La crisi della politica europea in un’intervista esclusiva di Sandro Gros-Pietro al vicepresidente della Corte costituzionale. Armando Curcio Editore
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ELECTI I Edizione aprile 2014 Š 2014 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma Direzione editoriale: Prof.ssa Cristina Siciliano Art direction: Mauro Ortolani Supervisione editoriale: Enrico Conticchio Copertina e impaginazione: Stefano Mencherini ISBN 978-88-6868-032-9 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.
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SOMMARIO
Prefazione di Luigi Mazzella
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Cap. 1 Un avviso ai naviganti? Cap. 2 Uno sguardo dal ponte Cap. 3 La lezione di Pier Paolo Pasolini Cap. 4 L’inattualità dell’apologo Cap. 5 L’informazione Cap. 6 La società post-industriale Cap. 7 Il terrorismo Cap. 8 Morte del diritto? Cap. 9 L’Unione europea Cap. 10 Pubblica Accusa e Avvocatura di Stato Cap. 11 Il patrimonio culturale italiano Cap. 12 Origini giudaico-cristiane per l’Europa? Cap. 13 Pubblico impiego privatizzato e contrattualizzato Cap. 14 Le trasmigrazioni contemporanee Cap. 15 Fine della narrativa?
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Postfazione di Sandro Gros-Pietro
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PREFAZIONE
Nessuno è più miserabile di chi conosca come sola cosa abituale l’indecisione W. James La recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tre punti della legge elettorale (premio di maggioranza alla Camera dei deputati, al Senato della Repubblica ed esclusione del voto di preferenza) è stata accolta con favore dalla prevalenza dei cittadini. A parte qualche voce fuori dal coro dei soliti addetti ai lavori, la gente ha capito che i temporeggiamenti richiesti dagli uomini politici, – anche da quelli con incarichi di grande responsabilità ai vari vertici dello Stato – non hanno funzionato per bloccare la Corte che è andata dritta per la sua strada, che è quella di decidere le questioni ad essa sottoposte e di non subire moral suasion su ritardi tattici. Con il bisturi, come un buon chirurgo, la Consulta ha circoscritto ed estirpato il cancro, lasciando in vita e rimettendo in circolazione il malato. Ha demandato, per competenza, all’oncologo (fuor di metafora: al Parlamento) la cura successiva del paziente. Per la verità, solo eventuale, perché chemio o radio-terapia potrebbero anche risultare superflue se si accettasse la decisione (auto-applicativa) della Corte e si andasse a votare con un sistema proporzionale puro con preferenza unica e varie soglie di sbarramento dal due, al quattro e all’otto per cento. Sul piano politico, tale scelta riporterebbe il Paese alle condizioni
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del dopoguerra, quando una feroce e cruenta guerra civile aveva diviso gli Italiani, lasciandoli poveri e colmi di odio fratricida tra le macerie di un conflitto bellico devastante. Quella legge proporzionale aveva costretto i nostri connazionali: a) a ritrovare lo spirito di unitarietà e di responsabilità, mettendo da parte le faziosità esasperate della fase precedente; b) a mandare, attraverso i partiti, alla Camera e al Senato gli uomini migliori (con le competenze giuste anche per varare la nuova Costituzione; ipotesi, quest’ultima, che postula la presenza in Parlamento di tutte le forze politiche in misura corrispondente al consenso ricevuto) e c) a richiedere alle forze politiche di affidare il governo del Paese a persone tecnicamente e culturalmente preparate. Quei Governi di coalizione con Ministri scelti sulla base di specifiche competenze (pur se tutti di breve durata, per il riaffiorare di non sopite rivalità personali), riuscirono a traghettare l’Italia dalla condizione di Paese agricolo a quella di Società industriale, consentendole di attestarsi tra le maggiori potenze economiche del mondo. Oggi la situazione è in parte analoga. Il sistema politico si è imballato, come per effetto di una guerra perduta. Presenta problemi sia sotto il profilo della rappresentatività sia sotto quello della governabilità, che rappresentano, per così dire, le due colonnine di mercurio che in ogni democrazia dovrebbero stare in perfetto equilibrio. Per rendersene conto, basta osservare che lo zero della rappresentatività e il top della governabilità si hanno nei sistemi antidemocratici, tirannici o dittatoriali che dir si vogliano, mentre nella situazione diametralmente opposta è il caos a dominare il campo. Il punto di corretto bilanciamento è molto difficile da raggiungere: le soluzioni richiedono grande prudenza politica, perché i governati avvertono subito sulla loro pelle sia gli effetti della perdita di rappresentatività sia la mancanza di governabilità. Nel primo caso disertano progressivamente le
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urne; nel secondo, il rischio è il ricorso sempre più frequente alla piazza e alla protesta generalizzata. I tentativi vanno fatti, innanzitutto, in via teorica, distinguendo i due aspetti. Il frazionamento eccessivo dei partiti, spesso motivato anche soltanto da istanze localistiche (refrattarie a ogni richiamo all’interesse comune dell’intera Nazione), rende difficile il governo del Paese, quando nessuna forza politica riesce a prevalere sulle altre in misura tale da conseguire in Parlamento la maggioranza necessaria per costituire un Esecutivo efficiente e duraturo. Il ricorso al sistema maggioritario tout court funziona bene soltanto in quegli Stati di matura democrazia, dove vige incontrastata la consuetudine sia dell’alternanza democratica nel governo del Paese sia del rispetto sereno e pacato del risultato conseguente al meccanismo elettorale utilizzato. Si tratta di Nazioni, dove, da secoli, l’individualismo e l’empirismo hanno sempre escluso la presenza, nei programmi politici, sia di pretese universalistiche di affermare nel proprio Paese regole uguali e valide per tutto il mondo, sia di intenti salvifici estesi, non solo alla popolazione locale, ma all’intera umanità. E dove, soprattutto, le differenze nei programmi di gestione della res publica sono minime, concrete e chiaramente espresse dalle forze politiche e agevolmente individuabili dagli elettori. Quel sistema non può funzionare in quei Paesi dove il retaggio assolutistico dei cittadini passa attraverso divisioni antiche e feroci, spesso ulteriormente acuite da conflitti civili recenti, conseguenti a eventi tragici e sconvolgenti (nel caso italiano: la sconfitta nella seconda guerra mondiale). In tali realtà, il crollo di poteri temporali religiosi o d’ideologie idealistiche di stampo fascista o comunista continua a lasciare, nel tempo, segni nella formazione culturale e civile dei governati che vedono, esasperando i toni dei contrasti, negli avversari politici piuttosto dei nemici da distruggere che non degli interlocutori per un possibile dialogo nell’interesse superiore della Nazione. In queste realtà, e quella italiana è tra di esse, espedienti di tipo
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maggioritario (da noi, i cosiddetti Porcellum, Mattarellum, con o senza rafforzamento, e via discorrendo) suscitano nella massa dei votanti sospetti – peraltro non sempre infondati – di truffa elettorale e allontanano i cittadini dalla partecipazione al voto. D’altro canto, l’abbassamento dell’affluenza alle urne e la rappresentatività già per ciò solo ridotta degli eletti esasperano la litigiosità, che si diffonde a macchia d’olio tra la popolazione, creando un vallum tra governanti e governati. I non votanti si sentono, non a caso e non a torto, in balia di maggioranze artatamente raggiunte a favore di una minoranza che se ha dalla sua parte una costante e caparbia fedeltà al voto ha, di contro, il premio eccessivo di conferire al proprio consenso un peso enorme. Il dimezzamento dei voti rispetto agli standard di un’adeguata partecipazione popolare aggrava la situazione di calo di rappresentatività, già di per sé conseguente all’alterazione del valore del voto di ogni cittadino con l’espediente maggioritario. Ciò è avvertito dall’elettorato come un oltraggio a un suo diritto fondamentale, pur nella consapevolezza della propria scelta suicida di non recarsi alle urne. Esso rappresenta un dato che può risultare deleterio per lo stesso mantenimento della democrazia nel Paese. Anche perché, spesso, chi diserta il voto esprime sfiducia oltre che nel partito politico di riferimento nel sistema in sé. È chiaro che, in un tale quadro politico, il richiamo alla governabilità a tutti i costi può costituire un miraggio del tutto illusorio circa il superamento dei mali della democrazia. Per quel che riguarda l’Italia, c’è da aggiungere che la governabilità in un sistema politico che è divenuto a tutti gli effetti non soltanto tripolare ma anche con partiti di entità abbastanza equivalenti (attestati intorno al trenta per cento dei votanti) non può essere raggiunta agevolmente, senza artifizi e alterazioni del valore del voto. E ciò con ognuno dei sistemi elettorali di cui si parla in questi giorni.
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In realtà, occorre dire che è ben difficile esprimere un giudizio circa la loro idoneità a risolvere il problema della governabilità in Italia, senza conoscere la reale, futura consistenza delle forze in campo al momento del voto. Se almeno una di esse si attesterà intorno al quaranta per cento, non c’è dubbio che i sistemi di cui si parla possono funzionare. Se, invece, le tre forze raggiungeranno tutte percentuali intorno al trenta per cento, sostanzialmente equivalendosi, sarà un tale tipo di tripolarismo a non far funzionare, nel modo sperato, ognuno dei tre sistemi. La ragione è facilmente comprensibile: non si potrà mai far divenire maggioranza di governo, con l’ausilio di un premio, una minoranza presso che pari alle altre due (solo con pochi voti in più), senza incidere profondamente e incostituzionalmente, per via di quel marchingegno elettorale, su quell’esigenza di rappresentatività su cui la Corte ha posto in modo forte l’accento. Se si vuole evitare, quindi, di ricadere in quell’eccessivo sacrificio della rappresentatività che è stato riscontrato nel Porcellum, occorre seriamente riflettere sia sul Mattarellum cosiddetto rafforzato sia sul Sistema spagnolo con il correttivo di un premio di maggioranza del quindici per cento. Quello che mi sembra certo è che per garantire la governabilità, sia con l’uno sia con l’altro sistema, non si dovrà ricorrere ad alcun trucco comportante un’alterazione irragionevole della corretta e costituzionalmente legittima rappresentanza in Parlamento. C’è poi da considerare l’influenza del mutamento del clima politico-sociale ai fini del buon governo del Paese. La disaffezione alle urne comporta un atteggiamento ostile dei non votanti che si ripercuote sulla vita politico-sociale e che va oltre il momento elettorale. Recuperare il senso di partecipazione dei cittadini al voto è forse, oggi, la priorità delle priorità di cui la classe politica dovrebbe tener conto. Non sembra, invece, che sia così: ogni forza politica si preoccupa soltanto di prevalere sulle altre e unicamente a tal fine si sforza di escogitare meccanismi elettorali ritenuti utili per lo scopo.
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Eppure, l’Italia sembra essere giunta al momento del redde rationem, perché gli uomini politici del Paese si trovano di fronte a un bivio: o insistere negli escamotage per creare, comunque, maggioranze di governo (inesistenti e impossibili da raggiungere, almeno allo stato dei fatti) con il rischio di allontanare ancora di più i cittadini dai seggi elettorali e dalla partecipazione effettiva e sentita ai problemi del governo della res publica; o ridare spazio alla rappresentatività, contenendola solo nei limiti di una più alta (e adeguata) soglia di sbarramento e cimentarsi nell’attività di governo con una disponibilità al compromesso operativo. Nel chiedere, in questo secondo caso, un segno di maturità ai cittadini, sarebbe necessario e indispensabile informarli adeguatamente, senza infingimenti e senza finzioni, del difficile passaggio che il nostro Paese (con quelli dell’Euro-zona) deve compiere per entrare, con prospettive nuove di ripresa, nel mondo della civiltà post-industriale. A vantaggio della seconda soluzione, c’è la considerazione che solo un patto di forte unità nazionale, con una rappresentanza parlamentare estesa e variegata, può consentire di costruire (ab ovo, quando sia necessario) le istituzioni (da quelle parlamentari, di governo e giudiziarie, con il ristabilimento di nuove condizioni costituzionali di bilanciamento tra quei tre poteri dello Stato) e di segnare un momento di riappacificazione nazionale e di cancellazione delle ferite, comunque e da chiunque, inferte al sistema dei partiti a causa di una vera e propria guerra civile, sia pure combattuta solo in modo sotterraneo e strisciante. Tutto ciò è, assolutamente, essenziale, idispensabile per la ripresa di ogni vita collettiva, serena e fattiva, degna, cioè, di tale nome. In primis di quell’italiana, divisa per secoli da contrapposizioni assolutistiche del tutto inconciliabili e soprattutto non ancora guarita dai danni di una conflittualità, di una tensione esasperata, successiva alla sconfitta nel secondo evento bellico
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mondiale, cruenta e furibonda, solo ipocritamente (all’italiana) non chiamata con il suo nome vero. Sta di fatto che un’opera di condivisione collettiva dell’obiettivo di salvare la Nazione (Salus rei publicae suprema lex esto!) da parte di una rappresentanza parlamentare molto estesa anche se variegata con il superamento delle divisioni appare indilazionabile per costruire (ab ovo, quando necessario) le istituzioni (da quelle parlamentari, di governo e giudiziarie, con il ristabilimento di nuove condizioni costituzionali di bilanciamento tra quei tre poteri dello Stato) e di segnare un momento di riappacificazione nazionale e di cancellazione delle ferite, comunque e da chiunque inferte al sistema dei partiti, a causa di una vera e propria guerra civile, sia pure mai dichiarata e combattuta solo in modo sotterraneo e strisciante: un patto, cioè, di governo e di legislatura di unità nazionale. E ciò anche ai fini un’eventuale (ma forse non meno essenziale) fase costituente. Parafrasando il detto di Garibaldi e rifacendosi alla diagnosi dantesca dell’italico bordello, ci sarebbe da dire: qui o si fa (finalmente) la democrazia o si muore! Invero, in un Paese profondamente scosso da una crisi economico-sociale, la divisione feroce in atto tra gli Italiani può costituire, malauguratamente, l’anticamera di una nuova guerra civile prima ancora che l’evento bellico esterno al Paese abbia avuto fine. E di quest’ultimo evento nel Paese nessuno parla. L’Italia, in realtà, come tutta l’’Euro-zona, è al centro di un vero e proprio conflitto: in esso non sono utilizzate armi da fuoco, missili o altro ma incursioni borsistiche-finanziarie (spread, calo improvviso di titoli). Esso vede ancora una volta il Polo anglosassone (Gran Bretagna e Stati Uniti d’America) schierato in posizione contrapposta all’Europa continentale, sia pure con l’intento, probabilmente benefico (ma ugualmente spietato nei mezzi di esecuzione) di portare l’Euro-zona dall’economia manifatturiera (secondo mondo)
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alla Società post-industriale dei servizi (primo mondo, quello, cioè, dei finanzieri, dei banchieri, dei gestori di assicurazioni, dei tycoon dell’informatica e dell’informazione). In tali circostanze il ricorso alla real-politik è d’obbligo. Non ci si può consentire una lettura, degli eventi e degli accadimenti umani che sia, in qualche modo, ispirata ai desideri, al sogno o all’avversione. Si deve restare ancorati alla secchezza delle analisi, alla fredda lucidità nella diagnosi dei mali della società. In tale ottica, appare sempre più probabile, sotto un profilo rigorosamente realistico, che l’Europa continentale si ponga, più prima che dopo, sulla scia del Polo anglosassone per entrare a far parte del primo mondo della società dei servizi. Di quella parte del Pianeta, cioè, dove la coltivazione nel settore agricolo di beni rurali e la produzione in quello industriale di manufatti sarà ridotta soltanto nel confine dei prodotti di eccellenza, e dove l’imprenditoria dovrà cimentarsi, nella sua stragrande prevalenza, nel campo delle utilità offerte ai cittadini, avvalendosi degli enormi sviluppi dell’alta tecnologia per fornire servizi della più varia natura: oltre a quelli finanziari, creditizi, borsistici, assicurativi, informatici e informativi, anche di distribuzione commerciale e di offerta turistica e culturale. In altre parole, sarà necessaria una trasformazione radicale della nostra economia, riducendo drasticamente quella reale nei termini oggi esistenti nel polo anglosassone (all’incirca venticinque per cento del totale). In definitiva, quale che sia la volontà effettiva e concreta dei suoi abitanti, sembra inevitabile che l’Euro-zona compia quel passaggio e abbandoni il tipo di società che l’ha caratterizzata nel secolo scorso. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, l’approdo alla Società dei servizi è avvenuto per effetto di provvedimenti legislativi presi dalle Assemblee parlamentari e di atti amministrativi degli Esecutivi in carica. Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno avuto, a tempo
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debito, il coraggio politico di elevare la tassazione sino a limiti insopportabili per le industrie manifatturiere del Paese e di abbassarla repentinamente, dopo l’avvenuta de-industrializzazione, al 33 e 23 per cento, per aiutare gli imprenditori, per così dire “sopravvissuti” a porre le basi per un’efficiente società dei servizi. A quel che si legge in giro, non sembra che un leader dell’Europa continentale abbia oggi una visione così lucida sul da farsi per sottrarre l’economia della zona dell’Euro alla tirannia della sopravvenuta mancanza di competitività dei suoi prodotti a causa degli alti costi dei salari e del Welfare. Tutti appaiono smarriti e brancolanti nel buio più fitto, impegnati spasmodicamente in diatribe di un tempo ormai irrimediabilmente passato. Non sono mancate, nell’Euro-zona, proposte di abbattimento delle imposte che riecheggiavano i livelli anglo-americani ma la misura, non a caso, è stata avversata, proprio da chi l’aveva ispirata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Essa, presa in un contesto di piena e persistente attività manifatturiera, avrebbe avuto solo l’effetto di ritardare l’auspicato passaggio alla società post-industriale; non certo di accelerarlo. La situazione di stallo è aggravata dal fatto che l’elettorato attivo è del tutto ignaro e comunque insensibile a una tale colossale svolta economica e politica: è scarsamente e distortamente informato da una stampa, ora del tutto inconsapevole dei termini reali del problema, ora fortemente interessata (ed eterodiretta dai gestori di livello mondiale dei servizi) a nascondere la reale portata del cambiamento, nel timore, certamente fondato, di contraccolpi di natura sociale. Il cambiamento, però, è, oggettivamente, conseguenza di un fatto che prescinde totalmente dai desideri e meno che mai dalle volontà di chi lo deve subire sulla propria pelle. Il fatto è che, spiace dirlo, i prodotti industriali italiani e dell’Euro-zona non sono ormai più competitivi con i manufatti creati in altri
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Paesi (Indonesia, Serbia, Corea, Cina, India e altri ancora). Non sempre, poi, quei prodotti hanno quei connotati di eccellenza che ne renderebbero impossibile o difficile la loro creazione altrove. È sin troppo ovvio che se i prodotti non sono competitivi (o per il loro prezzo contenuto o per la loro eccellenza di fattura) le industrie che li producono, non riescono a venderli e non sono neppure in grado di restituire eventuali mutui assunti con le banche per mandare avanti il processo produttivo. E i poteri economici - pur non essendo ordinati in poteri piramidali organizzati e concordi - sanno quello che non devono fare: prestare quattrini che non ritornano a casa con i connessi interessi! D’altronde, tutto ciò è conseguenza anche dei progressi che i lavoratori hanno conseguito in Italia per effetto di uno statuto dei lavoratori che non c’è, con tante garanzie, in nessun altro Paese industriale. L’Italia ha, inoltre, giudici così sensibili ai problemi sociali che utilizzano le norme di quello statuto in modo tanto rigoroso da imporre ai datori di lavoro di riprendere in fabbrica i lavoratori ingiustamente licenziati, anche dopo averli abbondantemente risarciti. Senza dire che la cosiddetta Trimurti italiana c’è invidiata da tutte le organizzazioni sindacali dell’Occidente intero, per il peso che riesce a esercitare sulla vita politica del Paese. Tutte cose verissime che hanno contribuito, però, a rendere molto alto il costo del lavoro, a differenza di quello che avviene, per esempio, in Cina dove non seguono il modello italiano, pur dichiarandosi comunisti (più che genericamente, come da noi, di sinistra democratica). D’altro canto, il meccanismo economico in atto in Italia e nell’Eurozona si è mosso in modo, per così dire, automatico. Dagli anni Ottanta, nei Paesi di maggiore sviluppo si è realizzata un’accumulazione del capitale che ha determinato, oggettivamente, un predominio del sistema finanziario sull’intera economia.
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Se, nell’ambito di un’impresa, il processo di crescita del capitale è abnorme (e tale è stato in quegli anni) è inevitabile che i dettami non scritti dell’economia capitalistica per realizzare il massimo profitto impongono di cercare mezzi di produzione di ricchezza addizionali, o migliorando la produzione sino a farla divenire”d’eccellenza”(v. industria automobilistica tedesca) o diversificando gli investimenti acquistando istituti, bancari, assicurativi e via dicendo. In tale ultimo caso il denaro in più finisce nelle casse di chi lo sa utilizzare e lo fa rendere con operazioni finanziarie, borsistiche, assicurative e via dicendo. Allora: i cosiddetti poteri forti non sono stati creati da una misteriosa Spectre di fleminghiana memoria, ma, già esistenti, sono stati irrobustiti e ingigantiti da molti degli stessi imprenditori che oggi piangono sull’immatura dipartita della società industriale euro-zonica di cui erano stati i protagonisti! Che oggi continuino a esserci nell’Eurozona forze politiche che puntano a elaborare provvedimenti idonei a conservare la società industriale, contrastando, per comprensibili finalità umane, la disoccupazione conseguente alla chiusura delle fabbriche, è circostanza che, in astratto, tende a bloccare la disoccupazione e, in concreto, produce effetti nocivi nella svolta obbligata e già in atto verso la società post-industriale. D’altronde, va detto che i termini dell’eventuale mutamento della qualità della vita, del benessere economico, della stessa partecipazione dei cittadini alla vita politica, in un contesto mutato, sono obiettivamente imprevedibili. Nessun uomo politico o commentatore sociologico è in grado di immaginarli compiutamente. E ciò, a dispetto del fatto che, come si è detto, un’analoga trasformazione in società post-industriale sia già, prevalentemente, avvenuta nel polo anglosassone del mondo Occidentale e gli effetti del cambiamento siano per ciò stesso divenuti percepibili (e siano stati effettivamente percepiti) dai mass-media non solo di quei due Paesi. L’elettorato passivo, invece, nella zona in discorso, è ancora
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fortemente influenzato dai timori e dagli effettivi disagi di una massa che tende, programmaticamente (né potrebbe essere diversamente), a mantenere in vita lo status quo, per evitare quello che appare come il peggio: disoccupazione conseguente alla chiusura delle fabbriche manifatturiere e alla riduzione degli organici dei pubblici dipendenti (ritenuti troppo numerosi per una società post-industriale, più snella per la privatizzazione di molti servizi), scarse possibilità di impiego, soprattutto dei giovani. D’altro canto molti servizi, utili per la ripresa economica, incontrano difficoltà a decollare, per mancanza di strutture e infrastrutture, primi tra tutti quelli turistici e di utilizzazione del patrimonio artistico, architettonico, culturale e storico (che potrebbero monetizzare i flussi provenienti da Paesi di nuova ricchezza come Russia, Cina e altri). La caduta dei consumi, inoltre, ha anch’essa ripercussioni negative sulla catena distributiva-commerciale che è certamente nell’ambito dei servizi. In un tale contesto di crisi, la mancanza di leader capaci di accelerare e rendere meno doloroso il cambiamento induce i poteri economici mondiali a vedere nella destabilizzazione delle istituzioni del tradizionale Stato di diritto e del conseguente e diffuso Stato sociale (Welfare State) una delle opzioni più perseguibili per favorire la trasformazione della società dell’Euro-zona. In tal senso, infatti, operano sia la mancanza di leggi di sostegno finanziario alle imprese, ormai non più competitive sul mercato mondiale, sia la tendenza delle banche nazionali a utilizzare i fondi loro concessi da istituzioni comunitarie esclusivamente per il loro rafforzamento (in vista della competizione con i colossi del credito di livello mondiale) e non certo per l’aiuto ad imprese industriali in crisi (che, oltretutto per essere non più competitive sul mercato mondiale non danno alcuna garanzia di restituzione dei prestiti). Non deve destare meraviglia, quindi, se le simpatie inespresse
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e segrete dei tycoon che siedono nelle stanze ovattate di Londra e di New York vadano a tutte quelle forze politiche che mantengono in stato di fibrillazione la vita parlamentare e amministrativa dei Paesi in cui operano. Dal loro punto di vista, infatti, Parlamenti ed Esecutivi incapaci e inefficienti sono da preferire a deputati e governanti che sfornano provvedimenti abborracciati nell’intento di ritardare sine die il processo di de-industrializzazione. A tale scopo il contributo del movimentismo è essenziale. Esso, però, dopo il fuoco iniziale, è destinato a spegnersi; anche per effetto dei falsi passi compiuti da gente inesperta e spesso politicamente incolta. L’attenzione, quindi, dei gestori mondiali dei servizi non può non dirigersi (e ne sono una prova i consensi espressi da organi di stampa molto vicini al tycoon che ha il quasi monopolio dell’informazione, assiso nell’empireo dei poteri del polo anglosassone) verso forze politiche moderate di tipo tradizionale. In Italia, Matteo Renzi, per la carica dirompente che si ritiene possa esercitare contro il comunismo strisciante dell’ex PCI (presente, peraltro, in tutte le cariche costituzionali dello Stato, per effetto di una politica a ciò mirata e cinicamente perseguita) potrebbe essere visto con un certo favore. Egli sembra destinato a svolgere, in Italia, lo stesso ruolo di Marine Le Pen in Francia, che si muove, però, in un contesto istituzionale e politico ben diverso. Oltre Alpi, il Potere esecutivo è molto forte e appare, quindi, poco controllabile da forze economiche esterne al Paese. Inoltre esso è particolarmente efficace nella repressione dei moti di piazza e nel controllo dell’attività della pubblica accusa e persino di quella giudiziaria: che in Italia godono di diversa autonomia e con adeguati e occulti accorgimenti possono essere utilizzate ancora per la fase destruens). Sul piano politico, Marine Le Pen non è costretta come Renzi a dover fare i conti, all’interno del suo partito, anche con ex comunisti e,
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fuori di esso, con un elettorato tendenzialmente di sinistra e poco incline al moderatismo. In questo quadro complesso e incontrollabile d’instabilità, tutta italiana, la recente frantumazione della maggiore forza politica di centro-destra apre nuove prospettive di confronti e di scontri; soprattutto ai fini dell’attacco al supremo vertice dello Stato. Da taluni segnali che giungono dalla carta stampata (schierata, sia pure in modo non palese, con le centrali del potere mondiale) risulta chiaro che è iniziato l’attacco a Hollande in Francia e a Napolitano in Italia. Entrambi, infatti, sono ritenuti, verosimilmente, epigoni di quella politica di sinistra sconfitta dalla Storia, ma tuttora in grado di contrastare e di frapporre ostacoli, nell’Europa continentale, al processo di de-industrializzazione, anche per il tramite dei tradizionali collegamenti della sinistra con i sindacati. Perché l’iniziativa di “detronizzazione” vada a buon fine, i protagonisti emersi di recente nelle scene politiche, italiana e francese, non bastano da soli: le forze moderate continuano ad avere un peso rilevante. Per ottenere il loro consenso e soprattutto quello dei leader che le dirigono le potenti centrali di Londra e di New York possono scegliere: a) o di determinare l’attacco decisivo al Berlusconismo inteso non tanto come movimento politico (di per sé non ostile alla de-industrializzazione, per la presenza del suo leader tra i gestori di servizi) ma come ultimo baluardo contro l’egemonia di tipo monopolistico dell’informazione, ritenuta necessaria per il dominio completo, almeno in Occidente, di quelli che sono stati da me definiti i despoti indulgenti (V. Il dispotismo indulgente, Avagliano Editore) del cosiddetto primo mondo e sperare che la diaspora moderata porti benefici elettorali a Grillo (peraltro, con il solo fine di continuare a destabilizzare le istituzioni nazionali), oppure b) convincersi che è giunto il momento di cambiare rotta e, sia pure a certe condizioni, mutare le alleanze e puntare sui leader
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di tutte le forze moderate disponibili e portare, in tal modo, a compimento l’opera di disintegrazione della sinistra euro-continentale, considerata, in modo più che verosimile, assolutamente necessaria per contenere le affannose e annaspanti misure contro la de-industrializzazione, volute sia, apertis verbis, in Francia sia, in modo ambiguo e sotterraneo, in Italia. La scelta tra la prima e la seconda alternativa è rimessa, però, anche all’iniziativa dei vari leader delle forze moderate che dovrebbero proporsi e farsi considerare come l’unico centro politico italiano ancora capace di portare a compimento, con l’aiuto di uomini politici, intelligenti e sagaci (prescindendo dal giovanilismo e dall’ossessione mediatica che l’hanno condotto nel vicolo cieco dell’incompetenza e del pressapochismo) la trasformazione del Bel Paese (come lo furono i partiti della Thatcher e di Reagan per il polo anglosassone) con un certo seguito popolare (che potrebbe aumentare con un diverso e più favorevole atteggiamento mediatico). Naturalmente, le condizioni da concordare sono tutt’altro che facili, anche in considerazione dell’evanescenza degli interlocutori con cui entrare in contatto. È molto probabile, però, che soltanto un mutual agreement ai massimi livelli del potere economico mondiale, raggiunto con l’assenso e, verosimilmente, nelle sedi di altre forze ancor meno palesi, possa restituire l’Italia a quei modelli di vita civile che sembrano, allo stato, irrimediabilmente perduti. In un tale contesto di drammatica evidenza, il braccio di ferro tra tre poli politici (ognuno di loro sfiora o supera di poco il trenta per cento dei consensi di un elettorato sempre più sparuto e svogliato) potrebbe condurre al governo del Paese uno di essi solo al prezzo di una “violenza” al diritto paritario di voto dei cittadini pari a quella ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Corte. È chiaro, infatti, che, se grazie a un abile marchingegno, un terzo di un elettorato, ormai quasi dimidiato per effetto della
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disaffezione alle urne, elegge una forza politica e con una legge elettorale truffaldina le affida il governo del Paese, le altre due forze escluse e i non votanti, costituendo la stragrande maggioranza degli Italiani, non se ne staranno con le mani in mano e l’Italia coinciderà sempre più con l’immagine dantesca del bordello. Per superare il tripolarismo in atto, che, allo stato, risulta di pari consistenza, per richiamare al voto i cittadini che non si riconoscono in nessuna delle forze politiche in campo, per varare un programma di rinascita che consenta al Paese di giungere alla meta di società del primo mondo (id est, postindustriale o dei servizi), evitando danni e agevolando, con misure adeguate, il cambio di passo, potrebbero tornare utili le seguenti note machiavelliche (per un ipotetico “Principe” del Terzo millennio) contenenti dieci proposte di buon governo per un Paese dell’Eurozona nella sua fase di transizione alla società post-industriale. 1) Agevolare, favorire e soprattutto non ostacolare le misure che possono consentire nell’Euro-zona il passaggio, nel modo meno traumatico ipotizzabile, dalla società agricola e industriale della fine del secondo millennio (che per gli alti costi raggiunti dalla mano d’opera e dal Welfare non è più in grado, ne mai più potrà esserlo, competitiva con quella dei Paesi emergenti), alla società dei servizi e dei manufatti eccellenti (dei campi o degli opifici) dell’era tecnologica del Terzo Millennio. 2) Disciplinare i flussi immigratori in Italia in modo da consentire un’utilizzazione di nuova mano d’opera esclusivamente nei settori in crescita (prodotti agricoli e industriali di grande qualità, servizi) e non nel campo delle imprese manifatturiere ordinarie non più competitive, dove l’immigrazione farebbe soltanto aumentare i livelli di disoccupazione. 3) Far conoscere, utilizzando i canali adeguati, il proprio orientamento favorevole alla de-industrializzazione del Paese e il proprio progetto politico nelle sedi dei maggiori istituti finan-
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ziari, creditizi, borsistici, assicurativi, distributivi, informatici e informativi, partendo dal presupposto, non palese ma intuibile, che quel numero ristretto di tycoon di rilievo mondiale che punta alla de-industralizzazione dell’Euro-zona oggi non può fare altro che auspicare, dirigere e sostenere - anche con finanziamenti e aiuti della più varia natura - movimenti destabilizzanti diretti a favorire la paralisi legislativa e amministrativa: e ciò allo scopo di accelerare e non arrestare il naturale processo di crisi industriale. Rendere, inoltre, palese nelle stesse sedi di voler efficacemente contrastare i conservatori della sinistra europea che si ostinano, per motivi elettorali, a richiedere misure che, per arginare la disoccupazione, mirano a sorreggere, se non ad incentivare, le imprese manifatturiere non più competitive, ritardando, in tal modo, il passaggio dell’Eurozona dal secondo mondo dell’industria al primo dei servizi. 4) Favorire lo sviluppo di imprese volte alla creazione di prodotti di assoluta eccellenza, non riproducibili in contesti operativi diversi (o altrove dislocati) per effetto dell’assoluta mancanza di materie prime (in agricoltura: olio, vino, clima particolare etc.) o di mano d’opera super-specializzata (nell’industria: Ferrari, Maserati et similia). 5) Agevolare con sostegni adeguati l’opera di delocalizzazione degli impianti manifatturieri in Paesi del cosiddetto Terzo Mondo (che aspira a divenire Secondo, industrializzandosi), agevolando le imprese nazionali nell’opera di mantenimento di Loghi, Know how, Design. 6) Stimolare la nascita, la crescita o favorire l’immissione nel mercato italiano di grandi catene alberghiere, mondialmente collegate tra di loro per inserire stabilmente il Paese in circuiti, giri e pacchetti pre-definiti; operare per cambiare radicalmente le modalità dell’offerta turistica, soprattutto nel Centro e nel Sud del Paese, dove la creazione di grandi Resort, resa possibile da una normativa urbanistica ad hoc (certamente non di carattere locale) dovrebbe soppiantare le modeste aziende
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che offrono, in piccole strutture ricettive, alloggio e vitto in modo, per così dire, ancora semplice e ruspante a masse di viaggiatori che diventano, invece, sempre più esigenti. 7) Realizzare infrastrutture che non siano volte a favorire la commercializzazione dei vecchi, se non obsoleti e comunque non competitivi prodotti industriali dell’Euro-zona (TAV, etc.) ma mirino, invece, a migliorare i servizi in generale e quelli dell’offerta turistica in particolare, incrementando strutture, autostrade e nuove strade che valorizzino località amene o ricche di bellezze artistiche, archeologiche, architettoniche, storiche. 8) Promuovere a livello dell’Europa continentale l’uguaglianza e l’omogeneizzazione del trattamento economico e dello status giuridico di tutti i pubblici dipendenti, dovunque e comunque impiegati (Parlamento, Governo, Amministrazioni centrali e locali, Magistratura), fissando parametri ben precisi (in relazione, per esempio, alla popolazione) volti, comunque, a contenerne il numero che necessariamente dovrà essere più ridotto per i minori bisogni di pubblica amministrazione di una più snella e meno complessa Società di servizi. 9) Prevedere come urgenti talune privatizzazioni di servizi oggi in mano pubblica: a) la giustizia civile e amministrativa attraverso l’istituto della mediazione conciliativa per prevenire i conflitti e quello dell’arbitrato, senza previsione di impugnazione giurisdizionale del lodo, per risolverli sollecitamente; b) l’insegnamento scolastico, escluso quello d’obbligo, attraverso l’incentivazione fiscale degli investimenti nel settore, favorendo le materie specialistiche che possono far meglio assolvere i servizi necessari al nuovo tipo di società postindustriale; c) il sistema previdenziale e assistenziale dei cittadini con una maggiore caratterizzazione assicurativa del settore, utilizzando le maggiori entrate private che possono derivarne per un miglioramento delle strutture pubbliche ospedaliere; d) lo spettacolo, l’arte, l’editoria, i mass-media, il patrimonio culturale, architettonico, storico, sottraendo la gestione dei
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servizi relativi alla politica clientelare delle forze politiche che gestiscono i relativi fondi. 10) Ridare forza e vigore al principio della separazione dei poteri, ripristinando le guarentigie costituzionali che lo hanno sempre presidiato e nell’ambito dell’ordine giudiziario separare l’attività dello jus dicere (dire quale sia il diritto: unica funzione giurisdizionale) da quella che sostiene la pubblica accusa nei processi penali (attività di parte, tutt’altro che giurisdizionale). Luigi Mazzella
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Un illuminante viaggio nei segreti d’Italia ed Europa. Guida d’eccezione, il vicepresidente della Corte costituzionale.