nelle viscere dell’edificio (si pensi solo al City Co-op newyorkese) hanno allargato l’“orizzonte verticale” permettendo all’abitante di percorrere i locali avendo ai suoi piedi la visione dall’alto, resa possibile dalla trasparenza del pavimento. Il che può diventare persino uno spettacolo artisticoarcheologico in molti casi di ruderi antichi; ad esempio ad Aosta e a Verona dove un intero quartiere romano è visibile dall’alto, in uno dei ristoranti di Piazza delle Erbe, attraverso una parete vitrea. Quale, allora, può essere la conclusione di un discorso come questo, quanto mai superficiale se privo di riferimenti tecnologici, attorno a un problema così arduo come quello della trasparenza? Credo che il problema non possa essere risolto né oggi né domani perché è intimamente legato a quello della spazialità interna ed esterna di ogni costruzione. L’architettura, insomma, non può essere né solo interna né solo esterna; e la trasparenza – preziosa conquista della nostra epoca – non potrà mai globalmente prevalere. * Gillo Dorfles nasce a Trieste nel 1910. Dopo la laurea in medicina si dedica alla pittura e, nel 1948, è tra i fondatori del gruppo MAC insieme a Monnet, Soldati e Munari. In seguito si dedica alla critica d’arte e agli studi di estetica, pubblicando numerosi saggi. È collaboratore del Corriere della Sera e di riviste d’arte e di architettura.

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ne of the sharpest observations ever made by Siegfried Giedion – the great architectural critic – was about transparency. He said that the designs of certain primitive peoples continuously attempted to represent everything that was hidden underneath the ground, as if this ground itself were transparent. Furthermore, what reproduction of the “real” is more true than the one which represents the things not visible to the naked eye, but that nevertheless exist? However, if the savage man of the Paleolithic era was trying to breach, though only virtually, the separation that divided him from the world, in


TRASPARENZA TRANSPARENCY our day and age this division has often fallen away. In truth, it is the very abolishment of the obstacle between the internal and external space of a building that remains one of the great conquests of early rationalism. The dawn of the Modern Movement – culminating in the masterly works by Mies, Breuer, Kahn and so forth – has often been characterized by the discovery of curtain walls. These continuous walls of glass transformed the ancient trilithic parallelepiped of yore into a kind of aviary open to views of passersby and, for the edifice’s inhabitant, to a wide vision of the surrounding world. Enthusiasm for the house on stilts, for the continuous facade free of terraces, for the transparent wall, was only supposed to last a few decades. It was soon understood that man often needs a “shelter,” a closed, secure cocoon where he can take refuge, protected from the inquisitive looks of his neighbor as well as from the forced and invasive intrusion of the outside world. And yet the conquest of transparency could not be wholly abandoned. The possibility of using new materials – from glass to Plexiglas, from synthetic resins to various plastic materials, all endowed with some degree of translucency – made it possible for architecture to return, willingly and often, to the use of the artifice of transparency. In the ceilings that filter down light from the open sky, in the walls that light up with a thousand nocturnal points of light, the presence of glass and other similar materials has bestowed on urban edifices a dimension that never existed before. Furthermore, it is a dimension that weds itself perfectly to man’s present condition of belonging to an established community (even if all too often this community living is anything but appreciated!). From the transparent cupola of the new Reichstag in Berlin, to the glass pyramids at the entrance to the Louvre, to the many recent technological and ecological constructions in which nature attempts to infiltrate the manmade constructions or where these constructions associate themselves directly with the greenness of nature from the start – everything is characterized by the artifice of transparency. An example may be the brand new Institute for Forestry and Nature Research at Wageningen, designed by Stephan Behnisch. It is a completely translucent structure that allows greenery to penetrate inside as if it were a kind of greenhouse. Another example is the great “tropical greenhouse” converted from the old central train station in Madrid; or the skyscraper of offices created by Renzo Piano in Sydney in which the half-walls isolate the apartments from the urban traffic; or the offices at 88 Wood Street designed by Richard Rogers in London; or the state government offices by Bucholz and McEvoy in Dublin… The walls of many buildings have thinned themselves out, have left bricks behind, have distanced themselves from the “stilts”. They have permitted outside space to fuse with internal space and, very often, a number of gigantic public constructions – decidedly “publicity-oriented” such as the Tokyo Forum designed by Raphael Vign˘ oli in Tokyo, Japan – have permitted the great transparent walls to constitute the true heart and soul of the edifice. But not only has transparency invaded the external openings, it has taken over the internal vertical ones as well. How many underground passages, how many markets and gathering spaces have been carved out of the insides of buildings (one has only to consider the City Co-op in New York), acting to enlarge the “vertical horizon?” This allows inhabitants to cross the assorted spaces while maintaining at their feet a top view made possible by the transparency of the very pavement they are

walking on. This effect is even capable of becoming an artistic-archeological show in the case of many ancient ruins. An example, in Aosta and Verona, Italy, is the entire Roman neighborhood visible from above through a glass wall in one of the Piazza delle Erbe restaurants. What, then, is the possible conclusion to an active, engaging subject like this one, though it be ultimately superficial without any technological reference point, around a problem as arduous as that of transparency? I believe that the problem can be resolved neither today nor tomorrow because it is intimately connected with the problem of internal and external space – a problem that remains a fundamental part of every construction. In the end, architecture is neither simply internal nor external; and transparency – that precious achievement of our era – can never prevail on a global scale. * Gillo Dorfles was born in Trieste, Italy in 1910. After obtaining a degree in medicine, he dedicated himself to painting and, in 1948, was among the founding members of the MAC group together with Monnet, Soldati and Munari. Later on, he devoted himself to art criticism and aesthetic studies, publishing numerous essays. Currently he contributes to the Italian newspaper, the Corriere della Sera, as well as many art and architectural magazines.

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Kisho Kurokawa, Hotel Kyocera a Kagoshima. Kisho Kurokawa, Hotel Kyocera in Kagoshima.


Geometria al naturale Natural Geometry Ehime, Museo delle Scienze Ehime, Museum of Science Progetto di Kisho Kurokawa Architect & Associates Project by Kisho Kurokawa Architect & Associates

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In queste pagine, il Museo delle Scienze nella prefettura di Ehime, Giappone. Il complesso occupa un’area di 30.000 mq e sorge nella periferia di Niihama, nell’isola di Shikoku. The Museum of Science in Ehime Prefecture, Japan. The complex covers an overall area of 30,000 square meters located on the outskirts of Niihama, on Shikoku Island.

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ggi l’architetto si trova in un momento cruciale del suo operare. L’informatica, soprattutto grazie a Internet, oltre ad aver dato vita alla new economy, sta anche riplasmando la professione, trasformando il progettista di edifici in ideatore e coordinatore di una sorta di architettura “bidimensionale” fatta di superfici-informazione che, oltre ad avvolgere spazi e volumi, funge da medium, superando i limiti dei mass media e creando così una totale integrazione fra informazione, nel senso più totale del termine, e spazio abitativo. Questa nuova dimensione del progetto influisce anche laddove non si è ancora giunti ad un simile grado di avanguardia ma si stanno evidenziando nuove tendenze progettuali come la ricerca di una nuova identità della struttura architettonica: è, infatti, in atto la tendenza a realizzare complessi architettonici con un’immagine forte, quasi mediatica invece di inseguire la pura astrattezza o unicamente la funzionalità. In tal senso, Kurokawa ha al suo attivo quasi tutta la sua opera dove suggestione e comunicazione sono sempre in primo piano. Il “fiabesco tecnologico”, unito a un mix di tradi-

zione e innovazione, è il mondo in cui uno fra i più prestigiosi architetti giapponesi crea i suoi progetti. Se i solidi elementari sono la materia prima dell’opera di Kurokawa, la trasparenza è la “pelle intelligente” in grado di mutare la fisicità del cemento in una sorta di sogno della materia. Il Museo delle Scienze della prefettura di Ehime, in Giappone, con le sue schegge di specchiante “trasparenza” disseminata su volumi puri attraverso l’impiego di lastre di titanio, è una delle opere che meglio configurano l’identità progettuale del Maestro, autore del Teatro dell’Opera di Haskovo, in Bulgaria, della torre a capsule di Nakagin e delle Città Libiche. Il complesso museale sorge in un’area appena fuori il centro urbano di Ehime e si configura come una sorta di piccola città ideale, la cui purezza compositiva suggerisce soluzioni possibili a quel problema della territorialità da sempre alla base del concept progettuale di Kurokawa. Una territorialità caratterizzata dalla mutazione di luoghi prima marginali, poi trasformati in avamposti urbani per nuove espansioni metropolitane. Il sito su cui sorge il complesso museale è quello suggestivo dell’isola di Shikoku, nell’area suburba-


TRASPARENZA TRANSPARENCY

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na di Niihama, ai margini di un’arteria d’importanti interscambi stradali, ma ciò che rende attraente il luogo è senza dubbio la commistione tra natura e artificialità dell’architettura. Il museo, infatti, giace ai piedi di incantevoli rilievi montani. Il nuovo insediamento ha dunque modificato il paesaggio dell’isola di Shikoku attraverso una simbiosi alimentata da interrelazioni architettura-ambiente, grazie a contrappunti e simmetrie fra la dolcezza delle curve naturali del territorio e le puntute strutture architettoniche, configurate in una sequenza apparentemente casuale in cui cubi, coni e triangoli danno forma e funzione a un complesso composto di un planetario e di alcuni corpi di fabbrica destinati agli uffici amministrativi. Nel gioco di trasparenze accennate e di incastri geometrici, Kurokawa non ha però dimenticato il dato storico-estetico della cultura architettonica giapponese, frutto di una sottile alchimia in cui modernità e tradizione convivono da sempre. Ciò è riscontrabile soprattutto nella concezione planimetrica, dove appare chiara la struttura del giardino giapponese in cui percorsi e volumi si integrano, creando una sorta di scrittura tridimensionale, di paesaggio interiore

espresso attraverso le forme dell’architettura come segno e la natura quale superficie significante. Di particolare spettacolarità, la facciata principale è caratterizzata da una combinazione di materiali come alluminio, vetro e calcestruzzo a vista. Il tutto mixato e ridistribuito con grande maestria compositiva. Maestria evidente anche nella scelta di contrapporre alla sfericità della copertura del planetario il grande cono trasparente, una sorta di montagna tecnologica ma anche metafora “ascensionale”, fuga dalla terra verso gli astri osservati nel planetario. Ma le suggestioni non si esauriscono in una composizione architettonica orchestrata su un ottimo compromesso fra geometria euclidea e giardino zen, poiché anche i percorsi interni sono altrettanti manifesti della poetica di Kurokawa. Come, per esempio, il percorso che unisce la grande hall al planetario: realizzato nel sottosuolo, si snoda anche attraverso la zona su cui insiste uno specchio d’acqua artificiale che cinge parzialmente il grande cono e parte della hall, suggerendo come l’architettura viva anche d’invisibili relazioni, proprio come un corpo vivo in cui flussi e connessioni interne tengono in vita l’organismo.


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oday, architecture finds itself at a crucial juncture in its development. Information technologies, and notably the Internet, have already established the new economy and are remodeling the profession. They are transforming the architect into an inventor and coordinator of a kind of “two-dimensional” architecture composed of information-platforms, an architecture that not only encases spaces and volumes, but also functions as a medium, overcoming the limits of mass media and thereby generating a complete assimilation of information (in the broadest sense of the term) and living space. The influence of this new dimension reaches to areas where even the avant-garde has not yet been achieved, but where there is increasing evidence of new design tendencies (as in the search for a new identity of architectural structures). There is, in fact, movement toward the creation of architectural complexes exuding a powerful, almost media image, instead of a quest for pure abstraction or simple functionality. It is in this vein that almost all of Kurokawa’s work is being realized – architectural creations in which suggestion and communication are always at the forefront. “Technological enchantment” linked to a blend of tradition and innovation makes up the world within which one of the most prestigious Japanese architects creates his projects. If rudimentary solids are the raw material of Kurokawa’s

work, then transparency is the “intelligent skin” capable of transforming the physical nature of concrete into a kind of dream matter. The Ehime Prefecture’s Museum of Science in Japan, with its shards of reflecting “transparency” scattered onto solid masses dotted with sheets of titanium, is one of the architectural works that best represents the creative identity of this Master, who is also credited with the Opera Theater in Haskovo (Bulgaria), the capsule tower in Nakagin and the Libyan Cities. The museum complex is located just outside of Ehime’s urban center and is organized like a kind of small, ideal city whose composite purity suggests possible solutions to the problems of space that have always been at the core of Kurokawa’s design concepts. This territoriality is characterized by the transformation of places that are initially considered marginal and subsequently become urban models destined for future metropolitan expansion. The museum complex sits on the fascinating site of the Island of Shikoku, in the suburban Niihama area, near an important highway interchange. The heady mixture of nature with the artificiality of the architecture makes the site very attractive. In fact, the museum is located at the foot of a mountain range. The new construction therefore has significantly modified the Shikoku Island landscape through a


symbiosis fed by the inter-relationship between architecture and the natural environment. It is based on the counterpoints and symmetries between the softness of the terrain’s natural curves and the pointed architectural structures of a seemingly casual sequence of cubes, cones, and triangles. These elements provide form and function for the complex, including a planetarium and several outbuildings housing administrative offices. In the midst of this play of suggested transparencies and geometric enclosures, Kurokawa has not forgotten the historical-esthetic data of the Japanese architectural culture, composed of a subtle alchemy in which modernity and tradition have coexisted for ages. This is most easily recognized in the design and layout of the solid areas. For example, the structure of the Japanese garden is clearly evident in the integration of pathways and masses that creates a kind of three-dimensional script – a sort of interior landscape expressed through architectural forms that act as signs inscribed on the significant surface provided by nature. The principal facade, characterized by a combination of materials including aluminum, glass, and exposed concrete is just one particularly spectacular aspect. Everything is mixed together and redistributed with great compositional mastery. True mastery is also evident in the decision to counter-balance the spherical nature of the planetarium’s covering

with an enormous transparent cone. The cone recalls a kind of technological mountain but also serves as a metaphor for “ascension,” the escape from Earth toward the heavenly bodies observed within the planetarium. Symbolism is not easily exhausted in this architectural composition that so brilliantly orchestrates an excellent compromise between Euclidean geometries and Zen gardens, given that its internal pathways reflect so well Kurokawa’s particular architectural poetry. The underground pathway is a perfect example of this as it connects the great hall with the planetarium, traversing an area where an artificial pond partially encircles the large cone and the hall. It evokes the great degree to which architecture relies on invisible connections, just as the inner workings of a live body keep the organism alive and thriving.

Particolare degli esterni della sala espositiva e dell’atrio, posto nel grande cono vetrato. Nella pagina a fianco, sezione sull’atrio e il planetario. Details of the exterior of the exhibition room and the atrium, located in the large glass cone. Opposite page. A section of the atrium and planetarium.

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Sopra, l’atrio visto dal bacino artificiale sotto al quale è stato realizzato un percorso per raggiungere il planetario. A destra, pianta del primo piano. La distribuzione asimmetrica dei vari ambienti è configurata seguendo la disposizione degli antichi giardini di pietre giapponesi. Nella pagina a fianco, particolare della cupola del planetario. Above. The atrium as seen from the artificial basin with a pathway underneath leading to the planetarium. Right. A plan of the first floor. The asymmetrical distribution of the various spaces has been arranged according to the layout of the ancient Japanese rock gardens. Opposite page. Details of the planetarium’s cupola.


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In queste pagine, particolari dell’atrio la cui struttura è stata realizzata in acciaio e cemento armato. Details of the atrium, whose structure is made of steel and reinforced concrete.

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Nuove scenografie urbane New Urban Set-Design Londra, British Film Institute London IMAX Cinema London, British Film Institute London IMAX Cinema Progetto di Avery Associates Architects Project by Avery Associates Architects

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rasparente e caleidoscopico quanto basta, per farsi notare. Metropolitano (soprattutto per il riferimento ai gasometri) per integrarsi con la capitale della rivoluzione industriale. Al di là della piacevolezza delle forme e dei materiali, il BFI London IMAX Cinema in realtà è frutto delle buone e “vecchie” idee del Razionalismo. La forma circolare dell’edificio e la sua macro-grafica non nascono, infatti, da folgorazione mediatica, bensì più semplicemente dall’interno verso l’esterno. Al centro dell’edificio, infatti, pulsa lo schermo semicircolare IMAX, cui è stata avvolta intorno l’unica “pelle” possibile per non uscire dal dettato razionalista che, a quanto pare, premia sempre. Trasparenza però fa rima con tecnologia, e tecnologia è un concetto che di solito si associa all’idea di futuro. In questo caso il futuro

si percepisce attraverso una disciplina progettuale che si arricchisce di nuovi orizzonti. Architettura e comunicazione sono infatti il concept su cui lavorano oggi gli architetti più attenti e sensibili alle nuove tensioni culturali. Il potenziale dinamismo insito nelle forme circolari del nuovo BFI London IMAX Cinema è pura energia in sintonia con l’ambiente metropolitano contemporaneo, attraversato dalle pulsioni consumistiche di una società che metabolizza non solo merci, ma anche cultura, in questo caso cultura cinematografica al massimo della qualità tecnologica grazie al sistema IMAX. Un film proiettato con questo sofisticato sistema è in grado di coinvolgere emozionalmente lo spettatore attraverso effetti realistici spettacolari, impiegando fotogrammi di grande formato, per


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esempio il 70 mm, più uno schermo gigante: normalmente dieci volte più largo e sette volte più alto di quello convenzionale. La resa sonora è in questo caso esaltata dalla favorevole acustica della forma circolare della sala di proiezione, dove sono inoltre sistemate sei colonne stereofoniche in grado di produrre un ambiente sonoro tridimensionale di grande suggestione. Ma, se all’interno nel buio della sala si vivono emozioni legate alle vicende cinematografiche, l’esterno è altrettanto vitale e comunicativo verso il suo intorno urbano. La totale trasparenza della “pelle” in vetro strutturale che avvolge l’edificio è una sorta di “banda larga” mutante, sorprendente e multicolore. L’intrattenimento, l’organizzazione del tempo

libero, tutto ciò che si fa per piacere sta codificando una speciale architettura destinata al loisir caricata di segni forti, come appunto il BFI London IMAX Cinema. Insomma, la città è sempre più popolata di architetture frutto di complesse ibridazioni di cui è facile percepire i nuclei generatori. La città futura sembra dunque trasformarsi in un grande fondale, ritagliato da sagome simili a strumenti elettronici fuori scala. Sta nascendo una nuova grammatica compositiva, gestita da nuove figure di progettisti: un po’ ingegneri, un po’ creatori di scenografie urbane. Certamente effimere, instabili come non mai, ma infinitamente più ricche di suggestioni e di emozioni diffuse in una città che non solo sembra cambiar pelle, ma anche pensiero e anima.

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r ansparent and kaleidoscopic enough to make itself noticeable, yet metropolitan enough (especially in its reference to gas meters) to meld into the capital of the Industrial Revolution. Above and beyond the inherent appeal of its forms and materials, the BFI London IMAX Cinema is essentially born of the worthy and “old” ideas of Rationalism. In fact, the circular form of the building and its macro-graphics do not stem from the glaring light of media attention, but rather from the interior. At the center of the edifice, the semi-circular screen of the IMAX system pulses with life. It is wrapped in a unique transparent “skin” that prevents its total departure from the always rewarding rationalist dictates. However, transparency in this sense is associated with high technology, and high technology is a concept that is usually associated with the future. Here, the future is perceived through a project discipline that is enriched by new horizons. Architecture blended with communication is, in fact, the concept that captures the attention of those architects most sensitive to the new cultural tensions of today. The inherent dynamism in the circular form of the new BFI London IMAX Cinema is pure energy in harmony with the contemporary metropolitan environment. It is punctuated by the consumer impulses of a society that metabolizes not only merchandise, but also culture. In this case, it concerns cinematic culture at the very highest level of technological achievement, thanks to the IMAX system. A film projected through this sophisticated system is capable of thoroughly engulfing the spectator emotionally in the movie through spectacularly realistic special effects by utilizing large-format frames. These frames are usually seventy millimeters wide and are projected onto a giant screen ten times wider and seven times higher than a conventional movie screen. Six stereophonic columns produce an extraordinarily suggestive, three-dimensional audio environment that is exalted further by unbelievable acoustics created by the circular form of the space. But if the internal darkness of the movie theaters is home to emotions connected with the films and their drama, the edifice’s exterior is even more vital to and communicative with its urban surroundings.

The total transparency of the structural glass “skin” wrapped around the building creates a kind of mutating, surprising and multicolored circular “broadband.” Entertainment, the organization of leisure time, and everything that human beings undertake for pleasure is acting to codify a special kind of architecture – one that reflects a new brand of leisure activities charged with strong messages. The BFI London IMAX Cinema is a perfect example of this modern development. Basically, the city is increasingly populated by architecture that is the fruit of complex hybridizations, by which it is relatively easy to identify the generating nuclei. The future city seems to be transforming itself into an enormous backdrop, outlined by silhouettes resembling over-sized electronic instruments. A new compositional grammar is being born, managed by new design personalities who are to a certain extent engineers and to a certain extent creators of urban set-design. This new approach is undoubtedly ephemeral, as unstable as ever. But it is also infinitely richer in suggestion and emotion, spreading through a city that is not only changing its skin, but also its way of thinking and, therefore, its very soul.

Nelle pagine precedenti, due vedute del BFI (British Film Institute) che fa parte di un complesso di strutture dedicate alla cultura dell’immagine. Nella pagina a fianco, particolare della vetrata strutturale. Qui sotto, sezione trasversale. Preceding pages. Two views of the BFI (British Film Institute), part of a complex of structures dedicated to the culture of images. Opposite. Details of the glass structure. Below. A cross section.

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Qui sotto, l’ingresso alla sala cinematografica e un particolare del grande schermo IMAX semicircolare che prevede proiezioni con pellicole di maggior dimensione e un sonoro con particolari effetti realistici.

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Below. The entrance to the movie theater and a detail of the large semi-circular IMAX screen that allows projection of largeformat films and boasts a sound system with particularly realistic effects.


Qui sotto, planimetria generale, pianta del piano dell’ingresso e della sala di proiezione e una sezione sul sistema della parete vetrata.

Below. General plan, a plan of the entrance level and of the film projection room, as well as a section of the glass wall system.

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Esperanto architettonico Architectural Esperanto Bruxelles, Charlemagne Building ristrutturato Brussels, renovation of the Charlemagne Building Progetto di Murphy/Jahn Project by Murphy/Jahn

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In questa pagina, veduta generale dell’edificio. Nella pagina a fianco, veduta parziale dell’edificio ristrutturato attraverso addizioni e sottrazioni che ne hanno radicalmente rinnovato l’aspetto. This page. General view of the building. Opposite page. A partial view of the restructured edifice, achieved through additions and subtractions that have radically renewed its look.

Unione Europea sta cambiando anche il futuro dell’architettura, che trova in una sorta di “Esperanto” progettuale una sua nuova identità, in grado di rappresentare la fusione delle culture del progetto, un tempo circoscritte in ambiti culturali localistici e ora sempre più orientate a trasformarsi in un mix che, preservando tutte le identità locali di maggior pregio, produrrà nuove direzioni di ricerca. Il futuro è, dunque, rappresentato da un’architettura europea tecnologicamente avanzata come ad esempio quella statunitense, ma con un linguaggio comune e riconoscibile. Città dal cuore antico, Bruxelles, da quando è divenuta una delle città simbolo dell’Unione Europea, sta cancellando le sue tracce storiche. Grandi insediamenti politico-amministrativi hanno sconvolto un equilibrio fatto di integrazione fra città antica, composta di preesistenze medievali, e stratificazioni di insediamenti risalenti ad epoche posteriori. Nonostante la città appaia scintillante di nuovi edifici, tutti vetro e acciaio, il suo delicato equilibrio risulta sempre più precario. Fortunatamente, il

compito di ridisegnare l’aspetto architettonico della città europea per antonomasia è stato affidato ad importanti architetti internazionali, capaci di realizzare opere con una propria identità. È il caso della ristrutturazione del Charlemagne Building, che accoglie la sede della Comunità Europea. Il quartiere in cui sorge il rinnovato complesso è caratterizzato da un fronte principale rivolto verso un asse viabilistico in continua e rapida trasformazione. Nella parte posteriore dell’edificio permangono ancora alcune tracce di un quartiere residenziale di medie proporzioni, ormai destinato a sparire a causa delle nuove costruzioni comunitarie. Il tema compositivo del progetto si è incentrato sulla totale integrazione della nuova struttura con la città, caratterizzata da insediamenti di diversa natura sia storica che architettonica. Il vecchio Charlemagne Building è stato realizzato negli anni Sessanta, quando il complesso era destinato ad ospitare i primi organismi politico-amministrativi della Comunità Europea. Il progetto di Murphy/Jahn è quindi incentrato sull’ampliamento e la rifunzionalizzazione di un edificio esistente. Sostanzialmente si tratta di un’operazione di re-urbanizzazione compiuta attraverso un calibrato lavoro di aggregazione e sottrazione di parti rispetto al vecchio edificio, per ricreare nuovi rapporti con una maglia stradale in parte ridisegnata da molte costruzioni in via di compimento. L’ampliamento del complesso ha necessariamente comportato una nuova ridefinizione delle masse architettoniche rispetto ad un intorno di delicato equilibrio ambientale. Si è scelta quindi una soluzione che risultasse di minimo impatto, come solo le pareti vetrate possono assicurare. Il complesso è rivestito di una sottile “pelle”, un curtain wall in grado di riflettere l’ambiente circostante e quindi integrarsi con il contesto. La particolare articolazione della pianta dell’edificio mostra una spiccata tendenza al dinamismo, sottolineata dalla configurazione a forma di freccia di un particolare lato del complesso che, in tal modo, si raccorda alla naturale inclinazione del terreno circostante. La base dell’edificio, su cui poggia l’intera struttura, accoglie una serie di funzioni, tra cui l’ingresso principale dove è sistemato un atrio caratterizzato da pareti interamente vetrate, che fungono da elemento mediatore fra edificio e spazio urbano circostante.


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h e European Union is changing many things, even the future of architecture, as it discovers a new identity within a kind of project-based “Esperanto.” It is an identity capable of representing a fusion of the project’s various influences, once inscribed within the local cultural environment, but now increasingly oriented toward becoming a mix. This mix is producing new directions for inquiry and research while at the same time striving to preserve all the more important local identities. Therefore, the future is headed toward a European architecture as technologically advanced as, for example, that of the United States of America, but possessing a common language that is recognizable to all its citizens. Brussels is a city with a historic center, but ever since it became one of the European Union’s symbolic cities, it has been changing its historic countenance. Large political-administrative office buildings have upset the equilibrium between ancient, historic city sectors composed of medieval structures, and layers of construction built over successive past epochs. Despite the fact that the city appears to sparkle with new buildings encased in glass and steel, its delicate balance and harmony are increasingly endangered due to its modernization process. Fortunately, the work of redesigning the architectural image of this European city par excellence has been entrusted to important international architects – men and women capable of creating architecture with its own identity. This is exactly what has happened with the renovation of the Charlemagne Building designed to host the headquarters of the European Community. The renovated complex is located in a neighborhood characterized by a principal front along a roadway axis that is under continuous yet rapid transformation. Beyond the back section of the edifice there remain some traces of a medium-sized residential neighborhood, now destined to disappear because of the plethora of new European Union construction projects. The theme of the project centers on a total integration of the new structure into the surrounding city. It is characterized by edifices diverse in both history and architectural image. The original Charlemagne Building was built during the 1960s. The complex was intended to host the first political-administrative organizations of the European Community. Therefore, the Murphy/Jahn project focuses on an expansion and reworking

of a pre-existing building. Essentially, this is a re-urbanization project carried out through a carefully orchestrated effort of aggregation. It includes the removal of certain parts of the original edifice in order to develop new relationships with roads that have been partially re-constructed by numerous projects, many of which are currently underway. The expansion of the complex has necessitated a re-definition of the architectural mass when compared with the delicate environmental equilibrium of its surroundings. It is with this in mind that the architects chose a solution that would have a minimum impact, an impact that only glass walls can provide. The complex has been outfitted with a thin “skin” or curtain wall, a substance capable of reflecting the surrounding environment thereby integrating the building neatly into its context. The particular articulation of the edifice’s floor plan shows an obvious tendency toward dynamism. This is emphasized by the arrow shape of one side of the complex that responds to the natural inclination of the surrounding terrain. The base of the building, on which the entire structure rests, hosts a series of functions including the main entrance. Inside is an atrium defined by all-glass walls, an addition that functions as a mediating element between the edifice and the surrounding urban space.

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Particolare della facciata vetrata e, nella pagina a fianco, la scalinata che porta alla piazza sopraelevata. Details of the glass facade and, opposite page, the stairway that leads to the raised plaza.


Particolari della parete vetrata vista dall’interno e dettaglio tecnico del sistema di facciata. Details of the glass walls seen from the inside and technical details of the facade system.

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Visioni ad assetto variabile Visions on a Variable Axis Bilbao, aeroporto di Sondica Bilbao, the Sondica Airport Progetto di Santiago Calatrava Valls Project by Santiago Calatrava Valls

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La facciata interamente vetrata sul lato nord lunga circa 36 m. Il complesso aeroportuale, che copre un’area di 38.000 mq sorge a circa dieci chilometri dalla capitale basca. The glass-encased facade on the north side stretches nearly 36 meters. The airport complex, which extends over a 38,000 square-meter area, is located just ten kilometers from the Basque capital.

l futuro? Per alcuni è un ritorno all’età dell’oro: quando l’architettura era un sapere in cui confluivano, in parti uguali, arte e scienza. L’Umanesimo, dunque, almeno in architettura, sta rinascendo come cultura del futuro? Anche se Calatrava non è più quel genio noto solo agli addetti ai lavori, ma una vera star globale, le sue opere sono ancora sorprendenti, intense, cariche di un pathos in grado di emozionare ma anche di celare, all’interno di forme e volumi di grande impatto visivo, raffinatissimi calcoli strutturali. L’architetto-ingegnere valenciano è attualmente forse l’unico progettista erede di Gaudì. Al grande maestro catalano si è, infatti, ispirato per realizzare l’aeroporto di Sondica. Il riferimento progettuale è inequivocabilmente il sottoportico inclinato del Parco Güell, a Barcellona, rielaborato da Calatrava su una pianta sinusoidale. Realizzato circa dieci anni fa, l’aeroporto di Sondica è oggi in piena attività e dispone di otto gate. Promosso dalle autorità di Bilbao per dotare un’area metropolitana in costante sviluppo di un grande scalo aereo, l’aeroporto dista circa dieci chilometri dalla città basca.

Destinato inizialmente a sostenere un traffico annuo di due milioni di viaggiatori, lo scalo è ora predisposto per accogliere anche un flusso di oltre dieci milioni di passeggeri all’anno. Il progetto sviluppa l’idea di un terminal compatto, caratterizzato da grandi superfici vetrate e articolato su quattro piani. La semplificazione distributiva è uno dei concetti portanti, attuato attraverso un impianto semplificato, caratterizzato dal contenimento dei percorsi interni destinati a favorire soprattutto l’unitarietà dello spazio complessivo. Ciò favorisce gli spostamenti dei passeggeri e il miglior orientamento possibile dei viaggiatori. Intorno a questo nucleo funzionale, sorgono due grandi ali laterali, capaci di accogliere partenze e arrivi, ma anche tutti gli uffici amministrativi. Un grande parcheggio, a quattro livelli, assicura un’adeguata connessione fra aeroporto e trasporto pubblico e privato. Strutturalmente, l’aeroporto si sviluppa su un sistema di pilastri, travi e archi in cemento armato, in grado di assicurare stabilità alla grande copertura metallica nervata, sviluppata su una pianta triango-


TRASPARENZA TRANSPARENCY

lare e conformata su un volume complesso e di grande impatto visivo. Le ali laterali sono protette da una doppia copertura voltata, rinforzata da un sistema di costole e montanti di acciaio posti su pilastri di calcestruzzo. La “piegabilità delle strutture nello spazio” è alla base dell’assunto poetico di Calatrava e fa da perno per un impiego complesso della geometria, ma anche per la dinamica e la leggerezza, fondamentali nella sperimentazione strutturale dell’opera di ingegneria. Tuttavia, sperimentazione tecnologica e soluzioni strutturali innovative non sono mai poste in primo piano, esibite, ma risultano, invece, organiche alla composizione generale dell’opera architettonica. Il tema della copertura, per esempio, spiega tale processo attraverso una figura semplice e complessa nello stesso tempo come la vela, già impiegata per la copertura delle officine Jakem, uno dei primi importanti progetti elaborati da Calatrava all’inizio dell’attività professionale. Calatrava è tuttora impegnato, anche come teorico, in un dibattito fondativo per l’architettura contemporanea e si batte per risolvere le problemati-

che che coinvolgono la riconoscibilità sociale, ma anche la stessa identità dell’architettura e dell’ingegneria. Esistono, insomma, ancora alcuni nodi da sciogliere come quello che ha dato origine ad alcune polemiche interne al mondo dell’architettura e sostanzialmente alimentate dalle “eresie” di Frank Gehry (per esempio: il nuovo Museo Guggenheim di Bilbao), contro cui si batte una sorta di confraternita di architetti e ingegneri puristi, incapaci di superare la rigida separazione fra architettura e ingegneria. Problema superabile attraverso un’esperienza progettuale che non escluda la componente artistica nell’opera architettonica ma neanche in quella infrastrutturale come, per esempio, un grande viadotto. Anche l’opera di Calatrava ha generato contrasti e divergenze, soprattutto fra gli addetti ai lavori: era ritenuta destabilizzante, per l’ordine costituito, la carica visionaria che caratterizza l’Auditorium di Tenerife, la Città delle Scienze di Valencia e l’ampliamento del Museo di Milwaukee, interessanti proprio per le ricerche sulle potenzialità comunicative dell’architettura, intesa come medium.

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Particolare di un gate d’imbarco. Details of a departure gate.

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he future? For some, it will be a return to the Golden Age, an epoch in which architecture was a body of living knowledge com-posed equally of art and science. Could it be said that Humanism, at least in architecture, is being reborn as the culture of the future? Although Calatrava is no longer the type of genius recognized only in his field, but as a global star, his work continues to elicit surprise. It is intense, charged with a pathos capable of stirring emotions. But it is also capable of hiding extremely refined structural calculations within forms and volumes that present an extraordinary visual impact. Currently, this architect/engineer from Valencia is perhaps the only architectural designer who can be considered an heir to Gaudì. In fact, he found inspiration in the work of the great Catalan master for his Sondica airport project. The design reference is unquestionably evident in the sloping interior of the portico in Barcelona’s Güell Park that was re-elaborated by Calatrava based on a sinusoidal plan. Created almost ten years ago, the Sondica airport today is fully operational and outfitted with eight gates. It was promoted by the authorities in Bilbao in order to provide a major airport for the constantly expanding metropolis. The Sondica construction is located approximately ten kilometers from the Basque city. Initially intended to sustain an air passenger volume of two million travelers per year, this airport will now be able to accommodate a flow of more than ten million passengers per year. The project expands on the idea of a compact terminal, characterized by large glass surfaces articulated over four floors. A simplified ground plan gives the notion of distributive simplification as one of the main concepts. The layout calls for careful containment of the internal pathways that are designed primarily

to support the unity and singularity of the comprehensive space. This concept facilitates the flow of passengers and provides travelers with the best possible orientation within the space. Two great wings are spread around this functional nucleus, each of which is capable of hosting both arrivals and departures, as well as housing all the administrative offices. A large parking area extends over four floors to guarantee adequate connection between the airport and both public and private transportation. Structurally, the airport is built on a system of reinforced concrete pillars, girders and arches to provide ample stability for the large ribbed metallic covering. Its triangular form helps emphasize its strong visual impact. The lateral wings are protected by a double-vaulted covering that is in turn reinforced by a system of structural ribs and steel stanchions running up from concrete pillars. The “flexibility of structures in space” is basic to Calatrava’s assumed poetry, and functions as the pivot for a complex blend of geometry. It is also central to dynamics and lightness in his work, both of which are fundamental to the structural experimentation that lies at the heart of engineering. When all is said and done, technological experimentation and innovative structural solutions are never on display at the center of attention. Instead, they are organic to the general composition of an architectural work. The theme of the covering, for example, explains this process through a simple yet complex figure that resembles a large triangular sail billowed by the wind. He used a similar theme in the covering of the Jakem warehouse, one of the first major projects conceived and undertaken by Calatrava at the very beginning of his professional career. Calatrava is still engaged in work as a theorist in the fundamental debates of contemporary architecture. He continues to strive to resolve


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problems and issues that involve not only social recognition, but the very identity of architecture and engineering, too. Essentially, there still exist relevant knots to untangle. For example, the issue which has created considerable controversy within the world of architecture and is substantially supported by Frank Gehry’s “heresies” (e.g. the case of the new Guggenheim Museum in Bilbao). Such issues are being fought by a sort of fraternity of architects and purist engineers who seem unable to conquer the rigid separation between architecture and engineering. It is a problem that can be overcome by using experience from projects that integrate the artistic component in both architectural works and infrastructures, such as in a great viaduct. Even Calatrava’s creation has generated contrasts and divergences, especially among those working within the field of architecture. What was once considered destabilizing – according to the established order – in the visionary charge that characterizes the Auditorium in Tenerife, the City of Science in Valencia and the expansion of the Milwaukee Art Museum, has now been recognized as relevant and interesting. This is precisely due to the exploration of the communicative potential of architecture, now intended and understood as medium.

In alto, particolare della grande copertura a sbalzo e, qui a destra, dall’alto in basso, piante del piano terra e del livello partenze. Above, detail of the large cantilevered roof and right, from top to bottom, plans of the ground floor and departure level.


Parete vetrata del tunnel sotterraneo destinato al parcheggio di quattro piani. Glass walls of the underground tunnel designed for the four-floor parking garage.

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Veduta generale degli otto gate e, in basso, particolare della grande copertura a sbalzo. Overall view of the eight gates and, below, detail of the large cantilevered roof.

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Dettaglio della copertura e, in basso, la copertura con il sistema strutturale di sostegno in acciaio. Details of the roof and, below, the roof with its steel structural support system.

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Prospetto e, in basso, particolare di un sottopassaggio che conduce al parcheggio interrato.

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Elevation and, below, detail of an underpass leading to the underground parking garage.


Sezione trasversale e particolare dell’atrio realizzato in cemento a vista.

Cross section and detail of the atrium, built with exposed concrete.

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Trasparenze in viaggio Transparencies On the Road Houten, stazione di servizio Houten, Service Station Progetto di Samyn et Associés Project by Samyn et Associés

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egli anni Sessanta, Roy Lichtenstein definiva le pompe di benzina “monumenti commerciali, altari ai beni di consumo”, e prefigurava un futuro sempre più popolato di “mostruosità” ipertrofiche, iperrealistiche cattedrali dedicate alla glorificazione delle multinazionali petrolifere. Dopo quarant’anni, lo studio d’architettura Samyn et Associés propone invece una netta inversione di tendenza, puntando su un raffinato understatement linguistico, espresso attraverso materiali inusuali, industriali pur senza insistere nell’high-tech, poveri eppure “intelligenti”, poiché in grado di integrarsi in qualsiasi contesto senza perdere la propria identità. Il rapporto identità/forma è attualmente un nodo oggetto di molte riflessioni, sia in ambito progettuale che teorico. Nel caso di strutture architettoniche ad alto tasso di comunicazione come le stazioni di servizio, dove è l’originalità

dell’imprinting figurativo a creare consenso, si intuisce come il concept progettuale vincente sia poi in grado di tracciare linee di tendenza per il futuro. Non bisogna inoltre trascurare che, oltre a diffondersi nel paesaggio reale, tutto ciò che attiene al mondo dell’auto è anche immerso in un oceano mediatico sempre più complesso e coinvolgente. Riflessioni e ricerche sul futuro del progetto e della professione dell’architetto non possono evitare un dato di fatto: lo sviluppo dell’informatica tende sempre più a favorire un’architettura “spalmata” sull’immaterialità del ciberspazio, e quindi la forma nella sua accezione compositiva tridimensionale è sempre meno elemento centrale nel pensiero dell’architetto. Il rapporto identità/forma, per esempio, è ormai oggetto di riflessioni per nuove direzioni di senso, anche perché la stessa figura dell’architetto sta perdendo centralità nel progetto:


TRASPARENZA TRANSPARENCY

oggi egli condivide la responsabilità progettuale con nuove figure creative come il symbol maker, il grafico e, a volte, anche lo sceneggiatore, il regista e lo scenografo, figure professionali in grado di trasformare l’architettura in una fabbrica di sogni. Le nuove stazioni di servizio come quella di Houten, nei Paesi Bassi, progettata da Samyn et Associés, sono il risultato di una ricerca condotta dalla società committente per ridare nuovo smalto a un sistema ormai obsoleto, incapace di comunicare nuove strategie aziendali. La stazione di servizio è, infatti, elemento terminale di grande valore iconico: sia come comunicazione pubblicitaria sia per le implicazioni socioculturali relative al mondo dei trasporti. La sensibilità verso il tema della salvaguardia dell’ambiente, nella sua accezione più allargata, comprendente quindi anche problematiche d’impatto sul territorio, è oggi fondamentale per creare

positive ricadute sull’immagine complessiva dell’azienda. In questo caso, la trasparenza degli schermi in lamiera stirata è garanzia di massima integrazione con l’intorno sia esso agricolo oppure urbano. Le sinuose pareti che avvolgono la stazione di servizio di Houten, oltre ad alleggerire l’insieme e a creare quel senso di interiorità tridimensionale, sono anche percorso guidato per suggerire sequenze funzionali legate al rifornimento, al controllo motoristico e alla sosta degli automobilisti. È dunque la dinamica insita nell’immagine dell’automobile ad avere ispirato forme avvolgenti, fluide, in grado di suggerire orientamento e modalità d’ingresso al complesso. Il doppio ordine di paraventi funge inoltre da schermo antivento e la linea continua di neon blu, sistemata nei bordi degli schermi, segnala, con effetti suggestivi, la presenza della stazione anche durante le ore notturne.

In queste pagine, particolari degli schermi antivento in acciaio zincato della stazione di servizio di Houten (Olanda). Details of the Houten (Netherlands) service station’s windscreens constructed from galvanized steel.

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Rendering di progetto e, nella pagina a fianco, i percorsi suggeriti dalla disposizione degli schermi antivento. A project rendering and, opposite page, the pathways reflecting the same layout of the windscreens.

uring the 1960s, Roy Lichtenstein defined gasoline pumps as “commercial monuments, altars to the wealth of consumption.” He envisioned a future increasingly populated by hypertrophic “monstrosities,” hyperrealistic cathedrals dedicated to glorifying multinational oil and gas companies. Forty years later, Samyn et Associés is proposing a total reversal of this architectural trend. The underlying concept focuses on a refined linguistic understatement expressed through the use of unusual materials. Although these materials are traditionally reserved for industrial construction applications, they are versatile enough to be used in many other types of construction without losing their identity. The identity-to-form relationship is currently a knot located at the center of considerable reflection and evaluation, both in design and in theoretical arenas. In the case of highly communicative architectural structures, like the service station, – where the originality of figurative imprinting creates consensus – one can understand how the winning design concept could actually outline fashion trends of the future. It is also important to highlight that, in addition to immuring itself in the real landscape, everything pertaining to the automobile world is also immersed in an ocean of increasingly complex media attention. Reflection and research on the future of the pro-

ject and on the architectural profession cannot possibly avoid the simple fact that the development of computer science increasingly tends to favor an architecture “splayed” into the immateriality of cyberspace. Therefore form, in its threedimensional composite meaning, is decreasingly central to the average architect’s thinking process. The identity-to-form relationship, for example, has by now become the object of reflection on new meaning directions. This is also due to the fact that the architect himself is losing centrality in the project. Today, he shares design responsibility with new creative figures like the symbol maker, the graphic designer and, occasionally, even the scriptwriter, the director and the set designer – professionals capable of transforming architecture into a factory of dreams. The new service stations, like the one designed for the town of Houten, Netherlands, by Samyn et Associés, are the result of client research to develop a new look for a system that is by now obsolete and incapable of communicating new company strategies. The service station is, in fact, a terminal element of great iconic value. It serves as a means of publicity and also holds socio-cultural implications relative to the world of transportation. The increased sensitivity to environmental themes in their broadest sense, including problems of environmental impact, is fundamental today to creating positive feelings toward the overall image of an oil company. In this case, the transparent metal screens surrounding the gas station guarantee maximum integration into both agricultural and urban surroundings. The sinuous walls that encase the Houten service station lighten the whole and create a sense of three-dimensional interior space. They also serve as guided pathways that suggest functional sequences related to filling the gas tank, automobile inspections and rest area activities. Therefore, the very dynamics inherent in the image of the automobile have inspired this enveloping, fluid form – a form capable of suggesting orientation and means of entry into the complex. The double row of screens also functions as a windshield. Finally, the continuous neon blue line running along the edge of the screens signals, with suggestive effect, the presence of the station even during nighttime hours.


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La materia sarà immateriale? Will Matter Be Immaterial? Roma, Centro Congressi Italia Rome, Italia Convention Center Progetto di Massimiliano Fuksas Project by Massimiliano Fuksas

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a rivoluzione elettronica è stata una straordinaria occasione di rinnovamento per l’architettura: l’informatica, per esempio, ne ha ampliato il campo d’azione trasformandola in uno straordinario medium globale. In certi casi però l’eccessiva contiguità con le tecnologie elettroniche ha decretato una sorta d’azzeramento del processo compositivo, inteso come aggregazione di volumi, di equilibrio di pieni e vuoti, il tutto messo insieme secondo uno schema simile a quello destinato alla realizzazione di una scultura astratta. Ovvero: l’architetto fa un passo indietro come progettista dello spazio per lasciare campo libero alla bidimensionalità del linguaggio grafico dell’insegna elettronica. In occasione della VII Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia (18 giugno-29 ottobre 2000) gli architetti americani Robert Venturi e Denise Scott Brown hanno presentato progetti e realizzazioni all’insegna di un concept che non lasciava dubbi: “l’architettura intesa come edificio generico ornato dall’iconografia elettronica”. Insomma, oggi in architettura non vi sono dogmi progettuali, steccati entro cui operare all’insegna di un’ortodossia ormai fuori tempo, ma una pluralità di linguaggi che convivono senza creare interferenze reciproche. Il Centro Congressi Italia ne è una prova. La struttura sospesa è, infatti, un elemento di forte comunicazione inserito in un impianto modellato su uno schema definibile razionalista. L’architettura non è più organizzata solo intorno a modelli di efficienza, ma verso la ricerca di un’identità forte, inconfondibile. In questo caso, la ricerca di Fuksas si è orientata verso una struttura aerea che sfidasse la forza gravitazionale creando una massa composta di trasparenze e densità, dissolvendo così la struttura materiale in una sorta di visione onirica di grande impatto psicologico. L’architettura ritorna così a fondersi con l’arte attraverso la rappresentazione simbolica dell'onirico, presente nel subconscio più segreto e profondo. Fuksas compie quindi un’operazione inusuale per un architetto, creando prima un’immagine forte, clamorosa, spettacolare, e trovando poi il modo di renderla anche funzionale attraverso un’operazione di exploitation cinematografica (ideare prima la locandina e poi realizzare il film). Il complesso congressuale ideato da Fuksas è risultato vincitore in un concorso internazionale diviso in due fasi, con una giuria presieduta da Sir Norman Foster. Alla competizione hanno parteci-

pato importanti architetti come, tra gli altri, Richard Rogers e il gruppo francese AREP. Il complesso congressuale sarà realizzato nel quartiere EUR a Roma, tra i viali Colombo, Asia, Shakespeare ed Europa, e sarà il più grande costruito in Italia. Le forme semplici e squadrate che caratterizzano il nuovo centro congressuale sono una citazione e una forma di rispetto contestuale, come spiega lo stesso Fuksas: “Rende omaggio al razionalismo degli anni Trenta che segna il volto dell’EUR e all’architettura formalmente pulita dell’adiacente Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, progettato da Adalberto Libera”. Il complesso è destinato ad accogliere tre sale,


TRASPARENZA TRANSPARENCY

rispettivamente di 1.500, 4.000 e 8.000 posti; uno spazio polifunzionale di 15.000 metri quadrati per il foyer, alcuni caffè e un ristorante. La struttura sospesa, chiamata anche “nuvola”, sarà posta al centro della grande hall e accoglierà un auditorium e sale riunioni. Il resto del centro congressuale sarà destinato alle funzioni alberghiere, ma avrà spazi flessibili in grado di trasformarsi in open space o aree destinate a uffici indipendenti. Una volta in funzione, il centro congressuale potrà accogliere eventi e manifestazioni con una presenza di circa diecimila visitatori giornalieri. In realtà, saranno molti di più se si pensa all’appeal mediatico del centro congressuale romano: televi-

sione, giornali e Internet divoreranno con grande avidità un’architettura leggera come una nuvola ma complessa come una microcittà in cui si percepiscono l’alto e il basso, la densità e il vuoto, il rumore e il silenzio, il caldo e il freddo, la morbidezza e la durezza, la confusione e la chiarezza. Insomma, non saranno solamente il teflon e l’acciaio, i materiali con cui sarà realizzata la “nuvola”, a dare visibilità alla struttura, ma anche la sua immagine veicolata attraverso i media. Il suo territorio di confronto non sarà dunque solo la città reale, ma anche le pagine dei giornali e gli schermi dei televisori e dei computer.

Planimetria generale del complesso congressuale da realizzare a Roma su un’area di 15.000 mq. L’edificio è composto da un auditorium, varie sale riunioni, tre sale, bar e ristorante. General plan of the convention complex to be built in Rome over a 15,000 square-meter area. The building includes an auditorium, various meeting rooms, three halls, a bar and a restaurant.

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Sezioni longitudinale e trasversale. Longitudinal and cross sections.

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he electronic revolution has had an extraordinary impact on the advancement of architecture. For example, computer science has broadened its field of influence, transforming architecture into a remarkable global medium. In certain cases, however, excessive contiguity with electronic technologies has produced a kind of nulling of the compositional process understood as an aggregation of volumes, a balance between full and empty spaces. It is similar to the full and the empty spaces that are brought together in a sketch used in the creation of some abstract sculpture. More precisely, architecture takes a considerable step backward as the designer of space in order to give free rein to the two-dimensional nature of the electronic graphic language. During the VII International Architectural Show at the Venice Biennial Exhibition (June 18th to October 29th, 2000), American architects Robert Venturi and Denise Scott Brown presented projects and realizations influenced by a concept that left no room for doubt in the minds of onlookers, “architecture understood as generic edifice decorated with electronic iconography.� Essentially, in architecture today, there no longer exist project

dogmas, boundaries within which one must work according to an orthodoxy that has by now fallen out of style. Instead, there is a plurality of languages that co-exist without creating any undue reciprocal interference. The Italia Convention Center is solid proof of this assertion. The suspended structure is, in fact, a strong element of communication integrated into a plan based on a clearly rationalistic outline. Architecture is no longer organized merely around models of efficiency, but around the search for a strong and unmistakable identity. In this case, Fuksas’s search is oriented toward an aerial structure that challenges the very force of gravity, creating a mass composed of transparencies and densities. This play of elements dissolves the material structure into a sort of dreamy vision that has tremendous psychological impact. Thus, architecture returns to a blending with art through the symbolic representation of the world of dreams that is present in the most secret and deepest subconscious. Fuksas carries out an unusual operation for an architect. He first creates a strong, clamorous, spectacular image, and subsequently finds a way to render it functional through


Rendering del complesso. Il progetto di Fuksas è risultato vincitore del concorso internazionale per il nuovo Centro Congressi Italia all’EUR. A rendering of the complex. Fuksas’s project was the winning entry in an international competition to select a design plan for the new Italia Convention Center in Rome’s EUR neighborhood.

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a display of cinematographic exploitation. It is as if he were first creating a movie poster, then the movie. The convention center designed by Fuksas was the winning result of a two-phase international juried competition under the direction of Sir Norman Foster. Numerous prominent architects participated in the competition, including, among others, Richard Rogers and the French group AREP. The center complex will be constructed in the EUR neighborhood of Rome, between Colombo, Asia, Shakespeare and Europa streets. It will be the largest construction of its kind ever built in Italy. The simple and squared forms that characterize the convention center are a reference as well as an expression of contextual respect, as Fuksas explains, “(The complex) pays homage to the rationalism of the 1930s. That way of thinking greatly influenced the face of the EUR neighborhood and the formally clean architecture found in the neighboring Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, designed by Adalberto Libera.” The complex will have three large halls with 1,500, 4,000 and 8,000 seats, respectively. It will include a multifunctional foyer spanning 15,000 square meters, several cafes and a restaurant. The sus-

pended structure, also referred to as the “cloud,” will be located at the center of the great hall and will contain an auditorium and meeting rooms. The remaining spaces of the convention center are destined for hotels and independent offices. Once the center is open and operational, the structure will be able to host events and shows for public audiences of about ten thousand people per day. In reality, if one considers the media appeal of the Italia Convention Center, there will surely be more to come. Television, newspapers and the Internet will devour an architecture as light as a cloud but as complex as a micro-city. In this type of design, one can perceive highs and lows, dense spaces and emptiness, clamor and silence, hot and cold, softness and hardness, confusion and clarity. In other words, there will be more than just Teflon and steel, the materials out of which the “cloud” will be constructed to give the structure visibility. Its very image will spread through the various channels, lines and outlets of the media. Therefore, its terrain of comparison will not simply be the surrounding real city, but also newspaper pages, television screens and computer monitors around the world.


Rendering del grande involucro in acciaio e teflon di 3.500 mq posto nella sala convegni. Definita “nuvola”, la struttura sospesa è retta da nervature in acciaio e sovrasta un elemento verticale che accoglierà il ristorante.

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A rendering of the enormous, 3,500 square-meter steel and Teflon shell located in the convention room. Defined as a “cloud,” the suspended structure is supported by a steel framework and hangs over a vertical component that will eventually house the restaurant.


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La presenza dell’assenza The Presence of Absence New York, American Bible Society New York, American Bible Society Progetto di Fox & Fowle Architects Project by Fox & Fowle Architects

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In queste pagine, il volume vetrato, dettaglio della vetrata strutturale e piante dei piani terra e secondo. The glass-encased volume, a detail of the structural glass pane, and plans of the ground and second floors.

L’

ampliamento di un edificio esistente come l’in tervento dell’American Bible Society, è un tema stimolante e affascinante quanto un viaggio in un organismo concluso, cui però si deve modificare il codice genetico per svilupparne nuove ramificazioni di crescita. Facile intuire quindi come l’operazione ponga alcuni problemi, sostanzialmente esemplificabili in due distinte filosofie progettuali: una che, ponendo l’accento sul contrasto per evidenziarne le distinte fasi di realizzazione, dia il giusto risalto alla creatività del progettista, e un’altra orientata verso una mimesi totale per limitare al massimo disomogeneità stilistiche e problemi di “rigetto”. L’ampliamento della sede dell’American Bible Society di New York dimostra invece che esiste anche una terza via, con ottimi risultati e indicazioni utili per progettisti alle prese con analoghe problematiche. La scena urbana in cui sono intervenuti

Fox & Fowle è caratterizzata da un complesso risalente agli anni Sessanta, realizzato su progetto di Skidmore Owings & Merrill. Tra le peculiarità della costruzione, soprattutto quelle fondamentali nel rapporto con l’intorno, risalta l’ubicazione del complesso, arretrato rispetto alla strada per ottenere una sorta di piazza e creare così un’area di rispetto destinata a esaltare il prestigio architettonico della fondazione culturale. L’intervento di Fox & Fowle punta su una decisa riscrittura del luogo, sulla ridefinizione contestuale di un sito che ha perduto identità attraverso successive stratificazioni. Quando nel 1966 fu realizzata la sede della fondazione, l’intorno era caratterizzato da un tessuto urbano composto di edifici bassi, poi modificatosi attraverso demolizioni radicali e l’edificazione di complessi a più piani. Tra gli obiettivi del progetto, c’era l’intenzione di realizzare una nuova struttura connotata come


TRASPARENZA TRANSPARENCY

segno forte, senza tuttavia snaturare l’esistente. L’operazione compiuta da Fox & Fowle è insolita e va letta evidenziandone il carattere transdisciplinare, in questo caso tracce e percorsi fra architettura e linguistica, in atto da qualche tempo quale occasione di ricerca per nuove linee di tendenza progettuale. Sembra dunque che gli architetti si siano immersi in una polifonia di suggestioni e osservazioni originata da un’ambiguità etimologica: “proiettare” e “progettare” derivano, infatti, dal latino “gettare avanti”. Il nuovo volume, interamente vetrato, nasce dunque come metafora di un corpo architettonico “mobile”, virtualmente proiettato in avanti come se la facciata dell’edificio esistente si espandesse, creando un avancorpo trasparente e immateriale, suggerendo così come anche in architettura, a volte, l’assenza sia una particolare forma di presenza. La tecnologia costruttiva è quella della vetrata strutturale, ovvero lastre fissate per punti e solidali a un’esile struttura di acciaio, in grado di accentuare al massimo l’effetto di trasparenza dell’insieme. Ciò, oltre a rendere l’addizione architettonica non invasiva, dà corpo a un contenitore in cui – grazie a immagini proiettate su schermi giganti – architettura e media si fondono in un unico linguaggio di grande suggestione e forza evocatrice. Insomma, nuove tecnologie costruttive e linguaggio mediatico sono sempre più sinergici e destinati a influenzare nuove direzioni di ricerca in una delicata disciplina come l’architettura, per anni prigioniera di schematismi tecnocratici e dogmi progettuali.

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Veduta complessiva del padiglione vetrato sulla cui superficie possono essere proiettate immagini e testi tradotti in oltre sessanta lingue. Comprehensive view of the glass pavilion. Images and texts translated into more than 60 languages can be projected onto its surfaces.

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he expansion of an existing edifice, like the one that houses the American Bible Society, is a fascinating and stimulating challenge. It is comparable to taking an imaginary voyage through a mature organism at the cellular level. However, this mature organism must be genetically modified if new growth and branching out is to develop. With this in mind, it is easy to intuit how the operation poses several problems exemplified in two distinct design philosophies. The first one provides an appropriate outlet for the architect’s creativity by placing the emphasis on contrast in order to highlight the separate phases of realization. The second is oriented toward a total mimesis in an attempt to minimize a lack of stylistic homogeneity and the potential for “rejection.” The expansion of the American Bible Society’s home office in New York is an undertaking that points to the existence of a third approach. It’s an approach that provides optimum results as well as useful guidelines and solutions for architects who are grappling with similar problems and situations. The urban setting within which Fox & Fowle have labored is characterized by a complex built in the 1960s, based on a design by Skidmore Owings & Merrill. The structure’s location stands out among its peculiarities, especially those fundamental to its relationship with its surroundings, as it is deliberately set back from the street in order to form a kind of plaza. This creates an area of respect that serves to enhance and amplify the architectural prestige of this cultural foundation. Essentially, Fox & Fowle’s intervention places emphasis on a decisive restructuring of the area – a contextual redefinition of a site that has lost its

identity through the effect wrought by successive stratifications. Its surroundings were defined by an urban fabric composed primarily of low-rise buildings when the foundation’s home office was originally constructed in 1966. This fabric was subsequently modified through the radical demolition of existing structures and the construction of multistoried complexes. Among the project’s objectives lies the intention to create a new structure marked by strong architectural signs without distorting the existing building. The operation carried out by Fox & Fowle is unusual in its insistence on highlighting its trans-disciplinary nature. This dimension articulates traces and inroads between architecture and linguistics that have been functioning as research expeditions into new methods, trends and modalities in architectural design for some time. Basically, it appears the architects immersed themselves in a multifaceted concert of suggestions and observations originating from an etymological ambiguity. In fact, the term “to project” can be defined both as “to plan” and “to throw forward.” Therefore this new glassencased volume is born as a metaphor for a “mobile” architectural body. It has virtually been projected forward as if the edifice’s existing facade were expanding, thus creating a forward body that is both transparent and immaterial. All of this suggests how even in architecture, absence can function as a particular form of presence. Here, the construction technology is created from sheets of structural glass fixed at points to an existing steel structure to maximize the transparency and functionality of the expansion while at the same time rendering it subtle and non-invasive. It is


as if it were a kind of container in which architecture and media blend together, thanks to images projected onto gigantic screens. This blend forms a unique language that at once challenges the soul of mankind to ponder his position in the heavenly realm. When all is said and done, new construction technologies and media languages are increasingly synergetic and together are destined to influence and give rise to new areas of exploration within the delicate discipline of architecture. It is a positive and exciting influence in a field that has remained a prisoner of technocratic planners and design dogmas for far too many years. 77

In questa pagina, sezione sull’ampliamento dell’American Bible Society e particolari dei giunti in acciaio che sostengono le pareti vetrate. This page. A section of the American Bible Society expansion and details of the steel joints that support the glass walls.


La merce e la sua metafora Merchandise and Its Metaphor Wolfsburg, Autostadt, la città dell’automobile Wolfsburg, Autostadt, Car City Progetto di Gunter Henn Project by Gunter Henn

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TRASPARENZA TRANSPARENCY Nella pagina a fianco, le due torri vetrate del Centro Comunicazione Volkswagen contenenti le nuove auto pronte per la consegna. Ogni torre può ospitare fino a quattrocento veicoli, distribuiti su 20 piani attraverso particolari ascensori.

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Opposite page. The two glass towers of the Volkswagen Communications Center housing new cars awaiting final delivery. Each tower can hold up to four hundred vehicles, distributed over 20 floors using special elevators.

e l’architettura ha un futuro anche come linguaggio massmediatico, la sua identità sembra sospesa fra due opposte polarità: da una parte trasfigurare in metafora tecnologica merci e beni di consumo, dall’altra mutare la sua tridimensionale modernità in pura superficie da tatuare con i segni della comunicazione interattiva. Effetti speciali e tecnologie multimediali sono il paesaggio visivo e sonoro di Autostadt, città dell’automobile in grado di accogliere fino a un milione di visitatori l’anno, inclusi coloro che, suggestionati da una sorprendente macchina architettonica, acquisteranno l’auto sognata direttamente in fabbrica, affascinati da un rituale dedicato al mondo dell’automobile e glorificato da una particolare filosofia della comunicazione basata sul concetto di corporate architecture. Il nuovo complesso Autostadt sorge nell’area storica degli stabilimenti Volkswagen, a Wolfsburg, di cui occupa la ragguardevole superficie di circa trenta ettari. Altrettanto importante è stato l’investimento per la sua realizzazione, pari a 435 milioni di euro. Il sito è in posizione strategica, davanti alla stazione ferroviaria del piccolo centro urbano che accoglie il più grande insediamento industriale Volkswagen del mondo. E ora anche una delle più stupefacenti macchine di comunicazione destinate a rendere percepibile da tutti la complessità dell’universo automobile. Alla ricerca di emozioni, promesse da mass media e stampa di settore, il potenziale acquirente di vetture Volkswagen prima di giungere alla “Mecca” deve compiere una sorta di percorso iniziatico: appena uscito dalla stazione, unica fermata del treno ad alta velocità ICE, lungo la linea BerlinoHannover, oltrepassa un tecnologico ponte dall’aerea struttura lanciato sul canale Reno-Elba ed entra in una sorta di piazza all’interno del padiglione di accoglienza, dove inizia uno show multimediale capace di dire di tutto su tutto il mondo che ruota attorno al gruppo Volkswagen e alla sua filosofia industriale. In tal senso appare oltremodo eclatante il grande padiglione-hangar, realizzato con pareti vetrate rotanti alte circa venti metri, da cui si può scegliere se dirigersi verso i padiglioni tematici, come il Museo dell’Auto e della Civiltà Tecnologica, oppure verso spazi specificatamente automobilistici come quelli dedicati ai vari marchi del gruppo. Ciascun padiglione è stato progettato caratterizzandone

l’architettura e gli allestimenti quali dirette espressioni dei diversi target commerciali cui sono destinate le auto e i veicoli industriali prodotti da Audi, Bentley, Lamborghini, Scania, Seat, Skoda e Volkswagen. Il padiglione Bentley, per esempio, è configurato come una collina cava, mentre quello Lamborghini come un grande prisma conficcato nel terreno, per evocare la forza dirompente e ultraveloce di un volume geometrico dinamico e carico di energia latente. In realtà, Autostadt non è solamente esaltazione di tecnologiche virtù automobilistiche, ma anche consapevolezza del ruolo strategico che una grande industria come il gruppo Volkswagen svolge quando punta alla salvaguardia dell’ambiente naturale. Il progetto generale della città dell’automobile è, infatti, pressoché fondato su principi bioclimatici. Quindi ventilazione naturale – escluse le sale cinematografiche – al posto di complessi impianti di condizionamento, notoriamente responsabili di alti consumi energetici. La piazza coperta con le altissime vetrate è racchiusa da dodici enormi prismi rotanti, in grado di creare, secondo le stagioni, il miglior compromesso climatico all’interno. Il padiglione cubico, destinato al marchio Volkswagen, dispone di un sistema di lamelle in alluminio relazionato al movimento del sole e capace di produrre giochi di luce che evidenziano il movimento delle nuvole. La fine del percorso all’interno di Autostadt coincide con il KundenCenter, il centro clienti, e le due torri trasparenti alte cinquanta metri e utilizzate come silos di contenimento delle vetture da vendere. È in questi due luoghi che va in scena lo spettacolo della cerimonia della consegna dell’auto, destinata a rimanere un evento impresso nella memoria del cliente. Il veicolo è “concesso” in un clima di grande suggestione, che potrebbe ricordare il chapliniano Tempi moderni con la sua allineante mistica meccanicista: le vetture in consegna – a pieno regime ne saranno movimentate circa ottocento al giorno – arrivano su un nastro trasportatore provenienti da un tunnel collegato con gli stabilimenti di produzione. Le vetture appaiono illuminate da fasci di luce al centro del padiglione clienti, ampio e altissimo come una cattedrale laica dedicata al culto della mobilità privata.

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Nella pagina a fianco, interno di una delle torri vetrate con il sistema di ascensori destinato alla movimentazione delle auto.

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Opposite page. An internal view of one of the glass towers and the elevator system designed to move automobiles.

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f architecture is to have a future as a mass media language, its identity seemingly hangs between two opposite poles. At one pole, it can transform merchandise and consumer products into a technological metaphor. At the other, it could transform its three-dimensional modernity into pure surfaces that can be marked with the characters of interactive communication. Special effects and multimedia technologies constitute the visual and audio landscape in Autostadt. This car city can host up to one million visitors per year, including those who, attracted by a surprising architectural machine, come to buy the car of their dreams directly from the factory. Shoppers are inspired by a ritual dedicated to the world of the automobile and glorified by a particular communication philosophy based on a concept of corporate architecture. The new Autostadt complex stands in the middle of the historic environs of the Volkswagen factories in Wolfsburg. The building occupies a considerable stretch of terrain encompassing nearly thirty hectares. Investment in this area is even more noteworthy, nearly 435 million euros. The Autostadt is strategically located in front of the local train station, in the small urban center that is home to the largest Volkswagen industrial complex in the world. The site is also one of the most striking communication machines in existence – an edifice designed to make the complex universe of the automobile understandable to everyone. Potential Volkswagen buyers flock to this car’s “Mecca” in search of stimulation and answers to promises made by mass media and car magazines. On the way, they undertake a kind of initiation journey. As soon as they leave the station, which is the only stop that the high-velocity ICE train makes along the Berlin-Hanover line, they cross a technological bridge suspended high over the Rhine-Elbe Canal and enter a type of plaza inside the welcoming structure. This building features a multimedia show capable of communicating anything and everything about the world of Volkswagen and the carmaker’s industrial philosophy. In this sense, the enormous pavilion-hangar is especially striking, created with rotating glass walls that stretch more than twenty meters high. From there, spectators can choose which pavilion to visit, either heading toward thematic spaces like the Museum of the Automobile and the Civilization of Technology, or toward areas dedicated specifically to the car, like

those highlighting the various car models and lines produced by this industrial group. Each pavilion was designed in such a way that the architecture and furnishings directly reflect and express the diverse commercial targets of the various automobiles and industrial vehicles produced by Audi, Bentley, Lamborghini, Scania, Seat, Skoda and Volkswagen. The Bentley pavilion, for example, is constructed like an enormous hollow hill. The space intended for Lamborghini resembles a giant prism inserted into the earth. It evokes the muscular, high-velocity force of a dynamic geometric volume charged with latent energy. In reality, Autostadt is not simply an exaltation of automobile technologies. It also recognizes the strategic role that a great industrial company like the Volkswagen group can play in protecting and respecting the environment. The overall project for the car city is, in fact, largely based on bio-climatic environmental principles. This has given rise to such aspects as natural ventilation in the building – with the exception of the movie theaters – replacing the air-conditioning systems that are notoriously responsible for high-energy consumption. The covered plaza that houses the extremely high glass walls is enclosed by twelve enormous rotating prisms that, depending on the seasons, can create optimal climatic conditions inside the building. The cubic pavilion designed to house the Volkswagen presentation boasts a system of aluminum panels oriented toward the sun’s movement and capable of producing a play of light that highlights the movement of clouds overhead. The end of the pathway through the inside of Autostadt coincides with the KundenCenter, or client center, and with the two 50-meter-high transparent towers used as container silos for cars yet to be sold. This is the site of a show sure to impress a car purchaser, the consignment of a newly bought car. The vehicle is “delivered” in a powerfully suggestive environment, one that may remind onlookers of Chaplin’s Modern Times with its mechanical mystique. The cars being delivered – nearly 800 per day when the complex is completely full and running – arrive on a conveyor belt that runs out from a tunnel connected directly with the production factory itself. The cars appear and are illuminated by beams of light at the center of the client pavilion, which stands wide and very tall like a secular cathedral dedicated to the cult of private mobility.


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Qui sotto, in senso orario, planimetria generale, veduta aerea e il complesso ZeitHaus, il Museo dell’Auto. Il complesso è composto da un prisma vetrato, il Rack, che ospita una collezione di automobili, e da un volume a forma di prua, il Korpus, dove è illustrata la storia e il ruolo dell’automobile nelle varie epoche.

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Below. In clockwise order, general plan, aerial view and the ZeitHaus Automobile Museum Complex. The structure is composed of a glass prism, the Rack, which houses a collection of automobiles, and a prow-shaped volume, the Korpus, which details the history and the role of the automobile during various periods of time.


Particolare del Korpus, il volume vetrato del Museo dell’Auto. Details of Korpus, the glass volume of the Automobile Museum.

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In questa pagina, sezione del padiglione Volkswagen e interni dell’edificio caratterizzato da un cubo vetrato che racchiude una sfera. Nella pagina a fianco, immagine complessiva del padiglione Volkswagen. Nelle pagine successive, l’edificio d’ingresso di Autostadt e le grandi steli vetrate che delineano l’ingresso in Autostadt e verso la città.

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Section of the Volkswagen pavilion and internal views of the building characterized by a glass cube that encloses a sphere. Opposite page. Comprehensive view of the Volkswagen pavilion. Following pages. The Autostadt entrance building and the great glass stelae delineating the entrance to Autostadt and toward the city.


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News

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La Parallasse. Un'idea di architettura che legge i fenomeni naturali in modo dinamico The Parallax. An idea of architecture that reads natural phenomena in a dynamic manner Architettura, Edilizia e Ambiente. Il 150° anniversario di Cementos Rezola Architecture, Building and the Environment. Cementos Rezola’s 150th anniversary Marocco: Qualità record. Ciments du Maroc, primo gruppo cementiero a ricevere il Premio Nazionale della Qualità Morocco: Record Quality. Ciments du Maroc, the first cement producer to receive the National Prize for Quality Emporium Tower. Il più prestigioso complesso residenziale e commerciale di Bangkok Emporium Tower. Bangkok’s Ultimate Residential and Commercial Complex Ambiente e cemento: l’esperienza di Ciments Calcia. Il primo bilancio ambientale del settore cemento in Francia Environment and Cement: the Ciments Calcia Experience. The first environmental report from the French cement industry

La parallasse attraversata dall’uomo Man Crosses the Parallax

Steven Holl

È

tornato ad esporre a Milano lo scorso marzo, presso quella stessa Galleria Aam che aveva ospitato la sua prima mostra a livello internazionale vent’anni fa. Ma quello che allora era solo un giovane e promettente architetto è ora uno dei più grandi e affermati progettisti del nuovo millennio. Il suo ritorno in Italia è stato fortemente voluto da Italcementi nell’ambito di una serie di manifestazioni culturali che sotto il nome di “Incontri Millennium” intendono avvicinare il grande pubblico ai più illustri maestri dell’architettura contemporanea. Dopo una riflessione iniziale dedicata alla lezione lasciataci in eredità da Alvar Aalto, “Incontri Millennium” ha via via percorso i mondi progettuali e la poetica di Richard Meier, Enric Miralles, Dominique Perrault, Santiago Calatrava e Steven Holl. (All’interno del sito di Italcementi Group www.italcementigroup.com è possibile trovare una rassegna fotografica relativa all’ultimo evento).

L’inaugurazione della mostra è stata accompagnata da un’affollatissima lecture alla Seconda Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove sono intervenuti il rettore del Politecnico Adriano De Maio, il preside della Facoltà Antonio Monestiroli, l’architetto Franco

Raggi per l’Ordine degli Architetti Milanesi e l’ingegner Fortunato Zaffaroni, direttore commerciale di Italcementi. Nel corso dell’incontro milanese, che ha visto la folta partecipazione di studenti, professori universitari, architetti e imprenditori, Steven Holl, americano ma di famiglia norvegese, ha percorso i venticinque anni di lavoro della sua architettura, cominciata da posizioni assai vicine a quelle della scuola londinese di Zaha Hadid e di Rem Koolhaas cui si sono poi sovrapposte le influenze dell’architetta lituana Astra Zarina che fu sua insegnante a Roma alla fine degli anni ’60. Oggi Steven Holl, professore alla Columbia University e titolare di uno dei più importanti studi professionali di New York, è tra coloro che con più precisa chiarezza intellettuale e tensione poetica costruiscono un cammino innovativo per l’architettura contemporanea. Le radici del contesto, della terra, della realtà naturale, delle configurazioni e dei limiti contingenti di ogni suo progetto, trovano una via poetica e matematica verso un’opera che apre nuovi spazi. E forse un nuovo orizzonte. Il ruolo di Steven Holl in questo momento è proprio quello di dare possibilità e forme nuove all’apparire e al formarsi della natura profonda dell’architettura. Lo sguardo è al futuro: ai mille materiali delle sue possibilità, alla sua possibile luce, ma il corpo architettonico è ancorato al suolo della realtà dello spazio, della gravità, della luce, dell’economia, della misura, dei materiali e dei loro fenomeni. È in questo gioco tra realtà e desiderio che i molti edifici di Steven Holl hanno trovato il loro posto e la loro conformazione: in un’idea di architettura

legata allo spazio e al movimento della nostra percezione sensoriale in esso. Un’idea di architettura che legge i fenomeni naturali in modo dinamico, affidando all’esperienza della parallasse la percezione soggettiva di spazio e luce. Come egli stesso ha enunciato nel suo recente libro Parallax, la parallasse, ovvero il cambiamento della disposizione delle superfici che definiscono lo spazio come risultato del cambiamento della posizione dell’osservatore, si trasforma quando gli assi del movimento lasciano la posizione orizzontale. L’idea storica della prospettiva come volumetrie conchiuse, basate su uno spazio orizzontale si apre così alla dimensione verticale, l’esperienza architettonica viene liberata dalla sua situazione storicamente racchiusa e gli slittamenti verticali e obliqui diventano la chiave di nuove percezioni spaziali. Le opere di Steven Holl sono come pietre, materie architettoniche che aprono un discorso innovativo: dal Museo di Arte Contemporanea Kiasma di Helsinki alla Cappella di Sant’Ignazio a Seattle. Dalle case costruite negli Stati Uniti – la Texas Stretto House di Dallas e la Y House di Schohary County nello stato di New York – ai complessi residenziali di Fukuoka e Makuhari in Giappone. Dall’Istituto di Scienza di Cranbrook nel Michigan e il Museo d’Arte Bellevue a Seattle agli Uffici D.E. Shaw a New York e gli Uffici Sarphatistraat ad Amsterdam. Lo stesso si può dire anche per gli edifici attualmente in costruzione, dal Residence 2001 per il MIT di Boston all’ampliamento del Museo d’Arte Nelson-Atkins di Kansas City; dalla Facoltà di


Architettura e Architettura del Paesaggio di Minneapolis al Teatro Zachary Scott di Austin in Texas, all’Università di Arte e Storia dell’Arte dell’Iowa, e ai progetti per le nuove città, come la serie di progetti di “Edge of a City” per gli spazi urbani di Manhattan, Phoenix, Cleveland, Rochester e Dallas. Queste opere, come pietre in una costruzione, formano un corpo architettonico che porta avanti la tradizione dell’architettura contemporanea da Wright a Le Corbusier. Steven Holl (nato a Bremerton, Stato di Washington, nel 1947) ha aperto Steven Holl Architects a New York nel 1976. Si è laureato con lode alla University of Washington a Seattle. Ha studiato architettura a Roma nel 1970, e ha fatto dei corsi post-laurea alla Architectural Association di Londra nel 1976. Nel 1989 il Museo di Arte Moderna di New York ha presentato il lavoro di Holl in una speciale mostra, comprando diversi disegni per la propria collezione permanente. Nel 1991, il lavoro di Holl è stato presentato in una personale al Walker Art Center di Minneapolis, nella serie intitolata “Architettura Domani” curata da Mildred Friedman. Questa mostra si è poi spostata alla Henry Art Gallery di Seattle e nel 1992–93 è stata in esposizione in tutta Europa. Nel 1992 Holl ha ricevuto il National AIA Interiors Award per gli Uffici di D.E. Shaw & Co. a New York, e nel 1993 il National AIA Honor Award for Excellence in Design per la Texas Stretto House di Dallas. Nello stesso anno, Steven Holl Architects ha vinto il primo premio, tra 516 partecipanti, per il concorso per il nuovo Museo di Arte Contemporanea di Helsinki. L’edificio è stato aperto al pubblico nel maggio 1998. Tra le sue onorificenze: i progetti per il Knut Hamsun Museum di Hamarøy in Norvegia e il Museo della Città a Cassino in Italia, che hanno vinto nel 1996 i Progressive Architecture Awards for Excellence in Design. La Cappella di Sant’Ignazio a Seattle ha vinto nel 1998 il National AIA Award for Design Excellence e il Museo Kiasma di Helsinki ha vinto lo stesso premio nel 1999. Tra i riconoscimenti più recenti ci sono il Progressive Architecture Awards per il Museo Nelson-Atkins di Kansas City e la Simmons Hall del MIT di Boston nel 2000. Il Museo d’Arte Bellevue, a Seattle, è stato aperto al pubblico nel gennaio 2001, ed ha ricevuto il Seattle Award per l’Architettura.

L

ast March he returned to exhibit his work at the Galleria Aam in Milan, Italy, the same gallery that hosted his first international show 20 years ago. But the man who was then nothing more than another young and promising architect is now recognized as one of the greatest and most highly regarded building creators of the new millennium. His return to Italy was strongly promoted by Italcementi which through a series of cultural exhibitions called “Incontri Millenium” (Millennium Meetings), intends to familiarize the general public with the most illustrious masters of contemporary architecture. After an initial review of the mastery and instruction left to us by Alvar Aalto, the Millennium Meetings series has painstakingly displayed the design universes and poetics of such great architects as Richard Meier, Enric Miralles, Dominique Perrault, Santiago Calatrava and Steven Holl.

(A collection of photographs from the latest Millennium Meeting can be found on the Italcementi Group website, www.italcementigroup.com).

The inauguration of the Millennium Meetings show was coupled with a wellattended lecture in the Second Faculty of Architecture at the Politecnico School of Milan. Speakers included the Politecnico School Rector, Adriano De Maio; the Dean of Faculty, Antonio Monestiroli; Franco Raggi under the auspices of the Order of Milanese Architects; and Fortunato Zaffaroni, sales manager of Italcementi. The student body, university professors, architects and businessmen actively participated in the Milan

meeting as Steven Holl, an American of Norwegian descent, presented an overview of his 25-year career in architecture. His initial positions were remarkably similar to those of the London school championed by Zaha Hadid and Rem Koolhaas. These perspectives were later superseded by the influence of Lithuanian architect Astra Zarina, who was Holl’s teacher in Rome toward the end of the 1960s. Today Steven Holl is a professor at Columbia University and owner of one of the most prominent design studios in New York. He is considered a key figure among the group of modern architects who, using a precise intellectual clarity and poetic tension, are currently constructing a new and innovative path for contemporary architecture. The roots of context, earth, natural reality, and of the configurations and limits

contingent to each of his projects, find a poetic and mathematical route toward an architectural work that opens up new spaces and new horizons. Currently Steven Holl’s role is to bestow possibility and new form upon appearance and the definition of the very nature of architecture. His gaze is directed toward the future and its possibilities for thousands of materials and its potential sources of light. Yet we must acknowledge that the architectural body is anchored firmly in the reality of space, gravity, light, economy, dimensions, materials and their relevant phenomena. And it is within this interplay between reality and desire that many of Steven Holl’s buildings have found their place and structure in a notion of architecture intimately connected to space and to the movement of our sensorial perception within it. Il Residence Universitario del MIT: la strada piegata, (primo schema) porosità orizzontale.

Undergraduate Residence, MIT: folded street; (first scheme) horizontal porosity.

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It is an idea of architecture that reads natural phenomena in a dynamic manner, entrusting the subjective perception of space and light to the experience of the parallax. Just as Holl himself illustrated in his recent book, Parallax, the parallax – the change in the arrangement of surfaces that define space as a result of the change in the position of a viewer – is transformed when movement axes leave the horizontal dimension. The historical idea of perspective as enclosed volumetrics based on horizontal space gives way today to the vertical dimension. Architectural experience has been taken out of its historical closure. Vertical and oblique slippages are key to new spatial perceptions. Steven Holl’s works are like stones, architectural materials that break open innovative discussion as in the Kiasma Museum of Contemporary Art in Helsinki; the Chapel of St. Ignatius in Seattle; the houses constructed in the United States – the Texas Stretto House in Dallas and

the Y House in the Schohary County, New York – ; the Fukuoka and Makuhari housings in Japan; the Cranbrook Institute of Science, Michigan; the Bellevue Art Museum, Seattle; the D.E. Shaw Offices in New York and the Sarphatistraat Offices in Amsterdam. The same can be said of the buildings currently under construction. For example, the Undergraduate Residence 2001, MIT, Boston; the expansion of the Nelson-Atkins Museum of Art in Kansas City; the College of Architecture and Landscape Architecture in Minneapolis; the Zachary Scott Theater in Austin, Texas; and the University of Iowa Art and Art History Building. Also included are his projects for new cities, like the series of projects entitled “Edge of a City” for the urban spaces of Manhattan, Phoenix, Cleveland, Rochester, and Dallas. These architectural works, like stones in a construction project, come together to form a body of architecture that proudly and admirably

carries forward the tradition of contemporary architecture that spans from Wright to Le Corbusier. Steven Holl (b. Bremerton, Washington, 1947) established Steven Holl Architects in New York in 1976. Holl is an honors graduate of the University of Washington in Seattle. He studied architecture in Rome, Italy in 1970, and did post-graduate work at the Architectural Association in London in 1976. In 1989, the New York Museum of Modern Art presented Holl’s work in a special show, purchasing several drawings for its permanent collection. In In alto, dettaglio dello studio su spazio e strutture planari in acciaio. A sinistra, la Cappella di Sant’Ignazio: il piazzale del “campo di meditazione”. Lo spazio interno si irradia nello spazio del campus. Above. Enlarged study of steel planar space and structure. Left. Chapel of St. Ignatius: the “thinking field” forecourt. Radiance of the inner space projected into campus space.

1991, Holl’s work was featured in a solo exhibit at the Walker Art Center in Minneapolis as part of the series entitled “Architecture Tomorrow, ”whose curator was Mildred Friedman. This exhibit was moved to the Henry Art Gallery in Seattle and in 1992-93 toured throughout Europe. In 1992 Holl received the National AIA Interiors Award for the Offices of D.E. Shaw & Co. in New York City and in 1993 the National AIA Honor Award for Excellence in Design for Texas Stretto House in Dallas. That same year, Steven Holl Architects was awarded the winning design among 516 entries in the competition for the new Museum of Contemporary Art, Helsinki. The project opened to the public in May 1998. Among his honors are the 1996 Progressive Architecture Awards for Excellence in Design for the Knut Hamsun Museum in Hamarøy, Norway, and the Museum of the City in Cassino, Italy. Holl’s Chapel of St. Ignatius in Seattle was awarded the 1998 National AIA Award for Design Excellence and the Kiasma Museum in Helsinki won the same award in 1999. The most recent recognition for Steven Holl Architects’ work includes Progressive Architecture Awards for the Nelson-Atkins Museum in Kansas City and the Simmons Hall at MIT University in Boston in 2000. The Bellevue Art Museum in Seattle was opened to the public in January 2001, and received the Seattle Award for Architecture.


Architettura, Edilizia e Ambiente Architecture, Building and the Environment

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ementos Rezola ha concluso il programma delle celebrazioni per il proprio 150° Anniversario con un convegno sul tema “Architettura, Edilizia e Ambiente” nella prestigiosa cornice del nuovo Palazzo dei Congressi Euskalduna di Bilbao, in Spagna. Quasi 500 partecipanti tra architetti, prescrittori, istituzioni, amministrazioni locali e numerosi clienti hanno preso parte alla cerimonia conclusiva delle celebrazioni per il 150° anniversario di Cementos Rezola, filiale d’Italcementi Group presente nei Paesi Baschi e nel nord della Spagna. Il convegno, incentrato sull’importanza del ruolo dell’ambiente in architettura, urbanistica e edilizia, ha messo in rilievo la volontà e l’impegno responsabile di Cementos Rezola, e dell’intero gruppo Financiera y Minera in Spagna, per garantire la continuità delle proprie attività industriali nel costante rispetto e nella migliore integrazione possibile con l’ambiente circostante. L’impegno della società è testimoniato peraltro dall’ottenimento della certificazione ISO 14001 per tutti gli impianti di FyM. Il folto pubblico presente si è dimostrato particolarmente attento ai temi trattati dai cinque illustri relatori e al successivo dibattito animato dal celebre giornalista della SER, Iñaki Gabilondo. Dopo la proiezione di un filmato sul parallelismo tra la prospettiva visionaria di Fritz Lang in Metropolis (1926) e un’illustrazione dell’assetto urbano di questo fine secolo, gli interventi si sono articolati intorno ai seguenti temi: • Il diritto alla città e la morale cittadina (riflessione proposta dal filosofo Javier Sádaba) • I materiali da costruzione ed il loro costo

ambientale (Juan Carlos López Agüí, direttore dell’Istituto Spagnolo del Cemento e delle sue Applicazioni) • Assetto territoriale ed urbanistica (Javier Unzurrunzaga, architetto ed esperto di urbanistica) • Urbanistica strategica, estetica e ambiente (Juan Miguel Otxotorena, direttore della Scuola di Architettura di Navarra) • La responsabilità collettiva di fronte ad un futuro eco-compatibile (Manuel Toharia, direttore del Museo delle Scienze di Valenza). Tutti gli interventi hanno saputo combinare sapientemente contributi di grande vivacità intellettuale con riflessioni di utilità pratica. Dal punto di vista dei materiali da costruzione, aspetto che riguarda più direttamente l’industria del cemento, l’intervento di Juan Carlos López Agüí ha proposto di approfondire il concetto di costo ambientale comparato dei materiali nella valutazione dei mercati pubblici (infrastrutture, lavori pubblici). Basata sul concetto di “analisi del ciclo di vita dei prodotti” e sull’elaborazione di “indicatori-chiave delle performance”, la valutazione quantitativa dei materiali con riferimento all’“impatto ambientale del loro ciclo di vita”, sembra in grado di imporsi con naturalezza nel settore edilizio. Non sorprende quindi constatare che il ciclo del cemento gode di un reale vantaggio competitivo in materia. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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ementos Rezola concluded its 150th Anniversary celebrations with a conference on the theme of “Architecture, Building and the Environment,” held

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Un’immagine della cerimonia conclusiva delle celebrazioni per il 150° anniversario di Cementos Rezola.

A picture of the closing ceremony celebrating Cementos Rezola’s 150th anniversary.

at the new, prestigious Euskalduna Convention Center in Bilbao, Spain. Nearly 500 participants including architects, specifiers, administrative and institutional representatives as well as numerous clients were present at the closing conference celebrating Cementos Rezola’s 150th anniversary. Cementos Rezola is the cement business unit of the Italcementi Group, operating in the Basque country and the north of Spain. The convention focused on the role of the environment in architecture, urban planning and construction. It revealed Cementos Rezola’s commitment – shared by all the Financiera y Minera Group’s businesses in Spain –

to a responsible approach regarding not only the continuation of its business activity, but also the best possible integration into the immediate environment. This is further demonstrated by the recent ISO 14001 certification of all the FyM plants. The gathering of professionals was particularly attuned to the themes developed by five excellent lecturers and to the ensuing debate moderated by the prestigious SER journalist, Iñaki Gabilondo. Following a video presentation comparing Fritz Lang’s visionary futurology in Metropolis (1926) to an illustration of the urban planning of this fin de siècle, discussion centered around the


following main themes: • The right to the city and civil morality (considerations proposed by the philosopher Javier Sádaba) • Construction materials and their environmental costs (by Juan Carlos López Agüí, director of the Spanish Institute of Cement and its Applications) • Regional and urban planning (by Javier Unzurrunzaga, architect and urban planning

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consultant) • Strategic, esthetic and environmental urban planning (by Juan Miguel Otxotorena, director of the Architecture School of Navarra) • Our collective responsibility regarding an environmentally viable future (by Manuel Toharia, director of the Museum of Science in Valencia). Each presentation combined brilliant intellectual

contributions with useful food for thought. From the standpoint of construction materials, an aspect that concerns the cement industry most directly, Juan Carlos López Agüí’s talk proposed an in-depth examination of the concepts of the comparative environmental cost of construction materials in the evaluation of public markets (infrastructures, public works). Based on an “analysis of the product life cycle” and on

the elaboration of “key performance indicators,” the quantitative evaluation of materials with regard to the “environmental impact of their life cycle” becomes a natural consideration in construction. Therefore, it comes as no surprise to most people that the cement industry can gain a real competitive advantage from this type of life cycle analysis.

Emporium Tower: il più prestigioso complesso residenziale e commerciale di Bangkok Emporium Tower: Bangkok’s Ultimate Residential and Commercial Complex

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Emporium Tower è un edificio polifunzionale di 43 piani con una superficie totale di oltre 250.000 mq, realizzato dalla City Realty Co. Ltd. a un costo complessivo di oltre 6,5 miliardi di Baht (circa 160 milioni di euro). La Torre è situata vicino a un parco pubblico nel centro di Bangkok e si compone di una base di sette piani, occupata da spazi commerciali, una sezione di 19 piani adibita a uffici e 380 unità residenziali di lusso, nei 17 piani alti, servite da parcheggi coperti per 2.000 posti auto. Asia Cement (Italcementi Group) ha fornito oltre 130.000 metri cubi di calcestruzzo per la costruzione di questo Emporium Tower, iniziata nel 1993. Ciascun elemento costitutivo di questo complesso multifunzionale si è rivelato un vero e proprio successo ed è diventato un modello di riferimento nel proprio settore. Il Centro Commerciale Emporium, molto apprezzato fin dalla sua inaugurazione nel 1997, è stato acclamato come il centro commerciale più alla moda e di maggior prestigio della capitale tailandese. Meno di due anni più tardi e in un breve lasso di tempo dopo la loro inaugurazione, gli Uffici Emporium sono riusciti ad attrarre l’attenzione di grandi società nazionali e internazionali che ne hanno affittato tutti gli spazi. Le Suites Emporium, d’altra parte, sono ormai riconosciute come gli appartamenti più eleganti e

meglio serviti di tutta Bangkok grazie alle raffinate decorazioni d’interni, le viste panoramiche, la posizione strategica, la cortesia del personale di servizio e il facile accesso alle amenità locali: tutte qualità che nel loro insieme contribuiscono a definire il nuovo standard delle residenze di lusso dell’intera città.

Emporium Office was able to attract and rent its entire office space to local and international corporations shortly after its opening. And the Emporium Suites are now widely considered to be Bangkok’s finest serviced apartments where tasteful interior decorations, panoramic views, strategic location, courteous

service, and easy access to local amenities all combine to set new standards of luxurious executive living for the entire city.

Veduta generale dell’Emporium Tower nel complesso urbano.

Overall view of the Emporium Tower in its urban setting.

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mporium Tower is a 43-story, multi-purpose building with a total floor space of over 250,000 sq. m. It was developed by City Realty Co. Ltd. at a total cost of over 6.5 billion Baht (about 160 million euros). The Tower is located next to a public park in central Bangkok and consists of a 7-story shopping podium, a 19-story office area, 380 executive serviced apartments on the top 17 floors, and indoor garages accommodating approximately 2,000 vehicles. Asia Cement (Italcementi Group) supplied over 130,000 cubic meters of concrete for the construction of this Emporium Tower which began in 1993. Every component of this multi-purpose development has turned out to be very successful and has become a benchmark in its business sector. The Emporium Shopping Center has been highly acclaimed since it opened in 1997 as Bangkok’s trendiest and most successful retail center. Less than two years later, the


La cupola, simbolo dell’impianto di Ciments du Maroc a Safi.

Marocco: Qualità record Morocco: Record Quality

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iments du Maroc è il primo gruppo cementiero marocchino ad avere ottenuto il Premio Nazionale della Qualità, nella categoria Grandi Imprese, edizione 2000, organizzato in associazione con l’UMAQ (Unione Marocchina per la Qualità) ed il Ministero dell’Industria, del Commercio, dell’Energia e delle Miniere. Questo riconoscimento viene a coronare i lunghi anni di lavoro degli uomini della società e il loro costante impegno nella ricerca della qualità. Ciments du Maroc, filiale d’Italcementi Group svolge la propria attività nel settore dei materiali da costruzione attraverso le cementerie di Agadir, Safi e Marrakech (cemento e clinker), e la controllata Bétomar con numerose centrali di betonaggio e cave diffuse su tutto il territorio nazionale. Ciments du Maroc produce e commercializza attualmente circa 2.500.000 tonnellate di cemento l’anno, di cui 410.000 tonnellate destinate all’esportazione, e vanta una capacità produttiva di 3.000.000 di tonnellate annue di cemento. Grazie alla politica globale di Italcementi Group, Ciments du Maroc è divenuto il secondo gruppo cementiero del Marocco e ha avuto un peso considerevole nei risultati consolidati del Gruppo. Nel 2000, il fatturato di Ciments du Maroc (con il consolidamento di Bétomar) è salito a 1.696 milioni di dirham (175 milioni di euro), ed il risultato netto è ammontato a 304 milioni di dirham (31 milioni di euro). Storia della Qualità Organizzazione Qualità (1992)

Innalzamento del sistema qualità a un alto livello della funzione tecnica. In ogni unità produttiva è stata introdotta la figura del responsabile qualità che garantisce il controllo ed il follow-up della qualità dei prodotti.

PACT (1995)

Introduzione di piani d’azione e di concertazione triennali, i PACT, che definiscono per ogni settore di attività le linee d’azione prioritarie da realizzare in un lasso di tempo di tre anni, sulla base di una diagnostica generale e di un’indagine sulle esigenze della clientela. Certificazione dei prodotti (1995)

da parte del Ministero del Commercio e dell’Industria (Marchio NM). La qualità dei prodotti viene costantemente e regolarmente controllata dal servizio qualità dei singoli impianti e da un organismo indipendente di verifica che sottopone le proprie conclusioni semestrali allo SNIMA (Servizio di Standardizzazione dell’Industria Marocchina). Qualità Totale: Gruppi di progresso (1996)

Costituzione nell’ambito delle singole unità produttive dei cosiddetti gruppi per il progresso con il compito di evidenziare eventuali disfunzioni e avviare le conseguenti azioni di miglioramento. Certificazione Sistema ISO 9002 (1997)

SAFI AGADIR MARRAKECH

Agosto 1998 Maggio 1999 Aprile 2001

Premio d’Incoraggiamento del Premio Nazionale della Qualità (1999) Premio Nazionale della Qualità (2000)

Ciments du Maroc ha fatto della qualità un principio di management definendo la politica qualità ed i suoi principali orientamenti e fornendo tutti gli strumenti umani e materiali necessari per la sua messa in opera. Questa politica globale ha consentito a Ciments du Maroc di migliorare le proprie performance, soddisfare e fidelizzare la propria clientela e conquistare all’esportazione mercati prima difficilmente

accessibili ai cementieri marocchini. ■ ■ ■ ■ ■ ■

C

iments du Maroc is the first Moroccan cement producer to receive the National Prize for Quality in the Large Enterprises category for the year 2000. The prize is organized jointly by the UMAQ ( Moroccan Union for Quality) and the Ministry of Industry, Commerce, Energy and Mining. This award recognizes many years of hard work and dedication by the employees of the company as well as other ongoing quality program efforts. Ciments du Maroc, a subsidiary of Italcementi Group, operates in the construction materials sector through the cement plants in Agadir, Safi and Marrakech (cement and clinker), as well as several concrete batching units and quarries (Bétomar) throughout the kingdom. Ciments du Maroc produces and sells about 2,500,000 metric tons of cement yearly, 410,000 of which are exported to foreign markets. The company boasts a production capacity of 3,000,000 metric tons per year. Italcementi Group’s global policy has enabled Ciments du Maroc to become Morocco’s second-largest cement company and to contribute significantly to the Italcementi Group’s consolidated results. In 2000, Ciments du Maroc’s net sales (including Bétomar) grew to 1,696 million dirhams (175 million euros), with a net profit of 304 million dirhams (31 million euros). The History of Quality Quality Organization (1992)

The quality system is raised to a high level of the technical functions. A quality manager is assigned to each production unit and is directly responsible for the quality control and follow-up.

The dome, the symbol of Ciments du Maroc’s Safi plant.

PACT (1995)

Concerted three-year action plans known as PACTs are instituted. These plans define the priority actions to be conducted in all areas over the subsequent three years, based on a general evaluation and an attentive inquiry into customer satisfaction. Product Certification (1995)

Product Certification is administered by the Ministry of Commerce and Industry (the NM seal). Product quality is constantly monitored by each plant’s quality department as well as by an unaffiliated third-party monitoring group that submits its conclusions semi-annually to the SNIMA (Service of Standardization of Moroccan Industry). Total Quality: Progress Groups (1996)

Progress Groups are established within the plants in order to deal with existing problems and to recommend improvement initiatives. ISO 9002 System Certification (1997)

SAFI AGADIR MARRAKECH

August 1998 May 1999 April 2001

Encouragement Prize in the National Quality Awards (1999) National Prize for Quality (2000)

The key points of the Italcementi Group quality program have become a fundamental part of the company’s management strategy, and by the same token management has provided for the human and material resources necessary for its development. This global policy has allowed Ciments du Maroc – all while improving its performance – to fully satisfy and gain the loyalty of its customers, and to conquer export markets that until now proved difficult for Moroccan cement manufacturers to penetrate.

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Come coniugare ambiente e cemento: l’esperienza di Ciments Calcia Mixing Environment and Cement: the Ciments Calcia Experience

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“I

talcementi Group è da sempre impegnato ad aumentare il valore del proprio gruppo, delle proprie aziende, dei propri prodotti e dei propri servizi, nonché la capacità operativa del proprio personale operando nel pieno rispetto degli standard ecologici e ambientali. Con la convinzione quindi che la tutela dell’ambiente sia un impegno per le maggiori società ed una componente fondamentale nella gestione d’impresa”. Queste parole sono tratte da Vision il documento che raccoglie le linee guida, la visione comune e gli obiettivi di Italcementi Group. La Vision rappresenta l’ambizione del gruppo per il futuro. La dimensione mondiale di Italcementi Group e le sue attività intimamente connesse al territorio comportano anche un preciso impegno verso il rispetto dell’ambiente. Italcementi Group intende seguire una politica produttiva che permetta un rapporto ideale con l’ambiente durante tutto l’arco delle diverse fasi di produzione e commercializzazione dei suoi prodotti. L’atteggiamento dell’azienda non si limita infatti all’adozione di norme particolarmente restrittive sull’inquinamento, ma esplora strade nuove per raggiungere un equilibrio tra sfruttamento delle risorse e impoverimento del pianeta. In tal senso, va segnalata l’adesione al “World Business Council for Sustainable Development” (WBCSD), organismo al quale aderiscono 150 gruppi internazionali che condividono gli stessi principi in merito allo “sviluppo sostenibile” che mira al soddisfacimento dei bisogni presenti salvaguardando le esigenze delle future generazioni e che si basa su presupposti sociali, economici e di tutela ambientale.

Con altri dieci gruppi cementieri internazionali, Italcementi Group partecipa, con il supporto del WBCSD ad un programma specifico per l’industria del cemento. La produzione del cemento e l’ambiente La produzione del cemento è una delle necessità vitali di qualsiasi Paese industrializzato, allo stesso modo in cui nessun Paese può fare a meno della produzione siderurgica, della raffinazione del petrolio, della produzione della carta, dell’industria chimica e di numerose altre attività industriali di base, attività che l’immaginario collettivo considera con sospetto, basandosi spesso unicamente su una percezione epidermica di rischio ambientale. È pur vero che tale comune percezione è l’eredità di tempi passati, quando le esigenze di industrializzazione e di raggiungimento di soglie minime di benessere sociale ponevano in secondo piano le problematiche ambientali connesse con certe necessarie attività produttive. Da una quindicina d’anni, tuttavia, l’Europa occidentale ha cambiato radicalmente visione, istituendo norme legislative precise e severe a salvaguardia dell’ambiente, che ha assunto un ruolo primario in tutte le attività industriali. Le grandi aziende che operano a livello nazionale e internazionale hanno ormai permeato ogni loro attività di una consapevolezza ambientale più o meno marcata, resa necessaria dalla mutata sensibilità e dalla diversa scala di valori che le popolazioni hanno adottato da qualche anno a questa parte, in conseguenza del livello di benessere individuale raggiunto. Italcementi Group non fa eccezione, anzi si pone all’avanguardia nel drappello

di aziende europee maggiormente motivate per la salvaguardia dell’ambiente, pur operando, come si è detto, in un settore industriale potenzialmente critico. Le testimonianze concrete della cultura ambientale di Italcementi Group sono numerose e il bilancio ambientale di Ciments Calcia è una di queste. Il Bilancio Ambientale di Ciments Calcia Ciments Calcia, filiale francese di Italcementi Group, ha pubblicato il suo primo bilancio ambientale (il primo in Francia per quanto riguarda l’industria del cemento) e lo scorso 13 dicembre 2000 ha invitato l’associazione di tutela dell’ambiente “Amici della Terra” affinché ne desse una valutazione critica alla presenza di 150 delegati tra cui politici, industriali, rappresentanti di associazioni e di amministrazioni locali. Questa iniziativa, che ha rappresentato una vera Copertina del bilancio ambientale di Ciments Calcia. Front cover of the Ciments Calcia’s environmental report.

e propria “prima” nel settore dell’industria cementiera, intendeva chiarire le scelte aziendali riguardanti le informazioni riportate in questo tipo di bilancio e ha inoltre costituito per Ciments Calcia un ulteriore passo avanti nella sua politica di tutela dell’ambiente e di trasparenza sulle proprie attività industriali. Ciments Calcia ha rivolto il proprio invito agli “Amici della Terra” in ragione del lavoro svolto da questa associazione per l’elaborazione di un modello di report ambientale destinato alle aziende: l’obiettivo era quello di evitare che i bilanci ambientali assomigliassero a una sorta di opuscoli pubblicitari dal contenuto lacunoso. Questo lavoro degli “Amici della Terra” è stato compiuto in collaborazione con vari interlocutori, tra i quali Ciments Calcia, e si basa sull’analisi di 120 bilanci ambientali di varie aziende provenienti da quattro Paesi: Francia, Italia, Belgio, Regno Unito.


Perché un Bilancio Ambientale? L’industria del cemento è solita evocare l’immagine di una nuvola di polvere bianca sprigionata da grossi impianti industriali o da cave che deturpano il paesaggio. Si tratta, indubbiamente, di un’industria pesante con un forte impatto ambientale. E, se si vuole che questa industria esista ancora fra vent’anni, diventa indispensabile condurre una politica ambientale di alta qualità in grado di rispondere ad una legittima preoccupazione emergente, in coerenza con le aspirazioni degli operatori del settore e in generale, dell’insieme delle popolazioni che vivono nei territori dove sorgono gli impianti. Eppure, oggi, nei fatti, l’immagine spesso negativa dell’industria del cemento fa parte del passato. Negli ultimi anni sono stati compiuti sforzi considerevoli e la salvaguardia dell’ambiente è diventata una delle priorità manageriali dell’azienda allo stesso livello delle risorse umane, della sicurezza e della qualità. L’impegno ambientale di Ciments Calcia comprende diversi elementi: modernizzazione delle installazioni; predisposizione di sistemi di gestione ambientale e certificazione ISO 14001 per ogni sito produttivo; formazione del personale delle cementerie sugli impatti della produzione; creazione di strumenti di comunicazione e di concertazione con gli abitanti dei territori limitrofi. Il continuo miglioramento dei processi produttivi, in effetti, deve essere accompagnato da un’azione informativa, oggetto del bilancio ambientale. Il bilancio si rivolge a tutte le parti interessate dall’attività di Ciments Calcia: pubblico esterno (amministrazioni, associazioni ambientaliste, comunità locali, giornalisti) ma possiede anche un valore di bilancio pedagogico per i team operanti all’interno dell’azienda. Stampato in 25.000 copie, il rapporto ambientale vuole essere uno strumento d’informazione il più completo possibile sull’attività centrale della società, la produzione di cemento. Dal momento che Ciments Calcia ha scelto di pubblicare un bilancio nazionale, le informazioni di carattere più strettamente locale non sono state trattate con la stessa precisione dei dati nazionali. Gli abitanti delle aree limitrofe agli

impianti ricevono, però, comunque, regolari informazioni sullo sfruttamento delle cave e sul funzionamento delle cementerie attraverso l’utilizzo di vari strumenti di comunicazione locale. La società ha inoltre predisposto per ogni sito la costituzione di Commissioni di Concertazione che si riuniscono due volte all’anno e sono aperte a tutte le parti interessate per discutere su un ordine del giorno stabilito di volta in volta dagli stessi partecipanti. Oltre a ciò vengono regolarmente organizzate delle giornate “porte aperte” per il grande pubblico e con pari regolarità vengono diffuse pubblicazioni specifiche per ogni sito che riportano informazioni dettagliate sulle loro performance ambientali. Se pure le informazioni locali non sono riportate in questo bilancio nazionale, esso tuttavia può essere ugualmente di interesse per le comunità locali che desiderano conoscere la politica globale dell’azienda: si accorgeranno infatti che non esiste alcuna forma di opportunismo legata a questo o a quel sito in quanto Ciments Calcia conduce una politica coerente su scala nazionale. La società considera perfettamente legittima la richiesta d’informazioni da parte degli abitanti sulla sua politica aziendale: la conoscenza e lo scambio reciproco d’informazioni sono indispensabili per instaurare un clima di fiducia tra l’industria e gli abitanti del territorio in cui opera. Ed è nel quadro di questa costante ricerca di interazione e cooperazione che Ciments Calcia ha voluto pubblicare questo bilancio ambientale. Il bilancio si struttura intorno a cinque grandi capitoli che riassumono i diversi impegni dell’azienda: • Gestione delle cave e riduzione dei disturbi nocivi dovuti al loro sfruttamento; integrazione dei siti nel paesaggio e pianificazione della loro destinazione futura al termine del periodo di utilizzo; • Modernizzazione degli impianti e limitazione dell’impatto industriale: riduzione delle emissioni atmosferiche (CO2, polveri, SO2, NOx), contenimento dell’inquinamento sonoro, limitazione e trattamento degli scarichi dell’acqua, ...; • Economia delle risorse naturali attraverso l’uso estensivo di materie prime e combustibili alternativi

(pneumatici ed oli usati, farine animali, ...); • Creazione di prodotti più rispettosi dell’ambiente e dell’habitat, riduzione dei rumori legati ai trasporti, contribuzione alla soluzione dei problemi ambientali dei clienti (ciclo di vita dei materiali, alta qualità ambientale del settore costruzioni, qualità estetica degli edifici in cemento, trattamento dei rifiuti di cantiere, ...); • Gestione ambientale: sistema di management ambientale (SME), certificazione ISO 14001, formazione del personale, interventi di concertazione e d’informazione, partecipazione ai progetti di sviluppo del territorio, ecologia industriale. Il bilancio ambientale di Ciments Calcia è disponibile su semplice richiesta nel suo sito Internet: www.ciments-calcia.fr ■ ■ ■ ■ ■ ■

“T

he Italcementi Group has always been involved in increasing the value of the Group, its businesses, products and services, as well as the operational capacity of its personnel while fully respecting ecological and environmental standards. The company operates under the conviction that protecting the environment is a requirement of large companies as well as a fundamental component of business management.” These words are taken from Vision, the document that contains the guidelines, common vision and objectives of the Italcementi Group. Vision reflects the group’s ambitions for the future. The global dimension of the Italcementi Group and the activities that are intimately connected to the territory also carry a specific commitment to respect the environment. Italcementi Group intends to follow a productive policy that allows for an ideal relationship with the environment during the various phases of production and marketing of the Group’s products. The company’s attitude is not limited to the adoption of particularly restrictive norms regarding pollution, but explores new paths toward striking a balance between exploiting available resources and depleting the planet. To this effect, it is important to note the company’s participation in the “World

Business Council for Sustainable Development” (WBCSD), an organization that comprises 150 international groups sharing the same principles regarding “sustainable development.” It aims to satisfy present needs while preserving the demands of future generations, and is based on social, economic and environmental protection premises. Together with ten other international cement groups, Italcementi Group, with the support of the WBCSD, participates in a specific program designed for the cement industry. Cement Production and the Environment Cement production is one of the vital necessities of any industrialized country, just as no country can do without iron and steel production, petroleum refining, the production of paper, the chemical industry and numerous other basic industrial activities. These activities are regarded with suspicion by the collective imagination, often based on nothing more than a skin-deep perception of the environmental risks involved. It is nonetheless true that this common perception is the inevitable inheritance of times past, when the demands of industrialization and reaching minimum standards of social well-being relegated to a secondary level any environmental problems linked to certain required production activities. Nevertheless, for the past 15 years or so, Western Europe has radically changed its views, instituting precise and strict legislative measures to protect the environment, now a major concern of most industries. The big companies that operate on a national and international level have henceforth infused each of their activities with a fairly marked degree of environmental awareness. This awareness was made necessary by a change in sensitivity and by a different scale of values adopted for some time now as a consequence of the individual level of well-being attained. The Italcementi Group is no exception to this general movement; in fact it is at the avant-garde edge of a host of European companies that are most motivated by environmental protection, though it operates, as noted earlier, in an industrial sector that is potentially critical. The concrete testimonials

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to Italcementi Group’s environmental policy are numerous, and Ciments Calcia’s environmental report is a good example of this.

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Ciments Calcia’s Environmental Report In 2000, Ciments Calcia, a French subsidiary of the Italcementi Group, published its first environmental report (the first one from the French cement industry). On this occasion, last December 13th, the company invited the environmental protection association, “Friends of the Earth,” to undertake a critical evaluation of its environmental standing in the presence of 150 delegates including politicians, industry leaders, representatives of associations and local administrations. This operation was the very first of its kind in the cement industry and was intended to help clarify the company’s actions in light of the findings of this inquiry. It was also a further opportunity for Ciments Calcia to pursue its policy of environmental protection and complete transparency with regard to its industrial activities. Ciments Calcia invited “Friends of the Earth” because of this association’s contributions to the development of a corporate environmental reporting model intended for companies. The objective is to avoid environmental reports that resemble promotional brochures with insubstantial content. “Friends of the Earth” is working on this project in association with various partners, including Ciments Calcia, and is based on an analysis of 120 environmental reports of companies from four different countries: France, Italy, Belgium and the United Kingdom.

Why an Environmental Report? The cement industry usually evokes a cloud of white dust spewing from gigantic industrial plants or from quarries that disfigure the landscape. Undoubtedly, we are dealing with heavy industry having a strong environmental impact. In order for it to persevere for a few more decades, the company believes that an excellent environmental policy is essential. It must respond to legitimate emerging concerns and be in line with the aspirations of those who work in the sector as well as those who live in the areas in which the factories stand. And yet today, the all-too-often negative image of the cement industry is largely a thing of the past. Considerable efforts have been made over the last few years and environmental conservation has become a corporate managerial priority, on the same level as human resources, safety and quality. Ciments Calcia’s environmental commitment is comprised of various parts: modernization of the plants; establishment of environmental management systems and ISO 14001 certification for each production site; training of plant personnel about production impact; creation of communications and community relations tools. The continuing improvement of production methods must in turn be linked to an information process – the reason for an environmental report. This report addresses all parties interested in the activities of Ciments Calcia: external public (administrations, environmental protection agencies, residents, journalists) but also internal company teams for whom it holds pedagogical value. It aims to

provide the maximum amount of information possible about the company’s core-business, the production of cement. There were 25,000 copies of the report printed. Ciments Calcia chose to publish a national report; local information is therefore not as precise as the national data. However, local residents are regularly informed about mining of the quarries and operation of the cement plants through various channels of local communication. In particular, the company has created Consensus Commissions at every site, which meet twice a year and are open to all interested parties, following an agenda established by the participants. Furthermore, special “open house” days are regularly organized for the general public and specific publications provide detailed information on the environmental performance of each individual site. Although local news is not taken into account in this national report, it is nevertheless of interest to residents who wish to understand the company’s overall policy. They will come to realize that there is no opportunism connected with any particular individual site: Ciments Calcia follows a consistent company policy on a national scale. The company considers local residents’ requests for information on its corporate policy to be perfectly legitimate and understandable. Knowledge and the reciprocal exchange of information are indispensable for creating an atmosphere of trust between the industry and local residents. It is within this quest for mutual understanding and cooperation that lies Ciments Calcia’s commitment to publishing this environmental report.

The report is structured around five main chapters that summarize the various commitments undertaken by the company: • Management of the quarries and reduction of damages associated with their exploitation; the integration of the sites into the landscape and planning for their future development after work on the site has been completed; • Modernization of the plants and limitation of industrial impact: reduction of atmospheric emissions (CO2, dust, SO2, NOx), noise pollution control, as well as reduction and treatment of waste in water …; • Conservation of natural resources through extensive use of raw materials and alternative fuels (recycled pneumatics and oils, animal-based flours, …); • Development of products that prove more respectful of the environment and the natural habitat, reduction of noise pollution connected with transportation, help in resolving clients’ environmental problems (life cycle of various materials, high environmental quality in the building sector, aesthetic quality of cement buildings, waste treatment from construction sites …); • Environmental management: environmental management systems (SME), ISO 14001 certification, training of personnel, consensus and information processes, involvement in land development projects and industrial ecology. Ciments Calcia’s environmental report is available by request on its web site: www.ciments-calcia.fr Veduta panoramica dell’impianto di Beaucaire.

Panoramic view of the Beaucaire plant.




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