Piccoli teppisti crescono

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In oltre venti storie di adolescenti, si ricercano le motivazioni che possono portare i ragazzi a diventare bulli o, al contrario, vittime. Illustrando le principali teorie dello sviluppo sociale, l’autrice vuole stimolare la riflessione per trovare le soluzioni ai problemi causati da quegli errori educativi che – in buona fede – insegnanti e genitori compiono. Il testo diventa allora una sorta di biografia di tanti, tra ragazzi, docenti e genitori, protagonisti della vita di città italiane di provincia. Interessanti le testimonianze di coloro che, in passato “teppisti”, si sono poi ravveduti, fondando associazioni per la tutela delle vittime di bullismo. Un fenomeno, questo, tipico della natura umana, ma che si può e si deve arginare. Per il bene di tutti.

ANNUNZIATA BRANDONI

Annunziata Brandoni, pedagogista, docente e dirigente scolastica, è da sempre attenta al disagio giovanile e al complesso fenomeno del bullismo. Ha collaborato con il MIUR in progetti scolastici europei e tiene corsi di aggiornamento per insegnanti, genitori e personale della scuola. Ha all’attivo due volumi che propongono un nuovo modello di insegnamento: L’isola che non c’è? Alla ricerca della scuola ideale (Albatros-Il Filo, 2011); 150 anni di Italia e di storia della scuola pubblica, quest’ultimo scritto con il collega Alfio Trucchia e il professor Alessandro Saracini (Centro studi storici Castelfidardo, 2012).

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ANNUNZIATA BRANDONI

Piccoli teppisti crescono Storie di ragazzi e violenza

Armando Curcio Editore


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NEW MINDS I Edizione settembre 2013 Š 2013 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma www.armandocurcioeditore.it www.curciostore.com info@armandocurcioeditore.it ISBN 978-88-97508-76-2

Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.


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Ai colleghi, ai docenti, ai genitori e a tutti coloro che hanno condiviso con me la preoccupazione per la progressiva perdita di capacità educativa della società e delle sue istituzioni. A tutti i ragazzi che ho conosciuto nel mio mezzo secolo di vita nella e per la scuola: a quelli che mi hanno fatto perdere la speranza e a quelli che me l’hanno, per fortuna, restituita.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male! Giovanni Pascoli, X agosto (Myricae)


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Indice

Premessa

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Parte prima. Storie di teppisti e bulli annunciati

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Introduzione

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Uno sguardo alle teorie della socializzazione

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Capitolo 1. Vandali e teppisti del lungomare 1.1 Dal diario di una maestra 1.2 Andrea 1.3 Erika 1.4 Erikson 1.5 Giorgio, il romano

27 27 30 40 48 54

Capitolo 2. Bulli e prepotenti a scuola 2.1 Steven 2.2 Roberto 2.3 Diana (il bullismo al femminile) 2.4 Louis, l’ispanico

65 68 76 81 88

Capitolo 3. La città violenta 3.1 Helyos e il desiderio di soldi facili 3.2 Pietro, l’ultrà della Curva sud 3.3 Le dark ladies di periferia

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Parte seconda. Storie di vittime e di ragazzi che hannoscelto di ritornare sulla retta via 129 Introduzione

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Capitolo 4. Dalla parte delle vittime 4.1 Renzo, una storia devastante di fine millennio 4.2 Claudia e i cyberbulli 4.3 Gli sfigati, i fighi e i ragazzi d’argilla

133 133 145 161

Capitolo 5. Ma qualcuno si è salvato per tempo 5.1 Nico 5.2 Viktor e il pallone 5.3 Pierluca, il «Nuvolari» con l’ape 5.4 Adua, la vita che nasce dalla vita

173 173 186 202 215

Conclusioni

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Premessa

Teppismo, vandalismo, bullismo: questi termini fanno ormai parte del nostro vocabolario quotidiano, tanto che ci stiamo purtroppo abituando a essi. Tutti i giorni la cronaca televisiva e giornalistica riporta, infatti, episodi di violenza gratuita che vedono protagonisti adolescenti e giovani di tutte le classi sociali e queste notizie ormai non ci colpiscono più di tanto. Alla rabbia suscitata da atti di particolare gravità subentra, nell’arco della stessa giornata, un’anomala rassegnazione: «Cosa possiamo farci? I giovani di oggi sono così! In fondo, non sono cattivi!». E giù a trovare giustificazioni! Ma è giusto giustificare sempre e comunque? O, al contrario, condannare senza appello? La tematica è molto complessa e merita un’analisi approfondita, come pure un approccio che guardi al problema da diversi punti di vista. Questo lavoro non ha l’ambizione di essere un trattato esaustivo sull’argomento, ma vuole affrontarlo attraverso tante storie vere e verosimili di ragazzi che teppisti sono diventati loro

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malgrado, avendo avuto la sfortuna di incontrare sul loro cammino le condizioni favorevoli per uscire da quella che noi adulti consideriamo la retta via. Da bambini ribelli e difficili a giovani delinquenti: il passo è breve, il destino già segnato! Ma non c’è proprio nulla da fare? Molte persone vedono un’unica possibilità di intervento: condannare e punire. Anche per distogliere altri ragazzi dall’imitazione di comportamenti socialmente riprovevoli. Molte, invece, puntano sull’educazione e sulla prevenzione e, quando certe azioni sono già state compiute, sul recupero, sulla rieducazione dei giovani teppisti. Possibilmente all’interno dello stesso contesto che li ha visti protagonisti della violenza. Senza allontanarli dalla famiglia, dalla scuola o dal gruppo dei pari, ambienti in cui i comportamenti devianti affondano le loro radici o si sono consolidati. Avendo conosciuto per il mio lavoro (insegnante prima e dirigente scolastico poi) tanti ragazzi e le loro famiglie e avendo toccato con mano i risultati di interventi che si sono mossi verso l’una o l’altra direzione, vorrei sollecitare, sempre attraverso le storie, una opportuna riflessione sulle diverse possibilità di intervento, senza la pretesa di trovare la soluzione ottimale per tutti i casi di devianza, essendo convinta che ogni storia è un caso a sé e, proprio per questo, merita un’attenta analisi e un’accurata valutazione prima che sia presa qualsiasi decisione. Una scelta affrettata può rivelarsi sbagliata e provocare danni irrimediabili. La prima parte del mio lavoro inizia con un’introduzione che cerca di riassumere quanto oggi conosciamo relativamente ai meccanismi che regolano la crescita dell’individuo in età evolutiva, con un succinto esame delle diverse teorie sull’argomento. Poi prosegue raccontando storie di ragazzi che si sono perduti. Ragazzi che, fin da bambini, hanno mostrato i sintomi di un disagio a cui nessuno ha attribuito una grande importanza e che, sotto i nostri occhi distratti, si è trasformato in una rabbia

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interiore, esplosa in una violenza cieca. Contro tutto e contro tutti. Così i vandali e i teppisti di oggi sono cresciuti in mezzo a noi e non li abbiamo riconosciuti per tempo! La seconda parte presenta storie di vittime designate, ragazzi e ragazze che hanno subito violenza e hanno, per questo, modificato la loro percezione del mondo e, soprattutto, hanno sepolto per sempre i loro sogni e le loro speranze giovanili. Anche se qualcuno, pur con tanta fatica, è stato capace di ritrovare la fiducia nella vita e negli altri. Di seguito, sono raccontate storie di ragazzi destinati a incrementare il numero dei delinquenti di casa nostra e che, invece, sono diventati bravi giovani, perché sono riusciti a riprendere in mano la propria vita. Queste ultime sono le storie che ci fanno sentire meglio, che fanno rinascere la speranza che non tutto è perduto. Attraverso tutte queste storie cercherò di individuare i fattori che hanno portato a conclusioni simili o, all’opposto, differenti, pur nella convinzione che il fattore principale è l’uomo, con la sua possibilità di scegliere il bene o il male. Per sé e per gli altri.

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Parte prima. Storie di teppisti e bulli annunciati

A sé videro nuovi occhi, cipigli non più veduti, e l’uno e l’altro, esangue, ne’ tenui diti si trovò gli artigli, e in cuore un’acre bramosia di sangue, e lo videro fuori, essi, i fratelli, l’un dell’altro per il volto, il sangue!

Giovanni Pascoli, I due fanciulli, Primi Poemetti

Introduzione Qualsiasi discorso sulla devianza giovanile non può non far riferimento al processo di socializzazione che interessa tutti gli individui dal momento della nascita all’età adulta. Il termine stesso «devianza» indica un discostarsi, più o meno accentuato, dal normale percorso di crescita sociale della persona, percorso che implica il raggiungimento di determinate capacità di interazione con le figure parentali, i pari, i docenti e tutto l’ambiente socioculturale di appartenenza, come pure la maturazione di comportamenti socialmente accettabili da questi. Quando la devianza si manifesta, significa che il normale percorso della socializzazione si è interrotto, portando l’individuo a maturare comportamenti che siamo soliti definire «asociali». L’interruzione di tale processo non può però avvenire d’improvviso. Occorre allora ripercorrere a ritroso tutto il cammino per

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cercare di individuare dove e quando è avvenuta l’iniziale uscita dalle righe che, non corretta per tempo, ha portato al graduale accentuarsi del divario fra comportamento sociale e asociale. Non voglio, infatti, credere che si nasca violenti, che teppisti e bulli vengano al mondo già predestinati a essere tali. Nonostante le diversità di temperamento – e questo sì innato, geneticamente determinato –, il carattere di ogni persona si forma nell’interazione con le figure parentali prima e con quelle del più ampio contesto di vita poi. Non sempre, purtroppo, la relazione con tali figure è positiva per una crescita armonica della persona, per cui, soprattutto nel caso in cui le interazioni negative avvengano in diversi contesti, il processo di socializzazione si interrompe e inizia la devianza vera e propria, a volte recuperabile con i normali mezzi educativi, ma altre volte irreversibile se non si ricorre a mezzi e strategie speciali, quali, ad esempio, l’accoglienza in case-famiglia o in comunità di recupero, per non parlare del carcere minorile, vera e propria ultima spiaggia. È allora importante per i genitori e per chiunque si occupi di educazione, come pure per i nostri decisori politici, per i direttori di reti televisive e per chi crea programmi per il PC e i suoi nuovi «fratelli», comprendere come avviene il processo di socializzazione attraverso la conoscenza delle più note teorie al riguardo che, pur partendo a volte da presupposti diversi, giungono alla stessa conclusione, e cioè all’affermazione dell’importanza delle figure di riferimento e dei contesti di vita nel processo di maturazione della persona. In pratica, si diventa e non si nasce asociali. I piccoli e grandi teppisti, i bulli e bulletti che alimentano la cronaca nera crescono in mezzo a noi, aiutati dalla nostra superficialità e dal nostro egoismo. Non sono visti e ascoltati, se non quando commettono qualcosa di molto grave. Sono lì,

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accanto a noi adulti, con la loro rabbia o la loro debolezza. Pronti a colpire per acquisire visibilità . Noi ci accorgiamo di loro quando è troppo tardi!

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Uno sguardo alle teorie della socializzazione

Nella storia della psicologia, numerose sono le teorie relative allo sviluppo sociale dell’individuo, generalmente correlate con quelle dello sviluppo affettivo e morale. Dalla nota diatriba tra gli studi cosiddetti innatisti (secondo cui l’individuo diviene in base al suo patrimonio genetico) e quelli ambientalisti (per i quali, al contrario, è l’ambiente che struttura lo sviluppo), si può rilevare come, pur nella profonda differenza di impostazione, ci sia una costante nelle conclusioni di entrambi gli «schieramenti»: si dà, infatti, per scontata una netta contrapposizione tra le istanze dell’individuo e quelle dell’ambiente. Tra le due teorie contrapposte, negli anni Cinquanta compare sulla scena degli studi psicologici un terzo approccio alla comprensione dello sviluppo del bambino, un approccio che non vede più in termini di contrapposizione i fattori esperenziali e quelli ereditari, intendendoli invece come elementi interagenti fra loro. Jean Piaget, studioso e ricercatore svizzero della Psicologia

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dello sviluppo (1896-1980), ipotizza una stretta interazione fra la componente genetica e quella ambientale. Secondo l’illustre studioso, il bambino viene al mondo dotato di un patrimonio innato che gli permette, già alla nascita, di interagire con l’ambiente circostante. Perché ci sia la crescita occorre però che l’ambiente offra sempre nuove occasioni, affinché il piccino non solo utilizzi i riflessi innati, assimilando gli schemi secondo cui si manifestano, ma arrivi a modificarli quando questi si rivelino insufficienti a dare risposte alle nuove richieste che gli pervengono, raggiungendo ogni volta un nuovo equilibrio con l’ambiente. Equilibrio che si spezza in continuazione, perché l’ambiente presenta sempre nuovi problemi da risolvere, stimolando il bambino alla continua ricerca dei necessari adattamenti. Ciò che accomuna tutte queste teorie, al di là delle differenze di fondo, è la visione di un bambino geneticamente o socialmente determinato. Modellato dal suo DNA o dall’ambiente in cui vive. O, come nel terzo caso, dall’interazione tra questi. Negli anni Settanta, nuove ricerche descrivono un bambino che non è solo influenzato dall’ambiente, ma che lo influenza a sua volta. L’esponente principale di tale teoria, definita interattivo-costruzionista, è H. Rudolph Schaffer. Nel 1975, esce il suo testo Social development in infancy, in cui egli parla di sviluppo come di una «impresa congiunta» che coinvolge sia il bambino sia chi se ne prende cura, come pure tutto l’ambiente sociale in cui cresce. In tale ottica, la maturazione sarebbe non il prodotto finale dell’interazione tra l’individuo e il suo contesto, bensì un processo continuo, che nel suo svolgersi modifica entrambi. Tale approccio è anche alla base degli studi di Bowlby, il quale, nel 1951, in Maternal care and mental health scrive che nello sviluppo socio-affettivo non possiamo solo considerare il comportamento della madre come causa delle risposte del neonato, ma dobbiamo prestare attenzione anche a queste, perché a loro volta modificano il comportamento materno. Basti pensare a

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come reagisce una madre di fronte a un figlio che ha l’espressione felice quando lei lo allatta, rinforzando così il suo senso di adeguatezza al ruolo, o che invece piange in continuazione, rifiutando il latte e mettendo così in crisi la sua convinzione di essere una buona madre. Non parliamo poi del rapporto tra coniugi. Una famiglia in crisi, che si sta avviando a una separazione più o meno consensuale o che è già arrivata al divorzio, non è spesso nella condizione migliore per garantire al bambino quell’ambiente familiare sereno di cui ha bisogno. Su tutto poi ricade l’influenza dell’ambiente socio-culturale di appartenenza. Genitori con difficoltà economiche, senza un lavoro stabile, senza una famiglia alle spalle che li può aiutare non solo economicamente, ma anche nella cura dei bambini, sono generalmente nervosi, ansiosi, pessimisti, per cui il loro stato d’animo non può non incidere sul modo di rapportarsi con i figli. La stessa cosa possiamo dire per quanto riguarda la cultura di appartenenza. Ci sono culture che diffondono modelli parentali impostati sul concetto di libertà di crescita del bambino, per cui i genitori non seguono regole precise, neanche per l’allattamento. Il neonato viene nutrito non a orari fissi, ma quando lo richiede con il pianto e altri segnali. La stessa convinzione determina il rapporto con il bambino prima e l’adolescente poi. Nessuna regola imposta. Nessun rimprovero di fronte a capricci di ogni genere. Il genitore, invece di impersonare l’autorità, si presenta come figura amica e complice, pronta a giustificare sempre, anche quando il figlio ne combina di tutti i colori. Altri modelli culturali presentano, all’opposto, figure genitoriali autoritarie, che danno regole e ne pretendono il rispetto, senza cercarne la condivisione e senza lasciare libertà di scelta ai figli. In tali contesti, molto spesso emerge anche un atteggiamento di iperprotezione, che impedisce ai bambini di responsabilizzarsi.

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C’è poi da considerare l’influenza della società in genere, dei suoi valori, dei suoi modelli di vita. In una società in cui prevalgono figure di leader politici litigiosi, che conquistano la propria leadership con la prepotenza e, spesso, con intrecci più o meno evidenti con il malaffare, i comportamenti improntati alla correttezza, alla solidarietà, all’aiuto reciproco, alla collaborazione e all’amore non hanno spazio sui media. Non vanno di moda. Non possiamo, inoltre, non prendere in considerazione l’influenza degli stessi media e, da ultimo, del personal computer, che, al di là dell’aggettivo «social» che accompagna i programmi più diffusi (Facebook, Twitter…), induce l’individuo a rinchiudersi sempre più in un mondo virtuale, isolandosi dal contesto reale, dalla vita vera. Secondo quest’ultima teoria, dunque, il bambino nasce con capacità sociali allo stato potenziale, che gli permettono di rapportarsi agli altri, di fare previsioni, anticipando quale sarà il comportamento dell’adulto o del compagno per preparare la sua risposta. Ciò sarà possibile se riuscirà a individuare, negli altrui comportamenti, regolarità e schemi che gli danno sicurezza. Quando tale regolarità non è presente e gli schemi di riferimento sono difficilmente individuabili, il bambino non riesce a percepire costanti e regole, per cui le sue capacità potenziali non trovano un ambiente adatto perché emergano e si esercitino, trasformandosi in abilità e competenze. Lo stesso Piaget aveva sottolineato la necessità di regole provenienti dall’esterno, in primis dalla famiglia, perché il bambino possa superare la fase di anomia morale (mancanza di regole e norme etiche alla nascita e fino ai tre anni circa) e conquistare l’autonomia, ossia la capacità di accettare, condividere e darsi regole di comportamento, come pure di individuare il bene e il male nelle proprie e altrui azioni. Gli esponenti dell’approccio costruzionista oggi usano il termine scaffolding (impalcatura) per descrivere i contesti strutturati

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di cui il bambino ha bisogno per uno sviluppo sociale adeguato. E l’impalcatura deve essere creata dagli adulti allo scopo di facilitare i bambini nell’applicazione delle abilità che vengono, man mano, maturando attraverso l’esperienza diretta. L’impalcatura costruita dall’adulto sorregge il bambino nelle prime fasi del suo percorso evolutivo e diviene, via via, meno necessaria, man mano che questi mostra di sapersela cavare da solo, perché ha interiorizzato regole e valori della convivenza civile. Nella prima infanzia, lo scaffolding sarà quello costruito dalla famiglia. A esso si aggiungerà quello curato dalla scuola e dalle altre agenzie educative operanti sul territorio. L’importante è che tali impalcature siano coerenti fra di loro, capaci di integrarsi, altrimenti al bambino arrivano messaggi contrastanti e ciò gli creerebbe solo confusione. Sono recenti poi gli studi sulle differenze comportamentali dei soggetti in età evolutiva rispetto ai comportamenti adulti, differenze dovute ai diversi livelli di maturazione della corteccia cerebrale. Lo sviluppo del cervello umano, infatti, secondo i ricercatori del National Institute of mental Health, segue diverse fasi. Ad esempio, la materia grigia si sviluppa sulla superficie corticale tra i cinque e i venti anni, per cui le reazioni cognitive di un teenager sono diverse da quelle di un adulto. In particolare, le regioni corticali che maturano per ultime, quindi verso i venti anni, sono quelle collegate a funzioni complesse, come pianificare, riflettere e controllare gli impulsi. Anche se qualche volta gli adolescenti possono dimostrare un controllo cognitivo analogo a quello degli adulti, questo però avviene sfruttando al massimo la parte di corteccia prefrontale preposta all’autocontrollo, mentre l’adulto chiama in aiuto anche altre zone della corteccia, evitando di sovraccaricare una stessa zona. Il sovraccarico induce stress e, in tal caso, il centro cerebrale delle decisioni di un teenager può risultare talmente sovraccaricato da

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comprometterne le normali funzioni cognitive. Questo spiegherebbe molti comportamenti impulsivi tipici degli adolescenti. Quand’anche si sposi quest’ultima teoria, bisogna comunque riconoscere il ruolo dell’ambiente e dell’apprendimento nello sviluppo dei comportamenti sociali. In ogni caso, lo scaffolding, se solido e motivato, può modificare i comportamenti impulsivi dei teenager, offrendo loro il necessario sostegno, almeno fino a quando la zona corticale preposta all’autocontrollo non sia matura. Ad esempio, i genitori non dovrebbero regalare auto potenti ai figli diciottenni perché, di fronte a un imprevisto, questi non riescono a controllare perfettamente le loro reazioni, potendo provocare incidenti. Tanto più se sono sotto l’effetto di alcolici e sostanze stupefacenti che rendono ancora più difficile il controllo. Essendo la corteccia dei teenager non ancora completamente matura, l’effetto di alcol e droga è devastante! Purtroppo, l’abuso di tali sostanze è non solo in aumento, ma diventa sempre più diffuso tra giovanissimi lasciati liberi dai genitori, che credono che i figli siano già maturi per scegliere e decidere della loro vita. Dagli ultimi studi, emerge dunque che il bambino si trova a vivere una situazione di continuo apprendistato, durante il quale è chiamato a usare tutta la sua dotazione nativa per imparare modalità di interazione con gli altri e con l’ambiente in genere sempre più appropriate ed efficaci, individuando i principi di funzionamento del mondo interpersonale, le regole più o meno esplicite a esso sottese, e derivandone le conoscenze che saranno alla base di quelle abilità e competenze sociali, che gli permetteranno di vivere bene con gli altri, in tutti i contesti di vita. Non solo differenze nelle impalcature approntate dagli adulti, o non approntate, ma anche differenze individuali possono portare a esiti non identici. I modi di comunicare delle persone, ad esempio, i loro caratteri (che si costruiscono a partire dal temperamento di

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ciascuno) e le loro esperienze pregresse fanno la differenza. Non c’è dunque una legge dello sviluppo sociale uguale per tutti, che riesce a far prevedere in maniera certa in quali direzioni e in quali modi esso si svolgerà, anche se possiamo individuare delle costanti che possono aiutarci a capire. Capire per cambiare, quando ci rendiamo conto che il nostro comportamento, gli atteggiamenti, le aspettative e anche le parole, gli sguardi e i gesti possono avere un’influenza negativa su quel bambino che potrà diventare una brava persona, rispettosa delle regole e con valori veri che danno un senso alla sua esistenza, o un essere violento, incapace di assumere il punto di vista dell’altro, di anteporre l’interesse altrui al proprio, senza un’etica morale, per il quale la legge esiste solo per essere infranta. Tra le costanti che possiamo individuare nello sviluppo sociale umano c’è, senza dubbio, la capacità del bambino di utilizzare diversi codici di comunicazione (verbale e non). Tale capacità è in parte innata, in parte appresa dalle interazioni con figure adulte significative. Una madre che usa poco tali codici non ne favorisce l’apprendimento da parte del piccolo. Al di là della capacità di usare registri appropriati, nello sviluppo sociale è fondamentale anche quella di essere disponibili a ricevere ciò che ci comunicano gli altri. Il dialogo, che presuppone la capacità di ascolto, è alla base dell’interazione. Chi lavora nella scuola sa benissimo che molti comportamenti aggressivi dei bambini dipendono, spesso, dal fatto che essi non riescono a comunicare i loro bisogni per cause che possono essere diverse: disturbi del linguaggio, afasia, timidezza eccessiva, non conoscenza della lingua parlata nel contesto… Non riuscendo a farsi capire urlano, picchiano i compagni, prendono a calci l’insegnante e si guadagnano così l’etichetta di bambini aggressivi. Con il tempo, la definizione preconcetta diventa quella di «adolescenti violenti» e, quindi, «giovani delinquenti». Con tutte le conseguenze che comporta il fatto di avere un’etichetta.

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Il soggetto in questione percepisce le aspettative che gli altri hanno elaborato nei suoi confronti, fino a convincersi di essere veramente come essi lo vedono. Una condizione che dipende essenzialmente dall’ambiente è data dalla diversa complessità e numerosità degli scambi sociali offerti al bambino. Una famiglia non ben inserita nella realtà in cui vive, con poche amicizie, offre scarse possibilità di relazione al di fuori di quelle con le figure parentali, e queste sono comunque relazioni non alla pari, tra un bambino molto piccolo e figure adulte. All’interno della famiglia vengono dunque a mancare al bambino le interazioni con i pari, indispensabili per superare gli atteggiamenti egocentrici e avviarsi al decentramento cognitivo e sociale, che permette l’assunzione di punti di vista diversi dal proprio. La numerosità delle relazioni abitua il bambino a gestire più rapporti contemporaneamente, a confrontarsi con più persone e ne favorisce l’adattamento al gruppo. Un’ulteriore costante che possiamo individuare nello sviluppo sociale è data dalla profondità dei legami che il bambino costruisce con l’altro, a partire da quello con la madre che, nel primo anno di vita, secondo Bowlby e la sua teoria dell’attaccamento, è una simbiosi vera e propria, indispensabile nei primi mesi e che costituirà la base su cui il piccino costruirà tutti i suoi rapporti, il «modello interno» per i futuri legami affettivi con i compagni prima, con il partner poi e con i figli che metterà al mondo. Tuttavia, il bambino dovrà riuscire a superare tale stato simbiotico per avviare rapporti con le altre figure del suo piccolo mondo che, via via che egli cresce, si allargherà sempre più, consentendogli di instaurare legami, più o meno profondi, con i pari e altre figure adulte. È molto importante il comportamento della madre in questa fase. Se è insicura di sé, tenderà a mostrarsi possessiva e gelosa di qualsiasi altra persona che cerchi di entrare nel rapporto esclusivo con il figlio, e questo non aiuterà di certo

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il bambino a staccarsi, seppur gradualmente, da lei per iniziare quell’esplorazione dell’ambiente che accelererà il suo sviluppo cognitivo e sociale. Se, invece, il comportamento materno favorisce il distacco, il bambino si abituerà ben presto a stare in mezzo agli altri. Svilupperà allora altri legami, seppur meno intensi perché più instabili e diffusi, come quelli con i pari, favoriti dal gioco e dal lavoro di gruppo, con gli insegnanti e tutte le altre figure adulte con cui si troverà a convivere nel proprio ambiente di vita. C’è, però, da considerare che il superamento della simbiosi può essere correlato non solo al carattere della madre, ma anche allo stato di salute del piccolo. Un bambino debole e malaticcio farà sentire la madre sempre più indispensabile e coinvolta nella sua cura e, in tal caso, il distacco potrebbe essere rimandato all’infinito. Quando poi il bambino mostri di aver superato il legame simbiotico con la figura materna, c’è da considerare la qualità di tutte le altre interazioni con le figure significative per il bambino, ad esempio con gli insegnanti. Un ragazzino timido, introverso, che trova nei primi anni del suo percorso scolastico una figura di docente fredda, negativa, affatto rassicurante, che gli trasmette un’immagine negativa di sé, può essere condizionato fortemente nello sviluppo di quella fiducia di base negli altri, che gli dà sicurezza e gli permette di crescere in autostima. C’è poi da considerare per ultimo, solo in ordine espositivo e non per importanza, la componente affettiva e motivazionale, che nasce dalle esperienze relazionali uniche e irripetibili di ciascuno di noi. Queste danno un significato ancor più profondo alle nostre azioni, aumentando o minando le nostre certezze, incrementando o inibendo la nostra spinta verso la conoscenza degli altri e del mondo. Lo sviluppo sociale è dunque una realtà molto complessa e dinamica. Non si può mai dire che esso sia concluso in una determinata fase della nostra vita. Per questo c’è la speranza che

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anche il soggetto che abbia intrapreso la strada della devianza possa, se adeguatamente aiutato, e soprattutto se lo vuole, riprendere il cammino della socializzazione, là dove si è interrotto. Dove si è manifestata la voglia di contrapporsi agli altri, di ribellarsi alle regole, di distruggere tutto quanto gli altri hanno costruito. Il disadattamento, appunto!

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In oltre venti storie di adolescenti, si ricercano le motivazioni che possono portare i ragazzi a diventare bulli o, al contrario, vittime. Illustrando le principali teorie dello sviluppo sociale, l’autrice vuole stimolare la riflessione per trovare le soluzioni ai problemi causati da quegli errori educativi che – in buona fede – insegnanti e genitori compiono. Il testo diventa allora una sorta di biografia di tanti, tra ragazzi, docenti e genitori, protagonisti della vita di città italiane di provincia. Interessanti le testimonianze di coloro che, in passato “teppisti”, si sono poi ravveduti, fondando associazioni per la tutela delle vittime di bullismo. Un fenomeno, questo, tipico della natura umana, ma che si può e si deve arginare. Per il bene di tutti.

ANNUNZIATA BRANDONI

Annunziata Brandoni, pedagogista, docente e dirigente scolastica, è da sempre attenta al disagio giovanile e al complesso fenomeno del bullismo. Ha collaborato con il MIUR in progetti scolastici europei e tiene corsi di aggiornamento per insegnanti, genitori e personale della scuola. Ha all’attivo due volumi che propongono un nuovo modello di insegnamento: L’isola che non c’è? Alla ricerca della scuola ideale (Albatros-Il Filo, 2011); 150 anni di Italia e di storia della scuola pubblica, quest’ultimo scritto con il collega Alfio Trucchia e il professor Alessandro Saracini (Centro studi storici Castelfidardo, 2012).

Piccoli teppisti crescono

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€ 9, 90


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