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BEATLES 50 a cura di
Alberto Durazzi e Marco Crescenzi
Armando Curcio Editore
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Cavern Club. Fan in attesa di assistere a un’esibizione dei Beatles.
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ELECTI I Edizione novembre 2013 Š 2013 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma www.armandocurcioeditore.it info@armandocurcioeditore.it Foto di Copertina: Composizione grafica da foto promozionale dei Beatles Testi e ricerca storica a cura di Marco Crescenzi Ricerca iconografica a cura di Alberto Durazzi Art Director: Mauro Ortolani Progetto grafico e impaginazione: Stefano Mencherini
ISBN 978-88-97508-94-6 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.
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Sommario
Love, Love Me Do
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Conclusione
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Photogallery
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Perché questo libro? Perché era impossibile scrivere qualcosa di nuovo a proposito dei Beatles, mentre proporre qualcosa di nuovo è stato possibile attraverso le immagini. Le foto – per lo più inedite – accuratamente selezionate, riguardano gli aspetti peculiari che hanno reso celebri i Quattro di Liverpool, oltre che la musica. Da Liverpool a Roma: questo è il periodo temporale in cui si snoda questa breve storia per immagini, dalle origini all’ultima tappa della tournée italiana. Nel 1963, esattamente mezzo secolo fa, i Beatles incidevano il loro primo album Please Please Me. I 586 minuti impiegati, consecutivamente, dai Beatles per la realizzazione dell’album, furono sufficienti per cambiare la storia della musica pop. L’album, fra le 14 canzoni che lo compongono, comprende Love Me Do, il primo singolo dei Beatles, la cui incisione ha una sua storia, la stessa che sta all’origine del quartetto di Liverpool.
Love, Love Me Do La storia in questione aveva avuto inizio nel maggio del 1962, dopo che Brian Epstein riuscì a ottenere un appuntamento a Londra con George Martin, manager e compassato musicista che, dopo aver ascoltato un loro demo, si lasciò affascinare dall’entusiasmo e dall’incoscienza dei quattro ragazzotti e decise di concedere loro un’audizione. Le registrazioni che Brian fece ascoltare a George Martin erano quelle effettuate qualche mese prima alla Decca. Alcuni brani dell’intera session furono riportati su vinile presso il negozio HMV di Oxford Street dove con poche sterline si poteva incidere un singolo disco. Quando i Beatles ricevettero la notizia della loro audizione alla EMI, si trovavano ad Amburgo. Famoso è il testo del telegramma che Brian inviò loro non appena varcata la soglia della EMI: «Congratulazioni ragazzi. EMI chiede seduta di incisione. Prego provare nuovo materiale». Un secondo telegramma Brian lo inviò alla redazione del «Mersey Beat» all’attenzione di Bill Harry: «Ottenuto contratto per Beatles, incideranno per EMI su etichetta Parlophone. Prima data registrazione 6 giugno». Il 6 giugno dello stesso anno, alle ore 18, al numero 3 di Abbey Road, Londra, NW8, sede dal 1931 degli studi della EMI, già Gramophone Company Limited, il primo fortunato ad “avvistare” i Beatles al loro arrivo fu John Skinner, guardiano degli studi, che in seguito dichiarò: «I Beatles arrivarono nel parcheggio con uno scassato furgoncino bianco, molto magri e arruffati; Neil Aspinall, che si presentò come il loro roadmanager, disse: “Sono i Beatles e vengono per una registrazione”. Strano nome, pensai». Neil Aspinall in realtà era il loro autista factotum scaricastrumenti, il quale, una volta arrivato ad Abbey Road, percorse la strada almeno tre volte prima di rendersi conto che la sede degli studi era un’anonima e bassa palazzina bianca. Presenti all’evento George Martin, Ron Richards, Norman Smith, Chris Neal, che con grande costernazione videro presentarsi davanti ai microfoni questi quattro “provincialotti” poco raccomandabili, vestiti di pelle nera e con un’attrezzatura assolutamente “inqualificabile” per gli schizzinosi tecnici in camice bianco di Abbey Road. George Martin dovette addirittura spiegare loro il funzionamento dei microfoni di studio e, una volta iniziata la registrazione (che a dire il vero non era un’incisione commerciale, ma solo una prova per dare la possibilità a Martin di decidere se da quelle “cose” si poteva tirare fuori qualcosa di buono), i Beatles si esibirono in 4 pezzi, Besame Mucho, Love Me Do, PS I Love You, Ask Me Why, e fu proprio durante l’esecuzione di Love Me Do che Smith disse a Neal: «Va’ a tirare fuori George dal bar e sentiamo cosa pensa di questa roba». Nonostante lo spiccato “interesse” che Martin sembrava dedicare ai Beatles, alla fine decise, «non avendo nulla da perdere», di far firmare loro un contratto discografico standard premurandosi di retrodatarlo al 4 giugno, così da assicurare alla EMI i diritti sulle incisioni appena effettuate. La seconda puntata della storia avrebbe avuto luogo il 4 settembre dello stesso anno. Tre mesi dopo il loro primo ingresso ad Abbey Road, i Beatles (che nel frattempo avevano defenestrato il loro batterista Pete Best sostituendolo con tale Richard Starkey del gruppo Rory Storm & The Hurricanes) tornarono a varcare la soglia degli studi, provenienti da Liverpool,
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questa volta in aereo, per “fare la storia” dopo pranzo. Prima della registrazione, George Martin spiegò quali erano le sue intenzioni. «Se c’è qualcosa che non vi va, fatemelo sapere», disse. «Beh, tanto per cominciare», rispose George Harrison, «non mi va la sua cravatta». Ovviamente si trattava di una battuta, ma a quanto pare a George Martin non piacque molto (l’aveva appena comprata e ne andava particolarmente fiero). George Martin aveva pensato al brano How Do You Do It che riteneva “giusto” per loro... Peccato che i Beatles non fossero della stessa idea e quindi incisero una versione della canzone assolutamente scialba. «Vogliamo eseguire cose nostre», sentenziarono. «Se riuscite a scrivere cose altrettanto buone, fate pure», fu la risposta. (How Do You Do It, per la cronaca, fu incisa da un altro gruppo di Liverpool, Gerry & The Pacemakers, sempre della scuderia di Brian Epstein, in una sola seduta, e andò subito al numero uno delle classifiche). Bene, dopo la piccola “rivolta” e dopo un piatto di spaghetti – 3 scellini e 6 pence nel ristorante “Alpino” di Marylebone high street (che così si ritagliò qualche minuto di gloria nella storia della musica) – i Beatles tornarono negli studi per eseguire Love Me Do che, tra mugugni e rifacimenti, fu conclusa intorno alle 22, dopo aver ripetuto la canzone ben diciassette volte. Tra i meno convinti della seduta di prove del 4 settembre c’era proprio George Martin, che in particolare non aveva apprezzato la prova di Ringo alla batteria e per questo motivo prenotò un altro batterista, il trentaduenne Andy White, ben più esperto dei Beatles. Il povero Ringo deposto dal trono dopo appena una seduta venne relegato a suonare un tamburello. Ad oggi le due versioni di Love Me Do si distinguono l’una per la presenza del tamburello con White alla batteria e l’altra per l’assenza del tamburello con Ringo ai tamburi. Durante la stessa seduta i Beatles incisero anche PS I Love You, sempre con White alla batteria, mentre questa volta Ringo fu dirottato alle maracas! E provarono anche una versione di Please Please Me che venne subito abbandonata per essere ripresa successivamente. Il 2 ottobre i Beatles e Brian Epstein firmarono un nuovo contratto. A testimoniare la sottoscrizione, così come imponeva l’ordinamento giuridico, furono chiamati il padre di Paul e quello di George. I Beatles si obbligavano a prestare alla EMI, per cinque anni, la loro attività artistica. Il primo contratto, pertanto, sarebbe scaduto il 2 ottobre 1967, salvo la facoltà di rescissione con un preavviso di sei mesi. A Brian andava il 25% dei guadagni prodotti. Il 5 ottobre uscì il singolo Love Me Do/PS I Love You (Parlophone 45-R 4949). Fin dalle prime incisioni, come accaduto per Love me Do, i Beatles effettuavano le sedute di registrazione negli Abbey Road Studios. Gli studi di registrazione del colosso musicale EMI, al n. 3 di Abbey Road a St. John Wood, nel cuore di Londra, sono diventati famosi nel mondo intero in quanto, dal 1962 al 1970, furono la sede di quasi tutte la registrazioni dei Beatles. Furono ufficialmente battezzati “Abbey Road Studios” per la fama internazionale alla quale assursero nel 1969 a causa dell’omonimo album dei Fab 4: da allora l’attraversamento pedonale e l’entrata degli studi posta a pochi metri sono diventati un’icona per tutti i fan dei Beatles. Gli studi hanno una storia antecedente non meno gloriosa, anzi, se i Beatles hanno dato loro la fama, altri artisti di enorme importanza li avevano già ‘santificati’ in passato. Il muro di cinta dove migliaia di fan hanno lasciato la loro firma e altre scritte, a detta del vicepresidente degli EMI Studios Martin Benge è aumentato negli anni di diversi centimetri di spessore per i ripetuti lavori di tinteggiatura necessari più volte l’anno per la cancellazione delle scritte. La storia degli studi di Abbey Road inizia nel 1927, quando il capitano Osmond “Ozzy” Williams decise, inseguendo un sogno che accarezzava fin da bambino, di costruire un edificio adibito a studio di registrazione nel Nord-est di Londra; sfortunatamente il capitano morì prima di vedere realizzato il suo sogno. La EMI, storica proprietaria degli studi, venne fondata nel 1897 come The Grammophone Company a Londra; due anni dopo la compagnia acquistò il dipinto di Francis Barraud dal titolo His Master’s Voice e adottò immagine (il cagnolino Nipper) e titolo del quadro come marchio di fabbrica, marchio ancora usato ai giorni nostri per una delle etichette EMI, la HMV. Nel 1912 vennero inaugurate fabbriche in otto nazioni incluse Inghilterra e Russia, e aperti uffici di vendita in 12 città nel mondo; un sondaggio di quel periodo stimò che in un terzo delle case inglesi era presente un grammofono (naturalmente marca HMV). Il primo negozio HMV venne inaugurato, nel 1921, in Oxford Street dal compositore inglese Sir Edward Elgar. La prima session di registrazione nei nuovi studi, allora HMV Studios, ebbe luogo nel novembre del 1931
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quando la EMI Company, ancora Grammophone Company ma che proprio in quell’anno avrebbe cambiato la propria ragione sociale in EMI-Electric and Musical Industries, dopo aver speso 100.000 sterline per l’acquisto di uno degli allora più sofisticati studi di registrazione e, cosa fondamentale, per il primo edificio al mondo costruito appositamente per essere destinato a tale uso, incaricò il grande Sir Edward Elgar (Broadheath 2/6/1857 - Worcester 23/2/1934) di dirigere e registrare la London Symphony Orchestra nel “Land of hope and glory” (di questa session esiste anche una ripresa filmata). L’anno successivo sir Elgar diresse il sedicenne violinista di New York Yeudi Menuhin, che sarebbe divenuto uno dei più grandi violinisti al mondo, in quella che è ritenuta a tutt’oggi la registrazione per eccellenza del Violin Concerto. Di Sir Edward Elgar, definito il padre della musica inglese del Novecento, insignito dell’Ordine del merito nel 1911, del titolo di “Mater of the King’s Music” nel 1924 e del titolo di baronetto da re Giorgio V, vanno ricordate al grande pubblico, digiuno di classica, le famose cinque marce Pomp and Circumstance Op.39, del 1901, 1907 e 1930, e l’aneddoto che narra come dal letto, dove giaceva ormai malato, nel 1933 diresse, in collegamento con gli studi di Abbey Road, la prima prova del Caractacus. Da allora alcune tra le pietre miliari della musica classica sono state registrate in questi studi, e da qualche anno vengono rimasterizzate con un processo che ha preso il nome ART, che sta per Abbey Road Technology. Tra gli anni Cinquanta e Settanta sono state registrate opere di fondamentale importanza, tra queste la registrazione di Danny Brain dei quattro concerti per corno di Mozart diretta da Von Karjan nel 1955, la Die schone Mullerin di Schubert registrata nel 1961 da Dietrich Fisher-Dieskau con Gerald Moore, i Carmina Burana un classico di Previn, nel 1975, e la registrazione live di una memorabile performance di Furtwangler nella Choral Symphony di Beethoven al primo Bayreuth Festival dopo la Seconda guerra mondiale. Durante la guerra negli studi, rimasti aperti per tutto il periodo bellico, Glenn Miller registrò nel 1944 la sua ultima performance e, come ricordato da Nat Peck, componente dell’orchestra, l’incisione venne usata a scopo propagandistico e Glen Miller, nella registrazione diffusa in Germania, parlava in tedesco. Prima dei Beatles altre pop star approdarono ad Abbey Road, ma il personaggio della pop music che più di ogni altro va associato agli studi di Abbey Road non può che essere Sir George Martin, che iniziò a lavorare negli Studios dal 1950, dopo aver lasciato la sezione “classica” della Parlophone. Nel 1955, divenuto direttore, cominciò a produrre i primi dischi di commedie come Beyond the Fringe. Dopo la prima apparizione dei Beatles, 6 giugno 1962, altri miti della musica si sono avvicendati nelle sale degli Studios. I Pink Floyd, ad esempio, vi incisero, fra gli altri, il loro capolavoro Dark side of the moon e inaugurarono le session notturne che, protraendosi fino a mattino inoltrato, costringevano, come ebbe a dichiarare il direttore Alan Stagge, i tecnici di studio al distacco della corrente quale unica maniera per “cacciarli”. Un’altra mitica incisione degli anni Sessanta vide protagonista Cilla Black e la canzone Alfie nello studio Uno, canzone prodotta da George Martin e con l’arrangiamento orchestrale di Burt Bacharach. La Black pretese di incidere la canzone solo con arrangiamento e accompagnamento dello stesso Bacharach. Una richiesta, impossibile, per non consentire la registrazione del brano, ma Martin chiamò Bacharach negli USA e lo convinse con una promessa, «Sarà buona al Take 3» e naturalmente al Take 3, come da promessa, il brano risultò registrato correttamente e venne quindi pubblicato. In tempi recenti negli Studios sono state realizzate le incisioni di celebri colonne sonore quali Il ritorno dello Jedi e I predatori dell’arca perduta, la trilogia del Signore degli Anelli e i primi Harry Potter. In conclusione, la storia di Abbey Road è una fantastica storia legata indissolubilmente alla storia della musica e ben celebrata dalle parole di George Martin: «If you believe as I do that a house has atmosphere capable of absorbing the personalities and emotions of its inhabitants, you will have no difficulty in appreciating the unique quality of Abbey Road» e di Paul McCartney: «I love Abbey Road because it has depth, back up, tradition and all those things. I would just like to say that Abbey Road is the best studio in town; town being the world». L’esplosione del fenomeno Beatles ebbe effetti clamorosi su notorietà e diffusione degli strumenti musicali adottati dal quartetto. Ciò premesso, per la cronaca e per la storia, procediamo, con una breve rassegna di notizie, ad illustrare marche, modelli e curiosità riferite agli strumenti scelti dalla band di Liverpool.
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RICKENBACKER - 325 La Rickenbaker, compagnia fondata, nel 1931, dallo svizzero Adolph R., produceva in origine chitarre hawaiane, sostituite in seguito da modelli con un lungo manico e corpo chitarra circolare che furono denominate familiarmente friyng-pans, cioè “padelle”. La padella, per la storia, è lo strumento che vanta l’ambito titolo di prima chitarra elettrica al mondo. Già popolare negli anni ‘30/’40/’50, raggiunse l’apice della notorietà grazie ai Beatles. Fu John Lennon il primo a comprarne una dopo aver visto, ad Amburgo nel 1960, Toots Thielemans, chitarrista del gruppo jazz di George Shearing, suonare una Rickenbacker. - 360/12 deluxe Nel febbraio 1964, durante la settimana della prima apparizione dei Beatles all'Ed Sullivan Show a New York, il signor Hall, presidente della Rickenbacker, organizzò un incontro con i Fab Four. In una suite del Savoy Hotel fu allestita un’esposizione dei nuovi prodotti, inclusi una 12 corde e un basso mancino. Il signor Thielemans, rappresentante delle vendite, era lì a incontrare il gruppo quando i Beatles, tranne George, arrivarono per provare i nuovi strumenti l'8 febbraio. Il primo Beatle a provare la 12 corde fu John Lennon; George infatti aveva l'influenza ed era isolato in una stanza al Plaza Hotel. Volendo far comunque vedere a George le chitarre, il personale della Rickenbacker impacchettò l'essenziale e lo portò nella sua stanza al Plaza. George suonò la 12 corde seduto sul letto, mentre parlava al telefono con gli ascoltatori di una radio di Minneapolis. Secondo la leggenda, più tardi quel giorno una persona della stazione radio comprò la chitarra dal signor Hall e la diede ad Harrison come regalo per l'intervista. - 4001S Paul McCartney provò per la prima volta questo nuovo basso a New York nel febbraio del 1964, ma non lo prese in considerazione, preferendo il più leggero Hofner. Successivamente, durante la settimana degli spettacoli all'Hollywood Bowl, il presidente della Rickenbacker ripropose a Paul lo strumento, e così McCartney fu il terzo Beatle a usare un prodotto Rickenbacker. 10 HOFNER - 500/1 Nel 1961 Stuart Sutcliffe, primo bassista dei Beatles, abbandonò definitivamente il gruppo e Paul, già chitarrista ritmico, assunse questo nuovo ruolo dopo il rifiuto di John e George. ad Amburgo Paul comprò il suo nuovo basso a forma di violino. Si tratta di uno strumento hollowbody, finitura marrone, a scala corta, con due pickup, uno vicino alla tastiera e l'altro in posizione centrale, tra il ponte e la tastiera stessa. Nel 1963 Paul prese una nuova versione del 500/1 che era fondamentalmente uguale alla precedente ma con il pickup centrale spostato al ponte. Infine, nella primavera del 1964 la Selmer, casa distributrice in Inghilterra della Hofner, diede a McCartney un altro modello con le parti dorate. L'Hofner 500/1 fu il basso principale di Paul dal 1961 al 1965, e successivamente lo alternò al basso Rickenbacker.
GIBSON - J160E Orville Gibson nel 1894 costruiva mandolini nel Michigan; la Gibson Mandolin Guitar Co. LT commercializzava i suoi strumenti. Dopo la sua morte, nel 1918, la Gibson divenne la principale produttrice di chitarre elettriche statunitense. Nell’estate del 1962, giusto in tempo per la registrazione del primo singolo Love Me Do, Lennon ed Harrison comprarono le prime due chitarre Gibson J160E. La J160E è una chitarra acustica dalla caratteristica forma round-shouldered, con un pickup single-coil posizionato alla fine della tastiera, due manopole di controllo sulla cassa, top laminato, fondo e fasce in mogano, tastiera in palissandro, intarsi a trapezio, finitura sunburst. Fu la chitarra acustica principale di John e George per molti anni, sia nei concerti che in sala d’incisione.
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EPIPHONE - Casino La Casino della Epiphone, produttrice di chitarre acustiche e inglobata, nel 1957, dalla Gibson, venne usata, primo dei Beatles, da Paul McCartney nell’esecuzione del solo nella coda di Ticket To Ride. Fondamentalmente la Casino è una Gibson ES 330 che monta due pickup P90, ha la cassa vuota, sedici tasti fuori dal corpo, scala 24 e 3/4. Anche George e John, impressionati da questo strumento, in un secondo tempo decisero di adottarlo a loro volta.
GRETSCH - Country Gentleman Casa fondata, nel 1883, dall’immigrato tedesco Friedric Gretsch nel proprio negozio di Brooklin. Il figlio del fondatore, Fred, seppe trasformare l’azienda paterna in uno dei produttori di maggior successo di strumenti musicali. Cominciò a usare questa nuova chitarra, nell’estate del 1963, George Harrison per la registrazione di She Loves You e dell’album With The Beatles. Fu anche la principale chitarra nei concerti fino al 1964, come si può vedere nei filmati degli storici concerti della Royal Commande Performance a Londra e del Washington Coliseum nella prima tournée americana. Le Country Gentleman sono caratterizzate da due magneti Gretsch Filter Tron, leva del vibrato Bigsby B-6, zero fret, segnaposizioni a unghietta, doppio stoppato per i bassi e gli acuti, doppia spalla mancante. Il modello di Harrison, detto anche “King George”, fu prodotto nel 1962-63; nel 1965 la King George, legata al portabagagli di una macchina, cadde e finì in pezzi. - Chet Atkins Tennessean 6119 Questa chitarra, provata in studio da George nel 1964 e 1965, venne adottata come chitarra principale nel tour mondiale del 1965 che toccò anche l’Italia. Tutto l’album Beatles For Sale è suonato con la Tennessean. La si può ascoltare distintamente nel solo e negli abbellimenti di I’m a Loser e Words Of Love, in Honey Don’t e I Don’t Want To Spoil The Party in stile Perkins. 11 MARTIN - D28 La Martin con sede a Nazareth, in Pennsylvania, produce chitarre acustiche. Fu fondata dal liutaio tedesco Christian Fredrerick Martin, il quale da Vienna, dove ancora giovanissimo aveva lavorato nel laboratorio di Johanne Stauffer, fornitore tra gli altri del celebre violinista italiano Paganini, emigrò negli Stati Uniti dove, nel 1833, aprì a New York il suo primo laboratorio. Due Martin D 28 vennero usate da Johne Paul per comporre molto del materiale che andò a far parte del White Album.
FENDER La Fender Musical Instruments Corporation fu fondata, nel 1946, da Leo Fender; sede principale a Scottsdale, in Arizona. Il suo fondatore ebbe l’innovativa idea di produrre buoni strumenti musicali, ma a basso costo, realizzando quindi il primo progetto industriale per la produzione in serie. La prima chitarra prodotta in serie fu la Broadcaster, cui seguirono il Precision Bass e la Stratocaster. I Beatles cominciarono a sperimentare queste nuove chitarre nel 1965 durante la registrazione di Help! e di Rubber Soul.
LA BATTERIA DI RINGO STARR La Ludwig, azienda statunitense con sede in Chicago, fu fondata nel 1909 dai fratelli William e Theo Ludwig, figli di immigrati tedeschi. Nel 1937 William decise di dar vita a un’azienda propria, la W.F.L. Drum company, denominata nel 1955 Ludwig Drum Company e infine più semplicemente, Ludwig. L’azienda raggiunse l’apice del successo quando la batteria venne adottata da Ringo Starr dei Beatles. Da quel momento lo strumento a percussione più famoso al mondo, fu The Black Pearl Oyster-Ludwig Super Classic Drum Set, che porta il nome della band più famosa al mondo The Beatles. Fu William Ludwig II a realizzare la prima batteria con la scritta The Beatles sulla grancassa. Si
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ritiene che Ringo possegga ancora questo kit originale. Sorprendentemente, non molto è stato scritto sulla batteria di Ringo il quale, peraltro, non ha sempre suonato la batteria Ludwig. In realtà la sua prima batteria fu un set anonimo acquistato per lui come regalo di Natale. Fino a quel momento Ringo aveva suonato scatole di biscotti e pezzi di legna da ardere. Ringo iniziò a suonare in una band nel febbraio del 1957. I componenti del gruppo erano ragazzi che lavoravano nella stessa fabbrica e suonavano per i loro compagni di lavoro in una cantina durante il pranzo. Successivamente iniziarono a suonare nei matrimoni e nei club per qualsiasi “ingaggio”. Ringo stava diventando un semiprofessionista, operaio di giorno e batterista di notte. Avrebbe suonato con Eddie Miles e con altri gruppi, tutti di Liverpool e infine con i Rory Storm, e fu da lì che la carriera di Ringo prese una svolta decisiva. Il kit di Ringo era vecchio ed era quindi necessario passare a qualcosa di più professionale. Nell’estate del 1958 Ringo, con 46 sterline avute in prestito da suo nonno, si recò nel Music Store di Frank Hessy e comprò un kit Ajax molto simile a un kit della Ludwig. Durante una tournée con Rory Storm and the Hurricanes ad Amburgo, nel 1960, Ringo acquistò un set di tamburi Premier e sulla grancassa, sotto il logo Premier, mise il logo Ringo Starr. Quando a Ringo venne chiesto di unirsi ai Beatles, possedeva ancora il kit Premier e per questo molte delle prime registrazioni furono realizzate con questo kit. Nel periodo tra il 4 settembre 1962 e il 17 febbraio 1963, al nome di Ringo venne sostituito un primo logo Beatles. Quel primo logo apparso sul kit Premier di Ringo era tratto da alcuni scarabocchi di Paul mentre fu Tex Terry O’Hara, artista di Liverpool, a disegnare il logo vero e proprio. Si tratta di un font di tipo script con una B con antenne da scarabeo e un piccolo “THE” sopra di esso. Il logo fu stampato su uno striscione di tela applicato sul tamburo e tenuto in posizione dai bordi. Lo striscione di tela fungeva anche da sordina per il tamburo. Nei primi mesi del 1963 Ringo, volendo sostituire il suo vecchio kit, andò a Music City, un negozio di musica in Great Salisbury Street a Londra, per ordinare un nuovo kit Premier. Il proprietario di Music City, Ivor Arbiter, che aveva da poco ottenuto i diritti esclusivi di distribuzione delle batterie Ludwig made in USA per la Gran Bretagna, incaricò Dave Martin, un venditore del suo negozio, di illustrare la batteria Ludwig a Ringo Starr. Ringo aveva familiarità con quella batteria avendo già suonato con un kit Ludwig di proprietà di Tony Mansfield (batterista dei Dakota). Ringo si innamorò della nuova finitura nera Pearl Oyster dei tamburi, e quando seppe che poteva essere applicata sui tamburi Ludwig fu immediatamente “affare fatto”. Ringo insistette poi perché un grande logo Ludwig fosse stampato sulla grancassa, ma all’epoca Ludwig non prevedeva loghi sulle sue pelli. Fu Brian Epstein, dopo aver imposto alla band il nome “The Beatles” a pretendere che lo stesso nome fosse impresso sulla grancassa. Arbiter, da bravo venditore, volendo salvaguardare la vendita rapidamente, propose un compromesso. Un grande logo Beatles poteva essere dipinto al centro del tamburo, mentre il logo Ludwig richiesto da Ringo poteva essere dipinto in alto; quindi tirò fuori un pezzo di carta sul quale disegnò il famoso logo “The Beatles”. Ringo ricevette il suo nuovo kit Ludwig completato con i due loghi il 17 giugno 1963. La prima volta che Ringo usò il suo nuovo kit fu durante la registrazione di EasyBeat, al Playhouse, il 23 giugno 1963, e gli inglesi videro il nuovo kit e il nuovo logo il sabato successivo, 29 giugno, durante la trasmissione televisiva del programma. Un contributo significativo al successo planetario va certamente attribuito all’accuratezza del look. È alla fotografa tedesca Astrid Kirchherr, amica e confidente del gruppo fin dalle origini, che viene attribuita l’idea di far adottare alla band un look originale, al quale lei medesima si dedicò provvedendo al taglio dei capelli pettinati in avanti con la frangetta che divenne l’acconciatura caratteristica, a caschetto, adottata definitivamente dai Beatles. Per gli abiti fu Brian Epstein ad avere un ruolo determinante, imponendo ai Beatles di presentarsi al pubblico in giacca e cravatta, scelta molto felice che conferì alla band uno stile inconfondibile. I primi abiti indossati dai Beatles sul palcoscenico furono disegnati dal celebre sarto Pierre Cardin che creò per loro una giacca senza collo. Gli abiti venivano confezionati dal sarto di fiducia dei Beatles, tale Millings, nel negozio londinese di Soho. Gli abiti in stile Pierre Cardin vennero indossati fino al 1964, quando furono sostituiti da modelli della tradizione inglese. Il modello Chesterfield con collo di velluto fu il più utilizzato dai Beatles, tanto che ne fecero confezionare più di quindici diverse varianti. Successivamente, nei concerti e nelle apparizioni tv vestirono anche diversi altri modelli d’abito. Con un Chesterfield speciale, con collo alato, la band si presentò all’Ed Sullivan Show nel febbraio del 1964, e lo stesso modello venne indossato
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a New York prima e al Forrest Hills Tennis Stadium nel mese di agosto. Fu denominata “A Hard Day’s Nigth Suit” la divisa presentata al Washington Coliseum Show nel novembre 1964. Indossata nuovamente alla Carnegie Hall e di nuovo all’Ed Sullivan Show infine fu, ovviamente, largamente usata nelle riprese del film A Hard Day’s Night da cui prende nome. Nel 1966 i Beatles adottarono esclusivamente due modelli d’abito diversi, l’uno in tessuto gessato color crema e l’altro, decisamente il preferito, denominato “Budokan”, un doppio petto nero. Il Budokan fu indossato durante i tour del ‘66 in Europa ed Estremo Oriente, e in particolare per le riprese filmate alla Nippon Budokan Hall di Tokyo. Infine i Beatles vestirono il Budokan in quello che sarebbe stato il loro ultimo concerto al Candlestick Park di San Francisco. Completavano l’abbigliamento gli stivaletti, accessorio distintivo del look dei Beatles. Prodotti dagli artigiani Anello & Davide nel negozio di Londra, in Drury Lane, divennero immediatamente un vero e proprio cult dell’epoca. La storia di Anello & Davide è la storia di un meritato successo, e in questa storia hanno avuto una parte anche i tacchi a spillo per Marilyn Monroe, le ghette per Peter Ustinov, le francesine di pelle scamosciata per David Niven e, naturalmente, gli stivaletti per i Beatles. La Anello & Davide venne fondata nel 1922 come azienda dedita alla produzione di calzature per la danza e per costumi teatrali, costruendosi in breve tempo una meritata reputazione per la qualità delle scarpe artigianali, fatte a mano, in una perfetta combinazione di stile e design italiano e tradizione inglese. Personaggi pubblici, star del cinema e del teatro, nonché clienti esigenti di ogni genere ed età ben presto scelsero le calzature Anello & Davide apprezzandone confort ed eleganza. La notorietà che ne derivò assicurò un seguito di clientela fedele in tutto il mondo per intere generazioni. Negli anni Sessanta Anello & Davide crearono quella che, senza dubbio, è diventata la loro scarpa più famosa in quanto destinata ai piedi dei clienti più famosi, i Beatles. Lo stivaletto dei Beatles è derivato dallo stivale Chelsea, una calzatura a punta e con cucitura centrale dalla punta alla caviglia, in uso ai ballerini di flamenco. Nell’ottobre del 1961 A&D, su suggerimento di John Lennon e Paul McCartney che li avevano provati nel loro negozio, li modificarono con dei tacchi cubani e una zip o fascia elastica laterale per una migliore calzabilità. Così modificati, gli stivaletti divennero parte integrante del look della band e furono adottati da innumerevoli gruppi rock e artisti in genere. A&D iniziarono quindi a produrre i Beatles Boots secondo le esigenze e le richieste più svariate dei Beatles stessi, dai classici stivaletti di pelle nera con tacco alto da ballerino di flamenco, a modelli in stoffa, in velluto, in vernice colorata, e da quel momento la fila degli acquirenti fuori del negozio è sempre stata lunga. La novità e l’originalità che i Beatles rappresentavano ebbero la capcità di attrarre ai loro concerti folle di fan osannanti che per l’epoca rappresentarono un fenomeno assolutamente inaspettato, e fu Beatlesmania. Beatlesmania: così venne battezzata la manifestazione di isteria collettiva che si impadroniva delle folle di fan ad ogni apparizione dei Beatles. La paternità del termine è reclamata da Andi Lothian, un promoter musicale scozzese che sostiene di averlo usato per primo parlando con un reporter durante il concerto dei Beatles tenuto a Caird Hall, durante un mini-tour in Scozia il 7 ottobre 1963, e la parola comparve su carta stampata sul The Daily Mirror del 2 novembre 1963 in un articolo sul concerto tenuto il giorno precedente a Cheltenham. Secondo un'altra versione, il termine fu coniato dopo l'esibizione del gruppo al programma televisivo Val Parnell's Sunday Night at the London Palladium, seguito da un pubblico di quindici milioni di spettatori, il 13 ottobre del 1963. I Beatles sfondarono in Gran Bretagna e arrivarono in America (nel 1964) proprio mentre questo fenomeno impazzava. Ma soprattutto il 1963 fu un anno di altissime tensioni socio-politiche, di instabilità e di enormi preoccupazioni. L'omicidio del presidente Kennedy e lo scandalo “Profumo” fecero ripiombare gli occidentali nell'incubo di una ecatombe nucleare. I Beatles emersero nel momento giusto per raccogliere le istanze dei giovanissimi che desideravano vivere felici, amare e distinguersi dagli adulti. I testi delle loro canzoni, originali, freschi, erano perfettamente in linea con le parole che volevano pronunciare i teenager. Lo stesso si potrebbe dire per il loro look, per le loro dichiarazioni, per i loro atteggiamenti, per i loro comportamenti e per la loro musica. Milioni di teenager comprarono il loro nuovo disco, si tagliarono i capelli e si vestirono come loro, andarono a caccia dei loro beni di consumo preferiti (dalle sigarette alle pietanze, ma anche l'agendina o la matita aventi qualche riferimento con il loro nome), si spostarono per vedere il loro concerto nella città più vicina, presero a cantare tutto il giorno a squarciagola
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i testi delle loro canzoni. La Beatlesmania è stata il risultato di una serie di esigenze, di tendenze e di bisogni, di un'accurata campagna pubblicitaria e un periodo particolarmente florido del rock commerciale. L'attenzione dei mass-media per i Beatles divenne presto morbosa, così come l'interesse dei discografici nel pilotare il più possibile sia il gruppo che il pubblico di consumatori. Ogni passo pubblico e privato dei Beatles divenne un fatto nazionale e ogni loro movimento venne seguito da una massa di fan appassionati, incontrollabili persino per le forze dell'ordine. Il loro manager Brian Epstein evitò di far raggiungere al gruppo la soglia di saturazione e di rottura. Gli eventi che impressionarono maggiormente l'opinione pubblica furono il concerto al London Palladium, trasmesso anche in televisione il 13 ottobre 1963, che immobilizzò il quartiere a causa della ressa formata da migliaia di fan, e il loro ritorno dalla tournée seguente in Scandinavia che fu accolto da migliaia di persone all'aeroporto di Londra. La Beatlesmania sbarcò negli Stati Uniti il 7 febbraio 1964 e si manifestò per la prima volta già all'aeroporto Kennedy di New York, dove una massa di fan inusuale sia per il numero sia per l'entusiasmo e l'isteria profusa, accolse l'arrivo dei Beatles sul suolo americano; due giorni dopo, il 9 febbraio, dilagò ulteriormente grazie alla prima apparizione dei Beatles all'Ed Sullivan Show, programma che in quella serata stabilì il record di visione e di audience della storia della tv fino a quel momento, con 73 milioni di telespettatori stimati, cifra che ancora oggi lo colloca come uno dei più visti di tutti i tempi. Un'altra data in cui la Beatlesmania raggiunse uno dei suoi picchi fu il concerto allo Shea Stadium di New York il 15 agosto 1965, davanti al numero record di 55.000 spettatori. I filmati del concerto mostrano teenager e donne piangere, gridare e svenire. Il rumore della folla fu tale che si possono vedere le guardie della sicurezza tapparsi le orecchie con le mani quando i Beatles entrarono nello stadio. Nonostante la numerosa presenza di guardie, singoli fan riuscirono a irrompere sul campo diverse volte, e furono inseguiti e fermati. Nel film del concerto si vede John Lennon indicare divertito uno di questi episodi mentre tenta di rivolgersi al pubblico tra una canzone e l'altra. Quando i Beatles si imposero all'attenzione del mondo, questo era notevolmente frammentato sia a livello politico sia a livello culturale. Il mercato discografico non era ancora globale, e mancavano spesso le comunicazioni tra i mercati delle varie nazioni; vi erano poche etichette multinazionali e tante locali. Era un fenomeno consueto quello di affidare una canzone a un artista locale per ogni mercato nazionale. Questa frammentazione unita all’arretratezza dei mezzi di trasporto e di comunicazione, spiega come, prima dei Beatles, furono ben pochi gli artisti popolari in tutto il mondo, mentre le canzoni si diffondevano cantate in lingue e riarrangiamenti diversi. La Beatlesmania si diffuse perciò con modalità, intensità, caratterizzazioni diverse a seconda dello stato politico e culturale dei singoli paesi visitati dai Beatles. Brian Epstein ebbe contatti con i rappresentanti dei mezzi di comunicazione di praticamente tutto il mondo e riuscì ad effettuare alcuni colpi da maestro, come ad esempio contattare i dirigenti della televisione sovietica per aprire le porte ai Beatles e ai loro videoclip anche nel blocco comunista. I Beatles ebbero grande successo nei paesi nordeuropei e nordamericani, facilitati dalla comprensione della lingua e da una maggiore aderenza di inclinazioni, desideri, bisogni culturali e sociali. Lo stesso valse per alcuni paesi del Commonwealth, come ad esempio l'Australia, e per i paesi extraeuropei nell'orbita del pensiero occidentale, come ad esempio il Giappone. Per quanto riguarda i paesi latini e quelli mediterranei (ad esempio Francia, Argentina), faticarono a conquistare fan dove non effettuarono tournée e promozioni televisive e in alcuni casi faticarono molto più di quanto avessero preventivato a raccogliere i frutti delle loro esibizioni (ben due settimane in cartellone all'Olympia di Parigi). In altri paesi, infine, la Beatlesmania non si manifestò affatto, come in alcuni paesi sudamericani. La Beatlesmania cominciò a declinare a seguito delle polemiche nate dalle affermazioni di John Lennon sulla popolarità dei Beatles e di Gesù Cristo. I roghi dei dischi e dell’oggettistica dei Beatles avvenuti nell'agosto del 1966 in varie città americane segnarono il passaggio dalla Beatlesmania originale a un nuovo tipo di rapporto con i fan che sarebbe culminato con l'infatuazione collettiva per l'album Sgt. Pepper, per il loro nuovo look da figli dei fiori, per le loro manie orientaleggianti. Con la cessazione delle tournée e dei concerti dal vivo dei Beatles nel 1966 terminarono anche i grandi assembramenti di folla che caratterizzavano ogni loro spostamento. Durante gli ultimi giorni della Beatlesmania le fan dei Beatles, per poter sperare di vedere o interagire con i membri della band, presero a stazionare e a volte dormire nelle vicinanze delle loro abitazioni o, durante i periodi di registrazione, all'esterno dell'edificio della Apple Corps e alle porte di Abbey Road Studios di Londra, dando vita al fenomeno delle Apple Scruffs. Con esse i Beatles ebbero un rapporto ambivalente ma spesso amichevole.
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La Beatlesmania, malgrado lo scetticismo che la critica e i media riservavano ai Beatles, fece breccia negli italiani in occasione dell’unica apparizione del gruppo in Italia. Quella che rimase la prima e unica tournée italiana dei Beatles ebbe inizio il 23 giugno 1965 alla Stazione centrale di Milano al binario 3, dove arrivò il TEE proveniente da Lione. Il treno trasportava un carico prezioso: I Beatles. Intermezzo “salgariano”: la leggenda narra che l’accordo per la tournée venne stipulato tra Brian Epstein e Leo Wechter prima che per iscritto, come consuetudine vuole, con una stretta di mano e un discorsetto in yiddish. Al seguito dei Quattro, un nutrito stuolo di giornalisti tra i quali la giornalista de «Il Giorno» Natalia Aspesi che la mattina seguente, sulle colonne del giornale, riferì del suo viaggio da Torino a Milano con i quattro di Liverpool adoperando parole non proprio lusinghiere nei loro confronti, ma trattandoli, come era uso comune all'epoca, come quattro sempliciotti un po’ troppo fortunati. Dunque i Beatles e il loro seguito personale di cinque persone giunsero a Milano e alloggiarono all'Hotel Duomo pronti a esibirsi il giorno successivo al velodromo Vigorelli in due spettacoli, uno pomeridiano alle ore 16 e uno serale alle 21.15. I concerti suscitarono una vasta eco tra i fan italiani e le riviste giovanili dell'epoca, come «Ciao Amici» e «Big» si occuparono di una sorta di prevendita in embrione (ben lontana, naturalmente, dall'organizzazione che oggi ruoterebbe intorno a un evento del genere) Le date italiana furono: - MILANO, VELODROMO VIGORELLI GIOVEDÌ 24 GIUGNO 1965 ORE 16 - ORE 21.15 - GENOVA, PALAZZO DELLO SPORT SABATO 26 GIUGNO 1965 ORE 16 - ORE 21.15 - ROMA, TEATRO ADRIANO DOMENICA 27 GIUGNO 1965 ORE 16.30 - ORE 21 LUNEDÌ 28 GIUGNO 1965 ORE 16.30 - ORE 21 Vorremmo ora parlare dell'aspetto culturale che l'evento ebbe sulla sonnacchiosa società italiana della metà degli anni Sessanta. Le bellissime foto che illustrano questo capitolo ci mostrano i Beatles nel pieno della loro carriera, immersi in una realtà lontana anni luce da quella inglese e americana, anzi mondiale, alla quale erano abituati. I giornali si esibirono nel solito italico gioco di distruggere qualcosa che i paludati giornalisti dell'epoca non riuscivano a capire, vennero scomodati "illustri" oggi diremmo "opinionisti" che fecero a gara nell'esprimere giudizi sferzanti privi, nella maggior parte dei casi, di un reale background culturale. Vorrei ad esempio citare alcune frasi scritte da Tata Giacobetti del Quartetto Cetra (che certo non difettava di cultura musicale ma che evidentemente vedeva nei Beatles la fine di quel mondo dello showbiz al quale da anni era abituato) sul «Radiocorriere tv» organo "ufficiale" della tv di Stato italiana in risposta alla lettera di un lettore che poneva una domanda se vogliamo un po’ ingenua ma che mostra chiaramente lo spirito provinciale di quegli anni. Chiedeva il lettore «se la moda di vestire alla Beatles avrebbe trovato successo in Italia...». Rispondeva Giacobetti: «No, con sicurezza e perentorietà: solo qualche bulletto entra nei negozi di calzature per comprare un paio di stivaletti alla Beatles». Da noi – proseguiva – avevano più successo i Platters che i Beatles, e riteneva che questa tendenza non sarebbe stata invertita, perché il quartetto di "zazzeruti inglesi" aveva scarso talento musicale, era soprattutto un fenomeno commerciale, come tale effimero. Non contento, a un'altra domanda di un altro lettore che faceva notare la superficialità della precedente risposta e chiedeva se per caso non fosse dovuta a un attacco di "invidia professionale" rispondeva ancora: «Sono più di vent'anni che canto con i Cetra: quando sapranno questo i Beatles, forse [saranno] invidiosi di noi». Riguardo al modo di vestire alla Beatles, difeso dalle ragazze, egli affermava che «se i ragazzi sono liberi di vestire e di pettinarsi come loro, allora non bisogna più ridere quando si vedeva passare un cinese». Risposta che si commenta da sola per il suo embrionale razzismo, neanche tanto velato. Che cosa c'era di strano a veder passeggiare un cinese per le strade di Roma e cosa c'era da ridere non riusciamo proprio a capirlo! Sullo stesso tono "L'unità" organo del Partito comunista italiano che adeguandosi ai dettami "suggeriti" dalla casa madre moscovita, commentava sul numero del 25 giugno 1965, «che i capelli lunghi
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fanno un po’ ridere in Italia perché non era nel nostro stile questa ostentazione di effeminatezza». La "Domenica del Corriere" del 4 Luglio 1965 titolava a tutta pagina sopra a una caricatura dei Beatles, La calata dei Beatles ponendoli evidentemente alla stregua dei Lanzichenecchi responsabili del sacco di Roma. "Il Messaggero" scomodava addirittura il filosofo Bertrand Russel citandolo peraltro in fondo a un articolo che come al solito metteva vagamente in ridicolo i Beatles e i loro ammiratori. Russel affermava che i Beatles «hanno creato un abito mentale, una loro filosofia, una loro morale... Sono lieto di aver vissuto tanto per conoscere questa nuova disciplina». Oggi, chiaramente e giustamente, i Beatles sono stati rivalutati da tutti e sono oggetto di dotte dissertazione da parte di sociologi, giornalisti, politici ed esperti musicali (pseudo e non); ai Beatles vengono dedicate mostre con taglio ufficiale del nastro e molti si esibiscono nella stesura di dotti volumi trattanti la storia, le opere e la discografia dettagliata financo della Papua Nuova Guinea (...e di quella italiana); diversi sono gli illuminati che sostengono di conoscere la "verità definitiva" sul quartetto di Liverpool, e molti quelli che fanno follie per possedere anche la "variante cromatica TER" di quella o di quell'altra etichetta di 45 giri. In questo capitolo si mostra soltanto una sorta di "come eravamo", con tutte le stranezze di un’Italia ingenua che oggi fanno sorridere e con tutta la freschezza di quattro ragazzi che "avrebbero conquistato il mondo", un documento visivo che a distanza di oltre quarant’anni non ha perso nulla del suo enorme impatto. La scaletta dei brani eseguiti dai Beatles durante la tournee italiana fu la seguente: 1) Twist And Shout 2) She's A Woman 3) I'm Loser 4) Can't Buy Me Love 5) Baby's In Black 6) I Wanna Be Your Man 7) A Hard Day's Night 8) Everybody's Trying To Be My Baby 9) Rock And Roll Music 10) I Fell Fine 11) Ticket To Ride 12) Long Tall Sally. Segue una rassegna stampa riguardante la tournée italiana.
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Giovedì 24 giugno 1965 Mezzanotte, i Beatles a Milano. «Che delusione quest’arrivo dei Beatles a Milano: proprio non valeva la pena che si mobilitassero tanti fanatici per tributare ai cavalieri dell’urlo il primo applauso italiano. Saranno state duemila persone, uomini e donne, tutti molto giovani, zazzeruti, accaldati, frenetici e pronti alla bagarre per stringersi intorno ai loro idoli. I Beatles li hanno giocati con un trucchetto banale [...] Il treno da Lione, sul quale erano attesi gli “scarafaggi”, era atteso al marciapiede 16 per le 23.30. Poco dopo mezzanotte, l’altoparlante ha avvertito che il Lione era arrivato al marciapiede 3. La folla ha avuto un sussulto, c’è stato un gran correre di marciapiede in marciapiede, qualcuno è caduto, qualche altro è finito dritto filato al commissariato: tutto inutile. Quando i primi hanno raggiunto il traguardo, i Beatles avevano fatto perdere le tracce. Aiutati dalla polizia, se l’erano data a gambe giù per lo scalo F che è un’uscita secondaria sul lato destro. Era troppo tardi per tentare ulteriori inseguimenti». I primi drappelli di fan sono arrivati alle 22, mezz’ora dopo erano diventati un’esercito. «Striscioni colorati, grida, parrucche alla paggio, magliette colorate, pantaloni stretti, gonne corte. Un’umanità scalmanata, facile ad accendersi, esibizionista, incline a manifestare il proprio entusiasmo purché i flashes dei fotografi fossero disponibili. Alle 23.15 sono saltati i cordoni della polizia e la massa è straripata sui marciapiedi. Alle 23.20 la polizia ha organizzato il contrattacco e sono volate le prime botte. Alle 23.30 la marea era costretta a ritirarsi. Giù, lungo la scalinata e sulla piazza, la pressione veniva domata con i manganelli». Ogni “scarafaggio” vale due miliardi «Gli “Scarafaggi” sono quotati 2 miliardi a testa (20 milioni di dischi in 5 anni). [...] Viaggiano in jet personale, di solito ognuno col proprio segretario, la moglie o la ragazza, strumenti e contratti. Ormai sono un’industria». [Madeo, «Corriere della Sera», 24/6/1965]. Venerdì 25 giugno 1965 «Più importante di noi c’è solo la Regina». Conferenza stampa a mezzogiorno in un albergo del centro. «Ecco un campionario di domande e risposte. Serviranno a far capire chi sono questi Beatles». Vi considerate ragazzi felici? «Molto felici». Cos’altro vi aspettate dalla vita? «La possibilità di dormire molto». Se vi accorgeste di perdere i capelli?
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«Ricorreremmo alle parrucche». Per quanto tempo prevedete di stare sulla cresta dell’onda? «Finché dura. Durerà parecchio». Pensate che esista qualcuno più grande o più importante di voi? «La regina». Conoscete le poesie di Evtuschenko? «Chi è? » Ammirate Shakespeare almeno? «Certo, è inglese. Però lui non ha venduto tanti dischi». [Madeo, «Corriere della Sera», 25/6/1965].
Due concerti, 58 milioni d’incasso. Beatles arrivano al Velodromo Vigorelli a bordo di un camioncino rinforzato all’interno da stanghe di ferro massiccio. Due le esibizioni. La prima di pomeriggio, alle 17. Fa un gran caldo, intorno ai 37 gradi. Al primo concerto assistono 7 mila persone, 20 mila a quello delle 21. In tutto, novantasei minuti di esibizione. Costo dei biglietti: da 750 a 3.000 lire (un giornale costa 50 lire, un caffè 60, per comprare un lp ne occorrono 1.800). Incasso: 18 milioni nel pomeriggio più 40 la sera. [Madeo, «Corriere della Sera», 25/6/1965]. Lucio Flauto presenta «Peppino di Caprera». Presenta i concerti Lucio Flauto, che nel frastuono «non riesce a piazzare neppure una barzelletta». Prima dei Beatles si esibiscono alcuni artisti italiani: Fausto Leali e i Novelty, Maurizio e i New Dada, ecc. Quando tocca a Peppino di Capri con i suoi Rockets, Flauto ha l’occasione «per sfornare una freddura a base di Peppino di Caprera: una cosuccia proprio nuova, originale». [Madeo, «Corriere della Sera», 25/6/1965]. Whisky all’ora di merenda. «E si comincia, ore 16.20. La prima parte dello spettacolo prevede la sfilata di orchestre e urlatori a ritmo incalzante». «I Beatles aspettano in una stanza nei sotterranei del Vigorelli. Brindano con whisky puro, a quest’ora. È per vincere la sete, dicono. Gli chiedo se son preoccupati dato che è la prima volta che si presentano al pubblico italiano. Non sono preoccupati affatto, mi tranquillizzano. In effetti, se ne infischiano, è routine. Si divertono. D’altronde il contratto li vincola a esibirsi per un periodo molto limitato: da un minuto a quaranta minuti. Significa che se il pubblico non è di loro gradimento, dopo le prime note, hanno diritto di ritirarsi dal match e tanti saluti. A Milano, pomeriggio e sera, hanno tenuto il palcoscenico per il tempo massimo: sia motivo di generale compiacimento». [Madeo, «Corriere della Sera», 25/6/1965]. Le ragazzine che ingoiano foto quando sul palco arrivano i Beatles, giacche attillate scure, camicie bianche coi collettoni, chitarre che luccicano al sole, dalla massa degli spettatori sale un urlo. Paul MacCartney, idolo delle tredicenni, dice «ciao» al microfono e questo fa impazzire di gioia le gradinate. «Strillano le ragazzine, dimenandosi come ossessi. Tutti in piedi sulle sedie. È un crescendo che mette i brividi. La polizia fa cordone, accorre dove può, calma, minaccia, picchia. Tre ragazzine fanno a pezzi una fotografia dei ragazzi di Liverpool, ne ingoiano i frammenti. Una, lassù, è colpita dalla tarantola. Si grida, si balla e si grida. L’eccitazione sale e diventa follia collettiva: ammaccatura, bailamme, stordimento, convulsioni. Un gruppo di giovani si strappa la camicia di dosso. Una biondina si rotola su se stessa. Tutti scuotono la testa, agitano fazzoletti, battono le mani [...]. La sera il fanatismo ha toccato vertici indescrivibili. Le più giovani hanno invocato il nome di Paul, il bellino. Una, in maglietta nera, è stata portata via perché in preda a crisi isterica. Moltissimi ragazzi si sono svestiti delle magliette per adoperarle a mulinello in segno di saluto agli idoli». [Madeo, «Corriere della Sera», 25/6/1965]. «Per trentacinque minuti, quanto è durata l’esibizione, un fragore assordante, disumano, ininterrotto, ha coperto le voci e gli strumenti del quartetto, nonostante le decine e decine di amplificatori sparsi dappertutto. Tutti hanno visto i Beatles, nessuno li ha uditi. [...] In mezzo a tanto fragore, i più composti erano proprio i Beatles. Imperterrito, uno di loro annunciava in italiano il prossimo pezzo e subito tutti insieme attaccavano qualcosa che probabilmente era una canzone magari anche bella, ma che le invocazioni a Ringo, o a Paul o a John, delle ragazze con il volto rigato di lacrime e le urla e gli applausi ritmati dei loro coetanei impedivano di seguire. Nessuno ha udito le voci dei Beatles.
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Del resto, erano venuti apposta per gridare, per sfogarsi. Lo dicevano loro stessi: “Non importano le canzoni, per quelle abbiamo i dischi, c’interessa soltanto vedere i Beatles, non ascoltarli”. [...] L’uragano si è scatenato con l’apparizione dei Beatles. A chiedere che cosa ci trovassero di tanto straordinario si ricevevano, accompagnate da un sorriso di compatimento, risposte come “Sono meravigliosi, divini, niente e nessuno li vale, in ogni campo”». [«La Stampa», 25/6/1965]
«Fan tipo: ragazzina, poco intelligente». Giudizio di un sociologo americano sull’ammiratrice tipo dei Beatles: «È una ragazza da 13 a 16 anni, di estrazione modesta, di razza bianca, di intelligenza inferiore alla media». [«La Stampa», 25/6/1965]. Sabato 26 giugno 1965 Il bagno notturno di George Harrison. Verso le 19 di venerdì 25 giugno i Beatles, viaggiando su due auto, arrivano a Genova. «Hanno lasciato che quelle due o tre decine di fan in sosta permanente dinanzi all’albergo si decidessero a smobilitare, poi verso le due di notte sono usciti per la città; l’hanno girata in lungo e in largo, si sono fatti condurre nella zona alta per godere lo spettacolo del porto illuminato. Uno di essi si è fatto addirittura portare fin oltre Nervi, a Sori: qui ha raggiunto la riva del mare, si è spogliato e si è gettato in acqua. Era George Harrison». [R.B., «Corriere della Sera», 27/6/1965].
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Nel pomeriggio, a vedere i Beatles, ci sono solo 3.500 genovesi. La comparsa dei Beatles a Genova ha fruttato 20-25 milioni lordi, contro i 67 dichiarati dall’impresario a Milano. «Il quartetto inglese ha bisogno, evidentemente, di un clima morale propizio, contagiato da un diffuso isterismo giovanile; mancando quel clima resta la sola curiosità, sollecitata dalla propaganda e resta il consueto entusiasmo per i cantanti in voga. La parte di punta, nello spettacolo, è affidata a poche centinaia di ragazzi più bollenti, che sfogano col pretesto dei Beatles esuberanti energie, comportandosi più o meno come ad una esibizione di Celentano o di altri urlatori nostrani. Gli urli acutissimi, gli accenni di deliquio non sono affatto mancati; ma sapevano di una recitazione appresa alla scuola di riviste e di film. Nelle città che hanno masse più eterogenee, con più forte apporto della provincia, come Milano, i Beatles possono scatenare qualche tensione collettiva di tipo esotico. In una città come Genova si è rimasti ad episodi frammentari, ben controllati da uno spiegamento di forze quasi incredibile: mille uomini, fra agenti di polizia, carabinieri, pompieri, vigili urbani. Lo spettacolo pomeridiano è stato un netto insuccesso per quantità di pubblico: meno di 3500 persone nella tonda e immensa sala del Palazzo dello Sport, alla Fiera del Mare (oltre 20.000 posti). Il gran caldo, il mare calmissimo, hanno spinto i genovesi alle spiagge della Riviera, mettendo in ombra i Beatles e i cantanti italiani chiamati a far da cornice: Pino Donaggio, Fausto Leali, Peppino di Capri. Alla sera la situazione è cambiata: gran folla, circa 15 mila spettatori, con una certa quota di pubblico adulto ed elegante, incuriosito dall’attesa esplosione di una follia corale, suscitata da Ringo e compagni. L’esibizione dei Beatles, in abito nero con collettoni rosa, è stata brevissima: 35 minuti, come previsto dal contratto, che contemplava anche un minimo di soli 60 secondi nel caso di accoglienza fredda da parte del pubblico». [Mario Fazio, «La Stampa», 27/6/1965]. «All’una di notte i Beatles hanno lasciato Genova diretti a Roma su un bireattore dell’Alitalia appositamente noleggiato, che li ha depositati a Fiumicino un’ora dopo, in modo da evitare scene al loro arrivo». [R.B., «Corriere della Sera» 27/6/1965]. Domenica 27 giugno 1965 L’arrivo dei Beatles a Fiumicino. I Beatles arrivano a Fiumicino all’alba di domenica 27 giugno. Ad aspettarli, quattro collegiali inglesi venuti a piedi da Roma e una decina di impiegate della Fao che sventolano fazzoletti gridando «hurrà!». Prima che scendano dall’aereo, il loro impresario Achter percorre da solo il breve tragitto dalla pista all’aeroporto, per essere certo che gli ammiratori siano saldamente trattenuti dalle forze dell’ordine. Quando si convince che è tutto a posto, dà il via e i quattro scendono. [«Corriere della Sera», 28/6/1965].
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«Non facciamo colazione con uova di gabbiano». Alcune delle domande fatte ai Beatles durante la conferenza stampa nell’hotel Parco dei principi alla presenza di giornalisti, cineoperatori e una trentina di fan molto composti ed emozionati. Un giudizio sull’esercito, la famiglia e la religione. «Il primo non è divertente, la seconda è ok, la terza è ottima per chi ci crede». È vero che mangiate uova di gabbiano per colazione? «No, soltanto porridge». C’è una donna al mondo che sarebbe capace di farvi tagliare i capelli? «No». [«Corriere della Sera» 28/6/1965]. Caldo asfissiante e amplificatori torturanti. Due le esibizioni nel teatro Adriano, una di pomeriggio, una di sera. «La platea di Roma non ha riservato ai quattro urlatori di Liverpool le accoglienze alle quali si sono assuefatti. Il caldo ha dominato le due rappresentazioni odierne, inoltre gli amplificatori erano troppo alti, addirittura torturanti, per un locale chiuso. È abbastanza assurdo che l’esibizione romana dei Beatles abbia avuto luogo non in uno stadio o in un velodromo ma in un cinema: le nostre organizzazioni sono sempre sommarie. Il pubblico comunque era folto e, per quanto riguarda la rappresentazione serale, includeva molti snob, qualche diva del cinema, parecchi “osservatori del costume”. C’erano vessilli e scritte di saluto». [C.L. «Corriere della Sera» 28/6/1965]. Il teatro Adriano di pomeriggio era «mezzo vuoto». «Ieri pomeriggio il Teatro Adriano presentava dei vuoti paurosi. Capace di tremila posti, ne risultavano occupati poco più della metà, compresi naturalmente i biglietti omaggio. E pensare che era stato richiesto il Palazzo dello Sport, con suoi diecimila e più posti. A tener lontana la folla devono aver contribuito anche i prezzi: variavano dalle quattro alle cinquemila lire per lo spettacolo pomeridiano e da cinque a settemila lire per quello serale. Le due gallerie, per le quali i prezzi erano leggermente inferiori, erano colme, ma di gente rimasta per tutto il tempo abbastanza composta. È stato in platea, fra un gruppo di una cinquantina di giovanotti e di ragazze, che si sono verificate scene di isterismo per tutto il tempo che i Beatles sono rimasti sulla scena: venti minuti, allo spettacolo pomeridiano, il tempo più breve che il celebre quartetto abbia dedicato ai suoi ammiratori italiani. Il servizio d’ordine predisposto fuori del teatro (mille agenti, idranti, una autoambulanza, camionette e transenne per trattenere la folla) è rimasto inoperoso; così all’interno, dove nonostante le urla ed i gesti dei più scalmanati, nessuno ha sfasciato nulla». [g. fr. Sta, 25/6/1965]. A Salisburgo preferiscono Mozart. A Salisburgo i Beatles sono stati accolti con un cartello con su scritto: «Questa è la patria di Mozart, non vogliamo animali, qui». [C.L., «Corriere della Sera», 28/6/1965]. Opinioni di alcuni personaggi famosi sui Beatles. Pier Paolo Pasolini: «Non mi so spiegare il successo dei Beatles, questi quattro giovanotti completamente privi di fascino che suonano una musica bellina». Franca Valeri: «Per me il trionfo dei Beatles è un mistero, sebbene sia convinta che chi riesce ad emergere deve avere le carte in regola per farlo». Milva: «Non riesco a rendermi conto della loro bravura, eppure c’è gente che impazzisce per loro». Strehler: «Questi Beatles non mi dicono molto, ma ci deve essere una ragione se vanno tanto forte». [C.L., «Corriere della Sera», 28/6/1965]. Nico Fidenco: «Sono i ragazzi della via Paal». «Trascurando il pensiero di Pasolini o, poniamo, dello psicanalista Servadio, i quali non hanno nessuna esperienza di chitarra elettrica, ascoltiamo l’urlatore Little Tony il cui vero nome è Ciacci e la cui torreggiante chioma è tale da salvarlo da ogni complesso di inferiorità. “All’inizio della strada trionfale percorsa dai Beatles c’è, a mio parere, un segreto di tempestività. Fra il ’61 e il ’62 essi imposero la moda del gruppo canoro, proprio mentre era fortemente in declino in Inghilterra, soprattutto presso i giovanissimi, l’interesse per il cantante solista. Per affermarsi, i Beatles non esitarono ad adottare le fogge più pittoresche e una mimica quanto mai accattivante. Essi avevano e hanno tuttora il dono di un ritmo istintivo, inconfondibile. Hanno dato a moltissimi giovani il pretesto per scatenarsi, rompendo pregiudizi e veti di costume”. Questa è la verità, e ci sembra che Little Tony l’abbia espressa benissimo. Un’altra notazione molto utile, e anche sottile, si deve a un camerata di Little Tony, Nico Fidenco: “I Beatles sono i ragazzi della via Paal. Cioè, prima di essere dei cantanti, sono quattro amici che fanno vita comune: tutte cose che ai giovani piacciono immensamente”. Perfetto, perfetto.
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Ci pare proprio che, fortificati dai pareri dei signori Ciacci e Fidenco, possiamo stimare risolto il problema della prosperità finanziaria dei Beatles e del delirio di milioni di adolescenti per i quattro ragazzi di Liverpool. Soddisfatta la nostra sete di conoscenza, è ormai nostro privilegio accantonare l’argomento, ignorarlo per sempre, occuparci d’altro, ritrovare la pace, mandare al diavolo Ringo Starr». [C.L. «Corriere della Sera», 28/6/1965].
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Lunedì 28 giugno 1965 Secondo giorno dei Beatles a Roma. Per evitare che il Teatro Adriano resti semivuoto come il primo giorno, l’impresario riduce i prezzi dei biglietti da settemila a duemila lire. Durante l’esibizione serale, scene di isterismo collettivo: «Ecco una sedicenne che pare morsa dalla tarantola e si rigira come una trottola mugolando dalla bocca semiaperta; quattro giovinette tutte e quattro con un’uguale frangetta di capelli sugli occhi che si nascondono a vicenda il volto sul petto della compagna; una biondina che geme e piange a fontanella, le spalle scosse dai singhiozzi; quattro ragazzi in canottiera che acutissimamente strillando si fanno ciascuno una maschera di una grande immagine fotografica di George, di John, di Paul e di Ringo. E abbiamo levato gli occhi ai palchi e alle gallerie da cui la gazzarra di fischi, di urla, di battimani, di boati scendeva a valanga; i palchi eran tutti un’esplosione di bocche vocianti e di braccia protese; ad un palchetto vicino al proscenio due tredicenni che fin dal principio avevo visto partecipare allo spettacolo movendo continuamente le teste come pendoli assidui, una bruna paffuta e scarmigliata, una biondina con gli occhiali e una chioma cavallina, erano al parossismo, sghignazzavano, cantavano in coro, invocavano, balzavano su di scatto col rischio di tombolare in platea, ricadevano giù affrante ma non dome. Vidi portar fuori un giovinetto e due o tre ragazze svenute, i coetanei che li sorreggevano continuavano tuttavia ad urlare; le grida, il coro disordinato, i battimani relegavano la musica degli strumenti a un sottofondo, le chitarre, la batteria, gli amplificatori elettronici dei suoni riuscivano soltanto a dare un’idea dell’ossatura sonora. Ma questi fanatici conoscono a memoria i dischi dei Beatles, gli bastava il titolo annunciato per riviverne la passione, Baby’s in black, Rock’n roll, I wanna be your man, gli bastava vedere sul palcoscenico in carne e ossa i loro dei, i padrini provvisori e tirannici dei loro animi primitivi». [Paolo Monelli, «La Stampa», 29/6/1965].
Dopo l’ultima canzone il silenzio assoluto. Gli ultimi dieci minuti Paul fa capire che è ora di smettere, che vogliono andare a letto, inclinando la faccia verso destra sulle mani giunte. Poi annuncia in italiano «l’ultima canzone». «Subito dopo l’ultima nota i Beatles raccolsero in fretta i loro strumenti e uscirono di corsa dalla scena. [...] Appena dileguato via l’ultimo “beatle”, oscurata subito la scena, gravò sul teatro un enorme silenzio; non un grido, non un’invocazione, solo il fruscio assiduo della folla che si avviava all’uscita. Le isteriche fanciulle di un attimo prima, i giovanetti fino allora snodati come burattini in cento contorcimenti erano tornati immediatamente esseri normali; anzi peggio che esseri normali, automi a cui si è fermata la carica, svuotati improvvisamente di vita. A pensarci bene, questa brusca chiusura mi è parsa naturalissima. I duemila adolescenti erano accorsi al teatro non tanto come spettatori quanto come attori essi stessi; la presenza dei Beatles era stata poco più che un pretesto e un lievito alla loro scalmanata esibizione; e finito lo spettacolo se la scapolavano anch’essi in silenzio per la più breve». [Paolo Monelli, «La Stampa», 29/6/1965]. Più che scarafaggi sembrano preti. «Ma perché li chiamano scarafaggi? La parola che designa lo scarafaggio in inglese si pronunzia più o meno come “beatle”, ma si scrive in un altro modo, “beetle”, e agli scarafaggi non richiama certo il loro aspetto, a parte la pettinatura che è stata più volte di moda presso i nobili giovinetti d’Europa nei secoli scorsi; con la giacchetta nera abbottonata in alto e i pantaloni neri stretti e la cravatta nera lunga hanno piuttosto un’aria clericale: di “clergymen” agitati da un improvviso delirio va bene, ma qualche cosa di simile a quello che agitava una setta di protestanti inglesi della metà del secolo XVIII che si chiamavano “The shakers”, i tremolanti; perché avevano un culto fatto di canti e di danze che li portava a poco a poco ad agitare le estremità e poi tutto il corpo, pensando così di entrare in comunione con i santi spiriti». [Paolo Monelli, «La Stampa», 29/6/1965].
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Conclusione I Beatles e gli anni Sessanta Love, love me do You know I love you. I’ll alwais be true So please love me do. Oh oh love me do Someone to love, somebody new Someone to love, someone like you... Se oggi, anno del Signore 2013, un cantante esordiente qualunque si presentasse in una qualsiasi casa discografica con una simile canzone, come minimo gli potrebbe capitare, nei casi più fortunati, di essere cacciato a calci; invece quel giorno ad Abbey Road, per quattro sconosciuti ragazzi, fu un vero e proprio colpo di fortuna. I testi di oggi non sempre sono migliori, e in verità pretendono di attribuirsi dei contenuti intellettuali che spesso fanno da paravento dietro il quale diventa facile affermare... che, in fondo, sono sempre gli altri a non capire! Fu proprio la mancanza di sovrastrutture e di pretese culturali a caratterizzare la musica dei Beatles, almeno fino alla pubblicazione dell’album Help. Per anni una moltitudine di critici e sedicenti tali si è affannata a interpretare gli anni Sessanta come un’epoca creata e vissuta da e con i Beatles, mentre la realtà era esattamente inversa. Furono gli anni Sessanta, epoca pervasa da ideali di libertà e aspettative di novità, a generare i Beatles, che con le loro canzoni dai testi freschi e originali seppero intercettare perfettamente lo spirito e le istanze delle giovani generazioni. Ecco il segreto! Quella degli anni Sessanta fu l’epoca che originò i Beatles, i quali raggiunsero il successo con il grande aiuto di George Martin e le sue intuizioni musicali e di Brian Epstein con la sua maniacale cura dell’immagine, e lo sfruttarono in modo perfino cinico (non a caso John Lennon ebbe a dire dei Beatles: «Eravamo i più grandi bastardi della terra...»). Senza arrivare all’autoinsulto gratuito come Lennon, diciamo che i Beatles hanno avuto la loro grande occasione e l’hanno sfruttata al massimo livello, analogamente a quanto accade alle odierne “boyband“, ma a differenza delle boyband attuali, che vivono unicamente del loro momentaneo successo, i Beatles, attraverso il successo divennero i Beatles, cioè i quattro musicisti più famosi di tutta la storia della musica. Se gli anni Sessanta hanno creato i Beatles, si può dire che i Beatles hanno creato... tutto il resto. Musica, moda, costume, società, modo di pensare, dopo i Beatles non furono più gli stessi, per l’improvvisa e imprevista accelerazione impressa dal fenomeno Beatles. In tutto questo si può riassumere la genialità dei Quattro di Liverpool, quattro cervelli sintonizzati all’unisono. Iniziarono con «Please love me do» e strada facendo finirono con il concepire l’amore universale «...all you need is love».
Dedicato a mia madre, mio padre e Angela che sopportano una vita “in mezzo ai dischi”. Marco Crescenzi
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Da Liverpool a Roma
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Beatles 50 Tav. 1. La stazione di Lime Street a Liverpool.
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Beatles 50 Tav. 2. I Beatles a Liverpool come “monumenti”.
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Beatles 50 Tav. 3. I Beatles al Cavern Club, in una delle loro 292 esibizioni.
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Beatles 50 Tav. 4. La prima cartolina promozionale dei Beatles con Ringo Starr in formazione.
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