Bellezza

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Bellezza

A curA di

edited by

WAlter MAriotti


Bellezza

Un progetto di arcVision / A project by arcVision Direttore editoriale / Editor

Sergio Crippa (Italcementi) Concept & contents

Walter Mariotti Art direction & research

Walter Mariotti & Andrea Dorta (EmmeGi Group) Foto / Photographs PALAZZO ITALIA

di / by Mario e Pietro Carrieri

Coordinamento / Editorial Coordination

Ofelia Palma (Italcementi)

Coordinamento produttivo / Project Coordination

Giovanni Cerutti (Periskop) Stampa / Printing

AG Printing

© Copyright 2015 Tutti i diritti riservati

L’editore ha cercato di risalire al nome dell’autore di tutte le foto pubblicate in questo volume, ma non sempre è stato possibile. L’editore si dichiara disposto fin d’ora a revisioni in sede di eventuali ristampe. All picture’s rights in this book have been requested by the publisher. When not possible, the publisher is available to revise them in eventual reprints.

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Bellezza a cura di

edited by

Walter Mariotti

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Studi di filosofia a Siena e Harvard, Walter Mariotti (1967) ha diretto l’ARS del comune di Monticiano (1986) e l’URP di Grosseto (1998-2000) collaborando all’Università per Stranieri di Siena (1996-2000) e alla Cattedra Unesco per l’Immaginario della Iulm di Milano (2003-2006). Come giornalista ha diretto i mensili Campus, Class e ClassArte per Classeditori (2001-2005); il settore Nuove Iniziative per il Sole 24 ORE (2006-2012), per cui ha ideato i supplementi I Viaggi del Sole, English 24 e IL; per Mondadori ha coordinato il redesign di Panorama assumendone la vicedirezione (2012-2013). Cofondatore di Periferie (2014), il report sulle città promosso dal senatore Renzo Piano, attualmente collabora con il gruppo Italcementi, la SDA Bocconi e svolge attività di consulenza strategica in Italia e all’estero. Walter Mariotti was born in 1967 and studied philosophy at Siena and Harvard. He directed the ARS in Monticiano (1986), the URP in Grosseto (1998-2000) and worked with the University for Foreigners in Siena (1996-2000) and the UNESCO Center for Cultural and Comparative Studies on Imaginary at the IULM university in Milan (2003-2006). As a journalist, he edited the monthly magazines Campus, Class and ClassArte for Classeditori (2001-2005); directed the New Initiatives sector of the Sole 24 Ore Group (2006-2012), developing the supplements I Viaggi del Sole, English 24 and IL; for Mondadori he coordinated the redesign of Panorama, of which he was deputy editor (2012-2013). Co-founder of Periferie (2014), the report on cities published by the working group sponsored by senator Renzo Piano, Mariotti currently cooperates with the Italcementi group, the SDA Bocconi School of Management and works as a strategic consultant in Italy and abroad.

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l’armonia necessaria

Carlo Pesenti

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Diana Bracco

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Sergio Crippa

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Sentieri interrotti

The necessary harmony

Discontinuous paths

20 L’antifragile

The antifragile

40 Michele Molè parole d’autore

Giorgio Armani

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Andrea Bocelli

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Paolo Bulgari

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Brunello Cucinelli

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Massimo Della Ragione

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Robert Kunze-Concewitz

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Claudia Parzani

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Gary Pisano

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Marco Rettighieri

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Gianni Riotta

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In the author’s words

Oliviero Toscani 102 Gualtiero Vanelli 106 Giuseppe Zaccaria 110 Franco Zeffirelli 116 Non di solo pane

Not by bread alone

126 Walter Mariotti

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l’armonia necessaria the necessary harmony

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La Bellezza non si perdona. Ma perderla è imperdonabile Parlare di bellezza oggi sembra quasi una provocazione. Un esercizio impossibile o peggio una forma di nostalgia, che a volte si vena di retorica. Per fortuna non è così. Confrontarsi con la bellezza oggi significa entrare nel mondo e nel merito di valori che hanno sempre rappresentato l’essenza profonda di un paese, il grado di civiltà e di benessere della sua comunità, l’indice di felicità dei suoi individui. Segnali e indicatori non meno importanti delle statistiche economiche. E del Pil.

Oggi però riflettere sulla bellezza è anche una via privilegiata, e forse unica, per ripararsi da una tendenza del nostro tempo, che vorrebbe ridurre tutto a una lettura mercatista della realtà. Un concetto che fondandosi su un’interpretazione non corretta del mercato produce molte distorsioni, fra cui attribuire valore esclusivamente in base al ritorno economico. Un criterio che la storia smentisce in ogni epoca. Il caso più pericoloso di questa attitudine oggi riguarda proprio la bellezza: perché se la bellezza viene percepita come un lusso, allora essa diviene l’opposto di un’esigenza individuale, un bisogno primario e un’esperienza democratica. Si riduce a un percorso per pochi, un episodio marginale nella routine quotidiana, un consumo di cui è normale e forse anche giusto sospettare. O fare decisamente a meno. Per fortuna le cose non stanno così. Soprattutto quando la bellezza è legata alla politica e all’industria, cioè al fare, all’innovare, a produrre inedite relazioni fra cose e persone che la contemporaneità, la tecnologia e la ricerca possono intessere con il patrimonio storico, culturale e artistico. Un patrimonio, è opportuno ricordarlo, che si trova custodito nei molti, tanti luoghi che rendono l’Italia la patria dell’arte, ma che vive soprattutto fuori, all’aperto. In quella realtà quotidiana dove siamo immersi nell’esperienza di ogni giorno, consapevolmente o meno. Sostanzialmente questo è “il patrimonio italiano”, come ha ricordato Tomaso Montanari, l’insieme di nessi e valori, di oggetti e soggetti, di tradizioni e sfumature, di bellezza insomma molto spesso impura che ci circonda e a cui partecipiamo come donne, uomini ma soprattutto come cittadini. È per questo che la Repubblica Italiana ha come obiettivo principale quello di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza, favorendo la tutela e la produzione di bellezza, elementi che da un lato elevano qualunque individuo a rango di cittadino e dall’altro lo rendono uguale a tutti gli altri. Non solo. Come scriveva James Hillman, la bellezza risveglia la coscienza, chiarendo chi siamo attraverso le nostre risposte all’esperienza del bello. Soltanto muovendosi in un contesto di bellezza, quindi, è possibile fare un’esperienza di libertà e partecipazione, che è al tempo stesso psicologica e democratica. Soltanto circondati e impegnati nella bellezza noi liberiamo la nostra possibilità di tornare agli archetipi del

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Chiesa di Vita Leta, San Quirico d’Orcia, Siena


Carlo Pesenti

vero senso di sé, garantendoci la libertà di essere cittadini e non consumatori. Soltanto vivendo la bellezza ampliamo gli orizzonti e le occasioni dell’anima. Per queste ragioni il gruppo Italcementi ha sostenuto con convinzione il progetto di bellezza di Palazzo Italia per Expo Milano 2015. Perché lo ha inteso fin dall’inizio come parte di una politica culturale impegnata a produrre un’esperienza individuale e civile di libertà. Perché Palazzo Italia rappresenta prima di tutto un progetto molto originale di innovazione, architettonica, ingegneristica e di materiali. Un duro lavoro di perfezionamento della conoscenza, dunque, che alla fine del percorso lascia arricchiti. Solo da questo si riconosce la vera bellezza, quando è in grado di suscitare emozioni non fini a se stesse, non d’effetto, ma di sostanza, in grado cioè di produrre un vero cambiamento nell’animo di chi guarda, di chi partecipa, di chi ne è al contempo testimone e attore. C’è un altro motivo per cui siamo fieri di aver avuto la possibilità di partecipare all’Expo. È la rigenerazione a cui ci dedichiamo con passione da molti anni. Il paesaggio italiano, infatti, il patrimonio italiano non sono un lusso o

un carburante, uno spazio o giacimento da sfruttare, ma il risultato di sedimentazioni naturali, culturali, storiche. L’ambiente che caratterizza l’Italia, sia esso agricolo, urbano, culturale non è solo un museo, non può essere soltanto conservato e valorizzato ma occorre che sia vivificato con produzioni culturali all’altezza, con rappresentazioni di strumenti sociali, con esperienze concrete di società moderne che da un lato siano veri prodotti di bellezza contemporanea e dall’altro forniscano le chiavi per leggere la realtà che ci circonda. Investire in bellezza rappresenta anche questo: uscire da una concezione di consumo marginale o eccezionale ed entrare nella quotidianità, nella visione di un patrimonio come combinazione di elementi storici e nuovi, del passato e del presente, che ci rendono prima persone e poi cittadini italiani. Partecipare al desiderio di bellezza lavorando sulla cultura contemporanea, su nuove forme concrete di patrimonio e valore, forme che per loro natura sono destinate ad accendere il dibattito e dividere la pubblica opinione, ci sembra l’unico modo per contribuire all’esperienza democratica, donando le chiavi per leggere il passato guardando al futuro.

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Pienza, Siena

Beauty is not forgiven. But losing it is unforgivable Talking about beauty these days almost seems like a provocation, an impossible exercise or worse, a form of nostalgia, which at times carries undertones of rhetoric. Fortunately this isn’t the case. To confront oneself with beauty today means to enter the world and the substance of values that have always represented the profound essence of a nation, the level of civilization and wellbeing of one’s community and the happiness index of its individuals. These signals and indicators are no less important than economic statistics or GDP. Today, however, reflecting on beauty is also a privileged exercise,

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and perhaps one that is merely a reaction against the trend of our times that seeks to reduce everything to market-oriented perspective on reality. A concept founded on an incorrect interpretation of the market can produce many distortions, such as the attribution of value based solely on economic return, a paradigm that history refutes in every era. The most dangerous aspect of this attitude today is precisely related to the concept of beauty: because if beauty becomes perceived as a luxury, then it becomes the opposite of an individual need, of a fundamental need and a democratic experience. It gets reduced to an option only for the few, a marginal occurrence in daily routine life, the consumption of which is normal and perhaps even right to distrust or enjoy much less frequently. Fortunately, it’s not this way. Especially when beauty is connected to politics and industry, to doing and innovating, to producing atypical relationships between things and people that the contemporary world, technology and research, can weave together with historical, cultural, and artistic heritage. A heritage, it should be remembered, that is protected in many places, making Italy the land of art, but it’s a heritage that exists out in the open, in the everyday reality where we’re immersed in the experiences of daily life, consciously or unconsciously so. This is, essentially, the “Italian heritage,” the set of connections and values, of objects and subjects, traditions and nuances— in short, the often-blemished beauty that surrounds us and in which we participate as men and women, but mostly as citizens. This is why the Italian Republic has as its main objective the removal of barriers to equality, promoting the protection and production of beauty, elements that, on one hand, elevate each individual to the status of citizen, and on the other hand, make each person equal to everyone else. But that’s not all. As James Hillman wrote, beauty awakens consciousness, clarifying who we are through our reactions to the experience of beauty. Only


by placing ourselves within the context of beauty, then, is it possible to have an experience of freedom and participation, which is both psychological and democratic in nature. Only surrounded and engaged with beauty do we free our ability to return to the archetypes of our true sense of self, granting us the freedom to be citizens and not consumers. Only by living beauty do we broaden the horizons and opportunities of the soul.

on one hand are true products of contemporary beauty, and on the other hand provide the keys to interpreting the reality that surrounds us. Investing in beauty also represents a movement away from marginal or exceptional consumption and towards everyday life, within the vision of a heritage that exists as a combination of historical and new elements, of past and present, making us people first and Italian citizens second.

For these reasons, the Italcementi group has strongly supported the project of beauty that is Palazzo Italia at Expo Milano 2015. Because it understood the project from the beginning as part of a cultural policy committed to producing an individual and civic experience of freedom. Palazzo Italia represents, first and foremost, a very original project of innovation, in terms of architecture, engineering, and materials—a difficult task of improving knowledge, that therefore, leaves us enriched at the end of the experience.

To participate in the desire for beauty, working with contemporary culture, with new, concrete forms of heritage and value, forms that by their nature are intended to kindle debate and stir up public opinion—this seems to us the only way to contribute to the democratic experience, providing the keys to read the past and look into the future. Beauty is therefore emotion, self-awareness, and liberty. But it is also the only guarantee that something can be done. Hence beauty is not forgiven, but to lose it is even more unforgivable.

Only from here do we recognize true beauty, when it’s able to stir emotions that are not an end in themselves, not of effect but of substance, able to bring about a real change in the soul of the observer, of the participant, who is at the same time witness and actor. There is another reason why we are proud to have the opportunity to participate in Expo. It is the regeneration to which we have dedicated ourselves with passion for many years. It is the Italian landscape, in fact; Italian heritage is not a luxury or a fuel, a space or resource to be exploited, but the result of natural, cultural, and historical sedimentation. It’s the environment that characterizes Italy, whether it be agricultural, urban, or cultural, it is more than just a museum. Not only can it be preserved and developed, but must also be imbued with high-level cultural production, with representations of social instruments, with the real experiences of modern society that

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Expo Milano 2015

La felicità della bellezza Una recente indagine condotta dal FAI su un campione di Italiani sulla base della domanda “Quale sentimento genera in noi la visione di un bel paesaggio, di un monumento o di un’opera d’arte?” ha avuto come risposta più diffusa “la felicità”. Davanti a qualcosa di bello ci sentiamo orgogliosi e più ricchi oppure felici e sognatori, e assistere allo spettacolo della bellezza rende anche estasiati, sereni, rilassati ed emozionati. Quindi la bellezza forse non salverà il mondo, come sosteneva cripticamente il Principe Myškin, ma i suoi abitanti apparentemente sì, perché un ambiente armonico ha un impatto decisivo sulla qualità della nostra vita.

DIANA BRACCO

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patrimonio storico, artistico, e ambientale. Un articolo che testimonia la lungimiranza dei Padri costituenti nel sancire l’impegno per proteggere e valorizzare il lascito straordinario della nostra storia millenaria. Conservare e promuovere la bellezza: ecco il compito che spetta a noi come Italiani, che abbiamo avuto la fortuna di nascere nel paese più ricco di opere d’arte al mondo disseminate in uno scenario naturale tra i più vari che esistano. Un compito proprio non solo delle istituzioni, ma anche delle imprese e dei singoli cittadini. Con la nostra Fondazione Bracco, che è nata con la mission di formare e diffondere espressioni della cultura, della scienza e dell’arte quali mezzi per il miglioramento della qualità della vita e della coesione sociale, cerchiamo di dare il nostro contributo in Italia e all’estero. Da qui nasce il ruolo fondamentale giocato dall’educazione e dalla formazione dei giovani, perché l’amore per il bello deve essere suscitato fin dall’infanzia così come la consapevolezza della salvaguardia dell’ambiente deve essere insegnata come regola di convivenza civile. Se tutti fin da bambini saranno abituati a considerare il paesaggio come risorsa e come “cosa comune”, nel futuro ci saranno meno devastazioni, meno saccheggi e sfruttamenti insensati e più utilizzi e valorizzazioni virtuose. Un appuntamento storico come Expo 2015, in particolar modo per il suo tema conduttore di “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita”, non poteva non confrontarsi con il tema della bellezza.

Ma attenzione: non si tratta di un appagamento puramente estetico, vagamente superficiale e decadente, ma dell’esplosione di emozioni e di un senso di benessere capace di toccare le corde più profonde dell’anima. In parole molto povere, la bellezza fa bene alla salute. In effetti varie ricerche condotte negli ultimi anni hanno messo in luce come l’occuparsi di cultura, arte, bellezza, migliori il benessere psicofisico delle persone, tanto che la musica e l’arte vengono ora utilizzate per facilitare il recupero dei pazienti anche in alcuni luoghi di cura (di cui alcuni esempi all’avanguardia sono proprio in Toscana). L’Articolo 9 della Costituzione Italiana pone tra i principi fondamentali della nostra Repubblica lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e la tutela e salvaguardia del

Per questo la bellezza è il cuore pulsante del Padiglione Italia. Una bellezza anzitutto architettonica ed espositiva: il progetto dello studio Nemesi & Partners Srl di Roma, Proger SpA di Pescara e BMS Progetti Srl di Milano, ispirato a una “foresta urbana”, è un’opera d’arte in sé che merita una visita. Il progetto, letteralmente scultoreo, è connotato da una forte sperimentalità: cito ad esempio la realizzazione della copertura vetrata a opera della Stahlbau Pichler di Bolzano e il rivestimento della parte esterna realizzato con un materiale innovativo ideato ad hoc da i.lab, il Centro Ricerche di Italcementi. L’effetto, bellissimo, è quello di una sorta di “pelle” in cemento biodinamico contenente TX Active, un principio attivo fotocatalitico per prodotti cementizi in grado di abbattere gli inquinanti organici e inorganici presenti nell’aria. Ma la bellezza permea di sé anche i contenuti della Mostra delle Identità Italiane curata da Marco Balich. Tra le 4 potenze italiane che abbiamo scelto per il nostro racconto c’è proprio “la potenza della bellezza”. Il segmento di percorso dedicato alla Bellezza nel Palazzo Italia comprende le vedute, gli interni, i paesaggi italiani replicati visivamente grazie a un sistema a specchi e a tratti scomposti per produrre una visione caleidoscopica e originale, un nuovo sguardo sulla nostra Grande Bellezza e un effetto di riproduzione “infinita”. Un’esperienza che avvolge il visitatore e che lascia tutti letteralmente a bocca aperta.

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a major impact on the quality of our lives. But beware: this is not merely an aesthetic satisfaction, vaguely superficial and decadent, but an explosion of emotions and a sense of wellbeing capable of touching the deepest levels of the soul. Put very simply, beauty is good for the health. In fact, various studies conducted in recent years have highlighted how experiences with culture, the arts, and beauty improve psychological wellbeing, to such an extent that music and art are now being used to facilitate patient recovery in some care centers (some of the most cutting-edge examples of which can be found in Tuscany). Duomo, Milano

The Happiness of Beauty A recent survey conducted by FAI on a sample of Italians based around the question “What feeling is given to us by a beautiful landscape, monument, or work of art?” has received, as its most common response, the answer “happiness.” Standing before something beautiful we feel proud and more wealthy or happy and dreamy, and to witness the spectacle of beauty is to be made ecstatic, serene, relaxed, and excited. So maybe beauty won’t save the world, as cryptically claimed by Prince Myshkin, but its inhabitants yes it would seem, because a harmonious environment has

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Article 9 of the Italian Constitution places the development of culture and scientific research among the fundamental principles of our Republic, along with the protection and preservation of historical, artistic, and environmental heritage. It is an article that testifies to the foresight of Italy’s founding fathers in enshrining the commitment to protect and enhance the extraordinary legacy of our millennia of history. Preserving and promoting beauty: this is the task that falls to us as Italians, that we’ve had the good fortune to be born in the world’s richest country in terms of great works of art. It is a concern not just for institutions but also businesses and individual citizens. With our Bracco Foundation, which was founded with the mission of forming and disseminating expressions of culture, science, and art as a means of improving quality of life and social cohesion, we try to make a contribution both in Italy and abroad. Hence the critical role played by education and youth training, because love of beauty needs to be instilled from childhood, just as with the awareness of environmental protection, and must be taught as a rule of civil coexistence. If everyone from childhood was used to considering the landscape as a resource held in


common, the future would hold less devastation, looting and foolish exploitation, and more virtuous uses and valuations. A historic event such as Expo 2015, especially in light of its main theme of “Feeding the Planet. Energy for Life” cannot neglect the theme of beauty. For this reason, beauty will be the beating heart of the Italian Pavilion. Beauty above all in its architecture and exhibitions: the project of the Nemesi & Partners Srl studio of Rome, Proger SpA of Pescara, and BMS Progetti Srl of Milan, inspired by an “urban forest,” is a work of art in itself worth a visit. The project, literally sculptural in essence, is characterized by strong experimentation: I cite for example the construction of the glass roof dome by Stahlbau Pichler of Bolzano and the external covering made with an innovative material created ad hoc by i.lab, the Research Center of Italcementi. The effect, which is quite beautiful, is that of a sort of biodynamic cement “skin” containing TX Active: an active photocatalytic material for cement products that can reduce organic and inorganic pollutants in the air. But beauty also permeates the contents of the Exhibition of Italian Identity curated by Marco Balich. Among the four Italian powers that we selected for our narrative, there is of course “the power of beauty.” The segment of the exhibit pathway dedicated to Beauty in Palazzo Italia is made up of views, interiors, and Italian landscapes visually replicated thanks to a system of mirrors and reclaimed elements to produce a kaleidoscopic and original vision, a new look at our Grande Bellezza and an effect of “infinite” replications. It is an experience that envelops the visitor and leaves everyone speechless.

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L’altra grande bellezza Potrebbe essere il titolo di un film su Milano, non meno grandioso e amaro di quello con cui Paolo Sorrentino ha sedotto il mondo. Il motivo è semplice. Milano è una città bella, anzi bellissima, anche se questa bellezza spesso è ignota persino ai suoi abitanti. Cittadini che la vivono più come luogo di affari e progetti che costruzione di bellezza. Eppure. Eppure da Paolo Diacono e Bonvesin della Riva, da Alessandro Manzoni a Giovanni Testori, Milano si rivela luogo capace di produrre bellezza in una chiave unica in Italia: guardando non al passato ma al futuro. Questa vocazione prospettica, questa spinta a produrre bruciando se stessa per continuare a rinnovarsi contribuisce a offuscare la bellezza di Milano rispetto alle capitali del Grand Tour, che hanno scelto di legare la propria immagine al passato. Seguendo invece la propria vocazione di motore economico e civile del paese, Milano non ha potuto che ancorarsi alla cultura del fare piuttosto che dell’essere, del costruire oltre che del conservare. È evidente però che nel 2015 insistere in questa unica prospettiva sarebbe riduttivo e fuorviante. Più che una colpa un vero errore, prima di tutto culturale perché le eccellenze che nel mondo identificano Milano, i suoi primati industriali e postindustriali, sono comprensibili soltanto spingendosi al di là degli assi del visibile, affondando nella storia della sua identità, del suo timbro o come si preferisce dire oggi del suo know-how. Se è un fatto che Milano sia riconosciuta capitale mondiale del design, della moda, dell’innovazione, è altrettanto vero che questi fatti trovano la loro fonte proprio nella bellezza, nella ricerca maniacale di una vocazione artigiana, nell’innovazione ossessiva delle tecniche e dei materiali. C’è una precisa continuità, ad esempio, fra Leonardo e Gio Ponti, una linea distinta che si basa sull’innovazione e la costruzione tenute insieme dall’emozione. Il problema è riuscire a identificare questo fil rouge, a riconoscerlo e a farsi guidare nella comprensione delle regole che legano il passato al futuro. Questo tema purtroppo non riguarda soltanto Milano, ma l’Italia intera che se da un lato ha prodotto più bellezza di qualsiasi altro paese al mondo, dall’altro non ha sempre garantito le condizioni di partecipazione all’altezza della sua storia e del valore della propria bellezza. Anche nel 2015 il problema di rendere la bellezza una presenza viva nella nostra vita, di toccarla ed esserne toccati resta cruciale. Attraversare un patrimonio quotidiano

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Torre Velasca, Milano


SERGIO CRIPPA

dell’arte o dell’architettura senza rendersi pienamente conto di cosa significhi e quale ne sia il valore è un’esperienza comune spesso anche per chi è più preparato. Per questo il gruppo Italcementi ha salutato con gioia l’Expo Milano 2015. Perché è convinto che tutto quello che possa servire a mettersi in relazione con la bellezza sia fondamentale. Ogni investimento in questo senso non deve essere visto come un costo né come portatore di un immediato ritorno economico quanto piuttosto come strumento di crescita civile che completa e perfeziona strumenti, competenze, identità. E visioni del mondo. In Italcementi crediamo da sempre nella fondamentale importanza della cultura quale volano di eccellenza. Per questo abbiamo affiancato l’attività industriale vera e propria

all’impegno nella ricerca e nella formazione, con una lungimiranza che ha superato i limiti imposti da un prodotto di base indifferenziato, come il cemento. E per questo abbiamo felicemente sottoscritto un importante impegno con Palazzo Italia, luogo-icona di Expo 2015 che impiega il cemento biodinamico, un prodotto unico per proprietà e caratteristiche, per l’intera superficie esterna e parte degli interni. Perché consideriamo queste scelte parte di una politica culturale attiva e sentiamo l’onore di potervi partecipare, per vivere l’avventura della conoscenza, dell’incontro con l’altro, del processo di acquisizione del sapere non come doverismo o fastidio ma come una straordinaria avventura, unica e felice. Oggi ancor più alla portata di tutti.

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been a place capable of producing beauty, in a way unique in Italy: looking not at the past, but at the future.

Grattacielo Pirelli, Milano

The other great beauty It could be the title of a film about Milan, no less grandiose and bitter than the one with which Paolo Sorrentino seduced the world. The reason is simple. Milan is a beautiful city, a very beautiful city, though this beauty is often unknown even to the people who live in it. Citizens who consider it a place for doing business and making plans rather than building beauty. And yet... And yet, from Paolo Diacono to Bonvesin della Riva, from Alessandro Manzoni to Giovanni Testori, Milan has always

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This vocation for perspective, this drive to produce, burning itself up in order to continue renewing itself, helps blur the beauty of Milan, as compared to the capital cities on the Grand Tour which have chosen to build an image based on the past. In line with its vocation as the country’s economic and civic leader, Milan has linked itself with a culture of doing rather than being, of building and of preserving. But it is clear that in 2015 insisting on this perspective alone would be reductive and misleading. Rather than a fault, it would be a real mistake, above all cultural, because the excellence with which Milan is identified in the world, its industrial and post-industrial leadership, are only comprehensible if we go beyond the visible, go back to the history of its identity, its timbre or, as people prefer to say today, its know-how. While it is a fact that Milan is acknowledged as the world capital of design, fashion, and innovation, it is equally true that these are based on beauty, on the painstaking search for a vocation of craftsmanship, on obsessive innovation in techniques and materials. There is, for example, a line of continuity between Leonardo and Gio Ponti, a distinct line based on innovation and construction held together by emotion. The problem is managing to identify this common thread, to recognize it and to find our way through the rules that link the past with the future. Unfortunately this does not apply only to Milan, but to all of Italy, which on one hand has produced more beauty than any other country in the world and on the other has not always guaranteed the conditions for participation up to the level of its history and the value of its beauty. In 2015 making beauty a living presence in our lives, of touching it and being touched by it, remains a crucial problem. Walking through a heritage of art and architecture every


day without realizing what it really means and its value is a common experience for even the best-informed. This is why the Italcementi group welcomed Expo Milano 2015. Because it is convinced that everything that can help us relate to beauty is important. Any investment in this should not be viewed as a cost or as bringer of immediate economic value but as a tool for civil growth which completes and perfects tools, competences and identities. And visions of the world. We at Italcementi have always believed in the key importance of culture as a driving force for excellence. This is why we have combined our work in industry with a true commitment to research and education, with a forward-looking attitude that has gone beyond the limitations set by an undifferentiated basic product such as cement. And this is why we have happily signed an important agreement with Palazzo Italia, the place that stands for Expo 2015, for use of biodynamic cement, a product offering unique features and qualities, for the building’s entire outer surface and part of its interior. Because we consider these choices part of an active cultural policy, and we are honored to be able to participate in it, to experience the adventure of knowledge, of meeting others, of the process of acquiring knowledge not as a duty or chore but as an extraordinary, unique, joyful adventure. Which is now increasingly accessible to all.

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SENTIERI INTERROTTI Un percorso come di sinestesie, un excursus di stimoli e suggestioni, un sentiero interrotto di assonanze e rapporti segreti, cifre misteriose ma illuminanti, nessi distinti ma conviventi. Un’indagine laterale sull’essenza della bellezza italiana, forma pura che supera secoli e logiche cognitive diventando un vero testo, implicito ed eccentrico. Soprattutto, un invito all’eco della bellezza. Senza alcuna pretesa scientifica, ma con un intento forse ancor più ambizioso. A cui è bello abbandonarsi.

Discontinuous paths A journey in a world of synesthesia, an excursus of stimuli and suggestions, a discontinuous path through assonance and secret connections. Mysterious yet illuminating figures, autonomous yet cohabiting links. A transverse investigation into the essence of Italian beauty, pure form that transcends centuries and cognitive reasoning to become a genuine text, implicit and eccentric. Above all, an invitation to experience the resonance of beauty. An invitation with no scientific pretensions, but with a perhaps even more ambitious intention. Utter enjoyment.

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Castel Del Monte, secolo XIII

Maestà di Duccio di Buoninsegna (1308-1311) Castel del Monte (Andria) e Il Campo (Siena). Il primo, voluto dall’imperatore Federico II, ha origine e funzioni tuttora ignote. Celebrazione della corona imperiale per alcuni studi, tempio di sapere esoterico per altri, hammam e centro per il passaggio delle acque per altri ancora. Di certo resta sintesi di raffinate conoscenze architettoniche, matematiche e astronomiche misteriose. Proprio come la divisione in nove “spicchi” della più famosa piazza del mondo, Il Campo, segno del governo dei nove, magistratura che resse la Repubblica di Siena dal 1287 al 1355 creando le condizioni del cosiddetto Buongoverno, basato su un’idea politica della bellezza. Dipinto da Ambrogio Lorenzetti nell’Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338-1339), il Buongoverno resta la straordinaria testimonianza della mediazione tra interessi pubblici e interessi privati attraverso l’idea di bellezza, concetto sancito a Siena fin dal Costituto del 1309, la costituzione originaria per cui chi governa deve mettere al primo posto “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e 22

dei cittadini”. Un’idea di armonia sublimata dalla relazione fra gli sguardi della Maestà di Duccio di Buoninsegna (1308-1311), la pala d’altare del Duomo di Siena, capolavoro dell’arte prerinascimentale e simbolo dell’armonia tra cielo e terra. Il virtuosismo del pittore raggiunse il vertice nei volti delle divinità, con la Madonna che gira nello spazio anticipando la tridimensionalità ma è dipinta con un’acromia dolce che rende vivo l’incarnato, mentre Gesù, che non genera peso nelle braccia di Maria colpisce per la bellezza e la tenerezza che ispira. Un’ispirazione che il pittore riporta nella scritta alla base del trono MATER S(AN)CTA DEI / SIS CAUSA SENIS REQUIEI SIS DUCIO VITA TE QUIA / PINXIT ITA. Madre Santa di Dio, sii motivo di pace per Siena, sii vita per Duccio perché ti ha dipinta così.


Ambrogio Lorenzetti, Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338-1339)

Il Campo, Siena Castel del Monte (Andria) and Il Campo (Siena). Castel del Monte was built by Emperor Frederick II, but its original purpose and functions are unclear. A celebration of the imperial crown according to some scholars, a temple of esoteric knowledge according to others, a hammam and spa in the view of others. Whatever its function, the castle is certainly a fusion of sophisticated architectural, mathematical and mysterious astronomic knowledge. Just like the division into nine “segments” of the world’s most famous square, Siena’s Piazza del Campo, the symbol of the rule of The Nine, the magistracy that governed the Republic of Siena from 1287 to 1355 and established the conditions for what was known as Buongoverno, Good Government, based on a political idea of beauty. Painted by Ambrogio Lorenzetti in his Allegory of Good and Bad Government (13381339), Good Government is an extraordinary testimony to the reconciliation of public interests and private interests through the idea of beauty. The concept was embraced by Siena as early as 1309 with the issue of the Costituto, the constitution that required the city governors to give “maximum priority to the beauty of the city, for the delight and pleasure of visitors, for the honor, prosperity and growth of the city and its residents”. An idea of harmony sublimely reflected in the expressions

in Duccio di Buoninsegna’s Maestà (1308-1311), the altarpiece in Siena Cathedral, a masterpiece of pre-Renaissance art and a symbol of the harmony between heaven and earth. The painter achieves the height of virtuosity in the faces of the Madonna and Child; he turns the Madonna in space, anticipating three-dimensionality, but paints her with a gentle pallor that brings her complexion to life, while Jesus, who seems weightless in Mary’s arms, is a figure whose beauty inspires tenderness. An inspiration confirmed by the painter in the text at the base of the throne MATER S(AN)CTA DEI / SIS CAUSA SENIS REQUIEI SIS DUCIO VITA TE QUIA / PINXIT ITA. Holy Mother of God, grant peace to Siena, and life to Duccio because he has painted you thus.

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Sandro Botticelli, Primavera (1482)

Santa Maria Novella (1458) Il dialogo segreto tra Flora, la dea della giovinezza vertice della Primavera di Sandro Botticelli (1482), la facciata neoplatonica di Santa Maria Novella, a Firenze (1496) e l’Ultima Cena (1494) di Leonardo da Vinci. Capolavoro dell’artista fiorentino e simbolo del Rinascimento, la Primavera racchiude un significato non ancora svelato e forse legato al platonismo di Marsilio Ficino e dell’Accademia di Fiesole. Fra i vari livelli di lettura, il più interessante resta l’interpretazione dello sguardo di Flora, divinità della fioritura e protettrice della fertilità, che grazie alle ninfe Zefiro e Clori e l’intercessione di Venere ed Eros si perfeziona nelle Grazie per giungere alle sfere celesti guidata da Mercurio. Voluta da Giovanni Rucellai nel 1458, la facciata di Santa Maria Novella fu immaginata nel Concilio di Firenze, presieduto da papa Eugenio IV, al cui seguito era un giovanissimo Leon Battista Alberti. Fu lui a rivoluzionare la nuda facciata della chiesa – come quelle di Santa Maria del Fiore, Santa Croce e San Lorenzo – salvaguardando le sei tombe in marmo sotto altrettanti archi a sesto acuto e innestando una soluzione moderna e armonica, il rivestimento marmoreo 24

a bande bianche e verde scuro, sull’impianto gotico. La vera grandezza dell’Alberti però fu un’altra: riappropriarsi dei ritrovati studi matematici e geometrici sulla natura e sull’arte trasformando la facciata di Santa Maria Novella nel manifesto della riscoperta filosofia platonica. Un mondo dove il triangolo, il cerchio, il quadrato e il rettangolo disegnano proporzioni auree e rapporti misteriosi. è la stessa segreta proporzione che si ritrova nella cupola della cattedrale di Firenze, la più grande mai costruita in Europa dall’epoca romana (diametro interno massimo: 45,5 metri; esterno: 54,8). Un progetto che resta un punto di non ritorno per la storia della bellezza e lo sviluppo dell’architettura. Le sue proporzioni impedirono il tradizionale metodo costruttivo mediante l’ausilio di cèntine, dando adito a molte interpretazioni tuttora parziali. A partire da un tamburo ottagonale la cupola si erge su otto spicchi, le vele, organizzati su due calotte separate da uno spazio vuoto. Il motivo di questa scelta è senz’altro da attribuire a un alleggerimento della struttura che altrimenti sarebbe stata troppo pesante, probabilmente, per essere sostenuta dai quattro pilastri sottostanti.


Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, Cupola di Santa Maria del fiore (1420)

Leonardo da Vinci, Ultima Cena (1494) The secret dialogue between Flora, the goddess of youth and central figure in Sandro Botticelli’s Primavera (1482), the Neoplatonic façade of Santa Maria Novella, in Florence (1496), and Leonardo da Vinci’s Ultima Cena (1494). One of the Florentine painter’s masterpieces and a symbol of the Renaissance, Primavera conceals a still unknown significance possibly linked to the Platonism of Marsilio Ficino and the Academy of Fiesole. The most interesting of the various readings is the interpretation of the expression of Flora, the goddess of flowers and protector of fertility, who, thanks to Zephyr and Chloris and the intercession of Venus and Cupid, achieves perfection in the Graces to reach the celestial heights led by Mercury. Commissioned by Giovanni Rucellai in 1458, the idea of Santa Maria Novella’s façade was conceived at the Council of Florence under Pope Eugene IV, whose entourage included a very young Leon Battista Alberti. It was Alberti who transformed the bare façade of the church–and those of Santa Maria del Fiore, Santa Croce and San Lorenzo–protecting the six marble tombs beneath six pointed arches and overlaying the Gothic structure with a harmonious modern solution consisting of bands of white and dark green marble. Alber-

ti’s real greatness, however, was in his use of the newly discovered mathematical and geometric studies on nature and art to transform the façade of Santa Maria Novella into the manifesto of Neoplatonism. A world where the proportions of the triangle, the circle, the square and the rectangle are in the mysterious realm of the golden ratio. This secret ratio is also present in the dome of Florence Cathedral, the largest constructed in Europe since Roman times (maximum internal diameter: 45.5 meters; external: 54.8). A project that constitutes a point of no return in the history of beauty and the development of architecture. The dome’s dimensions did not allow use of traditional construction methods with centerings, leading to many interpretations that are still incomplete. Starting from an octagonal drum, the Dome rises up in eight sections, or “sails”, formed from a double shell separated by an empty space. Without doubt, this solution was chosen to lighten the structure, which otherwise would probably have been too heavy for the four underlying pillars to support.

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Caravaggio, canestro di frutta (1599)

Palazzo Ducale, Venezia , secolo X-XIV Alla fine del Rinascimento il canestro di Caravaggio (1599) segna una tappa cruciale nell’evoluzione della bellezza. Un cesto di frutti e foglie di ogni genere dipinto con precisione assoluta sulla grande lezione fiamminga. Ma protagonista del quadro non è la natura morta, dipinta come un eroe caduto della mitologia classica, bensì la luce. Il cesto si protende e gira quasi nello spazio in un iperrealismo tridimensionale (che stride con lo sfondo bidimensionale) dando l’impressione di un equilibrio precario, attuale, dove si esalta la simbologia dei frutti avariati, metafora della caducità della vita. Il realismo però è solo apparente: non solo perchè i frutti sono di stagioni diverse, quanto perché la maestria di Caravaggio fa sorgere la luce come da una fonte naturale, svelando le sfumature degli acini, da acerbi a trapassati. un senso di bellezza e presagio di tragedia che si rintraccia nella Madonna con bambino e un coro di cherubini (1485) di Andrea Mantegna. Ritrae Maria raffigurata con Gesù che sta in piedi sulle sue ginocchia. Dietro un cielo illuminato da un coro di angeli che intonano canzoni, cherubini dalle ali blu e serafini dalle ali rosse. Qui la 26

la bellezza della luce prende il tono febbrile tipico della pittura di Mantegna, tutta giocata sul dialogo degli sguardi che tiene assieme la scena. Sebbene, a differenza della tradizione, lo sguardo di Maria e quello di Gesù non s’incontrino, è questa aspirazione mancata che tiene unito il coro di figure, mentre le mani del bambino abbracciano la madre che lo carezza dolcemente sulla gamba. è la prefigurazione della passione di Gesù e la sua tragica fine. Capolavoro del gotico veneziano, Palazzo Ducale fu iniziato intorno al 1000 e varie volte ristrutturato. Ispirato all’arte bizantina e orientale, sintetizzate dai codici di bellezza italiana, simboleggia la capacità di sintesi commerciale, politica e culturale della Serenissima. Architettonicamente la sua bellezza si fonda su un paradosso, fisico ed estetico: una pesante struttura retta da esili colonnati intarsiati. Proprio come nel Palazzo della Ragione di Padova (12181306) a cui l’architetto Giovanni degli Eremitiani dette la copertura a forma di carena di nave rovesciata. Il piano superiore, detto Salone, è la più grande sala pensile del mondo (81x27x27), con soffitto in legno che ricorda una carena d’imbarcazione.


Palazzo della Ragione, Padova (1218-1306)

Andrea Mantegna, Madonna con Bambino e coro di Cherubini (1485) At the end of the Renaissance, Caravaggio’s Basket of Fruit (1599) is a crucial milestone in the evolution of beauty. A basket full of all kinds of fruit and leaves, painted with surgical precision and redolent of the great Flemish lesson, where the protagonist is not the still life, painted as if it were a vanquished hero of classical mythology, but the light. The basket extends towards the observer and almost turns in space in a sort of three-dimensional hyper-realism (in contrast to the two-dimensional background), conveying a very modern sense of precarious balance, which combines with the symbolism of spoiled fruit, a metaphor for the mortality of life. The realism is only apparent, not so much because the artist shows fruit from different seasons, but because in Caravaggio’s masterly composition the light appears to come from a natural source, highlighting the different shades of color that distinguish the green grapes from the withered grapes. A sense of beauty and a presage of tragedy that emerges from Andrea Mantegna’s The Madonna with the Cherubim (1485). The painting shows Mary with Jesus standing on her lap, while behind them a clear sky is illuminated by a choir of singing angels, composed of cherubims with blue wings and seraphims with red wings. Here the beauty of the light takes on the febrile tone of Mantegna’s painting and plays out in the dialogue of gazes that holds

the scene together. Although the eyes of the mother and the child do not meet, as is tradition in these compositions, the real hymn to beauty lies in the echo of the gazes of Mary, Jesus and the angels, the sweet hands of the child embracing the mother, and her hand caressing his small leg. A gesture that is a portent of the son’s passion and tragic end. A masterpiece of Venetian gothic architecture, Palazzo Ducale was begun in about 1000 and underwent countless extensions and restructurings. It clearly reflects the influence of Byzantine and Eastern architecture, which it successfully blends with Italian taste and beauty, thus symbolizing the Serenissima’s ability to achieve a commercial, political and cultural synthesis between East and West. The beauty of Palazzo Ducale stems from a singular physical and aesthetic paradox, where the heavy structure is apparently held up by slender inlaid colonnades. Just like the Palazzo della Ragione in Padua (1218-1306), whose characteristic roof in the shape of an upturned ship’s hull is the work of architect Giovanni degli Eremitiani. The upper floor, or Salone, is the largest hanging room in the world (81x27x27), with a wooden ceiling resembling a boat.

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Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova (1300)

Galleria Vittorio Emanuele II, Milano (1865) La Cappella degli Scrovegni dipinta da Giotto (1300) e l’ambasciata italiana di Brasilia (1977) realizzata da Pier Luigi Nervi dimostrano come nella storia della bellezza il tempo non esista, non ci sia dialettica tra passato e presente ma una continuità che pone i grandi maestri sullo stesso piano, mossi e legati dalla stessa interpretazione della realtà, una visione dove la modernità non è un momento storico ma una condizione interiore. Vertice supremo dell’arte occidentale, la Cappella dimostra non solo l’unicità di Giotto nell’approfondimento psicologico dei caratteri dei personaggi, per la prima volta colti anche di profilo, ma nel rendere – come faranno poi Mondrian e Nervi – lo spazio protagonista assoluto della scena. La “scatola” degli Scrovegni contiene la realtà e impone un percorso mentale, prima che fisico degli episodi della vita della Vergine e di Cristo in una sequenza narrativa tale che chi guarda deve andare con lo sguardo in alto e in basso tre volte prima di fissare l’altare. L’Ambasciata esprime in modo eloquente le migliori tendenze della tecnica dell’architettura moderna che, principalmente con l’uso del cemento armato, ha 28

visto l’Italia imporsi a livello internazionale. L’ampio edificio non è solo la sede diplomatica. Un’ordinata fila di pilastri, che si diramano in quattro bracci nella parte superiore, sostiene un quadrato perfetto, base di una struttura dagli spigoli inclinati che ospita sia gli uffici che la residenza dell’ambasciatore. Questi pilastri conferiscono alla struttura una leggerezza eccezionale e fanno sì che sembri proiettata verso l’alto. La trasparenza del portico, quasi totalmente libero, favorisce, con la complicità dell’inclinazione naturale del terreno, la vista del lago e del paesaggio che si estende oltre. Allo stesso tempo, il portico costituisce uno spazio ombreggiato e ventilato, svolgendo la funzione che di solito nei palazzi viene attribuita ai cortili interni. Lo stesso gioco di sostegni, che danno prospettiva e si tengono a vicenda, compone la forza dei paesaggi di Giovanni Fattori e della costruzione architettonica della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano. Come le gambe del bue di Fattori, che anche spazialmente sono al centro del quadro, così quattro colonne per lato dell’ottagono centrale della Galleria rifondano lo spazio dando solennità e armonia all’architettura.


Pier Luigi Nervi, Ambasciata italiana, Brasilia (1977)

Giovanni Fattori, La famiglia Bellelli (1858) The Scrovegni Chapel painted by Giotto (1300) and the Italian Embassy in Brasilia (1977) designed by Pier Luigi Nervi demonstrate that time does not exist in the history of beauty, that there is no dialectic between past and present; rather, that there is a continuity where the great masters operate on the same plane, inspired and connected by the same interpretation of reality, a vision where modernity is not a moment in time but an internal condition. A supreme example of Western art, the Scrovegni Chapel reveals Giotto’s unique gift not only in conducting a psychological investigation of the personalities of the figures, who are also shown in profile for the first time, but also in making the space the absolute protagonist of the scene, as Mondrian and Nervi would do later. The Scrovegni “box” contains reality and imposes a journey that is more mental than physical through the episodes of the life of the Virgin and Christ, in a narrative sequence where the gaze is drawn upward and downward three times before settling on the altar. The Embassy is an eloquent expression of the best developments in modern architectural technique, which, largely thanks to the use of reinforced concrete, has established Italy as a player of international stature. The spacious building is not just a diplomatic seat. An orderly row of pillars,

which splay out into four arms, supports a perfect square, the base of a structure of tilted corners housing the embassy offices and the ambassador’s residence. The pillars confer an exceptional lightness on the structure, making it appear to project upwards. Assisted by the natural incline of the location, the transparency of the portico, which is almost entirely free-standing, offers a view of the lake and the landscape beyond. At the same time, the portico forms a shady and airy space, performing the function usually assigned to inner courtyards. The same play of supports, which create perspective and hold each other up, constitutes the power of Giovanni Fattori’s landscapes and the architecture of the Galleria Vittorio Emanuele II in Milan. Like the legs of Fattori’s ox, which spatially occupy the center of the painting, so four columns per side of the central octagon of the Galleria re-create the space, giving the architecture solemnity and harmony.

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Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano, Palazzo della Civiltà Italiana dell’Eur (1938-1953)

Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia (1913) La serialità dei motivi del Palazzo della Civiltà Italiana dell’Eur, Roma (1936-1948) di Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano è un parallelepipedo a quattro facce uguali, con struttura in cemento armato e copertura interamente in travertine che porta alle estreme conseguenze le promesse e le inquietudini della pittura metafisica, per esempio di Piazza d’Italia (1913), dove Giorgio de Chirico rilegge il mito rinascimentale della città ideale in una prospettiva post industrialista e psicoanalitica. In tutt’altra direzione, ma allo stesso modo, Ottone Rosai nel

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Muro Rosso (1945) rimette al centro della propria ricerca lo spazio e le architetture evocando un linguaggio che, in maniera opposta e simmetrica alla pulita architettura di Terragni, si farà sempre più aspro e scontroso, esasperando la propria radice espressionista. Mentre Rosai riduce la pittura a un groviglio di segni brutali e adotta una cromia sorda e sanguigna, nell’aspirazione all’altrove razionale, freddo e apparentemente intellettualistico di Terragni si rintraccia la stessa aspirazione alla bellezza e all’armonia, che il regime aveva promesso ma non avrebbe mai saputo dare.


Ottone Rosai, Muro Rosso (1945)

Giuseppe Terragni, Casa del Fascio (1932) The serial repetition of the motifs of the Palazzo della Civiltà Italiana in Rome’s EUR district (19361948), a concept of Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula and Mario Romano, is a parallelepiped with four identical faces, built in reinforced concrete and clad entirely in travertine, which is the extreme consequence of the promise and uneasiness of metaphysical paintings such as Piazza d’Italia (1913), where Giorgio de Chirico offers a post-industrial and psychoanalytical reading of the Renaissance myth of the ideal city. In the same way, but moving in a completely different direction, in Muro rosso (1945) Ottone Rosai puts space and architecture at the heart of his rese-

arch, evoking a language that, in an opposing and symmetrical way to the clean architecture of Terragni, becomes increasingly acerbic and confrontational, exasperating its expressionist roots. Whereas Rosai reduces painting to a jumble of brutal brushstrokes and uses a discordant, bloody palette, in Terragni’s aspiration to a rational, cold and apparently intellectualistic elsewhere, we see the same pursuit of beauty and harmony promised but never delivered by the fascist regime.

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Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913)

Gino Coppedè, Quartiere Trieste Roma (1916) Il rapporto con lo spazio è il medium privilegiato nella definizione della bellezza italiana. Vedi Forme uniche della continuità nello spazio (1913), la celebre scultura di Umberto Boccioni che rappresenta uno dei capolavori del futurismo. Attraverso la simbologia del movimento e della fluidità, Boccioni respinge in toto la grande lezione della scultura tradizionale, lasciando identificare una figura umana solo ad una prospettiva laterale, figura però a cui mancano alcune parti, mentre l’osservazione rotonda fa apparire l’opera come una macchina in movimento che sviluppa alternarsi di cavità, rilievi, pieni e vuoti che generano un frammentato e discontinuo chiaroscuro fatto di passaggi dalla luce all’ombra. Lo stesso gioco che l’architetto Gino Coppedè volle dare come cifra estetica del Quartiere Trieste (1916), che comprendeva in origine 18 palazzi e 27 edifici come celebrazione della borghesia

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degli anni Venti del novecento, vero momento di svolta della società e dell’estetica. Coppedè fece così ricorso all’ispirazione dei pieni e dei vuoti ma non andando nella modernità, come Boccioni, bensì nella Roma antica con le cornici, le modanature e persino gli archi del Foro romano. Il gioco degli spazi e delle ombre si ritroverà anni dopo in due esempi apparentemente diversi: nella chiesa di Giovanni Battista a Firenze (1960-1964) e nella Poltroncina Dormitio (circa 1950), pensata per l’abbazia benedettina di San Pietro al Monte di Civate. Mentre la chiesa di Giovanni Michelucci è la stilizzazione di una tenda da campo, che gira nello spazio e diventa protagonista della fede in un’aspirazione all’infinito, così Ponti fa dell’essenzialità e del rigore della fede una funzione estetica di ineguagliato standard.


Giovanni Michelucci, Chiesa di San Giovanni Battista (1960-1964)

Gio Ponti, Poltroncina Dormitio (1950) The relationship with space is the preferred medium in the definition of Italian beauty. See Unique Forms of Continuity in Space (1913), Umberto Boccioni’s famous sculpture, one of the masterpieces of Futurism. Through the symbology of movement and fluidity, Boccioni totally rejects the lesson of traditional sculpture: the human-like figure, not fully formed, can only be seen when the piece is viewed from the side, whereas a frontal viewing gives the idea of a machine in motion, whose alternating cavities and protuberances, solids and hollows generate a fragmented and uneven chiaroscuro of movement from light to shadow. A similar result is sought for aesthetic effect by architect Gino Coppedè in the Trieste District in Rome (1916), which originally consisted of 18 palazzi and 27 buildings as a celebration of the bourgeoisie of the 1920s, a turning point for society and for aesthetics. Coppedè too was inspired by solids and hollows, but instead of embracing modernity like Boccioni, he looked to

ancient Rome with its cornices, moldings and even the arches of the Roman Forum. The plays of space and shadows returned years later, in two apparently different works: St John the Baptist’s church in Florence (1960-1964) and the Dormitio armchair (about 1950), created for the Benedictine abbey of San Pietro al Monte in Civate. While the church designed by Giovanni Michelucci is a stylized field tent, which revolves in space and becomes a protagonist of faith in an aspiration to infinity, Ponti’s chair makes the essentiality and rigor of faith an aesthetic function of incomparable quality.

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Vincent Van Gogh, Campo di grano con cipressi (1889)

Lo studio della cultura, delle società e l’integrazione con la natura come fonte di bellezza avvicinano opere diverse come Campo di grano con cipressi (1889) e Palazzo Italia, esito del concorso per Expo 2015 Milano vinto dagli architetti Nemesi & Partners (2013-2015). Se la serie di dipinti dei paesaggi provenzali di Van Gogh rappresenta l’emozione intensa e unica del rapporto simbiotico tra uomo, fatica rurale e natura, caratteristiche dell’epoca pre-industriale del novecento, Palazzo Italia è la riproduzione di una foresta pietrificata, ovvero la risposta netta e propositiva alla logica di un’architettura per troppo tempo separata sia dal paesaggio, dal presente e dalla storia sia dalla ricerca di un ideale di utopia possibile che riporti al consumo quotidiano della bellezza, pensata e abitata.

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The study of culture and society, and integration with nature as a source of beauty unite works as disparate as the Van Gogh’s Wheat Field with Cypresses (1889) and Palazzo Italia, the winning design for Expo 2015 Milano by architects Nemesi & Partners (2013-2015). If Van Gogh’s paintings inspired by Provence represent the intense and unique emotion of deep relationship between man, rural fatigue and nature, typical of XX century’s preindustrial era, Palazzo Italia is the reproduction of a petrified forest, a clear, propositional response to an architecture, separated for too long from the landscape, from the present, from history as well as from continuous pursuit of a possible utopian ideal, where beauty can be restored for daily consumption, a beauty that can be conceived and lived in.


Nemesi & Partners, Palazzo Italia (2013-2015)

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L’antifragile the antifragile

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PROLOGO Founder & Director Nemesi&Partners

Progettare Palazzo Italia è stata un’esperienza forte ed emozionante; una sfida che, non accettando il ricatto di tempi realizzativi tragicamente stretti e una innata vocazione alla pratica di una medietà che oramai pervade una parte consistente del nostro paese, ha invece cercato di restituire orgoglio, coraggio e fiducia a quanti, come noi, credono nella possibilità di costruire ancora una ritrovata eccellenza. Palazzo Italia afferma con forza la determinante centralità del progetto e la sua capacità di costruire visioni e scenari che vivano di un’utopia possibile. Visioni innovative, prefigurazioni in cui lo stupore verso l’incommensurabile sostituisca il consumo della piatta banalità conformista dei nostri tempi. Nemesi accetta questa sfida che intende rigenerare una complessità non gratuita ed esibizionistica, muscolare, ma tesa

MICHELE Molè

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a sondare lo spazio profondo e indicibile della vita; l’unicità di un’esperienza sensoriale ricca di riferimenti e sfumature in grado


di ridonare centralità all’architettura e all’urbanità. Ma se l’Italia ha saputo generare percorsi straordinariamente virtuosi nel corso della sua millenaria storia realizzando un’antropizzazione del territorio unica e irripetibile, negli ultimi decenni ha invece prevalso una miope considerazione di una utilità separata e autoreferenziale. L’arte, l’architettura e la dimensione contemporanea sono divenute oggetto di un culto confinato nei musei o parte di un tempo passato oramai non più attualizzabile; abbiamo smesso di dare parola al presente e di dare consistenza estetica al nostro modo di praticare il mondo, lasciando così il campo libero al consumo e alla devastazione del territorio di un’edilizia priva di qualsiasi contenuto estetico alto. Palazzo Italia riafferma con determinazione la ricerca della bellezza come presupposto fondativo del progetto, dando vita a una architettura-paesaggio in grado di riconfigurare il rapporto di bellicosa alterità con l’ambiente esterno. La passione diviene di nuovo paradigma di una grande responsabilità che vede nella trasformazione del territorio un’arte a servizio della collettività e che esprime il consumo della bellezza come presupposto del nostro vivere civile. Una passione che ha coinvolto in una grande utopia comune noi progettisti, architetti, ingegneri ma anche imprese, artigiani che, coinvolti nella suggestiva visionarietà del progetto, hanno contribuito a rendere concreto e realizzabile qualcosa che sembrava confinato nell’ambito del mai. È con un ringraziamento particolare a tutti coloro che hanno reso possibile questa impresa che dedichiamo questo breve saggio teso a raccontare l’insieme delle riflessioni che hanno generato lo stupore di Palazzo Italia.

LA PAROLA SOSPESA Viviamo in un mondo di parole; mai come oggi parole, frasi e linguaggi si accatastano in un insieme multiforme. Le nuove tecnologie, i social network offrono a ogni individuo la straordinaria possibilità di avere parola, di essere presente, essere parte. È come se il riconoscersi, il definirsi o anche solo l’esistere passasse dal necessario essere parte del consumo onnivoro di immagini e parole. Il proprio sé si riduce nella sottile inconsistenza parallela di opinioni e immagini perse nel veloce gorgo del mondo contemporaneo. Esistiamo in quanto parte del flusso ininterrotto di parole e opinioni che acquisiscono legittimità se a loro volta lette e ri-immesse nel flusso interpretativo dei commenti in una ipertrofia della presenza. E il nostro io proiettato all’esterno in una livida e performante piattezza di immagini post-prodotte ricostruisce se stesso in un alter ego virtuale e separato sempre più occludente e sradicato. L’altrove diventa essenza di una esperienza di ubiquità subita in cui il sé per esistere si frantuma in un nugolo di presenze virtualmente rilanciate in un ciclo di interconnessioni che determinano la sua stessa possibilità di esistenza. I linguaggi si moltiplicano cercando performance sempre più esasperate atte a ri-produrre la realtà in ambiti più settari e gestibili. In tal senso i modelli ri-produttivi esprimono performance estreme con livelli di sofisticazione computazionali in grado di produrre simulazioni iper-realistiche sostitutive del reale. L’iper-reale nella sua livida piattezza dissimula il reale in un processo di continuo mascheramento ed estraniamento parallelo. Eppure questa smisurata performatività nasconde una

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sottesa inconsistenza, una incapacità a riempire di senso le mille nuove parole che ri-produce; come nelle illustrazioni iper-realistiche americane degli anni ‘60 la livida bellezza delle raffigurazioni, più reali del reale, non riesce a veicolare un oltre, un radicamento, uno spessore. Le immagini si auto-presentano nella loro totale e tragica autoreferenzialità. È come se il frastuono ridondante e chiassoso di tale moltitudine di presenze coprisse l’emergere di un silenzio indicibile e ingombrante; un vuoto incontenibile e impronunciabile. È come se nell’istante in cui tutto sembra essere dicibile e consumabile uno smisurato spazio insondabile e incomprimibile si estendesse come un mare profondo e misterioso al di sotto della superficie di fallaci certezze.

Scuola di Atene esprime con una rara e preziosa potenza l’epopea del

L’INTERVALLO PERDUTO

questo processo di separazione del soggetto-figura dal mondo

La figura, espressione dominante dell’estetica moderna e premoderna, sembra perdere il suo carattere identitario sfocando i propri contorni in un processo di indefinizione crescente. I caratteri

esterno diviene il nuovo paradigma di una modernità astratta che

tipo-morfologici e lo stesso principio di bellezza che l’avevano

di Dio prefigurata da Friedrich Nietzsche pone fine al primato del

definita in un primato in cui la dimensione metafisica e ontologica ne

soggetto-identitario non più in grado di veicolare principi e caratteri

legittimavano la centralità, diventano valori scambiabili, parte di un

tendenti a legittimare una conoscenza del mondo che separandosi

consumo obliquo e illegittimo. La dimensione auratica della figura e i

in un processo irreversibile diviene di fatto inconoscibile. La

principi di proporzionalità che la sottendono, lungi dal rappresentare

lateralità improvvisa in cui il soggetto-figura sprofonda determina la

un mero esercizio di vacuo stile, rappresentavano infatti la misura

navigazione in un mare sconosciuto e misterioso divenendo, di fatto,

entro cui ricostruire l’immagine del mondo strutturato a immagine

pre-condizione per la ricerca di linguaggi altamente performanti

e somiglianza della figura umana. E proprio la prospettiva,

in grado di rigenerare, se non il vero, formalismi sempre più

erroneamente pensata come lo strumento di rappresentazione

prossimi a esso in un contesto quantomeno credibile. In altre

più vero, diveniva il sistema più prezioso per costruire il mondo

parole proprio l’accettazione della propria lateralità e insignificanza

esterno attraverso il punto di vista del soggetto-figura e dei principi

diviene motore per la costruzione di performance conoscitive di

proporzionali della tecnica proiettiva. L’estetica rinascimentale, in

estrema sofisticazione in grado di creare isole di legittimazione e di

questo senso, si ergeva a vero e proprio paradigma in cui la centralità

conoscenza seppur relativizzata. La fragilità diviene allora paradigma

della figura e dei suoi caratteri tipici diveniva strumento prezioso e

di una nuova performatività che Nassim Taleb definisce in maniera

insostituibile di qualunque tentativo di sondare i segreti più reconditi

illuminata anti-fragilità; la capacità cioè di un sistema di vivere in un

della bellezza. Lo straordinario affresco di Raffaello denominato La

contesto fragile non opponendosi in maniera resiliente a esso, ma

soggetto-figura che in un processo di empatia si proietta all’esterno in uno sforzo meta-narrativo che raffigura un mondo in cui i caratteri identitari del soggetto prefigurano e strutturano l’esterno in una relazione di stretta simbiosi. Esiste quindi un bello che, sfuggendo a qualsiasi personalistica e soggettiva declinazione, indaga i principi proporzionali della figura per determinarne l’intrinseca dimensione aurea tale da assurgere a paradigma di ogni possibile creazione in grado di legittimarsi in termini oggettivi e metafisici. Ma come detto, il processo di indefinizione e di scoloritura che il soggettofigura subisce nella modernità sostituisce al processo empatico pre-moderno una dinamica astrattiva sempre più esasperata. E

accetta la perdita dell’aura e della centralità come opportunità di ricostruzione di un contesto mondano oramai delegittimato. La morte


sfruttandone le caratteristiche di dinamica incertezza. È esattamente

di consumo incontrollabile in cui la centralità della figura sembra

questa la condizione estetica della contemporaneità, non più fondata

ancora una volta ristabilirsi. Ma tale vorticoso affollamento sottende

sull’affermazione ontologica del soggetto-figura e dei suoi caratteri

un vuoto incontenibile tanto più insondabile quante più parole

tipici ma sull’accettazione di un processo di distruzione creativa in cui

e presenze si consumano nel tentativo di colmarlo. È come se si

il soggetto, accettando la propria laterale fragilità, deve ricostruire

fosse consumata la rottura della catena significante che collegava il

se stesso in una pratica di costante ri-legittimazione. Non quindi il

significato al significante, il contenuto alla parola. E allora la figura,

voluttuoso abbandonarsi alla deriva dell’insignificanza e al consumo

le immagini e le parole mostrano tutta la propria infondatezza, la

onnivoro di parole private di qualsiasi capacità di significare, come

propria superficiale vitalità, costrette in una performance sempre

certe derive del post-modernismo hanno maldestramente praticato,

più selettiva ma ormai astratte da ogni capacità di oggettivarsi.

ma il tentativo inattuale di costruire isole di senso in grado hic et

Ed ecco che sotto al frastuono sembra udirsi un incolmabile

nunc di definire seppure in modo sfuocato una legittimazione al

silenzio che avvolge l’insensata voluttà di immagini suadenti

proprio operare. Il reale si riduce, perdendo la propria dimensione

nella loro livida piattezza; e all’ipertrofica presenza dipanarsi una

metafisica e trascendente, a parola e linguaggio, interpretazione,

vertiginosa assenza. Come nell’opera senza titolo di Francesca

in un processo di estetizzazione globale che investe ogni fase della

Woodman del 1977 la figura dell’artista, in un commovente ed

nostra esistenza. Al valore assoluto ontologicamente determinato

emozionante auto-scatto, sembra svanire nel fondo della parete

si sostituisce, come detto, il valore di scambio della democrazia in

in un’impossibile necessità di auto-definirsi e di sostenere il

cui l’interscambiabilità e la mobilità divengono nuovo paradigma di un’estetica non più nostalgicamente ascrivibile alla ricerca di una fondanza e di un ricorso ai caratteri tipici o archetipici oramai scollati da ogni metafisica necessità. In altre parole, alla ricerca della riaffermazione di un sé identitario si sostituisce la pratica di una differenza, di un soggetto-figura che in un processo di distruzione creativa forza se stesso in una dinamica di continua transizione verso l’altro.

ruolo centrale della composizione, così la figura ipertrofica della

LA PRESENZA ASSENTE

e in un’assenza che divengono l’oggetto di attenzione primaria

L’incessante produzione di immagini e parole, che in un costante rilancio e gorgo interpretativo affolla confusamente l’orizzonte contemporaneo, sembra stabilire il primato di un’ipertrofia della presenza; di una presenza che sembrerebbe rilanciare il ruolo del soggetto in una centralità schizofrenica e inarrestabile. Il frastuono prodotto da questo irreversibile flusso di presenze sembra eliminare ogni possibile gerarchicità e discernimento in una velocità

contemporaneità abdica in favore di una insostenibile assenza. Il processo astrattivo della modernità si compie nella sua più estrema attualità: l’alienazione del soggetto dal mondo arriva a minare la definibilità del soggetto stesso costretto a forzarsi in un processo transitivo e differenziale, a divenire fondo, assenza. Il soggettofigura non sostiene più il ruolo gerarchico che la classicità gli ha donato alienandosi in un processo di mascheramento in un fondo dell’estetica contemporanea. Così nelle fotografie di Koudelka un incrocio stradale o un tratto di selciato di una qualsiasi periferia urbana divengono oggetto di attenzione dell’artista proprio perché prive di qualsiasi qualificazione e caratterizzazione estetica; e così l’eroismo della presenza si scolora nella transizione di una perdita capace di disvelare la significanza di un fondo dominato da una dinamica entropica. Il processo di sparizione del soggetto-figura si

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compie aprendo la transizione di un’assenza disvelatrice di nuove possibilità di transizione e di significato. Alla straordinaria auratica immobilità della bellezza classica si sostituisce una bellezza fragile che vive nelle maglie di una continua transizione e traslazione di significato; una bellezza che scopre il valore dell’altro e di una realtà sistemica e plurale nella vertigine dell’assenza.

di ricerca deterministica in cui la reversibilità dei processi e la

LA COMPLESSITÀ EMERGENTE

di equilibri governati da nessi statici e proporzionali capaci

Se certamente il processo che ha dominato l’estetica della modernità e della post-modernità è stato un processo riduttivo, nel senso di una riduzione di cogenza e di lateralizzazione e sparizione del soggetto-figura, la declinazione che se ne è data in ambito estetico e architettonico di un minimalismo di maniera è del tutto fuorviante. L’offuscarsi della dominanza della figura-soggetto ha semmai disvelato la caoticità di un reale insondabile in cui la marginalità infinitesima delle parti rivela dinamiche sistemiche di inaudita complessità. E se l’equilibrio aveva governato secoli

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loro riducibilità a fattori semplici e primari era la piattaforma su cui costruire processi conoscitivi gestibili, sembra invece che l’irriducibilità sistemica del reale sia oggi la chiave interpretativa in grado di confrontarsi con l’orizzonte estetico contemporaneo. Non più quindi la ricerca di un immobile e perenne sistema di disvelare una ontologica bellezza auratica ma l’indagine di sistemi inter-relazionati in continua trasformazione in cui i processi dinamici determinano il sorgere di caratteristiche emergenti. Ogni fenomeno, in un quadro di reti sistemiche, non è più dato dall’additiva sommatoria delle sue parti ma dal quadro inter-relazionale che lo collega in una reciprocità dinamica alle fenomenologie confinanti. Ecco il disvelarsi di una realtà emergente e irriducibile in cui il sé è forzato a sentire e ascoltare la propria differenza; è costretto a transitare in territori altri in un processo


di deformazione e di ri-conformazione. È lo spazio della vita in cui

di simmetrie e gerarchicità, una volta straordinariamente capaci

la fragilità diviene paradigma di sistemi che, perdendo la propria

di costruire narrazioni unificanti di una classicità paradigmatica,

perentoria fissità, accettano di vivere e crescere in un quadro di

diventano ora la vuota riproposizione di lingue, parole e figure

costante dipendenza. Nasce una nuova e diversa bellezza, anti

oramai sradicate e immesse nel gorgo caotico del consumo di

classica, capace di sublimare la timida fragilità del nostro essere

altre infinite parole e figure. La ricerca di questa fissità senza

non come un limite invalicabile ma come opportunità straordinaria

vita acuisce il senso di quel vuoto indicibile e incommensurabile

di disvelare la ricchezza indicibile di una profondità troppo a lungo

che sprofonda sotto la loro fallace superficie. La possibilità

mascherata da un’illusoria ricerca di una fissità anacronistica. Lo

invece di costruire visioni ancora in grado di determinare isole di

spazio della vita prende la scena accettando il proprio svolgersi

legittimazione, anche se solo parziale, attraverso la pratica di una

in un insieme complesso di relazioni fondanti l’emergere di un di

necessaria rigenerazione (la distruzione creativa), passa invece

più, di un oltre, che vive attraverso il proprio coraggioso donarsi

attraverso la coraggiosa sfida di una figura che si apre alla propria

verso l’altro. La ricerca di un quadro definitivo di relazioni e di

differenza e che pratica l’avventura verso l’ignoto accettando la

proporzioni che ontologicamente eliminasse la discrezionalità

propria laterale fragilità. L’epopea della figura-soggetto si compie

della scelta e la sfida verso l’ignoto in una comoda e mitologica

in un percorso di visionaria apertura in cui la dipendenza e il

riproposizione di caratteri ormai delegittimati mostra oggi tutta la

confronto in un reciproco ascolto delle differenze sostituiscono la

sua ingannevole prospettività; il prevalere dell’uso del quadrato,

nostalgica restaurazione di una leadership oramai perduta.

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LA FORESTA URBANA Palazzo Italia è espressione diretta e paradigmatica di questo sentore, il tentativo di rendere evidente il sorgere di una nuova e diversa bellezza; una bellezza in grado di radicarsi in una identità irripetibile che nel corso della millenaria storia del nostro paese ha costituito un patrimonio artistico e architettonico di inestimabile valore ma anche di compiere quel necessario sradicamento e di aprirsi a una visione anti-nostalgica ed emergente. E allora la figura-edificio forza i propri caratteri, la propria partitura, a divenire altro da sé, a divenire fondo, paesaggio. Nasce un’architettura che si fa organismo osmotico in grado di relazionarsi all’ambiente esterno in una pratica di continue interrelazioni. Una foresta urbana, primitiva e futuribile al tempo stesso diventa l’occasione di una nuova figurazione in cui l’identità del soggetto si apre alla visionaria capacità di divenire natura e artificio; una sorta di natura pietrificata, archeologica, che nascendo dal suolo si articola in trame sempre più complesse e spettacolari. L’astrazione della composizione che si nutre di tecnologie sempre più ardite e sperimentali si forza a divenire organismo osmotico e interdipendente. L’albero e il suo ciclo vitale diviene allora paradigma di un sistema che fa dell’interdipendenza e dell’interrelazione la propria struttura genetica: le radici che traendo nutrimento dal suolo permettono all’organismo di crescere e strutturarsi in un insieme complesso e caotico di ramificazioni tese a conquistare lo spazio e la luce divengono tronco e fronda che concludendo questo insieme vitale si fanno strumento di restituzione dell’energia al sistema ambiente in una continua e ciclica osmosi. Così l’edificio accetta di non ergersi figura ingombrante e occlusiva del sistema-ambiente ma di dialogare con esso su diversi piani interpretativi: il piano della figurazione poetica che aprendosi verso il paesaggio ne diviene declinazione e articolazione metaforica, ma anche il piano della prestazionalità in cui l’insieme architettonico si erge a performance capace di costruire un dialogo energetico stringente e serrato. Non solo Palazzo Italia attraverso la sua particolare conformazione riesce a non consumare energia e a costruire un interscambio equilibrato (si definisce come architettura a emissioni zero) con l’ambiente esterno, ma attraverso tecnologie innovative pratica un costante interscambio rendendo l’edificio parte strutturante del paesaggio e non occlusiva e ingombrante massa che lo consuma. La foresta urbana è articolazione di un insieme sistemico di elementi che si fa appunto urbanità e le parti che la costituiscono partecipano a un insieme interrelato di dinamiche e reciproche tensioni che fanno del vuoto e dello spazio tra gli elementi il vero soggetto strutturante della composizione. Realizzare una spazialità emergente vuole infatti significare rendere visibili e strutturanti quell’insieme di relazioni che sottendono la complessa dinamica di vita di organismi costantemente interconnessi. Non è quindi più l’identità della singola parte-figura o l’addizione delle stesse a divenire focus strutturante la partitura spaziale dell’insieme ma il vuoto, lo spazio delle infinite possibilità, vera e propria materia in cui il confronto e il dialogo avvengono in una dinamica vitale e complessa. La piazza di Palazzo Italia diviene allora vero centro assente della composizione, luogo in cui l’insieme degli individui o delle singole parti incontrandosi e interrelazionandosi assurgono a comunità, collettività. È, in fondo, lo spazio della socialità, della vita; memoria di un’urbanità millenaria che ha costruito luoghi capaci di esprimere il senso solidale dello stare insieme e del sentirsi parte. Opposizione a quella pratica additiva della banale ripetizione matematica tipica della moderna pianificazione urbana che, separandosi dal valore del progetto e dello stringente e fondante

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ruolo del vuoto, si è concentrata solo sulla performance della singola e ripetuta addizione della figura-monade. È quindi l’assenza, il vuoto, a costituire il vero spazio matrice di Palazzo Italia, momento cristallizzante dell’insieme comunitario in cui le parti, sentendosi parti del tutto, sviluppano le proprie dinamiche vitali in un insieme crescente di preziose metamorfosi e mediazioni.

INDEFINIZIONI Ma cosa ha a che fare tutto ciò con l’ingombrante bagaglio di memorie che ha nel tempo definito l’identità estetica del patrimonio artistico italiano? Ha ancora senso parlare di identità nel momento in cui il processo di in-definizione della figura-soggetto ne ha reso incomprensibili i contorni in una dinamica di sfocatura crescente? E se la modernità ha di fatto sancito la de-legittimazione delle metanarrazioni ontologiche pre-moderne, privandosi di ogni possibilità di determinare ancora un fondamento oggettivabile al proprio operare, come ritrovare isole di legittimazione seppur relative e locali? Il punto è proprio valorizzare la crisi e il processo di de-legittimazione dei processi estetici e conoscitivi moderni e post-moderni come una straordinaria opportunità di sviluppo e non come un lutto per una perdita incommensurabile. Il ruolo più pervicacemente fondativo dell’estetica e dell’arte è proprio il dare parola, figura e forma a qualche cosa che ancora parola, figura e forma non ha e che costituirà il nesso estetico del futuro presente: è rendere dicibile l’indicibile, è indossare lenti che ci permettano di mettere a fuoco la realtà nella sua dimensione contemporanea. Parlare di epoca della crisi e della de-legittimazione vuole significare la necessità di abbandonare qualsiasi apriorismo, oramai non più in grado di trovare fondanza, per costruire nessi, percorsi e indagini che accettando la propria fragilità radichino in un insieme di riferimenti tracciabili la coerenza delle proprie scelte. Il ritorno ad apriorismi, archetipicità, a un vocabolario traslato in uno spazio-tempo irrimediabilmente altro, il tentativo di ricostruire un comodo recinto di certezze che siano argine alle turbolenze di un vuoto incommensurabile e spaventevole, si rivela come una scorciatoia ingannevole e illusoria. La ricerca della nobiltà auratica di parole in grado di non sporcarsi nel gorgo volgare dell’eccesso contemporaneo, nel tentativo di determinare ancora una patente di aristocratica differenza rispetto a una realtà lasciva e decadente, rappresenta all’opposto il moltiplicarsi di un kitsch oramai sradicato da qualunque fondamento. È l’involontaria affermazione di una schizofrenia crescente che ergendosi ad alterità critica finisce per alimentare l’insignificanza dell’eccesso contemporaneo. Palazzo Italia accetta la sfida della fragilità di uno sradicamento oramai irreversibile, ma proprio in ciò costruisce la forza di un necessario nuovo e diverso radicamento dinamico, relativo ed emergente. E, a ben vedere, la tela di nessi e riferimenti che ne determinano la partitura trova inaspettati radicamenti in una linea rossa sottile che percorre trasversalmente alcune delle più straordinarie esperienze artistiche della nostra millenaria storia: dall’eroismo fragile della figuratività leonardesca alla potenzialità entropica della plastica michelangiolesca, dal concavo convesso di berniniana e borrominiana memoria, in grado di forzare la fissità geometrica classica e rinascimentale in un rapporto di interscambio del dentro-fuori, alla intensa e drammatica luce contrastata della pittura caravaggesca che dona intensità e parola all’indicibile interiorità di un oltre non riassumibile nella pura figuratività classica. Palazzo Italia vuole rappresentare il riscatto di un’Italia non ancorata a un nostalgico ripiegarsi all’indietro ma che crede nella possibilità qui e ora di rigenerare un percorso di eccellenza che sappia vedere nel presente e nel futuro un campo di inestimabili possibilità.


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the antifragile PROLOGUE Designing Palazzo Italia was a powerful and exciting experience; a challenge that, by not accepting the tragically tight construction times and the innate tendency towards mediocrity that now pervades a substantial part of our country, instead sought to restore pride, courage and confidence to those, like us, who believe in the possibility of still building newly discovered excellence. Palazzo Italia forcefully states the vital centrality of the project and its capacity to create visions and scenarios that exist in a possible utopia. Innovative visions, premonitions in which wonder at the immeasurable replaces consumption of the flat conformist banality of our times. Nemesis accepts this challenge to regenerate a complexity that is not gratuitous and exhibitionist, muscular, but aimed at probing the deep and indescribable space of life; the uniqueness of a sensory experience full of references and overtones able to restore the centrality of architecture and urbanity. But while Italy has been able to generate extraordinarily virtuous paths in the course of thousands of years of history of human settlement in a unique and unrepeatable territory, in recent decades a myopic preoccupation with a separate, self-referential utility has prevailed. Art, architecture and the contemporary dimension have become cult objects confined to museums or part of a past time that can no longer be given current relevance; we have ceased to engage with the present and give aesthetic consistency to our way of experiencing the world, thereby leaving the field free to consumption and the devastation of the territory by construction without any high aesthetic content. Palazzo Italia reaffirms with determination the search for beauty as a basic presupposition of the project, giving rise to architecture-landscaping capable of reconfiguring the relationship of hostile otherness with the external environment. Passion becomes the new paradigm of a major new responsibility that harnesses, in the transformation of the territory, art in the service of society that expresses the consumption of beauty as a prerequisite of our civic life. Passion that has brought together in a great common utopia us designers, architects and engineers, but also businesses and artisans who, engaged by the evocative visionary nature of the project, have helped make concrete and achievable something that had been consigned to never never land. With special thanks, we dedicate, to all those who have made this enterprise possible, this brief essay intended to portray the series of reflections that generated the wonder of Palazzo Italia.

THE WORD SUSPENDED We live in a world of words; never before have words, phrases and languages been stacked up in such a multifaceted array. The new technologies, the social networks offer every individual the extraordinary opportunity to be heard, to be present, to take part. It is as if the recognizing, defining or even just existing passed from the necessary to be part of the omnivorous consumption of images and words. The self is reduced to the subtle parallel inconsistency of opinions and images lost in the rapid whirlpool of the contemporary world. We exist as part of the uninterrupted flow of words and opinions that acquire validity if, in their turn, they are read and released again in the interpretative flow of comments in a hypertrophy of presence. And our ego is projected outside in a bruised and performing flatness of post-produced images that reconstructs the self in a separate virtual alter ego, increasingly obstructed and uprooted. The elsewhere becomes the essence of an experience of ubiquity in which the self, in order to exist, shatters in cloud of presences virtually jettisoned in a cycle of interconnections that determines its possibility of existence. Languages multiply, seeking increasingly exasperated performance designed to

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reproduce reality in more sectarian and manageable areas. In this way, the reproductive models express extreme performances with levels of computational sophistication able to produce hyperrealistic simulations as replacement for reality. In its livid flatness, the hyper-real conceals the real in a process of continuous masking and parallel estrangement. Yet even this immeasurable performance hides an underlying inconsistency; the incapacity to invest with meaning the thousand new words that it reproduces; as in the hyper-realistic American illustrations of the sixties, the pale beauty of the depictions, more real than the real, do not carry a beyond, a rootedness, a thickness. The images self-present in their total and tragic self-referentiality. It is as if the redundant racket and uproar of this multitude of presences covered the emergence of a vast, indescribable silence; an uncontainable and unpronounceable void. It is as if, in the instant in which all seems to be sayable and consumable, an unmeasurable, unfathomable and uncontrollable space extends like a deep, mysterious sea beneath the surfaces of fallacious certainties.

THE LOST INTERVAL The figure, the dominant expression of the modern and pre-modern aesthetic, seems to lose its identifying nature, blurring its outlines in a process of growing vagueness. The morphological-type features and the same principle of beauty that they had defined in a supremacy in which the metaphysical and ontological dimension validated the centrality become tradeable values, part of an oblique, illegitimate


consumption. The auratica dimension of the figure and the principles of proportionality that underlie it, far from representing a mere exercise of vacuous style, in fact represented the measure within which to construct the image of the world structured in the image and likeness of the human figure. And perspective, wrongly seen as the truest instrument of representation, became the most precious system for constructing the outside world from the point of view of the subject-figure and the proportional principles of the projection technique. The Renaissance aesthetic, in this way, became a real paradigm in which the centrality of the figure and its typical features became a precious and irreplaceable instrument in any attempt to probe the innermost secrets of beauty. The extraordinary fresco by Raphael called The School of Athens expresses, with a rare and precious power, the epic of the subject-figure who, in a process of empathy, is projected outwards in a meta-narrative struggle that depicts a world in which the identifying features of the subject foreshadow and structure the exterior in a relationship of close symbiosis. Therefore, there is a beauty that, by avoiding any personal and objective definition, investigates the proportional principles of the figure to determine the intrinsic golden dimension in order to rise to the paradigm of any possible creation capable of being legitimized in objective and metaphysical terms. But as stated, the process of vagueness and discoloration that the subject-figure undergoes in modernity replaces the pre-modern empathic process with an increasingly exasperated abstractive dynamic. And this process of

separation of the subject-figure from the exterior world becomes the new paradigm of an abstract modernity that accepts the loss of the aura and the centrality as opportunities for reconstruction of a now delegitimized world context. The death of God foreshadowed by Friedrich Nietzsche ends the primacy of the identity-subject, no longer able to convey principles and features tending to legitimize an awareness of the world that, by fragmenting into an irreversible process becomes, in fact, unknowable. The sudden laterality in which the subject-figure sinks leads to navigation in an unknown and mysterious sea, becoming, in fact, a prerequisite for the search for highly performing languages able to regenerate, if not true formalism, increasingly close to it in a context that is at least credible. In other words, the acceptance of laterality and insignificance becomes the engine for the construction of cognitive performance of extreme sophistication able to create islands of legitimacy and knowledge even if relativized. Fragility then becomes the paradigm of a new performance potential that Nassim Taleb defines in an enlightened way a 足 s anti-fragility; the capacity, that is, of a way of living in a fragile context by not resiliently opposing it but exploiting its features of dynamic uncertainty. This is precisely the aesthetic condition of contemporaneity, no longer founded on the ontological affirmation of the subject figure and its typical features but on the acceptance of a process of creative destruction in which the subject, accepting his own lateral fragility, must reconstruct himself in a practice of constant re-legitimization. Not then the voluptuous abandonment to the drift of insignificance and omnivorous consumption of words devoid of any capacity for meaning, as certain derivatives of post-modernism have ineptly practiced, but an outdated attempt to build islands of meaning capable here and there of defining, even in a blurred way, a legitimization of the work. The real is reduced, losing its metaphysical and transcendent dimension to words and language, interpretation, in a process of global aesthetization that invests every stage of our existence. The ontologically determined absolute value is being replaced, as stated, with the value of democratic exchange, in which interchangeability and mobility become the new paradigm of an aesthetic no longer nostalgically attributable to the search for foundation and recourse to the typical or archetypal features by now detached from any metaphysical necessity. In other words, the search for reaffirmation of an identifying self is replaced with the practice of a difference, of a subject-figure that, in a process of creative destruction, forces himself in a dynamic of continuous transition towards the other.

THE ABSENT PRESENCE The incessant production of images and words that, in a constant revival and interpretive whirlpool, confusedly crowd the contemporary horizon, seems to establish the primacy of a hypertrophy of the presence; of a presence that would seem to revive the role of the subject in a schizophrenic and unstoppable centrality. The racket produced by this irreversible flow of presences seems to eliminate any possible hierarchy and discernment in a flurry of uncontrollable consumption in which the centrality of the figure seems once again to establish itself. But this whirling crowd implies an uncontainable and unfathomable void, however many words and presences are consumed in the attempt to fill it. It is as if there had been a break in the chain of meaning that connects the meaning with the signifier, the content with the word. And then the figure, the images and the words show all their groundlessness, their superficial vitality constrained in an increasing selective performance by now abstracted from any capacity to become concrete. And it is here that, under the din, an unbridgeable silence seems to be heard that encompasses the foolish delight in persuasive images in their livid flatness; and the hypertrophic presence unravels into a bewildering absence. As in the untitled work of Francesca Woodman in 1977, the

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figure of the artist, in a moving and exciting self-portrait, seemed to disappear into the background of the walls in an impossible need for self-definition and to sustain the central role of the composition, so the hypertrophic figure of contemporaneity abdicates in favor of a unsustainable absence. The abstractive process of modernity is carried out in its most extreme topicality: the alienation of the subject from the world undermines the definability of the subject, obliged to force himself in a transitive and differential process to become the background, absence. The subject-figure no longer sustains the hierarchical role that classicism gave it, becoming alienated in a process of masking in a background and in an absence that become the primary object of attention of the contemporary aesthetic. In this way, in the photographs of Koudelka, a road junction or a stretch of pavement in any suburb becomes an object of the artist’s attention precisely because it is without any aesthetic

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validity and characterization; and so the heroism of the presence is discolored in the transition of a loss able to reveal the significance of a background dominated by an entropic dynamic. The process of disappearance of the subject-figure is carried out by opening the transition of a revelatory absence of new possibilities of transition and significance. The extraordinary golden immobility of classical beauty is replaced with a fragile beauty that lies in the mesh of a continuous transition and translation of meaning; a beauty that discovers the value of the other and a systemic and plural reality in the giddiness of absence.

THE EMERGING COMPLEXITY While the process that has dominated the aesthetic of modernity and post-modernity has certainly been a reductive process, in the sense of a reduction of cogency and lateralization and disappearance of the


to the rise of emerging characteristics. Every phenomenon, in a framework of systemic networks, is no longer equivalent to the sum of its parts but the inter-relational framework which connects it in a reciprocal dynamic to the coterminous phenomenologies. This is the revelation of an emerging and irreducible reality in which the self is forced to feel and hear its difference; it is forced to move to other territories in a process of deformation and reconfiguration. It is the space of life in which fragility becomes the paradigm of systems that, in losing their peremptory fixedness, agree to live and grow in a framework of constant dependency. A new and different beauty is created, anti-classical, able to sublimate the timid fragility of our being not as an insuperable limit but as an extraordinary opportunity to reveal the unspeakable richness of a profundity too long masked by an illusory search for an anachronistic fixedness. The space of life takes the stage by accepting its place in a complex series of relationships laying the groundwork for the emergence of one or more, of another, that lives through its courageous giving of itself to the other. The search for a definitive framework of relationships and proportions that ontologically eliminates the discretion of choice and the challenge of the unknown in a convenient and mythological revival of now delegitimized features now shows all its misleading potential; the prevalence of the use of the square, symmetry and hierarchy once extraordinarily able to construct unifying narrations of a paradigmatic classicism now becomes the empty revival of language, words and figures by now uprooted and released in the chaotic whirlpool of consumption of other endless words and figures. The search for this lifeless fixedness increases the sense of that indescribable and immeasurable void sinking under their superficial fallacies. The possibility, rather, of building visions still able to create islands of legitimization, even if only partial, through the practice of a necessary regeneration (creative destruction) instead changes to the courageous defiance of a figure that is open to difference and who ventures into the unknown, accepting the lateral fragility. The epic of the figure-subject is fulfilled in an open visionary path in which dependence and engaging in reciprocal listening to the differences replaces the nostalgic restoration of a leadership by now lost.

THE URBAN FOREST

subject-figure, the version given in the aesthetic and architectural fields of a fashionable minimalism is completely misleading. The obscuring of the dominance of the figure-subject has, if anything, revealed the chaos of an unfathomable reality in which the infinitesimal marginality of the parts reveals systemic dynamics of unprecedented complexity. And if the equilibrium governed centuries of deterministic research in which the reversibility of the processes and their attribution to simple, primary factors was the platform on which to construct manageable cognitive processes, it seems rather that the systemic irreducibility of the real is now the interpretive key able to unlock the contemporary aesthetic horizon. No longer then the search for an immobile and perennial system of balances governed by static and proportional connections able to reveal an ontological auratica beauty but the investigation of inter-related systems in continuous transformation in which the dynamic processes lead

Palazzo Italia is a direct and paradigmatic expression of this feeling, the attempt to make clear the rise of a new and different beauty, a beauty able to root itself in an unrepeatable identity that, in the course of the thousands of years of history of our country, has constituted an artistic and architectural heritage of inestimable value, but also able to attain that necessary uprooting and become open to an anti-nostalgic and emerging vision. And so the figure-building forces its features, its score, to become other than itself, to become background, landscape. An architecture is created that becomes an osmotic organism able to relate to the external environment in a process of continuous relations. An urban, primitive and futuristic forest at the same time becomes the opportunity for a new depiction in which the identity of the subject is open to the visionary capacity of becoming nature and artifice; a sort of petrified, archaeological nature that, coming from the soil, produces increasingly complex and spectacular textures. The abstraction of the composition is nurtured by increasingly daring and experimental technologies and becomes an osmotic and interdependent organism. The tree and its life cycle then become the paradigm of a system with a genetic structure of interdependence and interrelation. The roots that draw nourishment from the soil allow the organism to grow and become a complex and chaotic structure with branches designed to conquer the space and light, becoming trunk and foliage that, at the end of this assembly of life, become an instrument to restore energy to the environmental system in continuous and cyclical osmosis. In

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this way, it is accepted that the building does not stand as a bulky figure that conceals the environmental system but interacts with it on various interpretive levels: the level of the poetic figuration that, by opening up to the landscape, becomes a version and metaphoric articulation of it, but also on the performance level in which the architectural assembly stands as a performance able to build a compelling and pressing dialogue of energy. Not only does Palazzo Italia, through its particular configuration, manage not to consume energy but also to construct a balanced interchange (defined as zero emission architecture) with the external environment and, through innovative technologies, engages in a constant interchange, making the building part of the structural landscape and not an obscuring and bulky mass that consumes it. But the urban forest is an expression of a systemic series of elements that make up the urban environment and the parts that make it up take part in an interrelated collection of dynamic and reciprocal stresses that make the void and space between the elements the real structuring subject of the composition. Creating an emerging space means making visible and structuring the series of relations that underlie the complex dynamic of the life of constantly interconnected organisms. It is therefore no longer the identity of the individual part-figure or the addition of them that is the structuring focus of the spatial score of the collection but the void, the space of the infinite possibility, the real matter in which confrontation and dialogue take place in a vital and complex dynamic. The square of Palazzo Italia then becomes the real center, absent of composition, a place where a collection of individuals or individual parts meet and interrelate, and communities, society arise. It is, basically, a space for socializing, living; a memory of an ancient urbanity that has constructed places capable of expressing the sense of solidarity in being together and feeling part of something. Opposition to the practice of banal mathematical repetition, typical of modern urban planning, that ignores the value of design and the compelling and founding role of the void and concentrates only on the performance of the individual and repeated addition of the figure-monad. It is therefore the absence, the void that constructs the space matrix of Palazzo Italia, a crystallizing moment of the whole community in which the parts, feeling part of the whole, develop their own vital dynamics in a growing series of precious metamorphoses and mediations.

INDEFINITIONS But what has all this got to do with the bulky baggage of memories that over time have defined the aesthetic identity of the Italian artistic heritage? Does it still make sense to talk of identity at a time when the process of in-definition of the figure subject has made the contours of an increasingly incomprehensible dynamic blurred? And

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if modernity has sanctioned the de-legitimization of the pre-modern ontological narration, eliminating any possibility of still determining an objective foundation to the work, how will islands of legitimization be found, even if relative and local? The point is to see the crisis and the process of de-legitimization of the modern and post-modern aesthetic and cognitive process as an extraordinary opportunity for development and not mourning over an immeasurable loss. The most stubbornly grounded role of aesthetics and art is to give word, figure and form to something that word, figure and form did not then have and which could constitute the aesthetic connection with the present future: it is to express the inexpressible, it is to wear lenses that enable us to focus on reality in its contemporary dimension. To speak of a time of crisis and de-legitimization means the need to abandon any apriorism, no longer founded, to construct connections, paths and inquiries that, by accepting fragility, are rooted in a series of traceable references to the coherence of the choices. The return to apriorism, archetypes, a vocabulary translated into an irretrievably other space-time, the attempt to reconstruct a convenient fence of certainty that holds back the turbulence of an immeasurable and frightening void, is revealed as a misleading and illusory short cut; the search for a golden nobility of words capable of not being sullied in the vulgar whirlpool of contemporary excess in the attempt to still determine a stamp of aristocratic difference compared to a lascivious and decadent reality are in opposition to the multiplication of kitsch that is by now uprooted from any foundation. The affirmation is unavoidable of a growing schizophrenia that, raising itself on critical otherness, ends by feeding the insignificance of contemporary excess. Palazzo Italia accepts the challenge of the fragility of a by now irreversible uprooting but, precisely in that, constructs the strength of a necessary, new and radically different dynamic, relative and emerging. And, with hindsight, the fabric of connections and references that determine the score finds unexpected roots in a thin red line that crosses some of the most extraordinary artistic experiences in our history: from the fragile heroism of the figures of Leonardo to the entropic potential of Michelangelo’s art, from the concave convex of Bernini and Borromini memory able to force the classic and Renaissance fixedness into a relationship of interchange of inside-outside, to the intense and dramatic contrasting light of Caravaggio’s paintings, which lend intensity and voice to the indescribably interiority of an other not found in the pure classical figurative art. Palazzo Italia seeks to represent the portrait of an Italy not anchored in a nostalgic look backwards but one that believes in the possibility here and now of regenerating a path of excellence that sees in the present and future a field of inestimable possibilities.


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parole d’autore In the author’s words

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Giorgio Armani

“Lo stile è una questione di eleganza, non solo di estetica. Lo stile è avere coraggio delle proprie scelte e anche il coraggio di dire di no. È trovare la novità e l’invenzione senza ricorrere alla stravaganza”.

Giorgio Armani, King George, Gorgeous George. Tre nomi per una certa idea di bellezza. E in fondo anche una certa idea dell’Italia. Perché di quel “sistema della moda” che ha reso celebre il Belpaese nel secondo Novecento, Armani resta in molti sensi l’alfa e l’omega, l’angelo e il demone tentatore. Di più. A distanza di anni e di eventi, oggi che anche la moda partecipa alla stessa “società liquida” che ha contribuito a creare, il percorso di Armani si riesce finalmente a collocare nello spazio che gli è proprio, un luogo che va al di là del tempo e del settore che ha reso celebri nel mondo, oltre le fortune delle sue linee, dei suoi progetti e degli scenari stilistici a cui tanto generosamente ha contribuito. Armani non è solo l’architetto dello stile, l’uomo che destrutturò la giacca di Diane Keaton o dette forma al desiderio di Richard Gere. Armani è l’italiano che ha dato una definizione democratica della bellezza, tracciando la sottile linea che divide il pop dallo style. Per questo dopo quarant’anni di successi si è rifiutato di accontentarsi degli stereotipi e ha preferito continuare a lavorare sulla strada degli archetipi. Non sulla vendita della bellezza prêt-à-porter, ma sulla ricerca dell’idea di bellezza. Da oltre vent’anni Armani si classifica come un operatore culturale, un traduttore che ha preso a pretesto l’avventura del corpo maschile e femminile per un orizzonte diverso: la riaffermazione dell’identità italiana, il canone estetico di un’epoca che confonde e consuma qualunque tentativo gerarchico. Più che dal fare moda, arredamento o design, il percorso di Armani sembra ossessionato da questo richiamo, da questa febbre della conoscenza: il senso della bellezza, il ruolo dell’identità, il fine dell’uomo e della donna in un mondo che ha perso il senso del fine. Nessuna scelta migliore che nominare Armani Special Ambassador di Expo, dunque. Il suo concentrato di rigore, intransigenza, coerenza fisica e morale è la perfetta sintesi dell’abito che come il cibo e l’architettura fa parte della vita e dice di noi molto più di quello che noi pensiamo di dire. Expo 2015 dunque come occasione ideale per mostrare, ancora una volta, il senso profondo della ricerca intellettuale di Armani, elegante ma continua, leggera ma profonda. L’avventura “dell’impegno, la serietà, quella capacità del fare della quale spesso ci dimentichiamo, o che viene osservata con sospetto temendo si tratti di corruzione o privilegio”.

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“Io faccio vestiti, non politica”. Perché si sta occupando sempre di più di architettura, che rappresenta la quintessenza della politica nel senso nobile? Le mode passano, gli edifici che sto arredando e gli alberghi restano. Milano ha espresso l’Expo. Al di là di ogni polemica, cosa pensa della sua città? Milano è il cuore europeo di una civiltà mediterranea. Dovrebbe migliorare l’accoglienza, prolungare gli orari di bar e ristoranti, rivedere la viabilità, ma sono la sua cultura, il suo modo di porsi, che finora hanno resistito agli urli e alla miopia populista, a renderla internazionale. E dell’Italia cosa pensa? Davanti alle notizie recenti, a volte mi chiedo: a chi può piacere questa Italia? Viene voglia di andare via ma sarebbe da egoisti. Bisogna rimanere e fare. Cos’è la bellezza? Per me la bellezza è l’armonia tra il corpo e la mente, l’espressività, una certa forma di grazia, l’accuratezza. Non c’è bellezza senza intelligenza. Esiste la bellezza italiana? Perché il mondo ci ammira sull’estetica? Esiste. Gli italiani hanno, secondo me, una naturale educazione al bello, sanno essere sensuali e naturali, apprezzano e ricercano la qualità: questi caratteri distintivi contribuiscono a mio avviso in maniera decisiva a rendere così ammirata l’estetica italiana. Perché la bellezza è una forza economica? Perché, in fin dei conti, la bellezza, così come la passione, è alla base del desiderio, e il desiderio è il motore del consumo, a ogni livello. Palazzo Italia è uno dei simboli del nostro paese lanciato verso il futuro. Come vede il futuro dell’Italia? Sono ottimista e penso che il futuro sarà roseo, ma dobbiamo impegnarci tutti, moltissimo. Mi pare che ogni tanto, con la scusa dell’eccellenza del Made in Italy, ci si dimentica che ci sono altre e agguerrite realtà che avanzano. Abbiamo un patrimonio e un’artigianalità unici, che vanno trasmessi ai giovani e condivisi per ritrovare quella solidarietà di sistema, quell’entusiasmo che c’erano prima della crisi. E dobbiamo impegnarci tutti perché ciò accada.

Giorgio Armani — “Style is not only a matter of aesthetics, but also of elegance. Style means having courage in one’s choices, including the courage to say no. It is to find novelty and invention without resorting to extravagance.” Giorgio Armani, King George, Gorgeous George. Three names for a certain idea of beauty. And, beneath this, also a certain idea of Italy itself. Because of the “fashion system” that brought renown to that beautiful country in the late twentieth century, Armani is still in many ways the alpha and the omega, the angel and the tempting devil. Perhaps even this is an understatement. After many years and even more events, today that fashion also participates in the same “liquid society” that it helped to create, Armani and its achievements are finally ready to be placed into their very own space, a place that goes beyond the specific era and industry that has made it famous in the world, beyond the success of its lines, its projects, and of the stylistic scenarios to which he so generously contributed. Armani is not just the architect of style, the man who re-contructed the jacket of Diane Keaton and gave shape to Richard Gere’s desirability. Armani is the Italian who has given us a more democratic definition of beauty, tracing a fine line between pop and style. For this reason, after forty years of success, he has refused to settle for stereotypes, and instead continued to work on the embodiment of archetypes—not on the commoditization of beauty prêt-a-porter, but on the search for the essence of beauty itself. For more than twenty years, Armani has been classified as a cultural operator, a translator who has taken the pretext of masculine and feminine corporeal enterprise to an entirely different place: the reaffirmation of the Italian identity, the aesthetic canon of an age that confounds and consumes any attempts at hierarchy. More than just doing fashion, furniture, or design, the Armani approach is one that demonstrates an obsession with the question of beauty, the role of identity, and the question of purpose for men and women in a world that has lost its sense of purpose. There is no better choice then, but to appoint Armani Special Ambassador of Expo. His concentrated rigor, steadfastness, and his physical and moral consistency provide the perfect synthesis for fashion just as much as it does for food and architecture, which are an integral part of our lives, saying more about us than what we can think to say of ourselves. Expo 2015 then, provides an ideal opportunity to demonstrate, once again, Armani’s profound sense of intellectual inquiry, elegant yet lasting, light yet deeply meaningful—to demonstrate the endeavor “of commitment, of seriousness, of the ability to do that which we often put aside, or that which is viewed with the terrible suspicion of corruption and priviledge.” “I do clothes, not politics.” Why is it that you are occupying yourself more and more with architecture, which represents the essence of politics in the noblest sense? Fashions pass by, the buildings that I’m decorating, and the hotels remain. Milan has delivered Expo. Beyond any controversy, what do you think of the city? Milan is the European heart of Mediterranean civilization. It should improve its hospitality, extending the opening hours of bars and restaurants, and review road conditions, but it is its culture, its way of being that has up to now resisted the cries and the myopic populism, to make it international. And what do you think of Italy? Faced with the recent news, sometimes I ask myself, “who could like this Italy?” The desire to leave arises, but to do so would be selfish. You have to stay and do. What is beauty? For me, beauty is the harmony between body and mind, expressiveness, a certain form of grace, accuracy. There is no beauty without intelligence. Does Italian beauty exist? Why does the world admire our aesthetics? It exists. Italians have, I think, a natural education in beauty, they know how to be sensual and natural, they appreciate and strive for quality—these distinctive characteristics, in my mind, go a long way in making Italian aesthetics so admired. Why is beauty an economic force? Because, in the end, beauty, as well as passion, is at the basis of desire, and desire is the engine of consumption, at all levels. Palazzo Italia is a symbol of our country being launched into the future. How do you see the future of Italy? I am an optimist, and I think that the future will be rosy, but we all need to commit ourselves, very much so. I think that, sometimes, with the excuse of Made-in-Italyexcellence, we forget the reality that there are others that are advancing aggressively. We have a unique heritage and artisanal tradition that should be transmitted to young people and shared in order to regain solidarity in the system, that enthusiasm that was there before the economic crisis. And we need to commit ourselves to make this happen.

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Andrea Bocelli

Non ha bisogno d’introduzioni, Andrea Bocelli. Perché è un caso o meglio un dono, un interprete melodrammatico dotato di una straordinaria vocalità, educata da severi perfezionamenti accademici.

Un tenore dal timbro speciale, capace di un lirismo unico, che però emerge e s’impone all’inizio con la musica leggera, fino a diventare un idolo mondiale grazie al suo particolarissimo mondo espressivo. Fra gli artisti italiani che hanno venduto di più al mondo in ogni tempo, Bocelli è diventato soprattutto un brand, un testimonial dell’Italia e dei suoi valori. Laureato in giurisprudenza all’università di Pisa, allievo del mitico maestro Franco Corelli, Andrea non ha mai avuto problemi a prodursi in ogni contesto e in ogni genere, perfino in serate al piano bar, dove percepisce e si nutre del contatto con audience variegate e informali. Selezionato da Zucchero Fornaciari nel 1992 per il Miserere in collaborazione con Luciano Pavarotti, è quest’ultimo a lanciarlo dopo aver ascoltato la registrazione: “Grazie per la splendida canzone, ma lascia che sia Andrea a cantarla. Nessuno è più adatto di lui”. Trionfatore del Festival di Sanremo 1994 con “Il mare calmo della sera”, raggiunge in poche settimane il primo disco di platino. “Con te partirò”, presentata a Sanremo l’anno successivo, in Italia ottiene un doppio disco di platino, mentre la versione inglese, “Time to Say Goodbye” batte record di vendite e di critica in molti paesi del mondo. Nel 1995 Bocelli offre un tributo a Enrico Caruso con “Viaggio Italiano”, ispirato e dedicato agli emigranti e ai talenti che hanno reso popolare l’opera italiana nel mondo, come farà lui con produzioni di amplissimo successo tipo “Aria” e con la “Tosca” di Giacomo Puccini, una sfida impossibile per ogni tenore che Bocelli interpreta in maniera mai sentita.

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Bocelli, la bellezza esiste? In noi e fuori di noi. La bellezza è potenzialmente ovunque la vita esprima se stessa, in armonia con il resto del creato. D’accordo, ma cosa è la bellezza? Non le sembra un termine vago? È tutto ciò che non pertiene al male, è quanto non offuscato dall’umano orgoglio, da ciò che i greci antichi chiamavano Hýbris... Quando l’uomo mette “io” al posto di Dio, la bellezza svanisce, anche perché mancano gli strumenti per coglierla. Definirla quindi è impossibile? Credo nella bellezza della bontà e nella bontà intrinseca della vera bellezza. Definirla è sempre sminuente: mi piace pensare alla bellezza come a un’essenza vibratile, percepibile ma non catturabile, all’energia che scaturisce dall’incontro di due aneliti che riconoscono, l’uno nell’altro – e dunque affermano – la presenza del divino. La sua vita sembra dedicata alla ricerca della forma, che è una delle chiavi della bellezza. È così? La ricerca della bellezza è stata ed è la mia principale ispirazione; uno slancio che mi guida, nel quotidiano dell’esistenza e dei rapporti interpersonali così come nello studio e nella scelta del repertorio. Come ho già avuto occasione di dire, tutti i talenti dell’uomo sono indubitabilmente doni di Dio. I doni del Cielo non possono che portare bellezza e bene al mondo, a meno che l’uomo non decida di suo libero arbitrio di fare un uso improprio di ciò che ha ricevuto in dono, avendo ricevuto, come primo e più prezioso tra tutti i doni la libertà. Esiste un tipo italiano di bellezza? L’Italia è una terra morfologicamente intrisa di opulenta, poetica bellezza. È dunque naturale che nei secoli abbia stimolato, nella sensibilità dei suoi abitanti, una “civiltà della bellezza”, espressa poi in meraviglie architettoniche, pittoriche, musicali... La densità di capolavori custoditi entro i confini italiani non smette di commuovermi e inorgoglirmi. Abbiamo una storia straordinaria alle spalle, eccellenze in ogni campo, un numero sconcertante di tesori da poter valorizzare, splendide tradizioni e una diffusa e radicata cultura enogastronomica... È un fatto, che la forza creativa del nostro paese, quando positiva e solare, faccia sognare il mondo. Lei è un testimonial d’eccezione dell’Italia. Si identifica con il genio italico?

Sono fiero di essere italiano, come non mi stanco di dire, credo di essere stato molto fortunato a nascere e crescere nel paese dove è nata l’opera lirica, e la mia più grande soddisfazione sta nel poter portare nel mondo la musica e la cultura della terra di cui sono figlio. Sono molto legato alle mie radici italiane (e toscane in particolare), ma non avendo perso il lume della ragione ritengo di non poter accostare neppure per un istante il mio nome a coloro che sono i veri italici geni, da Leonardo Da Vinci a Guglielmo Marconi, da Michelangelo ad Alessandro Manzoni. I geni sono loro. E in ambito musicale, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Umberto Giordano... Io sono solo un modesto artigiano, loro compatriota, che cerca di condividere con più persone possibili i frutti del loro straordinario talento. Ma se la bellezza è il cuore della cultura italiana perché c’è stata così poca attenzione in Italia? Al di là di alcuni luoghi, aspetti, motivi, la bellezza in Italia è molto ferita, è molto degradata. È stata messa a dura prova… Hanno pesato, nei decenni, scelte politiche motivate da tutt’altre priorità. Giacché però la classe politica altro non è che lo specchio di ciò che siamo, questa è una domanda che ciascuno di noi dovrebbe rivolgere a se stesso, facendo un esame di coscienza. Questo libro uscirà alla fine dell’Expo Milano 2015. Cosa ne pensa? Secondo lei perché l’Esposizione è stata così criticata? L’avevo parzialmente e rapidamente visitata, ancora con i lavori in corso, prima dell’apertura. Purtroppo l’agenda professionale serrata di questi mesi non mi ha permesso, ad oggi, di tornarci. Diciamo che l’ho vista attraverso i racconti di tanti amici e persone di famiglia che ci sono stati. E le valutazioni che ho potuto raccogliere sono state generalmente positive. Cosa dovrebbe fare la politica per la bellezza? Esattamente ciò che ciascuno di noi dovrebbe fare, perché sarà ben difficile che l’esempio ci venga da chi oggi costituisce il campione di ciò che noi siamo. E ciò che dovremmo è operare un profondo mutamento interiore verso la moralità. È bene che ciascuno di noi abbia coscienza del nostro immenso patrimonio – fatto di arte, artigianato, tradizioni, di preziose diversità – e che faccia il possibile per preservarlo e divulgarlo, con generosità, senso di responsabilità e con un sano patriottismo. Varrebbe la pena tenere sempre presente quella bellezza che sappiamo esprimere nel quotidiano e che abbiamo la fortuna di vivere.

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Se dovesse fare un manifesto per l’Italia, da dove partirebbe? Articolate dichiarazioni d’intenti, frutto di analisi premurose e di ottimi propositi, credo non ne mancano. Io non ho ricette sicure da indicare, anche perché caratterialmente preferisco la concretezza delle azioni e credo nella forza dell’esempio. Ritengo che la famiglia sia il principale mattone della società, dunque da lì io partirei. Famiglia, fucina di affetti, luogo privilegiato dove ricercare l’armonia – che è sinonimo di bellezza – e il reciproco rispetto... Una dimensione in cui addestrarsi e addestrare, in ogni azione, a scegliere l’opzione che va verso il bene, cercando di mettere in pratica quei valori cristiani che i nostri genitori ci hanno insegnato e che è nostra responsabilità trasmettere ai nostri figli.

Andrea Bocelli — Andrea Bocelli needs no introductions. He is a phenomenon, or better yet, a gift, an operatic performer blessed with an extraordinary voice, educated under strict academic standards. A tenor of exceptional timbre, capable of unique lyricism, who initially emerged associated with pop music but went on to become a worldwide idol thanks to his particular abilities of expressivity. Among the highest internationally grossing artists in Italian history, Bocelli has become, above all, a brand, a testimonial of Italy and its values. Having graduated in law from the University of Pisa, a pupil of the legendary maestro Franco Corelli, Andrea has never had any problems working in a diverse range of contexts and genres, even in the evenings at the piano bar where he thrives off his contact with diverse and informal audiences. Selected by Zucchero Fornaciari in 1992 for il Miserere, in collaboration with Luciano Pavarotti, who chose Bocelli to launch the production after he listened to the recording: “Thank you for the wonderful song, but allow Andrea to sing it. Nobody is more suited then he is.” He was champion of the Sanremo Festival of 1994, with “Il mare calmo della sera” going platinum in just a few weeks. “Con te partirò,” presented at Sanremo the following year, went double platinum in Italy while the English version, “Time to Say Goodbye,” beat sales records and achieved critical acclaim all over the world. In 1995, Bocelli released a tribute to Enrico Caruso with “Viaggio Italiano,” inspired by and dedicated to the Italian emigrants and talents that made Italian opera famous around the world, just as Bocelli himself would do with his own widely successful productions such as “Aria” and the “Tosca” of Giacomo Puccini, an impressive feat for any tenor, and which Bocelli interprets in a way that has never been heard before. Bocelli, does beauty exist? In us and around us. Beauty is potentially everywhere that life expresses itself, in harmony with the rest of creation. Agreed. But what is beauty? Doesn’t it seem like such a vague term? It’s everything that does not pertain to evil, that which is not clouded by human pride, by what the ancient Greeks called Hýbris… When man elevates his “ego” to the position of God, beauty fades away, because he lacks the tools to reclaim it. So it’s impossible to define it? I believe in the beauty of goodness, and in the goodness intrinsic in true beauty. To define it is always to demean it; I like to think of beauty as vibrating essence, perceptible but intangible, the energy that flows from the encounter of two desires that recognize in each other—and then affirm—the presence of the divine. Your life seems dedicated to the pursuit of form, which is one of the keys to beauty. Is that so? The pursuit of beauty has been and continues to be my primary inspiration; it’s a momentum that guides me, in everyday existence and interpersonal relationships, as well as in the study and selection of repertoire. As I have said before, all of man’s talents are undoubtedly gifts from God. Gifts from heaven can only bring beauty and goodness into the world, unless man decides to use his free will to make improper use of those gifts, having received the first and most precious gift of freedom. Is there such thing as a specifically Italian type of beauty? Italy is a land morphologically saturated with opulent, poetic beauty. So it’s natural that, over the centuries, it has stimulated, in the sensibilities of its inhabitants, a “culture of beauty” that is then expressed through architectural wonders, paintings, music… The density of masterpieces contained within the borders of Italy never

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cease to move me and make me proud. We have an extraordinary history at our backs, excellence in every field, a bewildering number of treasures to be appreciated, wonderful traditions and a widespread and deeply-rooted food culture… It is a fact that the creative power of our country, when positive and sunny, can make the world dream. You are a testimony to the exceptionality of Italy. Do you identify with Italian genius? I’m proud to be Italian, as I never tire of saying; I think I was very fortunate to be born and grow up in the country where opera was born, and my greatest satisfaction is in being able to bring the music and culture of my land to the world. I am very connected to my Italian roots (and Tuscany in particular) but if I haven’t lost the light of reason, I think I can’t juxtapose, even for a moment, my name with those of the true Italian genius: from Leonardo Da Vinci to Guglielmo Marconi, from Michelangelo to Alessandro Manzoni. They are the geniuses. And in music, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Umberto Giordano… I’m just a humble craftsman, their compatriot, who seeks to share the fruits of their extraordinary talent with as many people as possible. But if beauty is the heart of Italian culture, why has it received so little attention in Italy? Besides some places, aspects, and motives, in Italy beauty has taken quite a blow; it has been terribly degraded. It has been put to the test… Over the decades it has been affected by political choices motivated by quite different priorities. Yet, because the political class is merely a reflection of who we are, this is a question that each of us must ask ourselves, carrying out an examination of conscience. This book will be published at the end of Expo Milano 2015. What do you think? Why do you think the exposition has been so criticized? I was able to visit some of it quite briefly when it was still a work in progress before opening day. Unfortunately my tight schedule the past few months has kept me from going back since then. Let’s say that I’ve seen it through the accounts of the many friends and family who have been there. And the feedback that I’ve heard has been generally positive. What should the government do to support beauty? Exactly what all of us should do, because it will be quite unlikely that the example of who we are will come from those who represent us. And what we should do is to enable a deep inner transformation towards morality. It would be good for each of us to be aware of our immense wealth—of art, craftsmanship, traditions, of precious diversity—and to endeavor to preserve and spread it, with generosity, a sense of responsibility, and with a healthy level of patriotism. It would be worthwhile to keep in mind that beauty that we know how to express in everyday life and that we are fortunate to live in our own lives. If you were to make a poster for Italy, where would you start? Articulate declarations of intent, the result of thoughtful analysis and good intentions, of these we aren’t lacking. I don’t have any safe prescriptions to give, also because by nature I tend to prefer concrete actions and I believe in the power of example. I believe that the family is the primary building block of society, so I would start from there. Family, the source of affection, a privileged place where we seek harmony—that is synonymous with beauty—and mutual respect… A space in which to train and train—in every action—to choose the option that puts us on the right path, trying to put into practice those Christian values that our parents taught us and that are our responsibility to pass on to our own children.

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pAOLO BULGARI

Parla pochissimo, Paolo Bulgari, e quasi mai con chi scrive. è un uomo alto, dall’aria severa e due occhi azzurri dal fondo triste. Ha un sorriso contagioso però, che scoppia improvviso ricordando l’origine di tutto, alla fine del XIX secolo,quando l’argentiere Sotirio Bulgari fugge dall’Epiro devastato dalla guerra fra greci e turchi. A cercar fortuna a Napoli e poi a Roma, dove aprì un negozio, in via Sistina. Correva l’anno 1884, l’inizio della maison sinonimo di una precisa idea di bellezza. E dell’Italia nel mondo.

Riluttante studente di legge, con la segreta passione per l’architettura, Paolo passa i pomeriggi nella bottega ancora viva dei ricordi del nonno Sotirio e dove il padre, Giorgio, insiste perché disegni collane, anelli e bracciali. Carattere forte, Giorgio. Vuole che Paolo faccia il suo mestiere e forse ha ragione, perché i gioielli che disegna il ragazzo piacciono, soprattutto alle attrici di Hollywood, da Anna Magnani a Lauren Hutton passando per Elizabeth Taylor. E poi ereditiere annoiate, magnati fantasiosi, artisti accorti, industriali paternalisti, sceicchi appassionati. è il jet set più brillante di un mondo non ancora globalizzato, una società per cui l’Italia fa rima con bellezza. è saper fare. è saper vivere. Se Sotirio si era distinto come straordinario artigiano e abilissimo imprenditore, capace di aprire negozi nelle località più alla moda del suo tempo – Sanremo, Bellagio, Napoli, Sorrento, Saint Moritz – Giorgio è un uomo diverso, cosmopolita, di spiccato senso estetico, capace di tessere relazioni e di immaginare scenari. Diverso quindi dal fratello Costantino, più intellettuale e schivo ma che lo affianca dalla fine degli anni ’20, Giorgio compie una svolta decisiva, sul piano concettuale ed estetico. Abbandona lo stile in voga, ispirato a Parigi, e inventa uno stile proprio, autonomo e profondamente italiano. è lo stile Bulgari, che rielabora il senso del volume, le forme della classicità e soprattutto le combinazioni cromatiche di grande impatto. Un’intuizione di portata cardinale. è a questa scuola che si formano Paolo e il fratello Nicola, che a loro volta consacreranno la maison come emblema dell’eccellenza italiana introducendo nuove variazioni concettuali, come le monete antiche montate sui gioielli, il tema modulare a parentesi, il motivo Tubogas, i bracciali orologio che conosceranno infinite imitazioni. Al punto che oggi la maison fa parte del gruppo LVMH ma l’amministratore delegato, Jean-Christophe Babin, ha chiesto a Paolo di fare il presidente ma non smettere d’immaginare la bellezza come direttore creativo, come ha fatto ogni giorno da oltre trent’anni.

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Incontro obbligato, domanda obbligata.

provare a fare. Prenda Matteo Renzi.

Lascerei perdere. La bellezza esisteva, ma dubito che esista ancora.

Prendiamo anche lui.

Se lo dice lei è grave. Che cosa è accaduto?

Renzi sembra voler cambiare ma non può, non può dire la verità, come fece Winston Churchill.

Non lo so. Qualcosa però è accaduto.

Per fortuna lei fa l’imprenditore.

è colpa dell’Italia? Sul nostro paese sono negativo, da molti anni. Sono critico.

Guardi che per fare l’imprenditore in Italia occorre essere eroi, si ha tutti contro.

L’ha deluso la politica?

L’Europa le piace?

Moltissimo. Ho votato per anni politici degni che prendevano il 3 per cento. Gusti poco popolari, i suoi. Del resto, lei è Bulgari. Noi non ci rendiamo conto, siamo provinciali. I nostri politici non viaggiano, non vedono come funziona il mondo. Anche solo con l’Europa, la distanza è troppo grande. Il rischio è grave, mi creda. L’Italia non le piace davvero più. è un paese strano, difficile da analizzare. Non capisco più molte cose. A volte mi pare che da noi la democrazia non sia apprezzata. Prenda Roma. Prendiamola. Cosa c’è a Roma? Un degrado impensato. Non era così, non è mai stato così. Noi viviamo ancora su quello che hanno fatto i nostri avi, ma presto finirà. Non è solo un tema di politica, è un problema di cultura, di valori, di capire chi siamo e cosa possiamo fare. Passeggiando in centro, e soprattutto in periferia, tutto questo non si vede, si è perso tutto. Tanto i turisti vengono lo stesso, si dice. Non è così però, e lo vedremo presto.

Stiamo vivendo un momento di grande passaggio, che coinvolge l’Europa, strozzata da due poli, l’America e l’Oriente. Purtroppo per fare l’Europa non basta la finanza, chi l’ha pensata aveva paura della Terza guerra mondiale. Ma mettere assieme culture così diverse è quasi impossibile. Se non ci è riuscito Napoleone… Quali altri paesi l’affascinano? Gli Emirati. I paesi del Medio oriente. L’Asia. Quali altre colpe ha la politica italiana? L’Italia non ha tutelato l’artigianalità e l’agricoltura. E ha fatto passare l’idea di bellezza come sfarzo, come privilegio, mentre la bellezza è l’unica cosa necessaria indispensabile. è l’essenza di una civiltà e il suo motore economico. Soprattutto in Italia. Posso raccontarle un aneddoto personale, modesto ma altamente significativo? Magari.

Cosa possiamo fare per scoprirli e sfruttarli?

Con mio figlio Giovanni abbiamo costruito una cantina e una vigna a San Casciano dei Bagni, nel sud della Toscana. Un luogo meraviglioso, dove si respira cultura, che è senso della comunità, gestione della storia e del territorio, risorse uniche, arte e artigianato. La cantina l’ha disegnata un giovane e brillante architetto, Massimo Alvisi. Un investimento notevole, mi creda, ma soprattutto un gesto di passione, di voglia di vita. Ebbene, per avere i permessi abbiamo impiegato oltre due anni, con il rischio di non poterli avere. Poi naturalmente chi non chiede permessi riempie l’Italia di orrori.

Prima di fare bisogna pensare, studiare, capire. Poi magari

I furbi e i fessi, diceva Giuseppe Prezzolini.

Ha mai pensato di andarsene? Mah. Passo sette o otto mesi all’anno in Italia e il resto all’estero. Ripeto, è difficile rimanere e progettare il futuro qui, d’altra parte l’Italia è un paese con forti risorse, spesso ignote agli stessi italiani. Diciamo che io spero ancora in questi giacimenti.

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Il più bel paese del mondo abitato da diavoli, diceva Goethe. Goethe però vive due anni in Italia. E solo dopo il suo viaggio scrive di aver capito. Aveva ragione, soprattutto quando parlava della tradizione e dei piccoli passi. Io ho imparato questo lavoro con esperienza, lentezza, passo dopo passo. è la sedimentazione dei gesti e delle parole a fare la differenza. Il mestiere s’impara dal mestiere, ma va fatto. Bellezza è sedimentazione? La bellezza è una vocazione e un’arte, ma ci vuole molta umiltà a perseguirla, mi creda. Da trent’anni fa il direttore creativo. Con chi preferisce lavorare? In questo momento sono tutte disegnatrici, tutte italiane, salvo una coreana e una giapponese. Straordinarie. Cosa consiglia? Cosa dice quando lavorano? Non sentitevi artisti, cercate di essere solo artigiani. Sarebbe già tantissimo. Perché tanti creativi si credono Picasso, ma nel mio mestiere non funziona. Occorre umiltà, ripeto. Lei si considera un artigiano? Io sono fiero di essere un artigiano. Un artigiano e un uomo d’affari. è questo il segreto dell’Italia, saper combinare artigianalità e senso degli affari? Direi di sì. è un certo tipo di artigianalità, quello italiano. Unico nel suo genere. Lo si vede anche nella moda. Un sapere antichissimo, lento, che crea bellezza e non è preso minimamente in considerazione dalla politica. Ed è incredibile perché quando andiamo fuori siamo bravissimi, siamo considerati, non ci sono gare. Ci deve essere allora qualcosa che non funziona qui, da noi, nel nostro cuore. Cosa pensa dell’Expo? Penso che all’inizio sembrava che le cose andassero come sempre, in Italia. Poi, qualcosa è cambiato, qualcosa è accaduto e l’Expo si è aperto felicemente. Non so se sarà un grande successo, certamente è già un successo, non solo per chi ci ha lavorato ma per il paese. è un tema d’immagine ma soprattutto e prima di tutto di sostanza.

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cemento straordinario, frutto di una ricerca assoluta e disinteressata. Non mi meraviglia. Io volevo fare l’architetto ma poi mio padre, che aveva una personalità molto forte, mi convinse a lavorare con lui. La ricerca, in architettura, nei materiali come nella gioielleria, deve essere assoluta e disinteressata, si fa per amore della ricerca. La commercializzazione è un secondo momento, nemmeno il più importante. Studiare per vendere non funziona, creare per fare soldi non funziona. Si crea per amore della creazione, si studia per amore dello studio. Si fa bellezza per amore della bellezza e se è vera bellezza allora tutto viene di conseguenza. è questo il segreto dell’immagine di Bulgari? Devi lavorare molto e devi tenere sempre presente la qualità. Io lotto per la qualità ogni giorno e sono sicuro che lo fa chiunque voglia raggiungere o mantenere un risultato. Io e mio fratello lavoriamo ogni giorno con un gruppo di giovani manager di alto livello. Penso che il nostro successo sia basato soprattutto sulla buona comunicazione fra noi e i nostri manager. Quale è la sua pietra preferita? Lo smeraldo. Lo conosco molto bene, ho dedicato allo smeraldo una parte importante della mia vita ma i suoi misteri continuano ad affascinarmi. C’è un gusto italiano nella scelta delle pietre? Gli italiani, almeno fino ad adesso, compravano molti gioielli perché sapevano come vivere bene e quali erano i veri valori, per esempio che la gioielleria non si compra per mostrarla, per esibizione, ma per se stessi. è qualcosa che cambia il proprio concetto di sé. Gli italiani preferiscono per questo pietre colorate, come rubini, zaffiri, e smeraldi ovviamente. Lei è un appassionato di bellezza contemporanea? Se si riferisce all’arte, sì. Ho una modesta collezione. Però devo dirle che in questi ultimi tempi la capisco sempre meno, soprattutto in senso finanziario. Continua a essere interessante per me, ma trovo le sue logiche poco comprensibili. Cosa significa Bulgari oggi?

A proposito di sostanza, Palazzo Italia, il simbolo del nostro paese, è fatto con materiali biodinamici, un

Penso che sia un nome importante per l’immagine dell’Italia. Ma soprattutto è un esempio, di come solo la passione, la bellezza e la storia possono costruire il futuro.

PAOLO BULGARI — Paolo Bulgari speaks very little, and almost never with the writer. He’s a tall, stern-looking man with a pair of somber blue eyes. He has a contagious smile, however, that breaks out suddenly as he remembers the origin of everything, at the end of the nineteenth century, when the silversmith Sotirio Bulgari fled Epirus as it was devastated by the war between Greece and Turkey, to seek his fortune in Naples and then in Rome, where he opened a shop on Via Sistina. The year was 1884, the beginning of the fashion house that would become synonymous with a certain idea of beauty, and of Italy in the world.

A reluctant law student, with a secret passion for architecture, Paolo spends his afternoons in the shop that is still alive with memories of his grandfather and where his father, Giorgio, insisted that he designed necklaces, rings, and bracelets. A strong character, Giorgio was. He wanted Paolo to work in the family business, perhaps rightly so, since the jewelry that the boy would design would come to be prized, above all by Hollywood actresses, from Anna Magnani to Lauren Hutton and Elizabeth Taylor. Then, of course, there would be the bored heiresses, the fanciful tycoons, the shrewd artists, the paternalistic industrialists and enthusiastic


sheikhs—the brightest of the jet set in a world yet to be globalized, a world for which Italy was synonymous with beauty, know-how, and the good life. If Sotirio had distinguished himself as an extraordinary artisan and a skilled entrepreneur, able to open shops in the most fashionable places of his time— Sanremo, Bellagio, Naples, Sorrento, Saint Moritz—Giorgio was a different man altogether, cosmopolitan, with a strong aesthetic sense, capable of building relationships and envision scenarios. Quite different from his brother, Costantino, as well, who was more intellectual and shy but who was by his side since the late 20s, Giorgio made an aesthetic and conceptual breakthrough. He abandoned the style that was in vogue at the time, inspired by Paris, and created his own style, independent and profoundly Italian. It is the Bulgari style, which elaborates on the sense of volume, the classical forms, and above all, impactful color combinations made with strong intuition. This is the school that moulded Paolo and his brother Nicola, who in their turn would consecrate the fashion house as an emblem of Italian excellence by introducing new conceptual variations, like when they mounted ancient coins on their jewelry—a modular, recurring theme, as in Tubogas, the bracelet watches that have seen an infinitude of imitations, so much so that today the brand is part of the LVMH group. Bulgari CEO, Jean-Christophe Babin, asked Paolo to be President but to retain that imaginative beauty that he made use of every day for more than thirty years as Creative Director.

My son Giovanni and I built a winery and vineyard in San Casciano dei Bagni, in the south of Tuscany. A gorgeous place, where you can breathe in the culture, the sense of community, deal with the history and the territory, unique resources, art and craftsmanship. The winery was designed by a brilliant young architect, Massimo Alvisi. A considerable investment, believe me, but even more so a gesture of passion, of desire for life. Well, it took us more than two years to get the proper permits, with a risk of not being able to do it. Then, of course, those who aren’t asking permission are filling Italy up with horrors.

Obligatory meeting, compulsory question. It’s quite alright. Beauty existed at one point, but I doubt that it still exists. If you of all people are saying this, it must be serious. What happened? I don’t know. But something happened. Is it Italy’s fault? I’ve been pessimistic about our country for many years. I’m critical. Have you been disappointed by politics? Very much so. For years I’ve been voting for worthy politicians who only take 3%. So you have unpopular tastes, even though you’re Bulgari. We don’t realize it, but we’re provincial. Our politicians don’t travel, so they don’t see how the world works. Even just with Europe, there’s too much distance, and the risk is serious, believe me. You really don’t like Italy anymore. It’s a strange country, difficult to analyze. There are a lot of things I don’t understand anymore. Sometimes I think that we no longer value democracy. Take Rome for example. Let’s. What’s happened in Rome? An unexpected deterioration. It wasn’t like this before, it’s never been like this. We’re still living on the backs of our ancestors, but this won’t last long. It’s not just a political issue, it’s a cultural problem, a matter of values, to understand who we are and what we can do. Walking around the city center, and specially in the suburbs, we don’t see any of this, it’s all out of sight. With the tourists it’s much the same, they say. But it’s not how it really is, and we’ll see it soon enough. Have you ever thought about leaving? Not really. I spend seven or eight months at a time in Italy and the rest of the year I’m abroad. Again, it’s difficult to stay and plan for a future here, but on the other hand, Italy is a country with strong resources, a fact that’s often lost on Italians themselves. Let’s say that I still have hope in this potential. What can we do to find that potential and make good use of it? Before you can do, you need to think, study, understand. Then, maybe you can try to do something. Take Matteo Renzi for example. Ok, let’s talk about him. Renzi seems to want to change things but he can’t; he’s not able to tell the truth in the way that Winston Churchill could. Luckily you’re an entrepreneur. Keep in mind that to be an entrepreneur in Italy, you have to be a superhero, because everything is working against you. Do you like Europe? We’re living in a time of great change, in which Europe is being choked on both sides, by America and the East. Unfortunately, to make Europe you need more than finance; those who imagined it were afraid of a Third World War. But bringing together such different cultures is almost impossible. If Napoleon couldn’t succeed… Which other countries are you drawn to? The Emirates. Middle Eastern countries. Asia. What are some other problems with Italian politics? Italy hasn’t protected its craftsmanship or its agriculture. And it’s set beside the idea of beauty as splendor, as a privilege, while beauty is the only thing that is truly needed and essential. It is the essence of a civilization and the engine of its economy. Especially in Italy. Can I tell you a simple but meaningful personal anecdote? Perhaps.

What is your advice? What do you tell them when they work? To not feel like they’re artists, but try just to be craftsmen. It’s already a lot. Because a lot of creatives imagine themselves as Picassos, but in my profession that doesn’t work. Again, you need humility.

The clever fools, as Giuseppe Prezzolini called them. The most beautiful country in the world, inhabited by devils, as Goethe said. Goethe lived in Italy for two years, though. And it’s only after his journey that he writes of having understood. He was right, especially when he talked about tradition and baby steps. I learned this work through experience, slowly, step-by-step. It’s the slow sedimentation of gestures and words that makes the difference. The craft is learned in the crafting, as it should be done. Beauty is sedimentation? Beauty is a vocation and an art, but it takes a lot of humility to pursue it, believe me. You were creative director for thirty years. Who do you like to work with the most? Right now, they are all Italian designers, except for one who’s Korean and another who’s Japanese. Extraordinary.

Do you consider yourself a craftsman? I’m proud to be a craftsman. A craftsman and a businessman. Is this the secret for Italy, knowing how to combine craftsmanship and business sense? I woud say so. It’s a certain type of craftsmanship, the Italian sort. It’s one of a kind. You can see it also in fashion. An ancient knowledge, slow, that creates beauty, and it’s not taken into any consideration at all by the political system. And it’s amazing because when we go abroad we’re great, we’re respected, there’s no competition. So there must be something that’s not working here, with us, in our hearts. What do you think of Expo? I think that, at first, it seemed like business as usual for Italy. Then, something changed, something happened, and it opened swimmingly. I don’t know if it will be a huge success, certainly it is already a success, not only for those who worked to put it together but for the country as a whole. It’s a matter of image, sure, but above all it’s a matter of substance. Speaking of substance, Palazzo Italia, the symbol of our country, is made with biodynamic material, an extraordinary cement that came out of serious and selfless research. It doesn’t surprise me. I wanted to be an architect but my father, who was a very strong personality, convinced me to work with him. In architecture, materials research, as in jewelry, has to be serious and selfless, you have to do it for the love of research. Commercialization comes later, and it’s not even the most important part. Studying to make sales doesn’t work, creating to make money doesn’t work. You create for the love of creating, you study for the love of studying. You create beauty for the love of beauty, and if it’s true beauty then everything else will follow. Is this the secret of Bulgari’s image? You have to work a lot and always keep quality in mind. I fight for quality every day and I’m sure that anyone who really wants to achieve or maintain a result does the same. My brother and I work every day with a group of young senior managers. I think that, above all, our success is based on good communication between us and our managers. What is your favorite stone? The emerald. I know it quite well; I’ve devoted an important part of my life to the emerald, but its mysteries continue to fascinate me. Is there an Italian taste in the selection of stones? Italians, at least before now, bought a lot of jewelry because they knew how to live well and what real values were, for example that jewelry was not bought to show off, for display, but for yourself. It’s something that changes your self-image. Italians prefer colored stones, like rubies, sapphires, and of course emeralds. Are you passionate about contemporary beauty? If you’re referring to art, yes. I have a modest collection. But I have to say that, these days, I understand it less and less, especially in a financial sense. It’s still interesting for me, but I find its logic incomprehensible. What does Bulgari mean today? I think that it’s an important name for Italy’s image. But above all, it’s an example of just how passion, beauty, and history can help to build the future.

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Brunello Cucinelli

“Industriale e stilista”, il” principe del cashmere”, il “filosofo di Solomeo”. Ormai in tante versioni è stato definito Brunello Cucinelli, che alla fine però resta quello che era all’inizio: un umanista, un imprenditore con una visione precisa che mette al centro l’uomo e non il mercato, la bellezza, l’eccellenza e i valori unici, che durano nella storia.

Per capirlo basta ascoltarlo, mentre racconta il suo borgo e il suo lavoro muovendo la testa leggermente da un lato all’altro, come le madonne di Duccio, che mettono insieme il cielo e la terra. Con eleganza e pudore. Pur sapendo rispondere con la lucidità di un analista finanziario, Cucinelli preferisce affidarsi agli aforismi e alle citazioni dei suoi amati classici. Proprio come faceva un intellettuale prestato alla politica, il presidente della Repubblica francese François Mitterrand. In realtà però quella di Cucinelli non è retorica di un erudito che esporta in 59 paesi del mondo. Né l’espediente di marketing suggerito da un sagace spin doctor. Piuttosto uno stile, autentico e personalissimo, che corrisponde a una vocazione, a un confronto quotidiano con Alessandro il Macedone, Benedetto da Norcia e Lorenzo il Magnifico, con cui Brunello si sente di dialogare, che uno ci creda o no. Fondatore dell’omonima industria di abbigliamento in cashmere, secondo Bloomberg Businessweek, Cucinelli ha raggiunto lo status di miliardario il 9 maggio 2013, con il possesso del 65% delle quote, un pacchetto azionario valutato circa 947 milioni di dollari che si spinge a 1,5 miliardi se si considera la capitalizzazione di mercato, quotata alla Borsa di Milano. Eppure, Brunello vive, lavora e si allena ogni giorno che Dio manda in terra a Solomeo, il piccolo borgo in Umbria dove è nata sua moglie Federica, che lui ha acquistato e salvato dal degrado trasformandolo in una grande bottega medievale, con servizi per i dipendenti tra cui un teatro che offre una stagione di profilo notevole. Completamente gratis. Bellezza per Cucinelli è un valore cruciale, non solo estetico ed economico ma metafisico, cioè spirituale. Bellezza che in lui nacque come reazione alla tristezza, “quella che da ragazzo vedevo negli occhi di mio padre, un agricoltore felice che trapiantato in fabbrica dopo la fine della mezzadria divenne un operaio infelice”. Fu la spinta fondamentale della vita, che si percepisce ancora nitidamente nei risvolti delle giacche, nel

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sorriso dei collaboratori, nell’organizzazione di un’azienda secondo la regola di San Benedetto, le visioni di Leon Battista Alberti, le ipotesi di Adriano Olivetti. L’industriale italiano che più gli somiglia, quest’ultimo, che voleva un orario di lavoro ridotto e meglio pagato, la divisione degli utili ai lavoratori e un mondo di prodotti belli ed efficienti. Non guarda la televisione Brunello, ha comprato un aeroplano solo per riuscire a tornare a dormire a casa e passa il (poco) tempo libero a occuparsi delle nipotine. Tutelare la dignità dei lavoratori per lui non è una formula astratta ma una realtà concreta, perché prima di tutto quelle sono persone, esseri umani dove lo spirito vale più della materia. E dove la via d’uscita dal consumismo non è consumare molto meno ma molto meglio. Una prospettiva che se può avere un senso per il futuro della moda ne ha molto di più per quello della società, che secondo il celebre economista francese Thomas Piketty è condannata alla contrapposizione tra capitalismo e umanesimo. Cioè all’inevitabile crescente diseguaglianza nel mondo. Un’idea su cui Cucinelli ha molto da dire.

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Certo uno stilista che invita a comprare meno vestiti… Se devo essere a dieta e mi è consentito mangiare solamente una piccola porzione di spaghetti voglio che quegli spaghetti siano perfetti. O no? Oppure passare direttamente alla frutta. Cerco di tornare sempre a casa la sera, ma per molte settimane mi capita di rimanere fuori. L’ultima volta, nella camera di un grande albergo, ho trovato come omaggio del direttore un enorme cesto di frutta, almeno di dieci chili.

Da dove nasce questa idea? Dalla storia e dall’emozione. Le città italiane risentono ancora dell’influsso di Adriano, Lorenzo, Vitruvio, Palladio. Sono loro ad aver elaborato i canoni che dall’architettura sono passati alla società e agli individui. Quando sei in Italia o un italiano è fuori dall’Italia si è riconoscibili. Quali altri valori caratterizzano il nostro canone?

Un bel gesto.

La famiglia, la spiritualità, la bella politica.

Ne sono stato lusingato, ma avrei preferito trovare una sola mela che fosse di stagione o magari un’unica pesca succosa e lucente che rappresentasse alla perfezione la stagione in cui eravamo.

Bella politica? In Italia?

Consiglia la dieta, dunque? Tutti dobbiamo seguire una dieta. Tutti dobbiamo tenere sotto controllo la bilancia e consumare meno. Soprattutto, tutti dobbiamo tornare alla bellezza. Su questo però sono più ottimista che sulla dieta… Anche la bellezza è cambiata. Questo è vero. Ma non è detto che sia un bene. Nella storia il fine dell’arte è sempre stata la bellezza. È la regola del mondo, diciamo. Eppure negli ultimi 50 anni per la prima volta il fine dell’arte è diventato la novità. Un cambiamento radicale, che spiega tante cose e non tutte belle. Ma io penso che il fine dell’arte resti la bellezza, non la novità. Anche in questo va d’accordo con l’imperatore Adriano. È così. Per Adriano l’ordine del mondo è la prima bellezza. Per questo invitava a sentirsene responsabili, perché se faccio edificare qualcosa che non è bello avrò peggiorato il mondo. A Solomeo ho provato, e ne sono modestamente entusiasta. Esiste una bellezza italiana? Qualche giorno fa ero ospite al Teatro Palladio di Vicenza e poi a Sabbioneta. Non c’ero mai stato. Mi sembrano buone risposte alle tue domande. La bellezza italiana è eterna,

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immediatamente riconoscibile e vale in molti settori: l’abbigliamento, l’architettura, la meccanica, il cibo.

Seguimi un momento, prima di sorridere. Stiamo uscendo da una crisi umana più che economica, civile ed etica più che politica. È durata almeno 20 anni, forse 30. Ma come diceva Eraclito, mentre le cose riposano, il mondo si rigenera. Se pensi a due decenni fa non potrai non rilevare che avevamo valori diversi. Anche la politica è diversa, anche il governo è diverso, finalmente ha imboccato la strada delle riforme, quella del lavoro soprattutto, che è molto coraggiosa e considerata importantissima in tutto il mondo. C’è ancora molto da fare, prima di tutto portando la disoccupazione al massimo intorno all’8%. Ma la strada è questa. Anche l’idea degli 80 euro è giusta? Non è ancora sufficiente, ma va nella direzione giusta. Ottanta euro al mese non vanno nella direzione dei consumi, come insegna la teoria del ciclo vitale di Modigliani, ma in quella della dignità dell’uomo. Il problema è proprio questo, la dignità economica. Oggi diventa molto difficile farcela con mille euro al mese, quindi è indispensabile che queste persone guadagnino di più, magari riducendo i contributi. D’altra parte il lavoro è cambiato, profondamente: oggi l’artigiano per esempio di sartoria usa forbici e ago ma anche l’iPad per studiare i modelli e il laser per tagliare i tessuti. Accade ovunque si declini la nostra manifattura: dall’agroalimentare all’aerospaziale, alla meccanica di pregio. E la sera i giovani raccontano di fare i baristi o i meccanici


senza vergognarsene. Tutto ha riacquistato dignità morale. Questo è importantissimo. L’ho verificato nella mia azienda. In che modo? Da noi lavorano 1.300 persone. La loro età media è di 36 anni. Ho chiesto a un migliaio, i più giovani, di raccontarmi come vivono, in che cosa credono. E ho constatato che hanno una nuova consapevolezza su come usare il Creato. Io lo chiamo declino di un certo consumismo. Consumismo, d’altronde, è una parola brutta anche per Epicuro, che credeva che l’essere umano deve curare l’anima, cioè ricercare la sua felicità, e il corpo, utilizzando tutto ciò che il Creato gli dona. Epicuro però diceva che ci si fermava lì, che non si andava oltre. Appunto. Il senso del limite. Lo stiamo ritrovando, anche grazie al nostro amatissimo Papa. Le piace Papa Francesco? Sono letteralmente innamorato del Papa. Sta guidando il risveglio, perché parla all’uomo prima che al credente. Papa Francesco è un grandissimo innovatore. Ci risveglia continuamente, richiamandoci a non volgere le spalle ai poveri, a non giudicare, a essere custodi del Creato. Della bellezza del Creato, a cui tutti contribuiamo. Francesco parla un linguaggio e prende decisioni che non tutti condividono, a partire dalla Chiesa. Io rispetto tutti ma mi permetto di dire che questo Papa parla con grande semplicità, in un linguaggio comprensibile a tutti e tocca temi fondamentali. Da questo deriva anche l’ottimismo che vedo e che sento in Italia, che per me sta entrando in un momento magico. Del resto, ci pensi, facevamo soprattutto i contadini, abbiamo vissuto momenti durissimi e non posso che registrare che le cose migliorano e non solo da noi. Se fossi il “reggitore dell’universo”, come diceva Sant’Agostino, dovrei essere soddisfatto: la ricchezza complessiva prodotta, lo scorso anno, è aumentata del 3%.

Oltre al Papa, chi dobbiamo ringraziare? I fattori che aiutano a crescere sono l’euro debole, il petrolio ai minimi, il nuovo governo di Matteo Renzi, e naturalmente Mario Draghi. Il governatore della Banca centrale europea. Un altro appassionato di bellezza, di arte, di storia. Non dubitavo. Io stimo molto un Draghi che immette nel sistema una quantità di denaro con un’intuizione formidabile, perché compie un gesto unico e innovativo, un aiuto incredibile per il nostro modo di produrre e di vivere, per la nostra cultura, il nostro territorio. Parlo con imprenditori di ogni nazionalità e tutti ci invidiano questi asset, che ci indicano con precisione dove si trova il nostro futuro: nei prodotti di fascia alta dove siamo forti e dove abbiamo una tradizione inimitabile. Di bellezza. Anche l’Expo corrisponde a questa voglia di ripresa e di bellezza italiane? Sa cosa mi piacerebbe conoscere? Chi ha deciso il tema. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Non poteva essere migliore per noi. Perché? Perché tratta la Terra, la sua dignità profonda, e lo fa concentrandosi sull’Italia, la culla della terra e soprattutto del territorio, ovvero l’identificazione dell’uomo con la terra. Secondo me Augusto, un personaggio che ho amato e di cui sono ricorsi i 2 mila anni dalla morte nel 2014, ne sarebbe andato fiero. Ha visto Palazzo Italia? Che ne pensa? è un progetto straordinario, innovativo sotto ogni profilo eppure inserito nella grande tradizione italiana. è una delle espressioni di quella bellezza di cui si parla, un luogo dove cogliere la profondità della riflessione sul cibo e sulla terra. Ad Augusto sarebbe piaciuto? Penso proprio di sì.

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Brunello Cucinelli — “Manufacturer and designer,” the “Prince of Cashmere,” the “Philosopher of Solomeo.” By now Brunello Cucinelli has been called many things, but in the end, he remains what he was at the beginning: a humanist, an entrepreneur with a clear vision that places emphasis on people instead of the market, on beauty, on excellence, and on unique values that pass the test of time. To understand him, you only have to listen as he talks of his village and his work, moving his head slightly from side to side, like the Madonnas of Duccio, who bring together the heavens and the earth with elegance and modesty. Despite being able to respond with the clarity of a financial analyst, Cucinelli prefers to rely on aphorisms and quotations from his beloved classics, much like the political intellectual François Mitterrand, the President of France. In truth, however, this characteristic of Cucinelli is not just the rhetoric of an intellectual who exports to 59 countries worldwide, nor is it a marketing gimmick put forth by some shrewd spin doctor. Rather, it is an authentic and personal style that corresponds to a vocation consisting of daily confrontation with the likes of Alexander the Great, Benedict of Norcia, and Lorenzo de’ Medici, with whom Brunello is said to have an inner dialog, whether you believe it or not. Founder of the eponymous cashmere-based fashion brand, Cucinelli achieved billionaire status on May 9th, 2013 according to Bloomberg Businessweek, with his ownership of 65% of company shares, a stake valued at roughly $947 million, which goes up to $1.5 billion following market capitalization, as listed on the Milan Stock Exchange. Yet, Brunello lives, works, and trains every day in Solomeo, the small village in Umbria where his wife Federica was born, which he bought, saving it from degradation, and transformed into a large, medieval company workspace, with services for employees, including a theater with an impressive season of performances, all completely free of charge. Beauty, for Cucinelli, is of crucial value, not just aesthetically and economically speaking, but also in terms of metaphysics—that is to say, of spiritual value. For him, beauty arose initially as a reaction to sadness: “that which, from boyhood, I saw in the eyes of my father, a happy farmer who was transplanted into a factory at the end of sharecropping, becoming instead an unhappy worker.” It was the fundamental impulse of his life, which can still be found in the lapels of jackets, in the smiles of the staff, in the organization of his company according to the rule of St. Benedict, the visions of Leon Battista Alberti, and the hypotheses of Adriano Olivetti. He’s the Italian industrialist who most resembles the latter of these, having called for shorter working hours with better pay, profit sharing for employees, and a world of beautiful and more efficient products. Brunello doesn’t watch television, and he bought an airplane just so that he can return home to sleep and spend what little free time he has taking care of his young grandchildren. Protecting the dignity of workers is not some abstract formula for him, but a concrete reality, because first of all, they are people, human beings in which the spirit is more important than matter. For him, the path away from consumerism is not to consume much less, but much better, a perspective that makes as much sense for the future of fashion as it does for the future of society, which, according to the famous French economist Thomas Piketty, is condemned to the opposition between capitalism and humanism, that is to say, the inevitable growing inequality in the world. This is a subject Cucinelli has a lot to say about.

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Certainly a designer who invites people to buy less clothes… If I need to be on a diet and I’m only allowed to eat a small portion of spaghetti, I want that pasta to be perfect, don’t I? Or just go straight for the fruit. I always try to return home at night, but I sometimes stay away for many weeks. The last time this happened, in the room of a large hotel, I found, as a sort of tribute by the director, a huge basket of fruit, at least 10 kilos. A nice gesture. I was flattered, but I would have preferred to find a single apple that was in season, or maybe a single shiny, juicy peach to perfectly represent the current season. You recommend the diet then? All of us should follow a diet. We all need to keep the scale under control and consume less. Above all, we must all return to beauty. On this however, I’m more optimistic than I am about the diet… Even beauty has changed. This is true. But nobody says it’s a good thing. Throughout history the aim of art has always been beauty. And the rule of the world, we say. But over the last 50 years, for the first time, the aim of art has become novelty. A radical change, which explains many things, not all of them beautiful. But I think that the aim of art is still beauty, not novelty. In this you’re also in agreement with Emperor Hadrian. That’s right. For Hadrian, the order of the world was the first beauty. That’s why he called on everyone to take personal responsibility, because if you build something that is not beautiful, you will have worsened the world. With Solomeo I’ve tried, and I’m modestly enthusiastic. Does Italian beauty exist? Some days ago I was a guest at the Palladium Theater in Vicenza, and then in Sabbioneta. I had never been before. They seem like good answers to your question. Italian beauty is eternal, immediately recognizable and valued in many sectors: clothing, architecture, mechanics, food. Where does this idea come from? From history and from emotion. Italian cities are still experiencing the influence of Hadrian, Lorenzo, Vitruvius, Palladio. They are the ones who developed the standards that through architecture are passed on to society and individuals. When you are in Italy, or an Italian is abroad from Italy, it’s recognizable. What other values are part of our standards? Family, spirituality, good politics. Good politics? In Italy? Follow me for a moment here, before smiling. We are emerging from a crisis that is more human in nature than it is economic, civil and ethical rather than political. It’s lasted at least 20 years, maybe 30. But as Heraclitus said, while things rest, the world is regenerated. If you think about 20 years ago, you can’t help but notice that we had different values. Even politics is different, even the government is different, it’s finally embarked on the path of reform, above all in terms of labor, which is quite brave and considered important all over the world. There’s still a lot to be done, first of all bringing unemployment down to a maximum of 8%. But this is the path. Even the 80 euros idea is right?


It’s still not enough, but it’s on the right track. Eighty euros per month don’t come close to the direction of consumption, as taught by the Modigliani life-cycle theory, but they do go in the direction of human dignity. The problem is just that: economic dignity. These days it’s hard to get by on a thousand euros a month, so it’s essential that these people earn more, maybe reducing contributions. On the other hand, work has changed, profoundly. Today the artisan, for example a tailor, uses scissors and the needle but also the iPad to study patterns and the laser to cut fabrics. It happens in all of our manufacturing sectors: from agriculture to aerospace engineering and mechanics. And in the evening young people talk of being bartenders or mechanics without shame. Everything has regained moral dignity. This is very important. I’ve verified it in my own company. In what way? We have 1,300 people working with us. Their average age is 36. I asked a thousand of them, the youngest, to tell me how they live, and what they believe in. And what I found is that they have a new awareness of how to use the Creation. I call it the decline of a certain kind of consumerism. Consumerism, however, is a bad word even for Epicurus, who believed that human beings must heal the soul, that is, to seek their own happiness, and the body making use of all that Creation provides. However Epicurus said that we should stop ourselves there, that we don’t go beyond. Exactly. The sense of limits. We’re finding it again, thanks to our beloved Pope. You like Pope Francis? I’m literally in love with the Pope. He is leading the revival, because he speaks to the man before the believer. Pope Francis is a great innovator. He constantly awakens us, reminding us not to turn our backs on the poor, not to judge, to be stewards of Creation. He reminds us of the beauty of Creation, to which we all contribute. Francis speaks a language and makes decisions that not everyone shares, starting with the Church. I respect everyone, but I would say that this Pope speaks very simply, in a language that everyone can understand, touching fundamental issues. This is also where some of the optimism that I see and feel in Italy is coming from, which for me is taking us into a somewhat magical moment. Moreover if you think about it, especially regarding the farmers, we’ve lived through some hard times, and I can’t but notice that things are getting better, and not just by us. If I was the “ruler of the universe,” as St. Augustine said, I should be satisfied: the total wealth produced last year increased by 3%. Besides the Pope, who should we thank? Factors helping growth are the weak euro, oil at a minimum, the new Renzi government, and of course Mario Draghi. The governor of the European Central Bank, another enthusiast of beauty, art, and history. I had no doubt. I highly respect Draghi, who is injecting into the system a large quantity of funds with tremendous intuition, because he’s carrying out a unique and innovative program, an incredible help for the way we produce and live, for our culture, our territory. I talk to entrepreneurs of all nationalities and everyone envies these assets, which show us with precision where we will find our future: in high-end products, where we are strong, and where we have an incomparable tradition. Of beauty.

Does Expo also correspond to this desire to reclaim Italian Beauty? You know what I’d like to know? Who chose the theme, “Feeding the planet, energy for life.” It couldn’t be better for us. Why? Because it deals with the Earth, its profound dignity, and does so while focusing on Italy, the cradle of the earth and especially the land, namely the identification of man with the land. I think to Augustus, a figure who I loved and go back to 2000 years after his death; he would have been proud. Have you visited Palazzo Italia? What do you think? It’s an extraordinary project, innovative in every respect yet placed firmly within the great Italian tradition. It’s one of the expressions of that beauty that we speak of, a place to grasp the profundity of reflections on food and land. Augustus would be pleased? I really think so.

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Massimo Della Ragione

Due città, Londra e Milano. Due vite, manager e professore. Un’idea, la bellezza. L’Italia può farcela, sostiene Massimo Della Ragione, a condizione di mettere a punto un sistema integrato che punti al futuro guardando al passato. Un sistema fondato sui suoi assets patrimoniali e immateriali. Di cui il più importante è proprio lei, la bellezza.

Co-head per l’Europa di Goldman Sachs, dove è partner dal 2010, Della Ragione è uno strano mix di manager, accademico, appassionato d’arte e cultura. Unico speaker italiano invitato alla conferenza 2015 della London School of Economics, il cui motto guarda caso è “Rerum Cognoscere Causa”, conoscere la causa delle cose, Della Ragione crede che in Europa stia per cambiare tutto. Soprattutto dopo la svolta impressa ai mercati dal governatore Mario Draghi. Un’energia che va oltre il flusso di capitali del quantitative easing, un progetto che disegna una nuova architettura culturale, dunque economica. In questa nuova mappa, la direzione per raggiungere la destinazione, ovvero la creazione di valore, passa per la creazione del senso, un percorso in cui la storia e la bellezza per Della Ragione giocano un ruolo cruciale. Solo attraverso la messa a sistema del genius loci, delle specificità, delle unicità italiane si può pensare di attrarre la quota maggiore di investimenti finanziari. Solo su questa base l’Italia e il suo sistema industriale sono considerati dal mercato solidi e affidabili. Nonostante la crisi. Fra i banchieri d’affari italiani più rispettati nel mondo, a dispetto dell’età (50), e soprattutto fra i massimi esperti europei di istituzioni finanziarie, Della Ragione ha gestito la fusione cross-border tra UniCredito e Hvb, la cessione della Bnl ai francesi di Bnp Paribas, la privatizzazione del Mediocredito Centrale, l’acquisizione del Banco di Napoli da parte di San Paolo Imi. Tutto pensando a Leonardo da Vinci, un punto di riferimento essenziale. “Per andare a scuola e poi a lavorare Leonardo faceva quaranta chilometri al giorno all’andata e al ritorno. E durante il percorso rifletteva, pensava a quello che vedeva”. Un panorama di bellezza, prima di tutto. Lo stesso che si può tornare a vedere domani, non solo in Toscana.

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Con un banchiere partirei dal centro della bellezza, il valore. Io la prenderei larga invece, con un paragone storico. Toscana 1300-California 2015. Proceda, per favore. Sono un appassionato di Toscana, ci torno ogni volta che posso, ma per anni non avevo mai capito quello che per me era un mistero. Il mistero della bellezza. Cosa l’affascinava? Mi domandavo: perché tra il 1300 e il 1500 un pezzo di terra grande come un quinto della California crea il 60% del patrimonio dell’umanità? Come è possibile? Lo storico Jacques Legoff non aveva risposte. “Miraggio urbano”, scriveva. Ubi maior, per carità. Però negli anni un’idea modestamente me la sono fatta. Nella Toscana del Trecento c’era un combinato disposto di cose che spiegano molto, se non tutto: c’era un clima favorevole, un territorio favorevole, una classe dirigente illuminata, risorse economiche a disposizione. E soprattutto c’era un’idea. Provo a indovinare. Bellezza? Di più, investire in bellezza. In Toscana nel XIV secolo c’era gente illuminata che finanziava opere artistiche, lo stesso che accade oggi in California nella tecnologia. Perché lo facevano secondo lei? Per gli stessi motivi di oggi. Stessa generazione, stessa università, stessa sensibilità, stessi interessi. Mi spiego? Abbastanza. Ma si può invertire il tempo, ricreando queste condizioni e per di più non nella Toscana del 1300 ma nell’Italia del 2015? Sono certo di sì. È un ottimista? Con senso critico. Sono un ottimista atteggiato a cinico. Stiamo ai fatti. Stiamo ai fatti. Credo di essere un discreto operatore di business, un positivo con senso critico, appunto. Ecco, secondo me se c’è un paese al mondo dove le condizioni della Toscana del Trecento si possono ricreare non è la California, dove già ci sono, ma paradossalmente proprio l’Italia.

Allora è facile. C’è un però. Una condizione difficilissima. Occorre aprirsi. Significa incrementare la concorrenza, aumentare la trasparenza, garantire la certezza del diritto e rompere quelle corporazioni che ai tempi furono un fattore critico di successo. Una nuova lotta al potere? In Italia? No, non si tratta di lotta al potere, quelle sono sciocchezze. Io ho in mente Leonardo da Vinci. Leonardo da Vinci, ecco. Sì, proprio lui. Per andare prima a scuola e poi a lavorare, Leonardo faceva quaranta chilometri a piedi. Tra andata e ritorno. Mens sana in corpore sano? Tutto parte dalla testa. Perché sa cosa faceva Leonardo durante il percorso? Osservava? Pensava? O forse malediceva di non avere un cavallo. Rifletteva su quello che vedeva. Era l’accademia migliore al mondo, quella, perché Leonardo era lì, andava a bottega non perché era “figlio di” ma perché lo voleva, lo desiderava e ne aveva le capacità. In effetti il padre non lo riconobbe mai. Anche per questo dovette usare l’unica dote che aveva, dalla natura. Questo voglio dire. L’Italia ha tutto in dote, però occorre aprirsi, attuare meccanismi virtuosi, attirare i migliori. Ritornare a pensare, insomma. Prenda la Bocconi. È diventata una delle top al mondo perché ha accettato una sfida. Una sfida europea e globale, non italiana. Perché si è pensata come espressione di una élite mondiale, non di un club cittadino, per quanto aristocratico e d’eccellenza. Mi spiego? Ma come convincere un ragazzo di Londra a scegliere Milano invece che Oxford? Come lo convinceva la Firenze di Leonardo, che era una capitale del mondo e non di una regione. Questo ho detto alla Global Conference degli Alumni della Bocconi a Londra. Ho spiegato a genitori inglesi perché era auspicabile far studiare i figli a Milano. E non a Oxford. C’è riuscito? Credo di sì. Per diversi motivi, il primo dei quali è che

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ormai sono allo stesso livello. Poi perché è un ambiente internazionale e non inglese. Quindi perché se a un tratto lo si dovesse considerare un errore non sarebbe un errore reversibile, non brucia opzioni, anzi. Infine, ci metterei anche l’attuale gruppo dirigente. Giovane, motivato, il prototipo della dirigenza accademica del futuro, radicato nella tradizione ma anche nel contesto globale. Il fatto che la Bocconi abbia espresso per esempio un rettore come Andrea Sironi, 50 anni, per me è la dimostrazione che siamo sulla strada giusta, che l’Italia ce la può fare. E io dico che ce la farà. Torniamo alla bellezza. Cosa pensa dell’Expo? E di Palazzo Italia? Un esempio di quello che le ho appena detto. Il gusto è soggettivo, i fatti meno. La prova di forza data dall’Italia con l’Expo è un argomento culturale, quindi economico. Molte cose che sembrano impossibili sono alla nostra portata. Palazzo Italia è un buon esempio. Resterà per molti motivi, ma prima di tutto come segno d’innovazione concettuale, oltre che di architettura e materiali biodinamici. Il Louvre fattura come tutti i musei italiani. Senza essere biodinamico… Ma questo è un dato incoraggiante. E non voglio giocare con i paradossi. Il tema è culturale, ripeto, non economico. Se il Louvre fattura come tutti i musei italiani è evidente che si può solo migliorare, portandoli allo stesso livello del Louvre. Crede che gli Uffizi valgano di meno? Se poi si potessero rendere biodinamici…

Gli Stati Uniti d’America? Risposta esatta. Però, continua Blankfein, se avessi fatto questa domanda a un americano nel 1915, nel 1929, nel 1943, nel 1959, nel 1968, nel 1977 non lo avrebbe detto. Torniamo a un esempio meno culturale. Il Bayern Monaco, la squadra di calcio. Fattura 500 milioni di euro, come la somma dei primi club italiani. Sa qual è il segreto di questo fenomeno? Dotarsi di uno stadio privato. E fare sistema. Se tutti i club si dotassero di uno stadio si metterebbero soldi privati al servizio dei consumi, creando posti di lavoro. Monaco è in Germania. Si può fare anche in Italia? Certo che si può fare. Guardi il caso della Juve e ora dell’Udinese e della Roma. La logistica è un tema culturale, non etnico. Di bellezza prima che d’economia. Firenze attirerebbe più turismo con lo stadio della Fiorentina? Con lo stadio e un sistema integrato di comunicazione tra l’aeroporto, la stazione e gli Uffizi. Era l’idea dei Medici, ci rifletta: integrazione di funzioni sociali ed economiche fondate sulla cultura, in particolare sulla bellezza. Un circolo virtuoso che aprendo e includendo realizzava metafore di senso e creava valore, ricchezza, potere. Ma abbiamo ancora le capacità del Rinascimento?

Vedo che si sta avvicinando al punto.

Certo che le abbiamo. Guardi la reazione del mondo imprenditoriale dopo il terremoto in Emilia. E guardi cosa sono riuscite a fare aziende come Technogym o Yoox, che hanno un motivo in più che mi fa essere ottimista.

La crisi non aiuta.

Quale?

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato di Goldman è un appassionato di storia e racconta sempre questo aneddoto. Qual è il paese che nel XX secolo è stato il più

Il tema generazionale. Oltre che sulla bellezza e l’integrazione, puntano su un cambio generazionale. Sia fiducioso, il tempo gioca a nostro favore.

Massimo Della Ragione — Two cities, London and Milan. Two lives, manager and professor. One idea, beauty. Italy can do it, insists Massimo Della Ragione, with the condition that an integrated system would be put into place that points at the future while looking at the past. A system founded upon its capital assets and the intangible ones. And of which the most important is her: beauty. As the co-head of Goldman Sachs Europe, where he was a partner in 2010, Della Ragione is a strange mix of manager and academic, with a passion for art and culture. The only Italian speaker invited to the London School of Economics conference in 2015, where the official motto is “Rerum Cognoscere Causa”, know the cause of the things, Della Ragione believes that in Europe everything is about to change. Especially after the turning point in the market from the governor Mario Draghi. An energy that goes beyond the capital flow of quantitative easing, a project that draws a new cultural architecture, that is therefore economic. With this new roadmap, the direction to reach the destination, or rather the creation of value, passes for the creation of meaning, a route in which history and beauty for Della Ragione play a crucial role. Only through commissioning a system of genius loci, specifically, the uniqueness of being Italian, you can think of attracting the largest share of financial investment. Only from this Italian base and from its system of industry can it be considered solid and reliable, regardless of the crisis.

Among the most respected Italian bankers in the world, despite his age (50), and especially among the greatest European experts in the financial industry, Della Ragione managed the cross-border merger between UniCredito and Hvb, the assignment of Bnl to the French Bnp Paribas, the privatization of Mediocredito Centrale, the acquisition of the Banco di Napoli by San Paolo Imi. It makes you think of Leonardo da Vinci, an essential point of reference. “To get to school and to work Leonardo had to go 40 kilometers a day, to and from work. And during the ride he reflected, thinking about what he was seeing.” A view of beauty, before anything else. The same that you could go back and see tomorrow, not only in Tuscany.

Manca la gestione, non il patrimonio.

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“performante” nell’economia?

As a banker I would start with the core of beauty, value. Instead I’ll start bigger, with a historical comparison. Tuscany 1300-California 2015. Go on, please. I am passionate about Tuscany, I go back as often as I can, but for years I never understood what the mystery was for me. The mystery of beauty. What is it that fascinates you? I asked myself: why between the 1300’s and 1500’s was a piece of land that is a fifth


of California creating 60% of the capital for humanity? How is that possible? The historian Jacques Legoff didn’t have a response. “Urban mirage”, he wrote. Ubi maior, to be nice. But over the years, it gave me a modest idea. In the 14th-century Tuscany there was a combination of things that explains a lot, if not everything: there was an ideal climate, an ideal terrain, an enlightened ruling class, and economic resources at their disposal. And more than anything, there was an idea. Let me guess. Beauty? More, actually investing in beauty. In Tuscany during the XIV century there were enlightened people that financed artistic work, the same thing that is happening today in California in technology. Why did they do this, in your opinion? For the same reasons of today. The same generations, the same universities, the same feelings, the same interests. Does that explain it? Enough. But if we could turn back time, could the same conditions be recreated not in Tuscany in the 1300’s, but instead in Italy in 2015? I’m sure. Are you an optimist? With a critic’s sense. I’m an optimist posing as a cynic. Let’s go back to the basic. Ok. I believe I am a discrete business man, positive with a critic’s sensibility, more precisely. So, in my opinion if there is a country in the world where the conditions in Tuscany in the 1300’s could be recreated, it’s not California, where they exist already, but ironically Italy. Now it’s easy. But there is a “but.” One difficult condition. We need to open up, which means to increase competition, rise up the transparency and the certainness of justice, then breaking up the corporations that at that time were the critical factor in their success. A new power struggle? In Italy? No, this isn’t about a power struggle, those are nonsense. I’m thinking of Leonardo da Vinci. Leonardo da Vinci, there we go. Yes, him. To go first to school and then to work, Leonardo was doing forty kilometers. There and back. Mens sana in corpore sano? (Healthy mind, healthy body?) Everything starts with the head. Because do you know what Leonardo did during his commute? Did he observe? Think? Maybe, he was thinking of having a horse… Reflecting on what he saw. It was the best academy in the world, for that, Leonardo was there, going into the bottega not because he was “the son of whoever” but because he wanted to, he desired it and he had the capacity. Actually, he never knew his father. It was also because of this that he used the only inheritance that nature had left to him. That’s what I’m trying to say. Italy has everything to inherit, but it has to open up, to put these virtues into play, to draw the best. Take a step back and think. Take the Bocconi University. It became one of the top in the world because it accepted a challenge. A European and global challenge, not Italian. Because it was thought of as an expression of the elite, worldwide, not as a citizens club, for aristocrats and for excellence. Does that make sense? But how do you convince someone from London to choose Milan instead of Oxford? How Leonardo’s Florence did convince that is was a capital of the world, not of a region. This is what was said at the Global Conference of the Alumni of Bocconi in London. I explained to English parents why it was beneficial to send their children to study in Milan. And not at Oxford. Were you able to do it? I think so. For different reasons, the first of which is that they are already at the same level. Then because Bocconi University is an international setting and not English. So even if it ends up being a mistake it wouldn’t be an irreversible mistake, I mean, don’t burn up your options. Finally, let’s put out there the present board. It’s very young, very focused, the prototype of an academic board of the future, rooted in tradition but also in a global context. The fact that Bocconi has a rector like Andrea Sironi, 50 years old, for me is a demonstration that we are on the right path, that Italy can do it. And I say that it will. Let’s return to beauty. What do you think of the Expo? And of Palazzo Italia? It’s an example of what I just said. Taste is subjective, facts less so. The proof of Italy’s strength with Expo is a cultural subject, therefore economic. Many things that seem impossible are at our door. Palazzo Italia is a good example. It will stay for many reasons, but before anything as a sign of conceptual innovation, more than architecture and biodynamic materials. The Louvre charges like all Italian museums. And it’s not biodynamic… But this is encouraging. And I don’t want to play with comparisons. The theme is cultural, I repeat, not economic. If the Louvre is charging like all the Italian

museums it is evident that it can only get better, bringing them up to the same level as the Louvre. Do you believe that the Uffizi are worth less? And they could be rendered biodynamic, too… We miss the management, not the capital. I see that we’re getting closer to the point. But the crisis doesn’t help. Lloyd Blankfein, the CEO of Goldman is a history buff and always uses this anecdote. What was the country during the XX century that was the highest “performing” economically? The United States? The exact expected response. But, continues Blankfein, if you would’ve asked an American this question in the year 1915, in 1929, in 1943, in 1959, in 1968, in 1977, they wouldn’t have said so. Let’s go back to a less cultural example. The Bayern Monaco, the soccer team. Its turnover is at 500 million euro, the equivalent of the top Italian clubs. Do you know what is the secret upside? It has a private stadium. And it makes up a system. If all of the clubs had a stadium they would be putting private money into consumer services, creating jobs. Monaco is in Germany. Could this also be done in Italy? Of course it can be done. Look at the Juventus, Udinese and more recently Roma’s examples. Logistics are a cultural theme, not ethnic. Beauty before economics. Could Florence bring in more tourists with a Florentine stadium? With a stadium and an integrated system of communications between the airport, the station and the Uffizi. This was Medici’s idea, let’s reflect on this. Integrating social functions and economics founded on culture, in particular, beauty. A virtuous circle that takes into account and includes realizing metaphors of meaning and creating value, richness, and power. But do we still have the capacity for a Renaissance? Of course we do. Look at the reaction of the local enterpreneural community after the earthquake in Emilia. And look at what they were able to do with the company Technogym, or Yoox, that have an extra reason that makes me optimistic. Which is? The generational theme. More than to their beauty and integration, they point to a generational change. Be faithful, time is playing in our favor.

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Robert Kunze-Concewitz

Austriaco nato a Istanbul, maturità francese, laurea americana, master inglese, azienda italiana. Robert “Bob” Kunze-Concewitz è un poliglotta, perfettamente fluente in inglese, francese, tedesco, turco e ovviamente italiano. Ha vissuto e lavorato in Germania, Inghilterra, Francia, Benelux, Stati Uniti e Svizzera ma se deve dire la verità si sente a casa solo in Italia. “Per il gusto della vita, i colori, la creatività di un talento senza pari che si trova ovunque, soprattutto nei luoghi più inaspettati. Gli unici che sembrano non capirlo sempre sono proprio gli italiani. Un vero peccato”.

CEO del Gruppo Campari dal 2007, Kunze-Concewitz ha una lunga storia manageriale a dispetto dell’età. Battesimo in Procter and Gamble, dove ha gestito i marchi della divisione Prestige, dal 1995 si è focalizzato nella costruzione dell’immagine dei brand dell’alto di gamma facendo leva sulle possibilità di gestione, con cui ha contribuito alla crescita a doppia cifra di brand come Hugo Boss e Lacoste, in singoli mercati o quale global franchise owner. Il suo giorno più bello è stato dieci anni fa, quando ha accettato il ruolo di Group Marketing Officer della Campari. Non solo perché poteva evolvere nella competenza di marketing e visione strategica di un settore interessante, ma soprattutto perché poteva tornare a vivere in Italia, con la moglie tedesca e i due figli. Il segreto del Gruppo Campari è al tempo stesso creatività e ingegnerizzazione. La capacità cioè di costruire un network integrato che va a coprire settori e aree geografiche differenti, secondo una strategia di crescita che non può prescindere dalle acquisizioni in un mercato in consolidamento. Con questa idea che affonda le radici nell’internazionalizzazione di specificità italiane, Kunze-Concewitz e la famiglia Garavoglia, erede dei fondatori del marchio che detengono il 51% della proprietà, hanno fatto di Campari una case history del Made in Italy. Titolare dell’unico omonimo brand fino a quindici anni fa, Campari ha acquisito nomi che spaziano dai soft drink, come Lemonsoda e Crodino, alla Tequila messicana, dall’Ouzo greco ai whisky inglesi Gregson, ai brandy Dreher e Drury’s, al top delle vendite in Brasile. Ma anche marchi storici italiani, come Cinzano e Cynar, e big stranieri, come Glen Grant, con cui sono riusciti a penetrare in un segmento chiave del mercato. Nella sede di Sesto San Giovanni, ridisegnata da un archistar come Mario Botta, siamo di fronte a un gigante italiano, controllato da una famiglia milanese, che ha dimostrato di competere a livello globale su un mercato difficilissimo. Un gruppo che compete con giganti mondiali puntando sulla creatività, la passione e la bellezza. Di essere italiani e soprattutto di dimostrarlo. 82


Vista da questa terrazza l’Italia come le sembra? Meravigliosa. L’offerta di lavorare in Campari dieci anni fa ebbe una doppia valenza. Mi piaceva come settore ed ero felice di tornare in Italia, dove avevo già lavorato. Quale dei due aspetti pesò di più nella scelta? Non so dire. Forse il secondo.

di più, si traduce in prodotti diversi che hanno un tratto comune, fanno star bene, sono belli. Quando nel mercato si va contro prodotti di aziende più forti la creatività italiana viene incontro, aiuta, risolve i problemi e le empasses. Campari però non è piccola, anzi. è il sesto gruppo al mondo nel suo mercato.

Senza dubbio. Diversissima.

Vero, ma adesso, prima no. E poi al vertice ci sono aziende grandi anche dieci volte più di noi, come Diageo, e otto volte, come Pernod Ricard.

Perché?

Come avete fatto?

L’Italia è diversa dagli altri paesi che conosce?

Difficile fare una sintesi. Per la creatività, il calore umano, il lifestyle. L’Italia è una scelta di vita, basata sulla bellezza. Un dato che ci riconoscono anche all’estero, non solo sul piano culturale ma anche industriale, di creazione di valore. Vuole dire che l’Italia si vende? Molto di più. Prenda noi di Campari. Noi stiamo letteralmente “imbottigliando” non solo l’Italia ma le sue regioni. Aperol è un brand che rappresenta bene la frizzante brillantezza del Veneto, il suo essere easy going. Averna la profondità e il tenore della Sicilia. Cinzano, soprattutto nella nuova linea 1757, le tradizioni del vermouth piemontese. Potrei continuare. è un buon metodo per il marketing. Lei è un esperto, del resto. Non solo. Guardi che il marketing non può supplire alla realtà. L’immaginario è un dato molto reale, molto concreto. La bellezza italiana non è un’idea astratta, un’immaginazione letteraria, ma un dato di fatto, di capacità, di oggetti, di funzioni, di sensazioni molto concrete. Noi in Campari parliamo di portafoglio italiano, di joie de vivre, una gamma di sensazioni e tradizioni che hanno effetti fisici, reali. Quindi il genio italiano esiste? Senza dubbio che esiste. è una specie di sesto senso, un feeling, un fiuto e anche un savoir-faire. Gli anglosassoni parlano di soft power. È un po’ limitativo ma rende l’idea. Il genio italiano è molto

Come farete, ci chiedevano gli analisti. Siamo italiani, rispondevamo. In realtà poi noi abbiamo applicato una strategia semplice ed efficace, non fare massa critica globale ma nei singoli paesi. Questo ci permette di essere più snelli e rapidi nelle decisioni, più coerenti, con un’ottica a lungo termine. Acquistiamo marchi locali e li facciamo crescere con l’obiettivo di essere tra i primi nei singoli paesi. In tutto questo però l’identità e il know-how italiani sono fondamentali. Non ha proprio nessuna critica da muovere all’Italia. Va tutto bene? Non vorrei banalizzare. E nemmeno entrare nella politica o la sociologia. Una critica, dal mio punto di vista, è che l’Italia non è un’idea unica, il Made in Italy, ma un concerto di individualità. Un buon esempio sono le maison della moda. Tutte primedonne di altissimo livello. Inimitabili. Campari invece cosa è? Direi così: 65 marchi in portafoglio, alcuni con 200 anni di storia, come Cinzano, altri creazioni postmoderne, come l’Aperol Spritz. Un’idea con un range di prezzi dal mezzo euro per una lattina di Lemonsoda a 4mila per una bottiglia di rum invecchiato 50 anni. Se dovesse essere un’auto? Mi piace fare un’analogia con il gruppo Volkswagen, che nel suo insieme ha un portafoglio di marchi che spaziano dalla Skoda alla Volkswagen, dall’Audi alla Porsche. Per

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finire con la Bentley. Mi piace pensare di essere veloce ed elegante, dunque, ma anche familiare e affidabile. Le piace?

buoni anche nei bar poco belli, periferici, non solo in quelli del centro. Guardi che questo è importantissimo.

Molto, ma lei prende soprattutto l’aereo. Mi dicono anche 150 all’anno.

Solo questo?

Forse quel numero è eccessivo, però è vero che mi piace guardare in faccia le persone. In genere le trovo belle. Campari ha superato il miliardo e mezzo di fatturato. In dieci anni, quasi tutti di crisi, ha triplicato il giro d’affari e quadruplicato il valore in borsa. Qual è la sua formula? Crescere del dieci per cento all’anno, metà per sviluppo interno, metà per acquisizioni. E non dimentichiamo la proprietà. Avere la maggioranza in mano alla famiglia Garavoglia, che detiene il 51% del capitale, è molto importante perché la nostra strategia richiede tempo e non potremmo essere governati da chi guarda solo ai risultati trimestrali. Negli ultimi dieci anni avete rivoluzionato l’azienda. In effetti è così. Abbiamo fatto una politica di acquisizioni, di cui i gioielli sono stati la SKYY Vodka, Wild Turkey e Appleton Estate, il rum giamaicano. Inoltre, abbiamo rafforzato l’infrastruttura aziendale. La strategia di crescita della Campari era stata ideata dal management team precedente, coordinato dal dottor Perelli Cippo. Il mio apporto è stato il modello di organizzazione scalabile e l’internazionalizzazione della rete commerciale. Adesso abbiamo una piattaforma scalabile, una struttura a matrice ben definita che governa ma lascia spazio alla periferia. Prima una grande fetta del valore andava ai creatori e distributori locali. Oggi invece copriamo un po’ più del 90% del fatturato con una rete commerciale interna, abbiamo 15 fabbriche e in America produciamo circa il 90% di quello che vendiamo negli Stati Uniti. Dovuto alla decentralizzazione della supply chain, l’effetto cambio per noi ha un effetto più di traduzione che di transazione. Ha un decalogo per applicare questa formula? Solo quattro regole. Integrità, passione, pragmatismo, performance. Di queste la passione è senza dubbio la più italiana. Perché lo pensa? La passione ha due lati, istinto ed energia. Sono i tratti fondamentali degli italiani, checché ne pensino loro. Noi cerchiamo i “camparisti” nel mondo, che sono persone dotate di istinto e di energia. Essere italiani è proprio così, è un elemento di differenziazione enorme. Una differenza che viene apprezzata ovunque. E il lato debole degli italiani qual è? La resistenza al cambiamento. è un dato negativo, ma forse dipende solo dal fatto che qui si vive bene, soprattutto in paragone ad altri paesi. Il clima è fantastico, le città e i paesi sono belli, gli scenari spettacolari. Persino i panini sono

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Ovviamente poi c’è la politica, l’hard power. Ma la medaglia ha sempre due lati e la bellezza dell’individuo va a scapito della collettività. L’Italia è fatta di comunità, ma manca il senso della comunità, il senso civico. Del resto è una questione anche di clima. In che senso, scusi? All’Hamilton College facevo un corso di antropologia con un professore vietnamita che spiegava l’esito della guerra del Vietnam con un argomento climatico. Secondo il professore il Nord non avrebbe mai potuto non vincere per via delle sue caratteristiche fisiche e morfologiche. Faceva più freddo e questo in termini storici spingeva alla disciplina e allo sviluppo di un senso di comunità. A differenza del Sud dove era più caldo e si tendeva all’individualismo. Come vede il futuro del nostro paese, visto che lo considera anche il suo? Non so dove andremo, occorrono riforme sostanziali prima di fare i cambiamenti. Overall, ce la caveremo bene. Ne è convinto? Guardi l’Expo. Una piccola, grande dimostrazione. Lei lo ha visto? L’Expo è splendido, è il tentativo di creare positività, orgoglio, audacia. Elementi molto importanti perché la gente ha bisogno di avere feedback positivi. Sa che sarà tutto smontato? Sì, ma è un peccato. Poteva diventare un centro multiculturale, anche economico. Rimarrà solo Palazzo Italia. Palazzo Italia è straordinario, un vero gioiello. Ho seguito l’evoluzione dei materiali, del cemento biodinamico. Fantastico. In ogni caso abbiamo tante tecnologie di punta in Italia, pensi a Luxottica. Le ripeto, se crediamo in noi stessi, ce la possiamo fare, sempre. Ne sembra davvero convinto. Lo sono. Questo non significa che non vedo i problemi che ci sono. La demografia per esempio, stiamo invecchiando tantissimo. La scuola poi. La burocrazia. Sono problemi enormi ma alla fine c’è un’aria che viene sempre sottovalutata, la qualità del talento che si trova qua. È la vera risorsa, assieme alla bellezza. Mi creda. Cosa cambierebbe dell’Italia se potesse? Inizierei a istillare senso civico. Rispettare più gli altri, fermarsi sulle strisce pedonali, aspettare il rosso. Tolleranza zero con l’inciviltà.


Robert Kunze — As an Austrian born in Istanbul, who studied in Frenchstyle schools, graduated from college in the U.S., earned a Master’s in English and eventually ended up working for an Italian company, “Bob” Kunze-Concewitz is a true polyglot. Fluent in English, French, German, Turkish, and Italian, KunzeConcewitz has lived and worked in Germany, England, France, Benelux, the U.S., and Switzerland, but if he has to tell the truth, he says, he feels at home only in Italy. “For the lifestyle, the colors, the creativity and unrivaled talent that you find everywhere, especially in the most unexpected places. The only people who don’t seem to get it are Italians themselves. It’s a real pity.” CEO of Campari Group since 2007, Kunze-Concewitz has a long history in management despite his young age. He got his start at Procter and Gamble, where he managed the brands of the Prestige division, and since 1995 focused on the construction of high-end brand image, leveraging his management abilities. In this respect he contributed to the double-digit growth of brands like Hugo Boss and Lacoste, in individual markets or as global franchise owner. His finest day was 10 years ago, when he accepted the role of Group Marketing Officer at Campari. Not only because it gave him a chance to improve his expertise in marketing and strategic vision, but mainly because it allowed him to return to Italy with his wife and their two children. The secret of the Campari Group is both its creativity and its engineering. It’s in the ability to build an integrated network that covers different sectors and regions, according to a growth strategy that doesn’t neglect acquisitions in a consolidating market. With this idea, which has its roots in the internationalization of Italian brands, Kunze-Concewitz and the founding Garavoglia family, which still holds 51% of the company, have made Campari into a Made in Italy case study. Owning only its namesake brand until fifteen years ago, Campari has since aquired brands ranging from softdrinks, like Lemonsoda and Crodino, to Mexican Tequila; from Greek Ouzo to Gregson’s English whiskeys and to Dreher and Drury’s Brandies, which are among the top-selling brands in Brazil. It has also aquired some historic Italian brands, like Cinzano and Cynar, and some big foreign brands like Glen Grant, with which they have managed to penetrate a key segment of the market. At the Sesto San Giovanni headquarters, which was redesigned by archistar Mario Botta, we meet a major Italian name, controlled by a Milanese family, which has shown it can compete on a global level in an incredibly difficult market. It’s a group that competes with global giants by focusing on creativity, passion, and beauty—on being Italian and above all on proving it. How does Italy look from this Terrace? Marvelous. Receiving the offer to work with Campari ten years ago was like getting the best of both worlds—I liked the sector and I was happy to come back to Italy, where I had already worked before. Which of the two factors had the stronger influence over your choice? It’s hard to say. Maybe the second one. Italy is different from the other countries you’ve known? Without a doubt. Very different. Why? It’s hard to summarize. For the creativity, the warmth of the people, the lifestyle. Italy is a lifestyle choice, one that’s based on beauty. That’s something that we’re also recognized for abroad, not just on a cultural level but also on an industrial one and the creation of value. Are you saying that Italy sells? Much more—take Campari as an example. We are literally “bottling” Italy and the Italian regions. Aperol is a brand that represents the sparkling brilliance of the Veneto quite well, its easy-going way of life. Averna represents the depth and feeling of Sicily. Cinzano, especially the new 1757 line, represents the tradition of Piedmontese vermouth. I could go on. It’s a great marketing strategy. You’re an expert, anyway. Not only. Marketing cannot make up for the reality. The imagery is a very real fact, quite tangible. The beauty of Italy is not some abstract idea of the imagination but a matter of fact, of ability, of objects, of functions, of very concrete sensations. We at Campari speak of an Italian portfolio: the joie de vivre, the range of feelings and traditions that have real, physical effects. So the Italian genius exists? Without a doubt it exists. It’s like a sixth sense, a feeling, an instinct, and a savoir-faire. The Anglo-Saxons speak of soft power. It’s a bit restrictive but it gives an idea. The Italian genius is much more, translating into different products that have a common trait, they make you feel good, they’re beautiful. When in the market you go up against the products of the strongest companies, Italian creativity meets the challenge, helps solve problems and impasses. Campari isn’t small though, is it? It’s the sixth largest group in the world in its market. True, it is now, but before, no. And then at the top there are huge companies, ten times the size of us even, like Diageo, or eight times larger, like Pernod Ricard. How did you do it? How will you do it, the analysts asked us. We are Italians, we replied. In reality we then

applied a simple and effective strategy, not on a mass global level but in the individual countries. This allows us to be leaner and faster in decision making, more coherent, and with a long-term view. We acquire local brands and grow them with an objective of being among the first in the individual countries. In all of this however, the Italian identity and know-how are essential. You have absolutely no critiques about moving to Italy. Everything is fine? I wouldn’t want to trivialize. Not even enter into politics or sociology. One critique, from my point of view, is that Italy is not one unified idea, the Made in Italy idea, but a symphony made up of individualities. A good example are the fashion houses. All top ladies at the highest level. Inimitable. What is Campari then? I would say it like this: 65 brands in its portfolio, some with 200 years of history, like Cinzano, others post-modern creations, like the Aperol Spritz. An idea with a range of prices, from half a euro for a can of Lemonsoda to 4 thousand for a bottle of rum aged 50 years. If it were a car? I like to make an analogy with the Volkswagen group, which as a whole has a portfolio of brands ranging from Skoda to Volkswagen, from Audi to Porsche. And to end with Bentley. I like to think of being fast and elegant, then, but also familiar and reliable. You like it? Very much, but you take the airplane more than anything. They tell me as much as 150 times per year. Maybe that number is excessive, but it’s true that I like to look people in the face. Usually I find them beautiful. Campari has exceeded a billion and a half in revenue. In ten years, almost all of it during a crisis, you have tripled turnover and quadrupled stock market value. What’s your formula? Growing at ten percent per year, half in development and half in acquisitions. And not forgetting the ownership. Having the majority in the hands of the Garavoglia family, who owns a 51% stake, is very important because our strategy takes time and so we could not be controlled by those who only look to quarterly results. Over the past decade you’ve revolutionized the company. Indeed so. We’ve gone with a policy of acquisitions, the jewels of which have been SKYY Vodka, Wild Turkey, and Appleton Estate, the Jamaican rum. In addition, we’ve strengthened the corporate infrastructure. Campari’s growth strategy was designed by the previous management team, led by Dr. Perelli Cippo. My contribution was the scalable organization model and the internationalization of the sales network. Now we have a scaleable platform, a well-defined matrix structure that governs everything but leaves space around the edges. Before, a big chunk of the value was going to the local creators and distributors. Now, by contrast, we cover a little more than 90% of sales with an internal commercial network; we have 15 factories and in the U.S. we produce about 90% of what we sell there. Because of the decentralization of the supply chain, the exchange rate has more an effect on translation than on transaction for us. Do you have a set of guidelines for applying this formula? Only four rules. Integrity, passion, pragmatism, and performance. Of these, passion is without a doubt the most Italian. Why do you think that is? Passion has two sides to it, instinct and energy. They are the essential traits of Italians, no matter what they think. We look for the “camparisti” of the world, people with instinct and energy. Being Italian is precisely like this, it’s a distinguishing feature. And it’s difference that’s appreciated everywhere. And what is the weaker side of Italians? Their resistance to change. It’s a negative factor, but maybe it just comes from the fact that the lifestyle is good here, especially when compared with other countries. The weather is fantastic, the cities and villages are beautiful, the scenery spectacular. Even in hole-in-the-wall cafes on the outside of town you can find a good sandwich, not just in the city centers. This is extremely important, you know. Just this one weakness? Of course then there’s the politics, the hard power. But the coin always has two sides and the beauty of the individual comes at the expense of the collective. Italy is made up of communities, but it lacks the sense of community, the civic sense. This again is also a question of climate. Sorry, in what sense? I took an anthropology course at Hamilton College with a Vietnamese professor who explained the result of the Vietnam war through the lens of climate. According to him, the North could not have possibly lost, on account of its physical and morphological characteristics. It was colder there, and this, in historical terms, promoted discipline and the development of a sense of community, unlike the South, where it was warmer and there was a tendency towards individualism. How do you see the future of our country, since I see that you consider it yours as well? I don’t know where we’re going, we need substantial reforms before we can make changes. Overall, we’ll get along fine.

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claudia parzani

Quarantaquattro anni, tre figlie, occhi vivaci e un bel sorriso, Claudia Parzani è un superavvocato sui generis. Molto anche. Lombarda di nascita e anglosassone di vocazione, dal 2007 è partner di Linklaters, fra i primi cinque studi legali del Regno Unito, per cui guida il dipartimento Capital Markets della sede italiana, oltre ai settori Consumer e Lusso.

Specialista di operazioni chirurgiche di equity capital market e public M&A, ha seguito alcune delle operazioni chiave nel riassetto del panorama finanziario e postindustriale italiano, come la ricapitalizzazione di Unicredit e Monte dei Paschi e le IPO di Fineco, Ferragamo, Segafredo, Moncler. Ai primi posti della Top Ten 2013 degli avvocati più innovativi d’Europa secondo il Financial Times, nel 2014 è terzo avvocato più potente d’Italia e nel 2015 Avvocato di Capital Markets dell’anno per la classifica di Legal Community. Ma al di là di questi risultati e dei vari incarichi in consigli di amministrazione, Parzani si è costruita un ruolo diverso, inatteso da una donna di potere nell’Italia di inizio millennio. Dal 2013 infatti è presidente di Valore D, la prima associazione di grandi imprese per sostenere la leadership femminile. Non solo: a fianco di questa attività di networking e sostegno per le donne che vogliono farcela senza dimenticare la femminilità, ha fondato Breakfast@ Linklaters, network della business community femminile basato sul principio di fare rete, produrre opportunità e creare piacere. Perché lo fa? “Per restituire alla comunità parte di quello che dalla comunità ho ricevuto”. Un’idea rinascimentale e italianissima, che Parzani sintetizza al solito in inglese: “Give back”. Espressione che Dante non avrebbe forse usato, ma che non suona niente male.

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Oggi niente merging o acquisitions. Oggi bellezza. Caspita. Domanda larga, risposta larga.

femminile in città con Breakfast@Linklaters, partendo dall’idea che il multitasking uccide le donne.

Calma. Prima di tutto, esiste?

Anche gli uomini, mi creda.

Certo che esiste. Anche se è difficile definirla. Proviamoci. La bellezza è uno degli elementi positivi della vita che si può affrontare, a mio avviso, da due opposte prospettive. Quali sono? Nord-Sud? No, guardando la parte negativa o quella positiva. è il tema del bicchiere a metà, che sembra banale ma in realtà rappresenta un argomento di grande profondità e saggezza. Nel bicchiere la bellezza dove sta? è la parte della vita osservata da un’angolatura positiva. è quello che tutti i giorni cerco per me e per gli altri. Non è un concetto effimero, non è il canone assoluto ma è un attimo, una cosa che scopri. Posso fare un esempio? Deve. Mi hanno regalato una clessidra, devo usarla per 15 minuti al giorno per fare, in quel tempo, cose che normalmente nella mia giornata non faccio. Un antidoto. Esattamente, proprio come la bellezza. La guardavo ieri ed è bellissima, meravigliosa. Quello che voglio dire è che il concetto di bellezza deve essere in noi per poterlo ritrovare nel mondo. La bellezza deve essere dietro ogni cosa che facciamo, risuonando con un’idea di semplicità. Bellezza, semplicità. Il terzo concetto? Felicità. Non è un’idea macro, per me, ma micro: la felicità va vissuta giorno per giorno, in ogni attimo, in ogni dettaglio. Come la bellezza, ecco. Sta un po’ a noi riattribuire a questi termini un valore concreto. E viverne. Prenda Milano. Prendiamola. Lei ci vive e ci lavora. Le piace? Moltissimo. Milano è bella, bellissima anzi. Però dipende da come la scopri: per scoprirla occorre non passare ma fermarsi, non vedere ma guardare. Vedere versus guardare. è il grande tema del nostro patrimonio pubblico… Certo, ma le faccio un esempio. Ho fatto un percorso al

Iniziamo dalle donne. Ho pensato che occorresse lavorare sul bello e la bellezza, portando 120 donne in 5 tappe e in 5 posti che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vede. La maggior parte dei milanesi non conosce la città dove nasce, vive e muore. Purtroppo. Appunto. E lì il bello era chiacchierare, camminare, fermarsi all’angolo che nessuno ha mai visto in quel modo, scoprire il glicine più vecchio della città, il colore della pietra in quel particolare momento, la curvatura dell’arco. Alla sera queste cose ti hanno riempito la vita. L’esperienza di vedere finalmente una città è certamente da sempre una delle chiavi di accesso al bello. Non sono sicuro, invece, che sia legata al genere. Non ne faccio un tema di genere. L’esperienza della città è forte e non è solo al femminile, però credo debba essere portata avanti dalle donne perché hanno occhi diversi per le stesse cose e possono insegnarlo. Possono essere un esempio diverso. Sarà. Per me le donne hanno ormai occhi molto maschili. è vero ed è un’opportunità persa. Quando penso alle donne e dico che portano occhi nuovi intendo dire che affrontano gli stessi problemi ma trovando soluzioni diverse e scegliendo strade nuove. Pensi al potere. La bellezza del potere nell’accezione maschile è “il potere” stesso, una parola compiuta, con un suo senso definito e statico, che si basta. La bellezza del potere da una prospettiva femminile sta invece nell’avere finalmente la possibilità, ovvero il potere, di fare le cose, concretamente. Fare le cose non per manifestare e mantenere ulteriormente il potere, ma usare il potere per fare accadere cose nuove, per il bene e la bellezza comune. Cioè per gli altri. Scusi ma in Italia questa idea di bellezza è rarissima. Ne sono consapevole. E allora? Non facciamo niente? C’è una parte di me che si domanda perché non ci sia un governo che porti avanti cultura e turismo in una modalità molto più profonda. L’Italia non è il paese delle città belle, dei bei paesaggi, delle belle cose ma il luogo per eccellenza nella creazione della bellezza. Bellezza proattiva [ride].

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Mi parli dell’Italia. Come la vede?

sono bello, altra è farlo sempre.

La immagino come una donna bella nella sua semplicità, con i suoi pregi e difetti. E qui siamo nell’ovvio. Meno ovvio è che, come per ogni donna, quanto è bella dipende anche da lei: un occhio luminoso, un capello ben curato, un aspetto in linea con l’essenza è fondamentale. Quello che emani è quello che sei, perché il make-up dura poco se non corrisponde all’anima, alla bellezza interna. Questo mi sembra un punto cruciale: è come se l’Italia non facesse niente per sé, si trascurasse. è una bellezza decadente e trascurata, quando invece avrebbe lo spirito per essere pulsante e magnetica.

Vede Expo come un’opportunità quindi?

“Non donna di province ma bordello”, diceva qualcuno. Perché? Senza esagerare, secondo me ci lasciamo andare per un difetto di visione. Io devo sapere che sono bella e me la porterò per sempre, la mia bellezza. Però devo anche essere consapevole che muterà questa bellezza, che cambierà nel tempo. La condizione per restare belli è quindi saper essere coerenti e sapersi accettare, altrimenti nessuno ti rispetta. Difetto di visione. Difetto di visione prospettica, di lungo. è un handicap da parte della politica e di chi sceglie i politici. Ho un solo mandato, ho il qui e ora. è un meccanismo perverso che ci toglie tutto, non ho mai sentito che uno dica: “Fra venti anni dobbiamo essere lì, io ne farò quattro e poi passerò il testimone ad altri che continueranno nella mia linea”. Mai. Come se ne esce? Dobbiamo decidere assieme che società e che città vogliamo essere, perché portiamo un concetto di futuro che è figlio di cosa siamo noi e di quanti anni hanno i nostri figli. è un lavoro a tappe, ha un orizzonte ampio, mentre quello che vedo decidere come paese mi appare come un orizzonte breve, ottuso, senza prospettiva. Torniamo a Milano. L’Expo per lei ha dato una prospettiva?

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Senza dubbio lo è. Al di là delle critiche legittime e delle cose terribili che sono accadute non ho giudizio negativo. Per me è molto facile giudicare ex post, bisogna farlo ex ante. In ogni caso Expo è una bella opportunità e un contenitore contemporaneo che potremmo usare molto di più. Infine, penso che sia un modo intelligente per attrarre attenzione sull’Italia. Dovremmo averne molti di più. Faccia un programma per l’Italia, in punti essenziali. Decidiamo quale Italia vogliamo tra 25 anni. Io vorrei un’Italia che è riuscita a fare delle sue virtù punti di eccellenza. A partire dalla bellezza, l’artigianato, il turismo, il paesaggio. E le persone? è il secondo punto. Vorrei un’Italia che appartenga agli italiani. C’è un tema di chiamata alle armi culturali e civili, c’è più bisogno degli italiani, ma perché evolvano, perché non parcheggino in seconda fila, perché si smetta insomma di fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Non è un tema di sanzione, di regola, ma di giudizio sociale e civile, di idea di persone che deve essere cambiato. è possibile cambiare gli italiani? La storia dimostra di no, nel bene come nel male. Io ci credo e al terzo punto metto i giovani, che oggi sono i grandissimi esclusi assieme alle donne. Peccato che il grandissimo numero dei giovani non consenta di ignorarli. Non tutti i giovani sono in grado di trovare uno spazio, di esprimersi, anzi ormai quasi nessuno. Questo effetto è figlio di un equilibrio che non abbiamo, del terrore che viviamo di lasciare la poltrona a una certa età. Così però non può funzionare, occorre dare fiducia ai giovani e quindi a noi stessi. Ultimo punto?

Come prima cosa, per me Expo è bello. A maggio, quando sono andata per la prima volta, mi ha lasciato senza parole. Oltre alla dimensione dell’imponenza e dello stile, è facile incontrare persone di culture diverse, facile e molto bello. Ho trovato molto particolare il fatto dei cittadini di Milano che sono scesi per ripristinare qualcosa dopo il corteo dei black block, ma mi colpisce che non siano scesi prima per fare qualcosa di nuovo. Questo è il tema. Una cosa è dire

Mi permette un’espressione inglese? Expanding the pie. è il tema della contaminazione che continuiamo a perdere, c’è un’Italia del fare, che ha voglia di crescere e che non riesce perché lotta con strutture rigide e rendite di posizione. Un vero peccato perché i numeri dimostrano che quelle rendite non ci sono più mentre la capacità di generare qualcosa che gli altri non hanno e non sanno fare, che manca a tutto il mondo, come la creatività, il lusso, la manifattura, è ancora l’essenza dell’Italia. In questa sede direi: bellezza.

Claudia Parzani — Forty-four years old, three daughters, two hazel eyes and a nice smile, Claudia Parzani is not your usual lawyer. Definitely not. Lombard by birth and Anglo-Saxon by vocation, she’s been a Linklaters partner—among the first five leading law firms in the United Kingdom—since 2007, where she leads the Capital Markets department of the Italian headquarters as well as the Consumer and Luxury sectors. A specialist of equity capital market and public M&A operations, she has supervised several Italian financial and post-industrial reorganization transactions, such as the recapitalization of Unicredit and Monte dei Paschi and the

IPO procedures of Fineco, Ferragamo, Segafredo and Moncler. Ranked in the first places of the Financial Times 2013 Top Ten of the most innovative lawyers, in 2014 she was the third most powerful lawyer in Italy and in 2015 Capital Markets Lawyer of the Year, according to the Legal Community ranking. Apart from these results and from the several positions held in governing boards, Parzani has built a different role for herself, one that would not be expected from a powerful woman in Italy at the beginning of the new millennium. In fact, since 2013, she is president of Valore D, the first association of large companies created to support women’s leadership. And that’s


not it: along with this networking and supporting activity for women that want to break through without forgetting their femininity, she founded Breakfast@Linklaters, a network of the feminine business community based on the principle of networking, generating opportunities and creating pleasure. Why do you do it? “To give back to the community part of what I’ve received from it.” A Renaissance and truly Italian idea that Parzani, as usual, summarizes in English: “Give back.” An expression that Dante would have never used, but that it’s not half bad. Today there will be no merging or acquisitions. Today there will be beauty. Wow! A large answer for a large question. Wait. First of all, does it exist? Sure it does. Even if it’s difficult to define it. Let’s try. Beauty is one of the positive elements in life that, in my opinion, can be tackled from two different perspectives. What are they? North-South? No, by looking at the negative or at the positive side. It’s the half-full glass theory, which seems trivial but it actually represents a truly profound and wise subject. Where is the beauty in the glass? Is the side of life observed by a positive point of view. It’s what I’m looking for every day, for me and for others. It isn’t a fleeting concept, it’s not an absolute dogma; it’s a moment, a thing you discover. Can I give you an example? You must. Someone has given me an hourglass, I must use it for 15 minutes a day to do things that I usually don’t do during my day. An antidote. Exactly, just like beauty. I was looking at it yesterday and it is truly beautiful, amazing. What I mean is that the concept of beauty must be within us in order to find it in the world. Beauty must be behind every single thing we do, echoing with an idea of simplicity. Beauty, simplicity. What’s the third concept? Happiness. In my opinion, it is not a macro idea, it’s just micro: happiness should be experienced day after day, in every moment, in every detail. Just as beauty. Our job is to ascribe a tangible value to these terms. And to experience them. Let’s take Milan, for instance. Let’s take it. You live and work there. Do you like it? A lot. Milan is nice, or better, it’s beautiful. However, a lot depends on how you discover it: to discover it you shouldn’t just pass through it, you should stop, you shouldn’t just see it, you should look at it. Seeing versus looking. It’s the major theme of our public heritage... Sure, but let me give you an example. I created a feminine route in the city, which I called Breakfast@Linklaters, starting from the idea that multitasking kills women. Men too, believe me. Let’s focus on women first. I thought it was necessary to work on beauty, by taking 120 women in 5 stops and in 5 places that are there for all to see but that no one looks at. Most people from Milan don’t know the city where they are born, they live and die in. That’s a shame. Indeed. And the beautiful thing to do there was chatting, walking, stopping at the corner that no one has ever looked at in that way, discover the oldest wisteria in the city, the color of the stone in that particular moment, the curving of the arch. In the evening, these things filled your life. The experience of finally looking at a city has always been one of the access keys to beauty. I’m not really sure though it’s so gender specific. I’m not talking about gender. Experiencing the city is intense and it’s not just for women, but I believe that is should be brought forth by women, because they have different eyes for looking at the same things and they can teach this to others. They can set a different example. Maybe. In my opinion, women now have very masculine eyes. It’s true and this is a lost opportunity. When I think about women and I say that they have different eyes, I mean that they deal with the same problems, but they find different solutions and they take on different paths. Think about power. The beauty of power from a masculine point of view is the “power itself,” a finite word with a definite and static meaning. The beauty of power from a feminine perspective is the power of doing things, concretely. Doing things not to manifest and maintain the power, but using such power to accomplish new things, for a common beauty and good. For others. I’m sorry, but this idea of beauty in Italy is extremely rare. I’m aware of that. What then? Should we keep on doing nothing about it? A part of me wonders why there isn’t a government that fosters culture and tourism in a more profound way. Italy is not the country of beautiful cities, beautiful landscapes

and beautiful things; it’s the place par excellence to create beauty. Proactive beauty [she laughs]. Let’s talk about Italy. How do you see it? I imagine it as a woman, beautiful in her simplicity, with her strengths and weaknesses. And this is obvious. What is less obvious is that, just as for any woman, her beauty depends also on her: a luminous eye, neat hair, and an appearance in line with the essence is essential. You are what you exude, because make-up doesn’t last long if it doesn’t reflect the soul, the inner beauty. This is a crucial point, in my opinion: it seems that Italy doesn’t do anything for itself, that it neglects itself. It’s a decadent and neglected beauty, when, on the contrary, it has the spirit to be vibrant and charming. Someone said, “Mistress, not of provinces, but of a brothel”. Why? Without exaggeration, I think we let ourselves go due to a defect of vision. I have to know I’m beautiful and I’ll always carry that beauty with me. However, I also have to be aware that this beauty will change in time. Thus, in order to remain beautiful, it is essential to be coherent and accept ourselves, otherwise no one is going to respect us. Defect of vision. Defect of perspectival, long-range vision. It’s one of the politics’ disability and of those who elect politicians. I have only one mandate, I have the here and now. It’s a negative mechanism that takes away everything we have; I never heard anyone say: “We must be there in twenty years’ time, I’ll be here for four and then I’ll pass on the torch to others who’ll continue my vision.” Never. How can we escape from all this? We have to decide together what kind of society and city we want to be, because we have a concept of future that springs from what we are and from how old our children are. It’s a multi-step job, it has a broad horizon, while the one that I see now in the country is a short-term, dull and hopeless horizon. Let’s go back to Milan. Do you think the Expo has given any prospects? First of all, I think the Expo is beautiful. When I went there for the first time, in May, it left me speechless. Apart from its grandeur and style, it’s easy to meet people from different cultures, easy and very nice. I was amazed by the fact that the citizens of Milan took the field to reinstate some things after the black-block protest, but I’m also taken aback by the fact that they did not take the field earlier, to do something new. This is the theme. One thing is to say I’m beautiful, another one is to do it continuously. Then do you see the Expo as an opportunity? It most certainly is. Aside from the legitimate criticism and the terrible things that have happened, I do not have a negative opinion of it. To me, it’s very easy to judge ex post, we need to do it ex ante. In any case, the Expo is a great opportunity and a contemporary vessel that we could use a lot more. I think it’s an intelligent way to draw attention towards Italy. We should have many more of these. Outline a program for Italy in a few key points. Let’s decide what kind of Italy we want in 25 years’ time. I want an Italy that has managed to transform its virtues into areas of excellence. Starting from beauty, craftsmanship, tourism and environment. And what about the people? It’s the second point. I want an Italy that belongs to the Italians. There’s a call to cultural and civic arms, there’s a need for Italians to evolve, to stop parking in the second row, to stop doing to others what you don’t want them to do to you. It’s not a question of sanctions and rules; it’s a question of social and civil judgment, an idea of persons that must be changed. Is it possible to change the Italians? History demonstrates that it isn’t, for better or for worse. I believe in it and I’m putting youth as my third point; today young people are constantly left out, together with women. Too bad that the number of young people does not allow it. Not all young people are capable of finding a space, of expressing themselves, actually almost no one can anymore. This effect sprouts from a lacking balance, from our terror of leaving our seat at a certain age. However, things cannot work out like this, we must believe in young people and thus in ourselves. A last point? Can I use an English expression? Expanding the pie. We keep on losing the blending topic; there’s an active Italy that wishes to grow but it can’t because it has to deal with rigid structures and privileged positions. It’s truly a shame, because the numbers demonstrate that those positions do not exist anymore, while the capacity of generating something that others do not have, that the entire world doesn’t have, such as creativity, luxury, craftsmanship, this is still the essence of Italy. Here I would say: beauty.

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Gary Pisano

Da Harvard Square le cose si vedono diversamente. E ancora diversamente attraversando il ponte sul Charles River ed entrando nella Harvard Business School.

Sarà per questo che Gary Pisano, un’idea per il futuro dell’Italia ce l’ha e molto precisa anche. Titolare della prestigiosa cattedra Harry E. Figgie dal 1988, Pisano studia, insegna e svolge attività di consulenza concentrandosi sul management dell’innovazione e la proprietà intellettuale, le strategie competitive e la manifattura. Sebbene si sia applicato a molti campi, dall’aerospaziale alla biotecnologia, dalla chimica all’alimentazione, alla comunicazione, la bellezza resta un suo punto di riferimento. Autore di oltre 70 articoli e studi, Pisano ha vinto il McKinsey Award e scritto “Dynamic Capabilities and Strategic Management” (Strategic Management Journal, 1997), uno dei più citati contributi economici degli ultimi vent’anni. Il suo ultimo lavoro, Producing Prosperity: Why America Needs a Manufacturing Renaissance, indica per la crisi americana un’uscita che affonda le radici nell’Italia e la sua storia.

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Qual è il più forte tratto del carattere italiano? Me ne vengono molti in mente, ma di certo la passione per la bellezza è fra i primi. Gli italiani lavorano molto duramente, al contrario del ridicolo stereotipo che si legge spesso nei giornali e nei magazine fuori dall’Italia. Ma se proprio dovessi dire il primo della mia lista sarebbe la creatività. Voi italiani siete creativi in un senso che spesso gli stranieri non riconoscono e non apprezzano. Certo, tutti sappiamo e conosciamo il design italiano e l’arte attraverso i secoli. Ma gli italiani sono anche incredibili creativi come problem-solvers. Non temono incertezza e complessità, la vivono e si sforzano di conviverci. Gli italiani sono fantastici a risolvere le cose: questo spiega perché gli italiani sono stati sempre, nella storia, grandi imprenditori. Questo è fondamentale, un dato centrale nell’economia di oggi. Questo dovrebbe essere un grande potere nell’economia globale di domani. Se invece dovesse indicare il tratto più fragile? Difficile dire se è un carattere o semplicemente l’influenza delle circostanze. Io però trovo che oggi troppi italiani hanno perso fiducia in se stessi. Si sono rassegnati a un futuro economico meno brillante. Questo però non può rovesciarsi in una profezia per loro stessi. La resilienza degli italiani si sta testando in questi giorni e a seconda di come risponderanno questa risposta determinerà il loro futuro e quello del vostro paese. Bellezza è soltanto un dato estetico della cultura italiana o pensa che sia piuttosto un modo speciale di pensare e agire? Penso che sia un modo di pensare e agire, decisamente. Come ho detto, la bellezza gioca un ruolo centrale nella vita italiana. Ma penso anche che questo amore per la bellezza sia parte di come gli italiani pensano e agiscono. La bellezza è spesso apprezzata o creata attraverso un modo di pensare che non segue percorsi lineari. Gli italiani non sono pensatori lineari in generale. Questo è il motivo per cui credo che siano così bravi nel risolvere i problemi. Forse non sapranno ingegnerizzare il prodotto più affidabile, ma di certo sanno creare quello più eccitante. Se è così, è possibile applicarsi industrialmente per uscire dalla crisi attuale? Assolutamente, sì. Una buona ingegneria oggi è divenuta una commodity, che si dà per scontata. Quello che manca, invece, quello che è raro, è la capacità di creare vera bellezza, nel design, nei prodotti, nel cibo, nelle esperienze. Il mondo vuole quello che l’Italia sa fare al meglio, insomma.

Per decenni l’Italia ha dettato la linea del mondo del lusso e della bellezza. Può essere un programma per il futuro? La manifattura italiana deve confrontarsi con l’innovazione. La ragione per cui nel decennio passato molte aziende italiane hanno fatto fatica e avuto molti problemi è legata al semplice fatto di non aver innovato. La manifattura italiana non andrà a competere nel mondo basandosi sul costo, ma su prodotti innovativi, costruiti su marchi forti, e sistemi di processo innovativi. Quale pensa che sia il messaggio e il significato reali di un evento come l’Expo oggi? È una grande opportunità per l’Italia di dimostrare la sua forza. E lo sta facendo. È possibile per gli italiani applicare in altri campi la cultura della manifattura? Non è soltanto possibile, è necessario. In molti dei suoi libri ha parlato della necessità di un nuovo Rinascimento per l’America. Rinascimento è un concetto del Made in Italy, in cui bellezza, cultura, ricchezza, innovazione sono stati sinonimi. Cosa vuol dire per lei? L’America è stata a lungo ai primi posti per la manifattura. Siamo stati pionieri della produzione di massa e leader in molte industrie di manifattura. Questo dato è stato un’importante parte del nostro successo economico. Negli ultimi decenni, però, abbiamo iniziato a perdere questa caratteristica, sebbene avessimo continuato a fare molto nella manifattura. Siamo stati sedotti dal pensare di puntare tutto su una società postindustriale basata sui servizi. Lei è d’accordo con questa visione della società americana? Affatto. Il manifatturiero gioca una parte decisiva in come s’innova il sistema. Questo significa che abbiamo bisogno di manifattura ma non della manifattura di 40 anni fa, piuttosto di un nuovo modello di manifattura basato sull’innovazione. Dobbiamo fare manifattura come nessun altro riesce a fare. Per questo il modello del Rinascimento italiano può essere utile non solo nel futuro dell’Italia ma anche dell’America. Quali sono i cambiamenti più importanti che il governo italiano dovrebbe introdurre per trasferire il modello della manifattura sulla società? Dopo aver creato un mercato del lavoro più flessibile, l’Italia deve assolutamente tagliare le tasse, in particolare quelle che le aziende pagano sul lavoro, ovvero sui lavoratori

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impiegati. In secondo luogo, l’Italia deve intervenire drasticamente sulla burocrazia. Investire in Italia deve diventare molto più semplice e conveniente. Sono anni che discutiamo questi argomenti. È vero, ma purtroppo ad oggi non c’è stato un adeguato progresso, certamente non quanto sarebbe necessario. Lei è da sempre un grande sostenitore del cambio di mentalità. Promuove l’idea di collaborazione tra imprese e ricerca, tra aziende e università. Perché? In università le migliori ricerche in molti campi sono fatte quando intercettano e intersecano problemi pratici. I ricercatori che lavorano in astratto non sono così produttivi o non determinano risultati di impatto quanto quelli che si confrontano con problemi reali. Guardi Louis Pasteur. Pochi dissentirebbero sul fatto che Pasteur sia stato uno dei più grandi scienziati di ogni tempo. Ma Pasteur era interessato soprattutto alla pratica, per esempio era un consulente di industrie alimentari e questo gli permetteva di essere a contatto con problemi che necessitavano di una nuova visione scientifica. Per questo penso che sia veramente cruciale per il mondo accademico e le aziende collaborare. Il mondo dell’azienda aiuta la ricerca universitaria a capire i problemi reali. E l’università sfida il business a pensare in modo nuovo. Non è sempre facile o morbido, ma va bene così. Del resto, la tensione creativa è fondamentale nel processo di innovazione.

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Gary Pisano — From Harvard Square things are seen differently. Even more so when crossing the bridge above Charles River to the entrance of Harvard Business School. Perhaps this is why Gary Pisano, and his idea for the future of Italy, is so precise. Holder of the prestigious Harry E. Figgie chair position since 1988, Pisano studies, teaches, and provides consulting services focused on the management of innovation and intellectual property, competitive strategy and manufacturing. Although he has applied himself in many fields, from aerospace to biotechnology, from chemistry to food to communication, beauty remains his point of reference. Author of over 70 articles and studies, Pisano won the McKinsey Award and wrote “Dynamic Capabilities and Strategic Management” (Strategic Management Journal, 1997), one of the most cited contributions to economics in the last twenty years. His latest work, Producing Prosperity: Why America Needs a Manufacturing Renaissance, provides a way out from the American crisis that has its roots in Italy and its history. What is the strongest Italian character trait? Many come to mind, but certainly their passion for beauty is among the first. Italians work very hard, unlike the ridiculous stereotype you sometimes read in the newspapers and magazines outside of Italy. But if I really had to say the first one on my list it would have to be the creativity. You Italians are creative in a sense that foreigners sometimes don’t recognize or appreciate. Sure, everyone knows and is familiar with Italian design and art throughout the centuries. But Italians are also incredibly creative problem-solvers. They don’t fear uncertainty or complexity, they live it and strive to live alongside it. Italians are fantastic at working things out; this explains why Italians have always been, throughout history, great entrepreneurs. This is critical, a central factor in today’s economy. This should be a huge strength in the global economy of tomorrow. If you were to name the weakest trait? It’s hard to say if it’s a characteristic or just the influence of circumstances. But I find that today too many Italians have lost confidence in themselves. They’ve resigned themselves to an economic future that is less bright. But this cannot turn into a prophecy for themselves. The resilience of the Italians is being tested in this period and depending on how they respond, this response will determine their future and that of their country. Is beauty just an aesthetic aspect of Italian culture or do you think it’s more of a special way of thinking and acting? I think it’s a way of thinking and acting, definitely. As I said, beauty plays a central


role in Italian life. But I also think that this love of beauty is part of the way Italians think and act. Beauty is often appreciated or created through a mode of thinking that does not follow a linear path. Italians are not linear thinkers in general. This is the reason why I think they are so great at resolving problems. Maybe they don’t know how to engineer the most reliable product, but they certainly know how to create the most exciting one. If this is true, is it possible for Italians to apply themselves industrially to get out of the current crisis? Yes, absolutely. These days good engineering has become a commodity that’s taken for granted. However, what is missing, what is rare, is the ability to create real beauty—in design, in products, in food, and in experience. The world wants what Italy has to offer here, in fact. For decades Italy led the world in luxury and beauty. Could this be a plan for the future? Italian manufacturing needs to confront itself with innovation. The reason why in past decades many Italian companies struggled with hard times is connected to the simple fact that they didn’t innovate. Italian manufacturing is not going to compete on the world stage based on cost, but on innovative products, built on strong brands and innovative process systems. What do you think is the real message and significance of an event like Expo? It’s a great opportunity for Italy to demonstrate its strengths. And that’s what it’s doing. Is it possible for Italians to apply the culture of manufacturing to other fields? Not only is it possible, it’s necessary. In many of your books you speak about the necessity of a new Renaissance for America. Renaissance is a concept of Made in Italy, in which beauty, culture, wealth, and innovation have been synonymous. What does it mean to you? America has long been at the top for manufacturing. We’ve been the pioneers of mass production and a leader in many manufacturing industries. This fact has been an important part of our economic success. In recent decades, however, we’ve started to lose this characteristic, even though we’ve continued to do much in the way of manufacturing. We’ve been seduced by the idea of risking everything on a postindustrial society based on services.

Renaissance model can be useful not only for the future of Italy but also of America. What are the most important changes that the Italian government needs to introduce in order to transfer the manufacturing model into society? After creating a more flexible labor market, Italy absolutely needs to cut taxes, in particular those that companies pay on labor, or on the workers employed. Secondly, Italy must drastically intervene in its bureaucracy. Investing in Italy needs to become much easier and more convenient. We’ve been discussing these topics for years. That’s true, but unfortunately there hasn’t been adequate progress to date, certainly not as much as would be necessary. You’ve always been a big supporter of changes in mentality. You promote the idea of collaboration between business and research, between companies and universities. Why? At university the best research in many fields is done when it intercepts and intersects with practical problems. Researchers working in the abstract are not as productive or do not produce as impactful of results as those who are confronted with real problems. Look at Louis Pasteur. Few would disagree with the fact that Pasteur was one of the greatest scientists of all time. But Pasteur was interested above all in practice, for example he was a consultant to the food industry and this allowed him to be in contact with problems that needed a new scientific vision. So I think it’s really crucial for the academy and companies to collaborate. The business world helps university research to understand real problems. And the university challenges business to think in new ways. It’s not always easy or smooth, but that’s okay. Besides, creative tension is critical in the process of innovation.

Do you agree with this vision of American society? Not at all. The manufacturing sector plays a crucial role in how you innovate the system. This means that we need manufacturing, but not the manufacturing of 40 years ago. Instead, we need a new model of manufacturing based on innovation. We need to do manufacturing like nobody else is able to do it. That’s why the Italian

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MARCO Rettighieri

“Non esiste un piano B”, aveva detto alla fine dell’estate 2014 Michele Mario Elia, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato chiamato a gestire la partita complicatissima dell’Expo. “Entro il termine inderogabile del 30 aprile del 2015 consegneremo le opere chiavi in mano a Expo. È un onore, per noi. L’incarico assegnato alla nostra società d’ingegneria riconosce la trasparenza, la professionalità e le capacità di tutto il gruppo Fs”.

Iniziava così l’avventura milanese di Italferr, società che già si era distinta con la progettazione in luoghi caldi del mondo. Nella linea ferroviaria tra Riyadh e Jeddah, (1.300 km), in Oman per la prima rete ferroviaria del Sultanato (2.244 km), in Qatar per la realizzazione della Red Line North della metropolitana di Doha, in Turchia per la revisione del progetto del Tunnel Eurasia, in Perù per la progettazione di due linee metro di Lima (35 km e 35 stazioni). A Milano Italferr inviava Marco Rettighieri, ingegnere, romano, nuovo direttore generale delle costruzioni di Expo. Cinquantadue anni, laurea alla Sapienza e specializzazioni all’Imperial College di Londra e all’università dell’Illinois a Chicago, era stato scelto da Mauro Moretti a Italferr, la società di ingegneria del gruppo Fs, il gioiello che gestisce la modernizzazione della rete ferroviaria. In Italia e nel mondo. “Un’ottima candidatura”, disse Giuseppe Sala alla firma dell’accordo. “Una persona molto esperta e ha la mia fiducia. Arriveremo all’Expo nei tempi giusti”.

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L’uomo dei miracoli. Il suo libro potrebbe anche titolarsi così.

industriale, che si possono coltivare ortaggi e verdure in verticale sui grattacieli che sfruttano l’arco solare.

Nessun miracolo. Solo gioco di squadra. E applicazione di un metodo.

Sembra entusiasta.

Quale metodo? A Expo abbiamo applicato il metodo Ferrovie dello Stato, che ormai è apprezzato dall’Oman al Brasile, dalla Turchia alla Russia. Luoghi dove ci chiamano sempre più spesso, dove vinciamo gare, dove non valgono i rapporti o il marketing ma la sostanza, il saper fare, perché lì o sei capace o non lavori. Le dirò di più: è un metodo che ha a che fare molto con l’Italia e la sua storia. In che cosa consiste? In sintesi di non perdere la bussola nella tempesta perfetta. E applicare le proprie competenze, personali, storiche, nazionali, che sono enormi. Cosa è accaduto a Expo? A Expo siamo arrivati il 1 settembre 2014 e le criticità erano moltissime. Le operazioni del cantiere erano ferme, la credibilità internazionale ai minimi, i media che si concentravano sugli scandali e rendevano difficile comprendere qualunque altro aspetto. Sembrava che molti paesi volessero addirittura ritirarsi. Come siete riusciti a non perdere la bussola? Facendo il contrario di ciò che tutti si sarebbero aspettati. Invece di partire a razzo ci siamo fermati del tutto. Per il tempo di un piano strategico. Perché a Expo c’erano molte cose buone, a partire dagli ingegneri e dagli architetti che hanno lavorato con il mio staff. Che cosa mancava allora? La coralità, senza cui non si può realizzare un progetto che ha tante anime quanti sono i padiglioni, gli attori, le culture. Occorreva farle convivere, serviva una specie di torre di controllo, un piano di azione non conflittuale. Sincronizzare 6000 persone che lavorano per 400 aziende su 1.000.000 di metri quadrati fuori tempo massimo con il mondo che guarda i soliti italiani fa paura. Motivo di maggiore orgoglio per noi. Essere riusciti a coordinare tutte le attività lavorative senza retorica. Anche perché se una donna impiega nove mesi per fare un bambino non è che se prendiamo nove donne ci mettiamo un mese. Makes sense. Quali operazioni avete gestito in particolare? Quasi tutte, soprattutto per acqua, luce, forza motrice e alimentazioni interne ai vari padiglioni, come i cluster e le architetture di servizio. Un’esperienza entusiasmante, che mi ha arricchito anche personalmente. Ho scoperto che si può estrarre l’acqua dall’aria, che ci sono metodi già esistenti per produrre energia alternativa in maniera

Lo sono. Io ho vissuto, studiato e lavorato all’estero a lungo ma sono italiano, credo nell’Italia, penso davvero che siamo un paese speciale. Quale sarebbe la nostra specialità? Molte, che trovano una sintesi nel saper far bene le cose. Non è retorica, mi creda. È la bellezza italiana di cui si occupa lei. Eccoci al punto. La bellezza italiana è un saper fare, un know-how? Soprattutto. L’arte e la gestione del territorio, la perizia e l’architettura, la cultura più propriamente detta. Questione di metodo e di passione, di saper fare bene le cose. È il nostro genio, ma anche la portata della nostra storia, che è unica al mondo. Dovrebbero chiamarla a parlare nelle scuole. Noi riusciamo meglio quando siamo sotto pressione, purtroppo, ma è così. Anche questo è un dato storico e nazionale. Altro dato, non siamo capaci di comunicare, abbiamo un tema burocratico e di procedure che va snellito, altrimenti giochiamo contro noi stessi. Ma sulla capacità e la forza, le possibilità di questa bellezza che è una combinazione di tanti elementi, non ho dubbi. E nessuno ce li ha nel mondo. Solo da noi si dubita di noi stessi. Cosa pensa di Palazzo Italia? Penso che sia un buon esempio di questa bellezza. Il canone estetico può dividere, è soggettivo. Ma la bellezza non lo è. I materiali, la ricerca sui processi, l’immaginazione, la capacità di messa a terra. Questi sono dati oggettivi, qui siamo davanti a un oggetto di prima grandezza nel mondo. Qualche ora prima di aprire mi sono sorpreso a guardare Palazzo Italia dalla prospettiva del Decumano al tramonto. Mi sono quasi commosso: guarda cosa riusciamo a fare noi italiani. Perché lo dimentichiamo? Perché non applichiamo queste certezze ad altri campi? Buone domande. Ma su un punto insisterei, la spettacolarizzazione di Expo. Il rapporto tra eventi e cultura, tra bellezza e comunicazione. Molte critiche sono cadute anche su questo. Ho letto, ho sentito. Hanno detto che l’Expo è un grande spettacolo, che spettacolarizza la bellezza e la capacità, il genio nazionale. Io però sono un tecnico, uno che ha la missione di far funzionare le cose e di farle funzionare al meglio. E allora mi domando: e anche se fosse? In fondo è solo un tema di sostanza. Se c’è sostanza, e in Expo ce n’è da vendere, che male c’è a spettacolarizzare? Se per andare nelle prime pagine dei giornali, se per raggiungere un pubblico sempre più vasto oggi, nella società liquida e della

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comunicazione integrata, occorre creare delle macchine spettacolari, non mi pare un peccato, ma una necessità. I detrattori sostengono che divulgare è tradire. E nel passaggio si perde il senso vero, quello culturale. Lei mi insegna che la divulgazione è un vecchio tema, su cui preferisco non entrare. Per me occorre non perdere il punto centrale. La bellezza è democratica o no? Secondo lei? Per me se non è democratica, non è bellezza. Del resto, lei sa quale paese d’Europa ha più pannelli solari? Mi aiuti. La Germania. Temevo. E il secondo? Azzardo. Noi? Sì, l’Italia. Soltanto che nessuno lo sa, a partire da noi italiani. Se questi dati fossero divulgati, se fossero spettacolarizzati, si perderebbe il valore dell’alternativa energetica o si aiuterebbe un tema cruciale nello sviluppo e nella crescita culturale? Direi di sì. E poi mi permetta. Le ha viste le facce delle persone che visitano Expo? Ha visto che espressioni hanno quando escono da Palazzo Italia? Qualcosa vorrà dire anche questo, qualcosa conterà. O no?

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MARCO Rettighieri — “There is no plan B,” Michele Mario Elia, deputy director of the Italian railway infrastructure Ferrovie dello Stato, had said at the end of summer 2014 as he was called to manage the incredibly complicated ordeal of Expo. “By the final deadline of April 30th, 2015, we will deliver the turnkey projects to Expo. It is an honor for us. The duty assigned to our engineering company recognizes the transparency, professionalism, and capabilities of the entire Fs Group.” Thus began the adventure of Milan’s Italferr, the company that had already distinguished itself with projects in hotspots all over the world: with the railway line between Riyadh and Jeddah (1,300 km), in Oman with the first railway line of the Sultanate (2,244 km), in Qatar for the construction of the Red Line North of Doha’s metro system, in Turkey with the redesign of the Eurasian Tunnel project, in Peru with the development of two metro lines in Lima (35 km and 35 stations). Italferr sent Roman engineer Marco Rettighieri to Milan as the new general manager of Expo’s construction. Fifty-two years old, graduated from the Sapienza University in Rome, and specialized at the Imperial College of London and the University of Chicago, he was selected by Mauro Moretti of Italferr, the engineering company of Fs, the jewel that manages the modernization of railways in Italy and around the world. “An excellent candidate,” said Giuseppe Sala at the signing of the agreement. “He’s someone who is highly experienced and he has my confidence. We will be ready for Expo on time.” The Miracle Man. This would also be a good title for your book. No miracle. Just teamwork. And the application of a method. Which method? With Expo we applied the method of Ferrovie dello Stato, which has now been proven from Oman to Brazil, from Turkey to Russia; places where we are being called more and more often, where we win bids, where they don’t place value on relationships or marketing but on substance and know-how, because there you are either capable or you’re out of work. And what’s more, it’s a method that has much to do with Italy and its history. What does it consist of? Essentially, not losing your bearings when you’re in the middle of a perfect storm. And applying one’s skills, whether personal, historical, or national; this is huge. What happened with Expo? With Expo there were many critical issues when we arrived at the 1st of September 2014. Operations at the construction site had stopped, international credibility was at a minimum, and the media was only focusing on the scandals, making it difficult to understand anything else. It seemed like many countries would even pull out altogether. How did you manage to keep your bearings?


By doing the opposite of what everyone would have expected. Instead of taking off at full speed, we stopped altogether; for a period of strategic planning. Because Expo had many good things going for it, starting with the engineers and architects that had been working with my staff. So what was missing? The coordination, without which you cannot possibly realize a project that has as many minds as it has pavilions, performers, and cultures. It was necessary to make them work together, so we needed a sort of control tower, a non-confrontational plan of action. Synchronizing 6000 people that work for 400 companies on 1 million square meters while running out of time with the world watching Italy is frightening. It’s the biggest source of pride for us. To be able to coordinate all of the work without rhetoric. Also because, if it takes a woman nine months to give birth, it’s not as if you can make it happen in one month by using 9 women. Makes sense. Which operations did you manage specifically? Almost all of them, especially the water, electricity, manpower, and the internal elements of the different pavilions, like the clusters and the service architectures. It’s been an exciting experience that has also enriched me personally. I discovered that you can extract water from the air, that we already have methods of producing alternative energy on an industrial scale, and that you can grow produce vertically on skyscrapers to take advantage of the sunlight. You seem enthusiastic. I am. I’ve lived, studied, and worked abroad for a long time but I’m Italian, I believe in Italy, I really think that we’re a special country. What would our specialty be? There are many that find a synthesis in knowing how to do things well. This isn’t rhetoric, believe me. It’s the Italian beauty that you speak of. Here we’ve arrived at the point. The Italian beauty is a know-how? Above all else. The art and the land management, the expertise and the architecture, the culture in general. Questions of method and passion, of knowing how to do things well. It is our genius, but also the scope of our history, which is unique in the world. They should ask you to speak at schools. We do better under pressure, unfortunately, but that’s how it is. This is also a historical and national factor. Another is that we’re not able to communicate, that we have a bureaucracy and procedures that need to be streamlined, otherwise we’ll work against ourselves. But I have no doubt about the ability and the strength, the possibilities of this beauty, which is a combination of many elements. And nobody else in the world doubts it; it’s only we that doubt ourselves.

What do you think of Palazzo Italia? I think it’s a good example of this beauty. Aesthetic standards can be shared, but they’re subjective. Beauty is not. The materials, the process research, the imagination, the grounding ability. These are objective factors, here we are dealing with something of great magnitude in the world. A few hours before the grand opening I found myself watching Palazzo Italia from the perspective of the Decumanus at sunset. I was almost moved to tears, to look at what we Italians can do. Why do we forget it? Why don’t we apply these certainties to other fields? Good questions. But I would insist on one point: the spectacle of Expo. The relationship between events and culture, between beauty and communications. Many criticisms have been made about this. I read them, and I heard them. They said that Expo is a great spectacle, that it shows off the beauty and the ability, the national genius. But I’m a technician, one whose mission is to make things work and to make things work better. And so I wonder, so what if it is a spectacle? At the bottom of it there’s a substantial theme. If there is substance, and Expo has something to sell, what’s the harm in a spectacle? If you go to the front pages of the newspapers, if you’re going to reach the broadening audience of today, in a fluid society with integrated communications, you have to create the machine of spectacle, and it doesn’t seem like a sin to me, but a necessity. The detractors argue that to divulge is to betray. And in the process you lose the true meaning, the cultural one. I know that divulgence is an old theme, one that I prefer not to enter into. For me it’s important not to forget the central point: is beauty democratic or not? What would you say? For me if it isn’t democratic then it isn’t beauty. After all, do you know which European country has the most solar panels? I give up. Germany. As I feared. And the second? Just guessing… us? Yes, Italy. It’s only that nobody knows it, starting with us Italians. If these facts were divulged, if they were made into spectacle, would you lose the value of alternative energy or would you help a crucial theme of development and cultural growth? I would say yes. Then permit me. Have you seen the faces of people visiting Expo? Have you seen the expressions they have as they come out of Palazzo Italia? This will tell you something, something that counts. Or not?

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Gianni Riotta

“Chewing on Big Data&Big Stories @Princeton @imtlucca @uniluiss @raistoria @cfr_org @foreignpolicy @la_stampa”. Già leggendo il profilo twitter di Gianni Riotta si comprende che siamo davanti a qualcosa di più di un giornalista, uno scrittore, un direttore, un intellettuale, e anche un dandy di gran mondo. Anche perché una cosa è certa. GiaNni Riotta è davvero il contrario di un wannabe, ovvero uno che vorrebbe essere quello che non è. Riotta è invece quello che vuole essere e soprattutto che molti altri vorrebbero essere.

Corrispondente del Corriere della Sera da New York, professore di giornalismo alla Columbia, condirettore della Stampa e direttore del Sole 24 Ore, la carriera di Riotta è al tempo stesso non comune e fuori dal comune, un percorso sempre in viaggio tra culture diverse che l’ha lasciato curioso come all’inizio, quando ascoltava il padre alla radio o studiava logica formale all’università di Palermo. Inviato speciale del Manifesto, negli anni Ottanta Riotta spiegava ai duri e puri della sinistra engagé che per capire il presente si doveva guardare a Ovest, alla strategia militare degli Stati Uniti che si stavano riprendendo dal fallimento del Vietnam. Per molti colleghi The Times They Are A-Changin’ era una canzone di Bob Dylan, per Riotta era la realtà. Sempre troppo avanti per l’Italia, sempre all’avanguardia del sapere – giornalistico, televisivo, tecnologico – invitato al tavolo del potere e alle nozze di quartiere, con signore che lo fermano e lo riconoscono non solo per l’immancabile camicia bianca. Un principe delle nuvole, tanto per citare uno dei suoi libri, con i piedi però molto ben radicati per terra. Un protagonista di molti cambi di stagione, per citarne un altro, che ha saputo esprimere una cifra particolare, estetica ma non solo. A suo modo, un brand Riotta, testimonial dell’Italia nel mondo. Uno quindi che sulla bellezza, l’architettura del sistema Paese e il modo di valorizzarlo qualcosa da dire ce l’ha eccome.

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Lei è un esperto di strategia e di cultura… Davvero? Troppo buono. Qual è il fattore decisivo della strategia-Italia? Se c’è… Il fattore o la strategia? Il fattore. Domanda semplice, risposta complessa. Proviamoci. La cultura. Sembra semplice, ma non lo è affatto. Se lavori nell’architettura, ma anche nella politica, nell’arte e da ultimo anche nella tecnologia e sei cresciuto, hai respirato, ti sei formato e hai visto i tramonti e le mattine in una città italiana, centro o provincia non importa, è diverso dall’essere cresciuto nella periferia di Minneapolis o a Tokio. Questo ha senso. Ma perché è diverso? Per la storia, per la bellezza come il titolo di questo libro. Bellezza infatti non è un concetto astratto, ma è un dato concreto, storico. Bellezza è l’arte, il paesaggio, la cucina, l’elaborazione di questi dati da parte dell’uomo. È un tipo di educazione diversa da quella degli altri popoli, degli altri paesi e quindi delle altre culture. È un fattore oggettivo e distintivo. Dunque decisivo. All’estero la pensano così? All’estero hanno capito l’Italia e le sue possibilità molto meglio di noi. Da sempre. Un mio caro amico, Daniel Berger, per anni ha fatto il direttore marketing al Metropolitan Museum di New York. Un giorno poi ha cambiato vita, si è trasferito a vivere a Roma e per un po’ ha lavorato con i ministri della cultura del governo italiano. Ebbene, Berger mi dice sempre: per me la bellezza è un lavoro, per voi, è un dato naturale. E questo non può che avere influssi su chi sei, cosa pensi, come agisci. Siamo fortunati ma a volte sembriamo dimenticarlo. Attenzione. Il bello non è solo una categoria estetica. Non è un colpo di fortuna, un caso, un dato naturale. Ripeto: è la storia, la stratificazione, la fatica. Dietro alla bellezza c’è stato lo studio, la programmazione, il lavoro. Il Colosseo, il Duomo di Milano, i templi di Selinunte non sono il frutto

del genio. Dietro a queste architetture ci sono architetture sociali, rapporti di forza oltre che numerici, progetti politici. Più che dimenticarlo, non vogliamo fare fatica perché lo consideriamo scontato, dato, for granted come dicono in America. Peccato che non sia così. Anche dietro Palazzo Italia, simbolo dell’Expo 2015, c’è fatica e ricerca. È abbastanza evidente. Palazzo Italia non è solo un esito soggettivo, ovvero il progetto di uno studio che ha vinto un concorso e divide l’audience della critica, come è sempre accaduto del resto, ricordo per tutti il Beaubourg di Renzo Piano, a Parigi, che tanto fece discutere. Palazzo Italia è l’esito di un percorso concettuale e civile, oltre che architettonico, è l’espressione di un progetto individuale oltre che politico, è lo specchio di un paese e di uno stato dell’arte. Arte non in senso solo architettonico ma economico, sociale, culturale. Sa che i materiali di Palazzo Italia sono la punta di diamante di una ricerca elaboratissima fatta in Italia? Sono biodinamici, hanno proprietà fotocatalitiche: a contatto con la luce del sole il principio attivo presente nel materiale consente di catturare alcuni inquinanti dell’aria, trasformandoli in sali inerti e contribuendo così a liberare l’atmosfera dallo smog. “Ci sono più cose nella ricerca in Italia che nella tua filosofia”, potremmo dire parafrasando Shakespeare. Perché non gli riconosciamo il valore che ci riconoscono all’estero? Ci sono riflessi strani nella cultura profonda del nostro paese. Siamo un mix di reazioni contraddittorie. Futuribili ma anche guardinghi, spregiudicati ma anche timorosi, aperti al nuovo ma anche conservatori del peggio del vecchio. Difficile comprendere in maniera superficiale. Io però torno sul sistema Paese, sulla cultura come tessuto connettivo. Ha visto l’Annunciata di Antonello a Palazzo Abatellis? Sono andato apposta dai boschi senesi. Uno dei primi viaggi da solo. L’Annunciata di Antonello da Messina è un buon esempio.

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Certo, c’è il genio, ovvero Antonello. Ci sono i suoi geni nel quadro, i geni del genio. Ma c’è anche altro. C’è che Messina era una città crocevia, e quando l’Europa raccoglie la sua flotta per la battaglia di Lepanto, dove si decide l’egemonia tra cristiani e musulmani – un’egemonia tutt’altro che economica – guarda caso il quartier generale si ritrova a Messina. Nel quadro di Antonello dietro l’immagine, come avrebbe detto Federico Zeri, c’è tutto questo. E molto altro. Apertura, dialogo, inclusione… Firenze senza Medici non sarebbe pensabile. Ma non nel senso delle opere d’arte, che vengono dopo. Nel senso, piuttosto, di investimenti in estetica, che si fanno società, visione del mondo, risorse, scuole, quindi politica e potere. Se disinvestiamo, se non apriamo, se non incentiviamo i dialoghi e lo slancio ci chiudiamo e perdiamo prerogative. Per questo Renzi ha fatto bene ad andare a trovare gli italiani in Silicon Valley, anche se non credo che torneranno mai. Perché non torneranno? In Italia vedo entusiasmo tra giovani urbanisti, scienziati, ricercatori. Ma l’Italia offre poco, non ci sono venture capitalist come in America, le università non investono, vengono prodotti film di amici, dominano le baronie. In America e Asia è diverso, lì vale il prodotto. Non chi conosci ma cosa sai fare. Questo è un costo altissimo per il paese, un danno gravissimo che viene fatto al futuro dell’Italia. Si dice che in questi paesi si vive peggio ma si sta meglio. È una definizione corretta. È la sensazione che si prova. La qualità della vita in Italia è formidabile, si sa. Ma l’occasione vera della vita qui non arriva se non sei nei circuiti giusti. Ancora una volta Renzi ha detto le cose come stanno. A cosa si riferisce? Basta con l’economia di relazione, basta con chi conosci, basta con i mediocri al potere. E dire che basterebbe prendere l’esempio di Rockefeller… Il magnate americano? John Rockefeller, fondatore della dinastia Standard Gianni Riotta — “Do not be a wannabe. Be @Princeton @imtlucca @uniluiss @raistoria @cfr_org @foreignpolicy @la_stampa.” Already by reading the Twitter account of Gianni Riotta you can understand that we’re dealing with something more than a journalist: a writer, a director, an intellectual, and also a dandy of high society. One thing is certain, Gianni Riotta is truly the opposite of a wannabe, which is someone who wants to be something that he is not. Rather, Riotta is exactly what he wants to be, and moreover, what many others would want to be as well. Correspondent from Corriere della Sera of New York, professor of journalism at Columbia, co-editor of La Stampa and editor of Il Sole 24 Ore, Riotta’s career is both uncommon and unusual, a path that has allowed him to travel between different cultures that leave him even more curious than he was at the beginning, when he listened to his father on the radio or studied formal logic at the University of Palermo. Special envoy of Il Manifesto, in the eighties Riotta explained to the hard-core leftwing purists that to understand the present you needed to look to the West, to the military strategy of the United States, which was still recovering from the failure of Vietnam. For many colleagues, “The Times They Are A-Changin’” was

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Oil, diceva da ragazzo a Cleveland, Ohio, “Ho solo due ambizioni, guadagnare 100.000 dollari e arrivare a cento anni”. Morirà nel 1937, due anni e due mesi prima di doppiare il secolo, ma con un patrimonio stimato da Forbes in 340 miliardi di dollari rivalutati al 2015 che fa di lui l’uomo più ricco della storia, quattro volte Bill Gates, “Titano del capitalismo” secondo lo storico Chernow. Il suo schivo nipote, David Rockefeller, compie invece il secolo che ha eluso il titanico nonno e oggi celebra l’evento regalandosi un’oasi naturale nel Maine, dove passava le vacanze da scolaro. Perché in Italia si fa una selezione al contrario? Anche qui attenzione, non sempre. Però accade spesso che sia il mediocre a essere scelto, perché non dà fastidio, perché non mette in discussione, perché ubbidisce. È un dato non solo italiano ma europeo, anche se non si dice. Mentre in America è diverso, in America il modello è Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg. Come ne usciamo? Formule non ne esistono. Se non tornare alla storia e ripensare il futuro partendo dal passato, pensando a chi siamo stati. Un buon esempio è la prima enciclica originale di Papa Bergoglio, che divide a fondo perché a fondo scava nella ricerca e nella dottrina, ponendo Chiesa, credenti e leader mondiali in una posizione diversa sui cambi climatici e il rapporto, storico e spirituale, tra Uomo e Natura. Ha acceso polemiche infinite… Le polemiche saranno caduche, perché il documento richiama a una diversa, più alta, responsabilità. Secondo l’analista cattolica Mary Colwell il Papa non pensa più nei termini della vecchia oleografia biblica con l’uomo “dominatore” del Creato, ma propone un rapporto di fiducia e custodia. “Laudato sii” stabilisce che l’accesso al cibo, all’acqua, alle risorse naturali è un diritto fondamentale e ne deriva dunque che preservare, difendere, promuovere l’armonia della Terra e delle specie viventi è dovere religioso, non solo politico o etico. a Bob Dylan song, while for Riotta it was a reality. Always too far ahead of his time in Italy, always at the forefront of knowledge— with journalism, television, or technology—invited to the table of power and to the neighborhood wedding, with people who stop and recognize him not just because of the unmistakable white shirt. He’s The Prince of Clouds, to cite one of his books, with his feet, however, planted firmly in the ground. A protagonist of many seasonal changes, to cite another, with a particular way of conveying things that is aesthetic but also something more: in his own way, the Riotta brand, testimonial of Italy to the world. One who has gotten it all right in terms of beauty, the architecture of the national system, and the way to enhance and give it value. You are an expert in strategy and culture… Really? That’s great. What is the decisive factor of Italian strategy? If there is one… The factor or the strategy?


The factor. Simple question, complicated answer. Let’s try. The culture. It sounds simple, but it isn’t at all. If you work in architecture, but also in politics, in art, or more recently in technology, and you grew up, you’ve breathed, you’ve formed yourself and seen sunsets and mornings in an Italian city, whether in the center or suburbs it’s not important, it’s different from having grown up in the suburbs of Minneapolis or Tokyo. That makes sense. But why is it different? Because of the history, because of the beauty that this book is named after. Beauty is not, in fact, an abstract concept but a concrete, historical fact. Beauty is art, the landscape, food, and the development of these by humans. It’s a type of education that is different from that of other peoples, of other countries and hence of other cultures. It’s an objective, distinct, and decisive factor. Do they feel that way abroad? Abroad they’ve understood Italy and its possibilities much better than us. Always. My good friend, Daniel Berger, was the marketing director at The Metropolitan Museum in New York for many years. Then one day he changed his life; he moved to Rome and for a while he worked for the Italian Ministry of Culture. Well, Berger always tells me: “for me, beauty is a job, for you, it’s a natural fact.” And this has to have an effect on who you are, what you think, how you act. We are fortunate, but sometimes it seems like we forget it. Be careful. Beauty is not just an aesthetic category. It’s not a matter of fortune, a random accident, a natural fact. I repeat: it’s the history, the layers, the toil. Behind beauty there has been the study, the planning, the work. The Colosseum, the Cathedral of Milan, the temples of Selinunte—they aren’t the fruit of genius. Behind these buildings there are social architectures, relations of power as well as numbers, political projects. More than forgetting it, we don’t want to work hard because we take it all for granted. It’s a shame. Even behind the Palazzo Italia, the symbol of Expo 2015, there is a lot of hard work and research. It’s pretty obvious. Palazzo Italia is not just a subjective outcome, or the project of a study that won a contest and divided the critical audience, as has always happened with all of the rest; I remember that there was much debate in Paris surrounding the Beaubourg of Renzo Piano. Palazzo Italia is the outcome of a conceptual and civic journey as well as the architectural one; it is the expression of an individual project as well as a political one, it is the reflection of a country and of a state of art—art not just in the architectural sense but also economic, social, and cultural. You know that the materials used in the Palazzo Italia are the spearhead of an elaborate research process conducted here in Italy. They are biodynamic, with photocatalytic properties; when it makes contact with sunlight, the active ingredient in the material allows you to capture air pollutants, transforming them into inert salts and thus helping to clear the air of smog. “There are more things in Italian research than there are in your philosophy,” we could say, paraphrasing Shakespeare. Why don’t we recognize the value that they recognize in us abroad? There are some strange reflections in our country’s deep culture. We are a mix of contradictory reactions. We’re futuristic but also guarded, unscrupulous but also fearful, open to the new but also the worse of the old conservatives—difficult to understand in a superficial way. But I go back to the country’s system, to the culture as a connective tissue. Have you seen the Annunciation of Antonello at Palazzo Abatellis? I left the forests of Siena expressly for that purpose. It was one of my first trips alone. The Annunciation of Antonello da Messina is a good example. Of course, there is the genius, Antonello. His genes are in that painting, the genes of genius. But there’s also more. There’s the fact that Messina was a crossroads, and when Europe gathered its fleet for the battle of Lepanto, where the hegemony between Christians and Muslims would be decided, a hegemony that was everything but economic, it just so happened that Messina was the headquarters. In Antonello’s painting, behind the images, as Federico Zeri would have said, there is all of that. And much more. Openness, dialog, inclusion… Florence without the Medici would be unthinkable. But not in the sense of artworks, which come later. I mean in the sense of investment in aesthetics, which makes society, worldview, resources, schools, and therefore politics and power. If we stop investment, we don’t open, if we don’t incentivize the dialogs and the momentum, we close and we lose prerogatives. That’s why Renzi was right to go find Italians in Silicon Valley, even though I don’t believe they’ll ever come back. Why won’t they come back? In Italy I see enthusiasm among young urbanists, scientists, and researchers. But Italy has little to offer; there are no venture capitalists, like in America, universities don’t invest, films are produced by groups of friends, cronyism dominates everything. In America, Asia, and elsewhere it’s different; there the product is valued. It’s not

who you know but what you can do. This is a huge cost for the country, a serious injury to the fate of Italy’s future. They say that in these countries the living is worse but the life is better. That’s a correct definition. It’s the feeling that you get. The quality of life in Italy is formidable, you know. But the true opportunities of life here don’t come unless you’re connected to the right circles. Even Renzi said it like this once. What is it that you’re referring to? Enough with the economy of relationships, enough with who you know, enough with mediocre power. It’s to say that it would be enough to take the example of Rockefeller… The American tycoon? John Rockefeller, founder of the Standard Oil dynasty, said as a boy in Cleveland, “I only have two ambitions, to make $100,000 and to live to 100 years.” He died in 1937, two years and two months before reaching his second century, but with a net worth estimated by Forbes to be $340 billion in 2015 dollars, making him the richest man in history, four times the worth of Bill Gates, “The Titan of Capitalism” according to the historian Chernow. His shy grandson, David Rockefeller, just celebrated the century of life that eluded his titanic grandfather, and today celebrates the event by granting a natural oasis to the state of Maine, where he passed holidays as a schoolboy. Why in Italy is the opposite choice made? Be careful here too—not always. But it often happens that it is the mediocre that is chosen, because he doesn’t bother you, because he doesn’t call things into question, because he obeys. It’s not just an Italian thing but a European thing, even if people don’t say so. While in America it’s different, in America the model is Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg. And how do we get there? There are no formulas. If we don’t return to our history and rethink the future starting from the past, thinking about who we’ve been. A good example is the first encyclical by Pope Bergoglio, which is deeply divisive because it digs deep into the teaching and doctrine, putting the Church, believers, and world leaders into different positions on climate change and the historical and spiritual relationship between Man and Nature. He sparked endless controversy… The controversy will be short-lived, because the document invokes a different, higher responsibility. According to the Catholic analyst Mary Colwell, the Pope doesn’t think anymore in the old biblical terms of man as “ruler” of Creation, but proposes a relationship of trust and stewardship. “Laudato sii” establishes that access to food, water, to natural resources, is a fundamental right and it follows therefore that preserving, defending, and promoting the harmony of Earth and living species is a religious duty, not only political or ethical.

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Oliviero Toscani

Per primo ha fatto vedere al mondo due religiosi che si baciavano, due cavalli che si accoppiavano, un condannato nel braccio della morte in America e un malato di Aids in Europa. Più che un fotografo è un intellettuale, più che un creativo, un visionario. Di certo un provocatore, o meglio un acceleratore di neuroni e di neutrini. è Oliviero Toscani, l’enfant terrible della fotografia italiana, conosciuto in tutto il mondo.

Creatore di immagini corporate e campagne pubblicitarie per marchi che hanno fatto la storia della moda – Esprit, Chanel, Fiorucci – Toscani, figlio del primo fotoreporter del Corriere della Sera, è nato a Milano nel 1942 e ha studiato fotografia e grafica all’Università Delle Arti di Zurigo. Collabora da sempre per giornali del calibro di Elle, Vogue, Esquire, Stern. Dal 1982 al 2000 è stato il cuore e la mente della pubblicità Benetton, trasformandolo in uno dei marchi più conosciuti al mondo e creando il lato sportivo della maison, Playlife. Risale al 1991 il primo numero di Colors, rivista trimestrale fondata con Tibor Kalman e diffusa a livello mondiale, che attraverso un ricco uso di fotografie parla del mondo di cui non si parla mai, analizzando in ogni numero un tema diverso legato all’umanità. Nel 1993 fonda Fabrica, centro internazionale per le arti e la ricerca della comunicazione moderna, la cui sede è stata progettata dall’architetto giapponese Tadao Ando, che sforna progetti editoriali, libri, programmi televisivi, mostre ed esposizioni per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Arte, Mtv, La Repubblica, Rai, Mediaset. Ma Toscani si è interessato anche alla sicurezza stradale, all’anoressia, alla violenza contro le donne e contro il randagismo. Direttore creativo del mensile Talk Miramax a New York diretto da Tina Brown, Toscani è stato uno dei fondatori dell’Accademia di Architettura di Mendrisio, ha insegnato comunicazione visiva e ha scritto fin troppi libri sulla comunicazione. Da anni vive nella sua tenuta di San Rossore, con la sua famiglia e gli amati cavalli Appaloosa, un ambiente che gli ha ispirato Razza Umana, progetto di fotografia e video sulle diverse morfologie e condizioni umane, per rappresentare tutte le espressioni, le caratteristiche fisiche, somatiche, sociali e culturali dell’umanità, toccando più di 100 comuni italiani, lo Stato di Israele, la Palestina, il Giappone e per le Nazioni Unite, il Guatemala. Soprattutto, da quasi trent’anni è impegnato al Nuovo Paesaggio Italiano, un progetto contro il degrado dell’Italia, paese che odia e ama con la stessa intensità.

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Parliamo di bellezza, Toscani. E vuole farlo attraverso Expo? Bellezza e Expo. Le va? Mica tanto. Siamo sempre in ritardo.

edificio come quello di Piazza Cairoli? Davanti al Castello Sforzesco. Ma si rende conto? Perfettamente. Ma si può paragonare Leonardo a Cattelan o Damien Hirst? Sia sincero.

Di cosa vogliamo parlare dopo la corruzione? Tutti sanno cosa è successo e sta succedendo.

Io dico che a Milano abbiamo avuto Arcimboldi e abbiamo fatto fare una cosa a Disney. Ripeto, ho molta paura dell’Expo, perché chi capisce capirà in che modo siamo disastrati.

L’Expo è solo corruzione? Andiamo Toscani, da lei ci si aspetta altro che la retorica della cronaca.

Io invece dico, da Toscani non ci si aspetta retorica. Entri nel merito.

In che senso?

Ha ragione, ma io ho molta paura dell’Expo. Piacerà ai politici, quando uno è mediocre l’unica cosa per fare carriera è la politica. Prenda la mascotte. Il pupazzetto Foody?

Ragioniamo diversamente, allora. Già aver vinto contro Smirne, profonda provincia turca, la dice lunga. Le grandi città del mondo non fanno l’Expo, oggi è un evento di secondo grado.

è stato fatto fare alla Disney. Dico, a Milano, il luogo del design. Dove ci sono i migliori architetti, i designer migliori del mondo. Di peggio c’è solo il logo della Regione Lombardia.

Guardi che il livello ha sorpreso molto osservatori che erano critici. Se vogliamo essere oggettivi dobbiamo guardare tutto, non solo le negatività, che peraltro ci sono state.

Non le piace?

Le racconto una cosa. Sette anni fa, con un gruppo di colleghi, avevamo fatto un progetto per Milano che non è andato da nessuna parte. Io sono milanese, Milano è la città della generosità. Portiamo a Milano le problematiche del resto del mondo, che il mondo non ha la volontà di affrontare. Ong, violenza sui bambini, donne.

Sono senza parole. È una cosa tremenda. Non si capisce niente. Palazzi, la Regione stilizzata, stivali, un paio d’occhiali, la cazzuola, un papiro. Qui c’è un’ignoranza che va oltre ogni limite. Uno così verrebbe subito licenziato da qualunque datore di lavoro. Sembra molto seccato. In realtà sono depresso. Fa pena. È una cosa deprimente perché purtroppo rispecchia il modo di pensare, di gestire e di amministrare. Una persona intelligente, neanche con una cultura, non farebbe mai una cosa così. La cosa che mi fa più rabbia però è un’altra. Quale? Qui si tratta del mio lavoro. Una cosa del genere è un insulto, non tanto a me, ma ai giovani e meno giovani che in Italia e a Milano fanno questo lavoro con amore, impegno, fatica. È umiliante, ecco.

Che cosa è successo? Niente, non è andato da nessuna parte. Ci dissero: non ci possiamo interessare soltanto di chi sta male. Le sembra una risposta all’altezza della storia di Milano? Expo è diverso, però. Non le sembra un progetto culturale? Mi auguro di sì. Ma è difficile perché in Italia la cultura non c’è più. Purtroppo deleghiamo a persone senza cultura. Da molti anni, troppi ormai. La sua ricetta per salvarsi.

Perché succede tutto questo secondo lei?

Quella del Rinascimento, ci vuole cultura e storia. Siamo un paese che ne ha da vendere del resto. Soltanto che non sembrano interessare a nessuno.

Semplice, in Italia gli ignoranti riescono a fare carriera solo in politica. E questo è il risultato. Le faccio un altro esempio: come si fa a realizzare le porte di Expo con un

Dipende. Sapeva che Palazzo Italia è costruito con un materiale che oltre ad assorbire lo smog presenta una fluidità tale da consentire la realizzazione di forme

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complesse e ideali per la lavorabilità e per una resistenza straordinarie? è due volte più resistente alla compressione e due volte più resistente alla flessione delle malte classiche. Non lo sapevo ma non mi meraviglia perché, ripeto, il paese è pieno di talenti e di ricercatori di livello assoluto, mondiale. Il problema è la gestione, la forza morale, il carattere etico della politica. L’Italia non li possiede, ha una sinistra che l’ha rovinata e una destra senza cultura. La gestione del territorio ne è un esempio da manuale. Lei se ne occupa da oltre trent’anni. Esatto, ho iniziato 30 anni fa a fare un primo progetto sul territorio. Sa una cosa comica? Non l’ho ancora venduto. D’altra parte il Nuovo Paesaggio Italiano non può andare in mano a persone non all’altezza. è un problema di cultura o di politica? D’individui o di gestione? Buona domanda. Direi di civiltà. Saremo civili il giorno in cui invece dei calciatori si venderanno i professori e i maestri. Il professor Mario Rossi, docente di latino e greco, viene valutato sul mercato x. Altro che i giocatori con il loro tatuaggio! Torniamo al paesaggio. Il gruppo Italcementi, che sostiene questo libro, sta lavorando nella rigenerazione delle città, un’idea condivisa da Renzo Piano e dal suo gruppo di lavoro in Senato. Sono progetti commendevoli perché sono iniziative etiche, portate avanti da persone illuminate. Lei infatti vuole parlare di bellezza, ma è evidente che non è possibile OLIVIERO TOSCANI — He was the first to show the world a nun and a priest kissing, two horses mating, a death-row inmate in America and an Aids sufferer in Europe. He is an intellectual more than a photographer, a visionary more than a creative. He is certainly provocative, or, more precisely, he accelerates our neurons and neutrinos. He is Oliviero Toscani, the enfant terrible of Italian photography, famous throughout the world. A creator of corporate images and advertising campaigns for brands that are milestones in the history of fashion—Esprit, Chanel, Fiorucci—Toscani was born in Milan in 1942, the son of the first photoreporter of Corriere della Sera, and studied photography and graphics at the University of the Arts in Zurich. He has always worked for magazines of the caliber of Elle, Vogue, Esquire, Stern. From 1982 to 2000, he was the heart and mind of Benetton advertising, transforming the brand into one of the most instantly recognized labels in the world and creating the company’s sports arm, Playlife.

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parlarne solo in senso estetico, estrapolandola dai contesti e dalle interconnessioni con altre sfere della realtà. Per parlare di bellezza occorre parlare di etica, occorre una visione sociopolitica, occorre un’idea di bene e di male. Dopodiché, occorre soprattutto governare la società. Perché la natura non ne ha bisogno. Di cosa ha bisogno la natura? Di certo non ha bisogno di estetica. Ma di essere rispettata, e governata con sapienza e timore. Cosa insegnerebbe a un bambino di prima elementare? Una sola cosa. “Voglio vivere onestamente”. Quale è stato l’ultimo momento bello dell’Italia? Il Rinascimento, e non era l’Italia. Occorre tornare lì, a mettere al centro il valore, il prodotto, la cultura. Più di così non so dirle, perché mi pare evidente. L’Expo non può diventare un’opportunità? Non lo penso, davvero. Si pretende di parlare di cibo e ci sono le multinazionali, non i contadini. Per me questo è esemplificativo di tutto il progetto. In ogni caso non sono né ottimista né pessimista. Sono solo curioso. Riparliamone tra un anno. Un anno sarà sufficiente? Non lo so. Ci vuole ancora un po’ di tempo per uscire, ci hanno insegnato a corrompere, a dividere il mondo in corruttori e corruttibili. Un’idea inquietante. Come raffigurerebbe l’Italia di oggi? Con il grido di Munch. The first issue of Colors, a quarterly magazine with a worldwide circulation founded with Tibor Kalman, came out in 1991. Making extensive use of photography, Colors discusses a world that is never discussed, each issue analyzing a specific humanityrelated theme. In 1993, Toscani founded Fabrica, an international center for the arts and communication research headquartered in a building designed by Japanese architect Tadao Ando, which turns out publishing projects, books, TV programs and exhibitions for the United Nations High Commissioner for Refugees, Arte, Mtv, La Repubblica, Rai, Mediaset. Toscani is also interested in highway safety, anorexia, violence against women and abandoned animals. Creative director of the Talk Miramax monthly in New York edited by Tina Brown, Toscani was one of the founders of the Mendrisio Architecture Academy, has taught visual communication and has written arguably too many books on communication. For years, he has lived on a farm in San Rossore with his family and


beloved Appaloosa horses, in an environment that was the inspiration for Razza Umana, a photography and video project on human morphology and the human condition, which set out to present all the expressions and the physical, somatic, social and cultural characteristics of humanity. Material for the project was shot in more than 100 Italian towns and cities, Israel, Palestine, Japan and for the United Nations, Guatemala. Notably, for almost thirty years Toscani has been working on the Nuovo Paesaggio Italiano project against the decline of the landscape in Italy, a country he loves and hates with equal intensity. Let’s talk about beauty, Toscani. And you want to do that through Expo? Beauty and Expo. All right? Not really. We’re always lagging behind. How so? What do you want to talk about after all the corruption? Everyone knows what happened and what’s going on. Is Expo only corruption? Come on Toscani, people expect more from you than media hype. You’re right, but Expo worries me greatly. The politicians will like it, when you’re mediocre politics is the only way to make a career. Look at the mascot. The Foody mascot? A Disneyesque creation. In Milan of all places, the home of design. The home of the world’s best architects, the world’s best designers. The only thing worse than the mascot is the logo of the Lombardy Regional Authority. You don’t like it? I’m appalled. It’s dreadful. Incomprehensible. Buildings, a stylized version of the regional offices, boots, a pair of spectacles, a trowel, a scroll. There’s an astounding level of ignorance here. Any employer would immediately sack someone who came up with that. You sound very annoyed. The truth is I’m depressed. It’s awful. It’s depressing because unfortunately it reflects the way of thinking, of managing, of governing. An intelligent person, even someone with no education, would never come with something like that. But what really makes me angry is something else. What’s that? This is my area of work. Something like this is an insult, not so much for me, but for all the people, young and old, in Italy and Milan, who work in this field with passion, commitment and effort. It’s humiliating. Why do you think this happens? It’s simple, in Italy, the ignorant can only make a career for themselves in politics. And this is the result. I’ll give you another example: who thought of creating the doors to Expo with the building they’ve installed in Piazza Cairoli? In front of the Sforzesco Castle. Do you see what I mean? Perfectly. But can you compare Leonardo with Cattelan or Damien Hirst? Be honest. My point is that in Milan we’ve had Arcimboldi and we’ve come up with a Disneyesque creation. As I said, I’m very worried about Expo, because the people who understand will realize what a disastrous situation we’re in. And as I said, people don’t expect rhetoric from Toscani. Let’s get to the substance. Well, let’s take a different approach. Even the fact that we beat Izmir, deep in the Turkish provinces, is indicative. The world’s great cities don’t host Expo, it’s a second-class event today. Even so, the level has surprised many previously critical observers. We have to be objective and look at everything, not just at the negative elements, which are undeniable. Let me tell you something. Seven years ago, a group of colleagues and I developed a project for Milan, which went nowhere. I’m Milanese, Milan is a generous city. We

bring the troubles of the rest of the world to Milan, the troubles the world can’t deal with. NGOs, violence against children, women. What happened? Nothing, the project got nowhere. They said: we can’t just worry about people with problems. Is that an answer worthy of the history of Milan? Yet Expo is different. Isn’t it a cultural project? I hope so. But it’s difficult, because culture has disappeared in Italy. We delegate to people with no culture. This has been going on for years, too many years. What’s your solution? The solution of the Renaissance, we need culture and history. And of course our country has culture and history in abundance. But nobody seems to be interested. That depends. Did you know Palazzo Italia is built with a material that not only absorbs smog but also possesses a fluidity that makes it possible to create complex forms, and guarantees extraordinary strength? It offers twice the compressive strength and twice the tensile strength of traditional concrete. No, I didn’t know that, but it doesn’t surprise me because, as I said, Italy is full of talent and outstanding, world-class researchers. The problem is the management, the moral strength, the ethical character of politics. Italy doesn’t have these, it has a left that’s ruined it and a right without culture. Management of the territory is a textbook example. You’ve been active in this area for more than thirty years. Right, I began 30 years ago with an initial project for the territory. And don’t laugh if I tell you I haven’t sold it yet. On the other hand, the nuovo paesaggio italiano project can’t be put into the hands of people who are not up to the job. Is the problem cultural or political? Is it about individuals or management? Good question. It’s a question of civilization. We’ll be civilized the day we sell professors and teachers instead of footballers. Professor Mario Rossi, a teacher of Latin and Greek, has a market value of x. Forget about footballers with their tattoos! Let’s get back to the landscape. The Italcementi group, which is sponsoring this book, is working on the regeneration of cities, an idea supported by Renzo Piano and his working group in the Senate. These are commendable projects because they are ethical initiatives, supported by enlightened people. You want to talk about beauty, but obviously you can’t talk about it simply in an aesthetic sense, extrapolated from any contexts and from its ties to other areas of life. When you talk about beauty, you have to talk about ethics, you need a socio-political vision, an idea of good and bad. Then, above all you have to govern society. Nature doesn’t need to be governed. What does nature need? It certainly doesn’t need aesthetics. But to be respected and managed with knowledge and reverence. What would you say to a child in its first year of school? Just one thing. “I want to live honestly”. When was Italy’s last moment of beauty? The Renaissance, and Italy didn’t exist then. We have to go back there, to put value, the product, culture at the heart of things. I don’t know what else to say, it seems obvious to me. Couldn’t Expo be an opportunity? I honestly don’t think so. They say it’s about food, and there are the multinationals, not the farmers. As far as I’m concerned, this is a reflection of the entire project. In any case, I’m neither optimistic nor pessimistic. I’m just curious. We’ll talk about it again in a year’s time. Will a year be enough? I don’t know. We still need a bit more time to get away from this, we’ve been taught to corrupt and to divide the world into corruptors and corruptible. A worrying idea. How would you represent Italy today? With Munch’s The Scream.

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Gualtiero Vanelli

Il rapporto della famiglia Vanelli con la bellezza ha origini antiche. Nel 1818 le venne riconosciuto, da Maria Beatrice D’Este, duchessa di Massa Carrara, il diritto di escavazione sul Monte BetTogli, Poi, nel 1936, acquisendo la Cava 67 il capostipite della modernità, Aldo Vanelli, getta le basi per l’ingegnerizzazione delle proprietà di famiglia, che oggi contemplano diversi giacimenti di primo livello da cui provengono marmi di caratura elevatissima su cui spicca lo “statuario”, una qualità ovunque rinomata per una purezza che ha affascinato gli artisti di ogni tempo.

In realtà la storia sarebbe ancora più antica, risalendo al 1700, quando l’altro ramo della famiglia, i Fabbricotti, era già impegnato nel settore lapideo con esportazioni in tutto il mondo, Stati Uniti in primis, e soprattutto con alleanze con famiglie dell’aristocrazia e della finanza europea. Come i Murray di Londra, legati alla casata reale. è su questa storia che appare sulla scena Gualtiero, classe 1975, con un’idea precisa: rivoluzionare il mercato, da un lato con una politica di estrazione attenta a contrastare “l’industrializzazione del marmo”, il taglio dei blocchi indiscriminato, senza adeguata verifica preventiva degli impieghi finali, un effetto che corrisponde anche all’evoluzione delle tecnologie. Dall’altro, invece, intervenendo con la bellezza, ovvero riportando il marmo nell’aura di una prospettiva di utilizzo artistica e non solo industriale. Per Gualtiero solo l’arte e la bellezza faranno ritrovare al marmo la sua vera dimensione, quella con cui lui si è fatto un nome nell’ambiente artistico e nel jet set globale. Marble Man, l’uomo di marmo.

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Mr. Marble Man, la bellezza esiste o è un’idea di marketing? Non mi faccia ridere. Rida pure. Poi però mi risponda. Non solo la bellezza esiste, ma è la cosa più importante. Anche in Italia? A maggior ragione. L’Italia è un incrocio di cose, storia, paesaggio, ingegno, passione. Questo l’ha aiutata. Però il concetto è molto cambiato. Oggi il David di Michelangelo non è pensabile. Si spieghi. Oggi c’è chi considera bello un busto di Bernini, ma si tende soprattutto a vedere bello lo squalo in formalina di Damien Hirst. È l’idea di bellezza che si evolve, e come l’intelligenza si adatta. Perché questa è la vera intelligenza, lo sa, vero? Me lo ripeta, per favore. L’intelligenza non è un dato naturale, acquisito una volta per tutte, ma consiste nell’adattarsi all’ambiente mutevole per definizione e tirare fuori il meglio. Esprimersi. Io nel marmo ho scolpito teschi con la farfalla per esprimere proprio questo, perché è il processo per cui si torna alla vita. Una volta si era artisti perché si possedeva una tecnica, anche se poi si è scoperto che Bernini si faceva fare le asole e le barbe da Finelli… Oggi il robot è un artigiano, e il marmo ha acquisito questo tipo di strumenti dalla cultura del design. Questa è la mia scommessa, che sto portando avanti con la mia arte e con l’azienda che ho creato, Robot City Italian Factory. Un’idea ispirata alla factory di Andy Warhol, però aggiornata ai nostri tempi. Cosa le direbbe Michelangelo? Ci pensa mai? Direbbe che ho ragione. Del resto lui pensava che la scultura fosse un’arte primaria, mentre per Leonardo era la pittura. Hirst però ha cambiato tutto, con cento pallini in una ricerca di cento persone. Del resto la bellezza estetica è diversa dal potere della bellezza. Per questo ha fatto il pianoforte di marmo con cui Andrea Bocelli ha suonato all’inaugurazione dell’Expo di Milano?

Anche per questo. Eccolo qui. In realtà quella è una delle possibilità della bellezza che può esprimere il marmo oggi. A proposito, lo acquisterà Leonardo DiCaprio, un altro amante della bellezza, mentre al mio Cinderella Table è interessato Brad Pitt. DiCaprio, Pitt... Lei è molto legato al jet set internazionale. Anzi, direi che è più noto all’estero che in Italia. Perché? Casi della vita. Ma anche interessi personali. L’arte e la musica sono stati l’energia della mia vita e ho avuto la possibilità e la fortuna di conoscere molte persone che mi hanno aiutato a crescere. Gente come Vittorio Sgarbi, Matthew Spender, Matt Ulsizer… Il finanziere di Chicago? Lui. Mi ha chiesto di entrare nel board del PEAK6 Investments, il suo fondo, e da lui ho capito che occorre comunicare bene quello che si fa. Una lezione che del resto mi ha dato anche David Bryan dei Bon Jovi. È vero che è stato invitato al matrimonio di Kim Kardashian? Non solo, ho realizzato per quel matrimonio un tavolo di 90 metri con i nomi degli invitati incisi in oro. Un tavolo di marmo di 90 metri? E di cosa d’altro sennò? Mi dicono che sta preparando una personale... La presenterò al Salone del Mobile di Milano ad aprile. Il curatore è Vittorio Sgarbi. E l’obiettivo? Non voglio solo mettermi in gioco come imprenditore innovativo, quello l’ho già fatto. Voglio farlo come artista, come Marble Man appunto, per sostenere fondazioni come quella di Andrea Bocelli e Leonardo DiCaprio. Mi scusi la franchezza, ma chi glielo fa fare? Lei è già un uomo successo, lavora nel bel mondo, da lei a produrre vengono grandi artisti. D’accordo la passione giovanile, gli studi all’Accademia, una evidente originalità. Però…

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Beh, se anche fosse solo così sarebbe ancora più apprezzabile, no? La mia idea è molto semplice, se vuole ingenua ma io direi trasparente. È l’idea di un imprenditore che dopo aver lavorato con grandi artisti si mette in prima persona e ci si gioca la faccia. Come artista fra gli artisti. Le sembra poco? Mi sembra tantissimo. Perché non lo fa anche l’Italia? Perché non punta la sua faccia sulla bellezza? Me lo domando ogni giorno. Dovrebbe essere il suo cavallo di battaglia, invece. Pensi a Venezia, Roma, Firenze. Scusi, ma questo discorso delle città d’arte non è uno stereotipo ormai? Per niente. La bellezza è legata alla creatività e solo quando la creatività è stata collegata alla politica, ovvero quando la politica ha seguito la creatività in Italia si è raggiunto il massimo splendore. Le città d’arte sono sostanzialmente questo ed è inutile ricordare il Rinascimento. Tutto il resto del tempo le cose sono andate al contrario, politica scollegata dall’arte, dalla creatività, dalla bellezza. Il risultato si è visto. Le interessa la politica? Preferisco la filantropia, nel mio piccolo. La politica mi ha deluso, profondamente. E poi seguo i consigli di Carlos Slim. L’uomo più ricco del mondo? Sì. Alcuni amici gli avevano parlato del mio lavoro, è venuto a conoscermi, siamo stati insieme qualche giorno e ha apprezzato la bellezza del mio lavoro. Prima di salutarmi, mi ha detto: “Tieni i piedi per terra, cerca di essere umile e non metterti in politica”. La creatività supplisce anche alla materia, insomma. Quest’ultima frase me la deve spiegare meglio. Non c’è solo il marmo, anche se lo conosco bene e lo preferisco. Ci sono materiali meno nobili, di minor pregio, ma il loro valore consiste nell’uso che ne fai. E può essere altissimo. Mi sono spiegato meglio?

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Una prova di maturità e di serietà. Adesso è una città più “pulita” e questo le rende giustizia, al suo valore e alla sua bellezza. Del resto, Milano è anche l’unica città italiana dove l’architettura del Duomo sposa quella del nuovo skyline in una continuità. L’Expo quindi per me ha avuto un effetto positivo, per Milano e per l’Italia. Perché ha dato orgoglio e positività a tutti. E questo è molto importante in patria ma soprattutto all’estero. Lei ha lavorato con grandi artisti, ha realizzato progetti per i luoghi più esclusivi del mondo. Fra questi La Scala, il Caesar Palace di Las Vegas, il Mittal Palace in India, la Tea Room of the Imperial House in Giappone. Ha lavorato perfino per il Summit Conference Building del G8 a La Maddalena e l’Arab Organization Headquarters Building del Kuwait. Per uno così, l’arte non è una forma di marketing? Lei è toscano, vero? Provincia di Siena, naturalizzato milanese. Allora posso risponderle alla maniera toscana. La prego. Io non so come è “per uno così” come dice lei. Se però quell’uno sono io, allora io le dico questo. Non è marketing perché a me del marketing non interessa niente e non ne ho bisogno. Noi siamo una famiglia con 250 anni di storia e senza un fallimento. Abbiamo subito l’esproprio durante il Fascismo e rifiutato l’offerta del gruppo Bin Laden. In tutto questo, non abbiamo mai fatto cassa integrazione. Sono ammirato. Quindi? Quindi non è marketing ma è un modo di esprimersi. Il mio modo. Le basta? A me basta e piace. Ma se vuole aggiungere altro… Aggiungo questo. Sa perché Arnault ha bisogno di Madonna?

Abbastanza. Ha visto l’Expo? Cosa ne pensa?

Me lo dica lei a questo punto.

Bello, ma influenzato dalla politica.

Di certo, non per vendere le borse.

In Italia però è difficile il contrario, non le pare?

Lo supponevo. Ma non l’aiuta un pochino?

Abbiamo già detto. Milano comunque ha avuto l’occasione di fare pulizia con l’Expo, in ogni senso, e ce l’ha fatta.

Ecco, aiuta. Proprio quel verbo lì. Entrambi però, perché si influenzano a vicenda. Ci pensi.

Gualtiero Vanelli — The Vanelli family’s relationship with beauty goes back a long way. In 1818, Maria Beatrice D’Este, the Duchess of Massa Carrara, gave them the excavation rights to Mount Bettogli. Then, in 1936, the founder of modernity, Aldo Vanelli, acquired Cave 67 and paved the way for the engineering of the family property, which today is made up of several different deposits of first-rate marble, from which springs the “statuary,” with a quality recognized everywhere for the same purity that has fascinated artists throughout time. In truth, the story goes back even further, to 1700, when another branch of the family, the Fabbricotti,

was already involved in the stone industry, exporting around the world, primarily to the United States, especially in alliance with European aristocratic families and financiers, like the Murrays of London, who were linked to the Royal House. It is from this history that Gualtiero, born in 1975, appeared on the scene with a clear vision: to revolutionize the market with a policy of careful extraction in order to counter the “industrialization of marble,” the indiscriminate cutting of blocks without adequate verifications prior to the final use, a trend associated with the evolution of technology.


On the other hand, there is an intervention in the process of beauty, that is, to bring marble into the light of an artistic perspective and not only an industrial one. For Gualtiero, only art and beauty will allow us to rediscover marble in its truest dimension, the one with which he has made a name for himself among artistic circles and the global jet set. He is the Marble Man. Mr. Marble Man, does beauty exist or is it a marketing invention? Don’t make me laugh. Laugh then. But then share your thoughts. Not only does beauty exist, it’s the most important thing. Even in Italy? Even more so. Italy is an intersection of things, history, landscapes, ingenuity, and passion. This has helped the country, but the concept has changed quite a bit. Today Michelangelo’s David would be unthinkable. Explain. Today there are those who consider one of Bernini’s busts to be beautiful, but there’s a more likely tendency to see beauty in something like Damien Hirst’s shark in formaldehyde. The idea of beauty is evolving much in the same way that intelligence adapts. Because, this is the real intelligence, isn’t it? Clarify that idea for me, if you would. Intelligence isn’t a natural given fact, acquired at once and for all, but consists of adaptations to a changing environment to define and make the best out of things and express the self. In marble I’ve sculpted skulls with butterflies to express this idea, because it’s the process by which we return to life. At one time it was artists who possessed the technique, even if later we discovered that Bernini made the buttonholes and beards of Finelli… Today the robot is the artisan, and marble has acquired these tools from design culture. This is the wager that I’ve been moving forward with in my art and with the company that I created, Robot City Italian Factory, an idea inspired by Andy Warhol’s factory, but updated for our times. What would Michelangelo say? Do you ever think about it? He would say that I’m right. Moreover, he thought that sculpture was a primary art, while for Leonardo it was painting. Hirst, however, has changed everything, with a hundred spots in search of a hundred people. Besides, aesthetic beauty is different from the power of beauty. Is this why you made the marble piano that Andrea Bocelli played for the inauguration of Milan Expo? It was one of the reasons. And here it is. In fact, that is one of the possibilities of beauty that marble can express today. By the way, Leonardo DiCaprio, another lover of beauty, is going to buy it, while my Cinderella Table has peaked the interest of Brad Pitt. DiCaprio, Pitt.. you’re very connected to the international jet set. More accurately I would say that you are much better known abroad than in Italy. Why is that? It’s a matter of happenstance, but also of personal interests. Art and music have been the energies of my life and I’ve had the possibility, and the good fortune, to have known many people who have helped me to grow. People like Vittorio Sgarbi, Matthew Spender, Matt Ulsizer… The Chicago financier? That’s him. He asked me to join the board of PEAK6 Investments, his fund, and he helped me to understand that you really need to be able to communicate what you are doing quite well, a lesson that I also learned from David Bryan of Bon Jovi. Is it true that you were invited to Kim Kardashian’s wedding? Not only that, I made the wedding table—it was 90 meters long with the guests names engraved in gold. A 90-meter marble table? What else? They say that you are putting an exhibition together… I will present it at Milan’s Salone del Mobile in April. Vittorio Sgarbi is the curator. And the goal? I don’t want to put myself forward as just an innovative businessman, I’ve already done that. I want to move forward as an artist, like the real Marble Man, and to support foundations like those of Andrea Bocelli and Leonardo DiCaprio. Pardon my frankness, but what’s the point? You’re already a successful man, working in a beautiful sphere, helping produce great artists. I get the youthful passion, the academic study, the obvious originality of it all. But… Well, even if it were only like this it would be more valuable, right? My idea is very simple, maybe a little naive but I would say transparent. It is the idea of the entrepreneur who, after having worked with great artists, gets to know them and depend his reputation on it. Like between artists. Does that seem small? It seems huge. Why don’t you do it in Italy too? Face yourself with the cause of beauty?

I ask myself every day. It has to be your mission, your warhorse, I think. Think about Venice, Rome, Florence. Sorry, but isn’t this discourse about cities of art a bit of a stereotype by now? Undeservedly so. Beauty is connected to creativity, and only when creativity has been connected to politics has it flourished in Italy and reached its peak. The cities of art are exactly this, and you don’t have to look back to the Renaissance. In all other times it’s gone the opposite way, the political system divorced from art, from creativity, from beauty. And you can see the result. Are you interested in politics? I prefer philanthropy, in my own small way. Politics has let me down, deeply. And then I follow the advice of Carlos Slim. The richest man in the world? Yes, some of my friends had told him of my work, he came to meet me, we were together for a few days, and he appreciated the beauty of my work. Before saying goodbye he said: “Keep your feet on the ground, try to be humble, and don’t get into politics.” Creativity makes up for it, in fact. You’ll have to explain this last part for me better. There’s not just the marble, even if I know it and prefer it. There are less noble materials, but the real value is in what use you make of them. It can be very high. Does that explain better? Well enough. Have you seen Expo? What do you think? Beautiful, but under the influence of politics. Isn’t it difficult to do it otherwise in Italy? Like we’ve already said. Milan though had the chance to really clean up with Expo, in every way, and it has. A test of maturity and conviction. Now it’s a “cleaner” city, and this does justice to its value and to its beauty. Besides, Milan is also the only city in Italy where the architecture of the Duomo is wed to the new skyline with continuity. Expo then, has a positive effect for me, for Milan and for Italy. Because it has given everyone pride and positivity. And this is very important at home but also abroad. You’ve worked with great artists, and done projects for the most exclusive places in the world, among them La Scala, Caesar’s Palace in Las Vegas, the Mittal Palace of India, the Tea Room of Japan’s Imperial Palace. You even worked for the Summit Conference Building of the G8 in La Maddalena, and the Arab Organization Headquarters Building in Kuwait. For someone like this, isn’t art a form of marketing? You’re Tuscan, aren’t you? Yes, from near Siena but naturalized Milanese. So I can respond in a Tuscan way. Please do. I don’t know what it’s like for “someone like this,” as you put it. But if that someone is me, then I say this: it’s not marketing because, to me, marketing isn’t important and I don’t need it. We are a family with 250 years of history, without fail. We survived expropriation during the fascist period and refused to work with the Bin Laden group. Throughout all of this, we never made any layoffs. You have my admiration. But what are you getting at? I’m saying that it’s not a matter of marketing but expressing myself. It’s my way. Is that enough? For me it’s enough, and I like it. But if there’s anything you’d like to add... I’d add this. Do you know why Arnault needs Madonna? Tell me. Certainly, not to sell bags. I thought so. But doesn’t she help a little bit? There it is. Help. Just that word there. Both of them, though, because they influence each other. Think about it.

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Giuseppe Zaccaria

Filosofia è sapere o organizzazione del sapere? Il filosofo Giuseppe Zaccaria ha risolto a suo modo l’enigma, concedendosi al primo e votando la sua carriera alla seconda.

Laureato in giurisprudenza con Enrico Opocher presso l’Università degli studi di Padova nel 1970, perfezionato a Oxford, Saarbrücken e Washington, Zaccaria ha insegnato “Dottrina dello Stato” e “Filosofia del diritto” a Sassari (19771983), “Teoria generale del diritto” a Ferrara (1983-1990) e dall’inizio degli anni Novanta è ordinario di “Teoria generale del diritto” presso la Facoltà di Scienze Politiche della sua città, dove insegna anche “Diritti dell’uomo” e “Informatica giuridica”. Ma soprattutto, Zaccaria è l’artefice del nuovo corso dell’ateneo veneto, del suo passaggio all’era postmoderna e alle sue difficili sfide, che ha affrontato e vinto negli ultimi decenni prima come prorettore e poi, dal 2009, come rettore dell’ateneo padovano, che lascia al suo successore al primo posto per la qualità della ricerca, in piena salute economico-finanziaria, in piena internazionalizzazione e con la soddisfazione di aver assunto 300 professori associati e 220 ricercatori. Ricordi di un’altra Italia, che c’è, che lavora in silenzio mettendo al centro l’unità, la coesione, l’autonomia e la forza. Un’Italia che ritiene cruciale l’idea di bellezza e il suo potere.

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Professor Zaccaria, la bellezza esiste? Non in assoluto, si potrebbe dire. Non è una qualità intrinseca delle cose, come spiegava David Hume, ma esiste solo nella mente di chi le contempla; e ogni mente percepisce una diversa bellezza. Poi, naturalmente, sappiamo bene che ogni concetto esiste in rapporto con il suo contrario: se non ci fosse il brutto, non potremmo parlare di bello, e viceversa. Senza scendere in giudizi di valore: Umberto Eco ci ha da poco dimostrato, rivisitando tremila anni di storia, da Omero a Star Wars, come la bruttezza sia riuscita a rivestire ruoli significativi attraverso le varie epoche, a volte perfino per veicolare insegnamenti morali. Oltretutto, ogni concetto è relativo: per fare un esempio, gli antichi romani consideravano brutti quelli che non a caso chiamavano barbari, ma poi proprio la storia ci ha dimostrato quanto la civiltà europea sia debitrice alla contaminazione tra belliromani e brutti-barbari. Dunque: la bellezza esiste, ma solo grazie al debito che deve pagare alla bruttezza. Lo stesso Eco a suo tempo ha definito come “il pagamento di un vecchio debito” il suo libro “Storia della bruttezza”: debito con un altro suo precedente lavoro, “Storia della bellezza”. Morale: teniamoci strette entrambe, bellezza e bruttezza, perché entrambe fanno parte della vita. Ma se esiste, la bellezza cos’è? Credo che ne siano state date infinite definizioni. Una delle più indovinate a mio avviso è quella di Ralph Emerson, grande quanto sottovalutato filosofo americano: anche se giriamo tutto il mondo in cerca di ciò che è bello, o lo portiamo già in noi, o non lo troveremo. Secondo gli antichi la bellezza ha un fondamento ontologico, in particolare nell’uomo che la esprime non solo nelle forme fisiche ma anche nella dignità dei comportamenti. Naturalmente, non stiamo parlando di qualcosa di innato: non è che uno nasce “condannato” al brutto, o comunque incapace di percepire ciò che è bello. Determinante è il contesto, e ancor più il processo educativo che deve accompagnare alla scoperta e alla conoscenza del bello. Qui sta a mio avviso uno dei passaggi più alti dell’enciclica di Papa Francesco “Laudato sii’”, che richiama poi il messaggio di fondo del santo di Assisi dal quale il Papa ha voluto prendere il nome: l’importanza strategica dell’educazione al bello, che passa poi inevitabilmente attraverso la scoperta della bellezza della persona umana. Perché solo facendo esperienza di ciò che appartiene irrimediabilmente all’essere umano si può comprendere la bellezza del mondo. Ecco perché il Papa insiste sulla necessità di educare all’alleanza tra umanità e ambiente, insistendo sul fatto che ogni cambiamento

ha bisogno di motivazioni, ma anche di un cammino educativo. Quindi, la bellezza esiste: è nostra responsabilità arrivare a un cambio di paradigma, accompagnando le persone che ne sono più distanti – per età, per cultura, per condizione sociale, per deprivazioni oggettive – a scoprirne l’esistenza e il valore. È quindi qualcosa di diverso dal know-how? Diciamo che questo termine ha finito per assumere un significato essenzialmente tecnico, riferito com’è all’organizzazione aziendale, alla selezione di personale, al management: quindi riduttivo, sia pure importante. Acquista una maggior consistenza se lo si trasferisce sul piano di una sorta di asset immateriale oggi di grande importanza, che potremmo tradurre come “capitale umano”. Un aspetto fondamentale, se vogliamo anche attraente, ma decisamente su un piano diverso da quello della bellezza in sé. Diverso è il discorso se al posto di “know-how” usiamo “conoscenza”: allora sì entra in gioco la bellezza, perché il conoscere è davvero travolgente per l’uomo, in quanto lo rende consapevole del suo rapporto con l’ambiente, e lo porta a capire quale sia il corretto rapporto con la terra in cui vive, esattamente come suggerisce l’enciclica del Papa. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”, ammonisce l’Ulisse dantesco. E lì dentro c’è davvero tutto, specie in quell’abbinamento con la “virtute”: che esiste lì dove la conoscenza è per l’uomo, non contro l’uomo. Perciò è bella. Dipende dall’uomo o dal caso? Per ciò che ho appena detto, il peso di gran lunga maggiore della bellezza ricade sull’uomo. Se riteniamo valida l’equazione bellezza uguale conoscenza, allora è chiaro che è l’uso che l’uomo fa delle cose, non le cose in sé, a fare la differenza. L’esempio più classico è quello dell’energia nucleare, che può essere utilizzata per creare o per distruggere. E ancor più significativo mi pare al riguardo il pensiero di un altro papa, Benedetto XVI, quando denunciava “una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa”. Poi, naturalmente, come in tutta la storia umana, anche la casualità ha la sua parte, se non altro perché l’uomo è di per sé limitato, non può programmare e regolare tutto a proprio piacimento e non può certo controllare tutti i possibili esiti dei suoi comportamenti. Ma è anche l’uomo che può lasciare più o meno spazio al caso, se non è adeguatamente preparato

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e formato per porre in essere comportamenti conseguenti: la storia è piena di apprendisti stregoni che, magari senza volerlo, hanno provocato catastrofi. Esiste un tipo italiano di bellezza, che alcuni chiamano “genio italiano”? Per rispondere voglio allora partire da alcuni dati, perché mi sembra che rispondano al meglio a questi interrogativi: secondo una stima recente (parlo del rapporto “Io sono cultura 2015”, elaborato da Fondazione Symbola), l’intera filiera culturale italiana (le industrie culturali, più quella parte di economia non culturale che viene attivata dalla cultura, come, ad esempio, il turismo culturale) vale 214 miliardi di euro: il 15,3% del valore aggiunto nazionale. Inoltre la cultura esercita sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,67: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,67 in altri settori. Infine, le imprese del sistema produttivo culturale (da sole, senza considerare i posti di lavoro attivati negli altri segmenti della nostra economia) danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,8% del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,2%, se includiamo pubblico e non profit). Naturalmente, dando per scontata l’equazione cultura uguale bellezza, è giusto sottolineare preliminarmente che questo aspetto ha anche un sostanzioso risvolto economico, specie in un paese che scarseggia di materie prime ma abbonda di materia grigia. E in questo senso, chi può fare meglio dell’Italia, non solo ieri ma anche oggi? Pensiamo allo straordinario patrimonio artistico, culturale, ma anche paesaggistico del nostro paese; e pensiamo alla forza di attrazione che il “Made in Italy” continua a esercitare all’estero non solo sul piano dei contenuti ma anche della qualità, dell’immagine, del design. Vorrei dire, parafrasando la nostra Costituzione, che l’Italia è una Repubblica fondata sulla bellezza. E d’altra parte, lo stesso premier Renzi ha ricordato di recente che l’Italia deve ripartire dalla bellezza. È un colossale patrimonio che si è venuto accumulando

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nel tempo, e non è un puro fatto estetico: se parlo della mia regione, il Veneto, beh… è un atlante a cielo aperto di bellezza, dal paesaggio incomparabile all’eredità lasciata da tanti artisti nei secoli. Perché allora c’è poca attenzione per la bellezza in Italia? Innanzitutto per un atteggiamento di fondo che ci caratterizza, l’abitudine a vivere immersi in mezzo alla bellezza naturale (come pure a quella artistica) ci porta costantemente a sottovalutare il valore e le potenzialità della bellezza come risorsa sia economica sia di coesione sociale. Poi fondamentalmente per un pesante deficit culturale che si è venuto accumulando da tempo, e non da ieri: penso in particolare alla miopia degli investimenti in formazione e cultura della politica italiana già nella prima Repubblica, che hanno penalizzato la scuola e l’università. Ma anche i privati investono poco in cultura, per scarsa sensibilità e anche per una serie di vincoli che all’estero non esistono, o sono molto più leggeri. Certo, non è questione solo italiana: paghiamo un degrado che viene da lontano, e a questo riguardo mi torna in mente un’efficace immagine utilizzata quando oltre mezzo secolo fa Marshall McLuhan metteva sotto accusa l’industria culturale, spiegando che il suo obiettivo era “fare a pezzi il Colosseo per costruire con i frammenti Disneyland”. Ma in Italia ci mettiamo indubbiamente del nostro: basta leggere il recente libro di Ilaria Borletti Buitoni, “Cammino controcorrente”, per toccare con mano quanto poco e male si investa in cultura nel nostro paese, e quanto colpevolmente trascurato sia il nostro patrimonio artistico. E d’altra parte, per restare in casa mia, basti pensare al pluridecennale e sfibrante dibattito su quel gioiello unico al mondo che è Venezia: mi ha decisamente intristito sentire di recente la neo sindaco di Barcellona utilizzarla come termine negativo di paragone, quando ha sostenuto che la sua città non diventerà mai come Venezia, degradata da un consumo assurdo e insostenibile.


Cosa dovrebbe fare la politica per la bellezza? Mi vien da dire, politicamente: come prima cosa, mettere decisamente mano alla bruttezza in cui è precipitata, cercare di tornare a essere bella, quindi appetibile. Non è un caso se oggi, di fatto, quasi un elettore italiano su due rimane a casa in occasione di un appuntamento elettorale, e ha una pessima opinione dei partiti e delle istituzioni. Il brutto non può produrre il bello. E anche qui il passato italiano ha esempi virtuosi: penso alla straordinaria stagione dell’autonomia comunale del Duecento, ai principi mecenati del Rinascimento, a maestri come Machiavelli e Guicciardini, agli uomini del Risorgimento, allo stesso ceto politico della Resistenza e della ricostruzione. Penso di nuovo a Venezia, nella lunghissima stagione della Serenissima, dove il principio ispiratore della politica era il primato assoluto e indiscusso dell’interesse generale su quello particolare… Insomma, un retaggio virtuoso che purtroppo si è vistosamente degradato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il premier Renzi ha sostenuto che l’Italia deve ripartire dalla bellezza: siamo d’accordo, ma non basta. Dev’essere per prima la politica a mettersi su questa strada, in quanto luogo dell’elaborazione di un vero e proprio piano regolatore dello sviluppo che faccia sintesi degli interessi e tracci una strada tarata sulle nuove generazioni. Poi certo la politica da sola non basta: a questo compito siamo chiamati tutti, dall’economia alla società, dall’istruzione alla cultura. Perché è vero che in fin dei conti la politica è in larga parte specchio del contesto in cui opera: il nostro è un paese in ostaggio di troppe corporazioni, alle quali fa comodo avere una politica che tutela i loro interessi anziché quelli della collettività.

fondamentali; ma per farlo, bisogna mettere da parte chi finora ha venduto soltanto fumo o poco più. Mi spiego con un esempio concreto: la nostra classe politica dibatte di riforme istituzionali dall’inizio degli anni Ottanta; è passato un terzo di secolo, e siamo ancora al dibattito, tarato da veti incrociati, rinvii, sabotaggi. E non ci sono solo le riforme istituzionali, ma anche tutte quelle che ci impediscono di diventare un paese moderno, dal fisco alla burocrazia alle infrastrutture, mettendoci in pesante svantaggio competitivo con le realtà più avanzate. Poi, dalla mia esperienza di rettore di una delle più prestigiose università del mondo, non potrei non partire dalla cultura, quindi dalla bellezza, per tornare al tema di fondo di questa intervista. Siamo un paese gerontocratico, non solo in politica: è indispensabile invertire il trend, portando in primo piano i giovani. L’ex presidente della Repubblica Napolitano, in uno dei suoi incisivi messaggi di fine anno, ha affermato che un paese che non investe sui giovani non è democratico: è un concetto che mi sento di condividere totalmente. Ma per spostare davvero il baricentro sui giovani, è indispensabile che possano essere formati in modo adeguato a diventare classe dirigente, sia pure in ruoli e ambiti diversi. Quindi non posso non tornare sul valore degli investimenti in scuola, università, formazione, cultura: aspetti che anche oggi sono colpevolmente trascurati. Se vogliamo un’Italia che torni a essere bella e attraente come in passato, è da qui che dobbiamo ripartire. La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij. Cominciamo dall’Italia.

Se dovesse fare un manifesto per l’Italia, da dove partirebbe? Da una battuta di Indro Montanelli: “Strano paese il nostro, colpisce i venditori di sigarette, ma premia i venditori di fumo”. Lo dico perché penso che occorra ripartire dai

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GIUSEPPE ZACCARIA — Is philosophy knowledge or the organization of knowledge? The philosopher Giuseppe Zaccaria has solved the enigma is his own way, concerning himself with the first and devoting his career to the second. Graduating in law with Enrico Opocher from Padua University in 1970 and pursuing postgraduate courses at Oxford, Saarbrücken and Washington, Zaccaria taught “State Doctrine” and “Philosophy of Law” in Sassari (1977-1983), “General Theory of Law” in Ferrara (1983-1990) and, since the start of the nineties, he has been professor of “General Theory of Law” at the Faculty of Political Sciences of his city, where he also teaches “Human Rights” and “IT Law”. But, above all, Zaccaria is the author of the new course at the Veneto University, its passage to the post-modern era and the difficult challenges that he has tackled and overcome in recent decades as vice chancellor and, since 2009, as chancellor of Padua University, which he leaves to his successor in first place for the quality of the research, in fine economic and financial health, fully engaged in internationalization and with the satisfaction of having hired 300 associate professors and 220 researchers. Memories of another Italy, that worked in silence with unity, cohesion, independence and strength at the center. An Italy that believes the idea of beauty and its power is crucial. Professor Zaccaria, does beauty exist? Not as an absolute, it could be said. It is not an intrinsic quality of things, as David Hume explained, but exists only in the eye of the beholder; and every eye sees a different beauty. Then, of course, we well know that every concept exists in relation to its opposite: if the ugly did not exist, we could not speak of beauty, and vice versa. Without descending into value judgements: Umberto Eco has recently shown us, revising three thousand years of history from Homer to Star Wars, how ugliness has managed to play significant roles through the various eras, sometime even to convey moral teachings. Moreover, every concept is relative: to give an example, the ancient Romans considered those they called barbarians ugly, but history shows us how much European civilization owes to the contamination between beautiful-Romans and ugly-barbarians. So: beauty exists but only thanks to the debt that it owes to ugliness. Eco also defined as “the payment of an old debt” his book “History of Ugliness”: a debt owed from a previous work of his, “History of Beauty”. Moral—we should value both beauty and ugliness since both form part of life. But if it exists, what is beauty? I think that countless definitions have been given to it. One of the best in my opinion is Ralph Emerson’s, a great but undervalued American philosopher: even if we travel the whole world in search of the beautiful, either it is already in us, or we will not find it. According to the ancients, beauty has an ontological basis, especially in mankind, who expresses it not only in the physical form but also in the dignity of conduct. Of course, we are not talking about something innate: it isn’t that someone is born “condemned” to ugliness, or incapable of perceiving what is beautiful. The context is decisive, and the educational process that must accompany the discovery and awareness of the beautiful even more so. Here, in my opinion, is one of the most exalted passages of the encyclical of Pope Francis “Laudato sii”, which recalls the basic message of the Saint of Assisi, whose name the Pope adopted: the strategic importance of education on beauty, which then inevitably passes through the discovery of the beauty of the human person. Because only by gaining experience of what belongs irremediably to the human being can the beauty of the world be understood. This is why the Pope insists on the need to educate about the alliance between humanity and the environment, insisting on the fact that every change needs justification, but also an educational process. So, beauty exists: it is our responsibility to achieve a change of paradigm, helping people who are far from beauty—due to age, culture, social condition, objective deprivations—to discover its existence and value. And so it is something different to know-how? Let’s say that this term has ended up taking on an essentially technical meaning, referring as it does to corporate organization, the selection of personnel, the management: therefore reductive, albeit important. It acquires greater consistency

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if it is transferred to the level of a sort of intangible asset, of great importance today, which we can translate as “human capital”. A fundamental aspect, even attractive, but decidedly on a level other than that of beauty of itself. It’s a different matter if we replace “know-how” with “knowledge”: then beauty comes into play because knowledge is really overwhelming for mankind, since it makes us aware of our relationship with the environment and leads us to understand the correct relationship with the earth on which we live, exactly as the Pope’s encyclical suggests. “You were not made to live as hideous creatures but to pursue virtue and knowledge,” Dante’s Ulysses admonishes. And behind this, there really is everything, especially in that combination with “virtue”: this exists where knowledge is for mankind, not against mankind. That is why it is beautiful. Does it depend on mankind or chance? As I just said, the responsibility for beauty lies mainly with mankind. If we hold valid the equation beauty equal knowledge, it is clear that it is the use that mankind makes of things, not the things themselves, that makes the difference. The classic example is nuclear energy, which can be used to create or destroy. And even more important in this regard, I believe, is the thought of another pope, Benedict XVI who denounced “a seductive but hypocritical beauty that rekindles desire, the wish for power, possession, domination over others that is soon transformed into its contrary, taking on the guise of obscenity, transgression or provocation for its own sake.” Of course, as in all of human history, chance also has a part, if only because mankind is inherently limited, cannot plan and regulate everything to his liking and certainly cannot control all the possible outcomes of his behavior. But mankind can give more or less space to chance, depending on adequate education and training to implement consequent behavior: history is full of sorcerer’s apprentices who, without meaning to, have caused catastrophes. Is there an Italian type of beauty that some call “Italian genius”? In order to answer, I would like to start with some data, because I think they best answer these questions: according to a recent estimate (I am referring to the report “I am culture 2015”, drawn up by Fondazione Symbola), the entire Italian cultural chain (the culture industrials, plus that part of the non-cultural economy that is driven by culture such as, for example, cultural tourism) is worth 214 billion euros: 15.3% of national added value. Moreover, culture exerts a multiplying effect on the rest of the economy of 1.67: in other words, for every euro produced by culture, 1.67 euros is produced in other sectors. Finally, businesses in the cultural production system employ (alone, without considering the jobs created in other sectors of our economy) 1.4 million people, 5.8% of the total employed in Italy (1.5 million, 6.2%, if we include public and non-profit organizations). Of course, taking as read the equation culture equal beauty, it is right to first underline that this aspect also has substantial economic impact, especially in a country poor in raw materials but with a wealth of gray matter. And, in that sense, who can make the best of Italy, not only yesterday but also today? Think of the extraordinary artistic, cultural and natural heritage of our country; and think of the power of attraction that “Made in Italy” continues to exert abroad not only at the level of content but also quality, image and design. I would like to say, paraphrazing our Constitution, that Italy is a Republic founded on its beauty. And, moreover, prime minister Renzi recently noted that Italy had to start again from beauty. It is a colossal heritage that has been accumulating over time, and is not a pure aesthetic fact: if I talk about my own region, the Veneto, well… it is an open air atlas of beauty, from the unrivalled landscape to the heritage left by so many artists over the centuries.” Why, then, is there so little attention paid to beauty in Italy? Firstly due to a basic attitude that characterizes us, the habit of living immersed in the midst of natural (and artistic) beauty constantly leads us to underestimate the value and potential of beauty as an economic resource and a factor of social cohesion. Secondly, it is basically due to a heavy cultural deficit that has been accumulating for some time, not since yesterday: I am thinking in particular of the myopia of the investments in education and culture of Italian politics as far back as the first Republic, which penalized schools and universities. But private


citizens also invest little in culture due to lack of awareness and also because of a series of constraints that do not exist abroad, or are much more lenient. Of course, it is not just an Italian question: we are paying for a degradation from afar and, in this regard, an effective image comes back to mind that was used when, more than half a century ago, Marshall McLuhan accused the culture industry, explaining that its objective was to “smash the Colosseum in pieces and build Disneyland with the fragments.” But in Italy we definitely make our own mistakes: just read the recent book by Ilaria Borletti Buitoni “Walking against the tide” to find out how little and badly investment is made in culture in our country, and how shamefully neglected our artistic heritage has become. And, moreover, again in my backyard, it is sufficient to think of the many decades of exhausting debate over the unique jewel in the world that is Venice: I was extremely saddened to hear recently the new mayor of Barcelona using Venice as a negative term of comparison, when he said that his city would never become like Venice, degraded by absurd and unsustainable consumption. What should politics do for beauty? I would say, politically: firstly, tackle the ugliness in which it has fallen, and try to return to being beautiful and therefore attractive. It is no coincidence that nearly one Italian voter in two stays at home during elections and has a very low opinion of the political parties and institutions. The ugly cannot produce beauty. And here too, Italian history has virtuous examples: I am thinking of the extraordinary season of municipal autonomy of the thirteenth century, the patron princes of the Renaissance, masters like Machiavelli and Guicciardini, the men of the Risorgimento, the Resistenza and the reconstruction. I think again of Venice, in the long season of the Serenissima, where the main inspiration for politics was the absolute and indisputable supremacy of the general interest on the particular… In short, a virtuous legacy that, unfortunately, was remarkably degraded starting from the nineteen eighties. Prime minister Renzi sustained that Italy must start again from beauty: we agree, but it is not enough. It must first be politics that take this road, as the place where a real regulatory plan is drawn up for development that brings together all the interests and follows a path calibrated on the new generations. But politics alone are not enough: we are all called to the task, from the economy to society, from education to culture. Because it is true that, in the end, politics are largely a mirror of the context in which they operate: ours is a country held hostage by too many corporations for which it is convenient to have policies that protect their interests rather than those of society. If you had to draw up a manifesto for Italy, from where would you start? From a joke by Indro Montanelli: “Ours is a strange country, it punishes the sellers of cigarettes but rewards the sellers of smoke.” I say that because it is necessary to start again from fundamentals; but, to do that, it is necessary to put aside those who have so far sold only smoke and little else. I will give a concrete example: our political class has been debating institutional reforms since the start of the eighties; a third of a century has passed and the debate continues, marked by vetoes, referrals and sabotage. And not only the institutional reforms but also all those impediments that prevent us becoming a modern country, from the tax to the bureaucracy and the infrastructure, putting us at a great competitive disadvantage in relation to more advanced organizations. From my experience as chancellor of one of the most prestigious universities in the world, I could only start with culture, and so beauty, before returning to the basic subject of this interview. We are a gerontocratic country, not only in politics: it is vital to reverse the trend, by bringing young people to the fore. The former president of the Republic, Napolitano, in one of his influential end-of-year messages, stated that a country that does not invest in young people is not democratic: it is a concept with which I completely agree. But to really shift the focus to youth, it is vital they are adequately educated to become part of the managerial class, albeit in different roles and fields. Therefore, I can only return to the value of investment in schools, universities, training and culture: aspects that are shamefully neglected even today. If we want an Italy that returns to being beautiful and attractive as in the past, we must start from here. Beauty will save the world, Dostoyevsky said. Let’s start with Italy.

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Franco Zeffirelli

“Biondo, bello e di gentile aspetto”. Franco Zeffirelli è semplicemente un mito, uno degli italiani più famosi al mondo, dei registi più amati e dotati di talento estetico. Un artista completo, un marchio dell’Italia, oggi si direbbe un brand, ma soprattutto un amante della bellezza. Un uomo cioè che continua a meravigliarsi del bello, a cercarlo e a irritarsi se non c’è.

Un vero personaggio che continua a piacere e piacersi anche a 92 anni compiuti. “Dagli specialisti sarò ricordato per le mie conquiste culturali e il mio senso estetico. Dal pubblico per Romeo e Giulietta, Fratello Sole e il Gesù di Nazareth”. Bellezza è la cifra su cui ha girato tutto il mondo di Zeffirelli, fin dagli esordi. È la sua bellezza a colpire un regista corteggiato e inaccessibile, Luchino Visconti, che di passaggio a Firenze nota il giovane scenografo. È l’inizio di una collaborazione e un amore tormentati, difficili, inesauribili. È la bellezza del suo lavoro a renderlo famoso nel mondo, dopo che la sua libertà intellettuale gli ha creato problemi nell’Italia del dopoguerra, con l’accordo tra potere e cultura. “Sono stato ostracizzato perché non ero comunista. Non hanno danneggiato la mia carriera, ma mi hanno indispettito perché era un ostracismo ideologico usato da chi aveva la cultura in mano. Visconti era comunista? L’ho visto licenziare due camerieri che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Fece benissimo”. Da uomo profondamente libero e credente, Zeffirelli è sempre riuscito a superare le sue passioni. L’anticomunismo non gli ha impedito così di essere per tutta la vita antifascista, firmando Un tè con Mussolini, il film che ne rappresenta il testamento spirituale. “Forse il film più visceralmente antifascista di tutta la storia del nostro cinema” (Tullio Kezich). La liaison con Visconti apre a Zeffirelli le porte del successo. La prima volta a Parigi arriva con tre sue lettere in tasca: una per Cocteau, una per Marais e una per Coco Chanel. Prima che torni indietro Coco gli regala 12 disegni, 12 ballerine firmate Matisse: “Le presi per riproduzioni invece erano tutti originali. Mi hanno salvato nei periodi di magra”. Invitato dalla regina Elisabetta e da Papa Paolo VI, da Hillary Clinton e Bob Kennedy, è stato intimo di Liz Taylor e Laurence Olivier, ma l’amica del cuore resta Maria Callas, a cui starà vicino fino alla fine. “La conobbi che era grassa e goffa; un anno dopo aveva perso 30 chili ed era diventata una donna di insuperabile fascino. Una trasformazione che ha segnato il mondo della lirica, che da allora si può datare a.C. e d.C., prima e dopo Callas”. Omosessuale dichiaratosi solo in tarda età, “per rispetto di sé e degli altri”, ha sempre odiato la parola e la cultura gay. “Mi

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infastidisce l’etimologia”, spiegò un giorno. “Nasce nella cultura puritana: l’idea che, per bilanciare questa anomalia, devi essere simpatico, gaio. E così in America vediamo questa roba da carnevale, si truccano come pagliacci, tutti felici e allegroni, sei così spiritoso e divertente che ti chiamano gay. Una specie di attenuante. Ma si può? Dire a Michelangelo che è gay? A Leonardo? Andiamo, essere omosessuali significa portare un grave peso di responsabilità, scelte difficili: sociali, umane e di cultura”. Senatore eletto nel 1994 e nel 1996 nel partito dell’amico Silvio Berlusconi, in seguito ha cambiato idea sull’esperienza. “Volevo dare il buon esempio della cultura al servizio della società. Non erano i tempi, come non lo sono nemmeno oggi. La politica è il lusso dell’uomo qualunque”. Non sull’amicizia, però. “Berlusconi sarà ancora e sempre oggetto di irritazione per la mediocrità altrui”. Discendente a suo dire di Leonardo da Vinci – “un mio propro-nonno mise incinta la contadina che generò Leonardo” – ha un’idea leonardesca del bello, “il bello semplice e rigoroso che perfora il cuore e la mente senza sforzo”. Proprio come ha saputo fare nella sua casa piena di fiori, foto e mobili che mettono in scena una vita unica e irripetibile.

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In questa casa parlare di bellezza è più facile, maestro.

E Luchino Visconti?

Bellezza è la cosa più straordinaria della vita. Anzi, è il criterio di tutta la storia.

Anche lui un maestro, ma come quelli del Rinascimento. Ammaestrava mentre creava.

Si sente di esserne stato un interprete particolare?

Un grande amore.

Ho dedicato la mia vita alla bellezza. A volte non dormo la notte pensando a quanta bellezza ho prodotto.

Viscerale e profondo, quello sì alla greca. La sua grandezza e la sua superbia erano energia per me, in cambio mi offriva affetto. Visconti era rabbioso, complesso, coltissimo molto altero. Tra noi ci fu sempre una comunicazione profonda.

Si è ispirato all’ideale greco? Io sono profondamente cristiano, da sempre al servizio della Chiesa. Ma anche la bellezza greca è a immagine e somiglianza dell’ideale, cioè del modello divino. In ogni caso, ho fatto carriera perché ho realizzato un mio codice di bellezza. Il criterio maschile è diverso dal femminile? I criteri sono diversi. Le donne hanno espresso codici sulla bocca, gli occhi, il seno e le mani. Gli uomini invece hanno codificato gli attributi della forza, le braccia, le spalle, il petto, le gambe. Per me l’idea di bellezza è femminile, ma trovo che anche l’uomo sia molto estetico. Nel maschile però può accadere che il brutto divenga bello. Panzane. Un brutto-bello non esiste. Sono i ricchi ad aver confuso le idee ai poveri. Se va bene, i brutti si vendicano diventando dei geni. Però il portamento è uno dei canoni della bellezza. “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta”. Anche in Italia è ancora così? La razza umana è ancora carica di messaggi di bellezza, ma in Italia la casa della bellezza è scoppiata. Hanno inventato canoni che possono rendere interessanti le casalinghe... Dice così perché ha sempre fatto allestimenti opulenti, ricchissimi, che sono diventati la sua cifra. L’esatto contrario dello stile minimalista di oggi. Che devo dirle? Alla Scala nel 2013 Violetta impastava le tagliatelle… La Traviata nel tinello. Roba da brividi, non si può nemmeno pensare. Perché questa tendenza allora? Il narcisismo. L’ego di registi incompetenti ha colpito direttori, sovrintendenti, cantanti, pubblico. Il regista deve far vedere la musica, mentre oggi l’arroganza senza cultura mette in mostra solo se stessa. Spettacolo pietoso. Chi è stato il suo maestro? Dio, anche se sono indegno di Lui.

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Però ha avuto anche molte relazioni femminili. Donne bellissime. Ho avuto a che fare con le donne più belle dell’epoca, Liz Taylor, Maria Callas, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida. Era amicizia, però. L’Italia ha avuto donne bellissime, spiritose e anche brutte interessanti, come le prime miss. Cosa pensava delle donne allora? Le dividevo in due categorie. Portatrici di bellezza, portatrici di saggezza. In ogni caso, una donna bella è sempre a posto, economicamente, a patto che sia in relazione con l’energia della bellezza. Le donne belle hanno un potere terribile. La bellezza è legata anche all’intelligenza? La bellezza è una virtù, quindi sempre legata all’intelligenza. Liz Taylor era padrona delle situazioni, sempre. Ha fatto una vita di sacrifici, sempre in equilibrio, ma mantenere l’equilibrio non è semplice per niente. Si può educare alla bellezza? Educazione è sempre portare la bellezza alla ragione. Oggi si sta creando un canone di bellezza accoppiato alla ricchezza. Nei paesi arabi per esempio. È sbagliato. Quindi belli non si nasce ma si diventa? Belli si nasce, ma diventare belli si può. È un’operazione classica, a condizione che la bellezza sia dentro di sé. Quando inizia la bellezza moderna? Con la Rivoluzione francese che apre le porte alla donna come figura di potenza e di carattere, di ruolo sociale oltre che erotico. A proposito di rivoluzione. Il suo concittadino Renzi sta cambiando tutto. E ha scritto di volerlo fare in nome della bellezza. Renzi è un bravo ragazzo, scaltro, un cocco di mamma. Per questo capisce che la bellezza è un’arma per vincere.


Somiglia a Berlusconi come molti dicono? Lei può dirlo perché lo conosce bene. È un paragone che non regge. Non credo sia possibile diventare il nuovo Berlusconi e non solo per ragioni economiche. Il ministro Maria Elena Boschi ha detto che vuole essere giudicata per quello che fa e non per quello che sembra, per l’estetica. È una posizione giusta, ma fino a un certo punto. La Boschi è bella e anche brava. La bellezza di una donna è importante, ma il suo carattere è decisivo per diventare la numero uno. Prenda Greta Garbo. Il premier Renzi insiste per un nuovo ruolo dell’Italia e della bellezza italiana. Non so se riuscirà, ma un ruolo nel futuro della bellezza l’Italia ce l’ha senz’altro perché tutto nasce qui. E in Italia oltre alla bellezza, c’è anche l’intelligenza. Peccato che spesso non si voglia usare, come a Firenze, che nel suo centro ideale ha la cupola di Santa Maria del Fiore. Per me l’edificio più straordinario fatto dall’uomo. Volevo farci un film, che era arrivato quasi in porto. È sempre stato molto critico con la sua città. Non con la città, con i suoi abitanti, che restano indegni dei loro antenati. Da giovane ero un fiorentino che aveva scoperto che sua madre fiorentina era l’Inghilterra grazie a Miss Mary O’Neill, la mia istitutrice. La incontravo tre volte alla settimana in una stanzuccia del centro. Una donna semplice che mi insegnò a leggere la lingua di Shakespeare, che amava l’Italia e la comprendeva molto meglio di tanti professori. “Siete caduti nella trappola di Mussolini”, mi diceva. “Non lo meritavate”. Il fascio fiorentino era fortissimo. Aveva timore? I fascisti erano dei poveracci, dei visionari e molto spesso dei codardi che tremarono quando il gioco si fece duro. La guerra fu terribile ma non vinse la mia esigenza di bellezza, che Firenze non poteva esaudire. Si sentiva esule in patria? Per anni sono stato paziente, poi mi sono rotto. Firenze del resto è un caso clinico, il pettegolezzo puro come cultura, una città accanita contro se stessa. Anche adesso che vuole dedicarle un museo per i suoi 140 mila libri?

Un dono di Dio. Nell’ex tribunale barocco di San Firenze. 10 mila metri quadrati per 60 anni di film, disegni, bozzetti, scenografie, costumi, foto. E una scuola teatrale, non dimentichiamolo mai. È vero che voleva farlo la regina Elisabetta? Ama la mia opera dai tempi del Romeo e Giulietta all’Old Vic, il primo mai realizzato da un non inglese nel tempio di Shakespeare. Poi si era offerta Roma ma non c’erano gli spazi. Alla fine proprio la mia città ha trovato un posto ideale per un’accademia. Una scuola di bellezza per i giovani. Ne hanno bisogno? Moltissimo. I ragazzi di oggi non hanno avuto la fortuna della mia generazione. E il patrimonio di arte e bellezza, ovvero d’amore, che mi ha dato la vita non appartiene a me perché anch’io, a mia volta, l’ho ricevuto da altri. Non farne partecipe chi mi seguirà sarebbe un egoismo imperdonabile e stupido. A proposito di spazi di bellezza, ha visto Palazzo Italia all’Expo? Non ho visto l’Expo e non so se riuscirò ad andare. Ma dalle foto mi pare un progetto ambizioso. E bello, nel suo genere. Palazzo Italia ma anche altre architetture, molto eleganti e solari. Oltre che di bellezza c’è bisogno di ambizione, oggi, in Italia. Oggi al cinema c’è più bellezza o ambizione? Quale cinema, scusi? Il cinema non c’è più. Se devo ricordare qualche eccellenza penso a Bertolucci, ma sono ricordi non sufficienti a riempire le sale. Quali registi italiani di oggi le piacciono? Oggi al cinema ci sono talenti professionali. Punto. Da cattolico cosa pensa di Papa Francesco? Lui richiama spesso alla bellezza. Gli avevo dedicato un libro ma Francesco è cambiato. Si è messo a fare l’uomo qualunque e un papa non può essere un uomo qualunque. Non mi piace più. Ultima domanda. Vorrebbe fare un altro film? Guardi che lasciare a tempo debito è un’arte. Non voglio sporcare nulla. I prati che ho calpestato voglio ricordarmeli tutti in fiore.

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Franco Zeffirelli — “Blonde, beautiful and kind-looking.” Franco Zeffirelli is simply a legend, one of the world’s best-known Italians and one of the best-loved and most talented film directors. An all-round artist, identified with Italy, what we would now call a brand, but above all a lover of beauty. A man who continues to love beauty and marvel at it, to seek it out, and to get annoyed when he fails to find it. A true character who still fascinates people at the age of 92. “The specialists will remember me for my cultural conquests and my sense of beauty. The public will remember me for Romeo and Juliet, Brother Sun and Jesus of Nazareth.” Beauty is the key to Zeffirelli’s world, right from the start. It is his beauty that strikes a much-courted and inaccessible director, Luchino Visconti, who noted the young set designer on his way through Florence. The two began a partnership and a relationship that was tormented, difficult, inexhaustible. It was the beauty of his work that made him famous all over the world, after his intellectual freedom had created problems for him in post-war Italy, when power and culture went hand in hand. “I was ostracized because I was not a communist. They didn’t harm my career, but they bothered me because it was a form of ideological ostracism used by the people in charge of culture. Was Visconti a communist? I saw him fire two servants who had forgotten to comb his Persian cats. And he was quite right!” As a profoundly free man and a believer, Zeffirelli always managed to overcome his passions. His anti-communism did not stop him from being an antifascist all his life, and Tea with Mussolini was the film best representing his spiritual testament. “Perhaps the most viscerally antifascist film of the entire history of film” (Tullio Kezich). His liaison with Visconti opened up the doors to success to Zeffirelli. The first time he went to Paris he had three letters from him in his pocket: one for Cocteau, one for Marais and one for Coco Chanel. Before he went back Coco had given him 12 drawings, 12 ballerinas by Matisse: “I thought they were copies, but they were actually all originals. They were my salvation in hard times.” Invited by Queen Elizabeth and Pope Paul VI, Hillary Clinton and Bob Kennedy, he was a close friend of Liz Taylor and Laurence Olivier, but his best friend was Maria Callas, to whom he remained close right until the end. “When I met her she was fat and clumsy; a year later she had lost 30 kilos and become a truly charming woman. A transformation that made its mark on the world of opera, which has since been divided into two eons: B.C. and A.C., before Callas and after Callas.” He only came out of the closet late in life, “out of respect for himself and others,” and always hated the word gay and all that surrounds it. “I just don’t like its etymology,” he said one day. “It was born out of a puritan culture: the idea that in order to make up for this anomaly you have to be fun and gay. And so in America they have all this carnival stuff, they make themselves up like clowns, they’re all so happy, having so much fun that they’re called gay. It’s a sort of excuse. But would you tell Michelangelo he was gay? How about Leonardo? Let’s admit it: being homosexual means bearing a great weight of responsibility, of difficult choices, social, human and cultural.” Elected senator in 1994 and again in 1996 in the party of his friend Silvio Berlusconi, Zeffirelli later changed his mind about the experience. “I wanted to set a good example of culture at the service of society. It wasn’t the right time, just as it isn’t today. Politics is the luxury of the ordinary man.” Not about his friendship, though. “Berlusconi still irritates people, and always will, because of other people’s mediocrity.” Calling himself a descendent of Leonardo da Vinci—“it was one of my great-greatgrandfathers that impregnated the peasant woman who gave birth to Leonardo”— he shares Leonardo’s idea of beauty, “simple, rigorous beauty that perforates the heart and the mind effortlessly.” As he has done in his house full of flowers, photographs and furniture providing the set for a unique, unrepeatable life story.

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It’s easier to talk about beauty in this house, maestro. Beauty is the most amazing thing in life. In fact, it’s what determines it all. Do you feel you have been a special interpreter of it? I have dedicated my life to beauty. I sometimes can’t sleep at night thinking about all the beauty I have created. Were you inspired by the Greek ideal? I am profoundly Christian, and have always served the Church. But Greek beauty is also the image and the reflection of the ideal, that is, of the divine model. In any case, I have had a career because I have come up with my own code of beauty. Is the criterion of masculine beauty different from that of feminine beauty? The criteria are different. Women have expressed codes in their mouths, eyes, breasts and hands. Men have codified the attributes of strength, the arms, shoulders, chest and legs. To me, the idea of beauty is feminine, but I also find men very beautiful. But for men, the ugly sometimes becomes beautiful. Not at all. There is no such thing as beautiful ugliness. It is the rich who have mixed things up for the poor. If all goes well, the ugly can take their revenge by becoming geniuses. But behavior is one of the canons of beauty. “So gentle and so honest appears my lady when she greets others,” says Dante. Is it still that way in Italy? The human race is still full of messages of beauty, but in Italy the house of beauty has exploded. They have come up with canons that can make even housewives look attractive… You say that because you have always been identified with your rich, opulent settings. The exact opposite of today’s minimalist style. What can I say? At Teatro alla Scala in 2013 they had Violetta making tagliatelle… La Traviata was performed in the kitchen. I don’t even want to think about it. So why this trend? Narcissism. The egos of incompetent directors have affected theater managers, superintendents, singers and the public. The director has to render the music visible, while today’s arrogance without culture makes visible only itself. It’s a sad spectacle. Who was your teacher? God, though I am unworthy of Him. What about Luchino Visconti? He was also a teacher, but in the way of a Renaissance master. He taught as he created. A great love. Visceral and profound. Now that was Greek. His greatness and his pride brought me energy, and in exchange he offered me his affection. Visconti was full of rage, complex, very cultured and very proud. We always communicated on a very deep level. But you also had relationships with many women. Very beautiful women. I had to do with the most beautiful women of the day, Liz Taylor, Maria Callas, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida. But they were friends. Italy has had some very beautiful women, some spirited women and some interesting ugly women, such as the first beauty queens. What did you think of women at that time? I divided them into two categories. Bringers of beauty and bringers of wisdom. In any case, a beautiful woman always gets along fine, economically, provided she is in harmony with the energy of beauty. Beautiful women have a terrible power.


Is beauty also linked with intelligence? Beauty is a virtue, and therefore it is always linked with intelligence. Liz Taylor was always in control of the situation. She lived a life of sacrifice, always in balance, but it is by no means easy to maintain balance. Can people be educated in beauty? Education is always a matter of bringing beauty to reason. Now we are creating a canon of beauty combined with wealth. In the Arab countries, for instance. This is wrong. And so people are not born beautiful, but become beautiful? People are born beautiful, but they can also become beautiful. It’s a classic operation, on the condition that the beauty is within. When does modern beauty begin? With the French Revolution, which introduced woman as a figure of power and character, of social as well as erotic grief. On the topic of revolution: Renzi, a man from your own town, is changing everything. And he has written that he wishes to do so in the name of beauty. Renzi is a good kid, shrewd, the apple of his mother’s eye. This is why he understands that beauty is a weapon for victory. Is he like Berlusconi, as many people say? You can say, because you know him well. They can’t be compared. I don’t think it’s possible to become the new Berlusconi, and not only for economic reasons. Minister Maria Elena Boschi has said that she wants to be judged for what she does and not what she looks like. That’s correct, but up to a certain point. Boschi is beautiful and also talented. A woman’s beauty is important, but it is her character that can make her number one. Look at Greta Garbo. Prime Minister Renzi focuses on a new role for Italy and for Italian beauty. I don’t know if he will succeed, but Italy certainly will play a role in the beauty of the future because everything starts here. And in Italy we have not only beauty but intelligence. Pity it’s often not used, as in Florence, the ideal center of which is the dome of Santa Maria del Fiore. I consider it the most amazing building ever built by man. I wanted to make a film about it, and I almost did. You have always been very critical of your city. Not the city, but its inhabitants, who are unworthy of their ancestors. When I was a young man I was a man of Florence who had discovered that his Florentine mother was England, thanks to my teacher Miss Mary O’Neill. I met her three times a week in a little room in the center of town: a simple woman who taught me to read the language of Shakespeare, who loved Italy and understood a lot of things better than a lot of professors. “You fell into Mussolini’s trap,” she used to say. “You didn’t deserve it.” Fascism was very strong in Florence. Were you afraid? The fascists were poor devils, visionaries and, very often, cowards who trembled when the going got tough. The war was terrible, but it did not do away with my thirst for beauty, which Florence was not enough to satisfy. Did you feel like an exile in your own land? For years I was patient, but then I got fed up. Florence is a classic case: pure gossip as culture, a city that has it in for itself. Even now that the city would like to give you a museum for your 140 thousand books? A gift of God. In the former Baroque courthouse of San Firenze. 10 thousand square

meters for 60 years of films, drawings, sketches, set designs, costumes and photos. And a school of theater, of course. Is it true that Queen Elizabeth wanted to do it? She has loved my work ever since the days of Romeo and Juliet at the Old Vic, the first performance ever by someone who was not British in the temple of Shakespeare. Then Rome wanted to do it, but there was no room. In the end it was my own city that found the perfect place for an academy. A school of beauty for the young. Do they need it? Absolutely. Kids today are not as lucky as my generation. And the heritage of art and beauty, or love, that has given me life does not belong to me, because I too received it from others. Not sharing it with those who follow me would be an unforgivable, stupid act of selfishness. On the topic of spaces for beauty, have you gone to Palazzo Italia at Expo? I haven’t been to Expo and I don’t know if I will. But it looks like a very ambitious project in the photographs. And beautiful, in its way. Palazzo Italia and the other buildings, very elegant and sunny. We need ambition as well as beauty in Italy today. Is there more beauty or ambition in film today? What film do you mean? There is no more film. If I want to recall excellence I think of Bertolucci, but memories are not enough to fill the hall. Which contemporary Italian directors do you like? In film today there are professional talents. And that’s all. As a Catholic, what do you think of Pope Francis? He often talks about beauty. I had dedicated a book to him, but Francis changed. He started being an ordinary man, and a pope cannot be an ordinary man. I don’t like him anymore. Last question. Would you like to make another film? Walking off the stage at the right time is an art. I don’t want to soil anything. I want to remember all the meadows I have walked through in bloom.

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Bronzi di Riace – V secolo a.C.

Giovanna d’Arco – Spartito di Giuseppe Verdi

Piazza di Spagna – Roma

Teatro Olimpico di Palladio – Vicenza

Autoritratto – Leonardo da Vinci

Lizzana – Fortunato Depero

Piazza del Duomo – Milano

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La Traviata – Franco Zeffirelli

Enzo Ferrari

Il parco aereostatico – Fiera di Milano

Colosseo – Roma

Primavera Estate – Arcimboldo

Mosè – Michelangelo

Orto Botanico – Padova

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non di solo pane not by bread ALONE

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Walter mariotti

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1.

L’artificio del mondo.

Oggi si può parlare di bellezza sfuggendo alla retorica dell’evento E sottrarre l’idea alla categoria del lusso per riportarla a quella di necessità? E ancora: come vivere un’esperienza che non si può comprare ma che promette verità, libertà e uguaglianza?

Rispondere a queste Domande è una vera impresa,

affrontata da uomini liberi e coraggiosi che ne stanno facendo una testimonianza di civiltà.1 In queste pagine però si è preferito un sentiero diverso. Un percorso irregolare e giocoso, fatto d’allitterazioni, assonanze, note a margine e punti di fuga. Un sentiero interrotto e impuro come il patrimonio italiano, che solo aggirando un’impossibile definizione di bellezza conduce nel suo cuore.

il luogo della notte, il rovescio delle cose, il bivio dove ogni cosa appare e scompare. è lì, nel surplus della visione, nell’eccedenza di significato, nel piacere di un dettaglio che rimanda a infiniti altri che si può ancora sperare d’incrociare la bellezza. L’ospite atteso della nostra vita, la presenza che l’ordine politico e culturale continua a censurare.

Ma anche mettersi su questo cammino richiede coraggio. Prima di tutto per abbandonare convinzioni radicate come quella passata con la Rivoluzione francese, che si possa realizzare una pòlis – cioè una città, una comunità e una politica – dove la misura del bene non è il bello ma l’utile. Come se l’uomo fosse ciò che ha, o che non ha, e non ciò di cui non può fare a meno.

L’artificio del mondo che continua a chiamare

bellezza

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2.

Là fuori, nell’inconscio

Nessuno ha spiegato perché gli uomini che fondano la propria identità nella cura dell’anima se lo ricordano solo quando va tutto male2. Solo in quei momenti, detti di “crisi” perché impongono un “giudizio”(krisis), il rapporto tra cose e persone, tra io e mondo, tra anima e utile viene rimesso in discussione. è allora che il tema della bellezza e della sua mancanza emerge in tutta la drammaticità. La nostra epoca è uno di questi momenti, un tempo popolato da oggetti sempre meno funzionali e sempre più seducenti. E come esser certi che questi oggetti siano ancora soltanto degli oggetti? O invece, a forza di desiderarli, ammirarli, investirli del compito di rappresentarci siano cambiati in una maniera inaspettata?

La risposta è sotto i nostri occhi. L’infinità di prodotti che popola le nostre vite è come il panorama delle nostre città: mostra di possedere un’anima, troppo spesso offesa e dimenticata. Non un’umanità, come pensava l’Ottocento, ma un’anima vera e propria, che ha a che fare con la bellezza ed è sempre legata alla divinità, sia essa Afrodite o il Dio delle religioni monoteiste. Le nostre risposte estetiche sono la prova della partecipazione dell’anima al mondo, dell’esistenza dell’anima del mondo.3 è solo da lì, dall’anima che scaturisce il fascino degli oggetti e dei palazzi, il loro potere di seduzione, l’oscura e irresistibile fascinazione che spinge gli uomini a circondarsene.

Il valore d’uso degli oggetti è molto meno importante del loro essere segni, sensi, metafore: tutte prerogative dell’anima. È per questo motivo che si crea l’identificazione con l’auto, gli abiti, la casa, la città, perché questi non sono più oggetti esterni ma parti di noi, come l’ambiente in cui si vive non è l’immagine della nostra cultura ma è la cultura stessa. Il nostro senso del bello e del brutto è un’energia che ci trascina fuori, nel mondo, nella pòlis, nel cuore della città. è un flusso che investe le cose e le trasforma, le erotizza, le carica di significati. Accorgersi di quello che vive intorno a noi, esserne attratti o respinti, significa ricongiungere la propria anima con l’anima del mondo. Significa ritornare, finalmente, a casa. Un tempo la psicologia pensava che l’anima fosse relegata dentro l’uomo, nel profondo del suo essere. Era un’eredità della religione, di una particolare tradizione religiosa.

Oggi però è più che mai evidente che l’inconscio è soprattutto fuori, nel mondo in cui viviamo, soprattutto in quel luogo oscuro e malato che è divenuta la città. Non più nell’infanzia, nei sogni, nella sessualità, nei sentimenti, nei simboli. No. Oggi l’inconscio è dove siamo meno capaci, dove ci fa più soffrire, quello che rimuoviamo – con i tappi negli orecchi, l’elettronica, il caffè, lo shopping – oggi l’inconscio è il mondo là fuori. Ovvero la città, la pòlis.

Oggi siamo tutti cittadini inconsci.

4

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3.

La coscienza genera realtà L’evoluzione della fisica rende giustizia alla bellezza. E dimostra l’abbaglio che la cultura aveva preso quattro secoli fa seguendo Cartesio, lo scapolo-soldato-gentiluomo che separò l’io dal mondo. Per Cartesio al di là del pensiero non c’è niente che valga la pena, a partire dal nostro corpo fino al mondo che lo contiene: non ci sarebbero che rifiuti e shopping, cioè morte e deserto. Cartesio era l’ultimo rappresentante di una tradizione filosofica e religiosa, che pensava di glorificare l’io negando dignità al mondo, alla terra, a tutto quello che era fuori dall’io.

In ogni caso dopo di lui la fisica s’incaricò di dimostrare che solo la res cogitans è importante mentre il resto è res extensa, cioè scarto, rifiuto, dato senza importanza. Per fortuna le cose stanno esattamente al contrario. Noi non siamo macchine fisiche che hanno imparato a pensare, ma pensieri che hanno imparato a creare macchine fisiche. L’evoluzione umana è l’evoluzione della coscienza dell’universo, che cerca di esprimersi come un osservatore multiplo. La nostra anima e il nostro corpo sono la stessa cosa, appartengono alla coscienza infinita, come è scritto nei Vedanta5, i libri sapienziali che trenta secoli fa suggerivano come l’accesso all’universo fosse attraverso il contatto con sé. Un’acquisizione confermata nella teoria fisica dei quark e delle stringhe. Il mondo e l’io, il soggetto e l’oggetto, sono come le onde e le particelle: due modi di guardare la stessa cosa, che diviene materia se voglio sapere dove si trova e che diviene onda se voglio dare priorità al suo movimento.

Tutto è uno e le separazioni non hanno una validità reale, perché tutto nasce in un unico luogo, o meglio in una dimensione invisibile che alcuni chiamano “intelligenza nonlocale”, altri “luogo del potenziale”, altri “superforza”. Altri semplicemente “Dio”, l’ente per cui tutto è possibile e che crea la realtà. “Noi siamo polvere di stelle. L’universo fa esperienza di sé attraverso le nostre menti. Noi siamo gli occhi dell’universo che si guarda”. è in questo sguardo che si genera la frattura tra soggetto e oggetto, sensazioni, emozioni, pensieri, natura, relazioni sociali. E tutto si compone attraverso la bellezza.

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4.

non solo oggetti

Anche per questo la risposta estetica ha un valore centrale, perché la sua impronta è morale. Passeggiare accanto a un edificio splendido o mal disegnato, consumare cibo ottimo o preparato in modo inadeguato, vestirsi con abiti dozzinali o di gran pregio e non saper fare una distinzione, una gerarchia, una scelta, significa reprimere la relazione con il cosmo, anestetizzarsi all’anima del mondo, negare la propria essenza. Con effetti devastanti.

Quest’anestesia è una condizione purtroppo comune, un’esperienza quotidiana spinta dall’economia globalizzata, dall’idea dominante sull’impiego del tempo libero, sull’idea di mondo che hanno creato i nuovi mezzi di trasporto, di conservazione del cibo, di refrigerazione dell’aria. Resta un dato negativo. Quando l’anima del mondo era riconosciuta e rispettata gli oggetti corrispondevano ai soggetti e si muovevano entro gli schemi e le regole di un sistema non funzionale ma estetico. La concezione, la produzione, la scelta e la collocazione di un oggetto nello spazio rispettava ordini precisi, regole che esprimevano una visione del mondo religiosa, cioè capace di unire il visibile con il non visibile, il mistero con la realtà attraverso la bellezza.

Le città venivano pensate e costruite secondo ispirazioni, parametri, auspici non improntati all’utilità ma alla tensione morale, dunque alla bellezza6. Oggi invece, sulla via dell’affrancamento dalla funzione, fosse solo per averne assunte molteplici, non solo la città ma anche l’oggetto ha cambiato i rapporti tra individuo e società. I letti dell’Ikea non sono la semplice evoluzione del letto ma la riduzione postcapitalista della funzione del dormire, che esprime da un lato una società che ha mutato radicalmente il proprio parametro organizzativo, dall’altro che ha espresso uno stile come assenza di qualunque stile. Un’altra forma di rinuncia al rapporto con la bellezza, cioè con l’anima. L’evoluzione del letto è paradigmatica di una società vorticosa e allucinata, desacralizzata, dove il riposo è sempre più un’illusione, un miraggio, una chimera irraggiungibile. Il letto ha perduto qualunque apparato tradizionale che dall’antichità l’aveva legato alla dimensione magica della bellezza – piedi, testata, decori, cassettoni, rete. Si è ridotto all’essenza del piano di appoggio del materasso, ma in questa evoluzione ha perduto qualunque possibilità di raggiungere l’obiettivo originario, il legame del giorno con la notte, della luce con il buio, del mondo al di qua dal mondo al di là, vero punto di non ritorno da cui il “concept letto” si è rovesciato. Oggi, il vero status si esprime in una camera sobria, scabra, dove le funzioni pratiche – cassettiere, comodini, luci, armadi – sono assorbite dalle pareti e al centro troneggia un materasso semplice, nudo, meglio se di grande valore, che garantisce la funzione d’uso dopo averla perduta per sempre. Oggi è la dislocazione della produzione in serie ad aver modificato radicalmente l’essenza del soggetto, divenuto il “consumatore finale” che taglia il legame tra tensione estetica e tensione morale, tra io e mondo, quindi rinuncia alla possibilità di bellezza. A differenza del passato, oggi è sempre meno facile decodificare lo status sociale di una famiglia dal rigore estetico degli arredamenti come dalla zona della città che abita. Invece coniugare estetica e politica, cioè vita quotidiana e bellezza, era comune e centrale nel passato, nelle società che hanno preceduto l’attuale organizzazione culturale ed economica del mondo. Dall’Oriente all’Occidente, in ogni epoca sovrani, principi, borghesie e ogni fascia che si affacciava all’affluenza impiegarono i loro patrimoni per circondarsi di oggetti che li rendessero felici e per costruire palazzi, piazze e città che splendessero. Dicevano di celebrare le divinità ed era anche vero, ma soprattutto celebravano loro stessi, il rapporto con la luce e la bellezza. L’unica vera fonte di potere. 130


5.

mistica del visibile “Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera”, scriveva Goethe in polemica con Newton sulla natura corpuscolare della luce7. Un’intuizione che anticipava di oltre due secoli uno dei grandi temi della produzione architettonica e industriale: l’oggetto come rapporto tra design e colore. I colori non sono semplici fenomeni fisici, vibrazioni elettromagnetiche che dal verde al violetto compongono lo spettro bianco della luce. Al contrario qualcosa di vivo, di sovra-umano, che ha una funzione morale e se nasce nella natura trova il perfezionamento nell’occhio, lo specchio dell’anima. Interpretare i colori in maniera passiva e scientifica, sotto la tirannide del meccanicismo newtoniano, è dunque un errore perché la loro essenza sta nella poetica, nell’estetica, nella psicologia di chi guarda. In una parola nella luce, o meglio nell’“economia del visibile”, quel rapporto segreto che lega da sempre uomini e luoghi alla luce. E quindi alla bellezza8. Al di là degli agglomerati tattici e della tradizione araba, veri congegni in grado di catturare la luce in vicoli e passaggi coperti e segreti, nella nostra tradizione urbanistica infatti tutte le città sono romane, nel senso che possiedono un’anima militare e sono caratterizzate dall’aspirazione alla luce, che sospinge l’essere nel cuore della visibilità e la visibilità nel cuore dell’essere. Per l’occidente greco-romano, che si consuma nell’ossessione per la luce, la bellezza è in fondo solo un modo di illuminare cose e persone, legando i palazzi, le strade, le piazze alla luce e rendendoli così luminosi, cioè potenti. Ecco perché in Europa le città diventano il luogo dove quelli che primeggiano – detti non a caso i notabili – ricercano la visibilità. Non perché fa parte della loro forza, ma perché è la loro forza. Città che dimenticano il loro rapporto con la luce, che negano la loro relazione con l’anima, che dimenticano di rappresentare l’inconscio sono destinate all’infelicità: prima di essere un fenomeno economico e sociale il benessere è un tema psicologico, dunque civico o meglio cittadino. La luce trascurata, l’anima dimenticata, lo spazio abbandonato diventano bambini rabbiosi. Aggrediscono la città che li ha depersonalizzati, con una rabbia oscura contro quegli stessi oggetti – negozi, monumenti, edifici pubblici che rappresentano l’uniforme assenza di luce, ovvero la carenza di anima. Nel passato la barbarie veniva da fuori, oggi viene da dentro. Il barbaro è quella parte di noi a cui la città non dice niente, l’anima che non ha trovato una dimora nelle periferie degradate, che non avendo posto per l’anima degradano anche il corpo9. Oltre alla bellezza, un tempo le civiltà avevano elaborato degli anticorpi per questa barbarie interna, come il paradossale precetto “ricordati di dimenticare” che Trasibulo impose ad Atene con l’amnistia del 403 avanti Cristo, per ricompattarne il tessuto dilaniato dalle lotte intestine10. Oggi, in una società fluida, multiculturale e atomizzata, l’unico precetto possibile per non ricadere nella paura ancestrale e nel caos originario è restaurare il rapporto con l’anima, cioè con la bellezza. Se come cittadini non ci rendiamo parte attiva dell’imminenza del brutto possiamo essere ancora altamente affidabili come lavoratori e soprattutto come consumatori. Possiamo ucciderci di lavoro, acquistare ogni prodotto celebrato dal marketing e dalla pubblicità, guardare la televisione fino a notte fonda, ammalarci e dare la colpa alle relazioni personali. Non riusciremo però a guarire, né a raggiungere la stasis di Trasibulo o semplicemente il tanto pubblicizzato benessere. Se non rimettiamo al centro dell’esistenza l’anima, il nostro rapporto con il senso estetico, il conformismo finirà per togliere ogni bellezza alla nostra vita, alla nostra parola, al nostro cibo, alle nostre città. è come se le generazioni di ventenni private del lavoro divenissero d’improvviso consapevoli della violenza che quelle precedenti hanno loro perpetrato: si ribellerebbero ogni giorno, invece di andare da quelle a cercare conforto o soluzioni. In ogni caso passerebbero alle vie di fatto. Allo stesso modo se i cittadini si rendessero conto dell’importanza della bellezza, della violenza che comporta nelle loro vite la sua privazione, della fame inconsapevole di estetica che sviluppano nei sintomi del disinteresse, della mancanza di entusiasmo, della depressione ci sarebbe una rivoluzione continua. è la regola del mondo. Non è stata la politica, l’economia o la fame del corpo a fare le rivoluzioni ma quella dello spirito. è stata la fame di bellezza, di forma, di colore, di musica, di libertà. Non è il bisogno di pane ma di un altro tipo di pane, che nessun capitalismo né comunismo potrà mai colmare.

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6.

L’anima e l’economia

A proposito di pane, è il Vangelo a offrire uno spunto decisivo sulle tracce della bellezza. Ben prima di essere un libro di fede il Vangelo racconta un mondo non ancora caduto nel sortilegio economico, l’allucinazione che ha trasformato la nostra vita in un incubo dove ogni pensiero, azione o desiderio si trasforma in denaro. E vale solo in relazione a quanto viene quotato sul mercato11. Al contrario, se preso alla lettera il Vangelo spiega con estrema chiarezza la differenza tra bellezza e utilità e soprattutto perché non ci sia reale alternativa, ovvero scelta possibile. Il Vangelo racconta un percorso d’iniziazione al contrario, dove il protagonista, Cristo, torna in cielo a contemplare la bellezza dopo esser sceso agli inferi, cioè sulla terra che ne è priva. Un gesto d’amore per gli uomini che lo condanneranno a morte ingiustamente. Al di fuori di letture fideistiche il Vangelo narra dunque un viatico amarissimo, durante il quale Cristo supera infinite prove di cui la più grande è la tentazione del Demonio di trasformare le pietre in pane. Scelta che non sarebbe soltanto nelle sue possibilità, essendo il figlio prediletto dell’Onnipotente, ma anche nella legittimità, dopo quaranta giorni senza toccare acqua né cibo12.

Ma Cristo non lo fa. Non accetta la provocazione del demonio perché per lui la vita non coincide con gli istinti del corpo ma con la soddisfazione dell’anima, che si nutre della contemplazione della bellezza cioè della parola di Dio. Quel lògos che resta all’inizio e alla fine della realtà o meglio che crea la realtà proprio come racconta l’inizio della Genesi13. è per questo che nel Padre nostro (Matteo 6,1) la frase “Ton arton emon ton epiousion”, dacci oggi il nostro pane quotidiano, è sempre stata equivocata. Perché epiousion non significa “pane quotidiano” ma “pane soprasostanziale”. Così, insegnando la preghiera più semplice ai propri discepoli Cristo non si riferisce al pane di frumento o kamut, che destinerà coi pesci del noto miracolo alle folle che tanto somigliano alle plebi televisive di oggi, ma a un pane diverso, che va al di là della materia e rappresenta l’unico nutrimento per chi aspiri a essere un uomo realizzato. E non una folla d’istinti primari14.

Per la stessa ragione, “beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” (Matteo 5,6) resta una frase incomprensibile alle orecchie di qualunque economista. Perché l’economia ha come obiettivo di accrescere il piacere del corpo, mentre il Vangelo è interessato a risanare l’anima, facendo accedere all’unica fonte di guarigione della vita, ovvero la Bellezza15.

Così i beati del Vangelo, i makarioi di Matteo, non sono gli “uomini liberati” di Bentham o di Marx, né tantomeno gli “operatori del mercato” di Adam Smith. Piuttosto sono i protagonisti del Paradiso di Dante, gli uomini e le donne che hanno saputo vivere in armonia con la parola di Dio e per l’eternità contempleranno la vera bellezza. Una comunità felice, che in un altro libro fondamentale al di là del suo valore profetico, l’Apocalisse di Giovanni, si ritroverà alla fine del tempo in un meraviglioso giardino, al centro di una città che è al tempo stesso una donna. Bellissima, ovviamente16. 132


7.

fine

Plotino

dice che non esistono cose ordinarie ma solo cose che non sappiamo guardare. è l’artista a rivelare la straordinarietà dell’ordinario. Non distinguere ordinario da straordinario ma imparare a guardare l’ordinario con l’occhio della intensificazione divina è dunque la strada per arrivare all’anima delle cose, ad ammettere che “ogni particolare ha un potere sul quale non riflettiamo, una porzione di anima”. Il cosmo stesso ha un’anima, perché kosmos significa qualcosa di molto diverso dalla traduzione latina, universum: non qualcosa che gira intorno a un unico concetto ma un “ordine opportuno”, una regola dove l’aspetto estetico è fondamentale.

Dove questa regola non c’è, dove questa forma manca come in un famoso passaggio dell’Iliade (VI,179), la realtà diventa kata kosmon, cioè “disordinata” ma nel senso di “immorale”. Tornando all’origine del cosmo, quindi, estetica e morale si fondono. Per questo ignorare o respingere la bellezza ha effetti catastrofici: il bisogno diffuso di terapia corrisponde ad aver dimenticato che la vita è essenzialmente estetica, in senso cosmico ovvero di ordine opportuno.

Quest’ordine non è mai un ordine economico né per così dire umano. La strada della bellezza è la strada dell’anima e quindi la strada che conduce al cielo, qualunque cielo. Platone e i suoi discepoli dicevano di non dimenticare gli Dei. Era il comandamento essenziale di un mondo che aveva ancora saldo il rapporto con l’anima. Non chiedeva di credere, né di obbedire a leggi o precetti, né di fare proselitismo. Suggeriva di non trascurare il divino, ovvero quella parte della vita che ha a che fare con la bellezza. Per questo la visione dell’uomo dell’umanesimo e del liberalismo sono solo l’altra faccia del totalitarismo: perché l’interesse economico, la protesta sociale, lo sfruttamento del mondo, proprio come il narcisismo, la spinta alla carriera e alla fama, non sono soddisfacenti per raggiungere la bellezza. La bellezza entra nel mondo solo quando l’intenzione sia al di là del mondo, solo se riflette l’infinito e il distacco che non è disinteresse ma devozione appassionata.

Solo nell’apertura del cuore riposa la bellezza. A noi il dovere di risvegliarla.

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1. The artifice of the world

Is it possible to talk about beauty today without resorting to rhetoric? To remove the idea from the category of luxury and place it back into that of necessity? Even more, to talk of it as an experience that can’t be bought but promises truth, freedom, and equality? These are no simple questions to answer, though brave and free people have been endeavoring to so as they built a testimony to civilization1. In these pages, however, we’ve preferred to take a different path, one that’s irregular and playful, made up of alliteration, assonance, tangents and notes in the margin. A path with as many interruptions and impurities as the Italian heritage, which, only by circling around an impossible definition of beauty brings you to its heart—a place of the night, the other side of things, the crossroads where everything appears and disappears. It is there, in the surplus of vision, in the excess of meaning, in the pleasure of that one detail that points the way to countless others, that we can hope to meet beauty, the awaited guest of our lives, the presence that the political and cultural order continues to censor. But putting ourselves on this path requires courage. First and foremost, the courage to abandon entrenched beliefs, as in the past with the French Revolution, that we can create a pòlis, that is, a city, a community and a political system where measure of goodness is not the beautiful but the useful. As if man were the sum of what he has or doesn’t have, and not that which he can do without—that artifice of the world that we continue to call beauty.

2. Out there, in the unconscious

Nobody has explained why man, whose identity is founded in the care of the soul, only remembers it when everything goes wrong2. Only in those moments, called “crises” because they impose a “judgement” (krisis), the relationship between things and people, between the ego and the world, between spirit and profit, is called into question. It is then that the theme of beauty and of its lack emerges in all its drama. Our age is one of those moments, a time populated by objects that are less and less functional yet more and more seductive. But can we even be certain that these objects are, in fact, mere objects? Or is it that, by desiring them, admiring them, and investing them with the task of representing us, they become altered in unexpected ways? The answer is right in front of our eyes. The infinitude of products that populate our lives are like the landscapes of our cities, revealing the presence of a soul that is too often scorned and forgotten. Not a humanity, as was thought in the nineteenth century, yet a true soul nonetheless, which is also related to beauty, and has always been connected to an idea of the divine, whether in the form of Aphrodite or the God of monotheistic religions. Our aesthetic responses are the evidence of a participation in the soul of the world, of the very existence of the soul of the world3. It is only from this place, from the soul, that springs the charm of objects and buildings, their power of seduction, the obscure and irresistible fascination that drives us to surround ourselves with them. The utilitarian value of objects is much less important than their being as signs, as meanings, as metaphors, all of which are the prerogatives of the soul. It is for this reason that we create identifications with cars, with clothing, with houses and cities, because these are no longer external objects but parts of ourselves, just as how the environment in which we live is not merely a reflection of our culture but rather it is the very culture itself. Our sense of the beautiful and the ugly is an energy that pulls us out into the world, into the pòlis, into the heart of a city. It is a flow that transforms things, eroticizing them and investing them with the charge of meaning. It is to notice that which exists around us, attracting and repelling means to reunite one’s own soul with the soul of the world. It means to return, at last, to our home. At one time, psychology held that the soul was confined within man, in the depths of his being. It was a legacy of religion, of a particular religious tradition. Today, however, it is more evident than ever that the unconscious exists, above all, outside of us, in the world in which we live, especially in that dark and sick place that has become the city. No longer in childhood, in dreams, in sexuality, in feelings or symbols. No. Today the unconscious exists where we are less capable, where there is more suffering, that which we shut out—with headphones in our ears, electronics, coffee, shopping—today the unconscious is the world out there, that is, the city, the pòlis. Today we are all unconscious citizens4.

3. Consciousness creates reality

The evolution of physics does justice to beauty. It shows the blunder that culture had been making for four centuries, following Descartes, the bachelor, soldier, and gentleman who separated the ego from the world. For Descartes, beyond thought there was nothing of value, from our body to the world that contains it; and perhaps without this there would be only waste and shopping, death and wilderness. Descartes was the last representative of a philosophical and religious

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tradition that thought to glorify the self and negate the dignity of the world, the earth, and all that which was outside of the ego. In any case, after him, physics took to demonstrating that only the res cogitans is important, while the rest is res extensa, that is, waste, scrap, something without importance. Fortunately, things are exactly the opposite. We are not physical machines that have learned how to think, but thoughts that have learned how to create physical machines. Human evolution is the evolution of the consciousness of the universe, trying to express itself as manifold observer. Our souls and our bodies are one and the same, belonging to the infinite consciousness, as described in the Vedanta5, the books of wisdom that, thirty centuries ago, suggested that access to the universe was achieved through contact with the self, an assertion confirmed by the theoretical physics of quarks and strings. The world and the self, the subject and the object, are like waves and particles, two ways of looking at the same thing, which becomes matter if we want to know where it is, and becomes a wave if we want to give priority to its movement. All is one, and separations have no real validity, because everything comes from the same place, or better, an invisible dimension that some call “non-local intelligence,” others “the realm of possibility,” and others “super-force.” Some simply call it “God,” the entity for which everything is possible and which creates reality. “We are the dust of stars. The universe experiences itself through our minds. We are the eyes of the universe that we see.” It is in this act of observation that the split between subject and object, feelings, emotions, thoughts, nature, and social relations are generated, as well as all that takes form through beauty.

4. NOT ONLY OBJECTS

This is also the reason why the aesthetic response is of central value, because it leaves a moral imprint. Walking alongside a building designed splendidly or poorly, eating food prepared excellently or unremarkably, wearing clothes of poor taste or high value, and not being able to make a distinction either way, a hierarchy, a selection, means to suppress one’s relationship with the cosmos, to anesthetize oneself to the soul of the world, negating one’s own essence, with devastating effects. This anesthesia is an unfortunately common condition, an everyday experience driven by the globalized economy, by the dominant idea on the use of leisure time, by the idea of the world that has lead to new modes of transport, of food storage, of air conditioning. The effect is negative. When the soul of the world was acknowledged and respected, objects corresponded with subjects and were moved within the patterns and rules of a system that was not functional but aesthetic. The conception, production, and placement of an object in space respected precise orders, rules that expressed a religious view of the world, one capable of uniting the visible with the invisible, the mysterious with the real, through beauty. The city was designed and built according to inspirations, parameters, and hopes not characterized by utility but by moral tension, and thus by beauty6. Today, by contrast, in the process of liberation from function, if only to have taken on multiple forms, both the city and the object have changed the relationship between the individual and society. Ikea beds are not simply the result of an evolution of the bed, but a post-capitalist reduction of the function of sleep, which expresses, on one hand, a society that has radically changed its own organizational parameters, and on the other, has expressed a style that is precisely the absence of any style. It is another form of renouncing the relationship with beauty, and thus with the soul. The evolution of the bed is paradigmatic of a dizzying, hallucinatory, profane society in which rest is increasingly becoming an illusion, a mirage, an unattainable chimera. The bed has lost any of the traditional apparatus that, from antiquity, had bound it to the magical dimension of beauty—feet, head, decorations, drawers, netting. It has been reduced to the essence of a surface of support for a mattress, but in this evolution it has lost any possibility of achieving the original goal, the link between the day and the night, the darkness and the light, the world on this side with the world beyond, the true point of no return from which the “bed concept” has been overturned. Today, true status is expressed with a simple, rough room, in which the practical functions—chests of drawers, bedside tables, lights, and cabinets—are absorbed by the walls, and the center is dominated by a simple, naked mattress, the more expensive the better, which guarantees the function of use after having lost it forever. Today it is the dislocation of production in line that has radically modified the subject, who has become the “end user” that severs the link between aesthetic tension and moral tension, between the ego and the world, thereby renouncing the possibility of beauty. Unlike the past, today it is becoming less and less easy to decode the social status of a family from the aesthetic rigor of their furnishings, as it is by the part of a city in which they live. Combining aesthetics and politics, that is, daily life and beauty, was commonplace and central in the past, in the societies that preceded the current cultural and economic organization of the world. From East to West, in every time period, kings, princes, the

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bourgeoisie, and every group with affluence, used their assets to surround themselves with objects that would make them happy and to construct buildings, squares, and cities that would shine. They said it was to celebrate the divinity, and while this was also true, it was done above all to celebrate themselves, the relationship between light and beauty— the only real source of power.

5. The economy of the visible

“Where there is much light, the shadow is more black,” wrote Goethe in dispute with Newton over the particle nature of light7—an intuition that anticipated over two centuries of one of the biggest themes in architectural and industrial production: the object as relationship between design and color. Colors are not just physical phenomenon, electromagnetic vibrations that from green to violet make up the spectrum of white light. On the contrary, they are something living, something superhuman, that has a moral function and, if it is born from nature, leads to the perfection of the eye, the window to the soul. Interpreting colors in a passive, scientific way, under the tyranny of Newtonian mechanics, is therefore a mistake, because their essence lies in poetics, in aesthetics, in the psychology of the beholder. In short, their essence lies in the light, or better yet in the “economy of the visible,” that secret relationship that has always connected humanity and places to the light—and thus to beauty8. Beyond certain tactical clusters and Arabic traditions, contraptions truly capable of capturing the light in alleyways and covered, secret passages, in our urban traditions all of the cities are Roman, meaning that they possess a military soul and are characterized by an aspiration to light, which drives being into the heart of visibility, and visibility into the heart of being. For the Greco-Roman West, which is consumed by an obsession with light, beauty is basically just a way to illuminate things and people, linking buildings, streets, and squares to light to make them brighter, more powerful. That is why in Europe the cities become the place where those who excel—be fittingly called the notables—seek visibility. Not because it is a part of their strength, but because it is their strength. Cities that forget their relationship with light, that negate their relationship with the soul, that forget to represent the unconscious, are destined for unhappiness— before being an economic and social phenomenon, wellbeing is a psychological issue, and therefore civic. Light disregarded, soul forgotten, abandoned spaces become angry children. They attack the city that they have depersonalized, with a dark fury against those same objects—shops, monuments, and public buildings that represent the uniform absence of light, or rather, a deficiency of soul. In the past, the barbarians came from the outside, today they come from within. The barbarian is that part of us to which the city says nothing, the soul that hasn’t found a home in the degraded suburbs, and not having a place for the soul is something that degrades the body9. Other than beauty, civilizations once developed antibodies for this internal barbarian, like the paradoxical commandment “remember to forget” that Thrasybulus imposed on Athens with the amnesty of 403 BC in order to patch up the torn fabric of civil strife10. Today, in a fluid, multicultural, and fragmented society, the only command possible to keep us from returning to ancestral fear and primordial chaos is to restore our relationship with the soul, with beauty. If we as citizens do not make ourselves actively aware of the ugliness that exists, we can still be highly reliable as workers, and especially as consumers. We can work ourselves to death, buy every product celebrated by marketing, watch television until late at night, making ourselves sick and blaming it on our personal relationships, but we will not be able to heal, or to reach the stasis of Thrasybulus, or even that much publicized wellbeing. If we do not place the soul back into the center of our existence, our relationship with the aesthetic sense, conformity will eventually cut all of the beauty out of our lives, out of our words, out of our food, our of our cities. If generations of workers in their twenties suddenly became aware of all of the violence perpetrated on them by previous generations, they would rebel every day instead of going to them for comfort or solutions; they would come to blows. In the same way, if citizens became aware of the importance of beauty, of the violence brought upon their lives in the depravation of beauty, of the unconscious hunger for aesthetics that develops in the symptoms of disinterest, lack of enthusiasm, and depression, there would be continual revolution. It is the rule of the world. It has never been politics or the economy or the hunger of the body that has led to revolutions, but the hunger of the spirit. It has been the hunger for beauty, form, color, music, freedom. It is not the need of bread but of another kind of sustenance, something that no capitalism or communism can ever fulfill.

6. The soul and the economy

Speaking of bread, it is the Gospel that gives us a decisive pause in following the footsteps of beauty. Well before being

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a book of faith, the Gospel relates a world that had yet to fall under the spell of the economy, the hallucination that transformed our lives into a nightmare where every thought, action, and desire has been monetized and given value only in relation to what is listed on the market11. On the contrary, if taken at face value, the Gospel explains with extreme clarity the difference between beauty and utility, especially since there is no real alternative or other choice possible. The Gospel tells of a path from initiation to its opposite, in which the protagonist, Christ, returns to heaven to contemplate beauty after having fallen into hell, on earth that lacks it—a gesture of love for the humanity that unjustly condemned him to death. Outside of fideistic readings, the Gospel narrates a bitter word of advice, in which Christ passes an infinitude of tests, the greatest of which is his temptation by the devil to turn stones into bread, a choice that would not only be within his power, being the beloved son of the Almighty, but also in the realm of legitimacy, after forty days without touching food or water12. But Christ does not. He does not accept the devil’s provocation because for him, life does not coincide with the instincts of the body but the satisfaction of the soul, which is nourished by the contemplation of the beauty that is the word of God—that Lògos that contains the beginning and the end of reality, or better, that creates reality, just like the beginning of Genesis recounts13. This is why, in the Lord’s Prayer (Matthew 6.1), the phrase “Ton arton emon ton epiousion” (“give us this day our daily bread”), has always been misinterpreted. Because epiousion does not mean “daily bread” but “supersubstantial bread.” In this way, teaching the simplest prayer to his disciples, Christ is not referring to the bread of wheat or kamut—which in the famous miracle would be allocated with the fish to the crowds that much resemble the televised populous of today—but a different sort of bread, one that goes beyond matter and is the only nourishment for those who aspire to be truly fulfilled, not merely collections of base instincts14. For the same reason, “blessed are those who hunger and thirst for righteousness, for they shall be fulfilled” (Matthew 5.6) is an incomprehensible phrase to the ears of any economist. Because the economy has an objective of enhancing the pleasure of the body, while the Gospel is concerned with a healing of the soul, granting access to the only true source of healing in life: Beauty15. And so the blessed of the Gospels, the makarioi of Matthew, are not the “free men” of Bentham or of Marx, let alone the “market actors” of Adam Smith. Rather they are the protagonists of Dante’s Paradiso, the men and the women that knew how to live in harmony with the word of God and who contemplate true beauty for eternity—a happy community, that in another fundamental book beyond its prophetic value, the Apocalypse of John, will, at the end of time, find itself in a beautiful garden in the center of a city that is at the same time a woman. A beautiful woman, of course16.

7. The end

Plotinus says that there are no ordinary things but only things that we do not know how to see. It is for the artist to reveal the extraordinary in the ordinary—not to distinguish the ordinary from the extraordinary but learn to see the ordinary with eyes of divine intensification, and therefore the way to reach the soul of things, to admit that “every detail has a power on which we don’t reflect, a portion of soul.” The cosmos itself has a soul, because kosmos means something very different from the latinate translation, universum— not something that revolves around a single concept but a “proper order,” a rule in which the aesthetic aspect is critical. Where this rule does not exist, where this form is missing, as in a famous passage of the Iliad (VI, 179), reality becomes kata kosmon, that is, “disordered” but in the sense of “immoral.” Going back to the origin of the cosmos, then, the aesthetic and the moral blend together. To ignore or reject this beauty, then, has catastrophic effects—the widespread need for therapy corresponds to having forgotten that life is essentially aesthetic, in a cosmic sense, or rather, according to proper order. This order is never an economic order, nor human, as it were. The way of beauty is the way of the soul, and thus the way that leads to heaven, whichever heaven. Plato and his disciples said not to forget the Gods. It was the essential commandment of a world that still had a sound relationship with the soul. He did not ask for us to believe, or to obey laws and precepts, or to proselytize. He suggested that we not neglect the divine, or that part of life that has to do with beauty. Thus, man’s vision of humanism and of liberalism are merely the other side of totalitarianism, because the economic interest, the social protest, the exploitation of the world, as with narcissism, that fuel of career and fame, are not satisfactory for helping us achieve beauty. Beauty enters the world only when the intention goes beyond the world, only if it reflects the infinite and the separation that is not disinterest but passionate devotion. Beauty lies only in an opening of the heart. It is our duty to awaken it.

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Il quadrato del Sator è un’iscrizione latina, in forma di quadrato magico, composta da cinque parole di cinque lettere: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. La loro disposizione dà luogo a un palindromo, vale a dire una sequenza di caratteri che rimane identica se letta da sinistra a destra o viceversa. L’iscrizione è stata oggetto di frequenti ritrovamenti archeologici, sia in epigrafi lapidee sia in graffiti, ma il senso e il significato simbolico rimangono ancora oscuri, nonostante le numerose ipotesi formulate. Disponendo le parole su una matrice quadrata, si ottiene una struttura che ricorda quella dei quadrati magici di tipo numerico. Le cinque parole si ripetono se vengono lette da sinistra a destra e da destra a sinistra, oppure dall’alto in basso e dal basso in alto. Al centro del quadrato, la parola TENET forma una croce palindromica. Difficile stabilire il significato letterale della frase composta dalle cinque parole, dal momento che il termine AREPO non è strettamente latino. Alcune congetture (nelle Gallie e nei dintorni di Lione esisteva un tipo di carro celtico che era chiamato arepos: si presume allora che la parola sia stata latinizzata in arepus e che nel quadrato essa avrebbe la funzione di un ablativo strumentale, cioè un complemento di mezzo) portano a una traduzione, di senso oscuro, quale “Il seminatore con il carro, tiene con cura le ruote”, della quale si cerca di chiarire il senso intendendo il riferimento al seminatore come richiamo al testo evangelico. Un’interpretazione più semplice considera “Arepo” come nome proprio, da cui il significato diviene: “Arepo, il seminatore, tiene con maestria l’aratro”. In ogni caso ancora nessuno sa.

S A T O R

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A R E P O

T E N E T

The Sator Square is a Latin inscription, in the form of a magic square, consisting of five five-letter words: Sator, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. Their arrangement forms a palindrome, i.e. a sequence of characters that remains the same when read from left to right or vice versa. The inscription was found in many archeological sites, both carved on stone tablets and in the form of graffiti, but its meaning and symbolic sense remain uncertain, despite many different interpretations. Putting the words on a square matrix, we obtain a structure which reminds the magic squares of numeric tradition. The five words are repeated either if they are read from left to right and from right to left or from top to bottom and from bottom to top. In the middle of the square, the word TENET creates a palindromic cross. It is difficult to establish the literal meaning of the sentence consisting of the five words, since the word AREPO is not strictly a Latin word. Some interpretations— based on the fact that in Gaul and nearby Lyon there was a type of wagon which was called the Celtic arepos and assuming that the word was latinized in arepus and that in the square it would serve as an instrumental ablative, i.e. an adverbial of means—led to the obscure translation “The sower, with his plough, holds the wheels with care,” which could be a reference to the sower of the Gospel. An easier interpretation takes “Arepo” as a proper noun, from which comes the meaning: “The sower Arepo holds the wheels with effort.” However, what these mysterious words mean, nobody still knows.

O P E R A

R O T A S


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VIDEO La materia della bellezza

note 1 Cfr. Tomaso Montanari, Privati del patrimonio, Einaudi, 2015; Ugo Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, 2015. 2 Cfr. Platone, Fedone, Bompiani, 2000. 3 Cfr. James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2002. 4 Ibidem. 5 Swami Prabhavananda, Realizing God, Emily Dickinson, 2000 6 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003 7 J. W. Goethe, Teoria dei colori, Il Saggiatore, 2008. 8 Cfr. Luca Doninelli, Scritti insurrezionali, Garzanti, 2008. 9 Cfr. James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2005. 10 Cfr. Marco Filoni, Lo spazio inquieto, Edizioni di passaggio, 2014. 11 Cfr. Rudolph Steiner, Il quinto Vangelo, Antroposofica, 2006. 12 Cfr. René Guenon, Il Re del mondo, Adelphi, 2010. 13 Cfr. Geminello Alvi, L’anima e l’economia, Mondadori, 2005. 14 Ibid. 15 Ibid. 16 Apocalisse di Giovanni, La Bibbia, CEI, 2008.

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Bellezza l’ArMoniA neceSSAriA

The necessary harmony

carlo Pesenti diana Bracco Sergio crippa Sentieri interrotti

l’AntiFrAGile

Discontinuous paths The antifragile

Michele Molè PArole d’Autore

In the author’s words

Giorgio Armani Andrea Bocelli Paolo Bulgari Brunello cucinelli Massimo della ragione robert Kunze-concewitz claudia Parzani Gary Pisano Marco rettighieri Gianni riotta oliviero toscani Gualtiero Vanelli Giuseppe Zaccaria Franco Zeffirelli non di Solo PAne

Not by bread alone

Walter Mariotti

“Che cos’è questa bellezza che è presente nei corpi? Questa è la prima cosa da ricercare. Che cos’è dunque che attira lo sguardo di chi osserva, e fa volgere il capo, e fa provare la gioia della contemplazione? Se noi scopriamo che cos’è questa bellezza dei corpi, forse potremo servircene come di una scala per contemplare le altre bellezze.” Plotino, Enneade I,6 What’s this beauty which appears in bodies? This is the first thing to investigate. What is inspiring the gaze, make your head spin, and feel the joy of contemplation? If we will be able to discover the body’s beauty, we maybe can use it as a stair, to look at other beauties.” Plotino, Enneads I,6


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