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LA NOVELLA DEL 1200 E DEL 1300 GIOVANNI BOCCACCIO
LA NOVELLA DEL 1400 MASUCCIO SALERNITANO
LA NOVELLA DEL 1500 MATTEO BANDELLO
LA NOVELLA DEL 1600 E DEL 1700 GIANBATTISTA BASILE
LA NOVELLA DEL 1800 E DEL 1900 LUIGI PIRANDELLO
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00 LA NOVELLA ITALIANA La novella è una breve narrazione in prosa di un fatto, reale o immaginario, che assume i caratteri di genere letterario in epoca medievale, dopo aver avuto un ruolo marginale nelle letterature classiche greco-latine. Nella letteratura italiana ha avuto fortuna in particolare nel 1300, nel 1500. Si credeva, nel secolo scorso, di dover porre nell’India la culla della novella: sembrava determinante l’influenza della letteratura indiana sulla narrativa occidentale, tramite rimaneggiamenti, rielaborazioni e trame di componimenti pervenuti dall’India. Tale ipotesi non è però più accreditata. Studi recenti sostengono che si possono distinguere due indirizzi della novella: quello mimetico e quello avventuroso. Entrambi possono essere fatti risalire alla tradizione greca (nonostante essa, come già detto, non presentasse la novella come genere letterario): da una parte ab-
biamo i «sibaritici», caratterizzati da scherzi, beffe, motti di spirito per prendersi gioco degli abitanti di Sibari e da uno svolgimento d’ambito breve; dall’altra troviamo le «favole milesie» contraddistinte da una struttura più complessa e da una trama avventurosa. Con questa differenziazione potrebbe giustificarsi, nei secoli successivi, da un lato l’allineamento, sul filone delle dimenticate sibaritiche, di gran parte del Novellino, di alcune delle boccaccesche, del Sacchetti, allineamento che attraverso la «facezia» del Bracciolini trova conclusione nella codificazione rinascimentale ed esaurimento nel 1600; dall’altro, con l’apporto cospicuo della materia cavalleresca e dell’osservazione della vita quotidiana contemporanea, l’allineamento sulla remota caratteristica milesia della grande novella decameroniana, che fisserà definitivamente il genere della novella.
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01 LA NOVELLA DEL 1200 E DEL 1300 La caratteristica delle novelle del 1200 è prima giornata, conferma tale interprela freschezza e l’originalità. L’intento tazione: i giovani protagonisti cercheprincipale della novellistica di questo pe- ranno valori di civiltà. riodo, oltre a quello di dilettare, è quello di educare, di descrivere gesti, motti e imprese sante o valorose da cui trarre adeguati modelli di comportamento. Tuttavia, accanto all’intenzione edificante, c’è la volontà di fornire un esempio diverso, calato direttamente nella realtà comunale. Il Novellino, o Le cento novelle antiche, oppure ancora il Libro del bel parlar gentile, opera di uno o forse più autori sconosciuti, nasce come risposta a un desiderio sociale di apprendimento e civilizzazione. Ma il secolo in cui la novella ha particolare fortuna è il 1300, secolo in cui Boccaccio scrive il Decameron, cioè il capolavoro assoluto della prosa italiana. È un’opera che ben lungi dal replicare, seppure superbamente, la realtà quotidiana, intende a questa contrapporre l’armonia di un mito perfetto; e dunque non la rappresentazione della vita pura e semplice era l’obiettivo del Boccaccio, ma, assai più profondamente, la definizione poetica dell’arte della vita. Rimane, nelle novelle, il duplice obiettivo di educare e divertire. Infatti anche nel Decameron, sin dal Proemio l’autore tiene a precisare la funzione di «utile consiglio» che le novelle potranno avere per chi le leggerà, non meno che quella di essere dolci e dilettevoli. La celebre descrizione della peste a Firenze, inaugurando la
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01/2 GIOVANNI BOCCACCIO Giovanni Boccaccio nacque nel 1313 a Certaldo o a Firenze e morì nel 1375 a Certaldo. Figlio di Boccaccio di Chiellino e di una serva contadina, trascorse l’infanzia insieme al padre a Firenze, nel quartiere di S. Pier Maggiore, fino al 1327, quando partì per Napoli, dove rimase fino all’età di 27 anni, per far pratica mercantile presso la filiale dei Bardi. L’esperienza non ebbe esito felice e così venne dirottato verso lo studio del diritto canonico. Qualche anno più tardi entrò alla corte angioina, dove conobbe diversi letterati. L’amicizia di questi fu decisiva per i suoi studi, infatti lasciò il diritto per le lettere. Quando il padre si recò a Parigi, Giovanni intensificò non solo la propria formazione culturale, scrivendo i primi saggi in latino (l’Elegia di Costanza e l’Allegoria mitologica), ma anche gli incontri mondani. In questa atmosfera frenetica avvenne l’incontro con la ragazza che verrà chiamata dallo scrittore Fiammetta, l’amore che più di ogni altro gli restò nella memoria. La sua prima opera in lingua italiana è Caccia a Diana del 1334. Il Filocolo è del 1336 e con esso entriamo nell’attrezzeria boccacciana. Siamo di fronte a un exploit narrativo giovanile dove emerge la vocazione alla sintesi totale e grandiosa. Poema eroico è invece Teseida delle nozze d’Emilia, dedicato a Fiammetta. Nel 1340 torna, con molto rimpianto, a Firenze. In questo periodo maturò la sua arte attraverso uno studio più attento e meno evasivo della realtà. Dal 1340 al 1348, anno della peste nera, sembrò tentato dalla vita di corte: si recò a Ravenna presso Ostagio da Polenta, a Forlì ospite
di Francesco Ordelaffi. Nel 1346 scrisse il Ninfale fiesolano, l’opera forse più viva, fra le giovanili, per varietà di espressione e tono. La peste del 1348 lo lasciò solo, avendo colpito il padre e la seconda moglie, Bice Baroncelli. In meno di due anni, però, scrisse le cento fatidiche novelle che compongono il Decameron, suo capolavoro assoluto e definito una grandiosa summa della novellistica medievale. Compone in un’unica cornice cento novelle, la cui narrazione s’immagina fatta, nel corso di dieci giornate, in una villa delle colline fiesolane, rifugio di dieci persone dalla peste che infuria in città. Il significato storico dell’opera è grande, ma ancora di più è quello letterario e artistico. A 38 anni, dopo la stesura del Decameron, lo scrittore sembrava come svuotato Eppure prese parte attiva nella vita anche politica di Firenze, nominato ambasciatore del Comune ed inviato in missioni diplomatiche. L’anno prima era stato lui a consegnare 10 fiorini d’oro a suor Beatrice, la figlia di Dante. Poi trattò in qualità di Camerlengo la cessione di Prato a Firenze, recandosi ad Avignone presso Innocenzo VI. Inutilmente uscì allo scoperto, sotto i raggi roventi della vita: forte fu la delusione che prova nei due ritorni a Napoli, la città della sua giovinezza. Tornò a Firenze e qui la sua casa divenne un circolo di letterati in un’atmosfera conviviale da cenacolo rinascimentale. Questo periodo di ripiegamento interiore fu caratterizzato dalla grande amicizia con Petrarca: scambi di libri e lettere ne attestano l’intensità. Il culto di Dante, venerato come
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un maestro sin dagli anni giovanili, venne approfondito attraverso la stesura del Trattatello e soprattutto del Comento alla Divina Commedia. Fioccavano intanto le opere erudite in latino, ma in questa lunga, declinante vecchiaia, tormentata da difficoltà fisiche ed economiche, troviamo anche l’ultima opera scritta in volgare, quel Corbaccio, di in-
certa datazione, definito come il ghigno canagliesco di un vecchio maestro. I versi più belli li scrisse però, quando scomparve il suo amico Petrarca. Leggendoli ci rendiamo conto che il crudo risentimento del Corbaccio è decisamente sorpassato. Petrarca morì nel 1374. Un anno dopo, il 21 dicembre, anche Boccaccio lo raggiungeva.
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02 LA NOVELLA DEL 1400 Nell’Italia delle Signorie l’intellettuale non ha pi˘ un doppio mestiere ed Ë costretto a lavorare a tempo pieno: coinvolto, non solo materialmente, in questa nuova realt‡, finir‡ di applicarsi ed esplicarsi pi˘ in termini saggistici che poetici o narrativi, anche nel sentimento di un nuovo equilibrio tra il proprio io e il mondo, e la natura tutta. Raccolte di facezie e motti, una ricercata casualit‡ nell’organizzare i materiali, il tono apparentemente minore sembrano, pi˘ che narrare una storia, riportare e quasi commentare un aneddoto, giocando tutto su un detto, una risposta, una trovata intellettuale e tali sono, in senso creativo e agonistico, certe beffe vere e inventate, che tanta sostanza daranno al teatro del secolo seguente, e ora
producono la Novella del Grasso legnaiuolo, anonima, che narra la burla del secolo e prende il nome dal malcapitato a cui Ë giocato il brutto tiro. La Novella del Grasso legnaiuolo d‡ la misura della distanza del pur sempre presente, anche quando negato, modello del Boccaccio. Nell’epoca che fa da ponte tra Boccaccio e il XVI secolo, Masuccio Salernitano, la personalit‡ di maggiore spicco nella novellistica del Quattrocento, dimostra una grande libert‡ di azione rispetto al modello decameroniano; ma la tempra di Masuccio non Ë sufficiente a condizionare pi˘ di tanto, con il suo solo esempio, i narratori del secolo successivo: Boccaccio rimarr‡ il maestro col quale misurarsi.
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02/1 MASUCCIO SALERNITANO Autore del Novellino pubblicato nel 1476, dopo la sua morte, Masuccio Salernitano (vero nome Tommaso Guardati), nato a Sorrento, o forse nella stessa Salerno dove visse e fu per lunghissimo tempo al servizio del principe Roberto Sanseverino, si disse sempre ammiratore appassionato di Boccaccio. Attraverso la frequentazione delle pagine e della lingua di questi riuscÏ a creare il primo esempio insigne di prosa letteraria quattrocentesca nel mezzogiorno d’Italia, anche se saltano agli occhi certi suoi meridionalismi o crudi latinismi. Ma il suo spirito era assai diverso da quello dell’autore del Decameon: sempre serio e a labbra tirate non ha mai simpatia per le proprie creature e, quando la vena polemica Ë meno forte e sentita, la tensione
cala e la novella si fa piccola scenetta di poca autonomia. Non boccacciana Ë poi l’insistita vena antifemminile. Ma seguendo il lungo, tormentato, impegnativo tirocinio di Masuccio attraverso l’evidente evoluzione e lo sciogliersi di molti nodi e impacci linguistici col passare del tempo, tra l’inizio e la fine di questo Novellino, si scoprir‡ una voglia di sperimentare e uno stile unico, con un suo carattere di rilievo non solo per la prosa meridionale dell’epoca, che sarebbe fiorita solo in seguito. La fantasia e il carattere dello scrittore preferiscono cosÏ le tinte drammatiche a quelle comiche che pure restano nel fondo, con effetti anche di grottesco.
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03 LA NOVELLA DEL 1500 Il Cinquecento Ë stato da taluni definito una sorta di ´terra di nessunoª per quanto concerne lo studio della novellistica. Di nessuno, ovvero ´di tuttiª; chiunque, in effetti, potrebbe trovarvi qualcosa di suo gusto da eleggere a occasione di studio e di approfondimento, tanta Ë la variet‡ di autori e di materiali che questo secolo offre. Non ci inganni il rapido colpo d’occhio lanciato sui manuali alla ricerca di nomi altisonanti: a meno di non scendere in campo con la temprata competenza dello studioso, l’elenco dei novellisti del XVI secolo offrir‡, al lettore mediamente informato, solo nomi gradevoli al suono ma di scrittori per lo pi˘ oscuri. Tra di essi, pochi grandi (forse solo il Bandello) e nessuno grandissimo. Eppure il Cinquecento Ë secolo assolutamente fondamentale nella storia della novella. L’assenza di un artista dalla statura condizionante, capace di portare a sintesi definitiva le tante questioni tecnico-teoriche impostate nei tempi precedenti ha, per contro, consentito l’accrescersi, in quantit‡, di una produzione di vasto respiro e in grado di offrire, nel suo complesso, un panorama quanto mai suggestivo del gran dibattito sviluppatosi attorno a questo particolare genere letterario, tante volte negletto. Quegli umanisti, come altri mai, seppero apprezzare, nei modi della narrazione breve, la leggerezza della forma e la sapidit‡ dei contenuti. La novella si dimostrÚ, nel Cinquecento, formula
espressiva indicatissima come dotto motivo di svago in cui far coincidere l’esercizio speculativo col rasserenarsi dell’anima. Naturalmente una disposizione tanto accentuata a deliziarsi di novelle portÚ, di necessit‡, a scriverne. Nel costume letterario allora in voga (specchio perfetto di quello sociale), la novella, dunque, si propose come il sofisticato trastullo di un’alta classe sociale sgombra di complessi e soddisfatta delle regole di vita che aveva voluto darsi. Ci riferiamo ai modi del Galateo di Monsignor Della Casa, di nuovo alle norme del Cortegiano e, pi˘ in alto ancora, alla grande visione dottrinale del Machiavelli. Inevitabile, per i novellisti di questo secolo, il confronto con i grandi modelli del passato. Col Boccaccio innanzitutto. Gi‡ il Bembo aveva individuato nel grande prosatore del Trecento un formidabile maestro sia di stile che di lingua e come tale lo aveva additato ai suoi contemporanei. Tra gli epigoni ci fu chi scelse, della lingua boccacciana, quanto in essa vi Ë di crudamente appariscente, e chi, affascinato dal grande magma semantico, preferÏ la via delle sperimentazioni sintattiche e lessicali; tentativi coraggiosi e influenzati dalle estrazioni regionali dei singoli autori.
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03/1 MATTEO BANDELLO Matteo Bandello nacque in Piemonte, a Castelnuovo Scrivia, nel 1485. Ancora fanciullo, nel ‘97, ebbe modo di conoscere a Milano Leonardo da Vinci al tempo in cui il maestro era impegnato all’affresco del Cenacolo. Agli inizi del nuovo secolo, presumibilmente nel 1505, prese i voti nell’ordine domenicano e partÏ con lo zio Vincenzo, generale dell’ordine, per un viaggio che lo condusse nell’Italia centrale e meridionale. Ben presto perÚ, in seguito alla morte del suo tutore, dovette fare ritorno a Milano impiegandosi in attivit‡ diplomatiche per conto di Alessandro Bentivoglio. Dopo un periodo mantovano, che fruttÚ alcuni dotti scritti in latino commissionati da Isabella d’Este, tornÚ con gli Sforza a Milano. Ma fu per poco; l’invasione spagnola lo costrinse a nuove fughe che gli costarono la perdita di libri preziosi e di vari suoi manoscritti. Tante peregrinazioni lo condussero prima a Verona, poi a Venezia. Nel 1536, infine, riparÚ in Francia al seguito di Cesare Fregoso, comandante del presidio veneziano, ma quando, nel 1541, questi venne assassinato da sicari di Carlo V, il Bandello, davvero senza pace, dovette ricoverare ad Agen, nella principesca dimora che il re francese aveva messo a disposizione della vedova di Fregoso. Nel 1550 divenne vescovo di quella citt‡ allo scopo di conservare la carica al giovane Ettore Fregoso che per ragioni di et‡ non poteva assumerla. Nel 1554 apparvero a Lucca Le tre parti delle novelle del Bandello. La quarta uscÏ postuma nel 1573, quando Bandello era morto gi‡ da dodici anni, nel ‘61, ad Agen.
Come si vede, una vita non certo priva di peripezie e che, eccezion fatta per l’ultimo periodo, quello francese, non consentÏ mai una pausa nÈ la possibilit‡ di stabilire in alcun luogo solide radici. Il Bandello non schivÚ praticamente nessuno dei grandi eventi storici occorsi nei suoi anni. » un dato, questo, assai importante per inquadrare la particolare figura di artista che egli si trovÚ a incarnare. » un fatto che l’arte del Bandello ci appaia realmente nutrita di una componente affettiva molto forte, di una commossa partecipazione alle vicende umane che Ë requisito assai raro negli scrittori del secolo, pi˘ suscettibili ai dogmi della bella letteratura che ai moti dell’anima. Valga ad esempio la novella di Giulia da Gazuolo in cui si racconta la patetica vicenda di una contadinella che, non riuscendo a sopportare la vergogna dell’oltraggio subito da un bruto, si uccide. Egli ebbe a cuore di non sciupare una sola sillaba di quanto, nel corso della sua movimentata esistenza, gli fu dato di apprendere, di tesaurizzare e di rimettere, quindi, in circolazione attraverso la scrittura. La cifra naturalistica che tutti i critici concordemente individuano nella sua opera ha proprio questa ragion d’essere; e nemmeno che sia l’unico suo stilema di forte rilievo: molte prospettive si offrono a chi voglia indagare nelle pagine del Novelliere. Il Bandello fu, ad esempio, un formidabile perlustratore delle passioni umane; quella amorosa, in particolare, Ë evocata spesso come causa scatenante di dolorosi e bellissimi impeti drammatici. Una vera e propria corrente tragica percorre gran parte della rac-
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colta, ma senza mai che ne scapiti la lettura psicologica dei diversi personaggi. Se molti hanno visto nel Bandello uno scrittore di robusta tempra ma sostanzialmente estemporaneo nello stile, poco levigato e colto, questo fu un inganno che si deve in gran parte al Bandello stesso, il quale, con le sue tante professioni di ignoranza, offrÏ il pi˘ facile degli argomenti detrattivi all’ingenerosit‡ dei contemporanei prima e degli storici poi. Certo, anch’egli dovette pagare i suoi tributi a qualche predecessore: al Sacchetti, per cominciare, e poi a Masuccio Salernitano. Da quest’ultimo riprese l’argomento da cui derivÚ la storia di Romeo e Giulietta; come gi‡ aveva fatto Luigi Da Porto. CiÚ detto, grandioso, nella globalit‡ del libro, Ë il panorama affrescato dal Bandello: per la variet‡ dei temi e per la vasta gamma di virt˘ stilistiche esibite. All’acutezza dell’analisi psicologica si aggiunga il vigore con cui sono ritratti ambienti, citt‡ e paesi e l’arguzia con cui viene scrutata la vita quotidiana nei suoi elementi pi˘ spiccioli. La parola di questo ispirato domenicano sembra, a tratti, frugare negli angoli pi˘ riposti del visibile, del narrabile, cercando ovunque occasioni di scrittura. Come quando ci raffigura, con appassionata capacit‡, un interno domestico eletto a livello d’arte: Le alterne fortune critiche toccate nei tempi scorsi al Bandello non hanno impedito a questo autore di emergere definitivamente, alla luce di un giudizio infine unanime, come il pi˘ importante novelliere del XVI secolo. Gli si riconosce ormai di avere dato alle nostre lettere nuovi modi narrativi, nuove invenzioni
drammatiche la cui suggestione ha saputo stimolare, nei secoli, l’estro di molti artisti; e non solo italiani. Basti dire, in conclusione, che a contrarre forti debiti nei suoi confronti furono artisti come Shakespeare, Lope de Vega e Cervantes.
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04 LA NOVELLA DEL 1600 E DEL 1700 Nel 1600 la novellistica italiana non vede una grande produzione di opere. Si deve però citare il Pentamerone, o Cunto de li cunti, di Giambattista Basile che si contrappone al Decameron di Boccaccio. L’uomo non trionfa sulla Fortuna, ma la realtà sfugge ad ogni controllo della ra-
gione, ora l’ insensato e l’imprevisto sono gli elementi essenziali al centro della storia. Ma l’opera di Basile forse si avvicina anche allo stile fiabesco. Per trovare i capolavori della novella dobbiamo guardare fuori dall’Italia: M. de Cervantes, con le Novelle esemplari
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(1613); J. De La Fontaine, con le Novelle in versi tratte da Boccaccio e dall’Ariosto (1665-71), testimonianza di un’interpretazione edonistica della vita; Madame de La Fayette con La principessa di Montpensier (1662), novelle sentimentali. Il Settecento, pur essendo un secolo di rin-
novamento per quanto riguarda la politica, la società, i costumi, è povero di novelle. Ne sono state scritte poche e soprattutto di interesse didattico e morale.
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04/1 GIAMBATTISTA BASILE Nato a Napoli nel 1575, Giambattista Basile, probabilmente per motivi economici, dovette abbandonare ancor giovane la sua citt‡ natale. Dopo un periodo di viaggi per tutta l’Italia, si arruolÚ nelle milizie della Repubblica di Venezia e venne mandato nell’isola di Candia, minacciata dai turchi. Fu poi a Corf˘ e viaggiÚ a lungo in Grecia. Tornato a Napoli nel 1608, lo scrittore potÈ dedicarsi a un’intensa attivit‡ letteraria, pubblicando tra l’altro il poemetto religioso in tre canti Il pianto della Vergine (1608), la raccolta dei Madriali et ode (Napoli 1609; Mantova 1613; Napoli 1617), la ´favola marittimaª Le avventurose disavventure (1611), le Egloghe amorose e lugubri (1612), il dramma Venere addolorata (1612) e partecipando alla fondazione dell’Accademia degli Oziosi. Nel 1612 il Basile raggiunse la sorella Adriana a Mantova ponendosi sotto la protezione del duca Vincenzo Gonzaga e incominciando cosÏ la sua vita di uomo di corte. Tornato a Napoli nel 1614 Basile portÚ a compimento diversi lavori letterari, quali la pubblicazione delle rime del Bembo, del Della Casa; di Galeazzo di Tarsia e di un volume di Osservazioni intorno alle opere del Bembo e del Della Casa (1618). Accanto al lavoro letterario si svolgeva anche la sua attivit‡ di uomo di corte e di governatore feudale: in tale qualit‡ Basile si recÚ a Montemarano, a Zuncoli e presso la corte dei Caracciolo ad Avellino. Dal 1621 fu governatore di Lagolibero, in Basilicata. Tornato a Napoli, Basile attese alla composizione del poema Teagene, pubblicato postumo a
Roma nel 1637, che Ë una mediocre versificazione delle Etiopiche di Eliodoro. Passato al servizio del vicerÈ Antonio Alvarez di Toledo, duca d’Alba, lo scrittore, che aveva acquistato un piccolo feudo ed era divenuto conte di Turone, fu nominato governatore di Aversa. Dal 1631 fu governatore di Giugliano, nei pressi di Napoli, e qui, nel corso di un’epidemia di influenza, morÏ il 23 febbraio 1632. I due capolavori del Basile, Lo cunto de li cunti e Le Muse napolitane, le due grandi opere in dialetto napoletano, furono pubblicati postumi a Napoli, entrambi sotto lo pseudonimo di Gian Alessio Abbattutis: la prima e la seconda parte del Cunto apparvero nel 1634 presso l’editore Beltrano, la terza e la quarta nello stesso anno presso lo Scoriggio ed infine la quinta nel 1636 ancora presso il Beltrano; le Muse apparvero a Napoli nel 1635.
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05 LA NOVELLA DEL 1800 E DEL 1900 Nel 1800 la novella comincia a trasformarsi in racconto e la sua diffusione è agevolata ora dalla presenza delle riviste letterarie e popolari. L’attenzione nei testi di questo periodo, è focalizzata sulle motivazioni che muovono il comportamento dei personaggi. La novella risente in tutta Europa dell’approccio tipico del naturalismo francese, prevale quindi, una descrizione distaccata e il più possibile oggettiva della realtà. In Italia il maggior rappresentante è Giovanni Verga, con Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883). Nel 1900, dunque, la novella sembra
mutare definitivamente forma divenendo racconto. La sua diffusione è enorme in tutto il mondo. In Italia, Luigi Pirandello è il maggiore autore di novelle di questo secolo. Con le Novelle per un anno raccoglie la sua produzione novellistica fino a quel momento frammentaria. Verga e Pirandello concludono la stagione forse migliore della novellistica italiana, destinata, attraverso il «racconto», ad approfondire la ricerca analitica e lo scandaglio dell’interiorità, sia nella sfera della coscienza sia in quella del sogno e della «memoria».
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05/1 LUIGI PIRANDELLO Luigi Pirandello nasce a Girgenti (oggi Agrigento) nel 1867. La famiglia, della buona borghesia commerciale, aveva ascendenze garibaldine, Nel 1880 si trasferisce a Palermo per terminare gli studi classici e incomincia a interessarsi di filologia e letteratura. Nel 1886 si fidanza con la cugina Lina, mentre si iscrive ai corsi di Lettere della locale universit‡. L’anno successivo si trasferisce all’universit‡ di Roma, ma si vede costretto ad abbandonare l’ateneo per dei contrasti sorti con il prof. Onorato Occioni. Aveva intanto pubblicato la prima raccolta di versi. Nel 1889 parte per Bonn, e si iscrive a quella universit‡. Conosce una ragazza, Jenny Schulz-Lander, e se ne innamora, dedicandole la seconda raccolta di versi. Il 21 marzo 1891 si laurea con una tesi intitolata Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti. Nel 1893 ritorna a Roma, dove conosce Luigi Capuana che lo guida nei primi contatti col mondo letterario e artistico della capitale. Stringe amicizia con Ugo Fleres, Ugo Ojetti e altri. Nell’estate del 1893, dietro suggerimento di Capuana, scrive il primo romanzo, L’esclusa. Nel 1894 sposa ad Agrigento Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio del padre, e si stabilisce a Roma con la moglie. Il turno, suo secondo romanzo, Ë del 1895. Nel 1903 inizia un periodo molto difficile per Pirandello: una frana distrugge la miniera di zolfo del padre, in cui era investita anche la dote della moglie, che da quel momento incomincer‡ a dar segni di squilibrio. Egli Ë costretto a insegnare e a dare lezioni private, e a chie-
dere dei compensi per gli scritti pubblicati. Di questo periodo Ë la nascita del Fu Mattia Pascal, che gode di un buon successo. In questi stessi anni si infittiscono le produzioni teatrali: fra il 1910 e il 1920 compone l’atto unico La morsa e Lumie di Sicilia; fecondissimo Ë soprattutto il biennio 1916-17 in cui Pirandello licenzia Liol‡, Pensaci Giacomino!, La giara, Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, CosÏ Ë (se vi pare), Il piacere dell’onest‡. Nel 1921, con l’andata in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore, si ha l’affermazione a livello mondiale. L’editore Bemporad ristampa Il fu Mattia Pascal. Prosegue intanto la pubblicazione delle Novelle per un anno. L’anno succesivo, 1922, va in scena l’Enrico IV: Ë la consacrazione definitiva. Nel 1923 Pirandello compir‡ il primo viaggio all’estero ´per ragioni d’arteª. A Parigi i PitoËff portano al trionfo i Sei personaggi. La commedia Ë rappresentata a Cracovia, a Praga, ad Amsterdam, a Varsavia, a Barcellona e a New York. Nel 1925 avviene un mutamento importante nella vita dell’autore. Un gruppo di giovani scrittori fonda a Roma un teatro e Pirandello ne assume la direzione artistica. Negli anni fra il ‘25 e il ‘28 egli dirige pi˘ di cinquanta spettacoli, su testi propri o di altri. Le rappresentazioni avvenivano alla Sala Odescalchi. Dopo due mesi e mezzo di recite, la Compagnia del Teatro d’Arte (in cui figuravano Ruggero Ruggeri, Marta Abba e Lamberto Picasso) debutta al New Oxford Theatre di Londra. Si rappresentano CosÏ Ë (se vi pare), Vestire gli ignudi, Enrico IV, Sei
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personaggi in cerca d’autore. In tutto il mondo si rappresenta Pirandello, e non soltanto i Sei personaggi. Nel 1927 anche l’opera narrativa incomincia ad affermarsi all’estero, e vengono tradotti romanzi e novelle. Egli continua a lavorare senza sosta. Nel 1929 Ë chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia, di nuova istituzione. Nel 1930 trionfano Questa sera si recita a soggetto a Kˆnigsberg e Come tu mi vuoi a Milano con Marta Abba protagonista. Nel 1932 sempre Marta Abba rappresenta Tro-
varsi a Napoli. Nel 1934 Pirandello viene insignito del premio Nobel. Va menzionata, nella sua biografia, una pubblica adesione al fascismo, che non condizionÚ mai, perÚ, la sua attivit‡ di scrittore. Mentre detta i dialoghi di una nuova riduzione cinematografica del Fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite e muore la mattina del 10 dicembre 1936 nella casa romana di Via Antonio Bosio, lasciando incompiuta l’ultima opera, I giganti della montagna.
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