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ELECTI I Edizione luglio 2014 Š 2014 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A, Roma Direzione editoriale: Cristina Siciliano Art direction: Mauro Ortolani Supervisione editoriale: Enrico Conticchio Copertina: Stefano Mencherini Impaginazione: Loredana Cramarossa ISBN 978-88-6868-029-9 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.

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Sommario

Introduzione Che cos’è il burn-out 11 Che cos’è la schizofrenia 13 Capitolo 1

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I figli anormali degli angeli Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10

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Imparare a morire Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23

139 153 165 177 189 201 213 225 239 251 263 277 289

Bruciare Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29 Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34

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Le braci del rogo Capitolo 35

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Ringraziamenti 447

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... Ad Annalisa e Valentina che mi hanno svelato il lato più luminoso e vero della vita; a Claudio che, di quest’ultima, ne portò via con sé un grande pezzo... Con eterno amore.

Non c’è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull’orlo di un precipizio, medita di gettarvisi. Edgar Allan Poe

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Che cos’è il burn-out?

Burn-out, letteralmente: essere bruciati, esauriti, scoppiati. Questa sindrome è stata osservata per la prima volta negli Stati Uniti, negli anni sessanta. È un concetto che è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa registrati nei lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale. Tra gli specialisti, quelli più a rischio per il burn-out, sono quelli che operano nell’ambito della medicina generale, della medicina del lavoro, della psichiatria, della medicina interna e dell’oncologia. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici (tachicardia, cefalee, nausea ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero

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e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti). I disagi si avvertono dapprima nel campo professionale, all’utenza viene offerto un servizio inadeguato ed un trattamento meno umano, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale. Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool o di sostanze psicoattive ed il rischio di suicidio è molto elevato.

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Che cos’è la schizofrenia?

Schizofrenia è il nome che viene dato ad un disturbo mentale che causa, nelle persone che ne sono colpite, gravi alterazioni del comportamento, dell’affettività, del pensiero, e della percezione. Le cause della schizofrenia sono in gran parte sconosciute, ma probabilmente non si sbaglia nel sostenere che essa derivi dall’interazione variabile di una serie di fattori di tipo ambientale (famiglia, tipo di educazione, problematiche esistenziali, etc.) con una certa vulnerabilità individuale di tipo ereditario. Da un punto di vista clinico, la schizofrenia può essere divisa in una forma acuta ed in una forma cronica; la forma acuta è caratterizzata da sintomi come idee deliranti (il fatto di pensare cose che non sono vere o corrette), e allucinazioni (il fatto di sentire, vedere, udire cose che non esistono nella realtà). Nella fase acuta della schizofrenia il contatto con la realtà di tutti i giorni può venire perso completamente ed il paziente può anche manifestare comportamenti autolesionistici o pericolosi per le persone che lo circondano. La schizofrenia cronica, invece, rappresenta una possibile evoluzione della forma acuta ed è caratterizzata da perdita

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di interesse e di motivazione per la vita, isolamento sociale, sospettosità nei confronti degli altri, e appiattimento affettivo. L’alterazione cronica delle capacità di funzionamento mentale, sociale e lavorativo può causare gravi limitazioni del livello di benessere del soggetto con progressiva invalidità. La diagnosi di schizofrenia viene di solito fatta da uno specialista in psichiatria sulla base dell’osservazione dei sintomi della malattia.

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Capitolo 1

Desy Intorno a me ci sono delle imponenti pareti celesti che a prima vista mi sembrano nude. Poi invece mi accorgo che hanno qualche piccolo mobile e suppellettile appoggiati contro o appesi. C’è una finestra, appena coperta da tende sottili. La luce che filtra è così lieve e avvolgente da essere quasi fuori luogo all’interno dello spazio che illumina. In mezzo ci sono io, in camicia da notte, coi piedi scalzi sulle mattonelle del pavimento che non mi ero mai accorta fossero così numerose e brillanti. Nella mia mente ci sono i ricordi, pochi, brevi, che ogni tanto affiorano e poi scompaiono e mi parlano di questo spazio che è casa mia. Resto ferma, in piedi, al centro di quelle quattro pareti senza sapere che fare. Mi sento rabbrividire, e mi accorgo che le mattonelle sotto i miei piedi, oltre ad essere tante e brillanti, sono anche molto umide e fredde. Ci sono io, ossessionata dall’idea che non ci sia nulla di più triste di un’educatrice che smette di amare il proprio lavoro e, non troppo distante da me, in giro per casa, dovrebbe ancora esserci Max. Lui mi stava aiutando a

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capire cosa mi sia accaduto e come risolvere al più presto questo problema. Forse ora si è solo assentato un attimo ed è andato in un’altra stanza perché non gli andava più di parlare. Lo ha sempre fatto quando un discorso tra noi prendeva una piega imprevista. Però stavolta ho l’impressione che il suo silenzio stia durando da troppo tempo. Solo dopo qualche secondo capisco perché l’abbia sentito così tanto distante da credere di essere sola. Max c’è, è ancora presente, ma solo nei miei pensieri. Le pareti di casa, come il pavimento e la luce, sono rimaste ferme, immobilizzate nel tempo, da quando Max è scomparso. Se ne è andato da casa mia, è sparito, e io lo aspetto da chissà quanti giorni, senza che cambi mai nulla. Né la piega sfatta che ha preso la mia camicia da notte, né le pareti, il pavimento o la luce, e tanto meno il brutto sentore di essermi persa un pezzo della mia vita che non ho saputo capire. Mi sveglio nel mezzo della notte col fiato spezzato, vuoto, e crampi allo stomaco. Mi rigiro nel letto, mi guardo intorno. Tiro fuori una gamba da sotto le coperte e sfioro con l’alluce il pavimento per controllare se sia ancora gelido. Quando mi rendo conto che non lo è, tiro un lungo respiro di sollievo e sorrido. Mi sento una stupida perché mi sono presa tanta paura per un semplice sogno. Guardo l’ora sul mio cellulare per vedere quanto tempo mi rimane prima di dovermi alzare e andare al lavoro. Sono le quattro passate. Vado in bagno e bevo un bicchiere d’acqua dal rubinetto. Mi guardo allo specchio, osservo i segni lasciati sul mio viso dal sonno. Sulla superficie dello specchio seguo con la punta dell’indice le pieghe che il cuscino ha impresso sulle mie guance e le sfumature brune e increspate intorno agli occhi. Poi ritorno nel letto.

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Provo a dormire, ma non riesco a riprendere sonno. All’improvviso ricordo che ciò che mi ha spaventata tanto nel sogno è successo davvero. Max è svanito nel nulla, senza un apparente motivo, e nessuno ha più avuto sue notizie dalla sera in cui mi ha salutata all’uscita della comunità, dicendomi che sarebbe passato per cena. La denuncia della sua scomparsa, gli annunci su giornali e per radio, la difficoltà nel rintracciare un parente nella sua città natale per spiegargli cos’è accaduto... Dopo tre settimane impiego ancora del tempo a convincermi che sia tutto vero. Mi agito, non riesco a controllare l’ansia che mi coglie ogni notte e a rassegnarmi che sia davvero andata così. Ma appena la luce del giorno si fa strada ai piedi del letto, capisco che anche oggi è venuta l’ora di alzarsi. Sbadiglio con forza, stiro le gambe e le braccia, mi chiedo con quale animo affronterò un’altra giornata al lavoro. Poi vado a lavarmi, mi vesto, e dopo qualche minuto sono pronta ad uscire. Sono le otto esatte quando supero il cancello della comunità ed entro con l’auto nel piazzale antistante. Il parcheggio è semideserto. Lascio l’auto nel primo posto che capita. Scendo stringendomi nella giacca e corro a timbrare il mio cartellino, spinta più a ripararmi dal gelo che non dalla fretta d’entrare in reparto. Fa un freddo tremendo. Come sempre da queste parti, il graduale trapasso dal caldo estivo al freddo più rigido non esiste. Ad eccezione di qualche raro giorno in cui il sole si affaccia tra i campi piatti che circondano la comunità, il torpore invernale sembra non avere mai fine una volta arrivato. Questo influisce non poco sulla vita ordinaria di una comunità terapeutica per soggetti psichiatrici, già di per sé regolamentata da severe restrizioni, trattate con la necessaria cautela per evitare incidenti.

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Eppure a volte, quando i raggi del sole penetrano oltre la foschia, basta qualche ora passata all’aperto con gli utenti più giovani per illuderti che l’estate stia per arrivare e che l’inverno sia ormai giunto al termine. Anche se poi la sera si avvicina comunque in fretta e l’aria alle spalle si fa più pungente. Così, come il sole, anche l’illusione svanisce dopo pochi secondi, e ritorni con i piedi per terra, in reparto, con i sandali in gomma che, attutendoli, favoriscono gli innumerevoli passi, spesso dettati dai reali bisogni, ma, a volte, anche dai semplici capricci di qualche paziente. Appena metto piede in ufficio mi siedo subito alla scrivania. Apro il faldone delle consegne lasciate scritte da Nikolas, l’operatore che ha prestato servizio nella notte appena trascorsa. Prima ancora di leggere una sola riga, però, lo richiudo e mi avvicino alla finestra. Premo il naso sul vetro gelido e osservo la porzione di cielo frammentato in strisce sottili oltre le imposte serrate. Da lì, il tenue chiarore del giorno ancora non è riuscito a filtrare. Mi raccolgo in un attimo di silenzio come faccio ormai ogni mattina. Inizio a riflettere sulle varie attività da svolgere nell’arco della giornata, ma presto mi distraggo. Comincio a cercare tra i ricordi le immagini di un semplice movimento o respiro che abbia condiviso con Max in quest’ufficio. Mi sforzo di ritornare col cuore a quando avevo appena terminato i miei studi e lui mi propose di fare un breve tirocinio qui, nel reparto di psichiatria, dove operava come psicologo. Cerco di focalizzare meglio quelle immagini, i contorni dei nostri volti e le sfumature di tutti gli istanti che hanno dato vita alla nostra relazione. Riordino e segmento ogni sua parola o gesto come fosse una delle linee parallele davanti ai miei occhi. Provo ad associare loro un peso, una misura, un colore, ma riemergono soltanto figure dalla tinta sbiadita,

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prive di voce, e senza potere. Allora tento con il nome dei pazienti ancora presenti nella clinica e quello di chi se n’è andato da tempo. Le immagini di noi due insieme a loro mi appaiono subito chiare, pulsanti, e capisco che non sarebbe mai potuto nascere nulla tra noi se non fosse stato per l’esserci mostrati l’uno all’altra in veste professionale. È come se il tempo trascorso insieme in privato avesse fatto parte di un’altra vita, forse non mia, e non riesco a capacitarmi di come abbia fatto a non rendermene conto prima. Fuori dalla finestra, intanto, la luce del sole si è fatta più vivida, ma lo stesso non apro le imposte. Resto ancora attaccata al vetro della finestra su cui si condensa il mio fiato. Ogni secondo che passa, gli ordinati segmenti di luce e di cielo assumono toni sempre più caldi e, attraverso di essi, inizia ad emergere nitida l’intera sagoma della comunità. Dal cortile interno comune a tutti i reparti, arrivano le prime e ordinarie voci scomposte. Lì, come tra i corridoi e le stanze fuori dal mio ufficio, educatori, operatori socio-sanitari e infermieri iniziano a fare il loro lavoro, mentre qualche utente già in piedi si starà chiedendo se sia l’ora di prendere le sigarette o fare colazione. Anch’io dovrei iniziare a darmi da fare, ma non mi riconosco quasi più in nulla di ciò che compete alla mia professione. Mi sento inutile come un soldato senza guerre da combattere o un qualunque ideale da difendere. Vorrei inseguire la totale estasi o il dolore; nella scomparsa improvvisa di Max trovare almeno un pretesto valido per riscoprire parte di quella mia sensibilità che qui in reparto si è poco a poco dissolta. Ma ho troppa paura di vedere cosa si nasconda realmente sotto questo disagio. Così, nell’attesa di trovare il coraggio, mi sforzo di amare quello che incontro lungo il percorso che collega i due estremi, senza riuscirci però tanto bene.

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Adeguo i miei sentimenti alla necessità del momento. Posso perdermi nel vortice delle emozioni e poi, se è il caso, permettermi di ignorarle. Essere come me adesso, significa non trovare più nulla di disarmante nella solitudine. Vuol dire ascoltare per ore le angosce di una persona, un utente, senza battere ciglio o impietosirsi, perché quelle spesso sono anche le mie. Questo comporta il saper tollerare l’odore di urina bevendo un caffè, scivolare dal pensiero pungente di svolgere un servizio e aiutare qualcuno, a quello spiazzante di averne a mia volta bisogno per non perdere l’equilibrio. Non riesco più a immaginare me stessa senza accostarmi all’idea di un utente, a conservare per più di pochi istanti qualche ricordo che non sia legato a uno di loro. Desy che sorride e fa shopping con le amiche, che si innamora e si costruisce una vita, Desy che si commuove per la scena di un film, immediatamente diventano: Desy che organizza il reparto, urla, riprende i ragazzi, poi uno ad uno li ascolta, e se è il caso li porta al bar a fare merenda; Desy che gestisce le visite di parenti e tutori, accetta gli elogi e le lamentele, compila i moduli per la richiesta di sigarette e gettoni, organizza gli impegni e le vite di tutti gli utenti con i colleghi. Solo nella freddezza con cui svolgo ognuna di queste singole azioni riesco a cogliere ormai un minuscolo pezzetto della mia anima. Penso a David, che al mio terzo giorno di lavoro si presenta in ufficio per conoscermi meglio, e dopo un mio breve richiamo per essersi acceso una sigaretta, subito se la spegne sul braccio. A Marta, con il suo pianto improvviso e poi ininterrotto, le braccia nervose strette al mio collo e la sua costante domanda a cui non sono mai riuscita a dare risposta: «Perché i miei genitori non sono ancora venuti a trovarmi?». E ancora a Giuseppe, che a forza di restare nel letto perché convinto di essere paralizzato, ora quasi non

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riesce più a reggersi in piedi davvero. Loro, come tutti gli altri ventidue utenti, ai miei occhi è come se non fossero più esseri umani, speciali nel loro essere affetti da una grave patologia psichica, ma insieme a me e ai colleghi, a pari livello, i nervi, le arterie, il midollo, i globuli bianchi e rossi che compongono e regolano l’organismo di una sola gigantesca creatura. E come tali, continuiamo a svolgere il nostro compito senza conoscerne lo scopo. Tutto questo, per un’educatrice di ventisette anni come me, vuol dire non essere più giorno né notte ma l’attimo incalcolabile del trapasso di uno nell’altra. Mi domando dove sia Max, come tra i tanti consigli affidabili che ha dispensato nel tempo, si sia potuto scordare di mettermi in guardia proprio da un tale pericolo. Vorrei che nulla di ciò che ha travolto la mia vita fosse accaduto, che lui fosse ancora qui ad aiutarmi. Mi rendo conto di quanto sia stupido anche solo pensare ad una cosa del genere, perché per porre rimedio al presente non serve rimpiangere o desiderare di aver avuto un passato diverso. Ma non so a che altro aggrapparmi. Posso solo sperare che Max torni presto e, nel frattempo, riuscire a mascherare questo sentore, magari capire se anche altri colleghi siano già stati colti dal medesimo istinto, e non stiano aspettando che anch’io mi riveli. Guardo l’orologio appeso al muro con il fiato sospeso. Sono le otto e venti. Seguo lo scorrere delle lancette come stessero scandendo il countdown che precede il lancio di una navicella spaziale nell’orbita. In un modo o nell’altro, ogni nuovo giorno in cui la comunità si anima, credo che qualcosa del genere avvenga sul serio. Dai passi e il vociare crescenti che sento al di là della porta, capisco che l’intero equipaggio si sta preparando a lasciare la terra. Ognuno si appresta a svolgere il proprio dovere con rigore e attenzione,

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per il bene di tutti. Io, da buon capitano, mi allontano dalla finestra e incomincio a sfogliare la consegna di Nikolas per accertarmi che ogni singolo membro dell’equipaggio sia operativo, e che nella notte non ci siano state gravi infrazioni o insubordinazioni. Mentre leggo quanto appuntato sulle pagine del registro, avverto che il trapasso dell’atmosfera è quasi avvenuto. Come le strisce di luce che erano davanti ai miei occhi, stiamo iniziando a vibrare, perdiamo peso e in assenza di gravità ci eleviamo da terra. Ma non andiamo lontano. Ci basta levitare ad un palmo dal suolo, eretti sulla schiena, sospesi tra le chiazze umide dei pavimenti appena lavati e l’eternità. Poi la rotta della navicella si assesta e, dopo un istante, qualcuno bussa deciso alla porta della mia cabina di pilotaggio. Immagino sia Samantha, una delle operatrici di turno che mi affianca nel volo. Forse è venuta per aggiornarmi sui primi esiti del lancio appena avvenuto, o magari a avvisarmi di aver preparato il caffè. Mi alzo dalla scrivania e vado alla porta. «Samantha, sei tu?». «No, sono David... Ci dai le sigarette?».

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I figli anormali degli angeli

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Capitolo 2

Desy Diario di bordo educatori: Ore 08.00: Entro in reparto; prendo visione delle consegne dell’operatore notturno: nulla di rilevante da segnalare, tranne che Marta per l’ennesima volta si lamenta di non riuscire a dormire e insiste perchÊ le sia somministrata TAB 1 ma viene dissuasa e se ne torna a letto senza insistere oltre. Ore 08.40: Distribuite sigarette e gettoni; Gimmi le salta perchÊ anche questa mattina sono stati trovati mozziconi sotto il suo letto (prima che vada a dormire ricordiamoci di controllare che non abbia in tasca altre sigarette). Ore 09.00: Colazione. Ore 10.00: Pulizia stanze e spazi comuni. Desy

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Appena finisco di riportare le prime annotazioni del giorno, Ivan, il coordinatore del nostro reparto, entra di corsa in ufficio. Prima ancora di salutarmi, si volta e invita Laura, che sbuca da dietro le sue spalle, a non mettere un solo piede oltre la porta, a chiuderla bene e tornare più tardi. Laura, però, inizia lo stesso ad avanzare le sue solite e continue richieste. Ivan non le dice più nulla, ma gli basta solo un sguardo severo per farla desistere e andarsene. Chiuso l’ufficio, Ivan si appoggia con la schiena alla porta, alza gli occhi verso il soffitto e sbuffa. Poi si volta verso di me e mi saluta con un semplice cenno del capo, lisciandosi con le dita il pizzo rado sotto il mento sottile. Io ricambio con un sorriso. Non scambiamo una sola parola. Dopodiché, Ivan si intrufola alla svelta nel ripostiglio per posare la borsa e indossare il suo camice. Quando esce, io mi alzo subito e gli lascio libero il posto alla scrivania. Mentre lui inizia a sfogliare nervosamente il diario di bordo, io incomincio a mettere in ordine alcuni schedari dentro l’armadio. «Come va?». «Bene, Desy... E tu?». «Anche». «È successo qualcosa stamattina?». «Niente di che, il solito». «Meglio così... Avete sistemato il letto in camera di Patty?». «No... Perché?». «Come perché?! Ma Egle non ha appuntato che oggi abbiamo l’inserimento della nuova paziente?». «No... È arrivata da poco, può succedere». «Mi hanno appena chiamato dall’amministrazione per dirmi che la dottoressa Cinzia è già sotto e che la ragazza arriverà tra poco. Io ora scendo da lei, intanto voi muovetevi a sistemare tutto. E se Patty fa storie, dille che quando torno

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le butto via tutti i disegni e non le faccio mai più vedere Nikolas neanche in fotografia. Ok?». Immagino la crisi che avrebbe Patty se la minaccia di Ivan divenisse realtà, e non riesco a trattenermi dal ridere. Anche lui accenna una sottile risata poi, però, ritorna subito serio e mi chiede di dargli alla svelta i documenti necessari per l’inserimento della nuova ragazza. Io glieli porgo, lui mi affida il telefono portatile del reparto, si raccomanda di sbrigare ogni faccenda con cura, e poi corre via, esattamente come quando è arrivato. Anch’io non perdo altro tempo. Finisco in fretta di sistemare l’armadio. Poi mi affaccio sul corridoio e con un urlo chiamo Daniel e Samantha, perché vengano ad aiutarmi a portare giù dal secondo piano l’unico letto libero di cui disponiamo al momento. Arrivano subito e insieme saliamo a prenderlo. Dopo pochi minuti riusciamo a trasportare doghe e materasso nel montacarichi, farli scendere e trascinarli davanti alla stanza di Patty. Lei è da sempre poco propensa a condividere la sua camera con altri utenti. Ma per fortuna adesso è in sala mensa che disegna serena, controllata dal suo operatore individuale, Victor e, a giochi fatti, sarà poi più facile farle accettare questo genere di intrusione. Alcuni ragazzi si fermano a guardarci curiosi con le braccia incrociate. Non dicono nulla, non muovono un dito. Isa è l’unica che mi si avvicina e inizia a domandare il perché del trasporto. Né io né Daniel però le diamo una risposta. Siamo troppo indaffarati, tentiamo in ogni modo di far passare il pesante letto oltre la porta ma non ci riusciamo. Samantha dice a Isa di farsi da parte ma lei non le dà retta. Continua a fare la stessa domanda e a pretendere una risposta senza ottenerla. Così si aggrappa a un mio braccio, io e Daniel ci sbilanciamo, perdiamo la presa e il

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letto ci cade per terra. Per fortuna nessuno di noi due si fa male. Io però mi volto furiosa verso Isa, la spingo via e le urlo che sta per arrivare una nuova ragazza, non facesse altre domande e andasse a farsi un giro, perché non abbiamo tempo da perdere. Lei si allontana mortificata verso gli altri ragazzi che a loro volta si sono spaventati per la mia brusca reazione e si sono fatti da parte. Isa inizia a piangere, tira calci a un muro e inveisce contro noi educatori. Ma nessuno ancora le dà retta. Ritiriamo su il letto e, con qualche sforzo, riusciamo a farlo passare oltre la porta. Una volta che lo abbiamo sistemato lungo una parete, lascio liberi Daniel e Samantha di tornare al loro lavoro. Io inizio a controllare che nell’armadio di Patty ci sia spazio a sufficienza anche per gli indumenti della nuova arrivata. Riordino svelta i numerosi e strambi vestiti di Patty. Intanto penso alla dura reazione che ho avuto nei confronti di Isa e capisco che la causa di ciò è stata il nervosismo dovuto al nuovo, imminente inserimento. Solo un anno fa, una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. Avrei sentito una piccola fitta dietro i nervi del collo, mi sarei adoperata al meglio per capire lo stato clinico del paziente e accoglierlo senza il rischio di creare scompensi a nessuno. Pensavo si trattasse di una sorta di amore, perché credevo che quando sei pronto ad accettare l’idea che chiunque verrà, dovrai fare del tuo meglio per offrirgli una base sicura su cui fare affidamento, il sentimento che ti pervade non può chiamarsi in nessun altro modo. Invece mi sono sbagliata. Quello slancio benevolo ora mi appare come un peso da cui non riesco più a liberarmi, e sono accecata dal risentimento. Forse c’era un sottile limite da non superare, e io invece l’ho fatto. Ma la sola verità che ora mi appare innegabile è che per questi

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pazienti forse non c’è mai stata speranza e ora, l’aver capito quanto fossero ingenue le mie aspettative di poterli in parte salvare, mi ha privata di ogni entusiasmo. Non mi sarei mai immaginata che avrei anche solo potuto pensare delle cose del genere, e mi mortifica farlo. Ma non riesco a scacciare dalla mente questo pensiero e soffocare la sensazione che chiunque sia in procinto di mettere piede in reparto non porterà con sé niente di buono. Do un’ultima pulita alla stanza, poi torno in ufficio. Vado un attimo al bagno. Mi calo giù i pantaloni, sollevo in alto i lembi del camice, ma appena sto per sedermi sul water, il telefono del reparto inizia a squillare. «Avete sistemato tutto?». «Sì, Ivan, è tutto a posto». «Bene, allora saliamo». Chiudo la chiamata. Resto per qualche istante ferma in piedi con i pantaloni calati al ginocchio e il camice arricciato sui fianchi. Sento lo stomaco contrarsi, ma mi è passato lo stimolo e credo sia solo agitazione. Mi rivesto in fretta ed esco dal bagno per andare ad accogliere la nuova arrivata come di prassi e intanto aiutare i colleghi a servire il pranzo ai ragazzi. «Come si chiama?». «Milena». «Quanti anni ha?». «Ventiquattro». «Che tipo è?». «È una tranquilla». «Una tranquilla che sa stare con gli altri ma appena è da sola cerca di suicidarsi... O una veramente tranquilla-tranquilla?».

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«Una tranquilla, e basta. Ha solo il vizio di scappare, quindi è bene che facciate tutti attenzione». «Ivan, ma è muta?». «Di fatto no, però non parla da anni; viene da una situazione familiare disastrosa». «Non parlerà mai, però mi sembra che si stia ambientando già molto bene... Guardate come se la ride con Laura e Gimmi». Mentre Caterina, Samantha, Victor, Daniel e Filippo discutono con Ivan della nuova arrivata, io mi servo da sola il pranzo in disparte. Prendo dal carrello del cibo alcune verdure bollite, qualche patata al forno e una bistecca di pollo non troppo grande. Sistemo tutto nel piatto in modo che le quantità siano ben proporzionate tra loro e la composizione dei colori quasi gradevole all’occhio. Poi mi siedo al tavolo e inizio a mangiare. Gli altri continuano a parlare di fatti recenti e passati avvenuti in reparto, di alcuni problemi che ci sono stati al geriatrico, poi ancora di Milena. Mangiano. Si raccontano di esperienze maturate in altre comunità, a volte scherzano con qualche utente che si avvicina o che richiama l’attenzione del nostro tavolo dall’altra parte della sala. Ridono. Ma di fronte a me e ai ragazzi (a cui è stato detto che ha soltanto cambiato lavoro) non un solo collega ha il coraggio di parlare di ciò che è successo a Max. E io, allora, non dico nulla. Ascolto con attenzione tutte le loro impressioni, formulo anche delle mie idee, ma mi guardo bene dall’esplicitarle. Preferisco pensare all’appuntamento fissato per sabato sera con Nikolas. Qualche giorno fa ha detto che vorrebbe parlarmi di alcune cose a suo dire molto importanti, qualcosa che credo riguardi proprio Max. Non sono certa, però, di aver fatto bene ad accettare il suo invito. Anche se lo conosco da tempo, non posso dire di essere

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mai stata in confidenza con lui, forse anche per via del suo carattere schivo e introverso che puntualmente è oggetto di lamentele da parte di quasi tutti i pazienti e i colleghi. Ma quando ci siamo incrociati fuori dagli uffici amministrativi, e lui si è fatto avanti con discrezione, non ho saputo mettere freno alla curiosità. Ho accettato il suo invito d’impulso, attratta tanto dall’idea che proprio uno dei migliori amici di Max mi avesse chiesto di uscire, forse per parlarmi di lui, quanto dal fatto che l’ho sempre e comunque trovato un uomo intrigante. La prima volta che ho conosciuto Nikolas è stata l’estate scorsa quando siamo stati in soggiorno al mare per quattro giorni con alcuni ragazzi. Io in quel periodo avevo da poco iniziato il lavoro, non avevo il minimo problema. Avvertivo ancora una particolare sintonia tra me e gli utenti, una calma e un piacere nello stare insieme che ora mi sono venuti del tutto a mancare. Ma in quei giorni è normale che fosse diverso. C’era ancora Max a tenermi salda con i piedi per terra e la testa al suo posto. Anche se solo telefonicamente, la sua voce che ogni giorno mi domandava come stessero andando le cose bastava per ricordarmi che tutti gli utenti insieme a noi erano da seguire e curare, ascoltare ma non assecondare, che io ero un’educatrice, e come tale, impegnata a svolgere il mio dovere con la massima lucidità, per evitare disguidi. Sono certa che Nikolas invece non abbia mai avuto bisogno di aggrapparsi a certi principi, e non si sia neanche mai lasciato sorprendere dalle stesse emozioni che hanno dato vita al mio disincanto. Lui è come se ce l’avesse nel sangue la capacità di farsi scivolare le cose di dosso. Dalla prima volta in cui l’ho visto al lavoro, mi è subito parso capace di controllare le proprie emozioni, di dare il giusto peso alle

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parole di ogni utente, sia che gli venisse mostrato un segno di affetto o che fosse mandato all’inferno. È sempre stato attento e professionale ma, forse proprio per questa sua particolare attitudine, fatico ad associarlo emotivamente a un qualunque episodio, triste o felice, che io abbia vissuto in comunità. E mi chiedo cosa abbia mai spinto Max, che invece è sempre stato una persona molto delicata e sensibile, a stringere un legame così forte con lui... Ma questo, forse, lo scoprirò presto. Finito di pranzare, uno alla volta ci alziamo tutti dal tavolo. Nessuno si perde più in chiacchiere e iniziamo a sparecchiare. Buttiamo via gli avanzi del cibo, i piatti e le posate di plastica, ma non i bicchieri. Quelli li teniamo. Li mettiamo da parte, li laviamo e poi li riutilizziamo in serata per servire il tè caldo ai ragazzi prima di andare a dormire. Cerchiamo di non sprecare nulla. Ivan è il primo ad allontanarsi per tornare in ufficio ad organizzare l’uscita pomeridiana di alcuni ragazzi e per parlare in privato con Filippo che, a quanto pare, ha iniziato ad avere qualche problema da quando circa tre mesi fa è stato messo a fare i turni di notte. Daniel intanto toglie dal tavolo i lunghi veli di carta assorbente che ci fanno da tovaglia, li appallottola e butta via anche quelli. Poi va a chiamare Gimmi perché si sbrighi a fare il suo turno di lavaggio in cucina. Victor invece si affretta a cercare Patty, da cui non dovrebbe allontanarsi mai un istante. Perché Patty, oltre ad avere una grande passione per il disegno, si è sempre dilettata anche nel ferirsi, gettandosi a peso morto giù dalle scale, o sbattendo la testa contro la prima superficie che le fosse sembrata abbastanza coriacea o acuminata da lasciarle un segno. Il resto degli operatori si disperde silenzioso per il reparto con i pazienti. Ognuno riprende a svolgere le

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proprie mansioni. Io controllo sulla tabella dei turni appesa vicino al tavolo chi debba pulire l’intero salone. Oggi tocca a David e Silvia, due tra i ragazzi più giovani della comunità. Mi affaccio per le scale che scendono in sala caffè e li chiamo. Demetrio invece, uno tra gli utenti più anziani e da più tempo presenti in reparto, non si è ancora mosso dal posto che occupa a tavola. Mi guarda fisso, con una tale intensità da mettermi quasi a disagio. Ho l’impressione che voglia chiedermi qualcosa, ma non gli dico nulla perché ora gli spetta soltanto di fare la sua parte e lavare i pavimenti. Poi si vedrà. Mentre aspetto che i ragazzi finiscano di fumare una sigaretta e risalgano, preparo loro i prodotti per fare le pulizie. Per quanto le regole della comunità possano sembrare severe, è giusto che tutti loro le rispettino, e imparino a prendersi cura della struttura, facendo un lavoro di squadra, esattamente come facciamo noi operatori. Quando David e Silvia arrivano, iniziano subito a darsi da fare. Prendono in mano spugna, scopa e detergente, e si mettono al lavoro. Puliscono i tavoli e sistemano le sedie, mentre Demetrio, per poter spazzare a terra, continua ad attendere con pazienza che abbiano finito. Io ritorno a sedermi al tavolo degli educatori e inizio a osservarli. Guardo David e Silvia come fosse la prima volta che li vedo. E per un attimo ho veramente questa impressione: di non averli mai visti prima d’ora, di non conoscerne le storie, i turbamenti, le patologie e quali tipi di rapporti ci siano con i parenti o tra di loro. Come fossero appena arrivati, quindi, mi sembra di fare soltanto il mio lavoro studiandoli un po’. Invece li conosco già, eccome, forse più di quanto ognuno di loro conosca se stesso. Per questo motivo riesco a intuire cosa pensa David mentre guarda

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la schiena di Silvia che le si scopre quando si china a raccogliere una sedia. Lui è attratto da lei, ma non riesce ad esternare i suoi sentimenti perché lei gli ricorda sua madre che da piccolo gliene ha fatte passare di tutti i colori. Così è per Demetrio, che in coda ai lavori, spazza e raccoglie le briciole a terra, senza farsi scappare un solo pezzetto di pane. Lui starà sognando i suoi amati wafer alla crema portatigli dal fratello, che lui nasconde tra i vestiti, e noi puntualmente gli requisiamo per darglieli con moderazione, siccome è diabetico. Sento di sapere quasi tutto della vita di ognuno di loro e il fatto di non poterli rendere partecipi della mia mi disorienta. Solo quando Ivan mi chiama dal fondo del salone dicendomi di far preparare i ragazzi all’uscita, riesco ad allontanare questi pensieri. Quando ritrovo la giusta concentrazione, mi accorgo che David e Silvia hanno finito di fare il loro dovere e si sono seduti a guardare la tv. Demetrio, intanto, ha passato a terra lo straccio tranne che intorno ai miei piedi. Aspetta immobile che mi dia una svegliata per terminare il suo compito e prendere così il gettone per il caffè che gli spetta di ricompensa. «Forza ragazzi, avete sentito cos’ha detto Ivan. Se volete uscire andate subito a prepararvi», dico rivolta a David e Silvia, mentre lascio libero il campo a Demetrio. «Dove andiamo, Desy?». «A bere qualcosa di caldo dalle parti del fiume, David. Mi raccomando, vestitevi bene, e datevi una mossa. Se non siete sotto in sala caffè tra un quarto d’ora vi lascio qui, lo sapete». «Posso venire anch’io, Desy?». «No, Demetrio. Tu sei uscito l’altro giorno. Ora finisci il lavoro, poi vai a prendere la ricompensa da Ivan».

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Fuori dall’ufficio, gli altri ragazzi aspettano già imbacuccati con cappelli di lana e sciarpe che anch’io sia pronta ad uscire. Alcuni scherzano, altri se ne stanno in disparte. Qualche altro ancora, invece, non riesce a darsi pace neanche per un secondo e, appena mi vede, non esita ad assillare anche me con dubbi e domande che col tempo ho dovuto per forza imparare a ignorare. Si chiedono che diavolo ci facciano qui, quale mai dovrebbe essere il loro problema; sono certa che alcuni di loro preferirebbero addirittura tornare in mezzo a una strada e vivono la comunità come una sorta di punizione umiliante. Credo che sia molto difficile, se non impossibile, aiutare qualcuno che non è riuscito a prendere un briciolo di coscienza della propria malattia... Ma non posso sprecare tutto il mio tempo per fargli capire che se sono qui con noi, un qualche disturbo, grave o meno che sia, lo devono pur avere. Mi nascondo. Mi lascio alle spalle quel piccolo ma fastidioso dispiacere che provo nel non poter aiutare tutti come vorrei, e mi faccio largo tra i ragazzi fino alla porta dell’ufficio. Entro. Ivan è ancora impegnato a discutere con Filippo, l’atmosfera mi appare subito piuttosto tesa. Entrambi mostrano una particolare espressione di preoccupazione sui loro volti ma in più, su quello di Filippo, prima che si rigiri imbarazzato, faccio in tempo a cogliere anche una velata eccitazione, come se entrando l’avessi interrotto nel vivo di un particolare discorso e ora non riesca più a stare nella pelle per poterlo riprendere in pace. Così, per non disturbare, senza proferire parola, prendo alla svelta la busta con i soldi per le consumazioni e le chiavi del furgone dalla scrivania. Poi, roteando il mazzo tra le dita, dico a tutti i ragazzi fuori dalla porta di scendere in sala caffè: «Chi non sarà sotto quando io arriverò, salterà l’uscita e se ne resterà in reparto con Ivan».

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Mentre i ragazzi iniziano a scendere giù al piano di sotto, io finisco di prepararmi. Mi sfilo il camice, indosso la giacca, la chiudo fin sotto il naso e mi bardo di sciarpa e cappello come fossi un’escursionista alla volta dei ghiacci polari. Poi esco di corsa dall’ufficio e scendo in sala caffè facendo i gradini delle scale due alla volta. Sto per svoltare proprio nella sala caffè quando, all’improvviso, da dietro l’angolo, qualcuno mi afferra per un braccio. Faccio un balzo di un metro per la paura. Mi volto allarmata, ma subito mi calmo vedendo che si tratta della nuova arrivata, Milena. Anche lei sembra impaurita, forse a causa della mia eccessiva reazione, ma dopo un istante si riprende e mi si avvicina. Con alcuni gesti mi fa intendere che vorrebbe uscire anche lei insieme a noi. Io la guardo. Mi concentro sul brusio della musica sparata a tutto volume dagli auricolari che ha nelle orecchie. Anche se fatico ad ammetterlo, provo simpatia per l’espressione ingenua e i lineamenti delicati del suo viso. Mi ricordano quelli di qualche altro utente, e forse anche i miei quando avevo qualche anno di meno. Adesso, però, non ho tempo per fare la dovuta conoscenza. Così, malgrado il suo sguardo supplichevole, la liquido in fretta e raggiungo i ragazzi per poi andarmene: «Mi dispiace, tesoro. Ma tu devi aspettare ancora un bel po’ prima di uscire».

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Terapia al bisogno.

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