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la libertà è un colpo di tacco riccardo lorenzetti
Armando Curcio Editore
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ELECTI I Edizione giugno 2014 Š 2014 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma Direzione editoriale: Prof.ssa Cristina Siciliano Art direction: Mauro Ortolani Supervisione editoriale: Enrico Conticchio Copertina e impaginazione: Stefano Mencherini ISBN 978-88-6868-042-8 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.
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la libertà è un colpo di tacco
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A Gaia e Jacopo.
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SOMMARIO
Prefazione di Federico Buffa Prologo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Epilogo
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PREFAZIONE
n giorno al Pacaembu. Un grande semicerchio e undici pugni chiusi alzati. Prima che costruissero il Maracana, il Pacaembu era il più grande stadio del Brasile. Nei Mondiali del ‘50 il Brasile ci pareggiò 2-2 con la Svizzera. Non una sorpresa assoluta: son pochi a saper giocare contro quelli forti come gli svizzeri. San far gruppo sul terreno come nessuno, e infatti sino alla battaglia di Marignano hanno avuto la miglior fanteria del mondo. Flavio Costa, “o mister”, indispettito dai fischi, giurò che a San Paolo non ci sarebbero tornati mai più in quella edizione del Mondiale. Nemmeno questa una sorpresa. A San Paolo sanno di essere succeduti a Buenos Aires come capitale culturale del Sud America. Oggi hanno la più alta percentuale di teatro per abitante del mondo nella zona centrale della città. Hanno tutto perché ci sono venuti tutti e chi viene porta sempre qualcosa. La loro cultura per esempio. Se siete praticanti o vi piace il ju jitsu di stile e concezione brasiliana, lo dovete al fatto che i giapponesi vi hanno fondato la più grande japantown lontano dalle isole; e il giovane e gracile Gracie ha cominciato a frequentare quelli che eran disponibili a trasmetterne una frazione di quella cultura. Le Idee per esempio. E le Idee non le fermi con un’arma e nemmeno con tante altre cose. Il Brasile è una terra fertile per le Idee. Una serra calda dove farle crescere. E trasformare.
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RICCARDO LORENZETTI
Le navi di Sua Maestà partivano da Southampton e sbarcavano a Santos. Il calcio è penetrato così. E quando è stato osservato per la prima volta, in Brasile hanno intuito che ne avrebbero fatto molto più che un gioco. Come per cinquant’anni lo avevano pensato gli inglesi, ai quali si deve la sua stessa invenzione. I neri e i meticci han fatto il resto. E nel farlo diventare una rappresentazione del loro esistere, hanno anche intuito che lontano da alcuni dei valori dell’uomo non poteva restare. Normalmente son mondi che non collidono o, se lo fanno, rimbalzano. Non in questo caso. Quella che state per leggere è una di quelle storie che non ha i requisiti richiesti per essere una storia di calcio. E infatti lo è solo marginalmente. Imparerete ad affezionarvi ad ogni personaggio come in un film che vi strattona prima e commuove poi. Fino a che dovrete fare i conti con lui, il Dottore. Non è detto che vi piaccia per forza un uomo con le sue caratteristiche, ma non può lasciarvi indifferente. Uno che pensava si dovesse giocare in nove e che aveva detto che sarebbe voluto morir di domenica col Corinthians campione... e tante altre cose che non hanno cittadinanza nelle storie di calcio. Il Corinthians è stato fondato ad una fermata d’autobus, e se nasci così non puoi pretendere d’aver una storia come le altre. Il libro lo potreste anche leggere nell’altro senso, tanto sembra ammantato nella circolarità del pensiero orientale che tanto affascinava il Dottore. Tutto quello che non conosceva lo affascinava, come per esempio che ne sarebbe stato di un gruppo d’uomini che avessero fatto guardare il calcio, ma soprattutto al calcio, in altro modo. Vi accorgerete presto che sarete diventati parte della torcida corinthiana, la stessa che a ogni partita interna srotola il grande gonfalone che raffigura Ayrton Senna. 12
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LA LIBERTÀ È UN COLPO DI TACCO
Altra storia senza eguali. Ecco perché i bianconeri a metà campo quel giorno al Pacaembu avevan tutti la testa bassa e il pugno alzato come il Dottore quando celebrava i suoi gol. Il Corinthians era campione ma il Dottore era passato ad altra dimensione. Di domenica, naturalmente. Buona lettura. Federico Buffa
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PROLOGO
i sono anni di mezzo. Sono quegli anni nei quali il mondo smette di essere quello che era stato fino a quel momento ma non è ancora quello che sarà. Sono anni che sfuggono anche alla normale disciplina alfanumerica. Semplicemente, escono dalla storia. Come studenti in gita premio o militari in libera uscita. Ci fu un momento, in Italia, che quelli che passarono davanti, non furono né anni Settanta né anni Ottanta. Come se tra la Milano di Vallanzasca e la Milano da bere ci sia stato un momento, un lasso di tempo in cui Vallanzasca non c’era più, ma non avevano ancora servito il drink. In quegli anni di mezzo, l’Italia vinse i Mondiali in Spagna e il Corinthians di Sócrates fece parlare di sé per il suo calcio e molto altro. Sócrates, dicono, è morto il 12 dicembre 2011. Arresto cardiaco, dopo la solita serata trascorsa a eccedere in birra e liquori: quindi fedele a quella regola aurea che allega sempre al campione una certa fornitura di vizi fuori dal campo. «Perché con il campione viziato vinco le partite importanti, mentre il bravo ragazzo lo riservo per mia figlia il giorno che deciderà di sposarsi», come disse quel famoso allenatore che passò per cinico e invece era uno che la sapeva lunga. Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza eccetera eccetera: il capitano e il punto avanzato del centrocampo del Brasile 1982. Gli altri tre punti del quadrilatero erano Toninho Cerezo, Falcão e Zico. Che è come entrare in una chiesa e trovarci una natività di Giotto, una crocifissione di Caravaggio e una Madonna di Raffaello. E prima dell’uscita, seminascosta,
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un’acquasantiera da attribuire a Michelangelo. Non si faceva mancare niente, quel centrocampo: talmente esagerato che Léo Júnior, che era bravo quanto gli altri, pur di trovargli posto lo relegarono a fare il terzino sinistro. E anche da terzino sinistro giocò da fuoriclasse, quale era. Non bastavano, evidentemente, quattro portate di arrosti, fritti, umidi e fricassee. Quella squadra pretese anche il carrello dei bolliti. Léo Júnior terzino diventò così l’emblema del Brasile 1982: un’opulenza addirittura esibita. Una specie di schiaffo alla miseria. E poi c’è quel giornalista della «Gazzetta dello Sport» che quando pochi mesi dopo (la morte di Sócrates), Dino Zoff compiva settant’anni, ha pensato bene di dedicargli un richiamo in prima pagina con tanto di fotografia ed un titolo affettuoso: «Auguri Nonno Dino». Nonno Dino? Nonno Dino lo vada a dire a sua sorella. Perché Zoff i settant’anni non li compirà mai. Come non li compiranno mai né Batman né Topo Gigio... e nemmeno Tex Willer. Perché certa gente non muore mai, e soprattutto non invecchia. E soprattutto perché mentre tutti noi facciamo le cose che riempiono i nostri giorni, tipo aspettare il verde al semaforo, pagare il bollo auto o giocare al superenalotto, Zoff è ancora lì, allo stadio Sarrià. Con la sua età indefinita, la sua maglia grigia con il numero 1 cucito dietro e soprattutto con le mani sul pallone appena schiacciato dal difensore Oscar. Sulla linea di porta, nella parata più bella della storia del calcio. Quella che neanche Batman, o Topo Gigio o Tex Willer sarebbero riusciti a fare.
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CAPITOLO 1
ócrates e Dino Zoff. Due personaggi più da romanzo che da futebol. Di quelli che piacevano tanto al «Cardellino di San Paolo», il giornale più off della città quando la parola off non era stata ancora declinata nel vocabolario. Off inteso come una cosa «fuori»… fuori dagli schemi, fuori dal coro, fuori persino dalla logica. «Il Cardellino», con quella dicitura sotto il titolo che era il più palese incoraggiamento a non leggerlo: «periodico di cultura sindacale brasiliana». Una definizione così criptica e così scoraggiante. Che qualcuno si avventurasse in edicola per leggere qualcosa di inerente alla «cultura sindacale brasiliana» significava avere una visione fin troppo ottimistica della vita. E una fiducia verso il prossimo ai limiti dell’incoscienza, come i tifosi del Messico che sono sempre convinti di avere la squadra giusta per vincere il Mondiale di calcio e se ne ritrovano una buona giusto per vincere le risse a fine partita. Eppure «Il Cardellino» era, a quei tempi, una piccola istituzione. Perché era uno dei pochi giornali, se non l’unico che, pur nella sua piccolezza, non le mandava a dire. Che faceva le pulci, che mugugnava, che non era mai soddisfatto. Che chiamava ladri i ladri e gli dava un nome e un cognome. Certo, come giornalino non era il massimo: troppo politicizzato e troppo spostato verso una sinistra estrema che spesso andava ben oltre la «cultura sindacale brasiliana». E poi era impaginato malissimo e la tipografia sembrava
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composta da ubriachi. Una pagina troppo chiara e poi un’altra troppo scura dove non distinguevi le parole e ti macchiavi tutte le dita di inchiostro. Ti cadevano le braccia a leggerlo, perché ad ogni nuovo numero si aveva l’impressione di vivere in una città con gli amministratori più inetti, corrotti e fannulloni del globo terrestre. San Paolo era, secondo quel giornale, una specie di Sodoma-Gomorra dei tempi moderni. Un agglomerato urbano in attesa solo della voragine che l’avrebbe giustamente inghiottita o del fuoco che l’avrebbe finalmente incenerita, come nelle migliori tradizioni bibliche. Per fortuna, c’era Alvaro Cunha. Che nel «Cardellino» di San Paolo scriveva di calcio e ne scriveva così bene che le due pagine che curava lui valevano ampiamente tutto il resto. «Del vostro giornaletto apprezzo molto gli scritti del dottor Cunha. Il resto lo trovo ottimo solo quando decido di pulire i vetri», scrisse un lettore in una delle tante lettere alla redazione che, democraticamente, venivano pubblicate senza censura. Del resto, gli stessi politici della Preifetura (sui quali si abbattevano gli strali del «Cardellino») non lo citavano mai per nome, ma solo per la luce riflessa del suo giornalista principe. E siccome lo vedevano come il fumo negli occhi, ecco che il «Cardellino» nemmeno lo degnavano di una menzione e diventava «quel fogliaccio dove scrive anche il grande Alvaro Cunha» oppure «quella pubblicazione semiclandestina, famosa esclusivamente per ospitare la penna del dottor Alvaro Cunha». E la penna di Alvaro Cunha portava al successo tutta la squadra. Come il grande Leonidas da Silva, che prese sulle spalle un modesto Flamengo e lo trascinò nel campionato Carioca del ‘39. Scriveva con una stilografica vecchissima disegnando nell’aria ideali ghirigori e linee sinuose. La calligrafia di Alvaro Cunha era svolazzante, come la sua prosa. Chi 18
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LA LIBERTÀ È UN COLPO DI TACCO
bestemmiava forte, poi, era il dattilografo, perché il grande Alvaro Cunha non si degnava di toccare la macchina da scrivere. E soprattutto non ne voleva sapere di battute e spazio da rispettare: i suoi scritti non subivano né tagli né modifiche. Al «Cardellino» qualunque sciagura o calamità naturale si metteva pazientemente in fila e cedeva il passo al resoconto del grande giornalista sportivo. Con effetti talvolta grotteschi, come quella volta che venne fuori lo scandalo dell’acqua inquinata a Campinas, e morirono una ventina di persone. «Vogliamo le dimissioni della Preifetura, e i responsabili in galera», tuonò «Il Cardellino». Naturalmente con il titolo in basso a destra, perché il proscenio toccò come sempre al grande Alvaro Cunha: «Ancora uno zero a zero per il Corinthians». Il Corinthians. La squadra del popolo. E poi si scriveva del Palmeiras, la squadra degli italiani. Che erano popolo anche loro, ma non quanto quelli del Corinthians. E anche del San Paolo, i ricchi tricolor, che con il popolo non avevano molto a che vedere, e della superiorità sociale ne facevano un punto d’onore. E poi il Santos. Anche se il Santos non contava, perché non era proprio San Paolo: e poi era la squadra di Pelé e tutti le volevano bene. E soprattutto perché il Santos vinceva quasi sempre ma era una presenza rara, nel Paulista. Come quei parenti che si fanno vedere giusto per Natale. Colpa delle tournée e degli inviti in giro per il mondo, come fosse un circo equestre. E quando tornavano, per rimettersi in pari con gli altri giocavano anche una partita ogni due giorni. Una roba da schiantare un toro. Che quando il Santos ne buscò dall’Ituano perché non si reggeva in piedi, la protesta del «Cardellino» si alzò alta e vibrante: «Il Santos di Pelé è la nostra squadra migliore. Un patrimonio nazionale, né più né meno di Ilhabela e della Praça da Sé. E come tale va custodito. Esporre il Santos a queste brutte figure, 19