Religioni nel mondo

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LE RELIGIONI DEL MONDO BUDDHISMO, CRISTIANESIMO, DOTTRINE CINESI, EBRAISMO, INDUISMO, ISLAMISMO, SHINTO ABRAMO, AMATERASU, BUDDHA, CONFUCIO, GESÙ, LAO-TZU, MAOMETTO, MARTI LUTERO, MOSÈ, TRIMURTI.


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00 LE RELIGIONI DEL MONDO Nel Novecento la diffusione delle grandi religioni è stata influenzata principalmente da due fattori, in apparente contrasto tra loro: da una parte si è registrata una tendenza a sviluppare, in un contesto sociale fortemente laicizzato, un crescente individualismo, che dalla sacralità del rito comune ha consegnato il momento spirituale al privato delle coscienze; dall’altra si sono consolidati i cosiddetti fondamentalismi, che continuano a considerare le verità rivelate come base ineludibile delle relazioni sociali e della vita politica. Quella cristiana è la prima comunità religiosa nel mondo, sia per il numero di seguaci che per la diffusione geografica: tra cattolici, protestanti, ortodossi e anglicani si contano circa un miliardo e settecento milioni di fedeli, pari a quasi un terzo della popolazione mondiale. Il cristianesimo è presente in tutte le parti del mondo: il cattolicesimo prevale in Europa centrooccidentale, in America centrale e meridionale e nelle Filippine; nell’Europa del Nord si registra una maggioranza protestante, così come in America settentrionale, in Australia e in Sudafrica, mentre la confessione ortodossa è preminente in tutta l’Europa orientale; minoranze cristiane, infine, sono presenti in India e in alcune regioni dell’Africa centrale. I fedeli musulmani sono circa un miliardo e duecento milioni, cifra che rende l’islamismo la seconda religione più diffusa nel mondo; i territori interessati sono in particolare l’Africa settentrionale, l’Asia minore, la penisola arabica e alcune zone dell’Asia centrale. Tuttavia il mutare degli equilibri demografici e la forte migrazione delle popolazioni più povere

hanno portato il costituirsi di un grande numero di minoranze islamiche nei paesi occidentali, con alcuni problemi di convivenza e riprovevoli episodi di intolleranza. La comunità religiosa induista è la terza del pianeta, dopo quelle cristiana e islamica, con circa ottocento milioni di fedeli: la maggior parte di essi è raccolta in Asia meridionale, tra India, Nepal, Sri Lanka, Bhutan, Malesia e Indonesia. Minoranze induiste sono presenti in Africa (Maurizio), in America latina (Guyana, Trinidad e Tobago), nelle isole Figi, negli Stati Uniti d’America e in diversi paesi europei. L’ebraismo conta circa tredici milioni di fedeli, distribuiti in oltre cento paesi: fuori da Israele, le comunità ebraiche più numerose si trovano negli Stati Uniti d’America, in Inghilterra, Francia e Russia, in diversi paesi asiatici, in America latina e in Australia. Confucianesimo, taosimo e buddismo sono i tre credi principali cinesi, mentre fuori dalla Cina la principale comunità confuciana si trova in Corea del Sud. Lo shintoismo è la religione presente quasi esclusivamente in Giappone, dove circa cento milioni di fedeli praticano un credo misto, che risulta essere una combinazione di shintoismo e buddhismo. Le diverse religioni contano gli anni in maniera diversa: la datazione comunemente usata negli affari internazionali è quella cristiana, che ha inizio dall’anno in cui si presume sia nato Gesù Cristo; gli ebrei, invece, li numerano dalla data della presunta creazione del mondo (il 2005 corrisponde al 5763), mentre i musulmani dalla data dell’Egira (622 d.C.).


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01 BUDDHISMO La dottrina filosofico-religiosa annunziata da Buddha e anche tutte le forme che essa è venuta assumendo nei secoli. Nella concezione originaria del buddismo, il mondo è diviso in tre strati di esistenza: quello più basso o «il mondo del desiderio», abitato da esseri che vivono sotto il dominio delle passioni; una sfera superiore, detta «delle forme visibili», abitata da esseri divini; e infine la «sfera del dharma» (il mondo invisibile). L’individuo umano si compone degli stessi elementi delle tre sfere (corpo, organi dei sensi e coscienza). La salvezza buddistica consiste nella liberazione della coscienza dall’obbligo di rinascere nelle due sfere inferiori, ciò che si ottiene quando essa perviene alla sfera del dharma («il luogo donde non si decade più»). Tale sfera è raggiungibile da tutti: il buddismo originario, infatti, non sembra fare distinzione fra monaci e laici; la differenza è solo nel diverso grado di fervore. La via della salvezza abbraccia due tappe: quella della disciplina etica e quella della concentrazione mistica. Coloro che non hanno sufficiente costanza d’intraprendere la vita difficile e piena di rinunce della concentrazione mistica, propria dei monaci, possono accontentarsi di una ricompensa più modesta, quale appunto il rinascere nella seconda sfera del mondo, quella delle forme visibili. Il soggiorno lì non è eterno e quando i meriti sono finiti si ricade nel sams ra (metempsicosi): soltanto quelli che rinascono nella terza sfera non sono più soggetti al sanrs ra. La disciplina etica è quindi la via di salvezza per coloro che non aspirano alla salvezza suprema, mentre la concentrazione mistica conduce a essa. La disciplina etica si compendia in cinque doveri: non uccidere, non rubare, non mentire, non prendere bevande ine-

brianti, non avere costumi rilassati. Ai monaci è anche vietato mangiare fuori determinate ore, partecipare a danze, canti, musica, teatro, portare corone, usare profumi, ornamenti, accettare oro e argento: devono vivere di elemosina, senza fare riserve di cibo. Buddha, nella dottrina originaria, non è considerato né creatore né giudice del mondo, non può mutare le eterne leggi del Karman (azione), non può perdonare i peccati. È personalmente onnisciente, eterno liberato fin da principio. Incarnazione della realtà assoluta, egli ha un’esistenza spirituale ed eterna come corpo del Dharma (giustizia), e quando discende quaggiù riceve allora il corpo materiale in cui assume la natura umana. Le diverse scuole nelle quali il buddismo originario s’è venuto caratterizzando con il passare dei secoli sono: 1) H nay na (o piccolo veicolo): si presenta nei confronti del buddismo primitivo come una compagine dottrinale più armonica ed è strettamente collegata a una precisa categoria di fedeli: i monaci organizzati e viventi in comunità. È una religione severa ed eroica per chi si separa dal mondo. Essa accentua la distinzione fra monaci e laici, e la salvezza diviene un monopolio particolare di coloro che vivono nei conventi. Di qui una normalizzazione dell’esperienza mistica che porta con sé modificazioni non solo nella prassi, ma anche nella dottrina religiosa. Nell’h nay na l’etica consiste soprattutto in prescrizioni di carattere negativo, in proibizioni volte tutte a sciogliere il religioso dai legami con il mondo. Anche le due virtù fondamentali del buddismo la solidarietà e l’amore, sono interpretate in modo da escludere ogni attaccamento al mondo. L’amicizia si riduce a un’indifferente benevolenza e la compas-


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sione a un consentire senza sentimento. Virtù principale è l’insensibilità, unica preoccupazione la propria salvezza: il religioso non deve avere per sé ne odio né amore, e, al fine di evitare il duplice pericolo, cercherà con ogni mezzo di mortificare o sopprimere l’Io. Un aspetto particolare e di difficile comprensione della dottrina è quello che riguarda il sams ra (la metempsicosi). La persona umana, essa insegna, è composta di cinque elementi: corporeità, sensazioni, coscienza della percezione, predisposizioni e coscienza: nessuno di questi elementi ha una stabilità e può considerarsi come un durevole substrato della persona. Ma se l’anima e la persona non esistono che cosa trasmigra? Il legame fra le rinascite è dato da un elemento passeggero, detto Gandharva, che non è identico all’individuo, non esiste durante la sua vita, ma si forma al momento della morte. Attratto dove deve rinascere, il Gandharva si unisce con il seme dell’uomo e con il sangue della donna. Con ogni probabilità, in questo, si deve vedere un’immagine mitologica della coscienza, che in fondo è il nucleo intorno a cui si raccolgono gli elementi che formano l’individuo rinato. La via della salvezza termina, come s’è detto, nella cessazione del Karman, quando il santo non rinasce più. Ma che avviene allora di lui? I testi dicono che entra nel nirvana. Un testo pali definisce il nirvana «un’impercettibile coscienza, sconfinata e dovunque raggiante». Nelle quattro verità del B. è invece definito come la cessazione e l’eliminazione definitiva del dolore. 2) Mah y na (o grande veicolo): la riforma razionalistica dell’h nay na non fu accolta da tutti; i concili anzi testimoniano il permanere di dissensi. I laici continuano a rimanere fedeli all’antica fede. Ciò che

caratterizza il mah y na è il tentativo di superare l’inconciliabilità fra trascendenza ed esistenza attuale e tale superamento si ha nell’affermazione che l’unica realtà è, e rimane, l’Assoluto. Anche nella dottrina del mah y na, tuttavia, la persona è considerata come qualcosa di irreale, come un’individuazione illusoria d’una realtà universale e omogenea. La salvezza perciò non consiste più nello scioglimento della persona, ma nella cessazione del suo illusorio isolamento, per farla rientrare nell’Assoluto. La meta di ciascuno non è più la salvezza individuale, ma la salvezza della totalità degli esseri. Il comando fondamentale è: «aiuta gli altri a conseguire la salvezza». Si aspira non più al nirv na ma alla bodhi, che altro non è se non il sommo sacrificio che uno può fare per il prossimo: giungere cioè alle soglie della liberazione e rinunciarvi per portare salvezza al prossimo. Ognuno può mettersi sulla via della bodhi e diventare un bodhisattva. Costoro, nel grande veicolo, sono oggetto di culto più dei buddha stessi, perché più vicini e individualizzati. In teoria i bodhisattva come i buddha sono un numero indefinito; in pratica però sono onorati soltanto alcuni, che formano un piccolo pantheon. 3) Vajrayana (o veicolo del diamante, detto anche tantrismo): indica una terza via di salvezza, facilmente raggiungibile mediante la propiziazione degli dei, la recitazione di formule magiche e una tecnica di esercizi metapsichici. La magia sostituisce la dottrina etica. Il mondo è considerato come la creazione della somma realtà e dovunque, perciò, possono trovarsi i germi di perfezione. Nulla è rifiutato, neppure le tentazioni, che, purificate, possono essere forze promotrici di salvezza.


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CRISTIANESIMO

La religione fondata da Gesù di Nazaret, il Cristo, che ha presentato il suo messaggio come uno sviluppo e come il coronamento della religione ebraica: egli diceva di essere il Messia annunziato dai profeti, inviato da Dio non per abolire, ma per completare la legge di Mosè. Da questo punto di vista, la religione giudaica è stata una preparazione lenta, discreta, progressiva alla venuta di Gesù, del quale i profeti avevano annunciato in anticipo le vicende umili e gloriose. Il cristianesimo a sua volta continua l’opera di Gesù sino alla fine dei tempi, facendo giungere il suo messaggio a tutti i popoli e a tutte le generazioni. Sorto nella Palestina, ma destinato a tutta l’umanità, il cristianesimo deve la sua sconvolgente novità alla persona di Gesù e al suo messaggio religioso. Il nucleo centrale della sua predicazione era l’avvento del regno di Dio, e l’invito continuo alla conversione del cuore come condizione di salvezza. La dottrina. Il cristianesimo, anche se maturato in ambiente giudaico, presenta nella sua dottrina delle novità assolute e impensate per i seguaci di Mosè. Punto di partenza, e fondamento di tutto il dogma cristiano, sono i due misteri della Trinità e dell’Incarnazione. L’esistenza di un Dio personale, distinto dal mondo e creatore, era già patrimonio del popolo ebraico; ma il cristianesimo precisa che Dio è unico nella sua natura, e trino nelle persone (Padre, Figlio e Spirito Santo): il Padre è il principio e l’archetipo di ogni perfezione; il Figlio ne è il pensiero o l’idea immanente e sussistente, che ne esprime l’infinita perfezione; lo Spirito

Santo, che procede da entrambi, entrambi li unisce in un eterno scambio di amore. Questo Dio, infinito, è così vicino alle sue creature che, per la loro salvezza, la seconda persona della Trinità, cioè il Figlio, si è incarnata e fatta uomo, pur seguitando a essere Dio. Il frutto dell’incarnazione è Gesù Cristo, l’uomodio, perfetto dio e perfetto uomo, che è venuto al mondo per rivelare l’amore del padre e operare la nostra salvezza. Il cristianesimo afferma inoltre con assoluta chiarezza la vita dell’oltretomba e la certezza della risurrezione finale. Il culto cristiano. L’atto più solenne del culto cristiano è la celebrazione della messa. Gesù stesso, nell’ultima cena, dopo aver consacrato il pane e il vino e averli dati agli apostoli presenti, disse loro: «Fate questo in memoria di me». Il culto è vario e in esso c’è una grande varietà di riti, specialmente tra l’Oriente e l’Occidente, Ma si tratta sempre di differenze accidentali e non sostanziali, dovute alla diversità di lingua, di mentalità, di simbolismo dei vari popoli cristiani. La morale cristiana. Strettamente connessa con il dogma è la dottrina morale cristiana; che rappresenta quanto di più alto e di più santo l’umanità abbia mai conosciuto. Nessuna dottrina morale, neppure quella dei popoli più evoluti, può mettersi a confronto con quella del cristianesimo per la sua elevatezza. E infatti il punto di partenza e di arrivo della morale cristiana è la carità, cioè l’amore: amore verso Dio e amore verso il prossimo. La morale del cristianesimo investe tutto l’uomo, nella sua vita privata e singola, e nella sua vita familiare e so-


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ciale. Base della santità della famiglia è il matrimonio, dal cristianesimo riportato alla sua primitiva dignità naturale, non solo, ma elevato alla dignità soprannaturale di un sacramento di cui gli sposi stessi sono i ministri. Con il cristianesimo sono aboliti il divorzio e la poligamia. I fanciulli sono i preferiti nel regno dei cieli: in loro la natura si manifesta come in uno specchio senza l’orpello della doppiezza e della scaltrezza degli adulti. Anche in questo il cristianesimo rovescia tutta una tradizione comune a tutti i popoli, secondo cui i vecchi sono i modelli della saggezza e i giovani debbono ispirarsi ad essi. Altra novità introdotta dal cristianesimo nella vita spirituale è il perdono di qualsiasi colpa, che deve essere sempre concesso da Dio e dagli uomini, purché il peccatore lo domandi con sincerità e con desiderio di correggersi. Non a caso Gesù fa notare che anche i non cristiani sanno amare gli amici, i parenti, i benefattori, ma non sanno amare i loro nemici e i loro persecutori. Il cristianesimo è la religione che ha saputo spiegare in pieno il dolore, fino a farlo amare, fino a farlo considerare una beatitudine. Il cristianesimo non ha portato, propriamente, una sua filosofia; ha solo dato nuovo contenuto e più ampio respiro al platonismo (padri greci e Agostino) e all’aristotelismo (Tommaso d’Aquino). Ma ciononostante, alcune sue dottrine dogmatiche hanno esercitato un influsso determinante sul pensiero filosofico: l’esistenza di Dio e della libertà, la distinzione tra anima e corpo, le nozioni di natura e persona. Anche nella filosofia contem-

poranea, le nozioni di esistenza, storia, durata, colpa, e le stesse esperienze dell’angoscia umana hanno avuto origine in ambiente cristiano. Estensione del cristianesimo. Nota fondamentale del cristianesimo è la sua universalità. Sorto in un ambiente di una angustia soffocante, dove la religione si identificava in gran parte con la razza, e sbocciato da un piccolo popolo sconosciuto ai più, quale era l’ebreo, il cristianesimo si rivelò subito come religione universale, e infatti si propagò subito in tutto il mondo che gravitava sul bacino del Mediterraneo. Cristo, inviando i suoi apostoli alla conversione degli uomini, li assicurava che sarebbe stato insieme a loro fino alla consumazione dei secoli. Il cristianesimo dunque, fin dal suo sorgere, appare universale non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Certo, l’Impero romano, con l’unità della sua lingua e delle sue leggi, con la mirabile efficienza delle sue vie consolari, con la saldezza della sua organizzazione unitaria, favorì il diffondersi del cristianesimo. Sant’Agostino, e più tardi Dante, dissero che Roma e il suo Impero furono voluti dalla Provvidenza, perché fossero strumento al rapido diffondersi del cristianesimo. La persecuzione del mondo ufficiale romano, durata più secoli, mise a dura prova la fede e la saldezza dei cristiani, ma non poté impedire l’avanzarsi della nuova religione, destinata a soppiantare i vecchi dei, che poco o nulla sapevano dire all’angoscia del cuore umano. L’ingresso del cristianesimo nella storia del mondo costituì non solo una rivoluzione religiosa, ma anche una


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rivoluzione sociale, che doveva imporre una nuova era al corso della storia. Tuttavia il cristianesimo non si esaurì con la conversione del mondo greco-romano. San Paolo già proclamava che nel cristianesimo non c’è distinzione tra il greco e il barbaro. Ed ecco che i barbari, esclusi dal mondo greco-romano, furono inclusi senza difficoltà nel cristianesimo e la nuova società del Medioevo sorse proprio dalla fusione del mondo greco-romano col mondo dei barbari, calati sulle sponde del Tevere, della Senna, del Tamigi, del Reno e divenuti, dopo un periodo di esplicabile travaglio, seguaci di Cristo. Le grandi scoperte geografiche dei secoli XV e XVI, che allargarono di tanto i confini della Terra e le idee degli uomini, non colsero di sorpresa il cristianesimo, che subito dopo i grandi esploratori, e spesso insieme a essi, inviò i suoi missionari, i quali portarono anche in America, in Asia, in Africa, in Australia, il verbo di Cristo. Il fervore missionario degli ultimi secoli ha rinnovato il fervore dei primi, e oggi si vedono sacerdoti, vescovi, cardinali di razza gialla e nera occupare i più alti posti della gerarchia cattolica. Le principali denominazioni cristiane. Uno dei problemi più dolorosi del cristianesimo è l’unità dei cristiani. Gesù si era presentato come il «buon pastore» che intende riunire in un solo gregge tutti coloro che accettano il suo messaggio (Giov. 10, 14), ma i suoi seguaci non seppero conservare quell’unità. Nel corso dei secoli ci furono numerose eresie e scismi. Oggi i cristiani si distinguono in tre gruppi principali: 1) La Chiesa cattolica, la sola che si distingue per la sua unità giuridica e carismatica. Tutti coloro che appartengono a essa sono uniti tra loro sotto l’autorità del papa e dei vescovi; 2) la Chiesa ortodossa d’Oriente, che si è separata dalla comunione della Chiesa universale con lo scisma di Fozio (870) e di Michele Cerulario (1054). È divisa in singole

Chiese particolari, che hanno assunto sempre più la forma di Chiese nazionali. Esse riconoscono un certo primato del patriarca di Costantinopoli, la cui autorità è puramente nominale. Tutte queste Chiese, però, conservano la stessa fede, amministrano gli stessi sacramenti e riconoscono la validità dei primi sette concili ecumenici; 3) Esiste infine il gruppo del Protestantesimo, originata dallo scisma di Martin Lutero (1517), che però non conserva nessun vincolo di unità tra le varie confessioni, tranne la fede in Gesù Cristo salvatore. Tutti però, sia in seno alla Chiesa cattolica sia tra le altre denominazioni cristiane, sentono che queste divisioni sono contrarie allo spirito del Vangelo e alla volontà esplicita di Cristo, e aspirano con tutti i mezzi a realizzare l’unità. Perciò, nonostante questa parziale infedeltà degli stessi cristiani, il cristianesimo si presenta agli uomini, tanto divisi, come la religione dell’unità e dell’amore, che invita tutti i popoli ad adorare Dio in spirito e verità, nella soprannaturale socialità della Chiesa, corpo mistico di Cristo.


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01/3 DOTTRINE CINESI La Cina non ha mai visto la nascita di una religione, se con questo termine si intende un complesso di credenze e riti relativi ad un dio; è corretto parlare, piuttosto, di nascita e sviluppo di dottrine filosofiche, che, nonostante l’imposizione del marxismo nel 1949 come ideologia ufficiale, sono sopravvissute, almeno come mentalità incancellabili. Taoismo. Dottrina cinese esposta nelle opere di Lao Tz , Chuang Tz e Lieh Tz , stilate durante i secoli IV e III a.C., compreso il Tao Te Ching (Classico del Tao e della Virtù) il cui presunto autore, Lao Tz , sarebbe invece vissuto, secondo fonti non storiche, nel VI secolo a.C. La concezione di Lao, di Chuang e di Lieh si impernia sul «tao» come una concezione filosofica, non religiosa. Il carattere filosofico si è tramutato in corrente religiosa tra il primo e il secondo secolo d.C., per opera di Chang Tao-ling (34156 d.C.). La sostanza del taoismo è contenuta nella teoria detta wu wei (non agire): poiché il tao, il principio da cui tutto si origina attraverso l’alternarsi dello yin e della yang, è perfetto, se l’uomo non lo contrasta (ecco la necessità di «non agire») nel suo attuarsi, nel suo divenire armonico, tutto si svolgerà secondo il progetto divino. Nell’agire, l’uomo pone assurdi condizionamenti alla perfezione universale, con la miopia e i limiti che gli derivano dalla sua natura umana. L’uomo deve sentirsi parte del tutto (che è il tao appunto); soltanto il tao è reale. Ciò che l’uomo vede e sente non sono che illusorie apparenze. Si persegue il tao con la virtù, che è uno stato di sintonizzazione con il tao stesso, rag-

giungibile soltanto abbandonandosi al ritmo che è nell’universo. L’uomo non muore (essendo parte di un tutto che è eterno, immortale): ciò che si seppellisce è un’apparenza di cadavere, mentre il corpo vero se ne va a vivere con gli altri immortali. Il taoismo si trasformò in un’organizzazione conventuale a partire dal II secolo per imitare l’analoga organizzazione del buddismo e porsi in concorrenza nel fare proseliti, avendo il vantaggio di presentarsi come una religione «nazionale». I monaci taoisti esercitavano la magia e gli esorcismi e potevano aver famiglia. Oggi il taoismo non rappresenta più nulla in Cina e i suoi credenti appartengono alla condizione più bassa del popolino dove alligna, con l’ignoranza, la superstizione. Confucianesimo. Complesso delle credenze, dei riti e dei costumi (religiosi, morali e politici) fondati sull’antica saggezza cinese e associati al nome di Confucio che non pretese di essere un riformatore religioso, anzi non si interessò di problemi strettamente religiosi. Credeva nel dio Cielo, sacrificava agli antenati, ma rifiutava di pronunciarsi sulla sopravvivenza dell’anima. Egli dedicò quasi tutti i suoi insegnamenti a problemi morali ricavandoli dalla tradizione e dai testi antichi. Il confucianesimo, più che una religione, è, quindi, una sintesi organica della tradizione, un sistema morale per formare uomini veramente superiori e saggi, i quali, seguendo una giusta via, la sappiano anche additare agli altri. Tuttavia presenta le caratteristiche esteriori di una religione istituzionale, dato che considera indi-


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spensabili per il bene dell’uomo i sacrifici agli dei e agli antenati e una quantità di atti sacrali. Il confucianesimo assunse carattere ufficiale soltanto alcuni secoli dopo la morte di Confucio, quando, per decreto dell’imperatore Wu Ti (156-187 d.C.), venne dichiarato fondamento dello Stato e tale rimase, dato che i vari governi si basarono sempre sui precetti e sulle concezioni di Confucio, fino alla costituzione della repubblica nel 1912. I concetti religiosi su cui si basa tale dottrina sono: credenza nel Cielo, concepito come entità suprema che ha dato origine a tutte le cose di questo mondo e le dispone con la sua universale provvidenza; credenza negli spiriti, esseri invisibili e potenti, partecipanti al governo universale del Cielo e chiamati spiriti celesti o spiriti terrestri secondo le loro attribuzioni: i primi sovrintendono ai fenomeni naturali, i secondi sono i protettori del territorio nazionale; credenza nell’anima umana, composta di una parte spirituale o Shen e di un’altra parte quasi materiale o P’o; culto degli antenati, ai quali si offrivano sacrifici. Cardini poi e finalità del confucianesimo sono la cultura, la sincerità, l’autodisciplina nella propria vita, l’armonia nelle relazioni familiari e sociali, la pace universale. L’uomo nel suo agire deve guardare costantemente al Cielo come suo modello. Dalla conoscenza della norma del Cielo si è costretti a constatare che il motivo principale dell’agire del Cielo è l’amore: amore verso l’imperatore, che è il rappresentante legittimo del Cielo, amore verso i genitori, che per i figli sono come un secondo Cielo; amore verso gli altri parenti;

amore fra coniugi e infine amore verso gli amici. Le opere su cui si basa la scuola confuciana sono i Cinque classici (Wu Ching) e i Quattro Libri (Ssu Shu). I Cinque Classici sono: 1) Yi-ching (Libro delle Mutazioni): è il più antico dei classici, libro di divinazione, attribuito dalla leggenda al mitico sovrano Fu-hsi, del secolo XXX a.C., epoca che segna il lento trapasso dall’età nomade all’agricoltura. Contiene otto trigrammi (Pa Kua), simboli magici del perenne conflitto di Yang e di Ying; dall’accoppiamento di due trigrammi si possono ottenere 64 esagrammi, a significare le eterne mutazioni delle cose; di ognuna di esse il libro fornisce le interpretazioni cosmologiche, storiche e morali; fu ritenuto da Confucio il più importante dei testi dell’antichità. 2) Shih-ching (Libro delle Odi): raccolta di canti popolari, attribuita ai fondatori della dinastia Chou (secolo XI a.C.) che Confucio ridusse a 305 odi, da lui stesso musicate. 3) Shu-ching (Libro dei Documenti): antologia di editti, discorsi e atti ufficiali raccolti, secondo la tradizione, dai sovrani Chou e riordinati da Confucio. Quando i testi confuciani furono distrutti per ordine dell’imperatore noto come Ch’in Shihhuang-ti (221210 a.C.), del Shu-ching non rimase una sola copia. Fu rielaborato a memoria da ferventi confuciani. 4) Li-chi (Memorie dei Riti): contenente le norme del rituale (atti propiziatori per la fertilità della terra, culto degli antenati, etc.) che si era andato configurando nel tempo. Il testo originario, frutto delle ricerche effettuate durante la dinastia Chou, fu riela-


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borato, ebbe nuova sistemazione e organicità a opera di Confucio e della sua scuola. Dopo la distruzione dei testi confuciani, subì varie interpolazioni e variazioni. 5) Ch’un-ch’iu (Primavere e Autunni): libro storico, contenente la cronaca dello Stato di Lu (durante l’avvicendarsi di varie stagioni, primavere e autunni) dal 722 al 481 a.C. La tradizione attribuisce a Confucio stesso la redazione del libro. I Quattro Libri sono: 1) Lun-yü (Dialoghi), contenente le conversazioni di Confucio con i suoi discepoli. È il più importante dei quattro. 2)

Ta-hsüeh (La grande dottrina), trattato, con commento canonico, sui doveri del governo di uno Stato e del cittadino per realizzare una vita virtuosa. Lo ha composto Tzu-ssu, nipote di Confucio. 3) Chung-yung (L’invariabile Centro), trattato sullo stato di equilibrio, armonia e serenità che il saggio cerca di conseguire nella vita. Opera del precedente, forse con l’ausilio di Confucio. 4) Meng-tzu Shu (Il libro di Mencio), opera del più fedele e grande interprete di Confucio, il filosofo Mencio.


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01/4 EBRAISMO Antica religione delle tribù israelitiche che storicamente appare nell’ultimo quarto del II millennio a.C. Essa si distingue da quella degli altri popoli antichi per il suo rigoroso monoteismo (Jahvé non è solo il dio degli Ebrei, ma unico Dio esistente che regna su tutto l’universo), per il fenomeno del profetismo, per la sua orientazione apertamente messianica ed escatologica (salvezza promessa in un futuro lontano), e soprattutto per l’idea di patto o alleanza, per cui Dio è visto non tanto come il «signore» trascendente che bisogna solo temere e servire, ma come l’«alleato», quasi il compagno, nella realizzazione di un progetto comune. Di fronte al panteismo indiano, al dualismo iraniano, al politeismo egiziano e greco-romano, la teologia ebraica invece afferma l’esistenza di un Dio unico, personale, eterno, onnipotente, giusto e misericordioso. Il mondo e tutti gli esseri esistenti sono opera della sua parola e della sua potenza («sia fatta la luce, e la luce fu»), e obbediscono ai disegni della sua provvidenza. Il codice ebraico per eccellenza è la Bibbia (Antico Testamento), che narra la rivelazione di Dio ad Abramo, Mosè e ai profeti; contiene la T r h, la legge rivelata da Dio, cui deve ispirarsi la condotta individuale o sociale, pubblica e privata del popolo ebraico; e nei libri sapienziali raccoglie, in una precettistica semplice e popolare, le massime della tradizione. Alla base della morale ebraica sta il concetto di libertà: essa spiega la prevaricazione degli angeli e dei primi uomini, e rende meritoria la fede e l’obbedienza dei buoni. Le sin-

gole prescrizioni non sono giustificate da motivi etici o razionali, ma dalla volontà di Dio, arbitro dell’universo. La morale ebraica è stata riassunta nei dieci precetti del Decalogo, che Mosè ha promulgato nel deserto in nome di Dio. I dettami della legge naturale vengono così interpretati come espressione diretta della volontà di Dio. Le feste, i precetti e le norme sociali: Pesach - Pesach è la Pasqua ebraica: questa ricorrenza commemora la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto sotto la guida di Mosè. La festa si protrae per otto giorni nei quali è vietato mangiare qualsiasi cibo lievitato in ricordo del pane azzimo, che gli Ebrei portarono con loro fuggendo dal faraone. Shavuot - Cade sette settimane dopo Pesach e ricorda il momento in cui Mosè ricevette le tavole della legge sul Sinai. Succot - Il nome di questa festa significa «capanna» e deriva dall’obbligo di costruire una capanna e soggiornarvi per i sette giorni di durata della festa, in ricordo dei quaranta anni in cui gli Ebrei vagarono nel deserto. Vengono tenuti nella succà e usati per le benedizioni di rito quattro specie vegetali, ognuno con uno specifico significato simbolico: il cedro, la palma il salice e il mirto. Il giorno dopo Succot si festeggia Simhat Torah, durante la quale ogni credente porta nelle sinagoghe i rotoli della Torah. Rosh Hashanà - Il capodanno, ossia il festeggiamento per l’inizio dell’anno lunare e della creazione del mondo. Si chiama anche «giorno del ricordo» o «del giudizio»: secondo la tradizione in-


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fatti Dio giudica le azioni degli uomini. Yom Kippur - È questo il giorno in cui vengono iscritte da Dio le decisioni riguardanti ogni uomo. È una giornata di totale digiuno e preghiera che si trascorre in sinagoga fino alla richiesta finale di perdono a Dio (dura dal tramonto al tramonto del giorno successivo). Il suono dello shofar (il corno d’ariete che ricorda l’animale sacrificato da Abramo al posto di Isacco) indica la riconciliazione con il Signore e la fine del digiuno. È la festa più sentita dagli Ebrei. Hannukkàh - È la festa delle luci, che ricorda la rivolta dei fratelli Maccabei contro il re siriano Antioco. La festa dura otto giorni, all’inizio di ognuno dei quali viene accesa una candela in più del giorno precedente, fino ad accendere, l’ottava sera, tutte le luci della menorah a nove bracci. Purim - Ricorda la storia di Ester,

un’ebrea vissuta in Persia che riuscì a salvare il suo popolo da Amman. È una festa allegra: ci si traveste, si mangia e si beve. I precetti e le norme alimentari - Nella Torah esiste una serie di obblighi e di divieti che formano la Halachà. Questo codice prevede delle disposizioni precise che riguardano tutti i campi della vita umana. Le norme formano quello che i maestri chiamano una «siepe», ossia una serie di protezioni intorno al nucleo dei Dieci Comandamenti che sono i principi essenziali dell’ebraismo. L’osservanza rigorosa a ognuna di queste regole impedisce al credente di allontanarsi dalla norma morale di base. Le «siepi» si chiamano mitzvoth, ossia «precetti», e sono seicentotredici. Una serie di queste norme riguarda il settore alimentare: è vietato mangiare carne di maiale, i crostacei, i frutti di mare, determinati tipi di pesce, l’animale va macellato solo se-


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guendo le norme rituali (senza farlo soffrire ed eliminando del tutto il sangue) la carne del capretto «va cotto con il latte della madre». Il sabato - Gli Ebrei considerano il sabato un giorno di festa (Shabbat). Osservano il più assoluto riposo e si dedicano solo alla glorificazione di Dio. La famiglia - L’ebraismo considera la famiglia il nucleo centrale della società poiché essa è un’istituzione che è stata creata direttamente da Dio e ne regola l’esistenza stabilendo delle precise tappe che sono imprescindibili dalla vita ebraica. La circoncisione - Otto giorni dopo la nascita ogni bambino viene circonciso. Questo atto segna l’ingresso nel patto stipulato tra Abramo e Dio. Bar mitzvah - È la cerimonia con la quale un ragazzo, a tredici anni, entra ufficialmente nella società assumendosi l’obbligo di osservare i precetti della Torah. Il matrimonio - È un momento solenne della vita ebraica e costituisce l’osservazione di uno dei precetti divini, la procreazione; è quindi auspicabile. La cerimonia si svolge sotto il baldacchino nuziale, e durante il suo svolgimento si legge il contratto matrimoniale, chiamato ketubah, che contiene l’impegno dello sposo a mantenere e rispettare la sposa, a tutela dei diritti della donna. Esiste l’istituto del divorzio. L’ebraismo non rifiuta la contraccezione e nemmeno l’aborto, permesso in casi gravissimi, ma li regola con precisione. Le prescrizioni quotidiane - La casa di ogni ebreo deve essere contraddistinta sugli stipiti delle porte da una Mezuzà, un contenitore rettangolare nel quale si trovano due rotoli su cui sono scritti a mano due brani dello Shemà. Ogni mattina alzandosi è prescritto di lavarsi le mani, come in numerose occasioni della giornata, recitando la relativa benedizione. Esiste una benedizione per ogni momento del giorno e della vita, così da riportare il pensiero a Dio, che ci ha per-

messo di viverlo. Ogni uomo si copre la testa in segno di rispetto per il Signore e deve rimanere coperto tutto il giorno. Appena vestito, egli indossa il tallet, il manto da preghiera bianco e frangiato, che reca sul lato corto una rigatura azzurra o nera (era l’abito quotidiano degli antichi ebrei) e si mette i tefillin, filatteri. Si tratta di scatolette cubiche di cuoio, che vengono legate con lunghi legacci al braccio sinistro e alla fronte, e contengono delle pergamene con i quattro passi biblici dove sono prescritti. Con questo atto si ottempera fisicamente al comandamento divino di «legare come segno al braccio e frontale tra gli occhi» le insegne dell’obbedienza a Dio. Al mattino un ebreo recita lo Shemà e le Diciotto Benedizioni. Si deve pregare anche al pomeriggio e alla sera, privatamente o in sinagoga, dove deve essere presente il minian, ossia un gruppo di almeno dieci maggiorenni, perché la preghiera sia valida. Questa pratica serve a sottolineare l’impegno all’aggregazione sociale che è la fondamentale direttiva sociale della Torah. Anche la donna ha l’obbligo della preghiera, ma senza vincoli di orario e di luogo. La sinagoga - La sinagoga è diventata il luogo di culto e riunione da quando il Tempio di Gerusalemme fu distrutto. Il termine di origine greca significa appunto «luogo di riunione». Generalmente una sinagoga è spoglia e non contiene dipinti né sculture; vi si trova la Menorah e uno speciale scomparto che contiene i Rotoli della Torah, posto sulla parete orientata verso Gerusalemme, la stessa direzione verso la quale pregano i fedeli. Una sezione è destinata alle donne, poiché devono rimanere separate dagli uomini. Le preghiere non sono necessariamente lette dai rabbini: lo può fare chiunque ne sia in grado. Il rabbino è un maestro con un’ampia cultura religiosa, che dedica la vita allo studio dei testi sacri, ed è un’autorità in materia.


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01/5 INDUISMO Nome dato al complesso di credenze e pratiche religiose dell’India a partire dalla fine dell’età vedica ai nostri giorni, che nella loro varietà si richiamano ai complessi culti locali presenti tra le diverse razze della popolazione indiana già dal III millennio a.C.; la sua prima codificazione risale però alla seconda metà del II millennio a.C. con la redazione dei Veda, i testi sacri delle popolazioni ariane scritti in sanscrito. La religione vedica è dunque alla base dell’induismo: da essa deriva la divisione dei credenti in cinque caste fondamentali, i sacerdoti (brahmana), gli unici in grado di interpretare i Veda, i guerrieri (kshatriya), i produttori (vaishya), i servitori (shudra) e infine gli intoccabili, i fuori casta. A partire dal I millennio a.C. la religione vedica subì delle modificazioni sostanziali: le pratiche dell’ascesi e della meditazione, che avrebbero permesso di raggiungere la contemplazione dell’assoluto (brahman), acquistarono importanza a danno del carattere «mondano» del primitivo culto; furono introdotti i concetti dell’immortalità dell’anima e della reincarnazione (metempsicosi), che portavano a sminuire la vita terrena e i piaceri del corpo; infine acquistarono importanza alcune divinità, prima considerate secondare, come Visnu e Shiva. È questa la fase detta «brahmanesimo» che giunse fino al VI secolo a.C., età in cui si nacque l’induismo propriamente detto. La diffusione in India del buddhismo (V-IV secolo a.C.), sorto inizialmente come una corrente all’interno del brahmanesimo stesso, ostacolò un ulteriore sviluppo della religione induista

che attorno ai primi secolo d.C. era ridotta a religione di minoranza. Una netta ripresa si ebbe solo a partire dal IX secolo d.C. grazie all’opera del brahmano Sankara che purificò e ricondusse a unità il sistema filosofico. L’induismo accentuò allora il suo carattere di religione nazionale, riconfermando la divisione della popolazione in caste, che costituirono fattori di conservazione e immobilismo sociale. Divinità e etica induista. L’induismo si presenta come una confessione politeista, caratterizzata dalla molteplicità delle divinità che rappresentano ciascuna un aspetto della vita, ma che sono riconducibili ad un’unità inscindibile, l’Assoluto. Poiché questa religione è un mosaico di credenze e riti che caratterizzano le diverse sette, l’essere supremo può essere Brahma, o Visnu o, ancora, Shiva, le tre divinità che, nel folto pantheon induista, occupano una posizione preminente e formano il Trimurti. Tutte le correnti concordano però su alcuni punti fondamentali. Questi sono: - La reincarnazione: ogni creatura, alla morte, rinasce in un altro corpo (umano, animale o vegetale) fin quando l’anima non abbia raggiunto la perfezione, ossia l’unione con l’Assoluto. Il fine di ogni credente è dunque la liberazione dal ciclo vitale (moksha) e questo è dato dal totale allontanamento dal maya (ossia dall’apparenza, emanazione dal Brahman) che lo lega al mondo terreno. A tal fine egli possiede tre vie: le azioni (che devono essere compiute in spirito di totale distacco dal maya), la conoscenza e la totale donazione alla divinità (bhakti).


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- Il karma: la condizione in cui si reincarna ogni creatura nelle successive vite dipende dalle azioni compiute nella vita precedente. Tutti dunque devono agire in modo da reincarnarsi in una condizione migliore. - Il rispetto della vita: gli induisti manifestano grande rispetto per ogni forma di vita (animale o vegetale) poiché ogni creatura ha un’anima. - L’accettazione della divisione della società in caste (varna): attorno alle cinque suddivisioni principali esistono altre

2000-3000 caste e sottocaste. L’appartenenza ad una casta piuttosto che ad un’altra dipende dal karma, ossia dalla condotta nella vita precedente, e l’avvicinamento alle caste superiori indica una progressiva purificazione dell’anima. L’adempimento ai doveri propri di ogni casta, quindi, pregiudica la reincarnazione futura.


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01/6 ISLAMISMO La religione monoteistica fondata da Maometto e il sistema politico, sociale, culturale a essa connesso. Il nome islamismo venne introdotto in Europa intorno alla metà del secolo XVIII ed è quello oggi prevalentemente usato, con qualche eccezione da parte di scrittori di lingua inglese (e anche da parte di musulmani del Pakistan), forma alquanto imprecisa, poiché Maometto (in arabo Muhammad) «è un uomo come gli altri » (Corano, 10, 2; 18, 110), e non è su di lui incentrato tutto il sistema religioso; sua unica qualità è quella di essere stato scelto da Dio quale messaggero (rasul, portatore della rivelazione), strumento della volontà divina. La tradizione ha poi in lui visto il modello perfetto di umanità (al-insan al-kamil). Nelle sure (capitoli) del Corano, il termine islam indica la sottomissione incondizionata alla volontà di Dio; nelle sure più recenti, e presso i popoli musulmani, ha assunto il valore di religione universale. Il professante l’islamismo è detto in arabo muslim, da cui deriva la forma europea di musulmano, corruzione del turco müsulman, a sua volta mutuato al persiano muslinman. L’attuale popolazione musulmana nel mondo si aggira intorno ai 400 milioni, tuttavia la mancanza di precise rilevazioni censorie non consente una esatta determinazione. La religione nell’Arabia preislamica. La penisola araba, abitata da nomadi pagani, con ai margini settentrionali i due Regni dei Ghassanidi presso Damasco, cristiani monofisti (poi melkiti) e dei Lakhmidi di Hira, nestoriani, vassalli rispettivamente degli Imperi bizantino e

persiano, fu il centro di irradiazione dell’islamismo, mentre le città di Mecca e Medina (Yathrib) la culla. Non mancavano tuttavia comunità cristiane o giudaiche specialmente fra i sedentari dello Yemen (l’Arabia Felix dei classici), e a Medina. Influssi giudaici e cristiani giungevano quindi in Arabia da più vie, non esclusa l’Etiopia cristiana. Accanto alle vaghe notizie sull’unità di Dio, sul monachesimo e l’ascetismo cristiano, dei quali la poesia preislamica ci ha tramandato alcuni accenni, e a qualche leggendaria notizia sulla persona del Cristo, mediata attraverso fonti nestoriane, monofisite o gnosticheggianti, si ha la prova che, al tempo di Maometto, in Arabia vi fossero delle persone, dette hanif, pervenute a una vaga forma di monoteismo diverso da quello giudaico o cristiano. Profeti e testi sacri. Secondo l’islamismo dalla creazione del mondo Dio ha mandato sulla terra numerosi profeti (nab , pl. anbiy ), tutti da lui ispirati, ma soltanto alcuni, chiamati appunto inviati (ras l, pl. r sul), portatori agli uomini delle leggi e delle verità divine. Il Corano, che è il testo sacro dei musulmani, annovera 25 tra profeti e inviati, e la serie di essi è aperta da Adamo. Particolare venerazione hanno, nell’islamismo, Abramo, l’«amico di Dio», e Gesù, nato da Maria Vergine per diretta creazione di Dio, ritenuto dotato di poteri taumaturgici e di particolari prerogative non attribuite neppure a Maometto. Viene tuttavia respinta l’idea che il Cristo sia figlio di Dio e che sia morto sulla croce, e si afferma la sua assunzione in cielo da vivo. Maometto, rispetto ai suoi prede-


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cessori è ritenuto il «suggello dei profeti» con il quale la rivelazione divina si è definitivamente conclusa. Mentre per gli ebrei e i cristiani la Bibbia è di ispirazione divina e lo scrittore sacro si è espresso con parole proprie, per il musulmano il Corano non è opera di Maometto, ma è la parola di Dio e pertanto, laddove le leggende bibliche del Corano appaiono come deformazioni o tradizioni giudaico-cristiane eterodosse, per il musulmano esse sono storia sacra inconfutabile, falsificata e alterata negli altri libri sacri. I libri di Dio rivelati ai predecessori di Maometto e menzionati nel Corano sono: la Tor t (Pentateuco), lo Zab r (Salmi di David), l’Ing l (Vangelo), i Codici di Mosè, e altri non specificati. La parola divina è tuttavia unica ma rivelata in ordine di successione: il Corano, abrogando i testi precedenti è perciò il libro eccellente contenitore della rivelazione nella sua forma definitiva e diretta. Escatologia. Poco prima del giudizio universale, verrà a restaurare la fede il Mahd , contro il quale insorgerà (Anticristo; mentre alla vigilia della resurrezione, si scateneranno sulla terra le orde barbariche di Yagiug e Magiug (Gog e Magog dell’Apocalisse). Al momento del giudizio gli angeli consegneranno agli uomini il registro delle loro azioni per pesarle sulla bilancia e segnare a ciascuno il suo conto. Quindi le creature passeranno su di un ponte sottilissimo (sir t) sotto il quale è la Geenna: se in vita avranno seguito i precetti divini o saranno stati perdonati da Dio, andranno in paradiso; infedeli e musulmani preva-

ricatori non perdonati finiranno nella Geenna: i primi per restarvi in eterno, i secondi per un periodo di espiazione, dopo il quale saranno assunti in paradiso. Il paradiso coranico è un luogo di pace, lussureggiante di acque e di verde, dove i beati saranno uniti a delicate fanciulle (h r, urì) e riuniti ai loro figli. Più vaga è la descrizione dell’inferno al quale si accede per sette porte e al cui fondo si trova l’orribile albero Zaqq m, dei cui frutti i dannati dovranno cibarsi. Connessa con le rappresentazioni ultraterrene è anche l’esistenza di un Trono di Dio, di una Tavola sulla quale sono registrati i decreti divini e di un Calamo che serve per registrarli, del quale è fatta menzione del Corano. Prescrizioni cultuali. È necessario tenere presente che Maometto non fondò una chiesa stabile e permanente, interprete della Legge divina. Nell’Islam, anche attuale, non esiste né un pontefice né una classe di sacerdoti; la pratica del culto è affidata alla libera volontà del credente. Le prescrizioni fondamentali del musulmano sono cinque, con ogni probabilità fissate già alla morte del Profeta in forma non molto diversa dall’attuale, e più tardi precisate dalla tradizione. Esse sono: 1) la professione di fede, o shah da, consistente nella recitazione della formula L il ha ill wa Muhammad ras l All h («non v’è altro dio che Dio e Maometto è l’inviato di Dio»); 2) la preghiera canonica, o sal t, recitata cinque volte al giorno (all’alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, al tramonto e alla sera), che consiste nel ripetere formule, e versetti coranici. Nella preghiera, che il venerdì


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viene fatta in comune nella moschea, forante si rivolge verso la qibla, direzione della Mecca (nei primi tempi la direzione era verso Gerusalemme) e compie una serie di genuflessioni. La sal t è preceduta. da abluzioni, la cui mancanza renderebbe invalida la preghiera; 3) l’elemosina legale, o zak t, destinata ai bisogni della comunità; 4) il digiuno, o s um, consistente nell’astensione da cibi, bevande e ogni atto sessuale dall’alba al tramonto per tutto il mese di ramad n; 5) il pellegrinaggio alla Mecca, o hagg, da compiersi almeno una volta nella vita. A queste cinque prescrizioni se ne può aggiungere una sesta, benché non lo sia ufficialmente, cioè il gihi d o guerra santa contro gli infedeli, espressamente ordinata dal Corano (2, 257), che grava non su ogni singolo musulmano ma. sulla comunità (umma) nel suo insieme. Sistema teologico-giuridico. L’assoluto e intransigente monoteismo islamico si sostanzia nella proclamazione dell’unicità (tawh d) di Dio: Dio è unico, eterno, onnisciente, giudice supremo; è il creatore del mondo e continuamente crea e distrugge, ad ogni istante, la sua creazione; è il Signore assoluto che perdona e elargisce i favori e non è sentito come un padre. L’uomo, nei suoi confronti, si trova nella condizione di ‘abd (servo) e gli deve sottomissione e dedizione assolute. Obbedienti servi di Dio sono gli angeli difensori dei credenti, che nel giorno della resurrezione sospingeranno le anime e porteranno il Trono di Dio. Tenditore di agguati agli uomini è Ibl s, Satana, angelo decaduto e maledetto. Tra gli uomini e gli angeli stanno i ginn, sorta di spiriti folletti, esistenti già nelle credenze arabe preislamiche. La personalità arbitraria attribuita dall’islamismo a Dio e la sua estrema mobilità rendono molto limitato l’ambito della teologia dogmatica, da cui deriva, nell’Islam, la priorità della legge (shar ’a, sceria) sulla teologia, o addirittura, è stato detto, l’assorbimento di questa in quella. La shar ’a re-

gola minutamente non il solo atteggiamento esterno dell’uomo verso Dio, verso il prossimo e verso se stesso, ma anche quello della mente e del cuore. In tempo moderni sotto la spinta delle idee nuove e per influenza occidentale, si è cercato di superare questo condizionamento e, per quel che concerne la sfera esterna, la shar ’a è stata via via esautorata dalla legge dello Stato. Di origine rivelata il diritto musulmano è, conseguentemente, un diritto confessionale (non statuale) e personale (non territoriale) e la sua nozione non coincide con quella occidentale. Il concetto di fiqh, cioè quella parte della shar ’a che regola il foro esterno del credente non solo verso gli altri ma anche verso Dio e verso se stesso, tuttavia è ciò che più si avvicina al concetto occidentale di diritto. Nell’Isl m è soggetto di diritto chi è musulmano, libero e pubere. La morte e l’apostasia sono cause di perdita della capacità giuridica; mentre cause limitatrici sono l’età, alcune imperfezioni del corpo e della mente, il sesso femminile, il comportamento riprovevole, l’insolvenza. L’istituto del matrimonio (nik h), monandrico poliginico, è assimilato alla compravendita e vi ha rilevanza giuridica il fatto naturale della consumazione. Le cause di scioglimento possono essere naturali (morte), volontarie (sia unilaterali sia bilaterali), legali (apostasia). Tra i coniugi esiste il regime della netta separazione dei beni. La proprietà si può acquistare mediante occupazione, specificazione, accessione, coltivazione delle terre morte, ed anche il lavoro talora viene considerato come modo d’acquisto della proprietà. Accanto alla proprietà individuale (milk khass) v’è la proprietà collettiva, che può essere di villaggio, di tribù o dell’intera comunità (giam ’ at al-muslim n). Non v’è il concetto di servitù e di usufrutto, mentre si possono distinguere quelli d’uso e d’abitazione. In diritto penale i delitti (gin ày t) si distinguono in base alle


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pene, distinguibili in tre categorie: 1) taglione (qis s), per omicidio volontario, involontario e per lesioni; 2) pene stabilite dal Corano o hud d per l’apostasia, ribellione, rapporti sessuali illeciti, calunnia di zin , furto, brigantaggio, uso di inebrianti; 3) pene (t’z r) a discrezione del giudice. Il processo è orale, non formale, e a giudice unico, inappellabile e l’iniziativa spetta al giudice, da cui deriva la non netta distinzione tra attore e convenuto. Distinta dal giudice è la figura dell’arbitro di origine preislamica. Le fonti giuridico teologiche. Le fonti della teologia e del diritto, sono tre: il Corano; la Sunna, cioè modo di fare, regola di vita del Profeta (in sostanza una sorta di imitatio Muhammadis), basata fondamentalmente sul Corano (33, 21), che consiste di un insieme di tradizioni canoniche relative al comportamento del Profeta, ai suoi detti o fatti (o silenzi) su argomenti particolari; l’I m ’ o consenso dei dottori (‘ulam ’) o la legge dei giurisperiti (fuqah ), gli uni e gli altri intesi come rappresentanti della comunità dei credenti. A queste tre radici comuni, il fiqh ne aggiunge una quarta: il qiy s o deduzione analogica. Le scuole giuridico-teologiche. Delle numerose scuole giuridico-teologiche formatesi nel tempo (agli inizi su basi puramente geografiche, senza differenziazioni sostanziali di metodo), quattro raggiunsero grande fama e sono tuttora esistenti. Queste prendono il nome dai loro fondatori e sono: la malichita (da M lik ibn Anas, morto nel 795), la sciafiita (da ash-Sh fi’ , morto nel 820), la hanafita (da Abn H an fa, morto nel 167 circa), la hanbalita (da Ah mad ibn H anbal, morto nel 855). Le differenze fra queste quattro scuole tutte ortodosse o sunnite, sono limitate a questioni particolari oltre che a problemi di metodo: esse possono brevemente riassumersi nel fatto che la malichita pone particolarmente l’accento sulla tradizione, la hanafita fa meno uso della tradizione, ma

pur non potendosi chiamare razionalista, si serve molto del qiy s e del ra’y (ragionamento individuale), la sciafiita è eclettica con tendenze conservatrici, la hanbalita è conservatrice e riduce al minimo l’uso del qiy s. Un sistema teologico crearono i Mu’taziliti, dichiarati poi eterodossi (e scomparsi nel secolo XIII), dei quali venne però accettato il metodo razionale, il principio, cioè, che il ragionamento dovesse essere usato nell’elaborazione del dogma. Sorse in tal modo la teologia speculativa (kal m), i cui cultori furono detti mutakallim n. Nel secolo X, al-Ash’ar e al-M tur d elaborarono due sistemi teologici riconosciuti come ortodossi, sostanzialmente simili. Il sistema asharita si riferisce al catechismo di Ibn Hanbal, predicando la necessità di attenersi alla lettera del Corano e alla tradizione, rigettando la teoria del libero arbitrio sostenuta dai Mu’taziliti, la predestinazione e la prescienza di Dio, la cui volontà e la potenza sono assolute ma accompagnate dal concorso, inefficiente, della volontà umana. Sette. Due sono le grandi divisioni tra i musulmani: i Sunniti che costituiscono il 90% di tutti i musulmani e rappresentano l’ortodossia; gli Sciiti, i quali seguono sistemi teologici e giuridici in alcune parti divergenti dall’ortodossia. Accanto a queste due grandi diramazioni vi sono i Kharigiti (storicamente il primo gruppo dissidente) i quali si sono poi divisi in più comunità, di cui la ibadita è sopravvissuta fino a oggi. Nell’isl m contemporaneo, si possono individuare due tendenze: l’una propriamente modernista; l’altra, i cui presupposti culturali possono individuarsi nel rigorismo riformista wahhabita.


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01/7 SCINTOISMO (O SHINTOISMO O SHINTO) Religione nazionale giapponese. In origine consisteva in un culto della natura nel quale erano confluiti numerosi elementi sciamanici e animistici. Successivamente il pantheon che personificava le forze naturali fu sistematizzato in un ordine di divinità che accentuò in epoca storica una tendenza verso il monoteismo, con la graduale convergenza dei principali attributi divini nella figura della dea del sole Amaterasu. I luoghi del culto sono templi (miya «augusta casa»), in legno, caratterizzati da un’architettura arcaica e contrassegnati da una specie di portale, il torii. In epoca primitiva lo scintoismo non ebbe carattere omogeneo e fu costituito da un complesso di credenze locali e cicli di leggende che formarono la base di una mitologia ricca e varia, cui fu data una sistemazione ufficiale nel secolo VIII con il Kojiki (Memorie degli avvenimenti dell’antichità) e il Nihon Shoki o Nihongi (Cronache o Annali del Giappone). Il nome, derivato dal cinese shêntao, significa la «via degli spiriti». Sotto l’influenza del confucianesimo, penetrato nei primi secoli dell’era cristiana, lo scintoismo fu connesso strettamente con il sistema politico e l’idea imperiale, e si arricchì dei culti ancestrali. Verso la fine del IX secolo, scintoismo e buddhismo (quest’ultimo era stato introdotto

nel secolo VI) manifestarono un processo di fusione che dette origine al cosiddetto shinto dei due aspetti (ryôbu-shintô), il quale resistette per oltre un millennio alterando profondamente la fisionomia originale dello scintoismo. Nel 1868, in seguito alla restaurazione imperiale, le due religioni furono nuovamente scisse: l’avvenimento fu il risultato di una corrente a sfondo nazionalistico che si era proposta, attraverso un ritorno al puro shintô e cioè ad uno scintoismo sfrondato degli elementi di derivazione buddhista, un ritorno alle antiche concezioni civiche ed imperiali. Il puro shintô, come espressione del sentimento nazionale, fu successivamente considerato una religione di Stato, abolita solo dopo la seconda guerra mondiale in seguito a un rescritto imperiale che negava la natura divina del sovrano. La costituzione entrata in vigore nel 1957 ha posto lo scintoismo sullo stesso piano delle altre religioni.


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02 ABRAMO Abramo, l’antenato del popolo di Israele è chiamato nel libro della Genesi Abramo «l’ebreo», discendente cioè di Eber, secondo la genealogia della Bibbia; secondo le ricerche storiche moderne, apparterrebbe probabilmente al gruppo dei Chabiru, la cui presenza è attestata dai documenti dell’antico Oriente nella vasta zona della fertile Mezzaluna lungo tutto il II millennio a.C. Non designando però Chabiru un gruppo etnico, ma un ceto sociale, che secondo le circostanze e i tempi si prestava alle opere più svariate, Abramo e la sua stirpe si identificano solo parzialmente con essi. Il patriarca del popolo ebraico era imparentato con le tribù nomadi e seminomadi, che emigrarono dal deserto arabo e dalla Mesopotamia nella Siria e nel Canaan tra il 2000-1700 a.C., nel periodo di torbidi e di nuovi assestamenti politici, avvenuti in Mesopotamia, tra la caduta della III dinastia di Ur e l’avvento della I dinastia di Babilonia, di cui Hammurabi (1728-1686 a.C. ca.) è stata la figura più grande. Da Ur dei Caldei nella regione del Basso Eufrate, la famiglia dei Terachiti, a cui apparteneva Abramo, emigrò verso il nord a Haran, città posta lungo la via carovaniera, che portava nel Canaan: le due città, vincolate da rapporti commerciali e dallo stesso culto al dio-luna Sin, sono presentate nella Sacra Scrittura, in due tradizioni facilmente armonizzabili, come patria del patriarca. A brevi tappe, alla testa del suo gregge, Abramo percorre il deserto siriaco e giunge nel Canaan, dove, tenendosi lontano dalle città fortificate, attraversa la regione lungo gli altipiani, liberi e dal pascolo abbondante. Le tappe sono se-

gnate da luoghi di antichi santuari cananei, Sichem, Bethel, Bersabea. In un periodo di carestia scende in Egitto, granaio del mondo orientale, per far poi ritorno definitivo nel Canaan, dove si stanzia nella steppa del Negheb presso Mambre ad est di Hebron. Alla morte della moglie Sara, compra dagli Hittiti, abitanti della città, dopo trattative di squisito gusto orientale, la grotta di Macpelah. Questo primo possedimento terriero nel paese, che sarà dei suoi discendenti, diventa la tomba di famglia, in cui è sepolta Sara e riposerà Abramo stesso. La personalità umana del patriarca è tratteggiata in alcuni episodi narrati nel libro della Genesi con fedeltà alle antiche tradizioni orali. Da eroe del deserto, assalta con abile razzia notturna, alla testa di 300 uomini, la retroguardia dell’esercito di cinque re della Mesopotamia, che, venuti in spedizione punitiva, avevano depredato la Transgiordania, sconfitto gli eserciti della Pentapoli, nella regione a sud del mar Morto, e catturato il nipote Lot con la moglie e i beni. Tra i re coalizzati, figura Amrafel, a torto identificato con Hammurabi. Il capitolo 14 della Genesi, che riporta l’episodio, è ritenuto però dalla maggior parte degli studiosi come prezioso documento storico antico per il suo vocabolario arcaico e lo stile da archivio. Abramo fa mostra di un magnifico disinteresse nell’incontro con Melchisedech, re e sacerdote di Gerusalemme, a cui offre la decima parte del bottino, e con il re di Sodoma, a cui restituisce le persone e la roba razziata. Generoso e amante della pace, elimina la causa delle liti tra i suoi pastori e quelli


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di Lot per l’uso dei pascoli, insufficienti all’accresciuto numero del bestiame: lascia al nipote la scelta della regione che sarà la fertile e verde valle di Sodoma e Gomorra, mentre egli resta il solitario delle montagne. Al suo carattere non poteva mancare la nota orientale dell’ospitalità,che egli offre all’ombra della quercia di ambre a tre ospiti isteriosi. La figura di Abramo ha un’importanza particolare, nella storia religiosa del popolo di Israele, perché ne forma non solo la fase iniziale, a ne segna anche gli orientamenti fondamentali. Questi si possono sintetizzare nei tre eventi di elezione, di alleanza circoncisione. Nell’emigrazione di Abramo da una terra e da un popolo pagano, lo scrittore sacro vede un fatto mistico: Dio parla ad un uomo, lo sceglie dalla moltitudine dei popoli, di cui aveva descritto la dispersione e il disordine nel racconto della torre di Babele, e gli dà l’ordine della partenza verso una terra che gli promette in possesso. Inizia così il terzo periodo della storia della salvezza, dopo quelli di Adamo e di Noè. L’iniziativa è tutta di Dio; è un libero atto di elezione fuori di ogni spiegazione di meriti umani. All’ordine della partenza Dio aggiunge la promessa di numerosa discendenza e del possesso della terra di Canaan che, ripetuta e variata in ricche formule, è il filo d’oro che unisce e unifica la trama delle molte tradizioni sulla vita dei patriarchi. La promessa di benedizione e di prosperità non resterà coartata nel popolo, che nascerà da Abramo, ma si estenderà a tutte le nazioni della terra. In questo ritorno dei popoli dalla dispersione all’unità, dalla

rovina alla salvezza, egli avrà l’ufficio di intermediario. L’elezione di Dio assume la forma di alleanza, di una promessa giurata, di un trattamento di favore, conclusa con un rito di imprecazione. Nel patto con Abramo, Dio giura per se stesso, e nel realistico rito di imprecazione di una giovenca e due capri, divisi per metà, è Dio, che nella teofania di un forno fiammeggiante, passa da solo nello spazio tra i quarti degli animali, allineati in due ordini opposti. Abramo fa da semplice spettatore al passaggio imprecatorio di Dio, che è l’unico iniziatore e garante dell’alleanza. Un fuoco celeste consuma le vittime immolate, per esprimere l’inscindibile unità nella quale sono ormai fusi i membri contraenti. Segno esterno, e quindi impegno assunto da Abramo per sé e per tutti i suoi discendenti, è la circoncisione di tutti i maschi: il rito, praticato già prima da altri popoli, è assunto da Dio quasi a sacramento di incorporazione nel popolo eletto. I rapporti personali, creati così da Dio con Abramo, sono espressi in titoli religiosi: Jahwe è il Dio di Abramo; ed Abramo è il servo di Jahwe, il profeta, l’amico di Jahwe, Khalil Allah, come ancor oggi è chiamato dagli Arabi. La missione, affidatagli da Dio, è quella di essere padre di una grande nazione, anzi di molti popoli. Il cambiamento del nome da ‘Abram in ‘Abraham, che secondo una facile etimologia popolare ebraica viene interpretato come «padre di molti popoli», sta ad esprimere la sua nuova missione. Abramo, col suo atto di fede nella promessa di una innumerevole discendenza, aderisce con tutto il


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suo essere al piano di salvezza, rivelatogli da Dio; e vive per gran parte della vita l’intimo dramma dell’uomo di fede. La sterilità della moglie Sara, che dura fino alla tarda vecchiaia, sembra irridere la parola di Dio: per ovviare a quest’ostacolo, Abramo, secondo le possibilità offerte dal diritto di allora, adotta il figlio Ismaele natogli dalla schiava Agar «sulle ginocchia di Sara», come si esprimeva la formula di adozione. E quando finalmente gli nasce Isacco, il flglio della promessa, Dio gli ordina di sacrificarlo. Nel momento in cui il patriarca si accinge ad immolarlo, gli viene indicato in sostituzione un ariete impigliato in un cespuglio. L’episodio non è solo una polemica contro i sacrifici umani praticati dai Cananei della regione, ma anche la più alta prova e vittoria della sua fede. Questa fede gli sarà imputata, in un passo teologico di grande importanza, a giustizia, definita come il giusto rapporto dell’uomo con Dio. La promessa di Dio si attua intanto nella storia: da Abramo infatti, tramite suo figlio Isacco e il nipote Giacobbe-Israele, discende il popolo degli Israeliti; per mezzo del figlio Ismaele, quello degli Ismaeliti; tramite la moglie Cettura, il patriarca è imparentato con una serie di tribù nord e sud-semitiche; e per la linea genealogica del nipote Lot, con i Moabiti e gli Ammoniti. Nel tardo giudaesimo la promessa di benedizione fatta ad Abramo fu interpretata, sul piano teologico della salvezza, in senso carnale: la sola appartenenza fisica alla stirpe di Abramo assicurava ai discendenti il regno dei cieli e i beni messianici. Nel Nuovo Testamento viene combattuta una vigorosa battaglia contro tale presunzione. Il precursore Giovanni Battista e Gesù sono unanimi nel predicare contro di essa: pur riconoscendo ai Giudei il privilegio di essere il seme di Abramo, si proclama loro che non basta il sangue per essere i suoi veri eredi, se non si ha la fede e non si compiono le

opere del patriarca. La battaglia contro l’idea che la salvezza è garantita ai figli naturali di Abramo è ripresa, con estremo vigore ed esito vittorioso, da Paolo nella sua predicazione e nelle lettere ai Galati e ai Romani. Le promesse fatte ad Abrammo e realizzatesi; in tutta la loro pienezza, in Gesù, suo vero e unico discendente, obbligano l’apostolo a infrangere le barriere del giudaismo naturalistico e a proclamare l’universalismo della salvezza. Tutti quelli che credono in Cristo ed in Lui formano un solo corpo, circoncisi o incirconcisi, Israeliti o Gentili, partecipano alla benedizione e alla promessa di Abramo. La fede fa di loro i discendenti spirituali di colui che è veramente il padre di tutti i credenti. La figura di A. è stata oggetto di numerose leggende sin dai tempi più antichi. Nella maggior parte di esse Abramo compare come il difensore della vera religione, che combatte l’astrologia, rompe gli idoli e come vero e proprio «eroe culturale», fondatore di città, scopritore di nuovi metodi d’agricoltura, inventore dell’alfabeto, etc.


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AMATERASU

Amaterasu è la più importante divinità dello scintoismo. Nata dall’occhio sinistro del dio Izanagi, è considerata progenitrice della casa imperiale giapponese. Nel santuario di Ise (nel-

l’isola Honshu), a lei dedicato, si conserva il sacro specchio simbolo solare che la dea diede al nipote Ninigi insieme con la sciabola e i gioielli, conferendogli il mandato di governare il Giappone.


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BUDDHA

Buddha è l’appellativo che in vedico (l’antica lingua indiana) significa «svegliato, illuminato» dato a Gautama Siddhartha, considerato il fondatore del buddhismo. Non c’è alcun motivo, dopo le scoperte archeologiche che confermano sostanzialmente la tradizione relativa alla sua nascita e alla sua morte (avvenute nel 560-480 a.C.), di dubitare della sua esistenza storica. Si tratta infatti della prima personalità, nella storia dell’India, di cui si conoscano esattamente le date di nascita e di morte. Di lui esistono molte biografie, alcune commoventi nella loro semplicità, altre invece ricche di avvenimenti prodigiosi. Tutte, comunque, sono concordi sulle vicende della sua vita. Gautama Siddhartha, chiamato Buddha dopo l’illuminazione, fu figlio di Suddhodana, un principe elettivo di Kapilavastu, città di uno Stato dell’India settentrionale non lontano dai confini del Nepal, appartenente alla nobile e ricca famiglia dei Sakia. Buddha ricevette un’educazione pari al suo grado, crescendo nell’agiatezza e nel lusso. Dopo soli sette giorni dalla nascita perse la madre, Maya-Devi, e venne allevato da una zia che, per ordine del padre, lo tenne lontano da ogni dolore. Questo perché Suddhodana aveva saputo, già pochi giorni dopo la sua nascita, che il figlio sarebbe divenuto un «illuminato»: Siddartha, infatti, nel giardino dei Lumini, aveva compiuto sette passi nella direzione dei quattro punti cardinali, pronunciando parole con le quali prendeva possesso del mondo, mentre sul suo corpo apparivano evidenti i segni della sua grandezza futura.

Anche quando era stato presentato al tempio si era verificato un episodio straordinario: le statue erano scese dai loro piedistalli e si erano inginocchiate per venerarlo. Il padre, dunque, preoccupato per i sacrifici che avrebbe dovuto affrontare nella sua vita dedicata esclusivamente alla religione, tentò di evitare che il suo destino di «illuminato» si compisse e lo fece sposare a soli sedici anni con la giovanissima cugina Yasodhara, dalla quale ebbe un figlio. Buddha iniziò così una vita all’insegna dell’agiatezza e dei piaceri che, nel corso degli anni, lo portarono a una profonda crisi spirituale. Deluso da questa vita e turbato dallo spettacolo della malattia, del dolore e della morte (secondo la leggenda egli avrebbe, in una passeggiata, visto prima un vecchio, poi un malato e un cadavere in putrefazione e infine un asceta), comprese che l’esistenza umana è piena di dolori e che l’uomo, anche felice, è continuamente minacciato dalla perdita di ciò che ama. A 29 anni lasciò di nascosto il palazzo per studiare, assieme ad alcuni illustri filosofi brahmani, il modo per liberare l’umanità da tutti i mali e da tutti i dolori. Ben presto, però, si accorse della scarsa capacità di insegnamento dei suoi maestri e decise di ritirarsi in meditazione in una foresta, dove rimase per sei anni. Al termine di questo periodo, mentre si trovava presso Bodh Gaya nell’India orientale, seduto ai piedi di un albero di fico divenuto poi sacro con il nome di «albero della chiaroveggenza», il suo spirito venne illuminato. Siddartha raggiunse così la liberazione dal dolore terreno, dive-


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nendo, secondo l’antico brahmanesimo, «Buddha». Dopo questo evento prodigioso, comprese che le miserie non si possono separare dall’esistenza e che il dolore viene generato dalle passioni e dai desideri. Buddha decise quindi di annunciare al mondo la verità raggiunta. A Benares incontrò cinque asceti che già aveva conosciuto e li fece suoi discepoli. La predica di Benares viene indicata nella tradizione buddhistica come la prima «messa in moto della ruota della dottrina». In quell’occasione Buddha svelò le quattro nobili verità: la vita umana è piena di dolore a causa della sua instabilità; il desiderio è all’origine di questo dolore; per eliminare il dolore bisogna innanzitutto eliminare il desiderio; per ottenere questo è necessario percorrere l’«ottuplice sentiero» (la retta fede, la retta volontà, la retta parola, la retta azione, la retta via, il retto sforzo, il retto pensiero e la retta concentrazione).

Altre conversioni seguirono alle prime di Benares e si formò presto una piccola comunità. Accanto agli iniziati, che pronunciavano i voti e costituivano il nucleo dell’ordine dei bonzi, vi erano i laici che, pur rimanendo nella vita secolare, seguivano la morale del Buddha e si impegnavano a provvedere al necessario dei monaci. Buddha fondò anche, dietro richiesta della suocera, una comunità femminile. La sua peregrinazione nell’India nord-orientale per diffondere la dottrina durò circa 40 anni. Morì all’età di 80 anni. Alla sua salma furono tributati onori regali dai signori della città e sul luogo dove fu incenerito il suo corpo sorse un monumento con le reliquie (stupa). L’appellativo Buddha fu poi concesso ad altri personaggi vissuti in epoche successive, che raggiunsero, secondo la religione buddista, la perfetta illuminazione.


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CONFUCIO

Il filosofo cinese Confucio nacque a Chüehli (Shantung) attorno al 551 a.C. con il nome di K’ung (Confucio è la forma latinizzata di K’ung-fu-tzu «maestro K’ung»). Rimasto orfano all’età di tre anni, fu condotto dalla madre a Chüfu, dove, nonostante la povertà, ricevette una buona istruzione. Trascorse l’infanzia studiando con molta serietà e con ottimo profitto; sposatosi a 19 anni, ricoprì modeste cariche amministrative. All’età di 24 anni perse anche la madre, per cui, dimessosi dall’ufficio che allora ricopriva, si dedicò con intensità allo studio dei classici e della storia antica, fino all’età di 30 anni, periodo in cui iniziò a viaggiare per varie regioni, esponendo le sue idee, tendenti a riportare una norma etica nella dissolutezza generale, con un richiamo ai costumi dei tempi d’oro della Cina. Il periodo in cui egli visse è caratterizzato dalla decadenza del potere centrale dei re della dinastia Chou, che dal secolo VIII conservavano ormai una larva di potere, imperniato precipuamente sulle funzioni sacerdotali esercitate dalla famiglia reale. Alla decadenza del potere centrale aveva fatto riscontro anche l’insorgere di sorde lotte, di gelosie, di intrighi tra i vari principati, accompagnati, nel marasma politico, dallo infiacchimento dei costumi. In questo ambiente storico va collocata la figura di Confucio. Quando tornò nella sua terra, il suo insegnamento, ormai noto, gli procurò una schiera di attenti alunni, di ogni provenienza sociale, che pare non fossero inferiori a tremila, di cui settantadue gli erano particolarmente cari per il loro impegno

nello studio dei classici. Finalmente, all’età di 56 anni, fu nominato ministro dal principe di Lu, sua terra natale (l’antico Stato di Lu corrisponde all’incirca all’attuale Shantung) e poté mettere in pratica i suoi principi, con risultati brillanti. Ma durò poco. L’invidia, la gelosia, i timori degli Stati vicini, che vedevano nella fioritura dello Stato di Lu il probabile rafforzamento di un temibile vicino, condussero a una congiura contro il maestro: la corte di Ch’i inviò al signore di Lu 80 danzatrici, che il destinatario accolse con palese compiacimento. Questa debolezza del principe e l’esempio negativo che da lui discendeva, rese sterile in un sol colpo l’insegnamento all’austerità, il richiamo ai probi costumi, che Confucio si era sforzato di inculcare in tutti, per costruire una società sana e felice. Egli si dimise, dunque, dall’altissima carica, e riprese il triste peregrinare da uno Stato all’altro, insegnando la sua dottrina. Negli ultimi anni di vita, Confucio si ritirò a Chüfu, dove morì nel 479 a.C. Qui selezionò i testi antichi che raccolse in un Corpus noto come i Cinque classici (Wu-ching) e forse scrisse, come vuole la tradizione confuciana, Gli annali di Lu (dal 722 al 481 a.C.), più noti con il nome di Ch’un-ch’iu (Primavere e Autunni).


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02/4 GESÙ

Gesù, fondatore del cristianesimo, è considerato dalla Chiesa cristana figlio unigenito di Dio, nato da Maria Vergine per soprannaturale concepimento ad opera dello Spirito Santo. Il termine Cristo, con il quale viene comunemente chiamato, significa “Messia”. Sull’esatta collocazione della sua nascita nel tempo, avvenuta a Betlemme, nelle vicinanze di Gerusalemme, non vi sono dati certi: nonostante la tradizione abbia fissato la sua venuta al mondo nell’anno 0, questa in realtà sarebbe avvenuta attorno al 748 dalla nascita di Roma, corrispondente al 4 a.C. (l’errore cronologico risalirebbe a Dioniso il Piccolo che nel VI secolo fissò, erroneamente, la nascita di Cristo al 754 dalla nascita di Roma). La sua vita è narrata, a parte qualche accenno di autori non cristiani (Plinio il Giovane, Svetonio, Tacito), nei Vangeli che parlano della sua esistenza e dei suoi insegnamenti distinguendoli in tre periodi: la vita nascosta, la vita pubblica, la vita gloriosa. Dopo la nascita, di cui parlano solo i Vangeli di Matteo e Luca, Gesù trascorse un lungo periodo a Nazareth, praticando la professione di Giuseppe, marito di Maria: il falegname. È invece al periodo della sua vita pubblica che i Vangeli dedicano più spazio, riportando dettagliatamente i fatti relativi alle sue predicazioni e all’annuncio della “buona novella”. Gesù iniziò il periodo della sua vita pubblica con l’improvvisa apparizione sulle rive del Giordano attorno ai trent’anni. Qui fu battezzato da Giovanni Battista e successivamente si ritirò per quaranta giorni nel deserto, dove fu tentato per tre volte da Satana. Tornato

quindi in Galilea seguito dai tre discepoli Andrea, suo fratello Simone (che verrà poi da lui chiamato Pietro) e Giovanni, compì a Cana il suo primo miracolo, trasformando dell’acqua in vino durante un banchetto nuziale. Fu dopo l’arresto di Giovanni Battista, eseguito per ordine di Erode Antipa, che Gesù intensificò la sua attività. Nell’annunciare l’approssimarsi del Regno di Dio, senza però proclamarsi come il Messia, Gesù compì numerosi miracoli, guarendo i malati e liberando gli indemoniati. Ed è proprio mentre predicava sulla Montagna, una collina sulla sponda del lago Tiberiade, che per dare maggiore universalità al suo insegnamento, basato sulla beatitudine dei poveri, dei sofferenti, dei puri, dei pacifici, degli affamati e assetati di giustizia, guarì lo schiavo del centurione di Cafarnao. Si sposta, in questo periodo, da una città all’altra e di villaggio in villaggio per predicare e annunciare il suo messaggio e il suo percorso è segnato da numerosi eventi, come la tempesta placata, la guarigione dei due ciechi, la cacciata violenta da Nazareth, l’invio dei dodici apostoli per predicare il Regno di Dio. Giunse così l’anno 30. Dopo alcune visite in Transgiordania e in Galilea, Gesù si recò a Gerusalemme sentendo che il tempo per lui stava per compiersi. Accolto da una folla festante e, allo stesso tempo, dal grande disappunto dei sommi sacerdoti, dei farisei e degli anziani, iniziò così il tempo della sua Passione. Il giovedì sera celebrò l’ultimo banchetto con i suoi apostoli e istituì l’eucaristia, dopodiché si ritirò in medi-


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tazione nel giardino dei Gethsemani. E fu in questo luogo che venne arrestato dai soldati del sommo sacerdote, dopo essere stato tradito da Giuda, uno dei dodici apostoli. Fu quindi trascinato davanti al procuratore romano Ponzio Pilato e, dopo un processo sommario, venne condannato alla crocifissione, con l’accusa di lesa maestà. Questo fu l’ul-

timo atto della sua vita: costretto a portare la croce fino alla sommità del Golgota, fu crocifisso tra due ladroni. Secondo le sacre scritture, Gesù morì il venerdì 7 aprile dell’anno 30, alle tre del pomeriggio. Secondi i Vangeli, sarebbe risorto tre giorni dopo essere stato giustiziato.

02/5 LAO-TZU Il filosofo cinese Lao Tz nacque a Ch’üjen, nello Stato di Ch’o (odierna Honan) nel 604 a.C. e fu contemporaneo di Confucio. Fondatore del taoismo, impostò la sua dottrina più sull’etica e sul comportamento individuale che sulla metafisica. Secondo il suo pensiero tutti gli esseri umani devono conformarsi al tao (ossia l’originaria unità dell’universo)

che fa da guida ad ogni creatura. Dopo aver fondato una scuola a P’ei, nell’odierno Shantung meridionale, Lao Tz lavorò come archivista nella città di Loi (odierna Honanfu). I principi da lui divulgati furono raccolti dai discepoli solo nel IV secolo a.C. in Tao Te Ching (Libro della via e della sua norma).


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02/6 MAOMETTO Maometto nacque a La Mecca intorno al 570, nella nobile, ma decaduta famiglia di Hashim, della tribù dei Qurayshiti. Le vicende della sua infanzia ci sono note attraverso alcune biografie, che però non possono essere completamente accettate, perché nel corso dei secoli sono state arricchite da numerosi elementi leggendari. Secondo le fonti, alla sua nascita si sarebbe verificato un fatto miracoloso: due angeli gli avrebbero aperto il petto ed estratto il cuore per purificarglielo. È certo, invece, che a soli sei anni rimase orfano e fu affidato allo zio paterno Abn Talib. Dalle ristrettezze economiche della sua famiglia lo tolse il matrimonio contratto con Kha-

digia, una ricca e anziana vedova, della quale curava il patrimonio e per la quale guidava carovane in Palestina, Siria e Arabia meridionale. Nel 609-610 una crisi religiosa lo indusse a rinnegare il politeismo per una fede monoteistica che, intorno al 612, cominciò a predicare, prima nella cerchia familiare, poi tra i suoi concittadini. Il messaggio di Maometto annunciava l’esistenza di un solo Dio (Allah), il divieto all’idolatria, l’esistenza di un giudizio ultraterreno e la necessità di una vita rigorosa, basata sulla preghiera, l’ascetismo e la pietà verso i poveri. Non sembra che Maometto avesse inizialmente l’intenzione di fondare una nuova religione universale,


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ma le sue rivelazioni incontrarono l’ostilità dei ricchi commercianti, che si sentirono minacciati dal rigore predicato da Maometto (i poveri invece lo accettarono pienamente). L’ostilità dei suoi concittadini lo indusse a lasciare La Mecca. Nel 622, dopo aver trovato appoggi nella città di Yathrib, futura Medina (cioè “città del Profeta”, ossia di Maometto), vi si recò con una parte dei suoi famigliari e dei suoi seguaci. Questa fuga, nota con il nome di egira (la cui traduzione corretta è “emigrazione”), è oggi considerata come l’inizio dell’islamismo. A Medina Maometto divenne capo religioso e politico e organizzò una prima comunità islamica, distinguendo tra Muhagirun (i compagni dell’emigra-

zione) e Ansar (gli “ausiliari”, cioè i convertiti di Medina). Nel 624 iniziò la conquista de La Mecca, innalzata a città santa della sua religione, e sconfisse i meccani a Badr (624). Sconfitto a sua volta presso Uhud e posto sotto assedio a Medina (627), Maometto firmò una tregua decennale nel 628. Due anni dopo, però, rotta la tregua marciò su La Mecca, conquistandola quasi senza combattere. Ritornato tuttavia a Medina, passò gli ultimi anni della sua vita a diffondere la nuova religione e a difendere lo Stato islamico appena sorto, ricorrendo, per tale fine, anche ad atti violenti e sanguinari. Morì nella città nel 632, quando ormai quasi tutta l’Arabia era già soggetta all’Islm.

02/7 MARTIN LUTERO Martin Lutero, fondatore del protestantesimo in Germania e principale autore della scissione ecclesiastica occidentale, nacque a Eisleben (Turingia) nel 1483. Figlio di un minatore, venne avviato agli studi e frequentò l’Università di Erfurt dove conseguì il grado di Magister artium (1505). Iniziò lo studio del diritto, che però interruppe subito dopo per entrare tra gli eremitani osservanti di Sant’Agostino (1505). Ricevette l’ordine sacerdotale nel 1507 e si dedicò alla predicazione e all’insegnamento universitario. Dal 1508 fu professore a Wittenberg nell’Università fondata dal principe elettore Federico di Sassonia e lì rimase, salvo brevi parentesi, fino alla morte.

Nell’inverno del 1510, Lutero accompagnò a Roma un suo confratello, allo scopo di evitare la fusione dei conventi della congregazione dell’Osservanza, diretta da Giovanni Staupitz, con i conventuali e vi riuscì. Ritornato in Germania, venne promosso dottore in Teologia (1512) e ottenne la cattedra di Esegesi biblica all’Università di Wittenberg; nel 1515 venne anche nominato vicario distrettuale del suo ordine. Questo primo periodo di intensa attività e di brillante carriera universitaria è segnato da una lunga crisi interiore, importantissima per comprendere l’evoluzione del suo pensiero e l’impostazione della sua attività dopo il 1517, che coincide con le


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prime fasi della Riforma. Fin dalla sua entrata nell’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino, Lutero si era impegnato energicamente nelle pratiche di ascesi monastica (digiuni, penitenze, esami di coscienza, umiliazioni, etc.), convinto che esse rappresentassero la vera via della perfezione, ma non ne aveva ricavato quella tranquillità di spirito e certezza della salvezza finale che sperava. Nella lettura della Bibbia sentiva come un incubo la parola della giustizia di Dio, che riteneva esigesse la perfezione. Si radicò così in lui l’opinione che l’uomo, con il peccato originale, avesse

perso definitivamente la libertà morale e quindi fosse incapace di fare il bene e di tendere alla propria perfezione e santificazione. La puntualizzazione della crisi di Lutero si trova nella Theologia crucis, che ne riassume il pensiero degli anni 1515-18. Essa è l’espressione di una coscienza scrupolosa, più propensa a tormentarsi per colpe inesistenti, che ad assolversi di peccati inconfessabili, e che trova la sua pace nel pensiero che l’amara convinzione di essere in ogni senso inadeguata alle sue esigenze divine è un severo dono di Dio, che castiga colui che ama e rivela il suo amore, pa-


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radossalmente, sotto le apparenze della sua ira. Non rimane perciò altra via, a chi dispera per sé, che abbandonare a Dio il giudizio, far propria la sua condanna e affidarsi alla sua misericordia. Secondo Lutero, infatti, soltanto Dio può rendere giusto il peccatore elargendo la sua grazia, mentre a nulla valgono le nostre opere, perché provengono da una natura radicalmente corrotta. In questa abdicazione, il peccatore «giustifica Dio» (cioè lo riconosce giusto), ed è «giustificato», cioè perdonato da Dio. A questo punto dell’evoluzione intellettuale e spirituale di Lutero, nella vicina Torgau, il domenicano J. Tetzel bandì la vendita delle indulgenze per finanziare la costruzione della nuova basilica di San Pietro. Lutero affisse allora sul portale della chiesa di Ognissanti a Wittenberg (31 ottobre 1517) le «95 tesi», in cui manifestava clamorosamente tutte le sue idee e, basandosi sulla dottrina della giustificazione, impugnava a fondo la vergognosa degenerazione dell’amministrazione delle indulgenze, quale veniva praticata dal papato. Le 95 tesi si diffusero rapidamente ed ebbero una risonanza tale da catalizzare attorno ad esse tutta l’insofferenza della Germania verso Roma. Nell’estate del 1518, Lutero venne accusato di eresia, ma il processo fu aggiornato per dargli occasione di giustificarsi davanti al cardinale legato Tommaso de Vio (Gaetano), inviato alla Dieta di Augusta. Ma ad Augusta egli rifiutò di ritrattare e il 20 ottobre 1518 fuggì dalla città. Dopo un tentativo di conciliazione il pontefice Leone X, con la bolla Exurge Domine (giugno 1520), lo minacciò di scomunica e condannò 41 proposizioni dichiarate in parte eretiche, in parte «false, scandalose, seduttrici e contrarie alla verità cattolica». Esse riguardavano l’incapacità dell’uomo, la fede, la giustificazione, la Grazia, i sacramenti, la gerarchia e il purgatorio. Inoltre la bolla condannava alla distruzione i libri che contenevano

tali errori. Per risposta, Lutero dichiarava invalida la scomunica e presenti tutti gli studenti, ne bruciava in piazza la bolla con il Corpus Juris Canonici (dicembre 1520). Già nell’estate del 1520, mentre la notizia della bolla precedeva il suo arrivo, Lutero aveva scritto tre trattati considerati come l’espressione del suo pensiero riformatore: l’appello An den christlichen Adel deutscher Nation, in cui invitava le autorità civili a prendere in mano la causa della riforma; il De captivitate babylonica Ecclesiae, in cui attaccava l’edificio sacramentale cattolico romano; e il De libertate christiana con una epistola a Leone X, in cui esprimeva la sua concezione morale, secondo la quale, il cristiano è libero da ogni legge esteriore, ma è interiormente vincolato dalla fede e dall’amore fraterno. Poiché l’eccitazione degli animi in Germania rendeva delicata l’esecuzione della bolla, Lutero venne invitato a comparire e a ritrattare dinnanzi alla Dieta di Worms. Questi vi andò, ma nella seduta del 18 aprile, appellandosi alla sua coscienza, rifiutò di ritrattare alcune delle sue idee a meno che venissero confutate sulla base della Sacra Scrittura o della ragione. Il 26 aprile, prima che scadesse il salvacondotto, lasciava Worms e durante il viaggio veniva fatto prelevato per ordine del principe elettore di Sassonia Federico il Savio e nascosto nella rocca della Wartburg. Uscì dal suo rifugio nel marzo del 1522, quando le prime avvisaglie dell’insurrezione di contadini e le prime violenze suscitate dalla Riforma richiedevano la sua presenza moderatrice. Il resto della sua vita lo trascorse indisturbato a Wittenberg, insegnando Esegesi biblica all’Università e guidando con la parola, con l’esempio e con gli scritti la lotta della Riforma. Morì nella sua città natale nel 1545.


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02/8 MOSÈ La storia di Mosè si collega alla nascita della nazionale ebraica ed è desunta da più libri dell’Antico Testamento (Esodo, Numeri, Levitico e Deuteronomio). Secondo il racconto biblico, Mosè nacque in Egitto, dagli schiavi ebrei Amram e Jokebed, della tribù di Levi. Salvato dalla persecuzione del faraone che aveva ordinato la morte di tutti i neonati maschi ebrei, fu salvato da una figlia del faraone stesso, che lo trovò nascosto in una cesta sulle acque del Nilo: il suo nome, di origine egiziana, significhe-

rebbe infatti “salvato dalle acque”. Come figlio della principessa, crebbe a corte, inconsapevole delle sue origini. Dopo essere venuto a conoscenza della sua vera storia, uccise un egiziano e, costretto a fuggire, si rifugiò fra i Madianiti del Sinai, dove sposò Sippora (o Sefora), figlia di Jetro. Qui Dio gli parlò e lo inviò al suo popolo (gli Ebrei) per liberarlo dalla schiavitù e guidarlo verso la terra promessa, Canaan (Palestina). Mosè tornò dunque in Egitto e, dopo una serie di sciagure provocate da Dio, ottenne il


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permesso del faraone Ramses di liberare il popolo ebraico. Cambiata idea, però, Ramses lanciò l’esercito all’inseguimento degli Ebrei, ma le sue armate furono sommerse dalle acque del mar Rosso, che invece si erano aperte per consentire il passaggio del popolo d’Israele. Giunto ai piedi del monte Sinai, Mosè ricevette le “Tavole della Legge” (“i dieci comandamenti”) e il “Codice dell’Alleanza”. Il viaggio verso la Palestina durò quarant’anni e, giunti finalmente sulle rive del Giordano, di fronte a Gerico, il popolo ebraico vi si stanziò. Mosè però non raggiunse mai la terra promessa per volere divino: morì sul monte Nebo dopo aver nominato come suo successore Giosuè. Le notizie che si ricavano dal racconto biblico sul personaggio storico Mosè sono contraddittorie ed oscure, perché nel tempo egli è divenuto un personaggio leggendario e la storia si è trasformata in mito. La critica moderna sostiene che i testi biblici riportino una verità (la schiavitù degli Ebrei in Egitto

e la loro liberazione) che va accolta solo in parte: la persecuzione è generalmente datata al tempo del faraone Ramses II (1300-1224 a.C. circa), mentre la partenza degli Ebrei avverrebbe sotto il faraone Meneptah (1235-1224 a.C. circa). È dunque in questo arco di tempo che avrebbe operato Mosè. L’ebraismo lo considera come la figura più importante dell’Antico Testamento, perché ha ricevuto da Dio sia la legge scritta (t r h), sia la legge orale (mišn h), ma la sua figura occupa un posto importante sia per la religione cristiana (viene spesso citato nel Nuovo Testamento), sia per la religione musulmana (viene citato nel Corano): per la prima, Mosè è un esempio di fede e avrebbe predetto la venuta di Gesù, mentre, per la seconda, avrebbe predetto la venuta di Maometto. La tradizione ebraico-cristiana gli attribuisce la composizione dei primi cinque libri dell’Antico Testamento (Pentateuco).


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02/9 TRIMURTI Trimurti è il termine religioso del tardo brahmanesimo che indica la trinità delle forze cosmiche nell’unità del dio. Tre sono le interpretazioni che se ne danno. Secondo la setta visnuitica, la Trimurti è composta da Vi nu (la buona essenza) Shiva (l’ignoranza) e Brahm (la passione). Secondo la interpretazione brahmanica: Brahm (creatore), Vi nu (conservatore) e Shiva (distruttore). infine, la Trimurti è stata intesa come la triplice potenzialità del dio, assurto a Signore Supremo e artefice, attraverso emanazioni divine diverse, della creazione, della durata e della distruzione dell’universo. Gli dei che la compongono sono: Brahm : personificazione mascolina del supremo spirito Brahman. Nato dalla speculazione teologica, Brahma non fu mai popolare e un solo tempio gli venne dedicato in India. Nelle parti più antiche del Mah bh rata è invece considerato creatore degli uomini e degli dei, a lui

soggetti. Nel testo del buddismo p li, Brahma assume l’epiteto di Sahampati e continua ad avere il predominio assoluto sugli altri dei. Vi nu (italianizz. Visnù): Dio solare del pantheon indiano, già presente nel periodo vedico. In età brahmanica, Visnù abbattè Indra e assunse nella trinità indiana le vesti della potenza «conservatrice». Ebbe dieci principali incarnazioni o, meglio ancora, «presenze in terra» (avat ra), tra cui Krisna e Buddha. Siva: divinità della mitologia postvedica indiana. Diretto erede del crudele dio vedico Rudra, costituisce, nella religione brahmanica, rappresenta la forza di distruzione e di creazione. Nella complessa figurazione iconografica è rappresentato o armato di tridente, con una rete e una collana di teschi attorno al collo oppure con quattro braccia, danzante la danza cosmica nel fiammeggiante cerchio solare.


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