Scene cinquecentesche

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LA COMMEDIA BERNARDO DOVIZI

LA TRAGEDIA

GIAN GIORGIO TRISSINO

TRAGICOMMEDIE E PASTORALI BATTISTA GUERINI

COMMEDIA DELL’ARTE ARLECCHINO BRIGHELLA PANTALONE


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00 SCENE CINQUECENTESCHE Il Cinquecento conobbe e sperimentÚ una visione del teatro come stupore, come effetto e fulgore. » cosÏ che, sulla scena, il Sedicesimo secolo si allontana dal Medioevo e avanza verso il Barocco. I progressi, diremmo oggi, della scenotecnica, e l’esistenza di condizioni politiche e sociali favorevoli, portarono l’Italia cinquecentesca all’avanguardia nel cammino verso il teatro moderno. Il Rinascimento porta a fusione rappresentazione medievale e festa, la lezione degli antichi e le pi˘ avanzate tecnologie. In pi˘ di un caso il drammaturgo Ë anche regi-

sta, il trattatista scenografo: forma e contenuto hanno una stretta aderenza. Sul piano letterario, il nasce una suddivisione per generi: tragedia, commedia, tragicommedia e dramma pastorale. Sul piano dei modi di rappresentazione, Ë la rivoluzione. All’inizio del secolo, compagnie dilettantesche rappresentavano commedie classiche su scene d’impianto medievale, bidimensionali e statiche, decorate solo con una fila di case con tende; mentre al suo termine, lo sguardo degli spettatori Ë ammaliato dai rapidi mutamenti di scene riccamente dipinte.


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La scena sacra medievale - allestita in chiesa o in piazza o in una sala al chiuso - era basata sulle ´caseª, o luoghi deputati, e sulla mescolanza fra attori e pubblico. La scena rinascimentale, al contrario, provoca una separazione fra palcoscenico e platea, implicando anche una frattura sociale fra attori e spettatori nobili o borghesi; e preludendo alla scena all’italiana, o ´a scatola otticaª, quella per noi tradizionale, che con sipario, arco di proscenio, buio in sala e luci della ribalta, erige una ´quarta pareteª fra chi guarda e chi recita. Sebastiano Serlio, reinventando proponeva quinte mobili dipinte, di grandezza decrescente. Facendole ruotare su un perno, e variando il ´cieloª e il fondale anch’esso dipinto, la scena cambiava. Nacquero cosÏ le prime macchine teatrali, semplici ma efficaci. Ad esse si aggiunsero ulteriori marchingegni per far crollare case, infuriare grosse onde, scoppiare temporali. Metamorfosi della scena attuate a vista, a volte distraendo gli spettatori con squilli di tromba o grida improvvise; e sempre nella penombra rischiarata dalle candele, nello scintillio di rasi, broccati, gioielli. Ma dove sedeva, il pubblico? Nel Cinquecento, i luoghi teatrali sono svariatissimi. Si recita ancora all’aperto, in piazze e cortili. Ancor prima che nascessero le compagnie della Commedia dell’Arte, attori dilettanti o professionisti viaggiavano di terra in terra, esibendosi in spazi eterogenei (magazzini, locande, portici) genericamente chiamati ´stanzeª. » il primo passo verso i teatri stabili, che sorgono in quantit‡ soprattutto nella seconda met‡ del secolo. Teatri di corte e teatri ´borghesiª, come quelli lignei aperti a Venezia. Variano dimensioni e forma del palcoscenico, varia la struttura delle gradinate, perpendicolari alla scena o ad emiciclo, varia il prospetto scenico: ma nelle sue diverse forme il teatro da sala del Cinquecento italiano Ë il primo, in Europa, ad esprimere architettonica-

mente lo spirito laico moderno. E nei diversi spazi lavorarono artisti diversi: ogni citt‡, si puÚ dire ogni teatro, portÚ il suo tassello al mosaico innovatore e variegato della drammaturgia italiana del Sedicesimo secolo. Il genere che ha maggior successo Ë la commedia. » attraverso questa vitalit‡ comica che il teatro italiano travalica gli esperimenti umanistici e goliardici del Quattrocento, dando corpo alla vita reale, elevando la citt‡ e i suoi abitanti a personaggio. Fino all’avvento dell’impresariato, delle compagnie professionistiche e del pubblico pagante, gli spettacoli erano allestiti per iniziativa pubblica o privata nelle piazze, nelle corti, nelle dimore aristocratiche o borghesi, nelle accademie. Il diverso rapporto fra committenti, pubblico e drammaturghi nelle varie citt‡ determinÚ un ´decentramentoª del repertorio. Ogni capoluogo del frammentario panorama politico italiano aveva proprie tradizioni, propri autori, particolari strutture produttive.


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01 LA COMMEDIA Cinque marzo 1508. » la data di nascita per tradizione assegnata alla commedia italiana. Quella sera, nel teatro Ducale di Ferrara, si rappresentÚ La Cassaria di Ludovico Ariosto. Le sue successive commedie (Suppositi, 1509; Negromante, 1509-20; Studenti, 1520-24; Lena, 1528) saranno forse pi˘ ´ariostescheª per piglio satirico e maturit‡ formale. Ma gi‡ nella Cassaria - movimentata vicenda, di stampo plautino, d’amori ancillari, furti, travestimenti, servi e ruffiani e mercanti - Ë tutto il fascino di un genere drammaturgico nuovo. Nel corso del secolo - mentre la tragedia stenta ad uscire da ambiti cortigiani e accademici e le compagnie professionali della Commedia dell’Arte stanno per fare prepotente ingresso nel panorama teatrale italiano - la commedia avr‡ un’autentica esplosione. La tradizione latina, dapprima riscoperta attraverso allestimenti in lingua e volgarizzazioni, diede ossatura letteraria ad umori comici mutuati dall’antica giulleria e soprattutto da un nuovo sguardo sulla realt‡, sul mondo. Da modello pedissequamente imitato, i classici divennero insomma strumento compositivo per un ricchissimo repertorio di opere che affondavano nella vita contemporanea. A Firenze la commedia si sviluppÚ sulla base di esperienze spettacolari cittadine: sacre rappresentazioni, drammi profani, mascherate, farse, contrasti. Jacopo Nardi (Commedia di amicitia, 1512, e Due felici rivali, del ‘13) e Lorenzo Strozzi (Commedia in versi e La Pisana, 1518) sono fra i primi autori di una copiosa produzione comica, portata in scena sia da compagnie private, sia per

iniziativa dei Medici ritornati al potere. NiccolÚ Machiavelli - il maggior commediografo della Firenze cinquecentesca per originalit‡ stilistica e veemenza etica - con il suo capolavoro teatrale, La Mandragola, (1518) si ispira al Decameron e racconta la buffo-amara vicenda di una beffa perpetrata ai danni dell’anziano messer Nicia, sposo della giovane Lucrezia. In molta commedia del Sedicesimo secolo, il leitmotiv della conquista erotica si sviluppa sÏ attraverso i meccanismi codificati gi‡ dai commediografi classici (le peripezie dell’amore contrastato dai vecchi e favorito dalle astuzie dei servi), ma sfrutta pure la novellistica come inesauribile miniera di personaggi, intrecci, squarci di costume, mordacit‡ e variet‡ linguistica. Nella Mandragola, secondo canoni della tradizione borghese realistica inaugurata dal Boccaccio, l’intelligenza trionfa sulla dabbenaggine, e la natura (la passione amorosa dei giovani) su ciÚ che la ostacola. Nella scia luminosa del Decameron si situano alcune fra le pi˘ belle commedie del secolo, dovute alla penna caustica di Pietro Aretino, a quella raffinata di Bernardo Dovizi da Bibbiena, e poi ad Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, a Giovan Maria Cecchi, a Francesco Belo. Come gi‡ Ferrara per Ariosto e Firenze per Machiavelli, la Roma papalina diviene ´personaggioª teatrale, bersaglio di satira, protagonista corale dei violenti, turgidi affreschi in commedia di Pietro Aretino, che vi risiedette dal 1517 al 1525. Una Roma ´matrignaª, brulicante di disoneste figurine, corrotta e atroce nei costumi e nel linguaggio Ë cruda-


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mente illuminata soprattutto nella Cortigiana, redatta nel 1525. In sfacimento Ë anche, l’abbiamo detto, la Roma che Francesco Belo personifica nella grottesca, disperata figura del Pedante. Mentre un panorama morale ormai modificato si riflette negli Straccioni, commedia che Annibal Caro compone nel 1543 su invito di Pier Luigi Farnese, figlio del papa Paolo III. L’eros, fulcro pi˘ o meno segreto di tutta la commedia del Cinquecento, muove scopertamente un capolavoro anonimo, composto a Venezia pare fra il terzo e il quarto decennio del secolo: La Venexiana. » una battaglia di dame a suon di desiderio e di furbizia. Angela e Valeria

si contendono i favori del giovane forestiero Julio. Lui Ë un figurino inerte, cerimonioso, imbalsamato nell’´amor corteseª; mentre le due donne amano, concupiscono (ed ottengono entrambe) con audacia, con calcolo, con assolutezza, e sfrenatamente. Tanto Ë l’acume realistico della commedia, che si pensÚ alludesse a fatti e persone riconoscibili al pubblico aristocratico dell’epoca: e probabilmente fu composta all’interno di una cerchia privata, forse di una delle cosiddette Compagnie della Calza. Lo stesso ambiente raffinato in cui Angelo Beolco detto il Ruzante recitÚ le sue commedie provocatorie, scandalose, dissacranti.


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01/1 BERNARDO DOVIZI Bernardo Dovizi, nato nel 1470 a Bibbiena nel Casentino e autore di uno dei capolavori del Cinquecento, La Calandria. Prelato, diplomatico e uomo politico, fu segretario del cardinale Giovanni de’ Medici e cardinale egli stesso dal 1513, quando il Medici fu eletto pontefice con il titolo di Leone X, nonché in seguito vescovo di Costanza. Potente al punto di essere chiamato «alter papa», il Bibbiena morì a Roma nel 1520: e non mancarono i sospetti che fosse stato avvelenato per volontà dello stesso Leone X. Oltre ad un folto epistolario, La Calandria è la sua unica opera letteraria pervenutaci. Questa la trama: i gemelli Lidio e Santilla sono stati separati dal destino. Santilla vive a Roma sotto travestimento in casa del mercante Perillo, che credendola un uomo vuole darle in moglie la figlia. Lidio, che tutti credono morto, giunge a Roma col servo Fessenio e ama Fulvia, moglie dello sciocco Calandro (il nome è mutuato dal Calandrino del Decameron). Il quale a sua volta si innamora di Lidio, che ha visto entrare in casa sua vestito da donna. Calandro, complici anche i maneggi dei servi Fannio e Samia, verrà scoperto dalla moglie fra le braccia di una prostituta; mentre Fulvia, che il marito quasi sorprende con Lidio, riesce a sostituire all’ultimo momento l’amante con Santilla. Il riconoscimento finale dei fratelli gemelli e un duplice matrimonio mettono fine al groviglio di equivoci, travestimenti, scambi di persona. L’intreccio echeggia quello dei Menae-

chmi di Plauto. E proprio Plauto viene indicato dal Bibbiena, in parte polemicamente, quale sua fonte principale nel prologo alla commedia. Nel prologo, inoltre, entra in polemica con l’Ariosto. Mentre quest’ultimo nella Cassaria e nei Suppositi inseguiva una «poetica imitazione», da realizzarsi con rispetto e cautela, dei modelli classici, il Bibbiena intende utilizzarli liberamente come soggetti, riscattandone l’anacronismo grazie a radicali invenzioni narrative e stilistiche. Arguto e malizioso, il dottor sottile Bibbiena non svela il suo modello principale, Boccaccio. Ma i raffinati spettatori della corte dei Della Rovere ad Urbino - dove nel 1513 ebbe la prima di una eccezionale sequenza di rappresentazioni -, i frequentatori di una élite intellettuale che in quegli anni annoverava il Bembo e il Castiglione non dovettero faticare a riconoscere nella commedia un vero e proprio puzzle boccacciano: una fitta tessitura di calchi e prestiti da diverse novelle del Decameron attraverso cui il Bibbiena, portando genialmente a fusione modelli antichi e moderni, intendeva rifondare un’autonoma tradizione teatrale. La Calandria venne rappresentata anche in Vaticano, nel dicembre del 1514, in un allestimento curato dal Bibbiena e dall’architetto e pittore Baldassarre Peruzzi.


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01/2 LA TRAGEDIA La Sofonisba di Gian Giorgio Trissino puÚ essere definita ´la prima tragedia regolare del teatro modernoª. Dove ´regolareª indica un’architettura tragica che rifugge dalle incoerenti esperienze quattrocentesche, ed Ë invece costruita su linee teoriche ben definite. Pi˘ precisamente, le regole cui fece riferimento il Trissino sono quelle aristoteliche. Trissino aveva applicato rigorosamente la lezione degli antichi. Tra le sue fonti, Tito Livio, Appiano Alessandrino e il Petrarca dell’Africa. Sofonisba (1514) Ë una tragedia lineare, costruita per scene cronologicamente ordinate, ritmate perÚ da pause e accelerazioni, in crescente tensione, quasi il poeta applicasse le leggi della prospettiva per far convergere

l’attenzione sui nodi drammatici. Individuati gli scopi emotivi ed etici da raggiungere mediante la tragedia (´muovere orrore e misericordiaª), il Trissino teorizza l’autosufficienza della pagina scritta, la sua distanza dal palcoscenico. Parola e fabula, dice, bastano a provocare le emozioni tragiche. L’immagine del palazzo al chiuso del quale avviene l’azione, immagine incombente anche alla sola lettura, deve procurare emozione e catarsi, nonchÈ quel senso di claustrofobia che (quasi a riflesso di quella vissuta nelle corti italiane) indica l’incombere di un cupo destino. Nonostante l’orgoglio letterario dell’autore, la Sofonisba, che ebbe grande fortuna editoriale, fu rappresentata magnifica-


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mente: davanti a Caterina de’ Medici in francese nel 1544, a Vicenza per opera di Andrea Palladio, pupillo del Trissino, e anche in tempi recenti, da Giorgio Strehler. Al pari di Gian Giorgio Trissino, Giovan Battista Giraldi Cinzio sostenne l’autonomia del testo scritto rispetto allo spettacolo. Individuate cosÏ le ragioni teoriche della fitta coltre retorica che stringe i suoi drammi, Giraldi Cinzio svela nondimeno le sue intenzioni: suscitare orrore e compassione. E a ciÚ, nonostante la sua fede di sottile letterato, la parola scritta non basta. Per la prima volta, il codice aristotelico si sfalda, viene interpretato in ottica gi‡ controriformistica: e la catarsi diviene un fine da

raggiungere attraverso casi atroci, orrore e piet‡. Per la prima volta, la lezione dei greci cede il passo a quella di un tragediografo pi˘ sanguigno: Seneca. Tutta la tragedia del ‘500 appare come multiforme rappresentazione di ciÚ che gli psicanalisti chiamano il rimosso, di pulsioni segrete e proibite che riaffiorano sotto maschere innumeri. Si tratti di amori contrastati o peccaminosi, di conflitti storici o di predestinazione, di volont‡ divina o di abusate umane libert‡, nelle tragedie Ë sempre questione d’un divieto, d’una censura, d’una punizione.


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02 GIAN GIORGIO TRISSINO Gian Giorgio Trissino, autore, nasce a Vicenza nel 1478 da famiglia eminente. Fu cortigiano e diplomatico al servizio di papa Leone X, si conquistò fama di valente grecista. E alle opere poetiche alternò gli scritti grammaticali, precorrendo il dibattito che intorno alla metà del secolo si accese intorno ad Aristotele. In seguito alla prima traduzione della Poetica, effettuata da Bernardo

Segni, e al primo grande commento aristotelico (In librum Aristotelis de arte poetica explicationes, 1548), il Trissino redasse la Quinta divisione della Poetica; riflessione classicista sulle norme del tragico, in cui egli poté avvalersi, oltre che di Sofocle ed Euripide, di esempi tratti dalla sua Sofonisba. Morì a Roma nel 1550.


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02/1 TRAGICOMMEDIE E PASTORALI Anche per le gentildonne e i gentiluomini del ‘500 giunge - in quello specchio del vivere sociale che Ë il teatro - il piccolo momento della liberazione: in forma non di critica o scardinamento dei propri codici di vita e pensiero, ma di pura evasione. Il cortigiano evade dalla sfera artificiale dell’etichetta e dell’intrigo sognando un mondo agreste, idilliaco, dove tutto Ë natura. Al volgere del secolo, il canone scenografico inventa accanto ai luoghi deputati tradizionali della tragedia e della commedia, la ´scena tragicaª e la ´scena comicaª - uno spazio di alberi e fontane, massi ed erbe, ghirlande e prospettive campagnole: la ´scena boscherecciaª. E a fianco dei due generi principi nasce un genere intermedio, ibrido: la tragicommedia, con la sua derivazione idilliaca e bucolica, il dramma pastorale. Gi‡ sullo scorcio del ‘400 Poliziano aveva creato con l’Orfeo delle Stanze l’eroe del suo tempo: modello d’un mondo che trasformava l’ozio in sospiro, la noia in lirismo e la sensualit‡ in nobile effusione. Ma Ë un secolo dopo - minate alle radici con la Controriforma, la crisi delle corti e la rifeudalizzazione delle campagne le ragioni sociali e culturali della tragedia e della commedia - che la ´terza viaª della tragicommedia e quindi del dramma pastorale si impone come fonte di diletto e diporto. Il critico cinquecentesco mette in luce la decadenza, nel gusto del pubblico, della

tragedia e della commedia, e il rifugio in un genere pi˘ leggero, d’intrattenimento, che consentisse di ampliare assai l’elemento del trucco scenico, della meraviglia, e di avviare insomma il teatro verso il magnifico stupore del Barocco. E anche la scrittura abbandona l’impianto formale della tragedia e lo sforzo realistico della commedia, per concedersi ritmi pi˘ semplicemente piacevoli e decorativi. Questo, almeno, per i minori, poichÈ il dramma pastorale riserva capolavori come l’Aminta del Tasso e il Pastor fido di Battista Guarini. L’Aminta del Tasso, composta nel 1573, propone in apparenza una lieve favola erotica d’ambientazione agreste. Ma il tessuto della narrazione individua, in effetti, una originale maniera di intendere il teatro e la rappresentazione. L’incresparsi delle emozioni, l’enfasi sonora del verso, i riferimenti ad autori antichi e soprattutto il fatto che l’azione non Ë mai rappresentata, ma avviene fuori scena ed Ë sempre e soltanto raccontata: tutto configura 1’Aminta come un poemetto drammatizzato, pi˘ che come un vero dramma. Rappresentato assai spesso (la prima volta a Mantova nel 1592), edito a stampa gi‡ nel ‘90, imitato e criticato, il Pastor fido chiude splendidamente un’epoca intera, l’intero Cinquecento teatrale, e si apre alle fughe prospettiche e alle architettoniche raffinatezze del Manierismo, del Seicento. Queste vette


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poetiche verranno perÚ raggiunte al termine di un processo di adattamento della scrittura dei poeti di corte alle predilezioni del pubblico nobiliare, secondo il motto di Benvenuto Cellini ´io servo a chi mi pagaª. » con gran disinvoltura, dunque, che alcuni tragediografi abbandonano il genere ´altoª per trasformarsi in autori di pastorali. CosÏ il Giraldi Cinzio, dopo Orbecche e la tragicommedia

Arrenopia, compone e fa rappresentare nel 1545 la prima pastorale ferrarese, Egle. Il drammaturgo, accettando un ruolo subalterno verso i suoi committenti, rinuncia all’autonomia poetica della pagina scritta e si trasforma in regista, scenografo, maestro di cerimonie, orchestratore di spettacoli leggiadri e sfarzosi.


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02/2 BATTISTA GUERINI Battista Guarini, poeta, nacque a Ferrara nel 1538. fu al servizio degli Estensi a Ferrara. Più che alle Rime e alla commedia L’Idropico (1609), la sua fama si affida al Pastor Fido, tragicommedia presentata nel 1595 con grande favore per le sue doti stilistiche e musicali, ma

anche con grande scandalo degli aristotelisti, perché infrangeva con il suo carattere senza precedenti il mito dei generi letterari. Essa fu un incentivo per Battisti a scrivere Il Verrato e Il Verrato secondo, poi rielaborati nel Compendio della poesia tragicomica (1601).


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03 COMMEDIA DELL’ARTE Quella che nel Settecento fu chiamata ´Commedia dell’Arteª attraversÚ tre secoli (dalla met‡ del XVI al XVIII) scardinando in profondit‡ codificazioni accademiche e convenzioni sceniche. Fenomeno a prima vista orale e anonimo, appartiene di buon diritto alla storia della letteratura, e non soltanto a quella del teatro. Per le sue fonti, che furono anche scritte, e per il suo influsso su autori come Shakespeare o Lope de Vega, MoliËre o Gozzi, e soprattutto per le corrosive novit‡ che apportÚ nel mondo del costume e delle idee, enzimi della letteratura. Per la prima volta, con la Commedia dell’Arte, il teatro Ë fatto non da dilettanti, ma da compagnie professionali, addestrate alla tecnica (mimica, vocale,

coreografica, acrobatica) del mestiere dell’attore. Per la prima volta, l’attore non Ë legato a una corte, a un committente aristocratico, ma sceglie il vagabondaggio, recita davanti a spettatori d’ogni estrazione. Pur mantenendo in repertorio commedie e tragedie ´regolariª, l’attore ´mercenarioª spodesta il drammaturgo dalla sua funzione tradizionale, affidandosi in grande misura all’improvvisazione. La Commedia dell’Arte innesta l’istinto sulla scrittura, e la nozione di artigianato su quella di arte. Contamina intrecci derivati dalla commedia erudita e addirittura da Plauto e Terenzio, con espedienti comici dei giullari e dei buffoni di strada. Codifica gli eterni ´tipiª della commedia (il vecchio avaro, il soldato smargiasso, l’in-


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namorato infelice, il servo astuto) in categorie (´ridicoliª e ´graviª) e in maschere fisse: Pantalone, Pulcinella, Arlecchino... CosÏ come l’individualit‡ dei personaggi Ë congelata nelle maschere, quella dell’artista Ë negata dall’identificazione dell’attore con un ruolo solo, con una sola maschera; nonchÈ dal carattere collettivo della creazione. Il comico dell’arte improvvisa, con perfetta illusione di naturalezza. Ma l’improvvisazione avviene sulla base di una costanza di linguaggio: dei cosiddetti ´formulariª, ossia repertori scritti di lazzi, soliloqui, gags, entrate e uscite, prologhi, dialoghi e tirate; e all’interno di un ´canovaccioª o ´scenarioª, una traccia scritta di favola scenica (ne sono stati tramandati un migliaio). La novit‡ della Commedia dell’Arte sta

dunque nella fusione tra ´coltoª e ´popolareª, tra schema prefissato e talento d’improvvisazione del singolo attore, formula e fantasia, parola e gesto, tra anima e corpo. Il corpo, ecco: come mai prima d’allora, sale alla ribalta sia nella verve fisica degli interpreti, sia nella sconcezza che sembrava inseparabile dalla comicit‡, e costellava gli spettacoli di doppi sensi, grossolane facezie, situazioni oscene. Improvvisazione e vagabondaggio, trucco scenico ed euforia comica, artigianato e artificio: cosÏ la Commedia dell’Arte apre vistosamente, e con successo, la via verso l’effimero, il Barocco, la modernit‡.


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03/1 ARLECCHINO Maschera della Commedia dell’Arte, il secondo degli Zanni o buffoni, i quali avevano rimpiazzato i servi della commedia classica. Come Brighella Ë originario di Bergamo. La lontana origine del nome e, forse, della maschera, Ë medievale, cosÏ come il volto bestiale di cuoio nero, con peli, corna, protuberanze, un aspetto diabolico e primitivo, che soltanto con i secoli viene addolcendosi e diventando gradevole. Il primo, forse, dei famosi attori che impersonarono Arlecchino fu Alberto Naselli, il quale fu in Francia attorno al 1570. Seguirono poi Tristano Martinelli, il quale in Spagna, fece parte della compagnia dei Desiosi,

diresse, presso il duca Vincenzo Gonzaga, i comici di Mantova, e quindi divenne celebre alla corte di Enrico IV; Domenico Biancolelli (1646? - 1688); Angelo Costantini (1670 - 1729); Evaristo Gherardi (1663 - 1700); Tommaso Visentini (1682 - 1739); Carlino Bertinazzi (1710 - 1783). Il pi˘ importante rimane forse il Biancolelli. Accanto ad Arlecchino sono state contate almeno ventiquattro maschere similari, che contribuirono a fare di questa figura, anche nelle rievocazioni poetiche e pittoriche dell’Ottocento e del Novecento, uno dei simboli stessi della Commedia dell’Arte.


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03/2 BRIGHELLA Maschera della commedia dell’arte, il primo degli Zanni (o buffoni), i quali avevano rimpiazzato i servi della commedia classica. Accanto al servo sciocco (Arlecchino), originario di Bergamo bassa, Ë Brighella, collocato dalla stessa tradizione a Bergamo alta. Non Ë solo un servo come Arlecchino, ma svolge molti altri lavori pi˘ o meno leciti. Il suo costume, in origine interamente bianco, fu poi bianco con fregi colorati, di solito verdi, tanto da suggerire vagamente l’idea d’una livrea. Il primo nome di Brighella appare in una cronaca del 1603, in ogni modo la derivazione da briga (fastidio, complicazione) Ë evidente. Brighella fu ripreso anche dal Goldoni e rappresentato come un domestico intrigante eppure capace di provvedere all’ordine e ai vantaggi delle famiglie. Maschere similari furono quelle di Buffetto, Scapino e Mezzettino. Fra i primi attori che impersonarono questa maschera si ricordano N. Barbieri e A. Zannoni.


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03/3 PANTALONE Maschera veneziana del vecchio mercante avaro della Commedia dell’Arte italiana. » tra le pi˘ antiche, figurando in un canovaccio rappresentato alla corte di Baviera nel 1568. Il nome sembra derivi da quelli di Pantaleone, uno dei santi patroni pi˘ diffusi a Venezia; originariamente detto anche ´Il Magnificoª, impersona i lati ridicoli della vecchiaia, avarizia, pedanteria ed egoismo, in contrasto con innamoramenti da adolescente. Pantalone, infatti, importuna le giovani cortigiane e le serve della commedia. Questa doppiezza pare addirittura rivelata dal costume, che Ë appunto di due colori, il rosso della calzamaglia e il nero della zimarra. Fra gli interpreti della maschera di Pantalone si ricordano il primo e pi˘ famoso, G. Pasquati (fine del XVI secolo e inizio del XVII), A. Riccoboni, i ´goldonianiª Moro-Lin, Mezzetti, Novelli, e infine Zago e C. Baseggio.


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