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Armando Curcio Editore
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ELECTI I Edizione febbraio 2014 Š 2014 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma Direzione editoriale: prof.ssa Cristina Siciliano Art direction: Mauro Ortolani Supervisione editoriale: Enrico Conticchio Progetto grafico: Pierluigi Guerrucci ISBN 978-88-6868-007-7 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.
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A mio figlio Giona. Che nascerĂ .
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«L’angelo del Signore li guidava nel deserto, era sempre davanti a loro». (Esodo 14,19) «Se ti sposti, vedo». (Giona T., 2010)
«Doncha feel like crying, doncha feel like crying, like crying, like crying. C’mon baby, (c’mon) cry to me». (Solomon Burke, Cry to me)
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Dalla lettera di Giona T.
INDICE
CAPITOLO 1
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CAPITOLO 2
29
CAPITOLO 3
43
CAPITOLO 4
63
CAPITOLO 5
77
CAPITOLO 6
97
CAPITOLO 7
105
CAPITOLO 8
119
CAPITOLO 9
133
CAPITOLO 10
161
CAPITOLO 11
189
CAPITOLO 12
205
CAPITOLO 12 BIS
221
CAPITOLO 13
237
EPILOGO
251
POSTFAZIONE
253
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CAPITOLO 1
N
on mi piace parlare dei morti. Non hanno modo di rispondere alle domande. O di controbattere alle accuse. Odio parlarne specie se hanno avuto a che fare con me per qualche insolita circostanza voluta dal caso. Specie se si tratta di mio padre. Io sono un uomo che ha sempre creduto nella buona sorte, che capita buona solo se lo vuoi davvero. Soltanto se hai chiaro in testa l’obiettivo per cui lottare contra questa vita, l’unica cosa che tocca subire senza la propria volontà. Sono nato cinquantaquattro anni fa da uno strano connubio fra un ebreo e una sgualdrina di Roma, ormai vecchia per procreare – o almeno così credeva, evidentemente errando, il suo magnaccia. All’età di sei anni cominciavo a comprendere, quasi contemporaneamente, cosa significassero i termini maestra e mignotta e la differenza che fra questi intercorresse, sia perché alcuni compagni di scuola lo avevano già fatto prima di me, sia perché a quell’età non si sa nascondere la verità. Mignotta era il nome della maestra quando impartiva lezioni noiose o se per caso metteva in castigo un compagno un po’ vivace. Mignotta, però, era anche il nome di mia madre. La chiamava così quasi tutta la classe. Per riconoscerla, ma soprattutto per distinguerla da tutto il resto del mondo-nato-donna che si accingeva ogni mattina ad accompagnare i bimbi a scuola, baciando teneramente le
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piccole teste profumate al latte della colazione e stringendo tra i denti formali raccomandazioni che, stando a me, sapevano di nuovo. Ma i compagni sembravano non amare questo atteggiamento, quasi fosse una vergogna farsi vedere lì, al fianco di una madre apprensiva e amorevole. Erano scene che ti facevano pensare al valore delle cose, anche se eri piccolo e, per la maggior parte delle cose, incosciente. A scuola ci andavo da solo. Mio padre andava a lavoro che era ancora buio, e mia madre chissà dov’era. Sono nato quasi sessant’anni fa da uno stranissimo impasto tra una donna, morta di tumore o di AIDS, ancora non lo so, dopo due anni dalla mia nascita, forse tre, e la fede esasperata e vittimistica di mio padre, morto oggi, ventuno aprile duemiladieci. Ho avuto un’infanzia più o meno serena. Sicuramente esperta. Esperta, sì. Apprendevo con molta facilità, non solo perché mi reputavo il più intelligente tra tutti, ma soprattutto perché ciò che accadeva, l’evento in sé, era un piccolo lingotto da inserire in un baule e, all’occorrenza, rivenderlo per i periodi di magra, vuoti come rosette di grano duro, inutili per gli obesi come me. Avevo sempre fame. Di conoscenza, di letture e tiritere varie. Non lo nego, ero anche un ragazzino sensibile. Talmente tanto da pensare, alle volte, di farla finita. Avevo le mie buone ragioni. Lo facevo da solo nel bagno della scuola, mentre tutti erano intenti a cavarsi dagli occhi le ultime cispe del mattino o a farsi le seghe con la mano ben nascosta nella tasca del pantalone, quello a costine riservato a noi, bambini ebrei della prima, quando la prof raccoglieva da terra il gesso che – guarda un po’ tu il caso – non riusciva mai a cogliere come le persone normali. Amava le acrobazie la mia prof. Amava mostrare quel suo culo raccolto in mutandine di seta nera con una violenza che avrebbe imbarazzato anche John Holmes. Ma non ci ho mai capito un granché in fondo io, di donne. Dalla prima alla terza mi accorsi che esisteva la stessa
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forza, evolutiva e ormonale, che mutava i maschi e le femmine in maniera diversa. Diametralmente opposta. I primi restavano uguali, sempre gli stessi, con qualche brufolo in più sul volto ancora acidulo, mentre le femmine crescevano di giorno in giorno con una facilità imbarazzante. Prima i seni, poi l’altezza, in seguito, solo in seguito, qualche cipria e un lucido unto e trasparente sulle labbra da far sembrare già grandi. Non cambiava mai la loro voce però, a differenza della nostra che s’ingrossava, si tonizzava di un colore grave e intenso. Le donne, funambole dell’animo, lo notai benissimo anche a quell’età, erano un universo intero e capii già allora che rappresentavano delle vere e proprie armi scagliate dal mondo contro di noi, uomini dal pensiero labile, immediato, astratto, così come deve essere il pensiero. Non che le avessi in odio, perdio, le amo tanto, nonostante tutto, ancora oggi, ma sono giunto ad una conclusione: le donne non ti amano. Mai. Loro amano solo guardarti negli occhi per vedere la loro immagine riflessa nelle tue pupille o se, per caso, hai contratto qualche strana congiuntivite contagiosa. Lo faceva sempre anche Caterina. Si abbelliva come un drappeggio attaccato alla finestra, pulita, stirata, profumata e coloratissima, quasi da far venire il vomito per le vertigini, e mi veniva a prendere, mentre spargeva odore di muschio bianco ad ogni strada che percorrevamo a piedi mano nella mano. Poi si fermava, si sedeva, si toccava le balze della gonna, come per dire: «Cazzo, c’ho messo tre ore per scegliere il vestito. Quando ti decidi a strapparmelo?». E nel frattempo temeva che potesse piacermi qualcosa di diverso da lei, tipo l’amichetto dei giochi pomeridiani, ai quali non era permesso far partecipare le femmine, ché le femmine molte cose non possono capirle, e a scoprirle cascherebbe di certo il loro mondo, quello che ogni donna sa crearsi nella testa fin dalla più tenera età. Quello delle sicurezze. Prendiamo il caso che una bambina giochi con un pupazzo
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qualunque. Nei suoi giochi sa per certo che il suo ruolo è quello di madre amorevole. Poi, invece, prendiamo i giochi dei maschi. Quando si gioca a fare la guerra, nessuno sa per certo quale sarà il suo ruolo, se gli toccherà fare il buono o il cattivo, il vivo o il morto, l’Achille o l’Ettore. Importante è sparare, meglio farlo prima di chiunque altro. Le femmine non giocano a fare le madri per crescere il figlio-pupazzo, comprendendo benissimo che da quell’ammasso di stoffa e plastica non crescerà un bel niente, ma per accudire e sentirsi forti già del proprio ruolo, intaccato da un’acerba maturità e dalla propensione alla dolce autorevolezza. I maschi no. Non conoscono nulla, non fanno i calcoli, non li sanno fare. Sin dalla tenera età. E Caterina, che era femmina più di tutte, la prima femmina, comprendeva benissimo i ruoli, comprendeva perfettamente gli schemi da adoperare in qualsiasi circostanza, e nel vedermi così impacciato di fronte alla sua bellezza temeva davvero avessi altri interessi. È vero, davo l’idea di essere un ragazzino fuori dagli schemi, molto spesso impantanato nei miei pensieri, riduttivo col concreto e tenacemente audace con l’astratto, ma a loro ci pensavo spesso. Io amavo le donne. Le amavo per ciò che rappresentavano, ma loro non hanno mai amato me. Soprattutto Caterina. L’amavo perché sapeva mostrare la sua essenza peggiore, senza un minimo di vergogna né di pudore. E se la guardavo intensamente, non potevo fare altro che ridere di gusto. Mi piacciono i colori, ma non così, non tutti insieme. E Caterina quando portava addosso tutti i colori del mondo faceva girare la testa. Io ne ero nauseato, tant’è che a quell’età, nel periodo in cui credevamo che non ci saremmo mai divisi, che le nostre vite avrebbero camminato di pari passo l’una a fianco all’altra e quando i sogni avevano il profumo della speranza vera, vestivo sempre di nero o nei giorni migliori di blue-notte-fonda. Caterina, Tena per i molti intimi
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Dalla lettera di Giona T.
con cui aveva avuto a che fare, Tina per la gente che sperava di combinarci qualcosa e Cana per noi, amici stronzi dell’ultimo bar in via Tiburtina, l’ultimo prima del Grande Raccordo Anulare, sapeva cucinare qualsiasi cosa, anche il cuoio, le latte, perfino il ferro e preparava la trippa al sugo come non ho mai più assaggiato in vita mia. Ah, quanto mi manchi, Cana! Se solo potessi essere al mio fianco in questo momento, ti abbraccerei e non ti lascerei mai più. E invece non ci sei. C’è dell’altro però tutt’intorno. La gente cammina lenta, facendo lo stesso percorso, in fila ordinata, avanti e indietro, dalla cucina alla stanza da letto, poi pianto, dalla stanza da letto alla cucina, di nuovo pianto, indietro e avanti. Qualcuno si ferma a metà strada del percorso per andare a pisciare, lì nel bagno degli ospiti, quello che mio padre voleva a tutti i costi costruire per noi, imbucati dell’ultima ora nel casolare domestico. È una casetta niente male. Gliela comprai quando mi resi conto di dovergli qualcosa, ma non più della vita che mi donò, e di potermela permettere. Ha due ampie stanze, un soggiorno aperto e confortevole con un gran camino e una libreria formidabile – credo che contenga quasi tutto quello che c’è da sapere sul terreno ed extra-terreno – e due bagni, uno suo – il privato, lo chiamava – e l’altro, più piccolo e trapuntato di onde color verde acqua, dedicato appunto ai suoi ospiti. Fino a ieri questa casa nel centro di Roma, a Trastevere, sembrava troppo grande per lui; oggi, se potesse vederla così, carica di persone, il più delle quali a me sconosciute, la considererebbe una vergogna e forse mi chiederebbe di venderla per comprarne un’altra, ma solo per questa occasione. Il suo trapasso. Il saluto dei parenti, degli amici e di anonimi conoscenti ai morti è una cosa che picchia la mia intelligenza. Ora me ne andrei, ad esempio, se potessi, ma qui chiunque chiede di me, mi cerca, ha bisogno di abbracciarmi e far vedere che anche in questo giorno c’è, esiste, è al suo fianco. C’è gente di ogni tipo, di
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tutte le età e per qualche strana ragione conoscevano mio padre. Pregano in un modo che ricordo bene, quello che mio padre utilizzava ogni sera, e prima di ogni pasto. Parlano di Dio, quasi a far pesare la sua esistenza, la sua eternità al cospetto della morte di un uomo. Indossano giacche, cravatte molto costose, a differenza mia, che per l’occasione ho scelto di mantenermi sul sobrio: polo scura a maniche lunghe e pantaloni neri. E le mie fide Adidas bianche. Da quando Cana non c’è più nella mia vita, ho pensato che i colori non fossero poi così male. Ho cominciato a vederli sotto un’altra luce. Ho creduto che uno alla volta si potessero anche indossare. Una signora in tailleur nero continua a fissarmi e sa che me ne sono accorto, che la cosa comincia ad infastidirmi. Ha gli occhi piccoli e neri che s’intravedono nonostante indossi grandi occhiali ambrati che temo sia solita mettere sul volto, deformato da qualche puntura al botulino di troppo, in queste occasioni. Sembrano proprio fatti per i funerali. È come se li vedessi bene in una vetrina del centro con un claim di questo genere: Occhiali da funerale Nascondi le lacrime, non i tuoi occhi. Non capisco cosa ci faccia qui. Non mi spiego quale genere di rapporto potesse avere col vecchio, ma mi fissa come se volesse parlarmi di qualcosa. Come se volesse rispondere alle domande che adesso gravitano ancora più veloci nella mia testa. Cosa c’entra un ultraottantenne, per di più defunto, con una donna che si aggira sui cinquanta e che sembra venuta da qualche piccola, ma tenuta bene, contea della Gran Bretagna? Una donna nobile, di bella presenza, se così impone il costume contemporaneo, capelli biondi leggermente
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cotonati, nasino all’insù, fisico impareggiabile e sorriso da spot delle ultime dentiere super lucidate, dovrebbe andare a giocare a burraco a quest’ora. Dovrebbe farsi bella per qualche gala di beneficenza. Il funerale di un vecchio ebreo, senza onori, non è di certo il contesto in cui la disegnerei. Faccio per prendere da bere, ma la cucina è carica di gente ferma che vocifera della vita e della sua caducità. In questo clima faccio fatica a muovermi senza chiedere il permesso. In pochi hanno il coraggio di stringersi fra loro e farmi passare, il resto degli ebrei altolocati di questa città non penserebbe mai di attaccarsi a un altro uomo, perché avrebbe paura di non ritrovarsi più il portafogli. Però, nonostante tutto, riesco a farmi largo; alcuni in fondo sanno che sono il figlio, il figlio del morto che vengono a salutare. Apro un’anta. Di certo mio padre non avrà scotch in casa né whiskey, ma se sono fortunato riesco a racimolare un dito di Amaro del Capo. E, infatti, eccolo là, pronto a vedermi bramare per lui, i suoi liquidi, la sua ambrosia. Ne verso un dito, facciamo due, nel bicchiere infrangibile a forma di cono capovolto spuntato, lo mando giù tutto in un colpo ad occhi chiusi per non accorgermi dello sguardo di fieri preganti in lutto su di me. L’amaro è una strana cosa, non ne ho mai apprezzato fino in fondo il sapore. Specie quando lo bevo a stomaco vuoto. La bella signora in tailleur mi fissa ancora e mi accorgo che è sola anche lei, come tre quarti della gente che comincia affannosamente a prendere posto negli angoli di aria rimasti ancora vuoti. A me non interessa. La vedo che mi guarda, le sorrido, lei poi non mi guarda più. Si fa spazio tra le persone, spintona una donna senza neppure degnarla di uno sguardo, di una scusa, si mischia per un attimo al nero degli abiti presenti e la vedo che raggiunge in velocità, ma con eleganza e portamento, la camera di mio padre per sedersi al suo fianco. Sono un uomo di oltre-mezza-età, ma robusto e abbastanza alto da non perdermi questo spettacolo.
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Ora la donna in tailleur nero stringe le mani contro il volto, contrae le falangi delle dita ben smaltate e tira via gli occhiali ambrati da funerale. Sembra piangere. Più sentitamente di chiunque. Anche di me. Lo guarda un’altra volta. È come se non accetti di vederlo in quel modo. Sono curioso e devo capire. Faccio un po’ di spazio tra la gente, voglio raggiungere la camera del vecchio, presentarmi con una scusa banale, chiederle chi è e cosa ci fa qui e perché non si trova seduta comodamente a qualche tavolo di burraco con altre donne della società alla crema. Nessuno mi lascia andare. C’è qualcuno che spinge nella direzione contraria. Una donna sta lamentandosi del fatto che manchi aria respirabile in questa casa. Dannazione, sono fermo. Tiro il collo e gli occhi verso il nord. L’unica cosa che sono in grado di vedere ora è la donna, le sue labbra morbide e vive baciare quelle fredde e strette di mio padre. Cazzuto, il vecchio, penso. Ho la sensazione che un morto limoni più di un vivo. Abbasso gli occhi e sorrido. Appena li rialzo, lei non c’è già più. Non è strana la vita senza mio padre, è strano vedere che tanta gente gli fosse così affezionata e che avesse un’amante molto più giovane di lui. Da quando è morta mia madre non ha mai cercato di rifarsi una vita, con le donne, intendo. O, almeno, così credevo. Non che fosse cattivo, era semplicemente un uomo mediocre. Innamoratosi di una donna così lontana dai suoi valori, parlo di mia madre, una donna che voleva a tutti costi continuare a lavorare fino all’ultimo dei suoi giorni. Una donna mora, alta, di bella presenza con due occhi marroni, grandi e luminosi. Non capisco neppure perché stia pensando a lei nel giorno della morte di mio padre, ne resterebbe sicuramente offeso, lo vedrebbe come un affronto, e forse, se potesse parlarmi, mi direbbe: «Allora, è vero. Non sono mai stato niente per te. Ma almeno ora, da morto, mi vuoi prestare un po’ di attenzione?», e sbuffando,
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pregherebbe Dio di prendersi cura di me, della mia anima sola e tormentata, preda facile, troppo facile, di influenze demoniache. Non so a chi somiglio di più. Forse ora che guardo con più attenzione il vecchio, mi sembra di aver preso da lui molto più di quanto mi aspettassi. Stessa stempiatura, stesse mani, labbra strette entrambi, sopracciglia folte, scurissime e inarcate sull’ultimo pezzo di viso allungato. E il suo attuale pallore. Sì, sono proprio suo figlio. Alla faccia mia e di chi pensava che quest’uomo steso sul letto, ormai inerme e senza battiti, avesse scelto di crescermi per un’indotta fede all’altruismo, nonostante fossi nato da una prostituta. Ché – si sa – le prostitute, rispetto a tutte le altre donne, dicono sempre la verità. E maledetto me che credevo al contrario. E maledetto lui, mio padre, che mi ha messo nella testa questo tarlo. Conosco mia madre, l’ho sempre conosciuta, anche se la ricordo appena, ed ora, da morto, conosco anche mio padre, la sua pavidità, la vergogna che ha subìto per una vita intera, l’onta di dolore che ha portato sulle spalle come un macigno. Fino ad oggi. Pace. Ora non potrà soffrire più. Decido di rimanere al suo capezzale ancora un po’, ma resto zitto. Lui fa lo stesso. Non piango, non mi dispero, non provo nessun sentimento, vorrei solo andare via. Partire per un po’. Mollare lavoro, famiglia, padremorto, alcol, sogni infranti e fallimenti. Sentirmi libero. Libero. Splende il sole su Roma, e non è un caso. Mio padre diceva sempre che il giorno in cui sarebbe morto, il sole avrebbe abbagliato il mondo, anche un timido raggio ma caldo, intenso, vivo, come a ricordare che la luce ora è in cielo e non più in terra, come a dire che lui era il sole. Mica male per un piccolo uomo ritenersi il sole, sentirsi in assonanza con gli elementi di fuoco, energia e combustione, dai quali non si può più tornare indietro. È dai processi
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indelebili che termina la speranza. Dalla cenere non si ritorna più. Dicevano quelli della borgata, che ho sempre ritenuto come dei fratelli, che mia madre, prima di diventare una prostituta – quindi quand’era ancora molto giovane – aveva avuto un rapporto penoso con uno di quelli che per sembrare al passo coi tempi vendevano verdura in giacca e cravatta, per poi essere stata mollata a causa di un’altra donna, una di un’altra zona, sempre periferica, demente quanto basta per capire che lui sarebbe cambiato, avrebbe cambiato vita per lei, lavoro per lei, famiglia e origini per lei. Ovviamente pare che in questa storia tra i due lei fosse la più perspicace. Dopo quella rottura, mia madre soffrì, pur continuando a lavorare e a non pensarci, ché era una donna forte, una che non si abbatteva facilmente. Non so perché continuo a pensare a mia madre davanti a mio padre morto. Ora, se potesse, direbbe: «Sei proprio un figlio indegno. Sei proprio uno stronzo», e poi piangerebbe, pregando di nuovo Dio di perdonarlo, di fare lo stesso con me e di concedermi la grazia che le influenze cattive avrebbero allontanato dalla mia anima. Ritornando a mia madre e a Cana, loro si sarebbero incontrate la prima volta quando la piccola Caterina fu portata in ospedale appena nata, trovata, quasi fosse un segno del destino, sotto un bidone coloratissimo della spazzatura. Il primo fattore di contrasto in tutta questa storia è che mia madre, che all’epoca ancora non pensava di esserlo – io sarei nato dopo undici mesi –, aveva già modo di conoscere qualche suo particolare fisico. Mia madre era lì per un aborto. Pare che perdesse molto sangue una sera, e uno dei suoi più affezionati clienti, trovatosi lì casualmente, cioè nella sua casa di allora, decise di portarla, non senza poche insistenze, in ospedale. Dopo averla convinta e a seguito dei dovuti controlli, si trattenne nella struttura ospedaliera per diversi giorni e spesso, nonostante il divieto imposto dagli
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infermieri di girovagare per l’intera struttura, poiché ancora molto debole, camminava su e giù per i lunghi corridoi, da pediatria a ginecologia, da oncologia a cardiologia, fino al pronto soccorso, s’incuriosiva di quanta gente si facesse male in un giorno, in una manciata di minuti, s’incuriosiva nel vedere giovani mamme amorevoli stringere i loro cuccioli, senza il minimo diniego per quel cece gigante fuoriuscito con dolore dal loro più intimo orifizio, s’incuriosiva nel guardare le smorfie soggettive di dolore sul volto di ogni singola persona, i colori, i timbri, gli ahi, pronunciati da tutti nello stesso identico modo. Tutti provano un senso d’inquietudine entrando in un reparto ospedaliero; lei ci godeva. Sembrava quasi un paradiso in confronto alla sua vita, un carcere che avrebbe fatto di lei una donna diversa. «Quella strana voglia sulla gamba sinistra della trovatella...», aveva detto il medico durante un incontro fortuito in corridoio con la restante équipe. «La destra, dottore. La voglia è sulla gamba destra», sentenziò mia madre di fronte allo stupore dei presenti disposti a conoscerne di più, delle sue informazioni, del perché sapesse. «Sono solo un’attenta osservatrice», aveva risposto, ma nessuno se ne era convinto, tanto che nella borgata romana sin da subito cominciarono a spargersi voci e detti sulla donna che aveva abbandonato una cucciola indifesa e che si trovava in ospedale per un’emorragia interna, in seguito ad un “aborto spontaneo”, come riuscì a convincere tutti. Subito dopo ci fu mio padre. S’incontrarono fortuitamente al mercato del quartiere. Entrambi chiedevano all’ortolano frutta ammaccata, per pagare meno, e verdura del giorno prima, per lo stesso motivo. Fu amore a prima vista, si convinse mio padre, per mia madre era solo un altro caso umano da dovere salvare, come un ruolo che t’impongono sul nascere solo perché sei femmina, nient’altro. Cana entrò a far
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parte della nostra famiglia da quasi subito. Mio padre, quando venne a sapere della trovatella e della storia che mia madre riuscì a creare sopra la piccola sventurata, non esitò a prenderla con sé, promettendo di mantenerla come una figlia, di darle cure e amore, come fosse l’evoluzione di un suo spermatozoo. A quei tempi era molto più facile. Bastava conoscere persone che avevano modo di procurarsi carte di tutto rispetto e dire di far parte della comunità ebraica. A quei tempi chi apparteneva a quella comunità – e potete immaginarne il motivo – veniva creduto, rispettato e perfino aiutato. Io, a quattro anni, la ricordo già, Cana, anche a tre, a dirla tutta. Ricordo le passeggiate che non ci stancavano mai incontro l’Aniene che ci sembrava così grande, così forte, in confronto a noi, prima che diventasse il piscio corrente di dio, quello minore, quello minuscolo. Cana aveva un gatto, glielo regalò mio padre, e lei lo chiamò Soweto, come il sottoborgo di Johannesburg, in Sudafrica, quello della lotta all’Apartheid. Era una grande sostenitrice dei diritti neri, di Rosa Parks, di Martin Luther King, dei The Cash, di La ballata di Stroskek, quel film assurdo diretto dalla Germania perbene. «In quel film c’è tua madre. Vederlo ti aiuterebbe a conoscerla. Non puoi continuare a fuggirle», continuava a ripetermi. Ma io mi rifiutavo. Rifiutavo tutto di mia madre a quell’età e quando capitava di doverne parlare, come in questi casi, avevo in serbo sempre pronta una domanda la cui risposta risultava per me, per la mia saggezza di allora, vaga e tendenziosa. «È vero che è anche tua madre?». «Cazzate, Giona. Io sono orfana», rispondeva risentita. «Lo sono anch’io, Cana. Ma non nego di certo il fatto che mi fosse madre. Come fai tu». «Allora, mettiamola così: tu un padre ce l’hai, e ti vuole bene. Io il mio non lo conoscerò mai».
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«Ma tu hai me. Sono io la tua famiglia, ormai». Si azzittiva, mi guardava negli occhi solo – lo so – per guardare il suo riflesso nelle mie pupille, come tutte le donne che non amano, e si impietosiva così tanto di quella immagine, piccola come un occhio, da piangere a dirotto per un’ora. Chissà come apparivo ai suoi occhi, in quale strana forma, che colori avevo per lei, quale profumo lontano potrei oggi ricordarle. Vano ogni tentativo di farle tornare il sorriso sul volto pallido e lentigginoso di qualche decennio fa. Ora non saprei neppure descriverlo, il suo volto. Ero un gran cabarettista da bambino. I maestri della borgata, i miei fratelli, poco più grandi di me, mi chiamavano di tanto in tanto per uno spettacolo che dovevo mettere in scena quasi ogni sera, mentre continuavano a bere birra e a ridermi in faccia, come fossi un clown, un fenomeno da baraccone qualunque, un Billy Elliot, un po’ più simpatico però, e irriverente. Ricordo che i tizi in canottiera bianca, di solito ingiallita dal sudore, e con jeans scoloriti, vestiti sempre allo stesso modo, come una divisa che accomuna adepti di una stessa setta, applaudivano solo quando, al termine dello spettacolo, un uomo che passava per la nostra strada gettava qualche decina di lire verso di me. Non ho mai capito perché ci mettessero così tanto ad apprezzare il mio spettacolo. Era come se occorresse, prima di applaudire al mio talento, una conferma da parte di estranei, o forse perché i ragazzi si ricordavano del valore delle cose solo dopo aver sentito ormai vecchie monetine battere contro l’asfalto. E allora Gianni, il Piccolo Principe (Er Principino, più comunemente), il più grande tra loro, quello che si doveva stare a sentire sempre, qualsiasi cosa succedesse nella zona da lui controllata, si alzava in piedi, levava il bicchiere di birra al cielo col suo braccio tatuato per metà di strani animali esotici, che credo non avesse visto mai in vita sua, e sorridendo ordinava al gruppo di applaudire. Per anni, forse per decenni,
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ho cantato e ballato per ubriaconi, spacciatori, assassini, molestatori, disturbatori e chi-più-ne-ha-più-ne-metta di questa maledetta porzione di città dimenticata, ma ogni ora trascorsa lì, sul mio marciapiede, lo stesso forse che ospitava le passeggiate di mia madre con le sue colleghe, a un passo dalla carreggiata principale dove le macchine scorrevano come stelle cadenti il dieci di agosto, c’era la mia scuola, la mia educazione, il rispetto che avrei maturato per la società, non solo per quella che conoscevo e che mi aveva fatto nascere, anche per tutta quella che avrei conosciuto di lì a qualche anno. Di lì a poco. Al tramonto di ogni giorno cantavo stornelli improvvisati contorcendomi la gola e prima di finire l’esibizione ricordo che era fondamentale inserirci un movimento di busto che destava l’attenzione e l’ilarità di tutti. Ero simpatico, lo era di più il mio corpo, ancora di più la mia statura, l’elasticità degli arti, il comportamento frenetico delle mani e degli occhi. Piacevo a quell’età. A tutti, soprattutto a me. Sostanzialmente non ho mai chiesto alla vita più del dovuto, fin da allora. Alla mia età, quella che avevo, ricordo di non essermi mai lamentato per ciò che mi mancava, semplicemente perché non lo conoscevo. Non sapevo nulla, io. Di come andasse il mondo, di quanti soldi occorressero per essere felici, di come si raggiungesse la Terrapromessa. Di come fossero le donne, le belle donne, pettinate e impomatate, ciondolanti per le strade del centro alle ore più fresche del giorno, con una borsa in pelle sotto le ascelle nude e senza una parola che uscisse dalle loro bocche. Tanti sorrisi, solo sorrisi, senza urla. Senza grida, una scivolata nella volgarità, nella demenza, nella trivialità. Quel tipo di donne non tardò ad arrivare, e subito, non perché mi mancasse il mondo, quello natio, cominciai a pormi domande cariche di sensazioni sconosciute. Che fine avevano fatto le mamme che urlavano dai balconi con i panni in mano, goffe e stanche come corde dello Stradivari più usato, in preda al panico,
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Dalla lettera di Giona T.
alle faccende, alla loro esclusione sociale? Dov’era Cana con le sue persistenti allusioni sessuali a noi maschietti di borgata, le gonne lucide strette in vita e corte fino al pube, dove i suoi camminamenti da diva di serie Ci-Uno? Non lo so, non mi piace neppure sforzarmi di comprendere. So solo una cosa. La più importante. Le donne, quelle che avevo conosciuto fin da allora, alla mia giovane età, appartenevano a un mondo lasciato al giorno dopo giorno, alla spesa nel mercato, agli scialli e alle sottane malmesse e strappate dalle prese dei figli o dalle mani dei mariti sudici di birra che rientravano a casa un’ora prima del solito solo per chiavarle, per poi tornare al bar, alle carte, agli amici, alle scolate, alle ore piccole. Che ne è di quel mondo oggi? Chissà se c’è un tipetto come me al solito posto, messo davanti agli applausi di qualche gruppetto di uomini e ragazzi in preda alla nullafacenza o, peggio, alla criminalità. La mia infanzia è stata la più bella che abbia mai conosciuto, d’altronde. Nessun rimpianto, davvero. Un po’ di rabbia repressa forse, ma solo per sentirmi in obbligo con il mio psicoterapeuta. Lavora di più dall’ultima seduta, da quando abbiamo cominciato a parlare della mia adolescenza, e il suo interesse sembra farsi sempre più acuto adesso che discorriamo della mia infanzia. «Eri un fenomeno da baraccone, Giona? Un fenomeno e basta, direi», mi riprende mentre sorride ai miei occhi che fingono di chiudersi per dare un tocco di malinconia al racconto. Di tristezza. «E poi come credi che abbia cominciato Chaplin?», mi chiede quasi ad invogliarmi ad apprezzare il terzo di passato alle mie spalle. «Con i muti?». Non credo che abbia colto. Sapete, gli psicoterapeuti credono davvero in ciò che dicono, non sono come noi, che alla prima parola sentita ci comportiamo come giocatori di scarabeo, pronti alla lettera estratta ad aggiungerne di nuove. Loro no, loro fanno sempre la stessa cosa con le parole.
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Non le inventano, non le seducono, non le amano. Noi sì, e se non ci basta, le sappiamo anche violentare, distorcere, trasformare, ma con tenera devozione. Come si fa con Dio. Al suo errore, lo bestemmiamo. Alla nostra gioia, lo ringraziamo. Se mi vedessi adesso, Cana, se vedessi come sono ridotto, scoppieresti a ridere. E io non lo accetterei. Ché sono permaloso, lo sai. Lo so. Abbiamo avuto un mondo tutto nostro di cui godere ed io ti ho amato dal primo momento, anche se tu non sei mai stata una da amare. Penso a quello che diresti in momenti come questo, tu che sei sempre stata così brava con le parole, perché le usavi poco. Ti ho forse deluso? A cosa stai pensando, Cana? Sei felice come allora? Come eravamo noi che giocavamo stretti tra le mani a far girare il mondo e a caderci, sul mondo, fatto di lamine e pezzi di vetro, cemento e bici da rubare e colorare. Io, la mia, l’avevo chiamata col tuo nome e tu ti offendesti, ché sei permalosa, lo sai. Cristo santo, doveva essere un onore per te chiamarti come lei, come la bici che mi è appartenuta. Ero già una celebrità, lo ero dal giorno in cui nacqui, lo confermai la prima volta il giorno in cui diventai uomo con la collega di mio padre, ricordi? Greta. Greta, lo spaghetto. Greta, la contorsionista. Greta, la donna delle pulizie. «Aveva trent’anni quando la penetrai la prima volta col mio aggeggio circonciso. Lo facemmo all’uscita secondaria della sinagoga, quella riservata solo a chi ci lavorava», mi ritrovo a dire al mio psicoterapeuta. «E tu quanti anni avevi?». Già immagina quale sarà la mia risposta, che faccio tardare ad arrivare per l’amore che provo nella tensione altrui. E lui è teso, altro se lo è. «Tu quanti me ne avresti dati?». «Ora. Considerando che non vengo neppure pagato per queste sedute straordinarie che, dio sa perché, mi è toccato subire, ti spiace fingere di dirmi la verità?».
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«Dodici». «Cosa?». Sembra come quei palloncini gonfi di aria che sono pronti a scoppiare da un momento all’altro. «Do-di-ci». «Merda». BUM! Be’, non che sia stato preparato al silenzio, l’idillio appena cominciato che fino a questo momento non era intervenuto per niente nella conversazione, ma mancano solo pochi minuti alla fine della seduta gratuita, essendo, il dottor Eugenio Frella, uno dei miei più cari amici d’infanzia, e io devo rientrare a casa, mi dico. A casa, mi convinco. Al cinema, mi correggo. Non è professionalmente deontologico farsi prendere in cura da uno che ti conosce abbastanza bene da guardarti male alla prima stonatura sul passato, ma non ho alternative. Mi fido solo di lui. E che differenza c’è fra il parlare a uno sconosciuto di cose che conosci fin troppo bene, e ricordarsi, grazie a uno che conosci a fondo e che potrebbe aiutarti a farlo meglio, le cose che stavi per lasciarti dietro, dimenticandole? C’è un mare. C’è l’esistenza. E a me, al momento, fa più comodo la seconda scelta. È più comodo cercare il contatto con tutto ciò che per rimozione involontaria stavo buttando giù in un baratro. Devo ricordare. Lo dice sempre anche Frella, dice che bisogna capire cosa ci ha disturbato, scovare nei ricordi e nelle associazioni di ricordi, far nostro quello che abbiamo ceduto ad altri, ritornare per andare via. O andare via per ritornare, non ricordo. «L’influenza», dice sempre, «può essere di due tipi, batterica o virale, ma se non si conosce la causa, non si può apporre la cura. Così per la depressione». «Io non sono depresso». «Oh sì che lo sei, lo siamo tutti. Soprattutto tu».
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CAPITOLO 2
E Dio disse: «Mamma!».
Q
ualche decennio fa abitavo in una roulotte, è vero, ma era ben fornita, avevo anche un letto tutto mio per dormire e, se si poteva, anche sognare, e due fornelli, uno dedicato al latte della mattina, l’altro alla zuppa di cibo kosher della sera. Era pulita, a suo modo. Tutto era perfettamente posto nel disordine in cui desideravo averlo. Tutto lì a portata di mano. Tra lo scaffale dei libri di scuola e il mio letto, o meglio sarebbe dire brandina, non c’era nessuno spazio sgombro. Occhialini da lettura di mio padre ben confezionati, almeno cinquanta, collezionati da quando aveva circa sette anni. Diceva che alcuni erano appartenuti a mio nonno, un gran lettore, diventato poi tristemente cieco. Da quando cominciò a non vedere più il mondo, decise di scriverlo. Pare fosse un poeta, il più importante di Roma, diceva mio padre, quello per cui i turisti venivano da mezzo mondo per incontrarlo, stringergli la mano e chiedergli una firma, un autografo, fatto di onde e triangoli. Qualcosa di illeggibile che sembrava appassionare le giovani donne, nonostante avesse già la sua adulta età quando si affermò, raccontava sempre lui, mio padre. Non che non ci abbia mai creduto, a questa storia, ma mio padre, quando riportava un racconto,
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un episodio, un ricordo, tendeva sempre ad esagerarlo, gonfiandolo di paroloni, spesso in yiddish, che facevano venire il mal di testa. Alle volte cercavo una via di fuga quasi a scappare via, ma mio padre era un tipo permaloso, odiava l’interruzione delle sue storie, riusciva soltanto a guardarmi fisso, immobile, negli occhi e a parlare fino all’esasperazione. Mi obbligava per ore e ore ad ascoltare le sue storielle che, sarà stato il suo modo di narrare, ma non avevano niente a che vedere con il nonno cieco. Il nonno, nei suoi racconti, era solo un posticcio involucro di tutto un corpo che – badate – camminava per mezzo e in funzione di Dio. Mio padre si serviva di suo padre per farmi sapere quanto importante e saggio, imperscrutabile e sommo, inarrivabile e forte fosse il suo «Buon Dio». Il resto era un bla-bla che serviva a mantenere desta la mia attenzione, come quando raccontava delle gonne delle americane venute per il nonno, arrossendo come un cerino acceso, neanche avesse visto due tette nude. Era fatto così. Pudico, estremamente credente. Credeva a poco mio padre. Ma ci credeva tanto. Credeva in Dio così tenacemente da farlo sembrare una sorta di sé; per questo forse, a tempo perso, se pensavo a Dio, lo immaginavo con la sua faccia, le stesse sembianze, con un po’ di barba canuta in più sul mento e le mani meno secche e rovinate. Forse Dio è veramente come lui, con gli occhi piccoli e neri e le ciglia lunghe tanto quanto i peli che dal naso escono vogliosi. Più potere, più senso, meno parole. Dio non è di certo un paroliere. Lui fa e mio padre parla. Era un buon uomo in fondo, innamorato della fede e della misericordia, ebreo come pochi son rimasti, con l’unico neo che in vita sua non avrebbe mai immaginato di avere, e se l’avessero avvisato prima, quando era più giovane, che si sarebbe innamorato di una puttana, probabilmente si sarebbe ucciso prima di farlo. Invece, per ricredersi, bastarono un tozzo di anni, un incontro fortuito e il vero amore che incendia l’animo. E non
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contento, continuò ad amarla, anche quando lei morì e ci lasciò da soli e senza un tetto. L’unica casa che avevo conosciuto in vita mia non la ricordo più. Avevo due anni forse, e mio padre, che aveva anche un nome, Elia era il suo, diceva che abitavamo in un appartamento pagato con i soldi di mia madre, col nome anche lei, il suo era Maria, – non come la Madonna cristiana – Maria Grazia per i clienti, e per i più intimi «Maria, grazie!». Alcuni di loro ti facevano sbellicare davvero dalle risate. Io li ho conosciuti che ero grande e Maria era andata via già da un pezzo. Elia lanciava certe urla quando mi trovava a parlare con loro al bar o in mezzo alla strada che si giravano tutti, anche i sordi. Non mi sono mai vergognato così tanto. E poi, cazzo, che c’era di male a voler conoscere qualcosa in più della donna che ti ha messo al mondo? Io di lei sapevo solo che sapeva far l’amore, e bene, a quanto dicevano. Nessuna foto, nessuna lettera, non che sapesse scrivere, dato che era analfabeta, ma non lasciò nessuna traccia per me, niente di niente. Mi restavano solo le parole malinconiche di quella ventina di uomini che andavano da lei a sere alterne ogni settimana, anche quella di Natale e di Ferragosto, lasciando a casa mogli, figli e guai. E un giorno ci parlai per ore, con uno di loro. Eravamo al bar, di fuori, io sedevo sul marciapiede vicino a un albero, per non farmi vedere, fosse mai capitato Elia da quelle parti, lui al tavolino, impettito nel suo cardigan di cachemire. «Eravamo tutti innamorati di lei. Una volta ci arruffammo, sai? Avevamo perso il conto coi turni ma, per fortuna, lei lo teneva sempre, il conto, sapeva a chi toccava quella sera, così ci separò, mandandoci a quel paese e sbattendoci la porta in faccia. Che donna! Aveva gli occhi grandi e scuri, ma che brillavano di verde, e nonostante quel difetto alla gamba, che non la faceva camminare bene, tua mamma sapeva correre, quando voleva!», e rideva così forte da farti ridere solo per questa ragione, anche se aveva appena dato della mignotta a una che,
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per quanto tu non abbia conosciuto e non abbia saputo amare fino in fondo, era pur sempre tua madre. Lui, ad esempio, è Giovanni Lattanzi, classe ’trentasette, uomo d’altri tempi, andava in giro col bastone da passeggio con l’impugnatura d’avorio e la ghiera in argento che si vantava di aver rubato a un fottuto tedesco, dopo che la guerra finì, perché prima o durante ne conobbe uno solo al cinematografo, un comico nel ruolo di Hitler che faceva balzare il mappamondo col culo. Mi faceva ridere di gusto e, nonostante dicesse sempre tante stronzate, di contraddirlo non mi è mai passato per la testa. A volte, non nego, reputavo i suoi racconti molto più interessanti di quelli di Elia; non per colpa sua, di mio padre, ma della sua smania di volersi accaparrare apprezzamento e lodi, e se anche fosse stato così, non ci sarebbe stato nulla di male. D’altronde gli restava solo quello, ma io lo capii già troppo tardi. Era un uomo normale, niente di meno. Non beveva, non imprecava, non rubava. Non ha mai ucciso nessuno, a parte il senso delle storie che raccontava. Mentiva, ma questo, si sa, lo fanno tutti gli uomini normali. Non era cattivo, ma neanche buono. Era un uomo come tanti, attento solo a non nominare il nome di Dio invano e a stirare le camicie nel peggior modo possibile. Cucinava di tanto in tanto delle zuppe di cipolla e timo, uno schifo, che mi faceva ingerire con la forza, perché, a sua detta, contenevano vitamine importanti per la mia crescita. In realtà sono cresciuto sano, perché rigettavo di nascosto quelle sostanze. Ne provavo anche una sorta di pietà quando lo guardavo, dopo aver scoperto cosa faceva realmente delle ore trascorse fuori di casa fino al tramonto. Mio padre mancava quasi tutto il giorno. Lavorava in sinagoga, diceva, nell’amministrazione. Era vero. Solo a metà. Faceva l’inserviente. E io lo scoprii che ero già grande e, ahimè, circonciso. Può sembrare che sia una cosa, quella della circoncisione, che non abbia preso nel migliore dei modi. In realtà, ho accettato anche questo. Non che vedermi il pene sbucciato mi faccia impazzire dalla gioia,
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ma oggi ne capisco a grandi linee il perché. C’è chi ha il naso aquilino e lo passa al figlio, chi lo strabismo di venere, e tanti l’idiozia. Elia, la sua normalità non la passò al figlio. Mi passò il suo pene allo scoccare dell’ottava settimana dalla mia nascita. Chissà se mia madre fu mai d’accordo. Non so neppure come si pronuncia il nome del suo Dio, se Cristo, Allah o Yahweh. Forse di lei si dimenticarono. Forse nessuno le disse come doveva pronunciarlo. Se solo avessi saputo dall’inizio che Elia era dedito a pulire il pavimento della piccola sinagoga interna al Tempio maggiore, quella con le pareti color ocra, probabilmente oggi sarei buddista. E poi diciamocelo, le frustrazioni parentali sono come la circoncisione, ma fanno più male, ci penetrano fin dalla giovane età e di questa violenza gratuita tra medici e analisti nessuno ne parla, quasi fosse legge. Rigore. Il rigore. Non mi piace parlare dei morti, ma ho odiato mio padre quasi quanto il suo lavoro, ritenendolo più sporco delle faccende di mia madre, una santa ormai, grazie anche a Giovanni Lattanzi, classe ’trentasette. Tutto ciò che ha a che fare con una bugia nasconde in sé qualcosa di macabro; non ha direzioni, porta solo alla fine. E così fu con Elia. La nostra fine. Scoprire la sua realtà fece terminare il nostro rapporto, o quel che era, senza una parola, né da me né da lui, con una ramazza stretta tra i pugni e le lacrime protese verso terra, pronte a scendere da un momento all’altro. «Serviva una mano qui. Ho pensato di rendermi utile», aveva detto quel giorno. «Bella divisa, ti dona», avevo detto io. «È solo per oggi, Giona. Hai capito male». È poi l’insistenza a mentire che genera la fine di tutto in realtà. La volontà di perdurare, l’autoconvinzione malata che ci formiamo nella testa, come un’emicrania dura a morire. Ecco, Elia. Eccoti del tempo. «Vaffanculo», mi direbbe lui, aprendo gli occhi e richiudendoli all’istante per rimorire in pace. Grazie al Dottor Eugenio Frella ho compreso
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che il mio debito nei confronti di mio padre è incessante, è la causa dei miei problemi e delle mie insoddisfazioni. Io, in realtà, avrei voluto essere lui, dice Frella, spiegandomi con dovizia di particolari che Elia per me era, e rimane, un esempio incompleto e mancato, il Messia che ho rifiutato di seguire per la mia scarsa propensione all’ascolto, nonché quella parte di me, pia e devota, che vorrebbe farsi carico dei suoi doveri, ma che purtroppo è troppo magra per reggere la fame cronica. Il Dottor Eugenio Frella, me ne accorgo quando è particolarmente indebolito dalla mie sedute, vorrebbe mandare a fanculo tutto di me, insieme ad Elia, Maria e Cana, ma non sa dove trovare il coraggio per dirmelo, ribattendo con forza sulla questione depressione, a lui molto cara. «Sei depresso». «Tutti lo siamo, dottor Frella». «Tu di più». In questo momento riconosco il bicchiere che mi fa compagnia, ambrato, di vetro, quasi vuoto, amico mio, seduto sulla mia mano, e noi, insieme, su una vecchia poltrona di pelle, un vecchio regalo di qualche produttore, non di cinema, teatrale. Chiudo gli occhi e sento che dalla radio ora si passa il meglio, il vecchio Solomon Burke è qui, è tornato da me, ma non mi commuovo, muovo solo, senza seguire neppure il ritmo di Cry to me, il busto massiccio appartenente a questo stanco corpo. C’ho un’età, è vero, ma non ho intenzione di lasciarmi andare, di buttarmi via per una stupida sensazione. La mia è stata una determinazione vera, né le maldicenze né le mie idiozie hanno scalfito in alcun modo la sua resistenza. Oltre mezzo secolo di vita, impegnato nel mio modo, nel mio stramaledettissimo modo, che forse non andrà bene agli altri, ma, cazzo, a me sì, eccome. La storia che ritorna inevitabile ha poco a che vedere con quello che
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mi è accaduto. Nessun circolo, nessuna spirale. Solo un ricordo, un fottutissimo ricordo della sensazione più incredibile di tutta la mia vita. Lasciarlo andare via significherebbe morire. Ed io non voglio, adesso non ne ho il tempo. Davvero. In compenso la poltrona è comoda e se chiudo gli occhi, forse non potrò sentirmi peggio di come mi sento adesso, che ho un macigno incastrato tra lo stomaco e il cuore, una sanguisuga che succhia tutto ciò che credevo non potesse esistere dentro di me. «Sei depresso, devi fartene una ragione, Giona». «Vaffanculo, Dottor Eugenio Frella». Drin drin. Lasciatemi in pace. Drin drin. Ah, santiddio. Drin drin. Ok, rispondo. «Pronto?». «Ehi, credevo fossi ancora alle prove». «E allora perché chiami, baby?». «Era solo per farti un saluto. E mi mancavi, tutto qua». Shmuk. Proprio adesso che avevo a che fare con i tormenti e le inquietudini. Io e loro. Da soli. Ci chiamavamo perfino per nome, dandoci del tu con pacche sulla spalla, come si fa con gli amici veri. La dolcezza non c’entrava niente, non ci voleva affatto. «Sono qua, piccola. Cosa succede?». «Ho bisogno di parlare un po’ con te. Che ne dici di incontrarci per un caffè, o magari per cena? E se ce ne andassimo a cena io te, da soli, come ai vecchi tempi?». «O magari in qualche postaccio di periferia a sbronzarci come matti. Domani sera, facciamo domani?». «No, stasera. Subito. Preparo qualcosa per Mario, così non muore di fame e ti raggiungo. Tu, intanto, perché non prenoti al Caffè Rouge? Mi piacerebbe tanto tornarci». «Ok, piccola. A dopo».
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Non avrei potuto immaginare fine peggiore, per questo mi intingo il bicchiere di nuovo, sprofondando nella poltrona. I suoi teneri guanciali mi fanno stare bene, mi ricordano una protezione che credo di non aver mai provato veramente. Solo cinque minuti, poi mi sistemo. Magari mi faccio una doccia, ché non posso farmi vedere sempre in queste condizioni da quella donna, come quella volta, quando era una ragazzina ed io il solito insensibile. In realtà, non era nelle mie intenzioni rovinarle il sedicesimo compleanno, ma ero da solo, tristemente vedovo da qualche anno, e intorno a me settanta mocciosi, provenienti dal rango sociale peggiore, arricchitosi tristemente con le ottime uscite in borsa di alcune grandi società fallite, ultra impomatati, impostati come maioliche, attenti al tono della voce e alla grammatica delle parole. Signore Iddio, ho avuto anch’io sedici anni, e non ero di certo così intontito dal curarmi delle forme nel dire che bella cravatta, signore o che casa elegante, signore e ancora chi è con lei in questa foto, signore?. I miei figli, fortunatamente, sono cresciuti lontani miglia dalle mie turpi regole che, in verità, non sono servite a nessuno. Forse perché non esistevano neppure. Si trattava di supposizioni, pensavo di avere delle regole, io, ma ogni volta che provavo a metterle in pratica, per qualche strano caso, scomparivano. Non esistevano più. Cana, quanto vorrei averti qui per sapere se ricordi qualcosa di me. Dimmelo. Dimmi ancora che sono un idiota, Cana. Ho perso il filo. Ah sì, i suoi sedici anni. Be’, quel giorno di metà settembre lo ricorderò sempre, forse perché da lì il nostro rapporto è cambiato veramente, o si evoluto. Lei era bellissima, indossava un abito azzurro corto sopra le ginocchia con un nastrino di raso sotto i seni appena accesi. Non ricordo perché ma temo che mi avesse ripetuto più volte la stessa domanda: «Sarai a lavoro oggi, vero?», e di averle risposto di sì tutte le volte. In realtà, a causa di un incidente in cui venne coinvolta la troupe con cui si girava a
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quei tempi, fui costretto a rimanere a casa con lei e i suoi giovani amici della Roma da bere. Fortunatamente nessuno ci lasciò la vita, ma in compenso le macchine da presa e il furgoncino da passeggio furono da buttar via. Quando l’avvertii sembrava davvero molto dispiaciuta. Col tempo e con qualche dormita in più capii che la ragione del suo nobile sentimento era dovuta alla mia presenza lì. D’altronde era immaginabile. Nel pieno dell’adolescenza e con i primi amori nella testa, magari anche con il primo ciclo, ed ecco scoprirti al mondo sola. Sola e indifesa. Sola, indifesa e dannatamente ricca. Deve essere stata una maledizione per lei. Senza ironia. Insomma, non è semplice per una bambina di quell’età reggere il peso di così tanto. Io comunque non volevo. Non avrei mai voluto vederla piangere né tanto meno esserne la causa, di quel pianto, ma a tutto, anche ai giochi tra adolescenti riunitisi per la festa di compleanno della mia piccola sedicenne, c’è un limite. E questo fu superato a piè pari quando mi accorsi per caso che dietro la palma che la mia prima moglie, già morta, aveva tanto desiderato piantare in giardino insieme ad altri inopportuni alberi esotici, si nascondevano due testoline, una racchiusa in un caschettino color pece, l’altra in lunghi capelli biondi che mi era difficile non riconoscere. Avvicinandomi e spostando qualche foglia oblunga, mi accorsi che due amiche erano affaccendate a scoprire cosa la loro lingua fosse in grado di fare senza parlare. Lingua che, si vedeva chiaramente, era l’una nella bocca dell’altra. Ora, io non sono mai stato legato a stupidi pregiudizi. Ma è pur vero, e questo mi sarà perdonato, che non mi ero mai posto neppure una volta, prima di quel momento, il problema che mia figlia, appena sedicenne, potesse baciare un’altra femmina. Le cose che sono accadute dopo possono essere anche lasciate all’immaginazione altrui, ma tengo a far sapere che, quando si accorse della mia presenza lì, a cinquanta centimetri da lei, mentre un gruppo di ragazzetti idioti circo-
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lava da quelle parti e si incuriosiva del problema, provocò un rumore sordo staccando la lingua dalla bocca dell’amichetta, rimasta ancora a occhi chiusi, quasi inebetita. Poi si alzò in piedi in un batter di nervi, proprio come faceva la madre quando i nostri discorsi prendevano la piega peggiore, quella in cui si mettono in ballo anche i bisnonni e i trisavoli e tutte le dodici tribù provenienti da Giacobbe. Temo che sia stato un trauma. Per entrambi, intendo. Eveline, la mia bambina sedicenne, volò via come un razzo, senza neppure badare all’amica abbandonata, gridando a me e a tutti i presenti, ormai aumentati dal passaparola generale: «Come hai potuto farmi una cosa del genere, papà? IO TI ODIO», ODIO-ODIO-DIO-IO. E così via per due minuti l’eco di quella voce bambinesca rimbombava dentro il mio vecchio cuore. Inutile dire che avrei voluto gridare anch’io, menare qualcuno lì a caso, magari il fighettino con la divisa blu della scuola americana e coi mocassini ai piedi, bianco da far paura, stupido come una capra, lentigginoso e puzzolente di pudore trapiantato dai suoi avi di chissà quante generazioni fa. Non feci nulla. Cercai mia figlia, in lungo e in largo, facendomi aiutare anche da Andrea, l’altra figlia, la minore, più saggia anche di me. Adesso ha vent’anni, no venticinque, forse ventisette, ma all’epoca molti di meno. Non ne faceva passare una al vecchio, mai. Nessuna. Anche in quell’occasione mi disse di lasciar perdere, di non peggiorare la situazione, perché in fondo il più sconvolto tra i due ero io, ed ero io quello che doveva ragionare con calma prima di dire cose di cui mi sarei pentito. Avrei dovuto ascoltarla, lo so. Ma pensai chi è il padre, io o lei? E allora mi diressi in casa e salii di corsa tutti i quaranta gradini della scala a chiocciola che portavano al piano notte. Lì, tutte le porte delle stanze erano chiuse. Andai a tentativi. Non poteva che trovarsi nella mia camera, o meglio, nella camera da letto di sua madre. Provai. Bussai. Non rispose, ma sentivo un lento miagolio entrarmi nel vecchio cuore, ormai
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colmo del suo ODIO, poi un respiro affannoso. Qualcuno lì stava per scoppiare. Bussai di nuovo. Insistente io. «Che vuoi? Vattene!». «Apri la porta, Eveline. Non lo ripeto un’altra volta». «Lasciami stare». «No». «Hai rovinato la mia festa, ti rendi conto?». «E tu mi hai rovinato la vecchiaia», bisbigliai cosicché non mi sentisse. Aprii la porta. Il suo bel viso, tutto rovinato dal trucco misto alle lacrime, era lì davanti a me. «Ti ho sentito», disse. Mi fece entrare e mentre seguivo la sua schiena che si muoveva verso il letto, cercavo di trovare nella testa le migliori parole che un padre traumatizzato da una scena che non dovrebbe mai affacciarsi così bruscamente davanti ai suoi occhi potesse scegliere nel suo scarno vocabolario. «Tesoro, io so come ti senti». «Ah, certo. Adesso mi capisci pure...». Maledizione. Stavo sbagliando e volevo disperatamente che Andrea mi dicesse cosa fare, con un gobbo, un auricolare, un maledetto uccello viaggiatore. Ma niente. C’eravamo solo io e lei, e adesso toccava a me. «Forse no, non ti capisco, ho sbagliato. Ma vorrei che tu capissi me. La vita alle volte ci mette di fronte a prove di cui noi non conosciamo neppure l’esistenza, a cui non siamo preparati, capisci? Ed è per questo che ne siamo spaventati a morte. Io sono tuo padre, tesoro, come credi che possa reagire di fronte a ciò che non conosco di te? Con sorpresa. Giusto?». «Mi sembrava più schifo il tuo». Touché. «Affatto, bambina mia. Cosa credi che abbia fatto in questi anni se non conoscere il mondo e tutta la sua varietà? A te... a te... piacciono...».
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«Sì, papà, mi piacciono le femmine... o forse no, non lo so. Devo ancora capire». «Ok, quanto tempo ti occorre?». «Papà!». «Io non so, volevo solo dire che se hai bisogno di me, ci sono, ok?». «Ok». Le diedi un bacio forte sulla fronte fino a lasciarle impressa la sagoma delle mie labbra e mi alzai come per andare via. «Papà?». Mi voltai. «Dimmi tesoro». «Anche io ho paura di ciò che non conosco». Sorrisi. «E allora va’ a conoscerlo, amore mio. Va’». Shmuk. Mi pentii immediatamente. Lei uscì di corsa, sorridendomi e restituendomi il bacio ed io rimasi lì, ancora in piedi, con la paura fottuta che lei da qualche minuto in poi si sarebbe lasciata andare in tutto quello che la mia mente malata poteva ancora immaginare, nelle perversioni adolescenziali, che ne so, in un’orgia con tutti i fighetti che la toccavano ovunque e le amichette e i baci. Basta. Sul comò accanto al letto c’era ancora lì il mio whiskey e, giuro, mi chiamava come una puttana. Accettai la proposta. Solo una botta. Ne feci quattro, di seguito, una ad una goduta come la prima. Ubriaco, mi sdrai. Dove sei, Cana, dove? Da allora tutto come prima. Solite ramanzine paterne, soliti scontri, incontri, visite, telefonate. Vaffanculo. Scusa. Perdonami. Dammi un bacio. No, mi levi il trucco. Ma tu non ti trucchi. Potrei cominciare a farlo. Ti chiamo domani. Nessuna telefonata. Ero preoccupato. Abbracci, ricordi, cinema, tennis, pop corn, mi accompagni a prendere il regalo per Andrea? Vacci solo, dovrai imparare prima o poi, e poi discorsi, consigli,
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Dalla lettera di Giona T.
invettive, monologhi, sentenze, indicazioni, informazioni, dettami, carezze, quelle sempre meno. Per anni tutto più o meno uguale. Ah, con la sola differenza che da quel giorno Eveline si interessò esclusivamente agli uomini. Giovani, più giovani. Molto più giovani di lei. Col senno di poi mi convinco che avrei dovuto utilizzare parole diverse. Il mio amico, Dottor Eugenio Frella non lo dice, anzi, con fare fraterno, rincara appena può, appena glielo concedo, la mia saggezza per il comportamento avuto in quell’occasione, ancora più encomiabile per il fatto che l’indomani ci sarebbe stata la prima del mio spettacolo teatrale, Giù le mani. Una commedia non troppo esilarante, dovessi commentarla oggi. Trattava di un uomo che, stanco dei continui rifiuti da parte delle donne, di qualsiasi donna che incontrasse per la sua strada, giovane, vecchia, bella, grassa, magra o brutta, cominciò ad interessarsi all’arte, sfogando le sue maniacali frustrazioni sessuali sulle tele. Alla fine il protagonista, dopo aver goduto dell’amore della dea tricefala Effennerre (Fama, Notorietà e Ricchezza), si ritrovò come per magia nei desideri e nei sogni di tutte le donne del mondo, giovani, vecchie, belle, grasse, magre e brutte che, come per un incantesimo, cominciarono ad assediarlo giorno e notte. E, allora, a quel punto, non poté che scegliere l’unica via percorribile, l’omosessualità forzata, non un’indole naturale, una sana nascita di estrogeni, no, un indottrinamento esperienziale, capite?, un rifiuto volontario e conscio di quel mondo femminile che con lui si era dimostrato materialista e superficiale. Ricordo anche che l’attore protagonista, scelto per un’indiscussa vicinanza al produttore gay, quello della poltrona di pelle che conservo gelosamente in salone insieme alla sagoma del mio corpo stanco, provò anche a tirarmi un ceffone, perché si era risentito per alcune parole riferite a non ricordo cosa, ah sì, lo avevo chiamato checca, avevo detto proprio così: «Smetti di fare la checca, tu, almeno nel primo atto, sei un guardone, un lurido maniaco di mezz’età, dedito a seghe e giornaletti
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ELISA MAURO
porno. Poi, diventi frocio». Doveva essere andata più o meno così e, come dicevo, voleva schiaffeggiarmi, come una checca appunto. Il produttore, Gianni Formato, un uomo di mezza età, completamente calvo e sempre molto signorile, non mi richiamò mai all’ordine su quel fatto, mai uno scarno riferimento al mio comportamento, nulla di nulla, nemmeno uno sguardo storto dalla rabbia o dall’onta. Mi adorava. Adorava il modo in cui parlavo agli attori, mi faceva passare tutto, bestemmie, ignominie, attacchi di rabbia contro le sceneggiature stampate su carta riciclata, ritardi alle prove, alle prime, alle conferenze stampa, ed io ci marciavo così tanto da sentirmi come Maurizio Damilano a Mosca nel 1980. Signore, quanto mi manca il teatro! Quell’odore acre di velluto impolverato e legno umido rosicchiato da minuscoli esseri viventi. Oggi è tutto diverso. Mi trovo a dirigere intere troupe tecnologizzate, attori che provino in videoconferenza tramite Skype, supporti e diavolerie di cui avrei fatto a meno di vedere nella mia vita e che hanno reso il rapporto umano e la sua degenerazione senza senso. Ormai agenti e uffici stampa parlano nel nome di altri ed io non so se sia meglio relazionarmi coi mini-cani delle star che portano sempre in tournée nelle borse Louis Vuitton o con l’orda di parrucchieri e estetiste al seguito. È triste accorgersi dell’impoverimento professionale di questa gente. A mio parere, avrei lasciato tutto com’era, con il cinematografo. Oggi è una gran cagnara, tutti credono di sapere tutto, credono di amare quello che fanno, molti sono in lotta con i trecento io che si sono costruiti nella testa, non c’è più una vera ispirazione muta, tutti la fanno parlare, raccontano, la vomitano, la inchiodano nei corpi altrui, quasi fosse una colpa degli altri avere esperienze infelici ed io, che di queste cose ho sempre detto poco, mi ritrovo a pensare, come un vecchio, malinconico, solo generazionista, che il mio tempo è passato. Morto. Non mi piace parlare dei morti. Specie se si tratta di me.
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