Frank e il resto del mondo

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Armando Curcio Editore

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NEW MINDS I Edizione novembre 2013 Š 2013 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma

www.armandocurcioeditore.it www.curciostore.com info@armandocurcioeditore.it ISBN 978-88-97508-81-6

Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma

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INDICE

Presentazione di Ernesto Assante

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Napoli, Luglio 1982 - Stadio San Paolo Patrice ÂŤCandyÂť Zappa Bunk Gardner Essra Mohawk Fabio Treves Ferdinando Boero Claudio Trotta Massimo Bassoli Ed Mann Pamela Des Barres Rutger Hauer Ike Willis Il mistero continua

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Ringraziamenti

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Ferdinando Boero

Ferdinando Boero è professore di zoologia all’Università del Salento e associato al CNR-ISMAR e durante un periodo di studio presso il Bodega Marine Laboratory della University of California Berkeley, ora University of California Davis, ha conosciuto Frank Zappa. Ho rincorso questa deliziosa persona e grande professore per ben quattro anni, ma senza successo. Sapevo che era un personaggio importante nella vita di Zappa, ma alla fine, per via del suo lavoro (per cui è sempre in giro per il mondo), avevo rinunciato al suo capitolo nel libro. Eccoti che invece per caso ci «troviamo» (come sempre mi accade con le cose legate a Zappa) e il geniale professore, esperto di meduse, mi concede questo appassionato capitolo.

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Il maestro e il professore Anche tu, come me, avevi il pallino di conoscere il genio di Baltimora e, come me, anche tu hai avuto modo di conoscerlo e di passarci del tempo (un mese) nella sua casa-studio di Los Angeles. Perché volevi così tanto dedicare una medusa a Frank Zappa? Semplice. Quando ho «scoperto» Frank Zappa e ho sentito quello che faceva, ho detto: «Ecco, questo è quello che mi piacerebbe fare se sapessi fare musica». Lo fa lui, ma è come se lo facessi io e dice le cose che ho sempre pensato. Ma un conto è avere qualcosa in testa e un altro conto è vederla lì, bella e fatta. Insomma, Zappa ero io. E quindi avrei molto voluto conoscerlo, per vedere se era vero. Così ho fatto un piano. Mi guadagno il pane studiando le meduse e ce ne sono ancora molte da scoprire, sconosciute, senza nome. Così ho chiesto una borsa di studio del CNR per passare un anno in California, presso il Bodega Marine Laboratory. A Bodega Bay, Hitchcock ha girato Gli Uccelli, non so se mi spiego. E, all’epoca, il Lab era sotto Berkeley, la mitica università del 1968. Fragole e sangue, L’impossibilità di essere normale… Presa la borsa sono andato a Bodega Bay. Era il 1983. Il piano poi prevedeva che avrei scritto a Zappa per dirgli che volevo dedicargli una medusa. Ne ho trovato diverse, di nuove, tutte californiane. Gli ho scritto una lettera. Sì, quelle con la carta, nella busta, l’e-mail non esisteva ancora. Dopo un po’ ricevo una lettera e sulla busta c’è il suo nome, con i caratteri di «Zoot Allures». La tengo un po’ lì, poi la apro. È di Gail, la moglie. Mi dice che Frank Zappa le ha detto che non ci sarebbe «niente al mondo che gli piacerebbe di più che avere una medusa col suo nome». «Vienici a trovare, questo è il telefono, stiamo in Woodrow Wilson Drive, a Los Angeles». Beh, se io fossi stato Frank Zappa e un matto medusologo mi avesse scritto che avrebbe voluto dare il mio nome a una medusa… mi sarei incuriosito. E infatti! Così ho preso la mia Ford LTD Station

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Wagon del 1972 e ho guidato da Bodega Bay a Los Angeles e ho suonato alla porta di Frank Zappa. La tua prima impressione quando te lo sei trovato davanti? Eh, beh, sono momenti che non si dimenticano. Aveva una tuta sformata, una tazza di caffè in una mano e una Winston nell’altra. Mi ha salutato come se ci conoscessimo da sempre, senza tante formalità. Io ho fatto lo stesso: non un wow, non una parola che facesse tradire la mia natura di «fan». Siamo stati molto professionali. Ho parlato di meduse e lui ha ascoltato con interesse la mia lezioncina, ha scelto quella che poi sarebbe diventata «Phialella Zappai» e poi mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere vedere quel che stava facendo. «Bah, sì, sto andando in bassa California, ma non ho fretta. Perché no?». Abbiamo passato la giornata assieme, ho tenuto Diva sulle ginocchia e mi sono conquistato papà e mamma. Diva si chiama così perché piangeva fragorosamente fin dalla nascita e non era molto socievole, ma a me piacciono i bambini e di solito loro stanno bene con me. Ho visto Moon, mi ha fatto vedere la sua camera. «Ho dipinto io le pareti», mi disse. Sembrava Pollock! Dweezil si esercitava con la chitarra. «Gli piace Van Halen», disse Frank sogghignando. Ahmet stava facendo pratica con i giochi di prestigio. Dopo pranzo, Frank sparecchia la tavola e aiuta Gail in The dangerous kitchen. Poi arriva Chad Wakerman e assisto a una sessione di registrazione. Tutti ridono. Frank racconta che mentre facevano un film su Tarzan, non ricordo quale, gli elefanti del cast fecero enormi quantità di cacca nel laghetto dove Tarzan avrebbe dovuto nuotare e i tecnici erano tutti in acqua a spingere via la cacca, per non farla vedere nelle riprese, mentre Tarzan nuotava in un mare di merda. Tutti avevano le lacrime agli occhi dal ridere, mentre lui, serissimo, raccontava nei minimi dettagli la scena. Intanto, però, diceva nota per nota quel che Chad avrebbe dovuto suonare. Una persona serissima, che aveva sempre voglia di ridere.

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Tre cose che ti vengono in mente quando pensi a lui e alla sua immensa arte-vita? Facile, ne bastano due. La big note, la grande nota. Non ci sono generi musicali, c’è la musica e c’è una sola grande nota. Zappa è il migliore perché non appartiene a nessun genere, appartiene a tutti. Per lui c’è la musica. E poi, c’è la continuità concettuale. Sì, quella di Stink Foot, in cui il barboncino chiede al padrone: «What is your conceptual continuity?». Io studio ecologia ed evoluzione e sono le due scienze pervase da una continuità concettuale che le fa diventare i contenitori di tutto il resto. E c’è una sola grande scienza: quella del tutto. Se vuoi la terza cosa, c’è la frase su «informazione, conoscenza, saggezza, bellezza, amore, musica». Che crescendo! Insomma, Frank produceva suoni ma, prima di tutto, era un filosofo. Vedi, il principio di indeterminazione di Heisenberg dice che quanto più conosciamo la posizione di una particella, tanto meno sappiamo la sua velocità. Lo dimostra con delle belle equazioni. Il giardino Zen delle quindici pietre dice la stessa cosa. Da nessun punto del giardino puoi vedere tutte e quindici le pietre assieme, la conoscenza di una pietra ti nasconde la conoscenza delle altre. Lo stesso concetto si può esprimere con le formule o con un giardino. Zappa però fa di più, lui ti fa volare sopra al giardino e da lassù le pietre le vedi tutte assieme, legate dalla continuità concettuale, la grande pietra… Zappa era gentile e garbato, ma non sempre amava le persone. Era di fondo un solitario, ma la schiettezza lo attraeva molto. Gliel’ho chiesto, perché ogni volta che ci siamo visti, e ci siamo visti tante volte a casa sua e in Europa, mi sorprendevo che si ricordasse di me. Mi presentavo dicendo di essere il «Jellyfish Guy». Ma lui mi diceva: «Hi, Nando!». Si ricordava!

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Così gliel’ho chiesto: «Frank, tu conoscerai tantissima gente, non puoi ricordarti di tutti. Com’è che ti ricordi di me?». Mi ha risposto: «Sì, ma incontro tanta gente fasulla, le persone “vere” sono davvero poche e tu sei una di quelle». Me lo ha confermato anche Gail, quando ci siamo incontrati recentemente a Roma, all’Auditorium della musica. Mi ha detto: «Nando, I know you loved Frank, and Frank loved you». Non mi aspettavo tanto. «Loved» è una parola impegnativa. Zappa, da piccolo, aveva giocato a fare lo scienziato. Chissà, forse gli piaceva l’idea, tipo Uncle Meat, nel retro di copertina di Grand Wazoo. Forse per lui ero un altro lato della medaglia. Gail ha ragione, io amo Frank. È stato per me un fratello maggiore che mi voleva bene. Mi ha dedicato il suo ultimo concerto, con affetto. E poi ha pubblicato Lonesome Cowboy Nando. Ancora oggi non mi sembra vero. L’ho visto il giorno dopo il concerto a Portofino, allo Splendido. Abbiamo passato la mattina sulla terrazza. Sogghignava. «Ti è piaciuto il concerto di ieri sera? Purtroppo è l’ultimo, ho sciolto la band». Mi ha raccontato i guai dei litigi tra Thunes e il resto dell’orchestra. E della «Why Not?», l’azienda con cui avrebbe voluto stimolare gli scambi tra gli USA e l’ex blocco sovietico. Credi che quella tua lettera, così aperta e sincera, lo abbia colpito davvero molto o era solo un modo per essere ancora una volta un po’ eccentrico e quindi quale opportunità migliore di un geniale professore che gli chiede se può chiamare Frank Zappa una particolare specie di medusa? Certo, a Zappa piacciono (cazzo, sto usando l’indicativo, per me è come Ho Chi Min, è vivo) le persone strane. E uno che studia le meduse è un tipo strano, no? Sei ancora in contatto, mi pare, con la sua famiglia diretta. Cosa pensi di Dweezil Zappa come musicista?

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Sì, ti ho raccontato del mio incontro recente con Gail e di quella frase su chi ama chi. Dweezil… beh, non è facile continuare la strada di Frank Zappa. Ma Frank Zappa non è i Beatles (li ho visti nel 1965, nello stesso Palasport di Genova dove Frank mi ha regalato Lonesome Cowboy Nando). Togli uno dei quattro e la magia è finita. Frank Zappa è «La Musica» e ha cambiato tantissimi musicisti, spesso non suonava neppure più. Non ha importanza chi suona, basta che sia un mostro e veda le cose in un certo modo. Dweezil è un mostriciattolo e quindi va benissimo. Quella musica non muore con Frank, vive ancora e aspetta di essere suonata e risuonata in mille modi, come ha fatto Frank. Lo stesso brano può essere fatto da un computer, da una band elettrica di quattro elementi, da un combo di fiati, da un quartetto d’archi o da una grande orchestra sinfonica. Chi se ne frega, basta che suoni bene. E Dweezil suona bene. Eri anche tu a Partinico a fine 2012 con la famiglia Zappa, quando gli hanno dedicato la cittadinanza e una strada a suo nome? No, non lo sapevo. Sai una cosa? Non ho mai fatto una foto con lui. Non volevo fare quello che si mette a fianco e dice: «Permetti che ci facciamo una foto assieme?». Una foto c’è, ma non ce l’ho. La prese un fotografo professionista a Parigi, nel febbraio del 1984. Ero andato a sentire Boulez plays Zappa e dopo il concerto andai in camerino. C’erano i fotografi e ci hanno fotografato assieme. Tra qualche anno, se le ritroveranno, diranno: «Ma chi è quel tipo con i baffi, vicino a Boero?». Ecco, questa la dedico a lui, si sarebbe fatto una grossissima risata a una cazzata del genere! Se fosse ancora qui, cosa ti piacerebbe chiedergli o cosa vorresti condividere con lui, a parte la musica?

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Ma io non capisco niente di musica! So solo cosa mi piace e cosa non mi piace. A Parigi e in altre occasioni, Frank mi faceva vedere gli spartiti e mi spiegava. Lui leggeva la musica e la sentiva. Per lui era normale che tutti fossero in grado di farlo. Di solito parlavamo di cose tipo la religione, la bellezza, l’economia… Ho scritto tre libri su questi argomenti e in tutti c’è Zappa. Parlavamo della sua famiglia, dei suoi bambini che crescevano. Di Reagan e di Tipper Gore. Se dovessi incontrare Frank non gli direi proprio niente, lo inviterei a prendere un «double espresso» nel mio bar preferito, gli farei vedere Lecce, la città dove vivo e lo porterei a vedere la cattedrale barocca di Santa Croce, che sembra lo spartito di Black Page. Poi lo porterei nel mio locale preferito, quello di Marco Povero, a mangiare cose buone e a bere Primitivo. Non gli chiederei proprio niente. Non gli ho mai chiesto niente. Dopo un po’ cominciava lui. Sembrava un bambino che ti porta nella sua stanza e ti fa vedere i suoi giocattoli. Il secondo giorno che ero a casa sua, mi ha messo su una cassetta con Uncle Meat. Poi se n’è andato a fare qualcosa e mi ha lasciato lì sul divano. Dopo un po’, ho «sentito» che c’era qualcuno dietro di me. Era lui. Stava seduto dietro il divano, su una sedia, guardando le mie reazioni. Abbiamo incrociato gli sguardi e ci siamo scambiati un sorriso. Non c’era bisogno di dire tante parole, anche se a volte abbiamo parlato per ore.

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Massimo Bassoli

Editore, giornalista e fondatore di testate musicali, tra cui «Rockstar» e «TuttiFrutti», Massimo Bassoli è un amico storico di Zappa. È stato uno dei primi ad aprire e, presto, anche a chiudere i magazine musicali [aveva capito che qualcosa non avrebbe funzionato nelle vendite in tempi non sospetti, nda] e soprattutto ha smesso con l’editoria musicale. Oggi è imprenditore ed editore e si occupa ancora di comunicazione, ma in tutt’altro ambito. È al mondo una delle persone che più mi diverte e mi fa ridere, ma sa anche essere capace di acutezze da «umano» di altri secoli. Gli piace vestire bene e se non fosse stato così tanto legato alla musica negli anni Settanta, sarebbe potuto diventare il nostro Jean Paul Gautier, tanto ama la moda. Vive e lavora a Roma.

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Frank e Massimo: fratelli di Karma Massimo, tu hai incontrato Frank la prima volta in Italia nel 1973. È vero che quel giorno, accompagnato da un tuo compagno di liceo, non ti sei lavato la mano per ventiquattr’ore? Da allora, sei diventato uno dei pochi veri amici di Zappa. Com’è avvenuto il tuo incontro con lui? Al Palasport, allora si chiamava così, il Palazzo dello Sport dell’Eur, a Roma. Frank si esibiva per la prima volta. Nella presentazione iniziale della band, che non era più The Mothers of Invention, esordì dichiarando: «Old friends are dead», affermazione che capii qualche anno dopo. Non mi soffermo sul concerto, ti dirò soltanto che io e il mio amico Fausto Spagnoli non ci scambiammo una parola durante tutta la performance. All’epoca, sgattaiolare nel backstage era facile, fu un tutt’uno con la fine del primo bis (un arrangiamento zappiano di Arrivederci Roma). Vedemmo uscire uno a uno tutti i musicisti, ma non ne conoscevamo nessuno. Quasi tutti indossavano una maglietta che riportava sulle spalle la famosa frase pronunciata da Nixon in tv all’inizio del Watergate, con l’aggiunta autografa di Frank: «Giusto, Dick!»; quel gioco di parole su «Dick» esaltava il nostro senso dell’umorismo, impregnato di comunismo. Alla fine comparve Frank con la giacca che indossa sul retro della copertina di Chunga’s Revenge. All’occhiello, una spilletta con la bandiera americana. Tutto il coraggio, che aveva spinto due liceali a spacciarsi per inservienti precipitò via dalle gambe per far spazio, nelle inesperti menti, al dubbio «marxista»: «Ma come? Un rivoluzionario come lui che indossa l’emblema del capitalismo?». Quanto eravamo stupidi e quanto giovani italiani degli anni Settanta. Comunque, dopo i complimenti di rito, riuscii a chiedere, indicando la spilletta: «Ti piace quella?». «Certo!». Non fu tanto la risposta, quanto l’intonazione che mi spiazzò. Un’intonazione che

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riuscii a decifrare solo dopo diversi mesi di elucubrazioni mentali e tormenti politico-culturali. Poi ci strinse la mano. Al contatto fisico percepii qualcosa che mi fece decriptare quella strana sensazione che percepivo e che credevo fosse un mix di emozione e stupore per la spilletta. Era la sua energia, le sue vibrazioni, la sua incredibile presenza. Lessi, più tardi negli anni, un’intervista su Playboy a Marlon Brando, in cui l’intervistatore descriveva come Brando dominasse lo spazio fisico dove si trovava, piuttosto che occuparlo come succede alle altre persone. Era così anche con Frank. Mi è ricapitato solo con Eduardo De Filippo. Quando salì sull’auto che lo attendeva, mentre Ruth (Underwood) gli chiedeva se la volesse con lui, lo vidi girarsi verso di me e fare l’occhietto. Non lo sapevo ancora, ma è stato l’inizio del rapporto più formativo che abbia finora sperimentato nella mia vita. Tuttavia, eravamo arrivati al Palasport in una Dyane 6, quella con il cambio sul cruscotto, guidavo io. Con la mano destra alzata e fissata dai miei occhi, costringevo Fausto a cambiare con la sua sinistra, mentre anche lui teneva la destra davanti ai suoi occhi. Urlavamo ogni singolo assolo di chitarra che avevamo appena sentito, inframmezzandolo a turno da un: «Ti rendi conto? Questa mano ha stretto quella di Frank Zappa!». Molto spesso, parlando con te di lui, mi sono chiesta se l’amicizia che vi legava arrivasse dall’infinito passato, parlando in termini karmici. A lui piaceva essere «protetto» dalle persone di cui si fidava e tu, in qualche modo, gli hai forse dato un’identità. Come sei riuscito a catturare «l’amore» di questa persona, da molti definito un freddo calcolatore? Frank non è mai stato calcolatore, anzi. Mi sono avvicinato a lui da amante della sua musica, poi sono diventato un fan dell’intero pianeta Zappa. L’ho conosciuto prima di mettermi a fare il giornalista, ma anche dopo non gli ho mai chiesto un’intervista, non ho mai pubblicato un segreto confessatomi. Per me era bello stargli vicino,

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il nostro senso dell’umorismo era molto simile, mi risultava facile farlo ridere. Ricordo una sera a Roma, davanti a San Pietro, mentre gli indicavo il comignolo da cui esce la fumata bianca o nera quando eleggono un nuovo Papa. Aggiunsi che i cardinali cambiano dieta a seconda della fumata che devono fare. Rise all’infinito senza potersi fermare, come un bambino. Era assolutamente una mente innocente. Totalmente immersa nella musica. Non aveva mai una lira in tasca, non aveva idea di quanto costassero le sigarette che fumava (Winston Red Classic). Non potevi confidargli nulla che riguardasse il comportamento di altri circa il suo lavoro, perché, con la purezza e l’incoscienza di un bambino, appena ne aveva l’occasione esordiva: «Mi ha detto Massimo che tu…». Forse in termini karmici sì, siamo legati dall’infinito passato. Sento ancora fortissima la sua presenza e la sua amicizia, come sento la sua mancanza ogni volta che guardo il telegiornale o leggo un quotidiano; l’umanità non saprà mai quante battute ironiche ha perso dalla scomparsa di Frank. Ma per quelli che credono nel karma, come me e te, c’è la certezza che lo ritroveremo nella terza esistenza. Il disco di Frank che hai dentro di più? Posso dirti quello che amo ora o quello che ho amato qualche tempo fa. Una delle cose fantastiche della sua opera musicale è la «conceptual continuity». Una volta entrato nella musica di Frank, la dimensione temporale svanisce. I decenni tra un album e l’altro si percepiscono solo comparando le tecniche di registrazione. Il primo album che ho ascoltato a «Per Voi Giovani», Radiouno, grazie a Paolo Giaccio, è stato Chunga’s Revenge. Mi fulminò. Piango sempre quando ascolto Strictly Genteel. La seconda facciata di Just another band from L.A., insuperabile. Inca Roads, insomma tutta la musica di Frank è come il suono della sua chitarra… Bionic Funk. Era di fondo un uomo solo?

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Solo assolutamente no, solitario sicuramente. Sai, si nasce e si muore da soli, ma nella nostra cultura occidentale questo concetto fa ancora paura. Credo che, tra tutte le persone che conosco, Frank sia quella che meglio di tutte riusciva a godere della compagnia della propria immaginazione. In questo era assolutamente un illuminato. Come viveva secondo te il rapporto con le sue radici italiane? Frank è un genio e come tale non ha radici. O, meglio, le ha tutte. Aspetti della sua personalità erano tipicamente americani, i gusti squisitamente italiani, il modo di ragionare decisamente unico. Convivevano in lui il pragmatismo anglosassone, il caos latino e una punta di bizantinismo, al limite del bacchettone. Aveva delle straordinarie aperture culturali di una laicità estrema, poi per il solo sospetto che un suo musicista potesse fumare erba, lo licenziava in tronco. E ci racconti di quella volta, nel lontano 1982, in cui prima del famoso concerto turbolento di Palermo lo portasti nella terra del padre, a Partinico? Qual è stata la sua reazione? Eravamo arrivati a Palermo nel day-off che precedeva quello del concerto. Condividevamo l’albergo con il resto della band, cosa che a Frank non piaceva molto (i musicisti ne approfittano per qualsiasi genere di lamentela e non perché, come tutti dicono, faceva lo stronzo e mettesse le distanze da divo?). Mi venne in mente di portarlo a Partinico, essendo molto vicino a Palermo. Confessai la mia idea a John Smothers, la guardia del corpo, un uomo di colore alto due metri, largo uno, calvo e con indosso vestiti sgargianti made in Usa, tipo pantaloni a righe mille colori e maglietta aderente a pelle. Frank non si muoveva senza di lui, perché erano entrambi di Baltimora e con lui poteva parlare in slang, per essere sicuro che nessuno dei presenti lo capisse. Non lo dicemmo a Frank, volevamo fargli una sorpresa. In macchina, appena

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uscimmo dalla città, Frank chiese: «Dove cazzo stiamo andando?». Non risposi. Neanche John, che dal sedile posteriore continuava a gridarmi: «Fuckin italian», a commento del mio modo di guidare. All’improvviso, sull’autostrada deserta e assolata, con a destra le montagne e a sinistra lo strapiombo della costa, vediamo un traliccio minerario che si ergeva a ponte dalle montagne verso il mare. John gridò: «Che cazzo è quello?». Ricordo la risposta di Frank, con la faccia impassibile e lo sguardo fisso verso l’orizzonte: «It’s a bye-bye shoes factory, what the hell John we are in Sicily!». I «bye bye shoes» sono i blocchetti di cemento in cui i gangster italo-americani immergevano i piedi di quelli che volevano affogare. Arrivammo nella piazza di Partinico: una chiesa, il municipio, una fontana e un bar. Fine. Scendemmo dall’auto e mi resi conto che eravamo davvero uno strano trio: Frank vestito di nero con i capelli lunghi neri e sciolti, John che sembrava il genio della lampada di Aladino e io nel mio impeccabile doppiopetto italiano. Parlavamo inglese, con un’auto targata Roma e un uomo di colore che faceva le foto. Non incontrammo nessuno. Dissi a Frank: «Devi prendere un caffè nel paese natale di tuo padre». Entrammo nel bar, ordinai due caffè e un cappuccino per John; erano le quattro del pomeriggio. Ce li servirono nei bicchieri di vetro. Frank non lo aveva mai visto e sbottò a ridere. Disse sottovoce: «Cazzo, è come nei film di Coppola». Risposi: «Assolutamente sì». Uscimmo, Frank riguardò la piazza e si rinfilò in auto. Imboccai il vicolo che dalla piazza ci avrebbe riportato sull’autostrada e Frank mi chiese: «Incredibile, ma secondo te, mio padre, senza un soldo, all’inizio di questo secolo come ha fatto a partire da qui e arrivare in America?». La sua voce era rotta dall’emozione. Io rallentai, gli strinsi il ginocchio sinistro con la mia mano destra e sorridendo gli risposi: «Era italiano». Mi ritornò il sorriso con le lacrime agli occhi e disse: «Grazie». Tu sei stato molte volte anche a casa di Frank a Los Angeles, durante la tua amicizia ventennale con lui. Come viveva il suo rapporto con le pareti domestiche?

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Più che le pareti domestiche è il caso di dire le pareti dello studio. Frank viveva lì, nello studio. Aveva una stecca di sigarette e un termos di caffè italiano. Gail, la moglie o il tecnico di turno gli portavano, a caso, qualcosa da mangiare. Usciva solo per andare a dormire, non prima di aver speso quindici o sedici ore a lavorare. Quando si svegliava, si faceva una doccia e poi di nuovo in studio. Spesso perdeva la cognizione del tempo e allora cominciava il cosiddetto «Night mood», dove lavorava la notte e dormiva il giorno. I figli lo andavano a trovare lì. Le telefonate le prendeva da lì quando la consolle era momentaneamente occupata dal tecnico per qualche aggiustamento. Poteva non uscire da casa per mesi. Ricordo una notte, aveva chiamato molti membri della band per fare delle sovra-incisioni ai nastri dal vivo, da cui generò Tinseltown Rebellion. Era una session molto divertente, c’erano Terri Bozzio, Warren Cuccurullo e io li prendevo in giro dicendo che non erano abbastanza… italiani. Frank rideva. Poi qualcuno disse di essere affamato. Mi offrii di cucinare della pasta. Salii in cucina (la famosa The Dangerous Kitchen) e non trovai nulla. Tornai giù e Frank imprecando disse: «Andiamo al supermercato». Tutti annuirono. Io mi premunii. Con due auto andammo in un mega market chiamato Chalet Gourmet, sul Sunset Strip. Ricordo ancora Frank spingere il carrello con tutti i musicisti prendere roba dagli scaffali e mettere dentro. Solo alla cassa, Frank si accorse di non avere un centesimo addosso. Dei musicisti non parliamone. Allungando la mia carta di credito, dissi a tutti: «Pago solo quello che mangia Frank». E lui ridendo replicò: «Buon per voi che mangio molto!». Nel bellissimo DVD The Dub Room, uscito qualche anno fa, ci sei anche tu che canti con lui in studio a Los Angeles la famosa canzone Tengo ’na minchia tanta. Lui ha scritto la musica e tu il testo. È un’idea nata spontanea o studiata a tavolino? Assolutamente spontanea. Come tutte le cose di Frank. A Frank piaceva conoscere le parolacce di ogni singola città italiana. Andando a Palermo, da Napoli lo introdussi alla parola «minchia» e all’abuso

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che ne facevano i siciliani. All’ingresso dello Stadio della Favorita, un inserviente fermò la mia macchina, ma appena vide dentro Frank, aprendo il cancello, urlò: «Minchia!». Frank si sganasciò. Dopo un po’, durante il sound-check, mi chiamò e disse: «Puoi mettere delle parole italiane su questa musica?». Dissi: «Non vuoi delle parole, tu vuoi minchia, vero?». Sorrise. «Tengo ‘na minchia tanta» fu la prima frase che mi venne. Iniziai a cantarla a ripetizione, correndo di qua e di là sul palco, scivolando sulle ginocchia sotto la chitarra di Frank, come una vera rockstar. Fu esilarante e alla fine Frank sentenziò, con quel tono grave che solo lui sapeva avere: «La registreremo, farai bene a completare il testo!». Ti sei sentito onorato dal fatto che Frank avesse accettato di farti scrivere il testo di una sua composizione? Più di una. Ti confesso che ci sono degli inediti che, prima o poi, verranno pubblicati. Certo che sono onorato, chi non lo sarebbe. L’ultima volta che lo hai visto è stato nel 1993, poco prima della sua morte? Sì, a casa sua, soffriva molto. Ricordo la magnitudine della Dignità con la quale affrontava la sua situazione. C’era anche Matt Groening, il creatore dei Simpsons, un altro amico di famiglia. Frank è riuscito a regalarmi le sue risate, che ho sempre amato, anche in quella occasione. Scusa, ma non riesco a dire di più di quell’incontro; è ancora troppo intimo per me. Per molti Frank Zappa era una persona solo dedita alla sua musica con pochissimi interessi, anzi forse nessuno. Secondo te che tipo di padre è stato? Sulla fisicità non brillava, era terribilmente timido (anche se so che nessuno ci crede), ma quando ti abbracciava recuperava tutte le

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occasioni perdute. Questo valeva anche per i figli. Non è vero che non avesse interessi, lo interessava tutto. Semplicemente non rubava tempo alla sua musica per nient’altro. Tutti noi abbiamo nella nostra mente tutta la conoscenza dell’universo. Frank l’aveva chiaramente dischiusa. In questo senso resterà un modello per l’umanità. Cosa ti ha lasciato in «eredità» ed è ancora nella tua vita? Tutto. Frank è un mio maestro, nell’accezione orientale. Quando le nostre vite si sono incrociate, quello che sapevo me lo ha confermato, quello che non sapevo me lo ha mostrato. Sempre e solo facendomi domande sincere. Questo è il legale karmico che ci terrà uniti all’infinito. Definire l’uomo Zappa? L’iconoclasta delle assurdità planetarie. E, ancora una volta, questo aggettivo lo ha suggerito lui: la sua società si chiamava Ica, Intercontinental Absurdities. Comunque, grazie di cuore per avermi obbligato a soffermarmi di nuovo su alcune delle mie memorie di Frank. Grazie davvero.

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