Mario Monicelli
«Si farebbe impiccare piuttosto che parlare di “ispirazione”, di “anima”, di “creatività”. Non direbbe “noi artisti” neppure sotto tortura». Suso Cecchi D’Amico
€ 14,90
Pascal Schembri
MARIO MONICELLI
«Pensavamo solo di prendere in giro in modo divertente. Solo in seguito tutto questo si sarebbe rivelato vero e anche profondo».
Pascal Schembri
Agrigentino residente a Parigi, Pascal Schembri esordisce in Italia nel 2008 con il romanzo Il miracolo di San Calogero, seguito presto dal giallo Macelleria siciliana, dopo aver pubblicato in Francia e nel Bel Paese, sotto vari pseudonimi, libri-inchiesta sulla violenza coniugale e romanzi sulla libertà sessuale e di opinione. In ambito biografico ha pubblicato lavori su Françoise Sagan, Ennio Flaiano e Marilyn Monroe, confermando la sua versatilità di scrittore in grado di alternare pamphlet, gialli psicologici e saggi lungo un percorso editoriale difficilmente ricostruibile.
La morte e la commedia
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MARIO MONICELLI La morte e la commedia
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Armando Curcio Editore
La Commedia all’italiana nasce dalle avventure che, come sceneggiatore e regista, Mario Monicelli ha saputo narrare a più generazioni grazie alla straordinaria longevità sua e delle sue opere. Da I soliti ignoti a La Grande Guerra, da L’armata Brancaleone ad Amici miei, la Commedia all’italiana ha insegnato al Paese a crescere prendendo atto dei propri difetti. Sarcasmo e blanda tenerezza, simpatia per i personaggi e riluttante affetto per il popolo preso in esame sono gli ingredienti con cui Mario Monicelli rende onore a un genere di cui ha contribuito a fare la grandezza, con semplicità e pochi fronzoli, ma con efficacia esemplare. Pascal Schembri gli rende omaggio con un ritratto affettuoso, acuto e sincero.
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MARIO MONICELLI La morte e la commedia Pascal Schembri
Armando Curcio Editore
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ELECTI Prima edizione dicembre 2013 Š 2013 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma www.armandocurcioeditore.it info@armandocurcioeditore.it ISBN 978-88-97508-68-7 Editing: Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A. SB Servizi Srl - Roma Finito di stampare il mese di novembre 2013 Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.
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Il cinema non morirà mai, ormai è nato e non può morire: morirà la sala cinematografica, forse, ma di questo non mi frega niente. Mario Monicelli – Consegna del Leone d’Oro alla carriera, Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, 1991
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SOMMARIO
Il Palazzo degli Specchi
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Il suicidio sull’orlo
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Commedia all’italiana
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Guerra e formazione
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Guardie, ladri e censura
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Si può ridere di tutto
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Povera Italia
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I compagni
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I soliti ignoti dell’anno Mille
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Don Chisciotte da Norcia
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Donne, donne eterni dei!
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Fine di una maschera
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La morte e la commedia
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Filmografia
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Bibliografia
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IL PALAZZO DEGLI SPECCHI Accetta gli inviti a festival, rassegne, dibattiti. Rilascia interviste a giornali, radio, televisioni, con grande disappunto di chi sta scrivendo un libro con lui. Perché di Monicelli si sa tutto. Sebastiano Mondadori, La commedia umana
l Palazzo Brancaccio a Roma, edificio del XIX secolo nel quartiere Monti, qualche volta è usato per ricevimenti ed eventi particolari, come il premio speciale AEREC che, in una sera di dicembre del 2008, venne conferito a personaggi dell’imprenditoria, dello spettacolo e della cultura distintisi per il valore internazionale della loro carriera. Identificato come un più generico “Palazzo degli Specchi”, il bellissimo stabile ottocentesco è l’ultimo del patriziato romano costruito nel cuore della città eterna. Una combinazione di casi personali mi condusse quella sera nell’edificio la cui antonomasia mi faceva pensare al Caffè degli Specchi a Trieste, locale elegante situato nella piazza principale, davanti al mare d’Istria, dove con tutta probabilità Svevo e Joyce all’alba del secolo scorso si erano dati convegno per dirimere silenziosamente le diatribe intime dei loro personaggi. Zeno e Bloom mai discussero tra loro sull’opportunità di smettere di fumare, né i loro autori vi accennarono davanti a un tè o a un cordiale, eppure tutto si era consumato a partire da lì: l’analisi, la rivolta, la nuova letteratura e la fine del vecchio romanzo. Le superfici riflettenti moltiplicano il mondo e lo ampliano visivamente nel delimitarlo, offrono scappatoie inesistenti, immagini ridondanti destinate a risolversi nell’essenza ultima del reale, dissipando il sogno artificiale generato dalla lamina
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perfetta che fa apparire una barriera di vetro una prosecuzione di trasparenza. Non sono finestre ma lo sembrano, non sono porte eppure danno su altre dimensioni, su luoghi che alla fine condurranno nuovamente a chi cercava di allontanarsene. Era nel mio immaginario Palazzo degli Specchi che avrei incontrato lo spunto di riflessione in grado di ricondurmi a me stesso oggi. Uno specchio può dilatare e restringere, può pure deformare seriamente, ma nella sostanza non mente. Riporta all’immagine l’immagine che la superficie accoglie. Non necessariamente si tratta sempre di lastre di vetro senza trasparenza. Possono esserci superfici riflettenti di diversa forma ed essenza. Un libro può riflettere il suo lettore, spesso ingrandendone alcuni dettagli e rimpicciolendone altri. Un avvenimento può restituire l’immagine di chi vi si riconosce. Spesso succede che una persona, nel suo comportamento e carattere, nella sua condizione contingente, funzioni da specchio per qualcun altro. L’empatia funge da catalizzatore, non per niente i neuroni responsabili della capacità d’immedesimazione sono chiamati “neuroni a specchio”. Il Palazzo Brancaccio ospitava la premiazione nel suo salone più grande, opportunamente arredato di numerosi specchi, e offriva spazio al ricevimento nelle due sale attigue. Quando vidi chi premiavano, tra una miriade di illustri più o meno conosciuti, fui grato alla combinazione che mi aveva portato lì. Il regista, allora novantatreenne, Mario Monicelli è un esemplare umano straordinario di cui avevo sempre subito il fascino e che non avevo mai avuto occasione d’incontrare di persona. Apparve dall’alto della sua età portata con prontezza, vigore, intelligenza e humour e giustificò immediatamente la serata, la presenza di noi tutti in quel posto, l’esistenza stessa del premio. Ci sono situazioni, come pure uomini, che fungono da specchio. In quell’occasione a rispecchiarmi in un ipotetico futuro, tra auguri e scongiuri, fu la ragguardevole quantità di anni vissuti dal regista e la classe genuina con cui ne portava il peso. La statura e l’età di quest’uomo mi spinsero a riflettere su me stesso, su quanto sarei rimasto al mondo e, qualora la 10
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fortuna mi avesse riservato tante primavere quante lui ne aveva avute in sorte, sullo stato in cui ci sarei arrivato. Mario Monicelli mi sembrò uno specchio tra gli specchi, non certo perché vederlo mi facesse sentire minimamente equiparato alla sua dignità o al suo valore artistico, ma piuttosto per la sua capacità di suscitare riflessione in me e negli altri in virtù della sua elevatezza e longevità. Un uomo che arriva a 93 anni in forma così smagliante dà il via, in chi gli si sta di fronte, a un’inarrestabile girandola di interrogativi e considerazioni sulla vita. Incontrare un Maestro suscita effetti del genere. La realtà si ferma, come si aprisse una parentesi di rivelazione che potrebbe anche non richiudersi. Mi successe allora e mi ricapitò, con maggiore intensità, quando due anni più tardi fui raggiunto dalla sconvolgente notizia della sua morte per suicidio. Nel descrivere il percorso umano di un genio, qualunque sforzo è condannato a rimanere incompiuto. Impossibile tracciarne l’intera parabola, impossibile comprendere tutto nell’orbita che se ne ricostruisce. I riflessi delle sue opere e del suo carattere sono forse gli unici strumenti onesti, quali spunti di riflessione, in grado di avvicinarsi allo scopo senza che la presunzione guasti il lavoro. Il Palazzo degli Specchi, luogo idealmente azzeccato per un’epifania, mi stava offrendo uno sfaccettato riflesso dell’umana varietà nella figura di un solo uomo che molti ne aveva compresi e riflessi nello specchio animato chiamato schermo cinematografico. La commedia è lo spettacolo dei caratteri e delle situazioni, la scena in cui gli uomini sono burattini, simulacri di se stessi, recitanti ruoli stabiliti. Il regista della commedia è un burattinaio. Monicelli ha disegnato situazioni e caratteri in quantità letteralmente industriali, all’interno di una fabbrica che oltreoceano è stata definita “dei sogni”, donando all’Italia immagini e storie nelle quali l’Italia intera si è rispecchiata. Ora il Gran Maestro Cerimoniere degli Specchi era davanti a me, gentile e mansueto mentre gli chiedevo il privilegio di farmi ritrarre insieme a lui in una fotografia. 11
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Partecipare a una premiazione è un modo di continuare a sentirsi vivi, e posare con uno sconosciuto è come donare la propria immagine a qualche postero in più. Non che io fossi giovane, avere trent’anni meno di un novantatreenne non significa essere un ragazzo, nemmeno nella consolazione della relatività, eppure vicino a lui mi sentii piccolo, come un pupillo, un aspirante allievo. È l’effetto che fanno i Maestri. La foto che mi concesse quella sera riluce della meraviglia di una casualità sensata. La vedo sul mobile nel salotto di casa mia, ammiro l’umiltà con cui il regista sta in posa al mio fianco, la sua cortese pazienza. A quell’età un uomo probabilmente è abituato a pensare di non avere più tanto tempo a disposizione, è facile che senta di non averne abbastanza. Anche posare per una foto potrebbe sembrare uno spreco. Ma chi considera di aver ancora poco da vivere per una semplice questione di calcolo dell’età ha già vissuto molto a lungo e ha probabilmente imparato che quel semplice indugio davanti all’obiettivo fissa per sempre l’immagine di un momento. I minuti smettono di correre e si bloccano in quell’istante, rendendo eterno ciò che non lo è. Nella foto il Maestro sorride e il postulante gonfia il petto per l’orgoglio. Che tenerezza la figura dell’umana fragilità nella vecchiaia, la sottile speranza di farla in barba al tempo ancora per un po’, con fierezza e senza derogare al proprio decoro. La vecchiaia annuncia la morte, talvolta la fa desiderare. Un uomo come Mario Monicelli dà l’impressione di saper vincere l’una e l’altra in un ennesimo slancio d’intelligenza. Il garbo e l’ironia dipinti sul viso, le mani pronte a incrociarsi in uno scongiuro, il Maestro quella sera non pensava certo al suicidio, pur annoverandolo verosimilmente tra le possibilità, nel caso si fosse reso necessario come soluzione a una condizione peggiore. Viveva, lì, insieme a noi. Accettava un premio e gli scatti dei fotografi con la naturalezza di chi si è meritato di più senza essersi mai troppo attaccato a niente. Con la disinvoltura di chi non ha mai preso sul serio fino in fondo la realtà. Il suo sorriso avrebbe benissimo potuto allargarsi nella risata sguaiata di 12
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qualcuno dei personaggi dei suoi film e travolgere la cerimonia, il ricevimento, il premio e il povero sciocco che cercava di farsi fotografare accanto a lui, ma è prerogativa di un Maestro essere compassionevole, accettare con pacatezza anche le piccole vanità di un’esistenza che nella grande vanità del mondo ha sguazzato per vocazione. Così ebbi la mia foto, mentre lo Specchio per eccellenza rilasciava barbagli sugli specchi di un palazzo intitolato agli Specchi. La labirintica vertigine che inconsciamente vissi allora è motore di questo saggio, di questo omaggio a un grand’uomo.
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IL SUICIDIO SULL’ ORLO Il cinema è stata la sola grande passione della mia vita. Mario Monicelli, La commedia umana
lla fine delle conversazioni tra Mario Monicelli e Sebastiano Mondadori raccolte nel libro La commedia umana, il regista toscano, interrogato in merito al suo prossimo novantesimo compleanno, dichiara: «Spero di compierli sul set, o in moviola. O morto sul campo. Perché nella vita io ho messo il lavoro davanti a tutto: all’amicizia, all’amore, a qualsiasi persona o responsabilità». L’affermazione è chiara e ben si applica al modo in cui Mario Monicelli più tardi, ormai novantacinquenne, sceglierà di uscire di scena, gettandosi dal quinto piano dell’ospedale romano di San Giovanni presso cui è ricoverato per un cancro alla prostata in fase terminale. Le parole sono sgorgate a fiumi, intorno alla sua decisione. Giornalisti, amici, filosofi e colleghi hanno azzardato giudizi e giustificazioni, hanno ipotizzato, spiegato, hanno cercato di immedesimarsi per comprendere se la scelta fosse o non fosse accettabile, se al suo posto avrebbero reagito nell’uno o nell’altro modo, ricorrendo a visioni ideologiche o sgretolando fissità etiche difficili da mantenere stabili a livello individuale. L’artista è un uomo di fronte alla morte. Tutti gli uomini si trovano prima o poi di fronte alla morte, ma l’artista è chi si assume la responsabilità ufficiale di starle di fronte per tutta la vita. Se nessuno l’ha ancora formulata, è necessario che questa
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definizione entri nel catalogo delle accezioni con cui è descritta una delle figure cardine della cultura di ogni società. La definizione descrive l’essenza di un’urgenza spesso inspiegabile presso lo stesso titolare della qualifica. L’artista, sia esso poeta, scrittore, pittore, musicista o una somma di questi – come spesso è un regista cinematografico – ha il dono di sentire la vita su di sé con un’intensità fuori del comune. Tale intensità include la percezione e coscienza costante della mortalità umana. La tragedia, il lirismo e la commedia sono prodotti e forme di questa condizione, mediati dall’artista a beneficio di tutti. Il senso che – ricercato o scaturito spontaneamente, verosimile o solo illusorio – nasce dalla ferita ineludibile sopportata dall’artista è il risultato della sua elaborazione dell’esistenza, di cui si fa scandagliatore, interprete, messaggero e giudice ultimo. In questa essenza costitutiva va ricercata la connessione spesso evocata da taluni (non solo Rimbaud) che apparenta il poeta al veggente. La tragedia era inizialmente rappresentazione sacra e il compito del drammaturgo non era dissimile da quello di un sacerdote. Chi guida attraverso il sacro, chi si fa mediatore tra terreno e ultraterreno, un tempo riproponeva le Scritture per reinterpretarle presso la popolazione. L’artista è un sacerdote anche se di professata laicità, e lo è in virtù del suo rapporto costante con la sostanza dell’esistere, che include la morte quale consapevolezza e retaggio. Gli artisti se ne vanno talora nei modi più consueti. Oppure offrono lezioni che sono esse stesse opere d’arte e trascendono la limitatezza della vita e le sue miserie. Jan Potocki, autore dello straordinario Manoscritto trovato a Saragoza, lima per anni una fragola d’argento rubata alla sommità di una zuccheriera e, quando essa può finalmente entrare nella bocca della sua pistola, la fa benedire e la usa per farsi saltare il cervello. Le interpretazioni psicopatologiche al riguardo di sicuro si sprecherebbero se non si tenesse conto che il gesto dello scrittore è da intendersi innanzitutto come gesto artistico, come comunicazione poetica. La depressione può spiegare 16
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solo piattamente la perfezione maniacale di una simile risoluzione. Nell’accarezzare giorno dopo giorno per anni lo strumento con cui si porrà fine alla propria vita, c’è l’esibizione di una certa superiorità rispetto a quanto è inteso da tutti come un bene irrinunciabile. L’indiscutibile snobismo del creatore che si ritiene al di sopra del creato e della vita stessa traspare chiaro da un simile gesto, insieme al monito sulla vanità ultima di ogni significato attribuito al mondo e alle sue priorità. Potocki non era in miseria e il suo atto non è dovuto a contingenze assimilabili a scarso successo, povertà o frustrazioni del genere. George Byron, nobile ricco, amato e baciato dal successo, ha scelto di andare ad aiutare la Grecia a riscattarsi dai Turchi, ideale romantico che gli è valso un niente di fatto e la morte per malattia sull’isola di Missolungi. Quasi un suicidio, a volerlo guardare bene. Ma un suicidio che parla al mondo dicendo che l’arte classica e la sua cultura contano più della nobile vita di un poeta e degli agi cui avrebbe potuto abbandonarsi. Françoise Sagan è volata con l’auto per sfidare una fortuna che l’aveva vergognosamente favorita da giovanissima, offrendole un’enorme successo col primo libro e un’oltraggiosa vincita alla roulette. Sopravvissuta, si è data a un suicidio lento fatto di alcol e droga, durato una quarantina d’anni. Esprimeva l’insoddisfazione esistenziale della sentinella civile, della coscienza critica di una borghesia confusa dalla società in mutamento. L’artista è un uomo di fronte alla morte, sempre, o anche una donna. Lo scrittore Primo Levi è volato nella tromba delle scale del palazzo in cui abitava a Torino, all’età di 68 anni, e il sospetto del suicidio aleggia sull’episodio anche in considerazione dei pesanti sedimenti psicologici lasciati dalla deportazione ad Auschwitz nel 1944. La morte era comprensibilmente presente a Levi più che ad altri artisti. A rendere straordinario il gesto di Mario Monicelli è la veneranda età in cui l’atto si è consumato. Buttarsi dal quinto 17
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piano dell’ospedale a 95 anni vuol dire rifiutarsi di percorrere quell’ultimo piccolo tragitto rimanente, fatto di umiliazione, privazione dell’autonomia, dolore, decadimento estremo, abbandono. Che a quest’età un uomo sia costretto a porre fine alla propria vita in modo così cruento è motivo di dibattito, ed è giusto che lo sia. Nella serie di film intitolata Amici miei, Monicelli non ha evitato il tema della decadenza fisica e della morte, l’ha anzi affrontato con tenerezza e talvolta sarcasmo. Il testimone gli era stato passato da Pietro Germi che, affidandogli il primo film della serie prima di morire, gli aveva dato una lezione su come si muore, ridendo anche amaramente, ma ridendo per la bellezza della vita e soprattutto alla faccia della morte. È il personaggio del giornalista interpretato da Philippe Noiret a fare da voce narrante. Ed è proprio il suo personaggio a morire alla fine del film, come Germi, come i migliori e i più allegri, come Duilio Del Prete uscito anzitempo dalla serie perché sgradito al Maestro e sostituito da Renzo Montagnani, entrambi tornati al creatore ben prima del regista, come Ugo Tognazzi divenuto paralitico nella fiction prima di andarsene di fretta nella realtà, come Monicelli stesso dopo di loro, molto più tardi, così tardi da permettersi il lusso di forzare la serratura per uscire di scena un po’ in anticipo. Quasi un gesto d’impazienza dedicato agli amici. Come avesse voluto dire alla vita: «Accidenti, ti vuoi decidere a lasciarmi andare? Cosa c’è adesso, un cancro alla prostata? E io dovrei starmene qui a guardare buono buono mentre la chemio mi sfoltisce i muscoli residui e divento incapace di andare al cesso da solo?». Un toscano verace come lui, nato a Viareggio nel 1915, non poteva che prendersi questa libertà. Che poi tanto verace non era, se il critico cinematografico Giovanni Della Casa nel suo L’armata Brancaleone – Quando la commedia riscrive la storia sostiene che il regista sia nato a Roma nel quartiere Prati e che comunque nella capitale abbia passato parte dell’infanzia, prendendo da quell’ambiente molto più che dai genitori provenienti da Ostiglia, in provincia di Mantova. In Toscana ha però poi 18
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studiato, quindi lo spirito del luogo l’ha appreso eccome, e lo si vede proprio nel tono burbero e distruttore, spietato, della serie di film Amici miei. Ebbene sì, Monicelli si è preso questa libertà, poiché di libertà si tratta. Il male era incurabile e la fine sicura, per anagrafe come per diagnosi. Che si sia trattato di una zingarata o di un legittimo impulso a non veder svilita la propria integrità, al ritorno dal giro ospedaliero di terapia il regista ha compiuto il salto decisivo. Significa che lo scenario che gli si prospettava non era allettante. Lui che ha messo in scena, in chiusura di uno dei film della serie citata, una gara tra andicappati cui sarcasticamente partecipa il personaggio paraplegico interpretato da Tognazzi, non se l’è sentita di sottoporre se stesso alla medesima, patetica cattiveria. Perché di tale cattiveria egli è stato artefice e, al contempo, critico. In un’intervista rilasciata a «Vanity Fair» il 7 giugno del 2007, Monicelli afferma che preferisce vivere da solo «per rimanere vivo il più a lungo possibile». E aggiunge: «L’amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell’animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più». In questa dichiarazione c’è la ricetta della longevità del regista e pure quella della sua prontezza intellettuale, serbata fino all’ultimo. Tra le righe si può leggere l’antipatia che nutre per la dipendenza, per l’infermità, per l’autonomia distrutta da una malattia invalidante. Vi si può individuare l’annuncio della sua scelta estrema. Scrive Gabriele Romagnoli sulla medesima rivista nel dicembre del 2010: «Se a 95 anni ha preferito evitare l’agonia, la cosa insopportabile è che per farlo abbia dovuto incocciare l’asfalto». E la sua dichiarazione evoca il ricorso all’eutanasia, 19
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alla dolce morte come pietosa soluzione che l’ospedale avrebbe dovuto offrire tra i suoi servizi. Un punto di vista emotivamente condivisibile ma eticamente discutibile, come qualunque decisione intima si voglia deputare a organismi pubblici. Ci sono aree di regolamentazione della libertà umana in cui il legislatore forse non dovrebbe intervenire. Il passaggio dalla vita alla morte è questione delicata da sempre affidata all’ambito religioso, nondimeno la salvaguardia della dignità umana e l’accompagnamento all’estremo trapasso sono temi maggiormente sviluppati in nazioni nelle quali la scelta religiosa ha minore influenza. Nello stesso articolo viene riportata la frase pronunciata in Parlamento dall’onorevole dell’UDC Paola Binetti: «È stato lasciato solo, il suo è stato un gesto di solitudine, non di libertà». Ecco come nasce un dibattito civile. Due posizioni opposte prendono spunto da un fatto emblematico per disputare su un tema che riguarda tutti, la società, gli individui, l’uomo di fronte alla malattia e alla morte. È così che un artista lavora fino all’ultimo alla costruzione delle navate della cultura. Una privatissima scelta individuale diviene motivo di elaborazione intellettuale ed etica perché è un artista a sottoporla alla società sottoforma di quesito vissuto. Non essere lasciati soli in simili momenti è augurabile. È necessario però che l’interessato accetti tale compagnia e l’affermazione rilasciata dal regista nell’intervista di cui sopra parla chiaro al riguardo: non voleva gente intorno. Non la voleva per non farsi rincoglionire dalle crocerossine e, col senno di poi, per sentirsi libero di decidere quando e come andarsene, cosa che suona come un diritto naturale di difficile espropriazione. Romagnoli conclude il proprio intervento su «Vanity Fair» invocando per Monicelli un cuscino invece dell’asfalto, affidando alla morbidezza di un guanciale il compito di simboleggiare un metodo delicato offerto da qualcuno – dalle istituzioni, dall’ospedale, dal legislatore – per il passaggio all’aldilà. Un cuscino può essere usato anche per soffocare, e questo suona meno dolce di quanto si vorrebbe. Il dibattito resta dunque aperto perché il tema è spinoso e i nervi sono esposti. 20
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Quello di Mario Monicelli è un suicidio sull’orlo della vita e della morte, sull’orlo del marciapiede. Un’azione rappresentativa, simbolica, un’escursione performativa suprema, se la si osserva come il movimento ultimo di un artista la cui vita è stata dedicata alla rappresentazione, alla simbolizzazione, alla performance cinematografica. E alla risata. Si può intuire una sorta di scrollata di spalle nel suo guardarsi intorno nella stanza doppia della palazzina dell’ospedale, al ritorno dalla cura, nel suo prendere la via del vuoto senza avvisare, senza preparare nessuno. È come se Monicelli avesse girato l’ultima pellicola, stavolta interpretando il ruolo di protagonista. Il film potrebbe intitolarsi L’ultimo volo, oppure Addio, fottutissimi amici. Lui che si era lamentato di vedere i morti moltiplicarsi intorno e di dover essere il commentatore pubblico delle esequie di amici e colleghi meno longevi, lui che a tutti aveva riservato un’arguzia, una fuga dai luoghi comuni post mortem, eccedendo in cinismo piuttosto che in sentimentalismo, si è librato finalmente nel vuoto per colpire l’asfalto. Il prim’attore/regista posiziona la telecamera contro il muro, non vuole essere ripreso, e salta giù. In Italia il film esce con grande clamore. Parte della lezione che il regista ha voluto dare è stata quella di far rimpiangere i suoi epitaffi per i colleghi, di certo più vigorosi e centrati di quelli che si sono sentiti alla sua partenza. Fabio Fazio, durante la diretta della trasmissione tivù Vieni via con me, dichiara sobriamente: «Non posso andare avanti: devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c’è più». Il lungo applauso del pubblico in studio è parte dello spettacolo televisivo e avrebbe fatto piacere al Maestro, suscitando però pure un pizzico di disappunto. Il disincanto del commediografo non gli avrebbe concesso il lusso di prendersi sul serio nemmeno dopo morto, come testimonia un’altra sua dichiarazione nella medesima intervista del 2001: «Prima la commedia era spazzatura, adesso sembra che ci sia stata solo quella, prima non mi chiamava nessuno, 21
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poi hanno cominciato a chiamarmi tutti. Mi sono chiesto come mai, e l’ho scoperto: gli altri sono morti tutti». Quando muore lui, i commenti paiono davvero sbiaditi e non si capisce se sia il suicidio a sgomentare o semplicemente il ritardo con cui è arrivata la morte. L’ultima beffa inscenata dal capogruppo degli amiconi toscani si potrebbe intitolare anche Amici miei – Ennesimo atto e ha ottenuto il suo effetto dirompente. Un vecchio dovrebbe togliere il disturbo senza disturbare, così ci si aspetta nella società odierna. Deve morire di malattia, spegnersi in ospedale senza tanto strepito, prestarsi a coccodrilli garbati e a retrospettive encomiastiche. Lui invece già da anni rompeva, ostinandosi a restare in vita e a girare film. Cos’è questa mania di voler strafare fino all’ultimo! A novantun anni ha girato Le rose del deserto, poi un cortometraggio documentaristico sul suo quartiere a Roma, Vicino al Colosseo... c’è Monti, perché non si decide ad andare in pensione? Gli artisti non vanno mai in pensione, gli attori calcano le scene fino a quando una gamba li regge, i registi stanno sul set finché un produttore procura loro un set. È ora che la gente se ne accorga. Voleva “crepare sul campo”, non su una branda con fleboclisi e cannucce attaccate a un corpo sfibrato. Difficile dargli torto. Ci vuole coraggio, paura e coraggio per una scelta simile. L’idea di impersonare un protagonista in un ennesimo film potrebbe essere stata d’aiuto. Chi ha risposte etiche da dare, può tenerle per sé. Mario Monicelli ha dato la sua, per se stesso e per chi la vuol sentire. Non aveva un cattivo rapporto col suicidio, già suo padre Tomaso, giornalista e scrittore antifascista, aveva scelto di andarsene a quel modo nel 1946, ed è stato il figlio a trovarlo. Un’eredità pesante che Mario non rimprovererà mai al genitore. Forse addirittura un esempio da tener presente per il futuro. «Ho capito il suo gesto», ha dichiarato. «Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l’ho 22
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MARIO MONICELLI - LA MORTE E LA COMMEDIA
trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l’altro un bagno molto modesto». Nel commento finale sta la zampata dello sceneggiatore e regista della Commedia all’italiana. Il dettaglio sul rango del gabinetto in cui il padre giaceva morto è di un cinismo straordinario. Sposta la focalizzazione del pathos su un particolare squallido che solleva sulle labbra la smorfia di un sorriso amaro. Un Maestro anche nel commentare un evento tanto doloroso. Come nell’opera cinematografica, Monicelli non lascia spazio a sentimentalismi. Li evoca per irriderli, li chiama a raccolta e ci spara sopra una battuta prima che lo commuovano. È il suo modo di esorcizzarli. Suo padre si è tolto la vita e aveva le sue ragioni. Lui se la toglie 54 anni dopo e ne ha forse di migliori. L’ha vissuta tutta, fino in fondo, e ha deciso d’interromperla quando lei ha deciso di lasciarlo. Ha sbattuto la porta poco prima che lei, la vita, la sbattesse in faccia a lui. Peccato che non abbia lasciato un biglietto per dire com’era la camera doppia all’ospedale, o l’asfalto su cui avrebbe cozzato. Senz’altro, rispetto a lui, erano molto modesti.
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Mario Monicelli
«Si farebbe impiccare piuttosto che parlare di “ispirazione”, di “anima”, di “creatività”. Non direbbe “noi artisti” neppure sotto tortura». Suso Cecchi D’Amico
€ 14,90
Pascal Schembri
MARIO MONICELLI
«Pensavamo solo di prendere in giro in modo divertente. Solo in seguito tutto questo si sarebbe rivelato vero e anche profondo».
Pascal Schembri
Agrigentino residente a Parigi, Pascal Schembri esordisce in Italia nel 2008 con il romanzo Il miracolo di San Calogero, seguito presto dal giallo Macelleria siciliana, dopo aver pubblicato in Francia e nel Bel Paese, sotto vari pseudonimi, libri-inchiesta sulla violenza coniugale e romanzi sulla libertà sessuale e di opinione. In ambito biografico ha pubblicato lavori su Françoise Sagan, Ennio Flaiano e Marilyn Monroe, confermando la sua versatilità di scrittore in grado di alternare pamphlet, gialli psicologici e saggi lungo un percorso editoriale difficilmente ricostruibile.
La morte e la commedia
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MARIO MONICELLI La morte e la commedia
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Armando Curcio Editore
La Commedia all’italiana nasce dalle avventure che, come sceneggiatore e regista, Mario Monicelli ha saputo narrare a più generazioni grazie alla straordinaria longevità sua e delle sue opere. Da I soliti ignoti a La Grande Guerra, da L’armata Brancaleone ad Amici miei, la Commedia all’italiana ha insegnato al Paese a crescere prendendo atto dei propri difetti. Sarcasmo e blanda tenerezza, simpatia per i personaggi e riluttante affetto per il popolo preso in esame sono gli ingredienti con cui Mario Monicelli rende onore a un genere di cui ha contribuito a fare la grandezza, con semplicità e pochi fronzoli, ma con efficacia esemplare. Pascal Schembri gli rende omaggio con un ritratto affettuoso, acuto e sincero.