Education Sciences & Society gennaio giugno 2011

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ANNO 2 N. 1 Gennaio - Giugno 2011

Education Sciences & Society Competenza e professionalità

ARMANDO EDITORE

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SOMMARIO

Editoriale MICHELE CORSI, SERGE AGOSTINELLI

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ARTICOLI/SAGGI Professional Didactics and Teacher Education: Contributions and Questions Raised EL MOSTAFA HABBOUB, YVES LENOIR Entre communauté de pratique et d’apprentissage: un espace commun de communication des connaissances MARIELLE METGE L’écriture de l’expérience en tant que dispositif formatif BESSA MYFTIU, MIREILLE CIFALI Tracce di habitus? PATRIZIA MAGNOLER La didactique professionnelle PIERRE PASTRÉ Comment penser la possibilité d’«apprendre des situations» pour des enseignants en formation: une co-élaboration entre chercheur et praticiens? ISABELLE VINATIER Workplace Learning: apprendere e produrre conoscenza nei contesti di lavoro STEFANO BONOMETTI Il lavoro produttivo oggi tra fattori critici ed “eu-topia” pedagogica FABRIZIO D’ANIELLO Le Competenze degli adulti oggetto di Policy GABRIELLA DI FRANCESCO L’organizzazione, soggetto formativo BRUNO ROSSI

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LESSICO PEDAGOGICO Competenza MICHELE PELLEREY

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APPROFONDIMENTO BIBLIOGRAFICO Competenza Pier Giuseppe Rossi, Lorella Giannandrea, Patrizia Magnoler

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RECENSIONI A. Granese, L’albero della conoscenza e l’albero della vita. Saggio sulla disseminazione filosofica MICHELE CORSI L. Molinari, Alunni e insegnanti. Costruire culture a scuola ELIO DAMIANO

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C. Sirignano, La mediazione educativa familiare. Una risorsa formativa per le famiglie separate, divorziate e ricostituite GABRIELLA ALEANDRI P. Barone, Pedagogia dell’adolescenza MASSIMILIANO STRAMAGLIA M. Contini (a cura di), Molte infanzie molte famiglie. Interpretare i contesti in pedagogia MICHELE CORSI B. Tillard, M. Robin (dirr.), Enquête au domicile des familles: la recherche dans l’espace privé LIVIA CADEI E. Morin, Oltre l’abisso GABRIELLA ALEANDRI M. Contini, S. Ulivieri (a cura di), Donne, famiglia, famiglie MICHELE CORSI B. Krais, G. Gebauer, Habitus PATRIZIA MAGNOLER S. Angori, S. Bertolino, R. Cuccurullo, A.G. Devoti, G. Serafini (a cura di), Persona e educazione. Studi in onore di Sira Serenella Macchietti ROSITA DELUIGI F. d’Aniello, Pedagogia del lavoro e persona. Passaggi di stato della materia lavoro MASSIMILIANO STRAMAGLIA F. Granato, Persona e democraticità GABRIELLA ALEANDRI M.A. Bocchetti, L’apprendimento unitario. Ovvero l’U.D.A. nella scuola-territorio GIUSEPPE ALESSANDRI L. De Vita, Genitori senza controllo MASSIMILIANO STRAMAGLIA

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EDITORIALE MICHELE CORSI, SERGE AGOSTINELLI

La scommessa di questa Rivista continua e migliora. Nel taglio e nella proposta. Come nella voluta ricerca di internazionalizzazione. I primi due numeri, che hanno visto la luce nel 2010, hanno ruotato intorno a un trittico di “parole” fondamentali per la ricerca pedagogica ed educativa di ogni tempo: la persona, la società e la formazione. Con la formazione assunta quale trait d’union tra la persona e la società. E come uno dei possibili vincoli o legami, “ponti” o connessioni deweyane, tra la teoria o le teorie (la pedagogia nel suo complesso) e la pratica o le pratiche (l’educazione nelle sue varie articolazioni). La formazione intesa anche quale nome “nuovo”, in talune situazioni, del più ampio termine o spettro dell’educazione. Quella stessa formazione che, ritagliata dall’educazione, e assieme però a questa risolvono e coprono l’intero campo operativo dell’educativo e dell’educazionale. Con questo terzo numero ci addentriamo, invece, in una sorta di scavo e di approfondimento ulteriori. In ordine sempre alla formazione. Ma situandola. Così da lumeggiarne alcune facce o sfaccettature di quell’ampio cristallo che essa rappresenta. Individuando pure in questa indagine, al pari di quanto abbiamo praticato con la formazione nei primi due numeri, un “indice” di senso e di significato, una traiettoria di marcia o in qualche modo di “sintesi”. E cioè la competenza. Quale indicatore – singolare nell’accezione terminologica prescelta, ma plurale nelle sue diverse connotazioni storiche: e cioè le competenze – delle più ampie e totali specificità che le diverse professionalità esigono e pretendono. L’altro semantema selezionato è rappresentato dalla professionalità. Anche qui “al singolare”. Ma con riferimento, non di meno, al plurale organizzato delle differenti professioni. Intendendo dunque, parimenti, la professionalità quale termine, unitario e unificante, delle molteplici professionalità socialmente richieste e poste in essere. Quindi, il titolo che abbiamo inteso dare a questo fascicolo: Competenza e professionalità.


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In un procedere che continua a essere costantemente monografico di Education Sciences & Society, e che lo caratterizzerà anche in seguito. Avremmo potuto aggiungere pure una terza connotazione al titolo di questo numero. E riportarci ai contesti di lavoro. Dal momento che i contributi che vi figurano sono appunto la declinazione teorico-pratica, puntuale e contemporanea, del rapporto, necessario e da incrementare, tra la professionalità e la competenza negli specifici ambienti lavorativi. Particolarmente, però, a scuola. Che è l’habitat (o l’habitus) che abbiamo tipicamente investigato in questo numero. A motivo del fatto che le sfide della professionalità e della competenza, interconnesse tra loro, sono, al presente, un obiettivo di qualità da perseguire, e raggiungere decisamente, per l’istituzione scolastica. Chiamata comunque a cambiare, innovarsi e migliorare. Da qui, gli articoli di El Mostafa Habboub con Yves Lenoir, Marielle Metge, Bessa Myftiu e Mireille Cifali, Patrizia Magnoler, Pierre Pastré, Isabelle Vinatier (quattro redatti in francese, uno in inglese e l’altro in italiano), dove due accreditate “scuole”: l’una francese e l’altra italiana, esperte entrambe di pratiche e comunità di pratiche, apprendimento in situazione, scritture e narrazioni, fondano e giustificano, congiuntamente, un interessante e articolato paradigma teorico-pratico di “didattica professionale”, riguardato come sintesi prospettica e attualizzazione concreta della mediazione da operare, e conseguire, tra professionalità e competenza in ambito scolastico. Stefano Bonometti, Fabrizio d’Aniello, Gabriella Di Francesco e Bruno Rossi, invece, estendono la riflessione alle tematiche dell’organizzazione negli altri contesti professionali, con particolare attenzione ai temi del lavoro produttivo e dell’apprendere e produrre conoscenza sul versante delle competenze adulte, in un quadro, virtuoso e ineliminabile, di lifelong learning o, altrimenti, di “educazione permanente”. Uno dei decani più illustri, e non soltanto a livello italiano, dei saperi pedagogici e didattici, Michele Pellerey, ha curato, per la sezione del lessico pedagogico, la voce, appunto, della “competenza”. Mentre Lorella Giannandrea, Patrizia Magnoler e Pier Giuseppe Rossi ne hanno redatto la bibliografia ragionata. A questo punto, alcune anticipazioni. Per invogliare non solo a una buona lettura, ma anche a familiarizzare e ad affezionarsi a questa Rivista. Il prossimo numero, il quarto, affronterà le tematiche della valutazione e di quella scolastica, in particolare. Che sono due obiettivi di grande inte-

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resse e attualità, ovunque e comunque. Per l’università come per la scuola, per le imprese come per la società intera e la persona. Valutare per valutarsi e venire correttamente valutati. Il quinto tratterà dell’emergenza “giovani”. Ma dal sesto fascicolo cambieremo ulteriormente stile. Lanceremo, nel prossimo editoriale, il tema del sesto numero e lo “offriremo” per la sua cura al vasto pubblico, italiano e straniero, dei cultori e dei professionisti delle scienze pedagogiche e didattiche. Così da raccoglierne, in un call for paper, adeguatamente sottoposto a referaggio, suggestioni e contributi, articolazioni e proposte. E caratterizzare sempre di più questa Rivista non già come l’appannaggio ristretto o riservato di un gruppo più o meno ampio di studiosi, ma, quale vuole essere, una vetrina, colta e democraticamente aperta, di tutte le intelligenze interessate alle nostre discipline e agli argomenti che verranno di volta in volta affrontati. Per quanto attiene all’Editoriale, infine, è un immenso piacere poter continuare a condividere questo spazio con un collega stimato e autorevole di un’altra nazionalità che, in questo numero, è Serge Agostinelli, attualmente Prorettore presso l’Università Paul Cezanne di Marsiglia, che colgo l’occasione di ringraziare per la competenza e le disponibilità, professionali e umane, di sempre. Una Rivista, cioè, Education Sciences & Society, che, in progress, vuole essere, costantemente e maggiormente, una “palestra di qualità” a favore delle scienze dell’educazione e della loro crescita di merito, trasparenza e “quantità”, per il “bene” (antico termine, da non dismettere) delle persone e della società.

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Articoli/Saggi

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Professional Didactics and Teacher Education: Contributions and Questions Raised1

EL MOSTAFA HABBOUB, YVES LENOIR

Riassunto: Sulla base dei risultati della tesi di dottorato (attualmente in fase di conclusione) e di un articolo di ricerca del primo autore, questo articolo prende in esame l’idea di didattica professionale, in primo luogo facendo riferimento alla definizione delle sue caratteristiche, in secondo luogo presentando la cornice concettuale, che prende da tre correnti teoriche, la teoria dello sviluppo di Piaget, la psicologia ergonomica e del lavoro, la didattica disciplinare. L’articolo sottolinea la differenza tra formazione iniziale dell’insegnante e formazione nelle attività, da cui emerge la didattica professionale. La sezione seguente dell’articolo esplora vari contributi che questa forma di didattica deve offrire alla formazione dell’insegnante, inclusa la funzione essenziale della nozione di situazione e logica dell’azione. Il testo conclude con una serie di domande relative a vari tipi di conoscenza, le relazione tra due tipi di didattica e la dimensione sociale coinvolta nell’implementazione della didattica professionale nella formazione iniziale dell’insegnante. Abstract: Based on results from the first author’s research paper and doctoral thesis (currently being finalized), this article examines the conception of professional didactics, first by referring to its characteristic definition, then by presenting its constitutive conceptual frame, which draws from three theoretical currents: Piagetian developmental psychology, ergonomic and work psychology, and disciplinary didactics. The article then distinguishes between initial teacher education and training for the occupations from which professional didactics emerged. The following section explores various contributions that this form of didactics has to offer to teacher education, including the central function of the notion of situation and the logic of action. The text concludes by raising a number of questions relative to, among other things, the place of various knowledge types, the relations between the two types of didactics, and the social dimension involved in the implementation of professional didactics in initial teacher education. Key Words: teacher education, professional didactics, disciplinary didactics, contributions, questions raised.

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El Mostafa Habboub and Yves Lenoir

1. Introduction This text draws on some of the results of two research studies2. Its objective is to assess the relevance of introducing professional didactics into the field of initial teacher education. In the perspective of professionalizing the teaching occupation, which is currently promoted in initial teacher education, it is important to question the usual modes implemented, especially since reforms of this training call for a competency-based approach. Indeed, the impact of this professionalization combined with the use of competencies to train future teachers is by no means insignificant. The question now arises: What is the potential contribution of professional didactics to teacher education, which has undergone substantial change with the introduction of new aims and operational modes? After presenting the principal components of professional didactics, we will distinguish the field of teacher education from training for other occupations, including continuing adult education, the field in which this form of didactics was originally developed and applied. Next, we will identify the potential contributions of professional didactics to teacher education. Because the use of professional didactics appears to hold more than simply potential contributions, we will also deal with questions regarding its implementation in this field. 2. The development of professional didactics 2.1 The definition of professional didactics The definition of professional didactics has changed little between 1992 and December 2009. Professional didactics, whose origins lie in continuing professional development (Ginsbourger, 1992; Pastré, 1992a, 2002), emerged «on the one hand, based on the questions and objectives stemming from professional training in which the main preoccupation concerns the modes and conditions of acquiring and transmitting professional competencies, and on the other, based on the convergence of a number of communities: didactic specialists, psychologists, and ergonomists facing the same types of problems» (Samurçay, Pastré, 1998, 119)3. Presented as a recent approach (Pastré, 2004b), professional didactics takes into account the temporal dimension of development (Mayen 1998a; Pastré, 1992a) and

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is grounded in a perspective of competency development (Mayen, 1997, 1998a, 1998c; Pastré, 1997, 1999c, 2002). Training for competencies is therefore at the heart of its concerns (Ginsbourger, 1992; Mayen 1998a; Pastré, 1992b, 1997, 1999a, 1999b, 2006). As highlighted by Pastré (1999a), professional didactic engineering represents everything «relative to the production of educational resources, whether using new technologies or not, and founded on work situations that provide bases for training and the development of professional competencies» (Pastré, 1999a, 403). In other words, to design and ensure training, professional didactics adopts work analysis as its main task (Mayen, 1997, 1998b, 1998c, 2003; Pastré, 1992a, 1992b, 1992c, 1995, 1997, 1999a, 1999b, 1999c, 2002, 2004a; Samurçay, Rogalski, 1998). It is based on situations, which it considers to be the training-related medium par excellence (Mayen, 1997, 1998b, 1998c, 1999, 2003; Pastré, 1992b, 1999a, 2002; Rabardel, Six, 1995). In short, professional didactics generally targets three major objectives; the first two are practical and the third, theoretical. The first objective is the analysis of work and the development of training (Mayen 1998c, Pastré, 2002; Vidal, Samurçay, 1998). The second is the mastery «of situations to the greatest extent possible, by constituting them as problems to be solved. However, this constitution process always results in some of the complexity of reality being lost» (Pastré, 1999b, 28). The third is the description of professional situations (Ibidem) and «the modelling of specific professional competencies in their developmental dynamic and in terms of transposing work situations into training situations» (Vidal-Gomel, Samurçay, 1998, 118). To reach these objectives, professional didactics is based on a conceptual frame involving at least three different but complementary disciplinary areas. 2.2 The conceptual frame of professional didactics To ensure genuine work analysis, from the start, professional didactics has been based on the confluence of three theoretical currents: Piagetian developmental psychology, ergonomic and work psychology, and the didactics relative to the disciplines.

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2.2.1 Developmental psychology – As previously stated, professional didactics was originally developed in the field of continuing education for adults. Early on, practitioners of adult training dreamed of retaining the integrative and developmental aspect of Piaget’s work and the cognitivist theory of functional learning through action. In other words, they sought to combine cognitive development and functional learning. This is the general framework in which professional didactics should be situated (Pastré, 1992b). Piagetian developmental psychology draws from the work of Vergnaud (1992), who underscores the role of conceptualization in action. On the one hand, this current reduces the gap between the pragmatic concepts underlying the implementation of daily concepts developed by Vygotskian socio-constructivism (Pastré, 2002). Vygotsky advanced a dynamic, living conception of knowledge and conceptual development as well as a social conception of this development (Mayen, 1998a), which had received little or no consideration from Piaget (1974) (Pastré, 1999d). On the other hand, Vergnaud’s contribution is central in the perspective adopted by professional didactics. As Pastré (1994a, 2001, 2004a) reminds us, Vergnaud (1994a, 1994b) associates a situation not only with its functional dimension, but also with its conceptual dimension, specifying that it is the schemes4 that are conceptual in a situation. Vergnaud (1994a) defines a scheme as a “functional dynamic totality” (1994a,180), an «invariant organization of conduct for a class of given situations» (Vergnaud, 1996b, 283), insisting on the importance of operational invariants as concepts- or theorems-inaction. Otherwise said, there is no situation without a scheme. Together, the scheme and situation form the scheme-situation pair as a founder of the process of learning through active adaptation (Pastré, 2002). It should be specified that the need to use the concept of situation stems from its crucial importance in ensuring the development of competencies and from the fact that it concords well with the pragmatic and operational dimension of knowledge. «A situation is primarily what makes sense to a subject. It is a set of issues, opportunities or threats, and the intelligence linked to the situation is above all the ability to negotiate it successfully. This is why it is not very surprising that concepts acquire meaning only in reference to the situations that allow for them to be used» (Pastré, 1999b, 47). The situation is also and simultaneously part of a larger class with which it shares a set of common characteristics, what Pastré (1999a, 2002) and Mayen (2004a) refer to as the conceptual structure of a situation or

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what Galpérine (1966) refers to as an orientation base (Mayen, 2004b), since the success of the action partly depends on its orientation. Drawing on Pastré (1999c), Mayen (2004a) defines the conceptual structure of a situation as «the network of relations between the characteristic variables of a situation, the ordering of its common traits into a meaningful configuration» (Mayen, 2004a, 3). The conceptual structure of a situation is based on the activity to be carried out (Mayen, 2001). Designing teaching/learning situations thus provides bases for a training process targeting the development of competencies. Hence the intervention of the teacher not only as a mediator, but also as a creator of didactic situations (Vergnaud, 2000). Besides Piagetian constructivism and Vygotskian socio-constructivism, the conceptual frame of professional didactics is completed by the contributions of work psychology, and more specifically the psychology of cognitive ergonomics and disciplinary didactics (Pastré, 2002, 2004a; Samurçay, Pastré, 1998). 2.2.2 Ergonomic cognitive psychology – The current of ergonomic and work psychology (Pastré, 2002) indeed emphasizes an examination of the cognitive dimension of professional activity (Mayen, 1998a; Pastré, 1997, 1999a, 1999b, 2002, 2006). Cognitive psychology, especially in terms of cognitive ergonomics, constitutes a second major contribution to professional didactics. With Francophone work psychology, professional didactics became enriched by «the techniques and methods of work analysis. Most importantly, this work analysis provided professional didactics with a study of the cognitive dimension of professional activity» (Pastré, 2002, 11) by distinguishing between prescribed work and actual work, task and activity. The reference especially concerns Faverge (1955) and Leplat (1985, 2000). The reference made to Faverge (1955) is tied to the fact that this author considers work to be a behaviour by which individuals seek to adapt themselves to the characteristics of a situation using an active approach. Drawing on Leplat (1985, 2000), who is inspired by Faverge, Pastré (2004a) distinguishes and articulates what, in a work context, is related to the prescribed task and to the activity. He maintains that «there is always more in the actual work than in the prescribed task» (Ibidem, 11). Furthermore, Leplat (1991, 1997) introduces the ergonomic dimension of developing competency frameworks. This work analysis is directed toward competencies (Pastré, 1997).

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By establishing «synthesis between the training dimension and the work analysis dimension» (Ibidem, 91), professional didactics should be able to «identify the conceptual structure of the situation, the central core enabling the constitution of an occupational framework» (Pastré, 2004a, p.7). This is because, according to Leplat (1985, 2000), the work situation is not only defined by the modes of what is prescribed; it also «includes certain objective dimensions of the situation that will guide activity. Consequently, it can be said that the work analysis developed by Leplat is organized around the situation-activity pair, the situation including the prescription and cognitive structure of the task, and making for an introduction to the analysis of the activity, which remains the purpose of the analysis» (Pastré, 2002, 11). It is important to note that the analytical approach used in professional didactics also enriches ergonomic cognitive psychology. Indeed, professional didactics first borrows from this form of psychology its approach for analyzing the task as a “given objective under determined conditions” (Leontiev, 1976, 96). It then analyses the activity in terms of its progress, which is expressed by the actual task (Leplat, Hoc, 1983). Thus, in a concern for diachronic analysis, professional didactics complements ergonomic cognitive psychology, as it goes beyond identifying the competencies applied through and within a task; it imposes the need to analyse these competencies in a development perspective, in order to go from a work analysis that is “task-activity” oriented to one that is “competency” oriented (Leplat, 1991, 1997). Hence the insistence of professional didactics on situations in which are produced ruptures in the use of competencies, as this is what enables an identification of the indicators of evolution (Pastré, 1997). If the relations between professional didactics and ergonomic cognitive psychology appear to be both simple and obvious, can the same be said of the relations between professional didactics and disciplinary didactics? 2.2.3 Disciplinary didactics – The third reference area called upon by professional didactics is that of disciplinary didactics. While the relation between professional and disciplinary didactics is characterized by certain elements that bring the two areas closer together, it also raises a number of questions. With a view to reconciling the two, Samurçay and Rogalski (1998) advance that professional didactics is parallel to disciplinary didactics insofar as «the transposition process and the management of the didactic situation are two

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key concepts in educational analysis. The epistemological analysis of the knowledge in play is here replaced by the analysis of professional tasks and activities» (Samurçay, Rogalski, 1998, 340). This reconciliation can also be illustrated by the fact that professional didactics «concerns more than actions. It also increasingly touches upon enunciation and dialogue. The disciplinary didactics are concerned not only with the best possible restitution of verbalizable knowledge, but also with actions» (Vergnaud, 1996a, 43); they are oriented toward the acquisition and application of endorsed knowledge. Two differences between these didactic fields have nevertheless been noted: the place of scholarly knowledge and of practise, and the importance given to concepts (Ibidem). In other words, what characterizes professional didactics is its interest in the development of professional competencies in action without reference to a given discipline, but rather to professional practises (Rogalski, Samurçay, 1994) – which in no way precludes the recourse to concepts stemming from the system of scientific disciplines. But disciplinary didactics cannot be referred to without taking into account certain limits. These limits have been articulated by Pastré (1997, 2004a) and by Samurçay and Pastré (1998). One of them concerns the concept of activity, whose place and function constitute one element opposing professional and disciplinary didactics. In the beginning, although the two forms of didactics originated following the methodical intent of learning in and through an activity, in the case of professional didactics, learning was related to situations in a practical objective of mastery. The disciplinary didactics, for their part, involved learning knowledge «with an epistemic objective of understanding» (Pastré, 2004a, 5). Pastré (Ibidem) nevertheless nuances this opposition, citing the fact that the mastery of a professional situation requires the mobilization of operational knowledge for the action, whose origin is diversified (occupational knowledge, scientific and technical knowledge): «to learn situations, it is necessary to have access to knowledge, even if assimilating this knowledge is a necessary but insufficient condition for the mastery of situations» (Ibidem, 5). These relations between professional and disciplinary didactics will be discussed further when we raise certain questions relative to the implementation of the former in initial teacher education. Because we especially examine the use of professional didactics in this form of education, we must now, for clarification purposes, address the issue in three steps: first,

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we will distinguish initial teacher education from occupational training, which, it must be recalled, constitutes the original field of professional didactics; second, in continuity with this first point, we will expose various potential contributions of professional didactics to initial teacher education; third, we will address several questions raised by the recourse to professional didactics in initial teacher education and requiring both reflection and adjustment. 3. The specificity of initial teacher education in terms of occupational training As already mentioned, professional didactics has, until recently, been chiefly concerned in the field of occupational training5. The interest in professional didactics applied to the field of teacher education and training is relatively new. The fields of occupational training and its teacher education, on the one hand, and so-called general education and its teacher education, on the other, can be distinguished by several aspects. These differences raise questions concerning the contributions, conditions and limits that can be generated by the recourse, in teacher education, to an approach drawing upon professional didactics, whose links with occupational training are well established. This is why, before considering these contributions, conditions and limits, it is important to distinguish the specificities differentiating the field of occupational training and its teacher education, and so-called general education and its teacher education. In comparing the characteristics of these two fields of teacher education, we will limit our study to five elements. These elements concern the training aims of the two fields, their respective populations and teaching staff, and the professional identity sought by each, as well as their apprehended goals and respective didactic approaches. We would like to highlight that this comparison concerns Canada, and more specifically Quebec. There should nevertheless be strong similarity with other teacher education systems in the world (Organisation de coopération et de développement économiques [OCDE], 2006a, 2006b). The first difference concerns the aims of these two areas. Although the training of teaching staff in general education (preschool, primary, and secondary) in Quebec targets adaptation to «the changes affecting the system as a whole, in order to adapt them to the new realities that will define the

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world of education in coming years» (Gouvernement du Québec, 2001b, ix, original quote), that of the teaching staff in occupational training seeks to align this training with changes in the sector of professional occupational training and to make it «better adapted to the new realities of this sector» (Gouvernement du Québec, 2001a, ix). A training aim pursuing general teaching practise targeting social, cultural, and cognitive objectives – preparing students for future studies – contrasts with a training aim pursuing teaching with the central objective of inserting students into economic life via the learning of an occupation. The second distinction concerns the targeted population. That of professional education, unlike that of general education, is trained in view of the labour market. The students in this teaching sector must develop competencies specific to one of the offered occupations. General education, for its part, prepares students for pre-university studies in a cégep6, and, later, university studies. In addition, the population of primary and secondary level students is globally homogeneous insofar as it is made up of youths7. For teachers, this population stability and homogenization create a different situation than that in which the population is unstable and made up of both young and adult students, as is the case in occupational training. The greater adult population makes this sector characterized by the heterogeneity of its population (Comité d’orientation de la formation du personnel enseignant (COPFE, 1998). This heterogeneity has a direct impact on teachers’ professional act and necessitates a differentiation in the teaching act (Gouvernement du Québec, 2006; Caron and St-Aubin, 1997). The third difference between the two areas concerns the teaching staff. First, recruiting teaching staff differs in that future teachers of general education pursue their studies seamlessly, while future teachers in occupational training for the most part have professional experience; they have already practised an occupation. Second, the teaching staff in general educational training contrasts with that of professional occupational training when it comes to professional identity. While training for a profession, for instance education, is essential in constructing the professional identity of its members (Altet, 1994), for general education, initial training targets the construction of a professional identity in line with the missions of instruction and socialization mandated by the Quebec ministry of education. Professional identity is either generalist at the preschool and primary levels – as teachers «have taught most of the subjects specified in the basic school

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regulation to a single group of students» (Gouvernement du Québec, 2001b, 169, original quote) – or its identity is strongly marked by the discipline to be taught. At the secondary school level, for example in the teaching of languages, mathematics or science and technologies, the disciplines constitute monodisciplinary exit profiles (Gouvernement du Québec, 2001b). If professional identity is especially constructed following the practice of the teaching profession (Habboub, Lenoir, Tardif, 2004), in the case professional occupational training, the developed identity will be professional, in the sense of an identification with the occupation that is taught. The fourth difference between these two training and teaching areas concerns their respective goals, and has to do with an epistemic relation to distinct knowledge. In general education, as much in preschool as in primary and secondary school, teaching subjects are relative to the missions of socialization and instruction, with variable intensity. Besides the learning of “living together” (socialization), it is the knowledge belonging to the various academic disciplines (instruction) that constitutes the teaching content. Qualification, the third mission bestowed upon the school system, is understood in terms of academic success, in a perspective of preparation for further training, for further studies. In professional occupational training, it is the professional practises or social practises of reference – in the sense given by Martinand (1986) – that are imposed (Habboub, 2005) and that provide the backdrop and purpose of this training. Both the area of occupational education and its related teacher education are characterized among other things by the specificity of the teaching content, since «they are not traditional academic disciplines and, for this reason, they are scarcely “universitarized” and evolve rapidly» (Pelpel, 1996, 21). Finally, the fifth difference concerns the didactic approaches used in each area. In general teacher education, the use of didactic disciplines is systematic. In the case of professional teacher education in Quebec, likely due to a lack of research8, the situation is quite different, as it is centred on the development of professional competencies appropriated according to the tasks to execute in the context of the occupation or profession. This is why this form of training has adopted a double logic required by the competency-based approach: an action logic (Raisky, 1993) and a situational logic (De Ketele, 2007). Disciplinary knowledge constitutes the «central lever for analyzing and theorizing professional situations and practices» (Lenoir, 2008, 314). The emphasis in teacher education placed on the pro-

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fessionalization of the teaching occupation and on the competency-based approach requires a conception of professionality distinct from the previously dominant one. Conceiving of the teacher’s professionality in this new conceptual frame requires its apprehension as a complex and integrating system in which various knowledge types – content-related, contributory, and professional – intersect and intertwine with one another and with practices in usage, with habitus9, values, ideological options, etc., each of these knowledge types being itself composed of various knowledge types. This is the fundamental issue that appears to be generating the current situation in all professional teacher education. It must be observed that the conceptualization of the initial teacher education process struggles to make necessary links between the elements of professionality recommended by the ministry of education (Gouvernement du Québec, 2001a, 2001b) and the teaching activities related to the teaching content. In the perspective of conceptualizing an approach enabling an actualization of such links, we have conducted an analysis of some 80 texts produced by the designers of professional didactics in the context of our master’s degree in education science (Habboub, 2005). Then, in the frame of the doctorate currently in progress (Idem, 2010), we have carried out another critical review, this time on texts addressing professional didactics in teacher education. This work has allowed us to observe that in Europe, a set of devices in initial teacher education today draw from professional didactics. Basing ourselves on the work and results of international study days organized by the Canadian Research Chair in Pedagogical Intervention and by the Centre de recherche sur l’intervention éducative (CRIE) of the Université de Sherbrooke on the relations between professional and disciplinary didactics (Lenoir, Pastré, 2008a), we now turn to the possible contributions of – as well as the questions raised by – the use of professional didactics in teacher education. 4. Potential contributions of professional didactics to initial teacher education We will attend to what we consider to be contributions of professional didactics to initial teacher education. We will present only five, once again without pretending to exhaustivity and even less to a hierarchization of their importance, and will describe each briefly.

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First, both fundamentally and globally speaking, professional didactics is part of the movement of revaluing the area of professions that had been progressively disqualified «all along the 18th and 19th centuries as underscored by Stichweh (1991, 1994)» (Lenoir, 2008, 311). The system of scientific disciplines first resulted, as Stichweh explains, in «a subordination and subservience of the system of professions to that of disciplines» (Lenoir, Larose, Dirand, 2006, 18) and in the fact that the university hold on training processes led to the «devaluation of knowledge directly stemming from or associated with the actual practice of the profession» (Ibidem). Second, professional didactics clearly stresses the primordial place of action (the productive dimension) and its analysis as a conceptualization (the constructive dimension), whose fundamental importance in terms of indissociable and complementary functions is explicitly emphasized. One could say in essence that all professionalizing training is animated by a logic of action. This is all the more true in education because it is a service profession, based on social interaction. On the one hand, the insistence on conceptualization is central to works in professional didactics and this insistence is not only relevant in terms of teaching action, in terms of the need to take a critical and thoughtful distance, but also in terms of teaching/learning processes in which conceptualization is fundamental, regardless of the favoured cognitive approach. On the other hand, the emphasis placed on the need to approach a training process from the standpoint of a professional act imposes a re-centring of teacher education on teaching practise, but a practise that can only be activated directly and closely in line with the conceptualization. The actualization of the competency-based approach expected in both teacher education curricula and teaching itself imposes the use of this logic of action and of conceptualization in action, with the effect of overcoming the age-old opposition between theory and practise. This angle of approach based on the professional act requires decreased compartmentalization between action and its analysis. Pastré (2006) specifically points out that «not everything is learned through action. Many things are learned only through retrospective analysis… Didactization thus essentially consists in combining learning through the practise of the activity and learning through analysis of this activity. Action and reflection are equally indispensable… Activity analysis after the fact is probably the principle avenue leading to the level of conceptualization. Not everything

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is learned in the field. Not only can lasting faults be acquired therein, but it has been observed that certain related errors are persistent and resist correction» (Pastré, 2006, 340-341). As we have noted elsewhere (Lenoir, 2008), «Vanhulle… strongly emphasizes the central importance of promoting the exercise of ‘distanced reflectivity’ in teacher education. This reflectivity thus reinforces the previously cited position of Pastré (2006) concerning the tension between experience (professional action within a situation) and knowledge in a teaching/learning situation, between what he qualifies as an operational model and the cognitive model that ‘is expressed according to two registers of conceptualization, namely a practical register and an epistemic one’» (Ibidem, 315-316; see also Pastré, 2008b). Professional didactics therefore underscores the inseparability of theory and practise, as well as the need for mediation through a conceptualizing “distanciation” afforded by a posteriori verbalization. «This distancing ability relative to common-sense daily practise enables the development of reflective distancing, or critical capacity, the awareness of relations with the self, others and the social and natural worlds – and the actions resulting from them – all of which requires the production of verbalized knowledge capable of functioning as tools for analyzing reality» (Ibidem, 316). Third, professional didactics principally examines the competencies to develop through life-based situations. The notion of situation is central, consistent with the centring on the logic of action and the professional act. It well highlights the fact that, in a training or education process, what is “central” is neither the student, nor the trainer/teacher or the knowledge, but rather the situation as a meeting point between the learning subject and the educator in terms of the required learning. Professional didactics thus paves the way, in our view, for the orientation that should be adopted in teacher education. In this perspective, pursuing a professionalization process would result primarily from situational analysis (see the situation-activity pair). Although, for professional didactics, the place and function of knowledge appear secondary because it is the situation and activity it requires that is at the heart of the process of developing competencies, this form of didactics nevertheless offers a different logic for conceiving of learning. As noted by Pastré (2004a), there are two possibilities: either «the logic of training construction consists… in constructing a type of learning enabling the assimilation of knowledge, going from simple to complex or from fundamental

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concepts to applications and inferences based on them» (Pastré, 2004a, 6), or «training can be organized around situations representative of an occupation. In this case, it is the situation that is the principal organizer and that leads – according to need and thus in a fairly opportunist manner – to drawing from information belonging to various disciplines, and that does not necessarily mobilize the whole of each disciplinary knowledge type» (Ibidem). In our view, teacher education that is professionalizing should promote the second possibility, that afforded by professional didactics. Understanding the work involved in teaching implies understanding and identifying the components of professional knowledge that characterize this work. Through activity analysis, professional didactics offers a way to identify this knowledge. It seeks to examine how operators can use their practical knowledge to make it evolve into a more rigorous conceptualization. It adopts analysis as its principal procedure, accomplished in three phases: «1) analysis10 of the professional task to extract from it a problem situation that is relevant from a cognitive standpoint; 2) didactic integration of this competency through the construction of a simulation; 3) integration of this simulation into a training device» (Pastré, 1992c, 205). Thus, by calling on various concepts on an operational level, including that of situation, professional didactics «identifies the competencies to be developed in view of constructing training based on problematized didactic situations issuing directly from the professional activity, by transposing them to create didactic situations» (Idem, 1992b, 34). In this perspective, as already mentioned, the area of professions is inscribed in an action logic, which no longer belongs to that of the system of scientific disciplines, but which sees disciplines as indispensable additives or ingredients and no longer as ends. Moreover, as Bouillier, Asloum and Veyrac (2008) highlight, «professional didactics may constitute a relevant frame of reference for the didactization of what Pastré (1994) calls the ‘live’ part of professional situations that leads to an adaptation to the singularity and complexity of work situations» (190). Fourth, Vanhulle (2008) aptly signals a number of difficulties raised by the implementation of professionalization processes that must combine knowledge, competencies and experiences in real situations. Specifically, professional didactics emphasizes the importance of experience and, more generally, of what is implicit and tacit in professional action, in terms of unspoken or practical knowledge types, incorporated competencies, habitus,

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etc. Professional didactics insists on the importance of experience, as both «the goal of the activity and the concept for the activity» (Mayen, 2008, 58), as «it occupies a place and exerts an active function in systems of representation, positioning, thought and action for all players» (Ibidem, 59). We should not neglect the fact, in teacher education, that future teachers have a great deal of experience relative to school and teaching/learning processes, in addition to that which they acquire in practicums in the milieu. This experience and its diverse implicit elements need to be made explicit, formalized, debated in view of their respective professional activities. Fifth, as we have mentioned elsewhere (Lenoir, 2008), «professional didactics… has the double advantage of centring on the actual situation in its complexity, and on the progress of the activity in a sense differing from that of disciplinary didactics» (Lenoir, 2008, 313). If it pursues an «attempt at rich synthesis between the development of professional competencies to ensure appropriate education and the essential acquisition of disciplinary knowledge needed to design teaching/learning situations» (Ibidem, 313314), and in so doing it asserts, through its founding orientations based on professional action in a situation context, «the need to consider the teaching practise in its complexity, multidimensionality, and multireferentiality» (Ibidem, 314). In our view, this imposes the need to conceive of professionalizing teacher education using an approach we characterize as circumdisciplinary, which goes beyond the interdisciplinary perspective (Lenoir, 2000a; Lenoir, Larose, Dirand, 2006). Formed using the Latin preposition circum, “around” – adverbial accusative of circus, “circle” – circumdisciplinarity seeks to express the fact that professional training refers not only to disciplinary knowledge and other endorsed knowledge, but also to social practises of reference, knowledge required for action, used as frameworks in training. It is therefore a question neither of apprehending professional training in one or another sense of transversality within two or more scientific or academic disciplines (through), nor of going beyond the discipline and hence leaning toward unity in science based on a set of unifying principles, concepts, methods, and goals acting on a metascientific level and leading to the fusion of various programs or of practise as an indistinct whole (beyond), nor of centring on competencies (below), but rather of action that is integrative, synthesizing and dynamic (in a dialectical, praxeological structure), and finalized by the professional act between the various knowledge constituting professional knowledge, which can in no way be reduced to mere disciplinary knowledge (Lenoir, 2003).

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5. Questions concerning the use of professional didactics in the frame of initial teacher education The use of professional didactics in the frame of initial teacher education does not only present contributions; it also raises questions. We will critically examine two specific points relative to the origins and primary aims of professional didactics that, in our view, must be carefully analyzed in the perspective of its implementation in teacher education: the social aspect and the knowledge that is taught. Let us begin with the social aspect. Pastré (2002, 2004a, 2008a) points out at numerous occasions that the theoretical origins of professional didactics can be found in the convergence of cognitive ergonomics, Piagetian psychology reinterpreted by Vergnaud, the Vygotskian vision, and the current of disciplinary didactics, whose own origins lie in Piagetian thought (Lenoir, 2000b; Vergnioux, 1991), all of which is geared toward practise, professional education, and continuing professional training. If, on the one hand, the concern for the context in which this practise is implemented is indeed marked in professional didactics – conceptualization being apprehended as an “adaptation to the context” in the Piagetian sense (Pastré, 2008a) – and if, on the other hand, the reference to Vygotsky implies an authentic concern for intersubjective social interactions, considering that the intersubjective dimensions are indeed taken into account, this is not the case for social factors in their external context characterizing both social relations and institutional structures, which can be explained by the fact that professional didactics has principally been involved in professional training in a business setting. But in professional teacher education, the social stakes are quite different, since the aims constitute a fundamental question. Pastré (2009) refers to Rabardel in order to highlight the fact that professional didactics is based on the idea of the “capable subject”. It is insufficient, in the area of education, to acknowledge the potential malleability of human beings and their ability to develop their potentialities to act; it is also important to pose the question of the social aims of these questions, and more specifically of professional action on the part of teachers and trainers, as well as of the social context in which this action is inscribed. It is thus fundamental to pose this question as much in terms of the various stakes – political, economic, ideological, cultural, ethnic, etc. – involved in all educational processes, as in that of the ethical issues that must guide the educational act. We have already shown, for example, the

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extent to which ethical concerns may be diverted to managerial or economicist aims in education (Lenoir, 2004), the question of the “how”, of procedures, having evacuated that of the “why”, the aims (Enriquez, 1993). Such a diversion leads to the adoption of a performance model, economic reason having prevailed over democratic values such as solidarity or sociability, hence considered outdated because they cannot be measured and accounted for. The ethical question is thus in the service of organizations. But this ethical question, which has been seized by businesses, can only be a disguised ethic, as Enriquez shows, in that it is in fact much more of an ethology that «borrows its canons from animal behaviour science to implement devices of voluntary servitude ensuring adhesion to the exclusive objectives of businesses and organizations» (Ibidem, 28). In sum, professional didactics cannot, in our view, be implemented in the context of teacher education without being associated, through an effort of reconfiguration, with sociological and ethical perspectives. Furthermore, it should be kept in mind that schooling pursues two aims historically established during the radical reform of educational systems of democratic nation-states in the 18th and 19th centuries: that of instruction, which is realized through the teaching of disciplinary knowledge, and that of socialization, whose first sense refers to civic education. This last type of education cannot be reduced to an adaptation to the work world, even less to a tendency to conceive of “living together” as a psychological manipulation seeking social control and subjugation. Although it cannot address this aim specific to the academic educational process – like disciplinary didactics, for that matter – professional didactics must, in order to find its place in the area of professional teacher education, distance itself from the performance logic required of professional training in a business context to open itself to the other social dimensions in which professional teacher education and education itself are immersed. But it must also be questioned – and this is our second point – in epistemological terms with regard to the status and function of knowledge. If professional didactics acknowledges the importance of knowledge, its apprehension differs according to the specificity of teacher education. As previously mentioned (Habboub, Lenoir, Tardif, 2008), for professional didactics, reference to disciplinary didactics cannot be made without taking into account certain limits. These have been articulated by Pastré (1997, 2004a) and by Samurçay and Pastré (1998). One of them concerns the

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concept of activity, whose place and function constitute one element opposing professional and disciplinary didactics. In the beginning, although the two forms of didactics originated following the methodical intent of learning in and through an activity, in the case of professional didactics, learning was related to situations in a practical goal of mastery. However, disciplinary didactics involves learning knowledge «with an epistemic objective of understanding» (Pastré, 2004a, 5). Pastré (Ibidem) nevertheless nuances this opposition, citing the fact that the mastery of a professional situation requires the mobilization of operational knowledge for the action, whose origin is diversified (occupational knowledge, scientific and technical knowledge): «to learn situations, it is necessary to have access to knowledge, even if assimilating this knowledge is a necessary – but insufficient – condition for the mastery of situations» (Ibidem, 5). In our view, because teaching is a relational occupation by which a contributor intervenes in the relation established by a learning subject with knowledge objects, in view of creating conditions more favourable to the student’s establishment of a learning process (Lenoir, Larose, Deaudelin, Kalubi, Roy, 2002), it is essential first to distinguish (Lenoir, in press) between, on the one hand, knowledge on practise and formed by scholarly discourse elaborated by research, by the scientific discourse produced by researchers in the world of research, that is, the psychoeducational, didactic, organizational and other endorsed knowledge stemming from their work – and, on the other hand, knowledge stemming from practise, know-how, procedures, routines, recipes, skills, techniques, etc., in short structured discursive fragments issuing from social practices in education setting out explicit procedural competencies required for action. This practise-related knowledge largely relates to what Pastré (in press) designates as an “operative model”, distinguishing this from a cognitive model. «The cognitive model of an academic subject is composed of the entirety of acquired knowledge enabling an understanding of the functioning of a given object… The operative model of a subject is primarily defined by a goal… This goal enables the selection of organizing concepts providing bases for diagnosing a situation. This is why an operative model constitutes a distortion with regard to its corresponding cognitive model… An operative model is selective because it is oriented by the goal of an action and the diagnosis of this situation that it implies. Besides organizing invariants, it comprises indicators gathered in the situation, which allow for concrete evaluation; it generates a categorization of situations organized

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into broad classes, and this enables an orientation of action: each class of situations will correspond to an adapted procedure. An operative model is thus constructed based on the goal of the action and essential properties of the situation required to guide action. This set of essential goal-properties constitutes what we have termed the conceptual structure of the situation». This quote clearly stresses that the logic of action must underlie all professional training, including teacher education. An approach based on the professional act topples the conception that radically separated theory and practise and that subjugated the latter to the former, instead of seizing them in the perspective of a continuous back and forth movement of necessary and mutual enrichment. But it is also important to distinguish between, on the one hand, contributory knowledge stemming from education science and disciplinary knowledge, a whole of endorsed knowledge serving as a reference, as contributory discipline-tools (epistemology, history of education, educational psychology, educational sociology, educational economics, etc.) that shed light on professional knowledge and give it meaning, and, on the other hand, the knowledge to be taught, the discipline-objects11 (Lacombe, 1989), issuing at least in part from the scientific disciplines (mathematics, linguistics, history, chemistry, etc.). These disciplines influence the cognitive teaching content of academic disciplines and in some cases are at the source of the academic knowledge contained in teaching curricula, not all academic knowledge being a transposition of scientific knowledge (Hansi, 2001). It should not be forgotten that the knowledge issuing from the disciplines that are taught constitute the raison d’être of the school (its function of instruction), along with the function of socialization. But professional didactics has not yet confronted this aim of instruction, or of transmission, in other words, of the cultural heritage. Unless the aim of the educational system is reduced to occupational preparation, to the production of “human capital” ready to serve economic interests, education has a fundamental social aim, namely that of educating human beings for autonomy, for the ability to apprehend clearly and critically the world in which they live, for consequently interacting with others within increasingly complex social relationships, and for acting both on and in the world. In short, the primary aim of the school is emancipatory in nature. This issue is all the more important inasmuch as many primary school teachers, in Quebec in any case,

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remain confused when it comes to the notions of knowledge, situation, device, etc. Almost obsessed with the development and implementation of activities that they consider likely to “seize” their student’s attention, they forget to infuse these activities with the knowledge to be learned, as if the situations themselves were sufficient (Lenoir, 2006). Thus, for instance, analysis of videotaped practises shows that the use of problem solving in learning situations concerns relational, socio-affective or organizational issues, but does not address cognitive content (Ibidem). To resume the analyses of Vanhulle (2008), in the process of professionalizing teachers, the “training culture” «centred on the development of competencies deemed necessary to exercise the profession» (Vanhulle, 2008, 227) and the “professionalization culture” «which refers to the transfer of competencies and knowledge in defined professional contexts» (Ibidem) are supplemented by the “educational culture” «founded on the transmission of referential knowledge stemming from education science (including didactics) and on its appropriation by prospective practitioners» (Ibidem). How can professional didactics take into account this “educational culture”, the issue of the transmission/(re)construction of knowledge prescribed by teaching curricula? The status and place of this educational culture cannot be neglected, since it is centred on the teaching subjects for the teacher and on the learning subjects for the student, even when the objectives are specified in terms of competencies. The place of disciplinary knowledge is profoundly changed in the frame of professional training, insofar as this knowledge in no way constitutes the aim of professional training as is the case in disciplinary training, but rather becomes a set of essential and indispensable conceptual mediation tools. In dynamic professional training, it is the professional practices that constitute the aim; it is the professional activities to realize, according to the prescribed task, in the frame of situations that are central to this training. We wish to recall that «according to Raisky (2009)… “professional didactics, under Pierre Pastré, essentially developed in the context of training devices for adults and continuing education, in which the question of disciplines is scarcely present” [106]. The fundamental question posed, then, is that of clarifying and operationalizing the relation to be established between professional action and the competencies it requires, on the one hand, and the knowledge to be taught, on the other. In the frame of teacher education, as in the practice of this profession, the sole mastery

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of the professional act, perfect though it may be in the appropriation of its complexity, is insufficient. Unless the cognitive aim of the educational act is excluded in favour of the aim of socialization, or unless the cognitive process is reduced to mere technological-instrumental dimensions, the disciplinary knowledge to be taught must be at the heart of the teaching practice» (314-315). If, for instance, for Samurçay and Rogalski (1998), disciplinary and professional didactics adopt parallel approaches, the former makes the transposition and analysis processes primarily carry on knowledge involved in an epistemic objective of understanding, and the latter, on the tasks, situations, and professional activities involved with a pragmatic objective of developing competencies. But the problem of moving beyond this parallelism remains. How can a truly integrative perspective between the three cultures addressed by Vanhulle (2008) be ensured? For his part, Raisky (1993) advances that teaching/learning systems in teacher education should be identical to professional situations in actual workplaces and should have the same properties as actual educational activities. However, although Raisky (1993, 1995, 1996, 1998, 1999) distances himself from didactic transposition and from the didactic processes targeting the decontextualization of the knowledge in question, would it be possible to conceive, in a teaching/ learning context, of modelling a situation-activity or situation-knowledgeactivity of reference isomorphic with the situation of daily work? Does this signify, unrealistic though it may be, that training should exclusively take place in the milieu of practice? The risk of blunders is quite high, as demonstrated by the English experience. Atkinson (1998) and Goodson (1995) have already sounded the alarming when it comes to training carried out exclusively in the field and based solely on practical experience. Learning by doing is assuredly one relevant avenue, but it is insufficient insofar as, if it constitutes a sealed training universe, it cannot guarantee the development of reflective and critical thought as well as metacognitive abilities permitting distanciation from and conceptual analysis of one’s own practises. Is it not more realistic to think in terms of homomorphic situations, as conceived by Raisky (2008), inspired by Vergnaud (1981, 2000)? The question, in our view, still stands today, particularly in view of the links to be ensured between teaching content, disciplinary didactics and professional didactics.

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6. Conclusion It has been our intent, in this article, after having recalled the principal characteristics of professional didactics and its specificity with regard to the area of teacher education, to highlight various contributory elements that might enrich or reinforce this form of education, while revealing what we consider to be two of its primary and inherent stumbling blocks in light of its origins and areas of application. Studies in this branch of didactics may, in our view, constitute a major contribution to teacher education, but there remains research to be carried out – on the theoretical, empirical, and operational levels, as well as in terms of social stakes – in order to conceive of and ensure its successful insertion into the field of education. Authors’ Presentation: El Mostafa Habboub, doctoral student in education science and member of the CRCIE and of the Centre de recherche sur l’intervention éducative (CRIE). Yves Lenoir, research director, full professor, holder of the Canada Research Chair in Pedagogical Intervention (CRCIE), member of the scientific management committee of the Institut de recherche sur les pratiques éducatives (IRPÉ) and of the CRIE.

Notes 1 This

article was translated from the French by Joachim Lépine, M.Ed. First, the results of a master’s thesis dealt with critical analysis of the French language academic literature related to professional didactics and the didactics of professional knowledge (Habboub, 2005; Habboub, Lenoir and Tardif, 2008). Second, the primary results of a doctoral research work, entitled L’usage de la didactique professionnelle dans les situations de formation initiale à l’enseignement des sciences et technologies [the use of professional didactics in situations of initial teacher education in science and technology] (Habboub, 2010), is currently being finalized by the first author under the supervision of the second. The intent of this doctoral research is to identify, describe and distinguish the aims, justifications, foundations and operational modes of the use of professional didactics in the frame of initial teacher education. 3 In this article, all translations are ours unless otherwise noted. 4 We have translated the word schème as “scheme” in order to respect the intent of the French; however, translation always entails a shift in meaning. 5 We would like to recall that occupational training (the teaching of occupations) is a teaching sector that has gone by different names, such as special educa2

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tion (enseignement spécial), the teaching of arts and trades (l’enseignement des arts et métiers), trades training (l’enseignement des métiers), and, more recently, vocational education (enseignement professionnel). It is also known as professional training (formation professionnelle) in secondary school. It is therefore essential not to confuse professional occupational training with professional teacher education. In Quebec, this training is under «the responsibility of school boards and of certain private establishments». It ensures study leading to qualification for both young and adult students. It also promotes integration into the world of work as well as mobility and adaptation to the labour market. With the new program organization in effect in Quebec, professional education must also enable the pursuit of studies for interested students (Gouvernement du Québec, 2001a, p. 11, 2002a). 6 The Quebec school system is structured in the following way: two-year preschool education (including one mandatory year at 5 years of age); six-year primary education (from 6 to 11); five-year secondary education (12 to 16); three-year technical education (17 to 19) or two-year pre-university education (17 to 18) in a “collège d’enseignement général et professionnel” or “cégep”; three-year first-cycle university education (four years for doctors, engineers and teachers) leading to a bachelor’s degree; three- or four-year second-cycle professional or research training leading to a professional or research master’s degree; the doctorate whose time frame is not fixed, but generally involves four to five years of study, structured in various ways according to the disciplinary and professional fields involved. 7 The term “youth” refers to young students in both general and professional education. To be considered youths in general education, students must be under 18 years of age, but must have attended an educational institution (Gouvernement du Québec, 2003, 2005a). In professional training, the same criteria are applied with certain additional specifications for students 18 years of age and above. The term “adult” refers to students considered adults in general and professional education at the secondary school level. The term “adult” designates students above the mandatory schooling age, which in Quebec is 16 (Beaudet, 2003), as well as students who have acquired a secondary school diploma (Gouvernement du Québec, 2003). 8 According to Caillot (2002), «professional education is absent from the preoccupations of didactics researchers» (p. 3). And although Caillot (Ibidem) describes the situation of professional education in France, it is also applicable in the case of Quebec. Indeed, few research works have studied professional training (Gouvernement du Québec, 2006b; Habboub, 2005). 9 We have retained the word habitus in translation in order to respect the intent of the French; however, translation always entails a shift in meaning. 10 The procedure for analyzing work activity, as an operationalization process, seeks the development of training modalities (Mayen, 1998b, 2003; Pastré 1999b) or situations targeting the development of professional competencies (Mayen, 1997, 1998b, 1998c, 1999b, 2003; Pastré, 2002). 11 We have translated the term disciplines-objets as “discipline-objects” in order to respect the intent of the French; however, translation always entails a shift in meaning.

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Entre communauté de pratique et d’apprentissage: un espace commun de communication des connaissances MARIELLE METGE

Abstract: The purpose of this paper is to propose a reflection on the role that communicative competence and communication in a mediation built within communities of practice and learning. The starting point of our discussion considers these communities as socio-technical devices of information and communication at the heart of which, interactions, actions and behaviors act as vectors for the joint construction of knowledge. We locate in the first instance, communities of practice and learning communities to understand the operation and interest in sharing knowledge. We then show that participation, for communities of practice (Wenger, 1998) or socio-cognitive conflict (Doize, Mugny, 1981), for learning communities, can revisit the notion of mediation through the idea of sharing and shared space. We finally see how communicative competence (Hymes, 1982), in his report to the discourse and construction of a common sense (Schutz, 1987; Garfinkel, 1999) can be a lever for the joint construction of knowledge. That is, for us, a feature common areas of communication and knowledge is at the heart of communities, it is the reference to the meaning and social values associated with symbols as a means of communication. Résumé: Le but de cet article est de proposer une réflexion sur le rôle que peuvent jouer la compétence communicative et la médiation dans une communication construite au sein des communautés de pratique et d’apprentissage. Le point de départ de notre réflexion envisage ces communautés comme des dispositifs sociotechniques d’information et de communication au cœur desquels, les interactions, actions et comportements agissent comme des vecteurs de la construction commune des connaissances. Nous situons dans un premier temps, les communautés de pratique et les communautés d’apprentissage pour en comprendre le fonctionnement et l’intérêt en matière de partage des connaissances. Nous montrons ensuite que la participation, pour les communautés de pratique (Wenger, 1998) ou le conflit sociocognitif (Doize, Mugny, 1981), pour les communautés d’apprentissage, permettent de revoir la notion de médiation à travers l’idée de partage et d’espace partagé. Nous voyons enfin comment la compétence communicative (Hymes, 1982), dans son rapport au discours et à la construction d’un sens commun (Schutz, 1987; Garfinkel, 1999) peut être un levier de la construction commune des connaissances. Mots clés: communauté, technologies, compétence communicative, sens commun, apprentissage.

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La notion de communauté La notion de communauté est aujourd’hui au centre des préoccupations quant aux effets qu’elle provoque et aux usages qu’il en est fait. Chacun connaît les communautés “face-book”, “twitter”, “linked”; les communautés liées aux différents médias participatifs ou encore les communautés d’intérêt commercial comme “amazone”, “e-bay”, “cdiscount”, “fnac” sans oublier les sites communautaires professionnels ou encore ceux où les questions planétaires, politiques, écologiques et autres sont débattues, défendues et trouvent des solutions à mettre en œuvre. Définir la notion de communauté, n’est donc pas simple. Comme dans toutes relations humaines, c’est avant tout un jeu d’interactions, d’actions et de comportements, qui prennent du sens en fonction des attentes et intentions des individus qui la constituent, compte tenu du lieu et de l’époque à laquelle ils vivent (Agostinelli, Metge, 2008). Historiquement, deux approches peuvent être avancées: une communauté est une unité structurale d’organisation et de transmission culturelle et sociale (Polanyi, Arensberg, 1975); une communauté est une collectivité dont les membres sont liés par un fort sentiment de participation (Hillery, 1981). La communauté forme, ainsi, un tout qu’il convient d’étudier pour comprendre ce qu’il y a de commun entre le sentiment de participation dans une structure particulière qui favorise une communication qui lie les membres des communautés pendant assez de temps pour que les relations humaines se tissent au sein du cyberespace (Rheingold, 1995). Il faut donc poser la définition des communautés virtuelles à partir de leurs structures qui lui donnent des contraintes et des possibles: les ressources techniques et un ensemble de règles qui permet l’interaction entre des membres (Giddens, 1987) mais aussi, à partir du système de relations socio-cognitivo-communiquant. Le premier aspect, celui des structures a déjà donnée lieu a de multiples analyses qui prônent une relation dialectique entre la structure et l’action (De Sanctis, Poole, 1994; Groleau, 2000; Comtet, 2009); en revanche, le second aspect, celui de la nature et du rôle de la communication, nous semble peu discuté. Ceci est d’autant plus surprenant qu’avec les TIC, la notion de communauté se rapporte davantage à un système de relations sociales qui fait intervenir les identités et les intérêts communs, une volonté collective. Elle a un caractère dynamique qui l’a faite évoluer simultanément aux cultures, connaissances, usages et pratiques (Granovetter, 1973).

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Entre communauté de pratique et d’apprentisage

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Nous considérons ainsi les communautés de pratique et d’apprentissage, comme un Dispositif Socio-Technique d’Information et de Communication (DISTIC), l’acception de “dispositif ” et de “technique”, dépassant la notion d’outil au sens restrictif de technologie. Les DISTIC s’inscrivent plutôt dans la tradition anthropotechnique exposée en France, par Stiegler (1994) pour qui les TIC sont des technologies de l’esprit qui relèvent des techniques de la mémoire. Selon Stiegler, la technique doit être appréhendée comme une constituante anthropologique et la technicité participe originairement à la constitution de l’homme. De même, pour Foucault (1994), la notion de dispositif est abstraite, elle ne décrit pas des objets techniques mais des relations, des allant de soi, des interactions qui décrivent un ordre social où s’exerce un contrôle, par le discours et le regard (Foucault, 1994). Le DISTIC s’inscrit aussi, dans la double médiation socio-technique déployée par Akrich (1993), là où nous avons affaire à la création ou à l’extension de réseaux socio-techniques qui s’effectuent par spécification conjointe du social et du technique. Enfin le dispositif est entendu ici, dans le paradigme socio-constructiviste développé à l’École des Mines de Paris (CSI) par Callon et Latour (1991). Les dispositifs sont du social, du social réifié, dans les inscriptions, les technologies, les représentations, etc., et du social en acte, du social en action, de l’interaction. La double nature des dispositifs, à la fois outils structurant les interactions et ressources stratégiques pour les différents acteurs qui s’en saisissent, est fondamentale. A cette approche, nous ajoutons qu’il s’agit d’un système flexible dans son utilisation; nous le concevons dans une perspective à la fois organisationnelle et technique puisqu’aux compétences techniques se mêlent les pratiques sociales. Un dispositif de type communautaire peut donc se définir comme une structure sociale numérique qui permet de coordonner des actions qui relèvent de compétences et de pratiques différentes, mais qui ont besoin d’être ensemble pour pouvoir satisfaire la compétence communicative qui permet de mettre en commun (Hymes, 1982) et de construire des significations communes. La communauté est donc un dispositif collectif constitué de règles et de ressources partagées qui organise les compétences sociotechniques à travers le déroulement d’actions de communication. Ces actions de communication autorisent la construction d’un sens partagé avec les dimensions contextuelles portées par chacun des membres de la communauté. C’est un dédoublement du social qui fixe à la fois les règles et les ressources: le futile avec Facebook, le bouche-à-oreille avec Twitter et l’information ou

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l’opinion avec les blogs et forums (Chappaz, en ligne le 23 mai 2010) sont des structures sociales numériques de relations humaines. Nous pouvons également dire ici, comme Barab, Makinster et Scheckler, qu’il s’agit «d’un réseau social persistant et actif d’individus qui partagent et développent un fond de connaissances, un ensemble de croyances, de valeurs, une histoire et des expériences concentrées sur une pratique commune et/ou une entreprise commune» (Barab, Makinster, Scheckler, 2004, 55). Dès lors, il semble opportun de regarder plus avant ce que sont les communautés de pratiques et d’apprentissage en ligne, pour trouver ce qui à leur intersection, introduit pour nous la notion d’espace partagé. Distic et communauté de pratique et/ou d’apprentissage Selon Lave et Wenger (1991), une communauté de pratique est constituée de groupes d’individus engagés dans la même occupation ou dans la même carrière. Elle désigne également, le processus d’apprentissage social émergeant lorsque des personnes ayant un centre intérêt commun collaborent mutuellement. Nous dirons donc que les communautés de pratique se définissent selon trois éléments: les limites de leur domaine d’application; leur existence sociale en tant que communauté; les outils, le langage, les histoires et documents que les membres de cette communauté partagent et s’échangent. «Une communauté de pratique ce n’est pas qu’un site web, une base de donnée et un répertoire de “best practices”. C’est un groupe qui interagit, apprend ensemble, d’appartenance et de mutuel engagement» (Wenger, Dermott, Snyder, 2002, 34). Ce mutuel engagement doit se dérouler sur une période de temps notable et consiste à partager des idées, trouver des solutions, construire des objets nouveaux… On parle aussi de communauté de pratique pour désigner le groupe de personnes qui participent à ces interactions. Les individus interagissent sur une base continue en vue de maîtriser et d’améliorer les savoirs et savoir-faire de leur domaine d’intérêt. Ainsi, la participation par qui l’apprentissage se déploie, demeure un élément moteur et revêt un double sens d’implication et d’engagement. Il s’agit ici de s’orienter vers un “ethos” de collaboration créative, où les notions d’identité collective, de vision partagée et de valeurs communes traduisent le souci de créer un sens dans la communauté, qui répond aux aspirations individuelles des membres de l’organisation (Senge, 1990). Quant à la communauté d’apprentissage, elle est constituée d’un groupe d’individus qui œuvrent ensemble dans un temps déterminé pour réussir

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une tâche ainsi que comprendre un nouveau phénomène ou compléter une tâche collaborative (Riel, Polin, 2004). Elle se constitue dans le cadre de la formation à des fins d’apprentissage pour répondre à des besoins et à des buts bien précis. À l’échelle scolaire, l’attention, le dialogue et l’entraide sont fondamentaux dans une communauté qui se définit comme un groupe d’élèves et au moins un éducateur ou une éducatrice qui, durant un certain temps et animés par une vision et une volonté communes, poursuivent la maîtrise de connaissances, d’habiletés ou d’attitudes. Pour Charlier et Peraya (2003), une communauté d’apprentissage est fondée sur une démarche d’apprentissage par action, finalisée en fonction de projets, souvent transdisciplinaires incluant la résolution des problèmes et basée sur la collaboration/coopération entre les apprenants (Daele, Charlier, 2002). La notion de communauté d’apprentissage se caractérise aujourd’hui par l’évolution des modèles de transmission de connaissances préétablies qui donnent lieu à un schéma linéaire et séquentiel d’apprentissage vers un schéma de médiation fonctionnelle. La médiation qui relève alors de l’amplification des interactions par les outils (Agostinelli, 2003) envisage alors les DISTIC comme des œuvres humaines faisant l’objet d’une communication culturelle socialement organisée (Meyerson, 1995). Ils aident, assistent, les individus à créer et maintenir la solidarité du groupe, à sensibiliser les individus au partage du travail et à constituer des modes de pensée qui sont à la fois partagés et négociables. Nous trouvons ainsi dans la communauté d’apprentissage, des résolutions de problèmes qui permettent de clarifier des critères opérationnels pertinents au collectif, aux interactions, aux relations intersubjectives dans le partage d’une matérialisation de la connaissance (Lave, 1988). Le processus d’une telle communauté est alors, la volonté de mettre les connaissances dans l’accomplissement de l’action et de donner aux échanges communicationnels, un rôle productif qu’il partage avec l’interaction. En d’autres termes, les relations rendent compte de la construction et de la révision des connaissances individuelles contraintes par leurs interdépendances ou rendues possibles par celles-ci. Ces relations secouent les habitudes quotidiennes, ébranlent de vieilles évidences du sens commun, et peuvent être l’occasion de permettre une réorganisation des significations des individus. Espace partagé, sens commun et compétence communicative L’idée d’espace partagé recouvre ici une situation, dans laquelle les acteurs sont engagés et doivent agir ensemble, en partageant des ressour-

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ces et en confrontant des points de vue via un espace de communication (Agostinelli, Metge, 2008). La notion de partage est donc au cœur de cet espace. Dans un DISTIC, elle permet: d’avoir en commun une structure constituée d’un ensemble de règles et de ressources; de mettre en commun des usages appropriés dans diverses situations. Cette dualité entre l’avoir et le mettre se retrouve dans les interactions qui caractérisent les relations entre pairs, entre membres d’une communauté qui partagent les “allant de soi”, reconnaissent, adaptent et composent avec les règles et les ressources. En d’autres termes, ils ont une compétence unique (Garfinkel, 1999) qu’ils utilisent uniquement sur le champ d’action de leur espace partagé où elle a été créée, non reproductible en tant que telle, mais probablement génératrice d’une connaissance pratique, informelle, qui aidera chacun des membres à en construire de plus spécifiques. La compétence unique autorise donc le partage et le consensus destiné à rendre les modalités d’actions socialement validées: c’est la réification qui consiste à donner forme à l’expérience (Wenger, 1998); de l’autre elle structure ce que nous mettons en commun pour construire collectivement nos modalités d’actions: c’est l’engagement mutuel (Ibidem) qui décrit la participation des individus aux projets collectifs. Les connaissances pratiques sont envisagées comme l’expression d’un processus d’interaction, de négociation et donc de dialogues privés qui se situent dans un processus identitaire qu’il ne faut pas ignorer. Réduire le partage des connaissances à une question collective revient à oublier cette dichotomie subjective essentielle. Le partage repose donc aussi sur l’attention sensible que l’on porte à autrui. C’est la prévisibilité du geste juste, celui qui correspond à l’attente chez l’autre (Goodenough, 1957). En termes de communication des connaissances, c’est bien cette prévisibilité et la descriptibilité des actions (Garfinkel, 1999) qui permet d’accepter les (dys)fonctionnements, les différences et les similitudes. La communication fonctionnelle des connaissances réside dans cette recherche de l’équilibre entre les représentations individuelles et la cohésion du groupe, hors d’une aliénation et dans la perspective d’une sauvegarde des connaissances de chacun mise au service d’un système représentationnel plus vaste. On renforce ainsi le partage comme la dialectique qui s’établit entre la communauté et l’individu. La communauté est consolidée par le respect d’un échange équitable entre soi et les autres, elle ne constitue plus un ensemble de rapports sociaux mais un système de relations cohérent auquel on participe. Ce serait donc, la notion de partage qui donne à la commu-

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nauté le double statut de système relationnel: d’une part, lorsqu’elle est le lieu d’échange dans lequelle sont exprimées des relations formelles ou des conceptions relatives à la réalité d’agir ensemble de manières nouvelles et dans des circonstances où l’action collective n’était pas possible auparavant (Rheingold, 2005); d’autre part, quand elle est révélatrice de contextes où interviennent des informations et des connaissances qui autorisent l’étude des structures et évolutions de l’histoire des sociétés humaines comme progrès de l’action collective (Ibidem). Les connaissances de sens commun Associer les connaissances au sens commun peut surprendre. Pourtant, entre une position qui oppose des connaissances comme la conscience objective, voire scientifique du monde, à l’expression triviale, banale, des considérations de comptoirs des cafés, une alternative permet de penser que les expériences et les actions de chacun construisent un “background”, un contexte partagé des significations. Pour les communautés, cette connaissance de sens commun est un savoir intuitif et immédiat sur ce qui est raisonnable de faire. C’est un savoir-faire qui est culturellement acquis au cours des navigations et de la pratique quotidienne communautaire. Elle est l’ensemble des prescriptions implicites, des règles reconnues et utilisées pour la navigation au quotidien qui demande à l’internaute la mise en œuvre d’une capacité cognitive partagée différente suivant les communautés dans lesquelles il navigue. Le sens commun est un système culturel (Geertz, 1983, 1986) et comme tout système culturel il est le fond de l’activité qui est d’une certaine manière toujours présent et évident, mais qui passe inaperçu au cours de la pratique quotidienne (Garfinkel, 1967). Afin d’assurer cette perspective, nous envisageons maintenant ces communautés comme un système cognitif indexical d’un contexte sociotechnique organisé telle une connaissance de sens commun, pour servir de système commun techno-sémiotique. Cette indexicalité positionne ces phénomènes dans un groupe social particulier comme processus d’accomplissement: c’est la communication en train de se construire qui permet la construction d’un espace commun de communication qui de manière réflexive entretient, vérifie, modifie le traitement des informations. Celles-ci ne sont plus, alors des “objets” communicationellement neutres relevant d’une logique informatico-spatio-temporelle. Elles deviennent les éléments d’un système complexe dans lequel le contexte d’utilisation devient lui-même un pro-

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cessus de construction dynamique d’une situation de communication qui intègre une intentionnalité. La communication de ces connaissances quotidiennes est envisagée ici comme un processus interactionniste et praxéologique, constitutivement lié aux situations qui ordonnent la production, la diffusion et l’appropriation des informations, des usages au sein d’un espace collectif qui met en relation tous les acteurs dans un processus de médiation sociotechnique. Dans une telle situation de communication, les connaissances ne sont plus artificiellement extraites de leur environnement et de l’action en écartant les informations indexicales auxquelles les individus ont ordinairement recours. Elles sont considérées comme des ressources pratico-technologico-théorique qui articulent nécessairement un environnement, des informations et leur mise en pratique dans une dimension représentationnelle et intentionnelle de l’activité qui justifie et rend intelligible la communication. Compétence communicative et langage Dans le cadre de la communication des connaissances dans ces espaces communs, il est difficile de parler d’émetteur, de récepteur, de maître ou d’élève… Il n’y a plus de déroulement linéaire, pas de commencement ni de fin, «on peut dire qu’on est dans la communication, un peu à la manière du poisson qui se trouve dans l’eau. L’idée de transmission disparaît au profit de celle de contact» (Lohisse, 2006, 137). Certes, la notion de contact n’est pas très opérationnelle, car on ne se baigne jamais deux fois dans le même fleuve! Elle est donc englobante et difficile à définir, parce qu’elle recouvre des réalités en changement continu, simples ou complexes. Toutefois, elle est intéressante si on ne la limite pas à une relation topologique. Baigner dans la communication demande de dépasser le contact physique et trois relations dans l’ontologie communicationnelle pourraient rendre compte de la notion de contact; ce sont les relations permises par: les liens faibles ou forts, le sens d’une unité linguistique; les rapports entre la partie et le tout à partir des prédicats d’action. Les liens faibles mais surtout forts caractérisent les communautés de pratique (Granovetter, 1973). Ils renforcent ainsi la confiance et la volonté de coopérer entre les membres de l’équipe. Ils poussent aussi les membres à partager leurs connaissances quotidiennes. Le sens d’une unité linguistique renvoie à la notion de valeur (Saussure, 1972). Nous retrouvons

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ici, le système de valeurs partagées qui caractérise une communauté (Proulx, Poissant, Sénécal, 2006). D’ailleurs, si ces valeurs ne présentent pas d’unités perceptibles de prime abord, on ne peut douter cependant qu’elles existent et que c’est leur jeu qui la unité linguistique. Ce jeu, le mécanisme linguistique, «roule tout entier sur des identités et des différences, celles-ci étant la contrepartie de celles-là» (Saussure, 1972, 151). Le prédicat d’action quant à lui, inscrit les membres de la communauté dans des catégories intrinsèquement relationnelles dans des dispositifs d’actions conjointes, étant entendu qu’action désigne une manière profane de catégoriser des pratiques (Widner, 2010). Dans ces catégories, une action, donc une pratique, est susceptible de se faire ou non en fonction de l’analyse du dispositif au fur et à mesure que l’action va se dérouler; le prédicat va donc créer les circonstances du contact et finalise ainsi le sens en indexant les inférences pertinentes à une pratique en cours. En d’autres termes, communiquer dans une communauté, c’est parler les connaissances de cette communauté, tout en même temps que ces connaissances s’élaborent dans cette communication même ou dans les pratiques aux apparences immédiates. C’est donc questionner le fonctionnement des individus dans les situations de la vie quotidienne en relation avec des connaissances et les actions qui participent à la compréhension des outils et à leurs usages. C’est questionner, en fait, des situations de communication de travail et d’apprentissage avec les TIC qui favorisent les pratiques de ses membres, à partir de la reconnaissance quotidienne (1) des règles et des ressources cognitives et matérielles et (2) des usages déjà là. La reconnaissance des règles et des ressources permet de valider que les mêmes conditions et contraintes, les actions, les usages ont été reproduits conformément à ce qui était attendu. C’est la prévisibilité que doivent offrir en toute situation les membres d’une culture donnée (Goodenough, 1957) la reconnaissance des usages vérifie que les connaissances nouvelles assurent aussi l’appropriation du langage commun qui autorise la mise en commun (Hymes, 1982) la diversité des usages, des répertoires linguistiques, des savoirs, des normes… Ces deux points se retrouvent dans la compétence communicative (Hymes, 1982) qui associe les variétés des usages et l’hétérogénéité des répertoires langagiers qui sont en l’œuvre dans l’interaction. Cette compétence est définie comme l’ensemble des aptitudes permettant à un individu de communiquer efficacement en situation. Elle maîtrise l’ensemble des moyens mis en œuvre pour assurer la réussite de la communication entre les membres afin que le sens commun soit partagé par tous et sa qualité soit renforcée pour répondre aux besoins de chacun.

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Pour conclure L’espace commun de communication des connaissances est formé des contraintes sociotechniques, des règles d’échange et des connaissances mises en œuvre. C’est un dispositif complexe d’aptitudes dans lequel les savoirs de différentes natures constituent un tout. C’est ce qui fait d’un tel espace, le résultat de l’adéquation réussie d’un ensemble de compétences. Bien sûr, nous n’oublions pas la compétence didactique qui relèverait d’un autre article et qui a largement été étudiée. Nous dirons simplement ici, qu’elle est liée à des contenus spécifiques et identifiés, elle est la caractéristique d’un partage du rapport au savoir qui implique la reconnaissance des identités et des projets personnels autant que professionnels (Lenoir, Bouillier-Oudot, 2006). Toutefois dans ces espaces, les membres mettent en oeuvre leurs compétences à partir de situation de communication et c’est pendant leurs échanges et leur tentative de partage qu’ils utilisent la compétence communicative adaptable ou modifiable sous l’effet du contexte au contact de des partenaires, des pairs. C’est au cours du déroulement des conversations que certaines disparités initiales se neutralisent, c’est-àdire que les interactants construisent au fur et à mesure leur compétence conversationnelle, dans la mesure où les partenaires négocient et ajustent en permanence leurs conceptions respectives des normes sociotechniques conversationnelles. Ainsi, le succès des espaces communs de construction des connaissances dépend en grande partie de la compétence communicative et le contexte n’est pas seulement l’environnement de l’interaction, l’ensemble des circonstances dans lesquelles elle s’inscrit. C’est plus fondamentalement un contexte sociotechnique, c’est-à-dire un ensemble de systèmes symboliques, de structures et de pratiques. Ce contexte apporte des codes indispensables à la communication: code de la langue, symbolique de l’espace, de la présentation de soi et plus largement de l’ensemble des rituels qui organisent les relations sociales (Marc, Picard, 1989). Il attribue un rôle essentiel aux outils transmis par la société et, particulièrement au langage et aux processus de communication qui lui sont attachés. Les processus d’acquisition des connaissances ne peuvent se comprendre sans faire référence au sens et aux valeurs sociales associées aux symboles comme moyen de communication. C’est ce qui, pour nous, est caractéristique des espaces communs de communication des connaissances et qui est au cœur des communautés fussent-elles de pratique ou d’apprentissage.

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Présentation de l’Auteur: Marielle Metge est Maître de Conférences à l’Université du Sud Toulon Var. Son activité de recherche s’effectue au Laboratoire I3M - EA 3820. Elle enseigne à l’IUT de Toulon, au Département Services et réseaux de communication qu’elle dirige à Saint-Raphaël. Son activité de recherche se déroule dans le cadre de la CMO (Communication Médiatisée par Ordinateur) dans lequel elle développe un ensemble de recherches sur l’usage situé dans les dispositifs sociotechniques d’information et de communication (DISTIC) en contexte d’entreprise et d’enseignement. Les notions discutées sont celles de “communauté interactive en ligne” et de culture communautaire. Son travail s’organise sur trois axes: a) Analyse des usages liés aux DISTIC dans le cadre des communications à distance médiatisées par des outils collaboratifs; b) Analyse des relations de confiance et de leur indice, dans des situations de communication asynchrone. Ce chantier de recherche a pour ambition d’établir les mêmes études avec les outils synchrones et d’en établir la comparaison, afin de faciliter le choix des outils en fonction des activités qui leur seront associées dans les distic; c) Analyse du potentiel sémio-pragmatique des outils et espaces communs de communication.

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L’écriture de l’expérience en tant que dispositif formatif

BESSA MYFTIU, MIREILLE CIFALI

Abstract: The authors try to specify the positions on which their educational actions rely. Those actions can be connected either to the initial studies or to lifelong learning: they, thus, tackle the issue of writing and literature as thought of experience; then they define a clinical approach as a starting epistemological basis. The developing of the experience’s writing can be carried out in different areas such as the writing lab, the teachers’ training seminars connected for example to teachers’ experiences as students, the writing clinical seminars through narrations related to professional situations. This approach deals with different kind of writings: the diary, the fragment, the narrative, the fiction, the story. But every time there’s something that remains: a kind of trainer’s ethics, a respect for the daily professional gestures and a background to guarantee the freedom of thought. Résumé: Les auteurs tentent de préciser les positions sur lesquelles sont fondées leurs interventions de formation, que celles-ci soient liées à des études initiales ou continues: elles abordent ainsi la question de l’écriture et de la littérature comme pensée de l’expérience; puis elles définissent une approche clinique comme étant leur soubassement épistémologique. Travailler l’écriture de l’expérience peut se réaliser dans différents cadres, ceux d’ateliers d’écritures, de séminaires de formation liés par exemple au passé d’élève pour des enseignants, de séminaires cliniques liés à l’écriture de situations professionnelles à travers des récits. Cela passe par différents types d’écriture: le journal, le fragment, le récit, la fiction, le conte. Mais à chaque fois quelque chose persiste: une certaine éthique du formateur, un respect du quotidien des gestes professionnels et un cadre pour garantir une liberté de pensée. Mots clés: formation, enseignants, écriture, narration, professionnalité.

1. Expériences La vie des enseignants regorge d’histoires… Toute petite, j’entendais mes parents se raconter leurs expériences d’enseignant l’un à l’autre. Pour ma mère, cela se passait au présent, car elle enseignait. Mon père lui répondait par des expériences du passé: en tant qu’écrivant dissident, depuis longEDUCATION SCIENCES & SOCIETY


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temps le régime communiste lui avait interdit de transmettre des savoirs. Il vendait des cigarettes dans un petit kiosque de la capitale. Quant à ma mère, elle s’adonnait avec passion à la biologie, la botanique et la zoologie. Mais les histoires qu’elle apportait à la maison ne traitaient ni d’animaux ni de plantes. Elles concernaient ses élèves. En faisant semblant de lire dans un coin de la cuisine – notre unique pièce commune – je suivais bouche bée les aventures des enfants difficiles que ma mère confiait à mon père, afin de chercher ensemble des solutions. Elle se donnait beaucoup de peine afin de les motiver pour apprendre. Elle jouait avec eux au volleyball et les mettait en valeur dans bien d’autres domaines que l’apprentissage. Elle s’intéressait à leur vie en dehors de l’école. Ces élèves à problèmes, rejetés de partout, habitaient notre maison par leur présence virtuelle. Je me souviens surtout d’Edmond, un garçon très intelligent, selon les dires de ma mère. Mais il n’apprenait pas, il s’absentait, il n’avait ni cahier ni crayon, bref c’était un vagabond. Après avoir essayé toutes les méthodes douces avec lui, elle a insisté pour parler au père de l’élève. Une peur bleu s’est emparée d’Edmond. Il a supplié ma mère de ne rien dire au père, mais la coupe était déjà pleine; elle n’a pas tenu compte de cette demande. Le père d’Edmond est donc venu à la rencontre de la maîtresse. Il a entendu ses paroles calmement, l’a remerciée et a prononcé entre ses dents: “On va régler ça”. Maman est rentrée contente à la maison: enfin l’attitude d’Edmond allait changer, elle espérait beaucoup que l’autorité du père aurait une influence sur cet élève que rien ne motivait. Mais le lendemain il n’est pas venu à l’école. Inquiète et surtout énervée, ma mère a regardé dans le registre de classe l’adresse d’Edmond. Une fois sa leçon terminée, elle s’y est rendue directement. Elle a traversé le grand boulevard, est montée le long d’une rue et a tourné dans une petite ruelle. A peine avait-elle fait quelques pas sur le pavé en pierre, qu’elle est restée pétrifiée sur place. Elle n’arrivait plus à avancer, ses pieds s’étaient bloqués, son cœur avait cessé de battre, ses yeux n’arrivaient pas à cerner le tableau invraisemblable qui s’offrait au bout de la ruelle: Edmond était attaché à un poteau au moyen de fils électriques. Après avoir vécu quelques instants d’horreur, ma mère est arrivée à détacher ses pieds du sol. Elle a couru vers Edmond. Bien qu’il fasse froid, il était torse nu. Les fils avaient laissé des traces bleues sur sa poitrine fragile. Il n’arrivait même plus à pleurer, tant il était fatigué. Mort de faim et de soif depuis vingt-quatre heures, il a accueilli ma mère comme un cadeau inespéré du destin. Elle lui a demandé pardon, les larmes aux yeux. Voir ce garçon de douze ans souffrir le martyr a cause de sa dénonciation, a éveillé chez ma mère une culpabilité sans limites.

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Cette ancienne histoire m’est revenue récemment en mémoire durant l’un des séminaires de formation continue: une des enseignantes avait écrit un récit qui traitait exactement de la même problématique. Après avoir obligé un élève de faire signer son carnet de notes par ses parents – sans prendre en considération les supplications et la peur qu’elle avait lu dans le regard de l’enfant – elle fut submergée par le même sentiment de culpabilité que ma mère en remarquant des traces bleues sur le dos de l’enfant durant la leçon de gymnastique. Il y avait plus de trente ans d’écart entre ses deux événements. L’un était arrivé dans l’Albanie communiste, et l’autre dans la Suisse démocratique, de surcroit neutre. Mais les natures humaines ainsi que leurs problèmes se ressemblent, indépendamment des pays, des régimes politiques, des cultures et des coutumes. J’ai raconté cette histoire aux enseignants en formation et ils m’ont tous posé la question suivante: «Qu’a donc fait, votre mère?» Mais je ne me souvenais plus. Je me souvenais seulement que par la suite Edmond avait changé, or je ne savais pas comment maman s’y était prise. J’ai regretté amèrement qu’à l’époque de mon enfance aucun séminaire d’écriture de l’expérience n’ait été mis en place pour les enseignants albanais. Ma mère n’a pas écrit cette histoire; à présent elle ne se rappelle sûrement plus de cet élève tant chéri autrefois. Elle montrait avec fierté à mon père les progrès d’Edmond et j’essayais d’imaginer ce garçon de douze ans aux yeux bleu ciel qui avait opté enfin pour le droit chemin… Aujourd’hui, j’essaye d’imaginer les protagonistes des récits écrits par les enseignants en formation. Tant d’années se sont passées, des régimes politiques se sont écroulés mais les préoccupations des maîtres sont restées les mêmes: c’est pourquoi interroger l’expérience d’autrui – même éloigné dans l’espace et dans le temps – peut constituer un point de repère à la réflexion sur l’éducation et l’apprentissage. C’est ce qui ressort des discussions animées des participants au séminaire “Enseigner à des adolescents – dimensions affectives et relationnelles”. Je leur ai proposé un travail de réflexion concernant l’adolescence dans un contexte scolaire, basé non seulement sur des apports théoriques et le raisonnement, mais également sur l’expérience de chacun d’entre eux. Je les ai invités à témoigner à propos d’événements qui ont marqués leur vie d’adolescent ou leur pratique de professionnel avec les adolescents. Fidèle à la devise de Kant, «l’homme peut s’instruire de trois manières: par la nature ou l’expérience, par les récits et par le raisonnement», j’ai pris le parti de tenter dans ce séminaire l’instruction par le récit, en tant que forme de transmission de l’expérience. Ces récits traiteraient des thématiques propres

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à l’adolescence: Refus d’apprendre, L’adolescent face au savoir, Souffrance éprouvée, Culpabilité, Honte, Norme et différence, L’adolescent et le groupe, Solitude, Place de l’autorité, Fragilité narcissique, Violence et agressivité, Amour et Haine, Quête d’identité, Séduction et Sexualité, Phénomène du bouc émissaire, Punition, Apprendre à penser, Limites de la liberté, etc. Afin de considérer le problème sous tous ses aspects, je leur ai proposé trois éclairages différents sur une même thématique: l’un du point de vue de l’adolescent, l’autre du point de vue du professionnel et le troisième d’un point de vue théorique. J’espérais que la conjugaison des trois postures nous donnerait la possibilité d’une compréhension approfondie du sujet traité. Tout d’abord, je me suis heurté à leur étonnement, voire leur refus. Il n’a pas été facile pour les enseignants du secondaire d’accepter le défi que relève l’écriture. Quand j’ai proposé le récit en tant que mode de réflexion, la plupart ont froncé les sourcils. Il y a même l’un d’entre eux qui s’est écrié: «Je suis enseignant de mathématiques! Cela ne m’intéresse pas de me mettre dans la peau d’un écrivain pour décrire ce qui m’arrive!» J’ai essayé de le raisonner: en tant qu’enseignant de mathématiques il se trouvait également devant le refus d’apprendre et des problèmes éthiques inévitables dans une société qui se veut multinationale. Ce même enseignant a écrit par la suite le plus beau récit de la volée. Car la magie de l’écriture a de l’influence même sur les incrédules et ceux qui ignorent son effet. Pour peu qu’on se soumette à l’exercice. Après avoir beaucoup douté e réfléchi, tous les participants ont finalement pris beaucoup de plaisir à construire un savoir qui passe aussi par l’émotion. Ils ont également adoré partager le savoir des autres, à chaque fois unique, car l’expérience ne se prête jamais à l’exacte répétition – les détails sont toujours infiniment différents, bien que la problématique puisse rester la même. J’ai suivi avec passion chaque récit, témoin des difficultés, des impasses, des réussites ou des échecs propres à la vie quotidienne des maîtres, qu’ils enseignent la physique, la géométrie ou la littérature; les enseignants des mathématiques également sont soumis aux mêmes épreuves que les autres… Durant le séminaire régnait un silence absolu. Pour un formateur d’aujourd’hui il s’agit d’un luxe exceptionnel. J’ai eu la chance de jouir de cette sorte de calme qui s’installe de lui-même, grâce à la curiosité et l’émotion avec laquelle était accueilli chaque récit écrit par les participants au séminaire. Après la lecture, fait à voix haute par l’auteur du récit, une discussion animée s’engageait. Chacun racontait une histoire semblable à

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celle qu’il avait entendu, en se trouvant dans la même impasse. Chacun réfléchissait à une solution possible. Ensemble, les enseignants en formation partaient à la recherche des pistes d’action envisageables. L’écriture les avait amenés très loin dans leurs tentatives de compréhension. Selon un système d’évaluation interne, elle les avait enrichi, leur avait donné la possibilité d’une prise de distance, les avait aidé dans le processus de l’auto réflexion. Selon d’autres, il s’agissait d’un apport important pour leur pratique d’enseignant, d’un échange d’idées avec les collègues. Le contenu du séminaire est jugé très attaché au vécu, au réel. Cette forme de travail originale et adéquate a permis à quelques enseignants d’exposer leurs points de vue sans être jugés et de pouvoir discuter librement, sans peur de se sentir les seuls incapables. Le débat qui suit les lectures est considéré comme étant aussi important que la lecture elle-même: très riche, tant au niveau théorique qu’au niveau pratique, il permet de valoriser les expériences professionnelles et personnelles. Les enseignants en formation ont trouvé stimulant pour leur travail de pouvoir parler de sujets concrets. L’implication personnelle a permis au groupe de participants de se souder. La liberté dans le choix de la thématique a également joué un rôle positif, car chacun a assumé sa propre responsabilité. Cette expérience avec les enseignants du secondaire a été très positive et a montré que malgré l’incrédulité du début, l’écriture des récits est un élément non négligeable de formation, et d’auto-formation. Elle permet de tisser des liens, de dépasser des peurs, de chercher ensemble des solutions et de ne pas se sentir seul dans sa difficulté. Elle permet de réfléchir d’une autre façon, à travers des moyens beaucoup plus proches de la vie quotidienne et de renouer non seulement avec son enfance, mais également avec le passé de la civilisation humaine. Le récit est aussi ancien que l’humanité; il constitue une des premières formes de la transmission des connaissances. Reconstruit à travers l’écriture, il permet de repenser l’action en gardant l’émotion ressentie et d’aller ainsi beaucoup plus loin dans sa réflexion, car elle n’est pas entravée par des cadres théoriques. Et de toute façon, chaque théorie est sortie de la pratique – c’est à partir de la pratique qu’on peut théoriser. Qu’y a-t-il de plus proche de la pratique que les expériences sur le terrain? Les partager et les réfléchir font parti du processus de l’écriture, car nous écrivons toujours pour un lecteur probable, et nous sommes obligés de penser ce qui va être écrit. C’est pourquoi l’écriture de l’expérience constitue un important dispositif de formation pour les enseignants: elle leur permet de prendre de la

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distance avec les actes commis et d’approfondir leur sens. Elle leur permet également de s’arrêter un temps pour réfléchir, afin de mieux préparer l’avenir. Toute la personnalité de celui qui écrit se mobilise, car un récit est rédigé autant avec le cœur qu’avec l’esprit. L’acte d’écrire peut parfois se réaliser dans la souffrance, mais le résultat en vaut la peine. Les blessures font moins mal une fois qu’elles sont sorties sur le papier… 2. Un dispositif, une écriture et des connaissances Après ce récit par Bessa Myftiu d’une pratique de formation liée à l’écriture et au récit, il y a lieu de préciser deux de nos positions sur lesquelles sont fondées nos interventions de formation, que celles-ci soient liées à des études initiales ou continues: d’abord l’écriture et la littérature pour une pensée de l’expérience; puis une approche clinique comme soubassement épistémologique. L’écriture pour une pensée de l’expérience, la place du récit Pourquoi et comment, dans un dispositif formatif, faire appel à l’écriture, et plus particulièrement à l’écriture de l’expérience? L’écriture s’avère pour nous être un élément essentiel, non seulement de la transmission d’une connaissance, mais aussi de sa construction: nous nous retrouvons autour de la narration et de la description, en un mot du “littéraire”. La narrativité comme théorisation des pratiques quotidiennes comme l’avance Michel de Certeau; le “raconter” que développe Walter Benjamin; la manière d’ancrer le récit dans l’herméneutique de Ricœur, aboutissent à considérer le “récit” comme mode de théorisation d’une certaine expérience. Lorsqu’il s’agit de retraduire le temps, d’appréhender une situation complexe et unique, il devient inéluctable alors de “raconter”, de décrire, de “reconstruire” par l’histoire. Pour comprendre le changement et l’action, pour saisir le vivant, nous nous voyons dans l’obligation d’intégrer la temporalité, une temporalité dont la science a pourtant de la peine à rendre compte puisqu’elle scrute souvent un objet comme s’il était a-historique. Ce souci de l’écriture hante la compréhension d’une pratique, la transcription d’un événement. Il ne s’agit pas d’un caprice esthétique de chercheurs désirant être reconnus comme auteurs, mais d’une des conséquences de nos positions épistémologiques. Le travail sur la page blanche, sur le style, fait partie de la construction de l’objet. L’esthétique de la forme n’est

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pas dissociée de son contenu. Dans L’invention du quotidien (1990), Michel de Certeau parle d’une “esthétisation du savoir”. Il a affirmé que la psychanalyse a réintroduit la fiction dans la science. Il est l’un des premiers de nos contemporains à affirmer que l’expérience s’écrit en récit: «Une théorie du récit est indissociable d’une théorie des pratiques, comme sa condition en même temps que sa production». Dans la narrativité s’inscrit la théorisation d’une pratique, on pourrait même aller jusqu’à lui reconnaître une “légitimité scientifique”. Avec d’autres, de Certeau ne croit pas en une réalité dernière et définitive, il plaide pour son inéluctable reconstruction. La réalité se raconterait en s’écrivant. Nous sommes condamnés au choix et à la réécriture. La multiplicité de nos réécritures constitue la tradition; la diversité des interprétations, notre richesse. Ce sont nos reconstructions qui ont de la force, nos savoirs sont partiels et remplaçables. Les faits existent certes, mais ne font jamais une histoire. Une histoire prend forme à travers des mises en relation, des liens tissés entre des faits que tout éloigne. Si nous nous contentons d’une énumération de ce qui s’est passé, ce sera tout au plus une chronique dont le souci du détail ferait office d’objectivité. Les passions ont été éliminées de la science pour devenir une spécialité littéraire. La fiction est le mode de restitution des sentiments et exige la présence de celui qui écrit. Il n’y a pas de “raconter” ni de “décrire” si le porteur de l’action n’assume pas sa subjectivité et nie l’impact de l’affect dans sa recherche. C’est notre présence dans le texte, et non notre absence, qui donne à cet écrit son intérêt et sa pérennité. Souvent dans une discipline resteraient vivants les textes à qualités littéraires. Dans le registre d’une connaissance scientifique, la jauge est la vérité; dans la logique de l’action, l’aune est l’authenticité. Un récit ne saurait donc être critiqué en le rapportant à une norme qui ne le concerne pas. L’écriture est aujourd’hui au centre des débats sur la théorisation des pratiques, la transmission de l’expérience et la production de connaissances par les praticiens. L’ouvrage Ecrire l’expérience. Vers une reconnaissance des pratiques professionnelles que Mireille Cifali a écrit avec Alain André (2007) a essayé d’interroger cette coupure entre la littérature et la science, et refonder l’écriture des pratiques professionnelles. Dans quel genre d’écriture les praticiens reconstruisent-ils leur expérience? Comment le récit de l’expérience est-il formateur? L’expérience rapportée ci-dessus par Bessa Myftiu en donne quelques indices au lecteur. La littérature ne fait plus partie de la formation des professionnels de l’éducation, de l’enseignement, du soin et de tous les métiers qui aujourd’hui tentent de ne pas abandonner celles et ceux meurtris par leurs positions fra-

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giles dans la société. Et c’est éminemment dommageable. Partir des romanciers (Myftiu, 2005, 2007, 2008a, 2009), lire des fragments de situations du vivant, aide chacun à réaliser un travail d’intériorité. Ce n’est pas le seul chemin pour interroger “soi” dans son rapport à soi, à l’autre et au monde, mais cela en est un précieux et qui remonte loin dans les âges. Nous venons de lire un ouvrage de Tzvetan Todorov, La littérature en danger (2007). Il fait partie de ces moments de rencontre exceptionnels. Où ce que nous avons construit de notre côté se trouve affirmé par d’autres. Bessa Myftiu, avec son ouvrage Littérature et savoir (20098b), Mireille Cifali avec cette inscription littéraire qui insiste dans son parcours en sciences humaines, rejoignons Todorov qui affirme entre autres que «Loin d’être un simple agrément, une distraction réservée aux personnes éduquées, la littérature permet à chacun de mieux répondre à sa vocation d’humain» (2007, 16). Elle serait nécessaire dans toute formation professionnelle. Avoir pu écouter Todorov parler de son rapport à la littérature et le suivre lorsqu’il tente de répondre à la question: “que peut la littérature?”, a été l’un de nos derniers plaisirs de lecture. Nous ne résistons pas à vous en citer encore un autre passage: “La littérature peut beaucoup”, écrit-il. «Elle peut nous tendre la main quand nous sommes profondément déprimés, nous conduire vers les autres êtres humains autour de nous, nous faire mieux comprendre le monde et nous aider à vivre. Ce n’est pas qu’elle soit, avant tout, une technique de soins de l’âme; toutefois, révélation du monde, elle peut aussi, chemin faisant, transformer chacun de nous de l’intérieur» (2007,72). Une approche clinique Penser un dispositif formatif basé sur l’écriture de l’expérience prend son sens dans ce que nous nommons une approche clinique et une certaine conception de celle ou de celui qui travaille dans le domaine des relations humaines. Nous postulons en effet qu’il est un clinicien dans ses gestes professionnels: impliqué dans la situation et dans son rapport avec d’autres, pris dans des contraintes institutionnelles qui déterminent son action, livré à la singularité des situations qu’il traverse, il lui faut comprendre, construire une compréhension qui lui permette de poser des gestes et des paroles ajustés, et qui contribuent à désengager une situation de ses paramètres possiblement destructeurs. Cette approche clinique se caractérise par une manière particulière de concevoir le terrain comme lieu de production des connaissances, par les

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qualités exigées du professionnel, du chercheur ou du formateur, l’obligation qui leur est faite de penser leur subjectivité, et par leur position face à la vérité. Soutenir une position clinique demande de lier psychique et social, de refuser le clivage entre sociologie et psychologie, de postuler que nous avons à saisir les influences réciproques du sujet et du monde (Enriquez, 1983, 1997). Sinon nous risquons d’aboutir à une psychologisation de la clinique, à une approche d’une intériorité comme si elle était seule au monde. Certes la clinique est psychologique lorsqu’elle est thérapeutique, et encore. La psychanalyse n’est pas, comme l’affirme Freud, psychologie d’un seul; elle est d’emblée psychologie sociale. D’autant plus si la clinique, comme posture, intervient dans un espace public où se jouent des signes sociaux en lien avec des signes psychiques. La clinique se définit par un certain rapport à la souffrance mais surtout par le fait que nous sommes dans une situation où nous permettons à quelqu’un de franchir un passage, une difficulté, une crise ou simplement une évolution: nous sommes présents pour que ce franchissement ne soit pas destructeur. Nous prenons une position où nous avons besoin de mobiliser une intelligence qui mette en mouvement son intelligence. L’enjeu? Un certain rapport à l’être parlant, non “notre” dans son expressivité mais dans ce qui surgit, dans sa parole, de son rapport à un social, à une norme, en lien avec de l’affect, des sentiments éprouvés, de l’imaginaire. Un ouvrage que Mireille Cifali a coordonné avec Florence Giust-Desprairies (2006) donne à lire le parcours fait par des cliniciens dans la formation et l’enseignement pour tenir une posture clinique, ce qu’il leur a fallu pour y arriver comme errance, comme détermination, entre histoire personnelle et filiations intellectuelles. La clinique a ses exigences et ses difficultés. Elle ne s’acquiert jamais une fois pour toutes, elle est remise en cause devant chaque situation, devant chaque rencontre. Nous soutiendrons donc que, comme d’autres, nous avons un cadre, un dispositif, une construction visant une compréhension, une recherche d’interprétation, une éthique, et des outils techniques. Nous poursuivons un “objet” bien particulier qui a toujours à voir avec un autre, vivant ou mort, avec une altérité, une intersubjectivité: l’insignifiant, l’inconscient, l’intraduisible, l’énigme, l’étrangeté, c’est dire aussi l’affect, les sentiments, la relation à soi et au monde, l’irraisonné, l’irraisonnable. Nous retient ce qui est construction humaine de l’objet. C’est dans le dialogue avec l’objet que se construit notre connaissance. Et ce savoir transforme; il transforme les autres et nous-mêmes, avec des constructions datées, à effet de vérité mais qui ne se prennent pas pour la vérité.

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Bessa Myftiu, Mireille Cifali

Dans ce dialogue, que notre présence perturbe, nous ne le craignons pas; cette perturbation fait partie du tableau et de la compréhension qui est construite. Dans ce contexte, notre subjectivité est posée, pas évacuée, mais travaillée. Elle est le garant de l’honnêteté du dialogue tenu. Nous nous adressons à d’autres. Nous partons ainsi de cette subjectivité que nous creusons devant eux en espérant qu’ils travaillent la leur à leur tour. Nous nous plaçons dans une intersubjectivité, avec une confiance faite à la parole et à la construction commune. Il y a de forts enjeux. Pour eux, parfois des enjeux de survie ou de qualité des gestes. Pour nous, un enjeu de compréhension de ce qui échappe, est souffrance, nous confrontant souvent à l’impuissance. Le but? Notre capacité de comprendre le monde, les autres et soi-même, avec une certaine liberté de penser et un certain espoir de penser “juste” des situations singulières. En quoi consiste alors notre travail? D’abord, nous sommes garantes du cadre, ce qui demande bien des compétences. Espace-temps d’une recherche ou d’une rencontre; protections, garde-fous, garantie de confidentialité; contraintes, mise à jour des pouvoirs; précautions quant à l’usage ou aux mésusages institutionnels de ce que nous venons faire là … Ce sont des mots, des règles, des lieux. Il nous faut à chaque fois tenir un cadre permettant la construction d’un savoir qui ne s’avèrera pas destructeur ni pour les autres ni pour nous. Le cadre est un contenant indispensable sur lequel il nous revient continuellement de travailler. Nous recourons à un dispositif que nous inventons suivant la situation dans laquelle nous nous trouvons. Il s’agit d’un élément tiers, créateur de contraintes et de temporalités. Toute recherche, toute intervention, toute formation, dépendent des conditions dans lesquelles elles se produisent. Il s’avère très important de ne pas occulter ces conditions de production et leur influence dans une construction du savoir. L’importance du dispositif dans ce contexte a été décrite par des cliniciens, dans un ouvrage récent Travail de la pensée et dispositif de formation (Cifali, Giust-Desprairies, 2008). Ainsi nous cherchons à traiter la singularité des situations, pour arriver à des modes de compréhension qui aient des effets de vraisemblance, des effets de vérité. Ce qui importe, ce n’est pas la brillance de notre intelligence, mais la capacité de créer un espace qui permette à celles et ceux qui font appel à nous de construire leur propre intelligence des situations. Créer un espace de parole, de réflexion, de pensée, de débat, de conflit: espace protégé, garanti par nous, pour que du savoir se construise par eux. Nos interventions visent à déjouer les pièges où chacun s’enferme, institutionnellement parlant; nous nous maintenons dans une présence décalée.

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Nos garde-fous: ce qui se construit ou pas; ce qui se dénoue ou pas; ce qui s’enkyste ou se développe. Il y a ainsi une manière clinique particulière dans l’accompagnement des situations et des professionnels (Cifali, Bourassa, Théberge, 2010). Travailler l’écriture de l’expérience peut se réaliser dans différents cadres, ceux d’ateliers d’écriture (Cifali, André, 2007), de séminaires de formation liés par exemple au passé d’élève pour des enseignants, de séminaires cliniques liés à l’écriture de situations professionnelle à travers des récits (Myftiu, 2008a, 2009). Cela passe par différents types d’écriture: le journal, le fragment, le récit, la fiction, le conte. Mais à chaque fois quelque chose persiste, une certaine éthique du formateur, un respect du quotidien des gestes professionnels, un cadre pour garantir une liberté de pensée. Présentation des les Auteurs: Bessa Myftiu, écrivain, docteur en Sciences de l’éducation, enseigne à l’Université de Genève, Section des sciences de l’éducation. Mireille Cifali, historienne, psychanalyste, est professeur à la Section des sciences de l’éducation, Université de Genève.

Bibliographie Certeau, M. (de) (1987), Histoire et psychanalyse: entre science et fiction, Paris, Gallimard. — (de) (1990), L’invention du quotidien, Vol. 1, Arts de faire, Paris, Gallimard. Cifali, M., Giust-Desprairies, F. (2007), De la clinique: engagement pour la formation et la recherche, Bruxelles, de Bœck. — (2008), Travail de la pensée et formation clinique, Bruxelles, de Boeck. Cifali, M., Bourassa, M., Théberge, M. (2010), Cliniques actuelles de l’accompagnement, Paris, L’Harmattan. Cifali, M., André, A. (2007), Ecrire l’expérience. Vers une reconnaissance des pratiques professionnelles, Paris, PUF. Enriquez, E. (1983), De la horde à l’état. Essai de psychanalyse du lien social, Paris, Gallimard. — (1997), L’organisation en analyse, Paris, Presses Universitaires de France. Myftiu, B. (2005), Nietzsche et Dostoïevski: éducateurs!, Nice, Les Paradigmes. — (2007), Le courage, destin – récits d’éducation, Nice, Les éditions Ovadia. — (2008a), Éthique et écriture, Tome 1, Nice, Les éditions Ovadia. — (2008b), Littérature et savoir, Nice, Les éditions Ovadia. — (2009), Éthique et écriture, Tome 2, Nice, Les éditions Ovadia. Todorov, T. (2007), La littérature en péril, Paris, Flammarion.

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Tracce di habitus?

PATRIZIA MAGNOLER

Abstract: Studying the teacher professionalizing process in the last decades stressed how important the practice analysis and the reflection are. But practices reveal a complex elusive world, that is strictly related with the subjects. Each of them has an Habitus, that provides stability, fixes change spaces and evolves together with the subject private and professional life. The training is a process that points at building an always-changing learning. It needs to work towards the subject awareness, the research of the habitus functioning, in order to support the subjects to understand them and their reality. This paper opens with a theoretical introduction about the concept of habitus. Then, the teacher habitus will be explored, both through the definitions of some paths and though the design of dispositifs, that give us the chance to find the habitus traces in teacher thinking and actions. Riassunto: Lo studio del processo di professionalizzazione dell’insegnante, sviluppato negli ultimi decenni, ha messo in luce l’importanza dell’analisi e della riflessione sulla pratica. Ma le pratiche sono la manifestazione di un mondo complesso, inafferrabile, che è parte strutturata della persona che agisce. Ogni soggetto ha un habitus che assicura stabilità e decide gli spazi di cambiamento, che si sviluppa e si evolve insieme alla vita privata e professionale dell’individuo. La formazione, processo che mira a costruire un apprendimento trasformativo continuo, ha la necessità di operare nella direzione della consapevolezza soggettiva, nella ricerca del funzionamento dell’habitus per aiutare i soggetti a comprendere se stessi in dialogo con la realtà. Nel presente contributo, dopo un’introduzione teorica sul concetto di habitus, si propone un’esplorazione dell’habitus dell’insegnante, sia attraverso la definizione di alcune traiettorie, sia attraverso la predisposizione di dispositivi che consentano di trovarne le tracce nel pensiero e nell’agire. Parole chiave: habitus, competenza, formazione, professionalità, insegnante.

Introduzione Nella società attuale, caratterizzata da veloci cambiamenti culturali, economici e tecnologici, emerge la necessità di formare soggetti capaci di costruire strategie contestualizzate per risolvere insolite situazioni probleEDUCATION SCIENCES & SOCIETY


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Patrizia Magnoler

matiche. Si parla quindi del professionista come figura chiave per l’innovazione, e della professionalità come condizione necessaria per affrontare problemi sempre diversi in modo consapevole. Al professionista vengono riconosciute l’autonomia, la responsabilità, un sapere esperto specifico, un’etica. Inoltre, gli si richiede la capacità di gestire il proprio processo di professionalizzazione, ovvero il costruire un “sapere d’esperienza” continuamente implementabile e da utilizzare in modo flessibile. La sua competenza si alimenta delle risorse maturate in contesti formali, non formali e informali, fortemente connesse e integrate fra loro, che danno origine ad un sapere nascosto, implicito ma di fondamentale importanza. L’insegnante può essere considerato un professionista? Con l’autonomia scolastica e la conseguente valorizzazione delle diversità culturali presenti sul territorio nazionale, il ruolo dell’insegnante ha assunto una propria poliedricità, necessaria per costruire progetti in contesto. La progettazione dell’insegnamento richiede una maggiore azione interpretativa, dato il venir meno di una stabilità di valori e di routine socialmente riconosciute che permeavano la scuola fino ad alcuni decenni fa. Le ragioni delle pratiche trovavano, in passato, una giustificazione nella mission della scuola, istituzione che proponeva un progetto sociale e politico riconosciuto. Oggi sono gli insegnanti, l’organizzazione e il suo responsabile che decidono l’identità della singola scuola, pur nel rispetto delle indicazioni generali. Maggiore autonomia comporta non solo libertà, ma fondamentalmente una responsabilità, anch’essa prodotto di un intreccio tra aspetti personali e professionali. L’insegnante come professionista va visto quindi nella sua complessità, nella sua stabilità e contemporanea mutevolezza, va osservato per comprendere come nascono e si modificano i pensieri e le pratiche. Vari autori hanno sottolineato l’importanza che assumono, nella definizione delle scelte e dei comportamenti, le credenze (Shulman, 1987), la conoscenza tacita (Polaniy, 1979), la filosofia educativa (Seldin, 2004), i processi di mediazione sull’oggetto culturale in base a personali e soggettive interpretazioni e ricostruzioni (Damiano, 2006), le concezioni e le prospettive di significato (Mezirow, 2003). Partendo da questi studi sono stati elaborati i dispositivi formativi proposti nell’ultimo ventennio. 1. L’habitus Un concetto, che si connette con quanto precedentemente affermato, è quello di habitus. Nella definizione bourdieusiana (1980), «esso viene de-

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finito come principio non scelto di tutte le scelte», che si forma in base a «condizionamenti associati ad una classe particolare di condizioni di esistenza, si dà come sistema di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente “regolate” e “regolari” senza essere affatto prodotte dall’obbedienza a regole e, essendo tutto questo, collettivamente orchestrate senza essere prodotte dall’azione organizzatrice di un direttore d’orchestra» (Bourdieu, 1980, 84). L’habitus si manifesta in un «sistema di disposizioni durevoli e trasponibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona continuamente come una matrice di percezioni, di apprezzamenti e di azioni, e rende possibile lo svolgimento di compiti infinitamente differenziati, grazie ai tranfert analogici di schemi che permettono di risolvere i problemi della stessa forma» (Bourdieu, 1972, 178-179). Nell’ultimo decennio il concetto di habitus è stato recuperato da Perrenoud (1996) che ha evidenziato il ruolo fondamentale nella pratica professionale, delle concezioni, degli schemi, delle routine; essi ritornano continuamente nei comportamenti, specialmente quando le risposte agli stimoli del contesto devono essere fornite in tempo reale, come accade in molte professioni impegnate nel sociale-educativo. Per chiarezza concettuale, si intende lo schema come «l’organizzazione invariante della condotta per una classe di situazioni date» (Vergnaud, 1990, 136). Le routine sono le procedure decise dal professionista sia in base alla propria personalità, sia al contesto nel quale interviene per controllare e coordinare le sequenze specifiche di comportamento (Tochon, 1993); possono essere frutto di un senso comune o di una rivisitazione delle pratiche in funzione dell’efficacia (Damiano, 2006). Perrenoud afferma anche che l’habitus è direttamente collegato alla microregolazione delle azioni, delle scelte e porta in luce l’aspetto di relazione che esiste fra aspetti macro (es. la struttura degli schemi) e quelli micro, come la gestione di uno sguardo, la produzione di una frase. La professionalità rimanda però non solo ad una serie di conoscenze e abilità, ma anche e soprattutto alle competenze, manifestazione del capitale umano. L’habitus ha un ruolo fondamentale anche nel processo di mobilitazione delle risorse, così come afferma lo studioso ginevrino.

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«Si intravede anche un collegamento con i lavori su tranfert e le competenze, che mettono l’accento sui processi di mobilitazione di risorse cognitive che rimangono largamente inconsce, se non nella loro esistenza, almeno nel loro funzionamento. Questa “alchimia”, di cui parla Le Boterf (1994), non è altro che il funzionamento dell’habitus che, di fronte a una situazione, prende in carico una serie di operazioni mentali che assicurano l’identificazione delle risorse pertinenti, la loro eventuale trasposizione, la loro mobilitazione orchestrata per produrre un’azione adeguata. L’alchimia è strana perché “la grammatica generatrice delle pratiche” non è una grammatica formalizzata» (Perrenoud, 2000). L’habitus non è disgiungibile quindi dalla competenza, ne costituisce la “grammatica generatrice mai formalizzata”. L’impossibilità di rendere esplicito tutto il tacito presente in ogni soggetto impegnato in un compito professionale non deve far desistere dal ricercarne almeno le tracce lasciate da pensieri e azioni, da strutture rese visibili nelle pratiche, al fine di assumerle in un’ottica di apprendimento trasformativo. 2. L’habitus come complessità Per cercare le tracce dell’habitus, non certamente riconducibile ai soli comportamenti visibili, può essere utile riprendere i principi di intelligibilità dei sistemi complessi (dialogico, ricorsivo, ologrammatico), enunciati da Morin (1987) e fra loro sempre interrelati. L’agire professionale è un amalgama sempre indefinito e sempre rinnovabile che si manifesta in una regolazione continua, in una distribuzione di importanza a seconda delle situazioni e dei contesti. Regolare è far dialogare degli opposti, accostare, separare, nella continua ricerca di equilibrio. Ecco che il principio dialogico può aiutare ad esplorare talune polarità che entrano in gioco nelle situazioni professionali. La ricorsività rimanda ad un processo di costruzione, a strutture che progressivamente prendono forma, che vivono continuamente stati di stabilità e di decostruzione, in un processo interdipendente. Infine, il concetto di ologramma porta ad una visione in cui nulla è casuale, ma dipende dalle interrelazioni diacroniche e sincroniche della parte con il tutto e del tutto con la parte. Vi è una unità composta da mille diverse unità in cui ciascuna parte è rappresentazione di senso e non di singoli significati.

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2.1 Il principio dialogico Il principio dialogico «può essere definito come l’associazione complessa (complementare, concorrente, antagonista) di istanze, “necessarie insieme” all’esistenza, al funzionamento e allo sviluppo del fenomeno organizzato» (Morin, 1989, 112). Secondo l’autore la nostra mente/cervello obbedisce in modo dialogico a principi/regole bio-antropologici che governano la conoscenza umana e derivano da una cultura sociale impressa nelle menti/cervelli dei suoi membri, da processi di elaborazione che si nutrono dell’esperienza individuale. Riprendendo sempre Morin, il cervello umano, macchina iper-complessa, si nutre di interazioni fisico-chimiche, è biologico nella sua organizzazione e totalmente umano nelle sue attività pensanti e coscienti (Morin, 1989, 98). Il principio dialogico evidenzia anche la presenza di continue disfunzioni quali i blocchi, le regressioni, gli smarrimenti che possono però essere anche fonti per il superamento degli ostacoli e origine delle invenzioni. La persona si sviluppa tra emozioni e ragionamenti, tra pensieri e azioni, intuizioni e razionalità, smarrimenti e ricostruzioni per trovare un proprio modo di essere nel mondo. Una “prima dialettica è individuabile tra corpo e mente”, necessaria a costruire una modalità per entrare in relazione con l’esterno, per modificarlo e contemporaneamente per modificare se stesso, per apprendere. La realtà, la situazione non esiste in quanto tale, ma come risultato di processi interpretativi soggettivi (Perrenoud, 2001; Mezirow, 2003) che guidano un “come vedere il mondo”, su che cosa fermare l’attenzione classificando gli elementi in esso presenti. Progressivamente si formano ricordi, schemi, valori, routine che si confermano o modificano. Ne emerge un’esperienza che si manifesta attraverso abitudini, attitudini, posture, saperi o, ancor meglio, in una «conoscenza dell’esperienza, dalla quale ricaviamo, da un lato, la nostra capacità pratica e, dall’altro, un giudizio sulla prassi di questa capacità» (Krais, Gebauer, 2009, 26). Il senso pratico, ovvero la capacità dell’habitus di generare comportamenti conformi agli ordini sociali, «non è altro che necessità sociale divenuta natura, trasformata in schemi motori e in reazioni corporee automatiche» (Bourdieu, 1980, 127). L’habitus, in quanto esperienza del mondo sociale incorporata dal soggetto, si riversa nei corpi e si manifesta nei gesti, nelle usanze e nelle posture. Il corpo non è il semplice mezzo in cui si esprime l’habitus, ma, in quanto deposito dell’esperienza sociale, ne è parte fondamentale. Il sociale viene esperito e si trasforma diventando costruzione propria del soggetto, unica e inimitabile.

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Ecco quindi una “seconda dialettica, fra il passato e il presente-futuro”. L’habitus ha una funzione di mediazione, fra la potenza e l’atto, fra ciò che è possibile nella persona e ciò che effettivamente realizza, e stabilisce così una prima relazione fra interno e non visibile e ciò che invece si rende visibile, cioè l’azione. S. Tommaso D’Aquino identifica diversi tipi di habitus (intellettuali, corporei, operativi…) e ritiene che siano fortemente dimostrativi della diversità soggettiva; ad habitus e attività conformi corrisponde il medesimo soggetto quasi a definire così una stabilità dell’habitus stesso. Bourdieu (1982) pone in evidenza il ruolo delle esperienze sociali che gli individui maturano nel processo continuo di socializzazione e di partecipazione alla cultura ed identifica due diversi stati e funzioni dell’habitus. La prima è la “struttura strutturata”, storia incorporata o presenza del passato nel presente. L’esperienza passata si traduce in disposizioni percettive e comportamenti che funzionano sia nelle situazioni conosciute che in quelle del tutto nuove. La seconda, che nasce dagli studi di Bourdieu sugli scritti di Panofsky, è la “struttura strutturante”, ovvero il principio generativo e la capacità creativa che permette al soggetto di attuare comportamenti di adattamento continuo, nel momento in cui ricostruisce un rapporto tra sé e il contesto, iniziando così un dialogo (Schön, 1993). Ed ecco presentarsi un altro dialogo: tra “la vita personale e la vita professionale”. Se l’intreccio fra personale e lavorativo è stato oggetto di studio nella psicologia e sociologia del lavoro per esigenze economiche (efficienza ed efficacia), per comprendere gli aspetti motivazionali legati alla partecipazione nella produzione delle pratiche professionali, attualmente il concetto di work identity (Illeris, 2004) viene utilizzato per mostrare come le direzioni dello sviluppo nella vita professionale e nella vita privata siano fortemente interconnesse. Pur evitando tutte le derive psicanalitiche, “la ricerca dell’habitus” porta a connettere tutti gli aspetti soggettivi. «…la presa di coscienza e il lavoro sull’habitus suppongono probabilmente anche un rapporto particolare con la vita, il gusto del gioco o del rischio, una forma di identità e di ricerca di sé…» (Perrenoud, 2001). Un ultimo dialogo è “fra il collettivo e l’individuale”. Bourdieu afferma l’esistenza di un habitus di classe al quale i soggetti partecipano con una loro singolarità: «in realtà ad unire gli habitus singolari dei diversi membri di una stessa classe è una relazione di omologia, cioè di diversità nell’omogeneità che riflette la diversità nell’omogeneità caratteristica delle loro condizioni sociali di produzione: ogni sistema di disposizioni individuali è una variante strutturale delle altre, in cui si esprime la singolarità della posizione all’interno della classe e della traiettoria» (Bourdieu, 1982, 96).

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Un habitus collettivo è frutto delle relazioni di molti soggetti che hanno sviluppato un proprio habitus secondo determinazioni cronologicamente ordinate e irriducibili le une alle altre, provocando l’esistenza di “stili personali” che non sono altro, però, che uno scarto rispetto allo stile proprio di un habitus di classe o di un’epoca. Krais (2009), sempre citando Bourdieu, sostiene che in questa diversità di stili e in questa partecipazione, vi è una produzione reciproca. «La partecipazione degli individui ai processi sociali non si esaurisce nell’esperire, nell’assumere vari ruoli e nell’affermarsi in interazione con altri; consiste fondamentalmente nella costruzione stessa del mondo sociale attraverso l’agire e i sensi» (Ibidem, 114). 2.2 Il principio ricorsivo Il principio ricorsivo rimanda al «processo in cui gli effetti o prodotti sono contemporaneamente cause e produttori del processo stesso e in cui gli stati finali sono necessari alla generazione degli stati iniziali» (Morin, 1989, 115). Il processo ricorsivo si produce e riproduce da sé a condizione che sia alimentato da fonti esterne. Questa ricorsività va rintracciata, innanzitutto, proprio nella continua relazione fra stabilità e dinamicità presente nell’habitus, nel suo definire punti fermi per poi sottoporli a revisione. La disamina della complessità dell’agire può essere vista attraverso due forme di ricorsività che si presentano “tra schemi e prospettive, tra esperienza e riflessione”. Riprendendo Mezirow (2003) e il concetto di prospettiva di significato, si individuano processi di assimilazione e trasformazione dell’esperienza in base ad un «set abituale di aspettative che costituisce un quadro di riferimento orientativo che usiamo nella proiezione dei modelli simbolici e che funge da sistema di credenze (quasi sempre tacite) per interpretare e valutare il significato dell’esperienza» (Ibidem, 47-48). Le prospettive servono per definire ciò che è giusto, che va bene, che è vero. La manifestazione visibile delle prospettive è data dagli schemi di significato, che rimandano a un “come fare una cosa”, come interpretare e sono più facilmente indagabili attraverso la riflessione. Il cambiamento delle prospettive avviene quando il soggetto diventa critico sul come e perché i suoi assunti sono arrivati a condizionare il modo di percepire e di sentire il mondo (Ibidem, 165) e può prendere avvio da una serie di schemi modificati durante l’esperienza che non trovano più una giustificazione nella prospettiva alla quale facevano riferimento, oppure da situazioni destabilizzanti che mettono in discussione

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convinzioni e valori dati per scontati. Comunque vi è una fase di destabilizzazione che non può essere evitata (Morgan, 1987) e che necessita di un sostegno esterno per supportare il soggetto nella sua evoluzione. In quanto al rapporto “tra riflessione sull’esperienza e costruzione dell’habitus”, diversi autori (Dewey, Kolb, Le Boterf ) ne hanno evidenziato la continua ricorsività. Il fare esperienza si trasforma in un “avere” esperienze ( Jedlowski, 1994), vale a dire in una saggezza pratica che aiuta ad affrontare nuove situazioni con un bagaglio sempre più consolidato e che permette all’individuo di operare anche quando affronta contesti non consueti. Gli schemi via via costituiti e la fiducia nel poterli mobilitare, maturata in base ai feedback precedentemente ricevuti, permettono di operare nella direzione voluta, possibile e sostenibile a seconda dei contesti. L’esperienza è anche uno spazio/tempo della riflessione (Schön, 1993), viene prolungata e completata dalla riflessione del soggetto in quanto azione mentale che recupera e struttura (Boutet, 2004). Riflettere è una nuova esperienza interiore che mira a mantenere il passato nella coscienza per analizzarne le componenti e gli aspetti, per identificare le cause, per prevedere possibili conseguenze. Riflettere è anche un modo per facilitare l’acquisizione della consapevolezza tra concetti quotidiani acquisiti durante l’esperienza e concetti scientifici (Saussez, Paquay, 2004). Paquay fa notare come «l’individuo debba abitare i concetti scientifici con le proprie intenzioni» (Ibidem, 122), evidenziando ancora una volta l’influsso innegabile di determinate concezioni insite nell’habitus. Se la riflessione è caratterizzata da processi quali la spiegazione, l’anticipazione, la giustificazione e l’interpretazione, viene anche definita come modalità per analizzare l’indefinito, per individuarne le parti e le relazioni al fine di costruire un qualcosa di unificato e dotato di senso che possa diventare manipolabile, modificabile dal soggetto. Perrenoud distingue una “riflessione critica”, finalizzata alla destrutturazione delle situazioni per comprenderle, e una “riflessione costruttiva” che serve a dare origine ad una nuova conoscenza in quanto completa l’esperienza stessa. La riflessione è anche una postura, non è un sapere, ma costituisce un rapporto con il sapere, uno sguardo sull’azione, è costituente della competenza (Perrenoud, 2001). 2.3 Il principio ologrammatico Morin afferma che ogni parte del “tutto”, contiene il “tutto”, ne rappresenta la complessità e ogni parte può essere, più o meno, in grado di

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rigenerare il tutto. Le parti hanno autonomia relativa tra di loro, effettuano scambi, mostrano una personale specificità, pur possedendo caratteri generali. L’idea di ologramma ha due ricadute nello studio delle pratiche professionali: la prima riguarda la relazione fra gli elementi che le compongono (ogni pratica, ma anche ogni parte di essa, ha un rapporto con tutto l’agire complessivo e nello stesso tempo ogni elemento della pratica ha senso in quanto facente parte di un oggetto, percorso olistico); la seconda rimanda alla rimemorazione, ovvero la restituzione che il soggetto fa, a livello di ricordo, di una percezione, della quale non restituisce tutto, ma solo le parti che ha conservato ricombinandole fra loro. «Se noi engrammiamo non immagini, ma computazioni (a c.d.r: sapere delle operazioni che permettono il sapere) atte a riprodurre immagini, diviene comprensibile come degli engrammi vicini o imparentati possano interferire e confondersi gli uni con gli altri al momento della rimemorazione (a c.d.r: è una ricostruzione oloscopica in cui prevale l’insieme), fornendo così dei ricordi sincretici che pure riteniamo siano autenticamente fedeli» (Morin, 1989, 118). Non esiste un ricordo come rappresentazione di ciò che è realmente avvenuto, ma solo una sua ricostruzione. Il passato può essere solo visto in rapporto al senso che l’individuo assegna ad ogni parte e alla relazione fra le parti. Ecco quindi entrare in gioco il “senso”. Per Fabre (2000) il senso è qualcosa che si iscrive nella storia della persona, mentre Rey (2000) riprende anche il rapporto con i significati che sono condivisi. Polanyi (1962) insiste sul rapporto tra particolare e globale: la ricostruzione dei particolari potrebbe comportare anche la distruzione di una comprensione più globale, ma è proprio dal significato di ogni particolare, alla luce del senso complessivo, che questo acquista un suo valore per la conoscenza. Il senso produce visioni di insieme che invadono l’orizzonte mentale (Morin, 1989) e che trovano una manifestazione nelle azioni ma anche nel linguaggio. 3. Habitus e insegnanti L’habitus rimane spesso una forma di conoscenza tacita. Quando l’insegnante prende consapevolezza del proprio habitus e della necessità di conoscerne il funzionamento allo scopo di gestirne il cambiamento? Può accadere in situazioni accidentali che destabilizzano le concezioni sogget-

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tive, oppure in situazioni appositamente predisposte, come può essere la formazione. Léonard (2004) evidenzia gli elementi ritenuti fondamentali dagli insegnanti, per la formazione: avere un tempo dedicato alla riflessione sulle pratiche, discutere e analizzare i reali problemi incontrati, avere un accompagnamento continuo nel rivedere i percorsi attuati. La formazione viene interpretata quindi come un dispositivo che si concretizza in uno spazio-tempo per rivisitare il proprio sapere professionale e per comprendere il processo con cui vengono effettuate le scelte, per apprendere nuove conoscenze, per analizzare la coerenza fra le diverse azioni professionali e i risultati ottenuti. 3.1 Tracce d’habitus nella pratica didattica Nella formazione del professionista trovano ampio spazio le pratiche riflessive che permettono di trovare le tracce del funzionamento dell’habitus al fine di avviare processi di cambiamento reale e profondo. Le domande che guidano la costruzione di dispositivi sono le seguenti: in che modo giungere a comprendere come si sono formate le concezioni? Come comprendere quando e perché avviene un cambiamento di pratiche e di prospettive? Quando e perché si modificano gli schemi operativi? Quando e perché permangono delle routine? Quale convergenza o diversità vi è tra le idee soggettive e quelle della comunità di pratica alla quale si partecipa? In letteratura è già stata ampiamente esplorata la valenza, ai fini di una consapevolezza soggettiva, delle narrazioni autobiografiche (Demetrio, 1996), delle interviste in profondità per comprendere il fare (Mortari, 2010), delle analisi delle proprie pratiche con l’accompagnamento di esperti (Vinatier, Altet, 2008). In questa sede ci si vuole focalizzare su come indagare l’influenza dell’habitus sulla competenza dell’insegnante nella progettazione didattica. Progettare richiede al soggetto di operare scelte, di attivare schemi operativi che sono nati nella pratica individuale, organizzativa e anche nelle comunità di pratica, di costruire e decostruire il progetto attraverso simulazioni, di assegnare un senso complessivo, ma anche di analizzare le singole parti. Wanlin (2009) pone tre ragioni che sottendono la progettazione: organizzative, pedagogiche e personali/psicologiche. Tra i fattori che la influenzano vi sono l’esperienza personale, le risorse disponibili, le teorie e i criteri

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personali, il flusso delle attività. Le decisioni prese durante la progettazione rispecchiano i criteri soggettivi di insegnamento, valori personali che costituiscono una costante, la filosofia educativa (Seldin, 2004). Per Halkes et Deijkers (cit. in Wanlin), i criteri sono legati al bisogno di controllo, all’importanza assegnata all’attivazione degli studenti, al bisogno di riconoscimento, anche affettivo, e al valore assegnato alla conoscenza in quanto strumento per facilitare la partecipazione attiva alla società. Questi criteri giocano un ruolo nella costruzione dell’esperienza di insegnamento e delle relative teorie soggettive e l’esperienza costituisce il fondamento su cui si innestano prevalentemente le scelte. Il processo riflessivo nel quale implicare il professionista, che viene suggerito da Saussez, Paquay (2004) e da Perrenoud (2001), rimanda ad alcune tappe necessarie a costruire una concettualizzazione partendo dall’analisi dell’esperienza. Si tratta quindi di supportare diversi passaggi: l’esplicitazione di diverse esperienze relative al medesimo compito, la chiarificazione tramite il confronto, la rivisitazione di quanto emerso fino a giungere ad una rappresentazione che diverrà strumento per ripensare le pratiche successive. Secondo Perrenoud (2001) «Il soggetto non accede direttamente agli schemi stessi, egli se ne costruisce una rappresentazione, che passa attraverso un lavoro di presa di coscienza». Tale rappresentazione è identificabile nello “schéma”, così come lo definisce Perrenoud stesso, che diviene l’artefatto utile a ripensare l’azione successiva e facilitare la visione del cambiamento. «Definirei uno “schéma” come una rappresentazione semplificata del reale, quindi di un’azione o di una sequenza di azioni. Quando uno “schéma” di azione si elabora per presa di coscienza della struttura invariante di un’azione, quindi dello schema che la sottende, esso non sopprime ipso facto lo schema, che può continuare a funzionare all’atto pratico, e non vi si sostituisce necessariamente nel controllo dell’azione» (Perrenoud, 2001). Elaborare rappresentazioni non è quindi garanzia di controllo dell’azione successiva, ma è una buona possibilità per comprendere come si effettuano le scelte, come si gestiscono le tensioni dialogiche presenti nella realtà in cui si opera, quali fattori personali e contestuali influiscono maggiormente. La rappresentazione può aiutare quindi a conoscere come il soggetto ha costruito il rapporto con il contesto attivando processi riflessivi e di continua costruzione/ricostruzione.

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La concettualizzazione della pratica tra narrazione e rappresentazione Nell’ambito dei master on line attivati dall’Università degli Studi di Macerata e destinati a docenti in servizio, sono stati sperimentati diversi dispositivi per attivare la riflessione, condizione necessaria alla scoperta e reificazione delle tracce dell’habitus. Il primo dispositivo si pone come obiettivo la concettualizzazione dell’azione (Saussez, Paquay, 2004). Un “primo passaggio” verso la presa di coscienza richiede la narrazione di una o più pratiche di progettazione didattica, esplicitando anche motivazioni delle scelte, pensieri e processi. Una prima analisi delle scritture, prodotte dagli insegnanti, fa emergere che narrare l’esperienza è stato vissuto come compito difficile, inusuale, ma estremamente produttivo in termini di consapevolezza personale. È una “pratica per mettere in forma la propria esperienza” e attiva un recupero del dettaglio, delle successioni, stimola l’emergere delle domande implicite che guidano le scelte: come scritto da un docente: “è come creare un ordine fra le variabili”. Ma è anche una modalità per far emergere vissuti emotivi e prospettive con le quali è stato affrontato il compito. Ripercorrere il proprio testo induce a valutare azioni e processi, l’efficacia delle scelte e la coerenza interna dell’agito, favorisce l’assegnazione di senso: «perché ho fatto…, allora qual è la mia professionalità?» (Magnoler, 2010). Il “secondo passaggio” prevede il confronto con i pari e il formatore. La narrazione individuale viene letta e analizzata; ciascuno legge il racconto dell’altro, pone domande, richiede chiarimenti. In questo modo si attiva una reciproca attenzione al dettaglio, al significato, si sviluppa la ricerca soggettiva del senso assegnato ad alcune pratiche. La discussione in forum che si sviluppa in modo asincrono, facilita la lettura e rilettura delle rispettive narrazioni e delle risposte, favorendo un clima riflessivo che porta ad andare in profondità, a non accontentarsi delle dichiarazioni generiche. In questa fase si nota l’importanza delle domande del novizio che richiedono all’esperto di ripensare le proprie routine e di ricostruire il senso complessivo della sua azione, le diverse interpretazioni relative ad un concetto che sollecitano la ricerca di coerenza all’interno della comunità, la rilevazione dei cambiamenti introdotti nelle proprie pratiche in relazione al proprio percorso formativo. Un “terzo passaggio” è la produzione, da parte di ogni soggetto in formazione, di una rappresentazione grafica del processo illustrato nella propria narrazione. La rappresentazione richiede la selezione e la strutturazio-

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ne degli elementi ritenuti più importanti, dando origine ad una immagine che evidenzia i nodi e le relazioni. La rappresentazione pone il soggetto di fronte alla modellizzazione che ha dato al proprio processo, sia in fase di realizzazione che di analisi, e mostra i legami “ma solo quelli che si ritengono più importanti”. Parafrasando con le parole stesse dei docenti, “si rende visibile un modello logico” soggettivo e la visualizzazione grafica consente di chiarire e semplificare, nonché di analizzare più facilmente le similarità e le differenze portando così ciascuno a confrontare i diversi modelli realizzati dalla comunità con il proprio. In questa direzione le tecnologie forniscono un supporto molto forte, permettono di reificare, manipolare, confrontare, condividere, ristrutturare, mantenendo memoria di un processo di analisi, di ricostruzione. La tecnologia diviene una vera e propria psico-tecnologia (de Kerckhove, 1993) nel senso di prolungamento delle funzioni psichiche soggettive. Il pensiero si rende visibile nello schermo in forme diverse e tra loro comparabili e analizzabili, documentabili. Il teacher portfolio dell’esperienza Un secondo dispositivo utilizzato aveva l’obiettivo di porre in relazione diverse tracce di habitus che emergono attraverso la realizzazione di tre artefatti inseriti nel teacher portfolio. Il primo artefatto è Il curriculum riflessivo. Si tratta di ricostruire, rivisitando la propria storia professionale, le scelte formative per lo sviluppo professionale evidenziando le motivazioni personali e le ricadute che tali azioni hanno avuto nelle pratiche. Dall’analisi delle scritture e soprattutto dalle riflessioni scritte dai corsisti, si manifesta una ricostruzione di senso relativa alla propria storia, all’immagine che si ha del lavoro e di se stessi. Vi è un’attenzione a come si sta sviluppando la propria work identity. Si attiva in questo caso una riflessione con una funzione critico-regolatrice ( Jorro, 2005): dall’analisi delle situazioni formative vissute, vengono individuate le scelte operate e la loro concatenazione e successione. Questa visione longitudinale aiuta ad osservare i cambiamenti e quindi a rintracciare elementi della funzione strutturante dell’habitus. Il secondo artefatto è una “rubrica” co-costruita nella comunità on line che elabora dei criteri, degli indicatori che aiutano ad analizzare le proprie pratiche professionali, sempre in relazione alla competenza nella progettazione didattica. Viene prodotto così uno strumento che rimane come riferimento flessibile e continuamente modificabile per scelte future in ter-

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mini di autoprogettazione professionale. La prima riflessione scritta con il supporto della rubrica, serve a fissare una descrizione su “cosa si sa fare e come”. È lo stato di partenza che andrà successivamente confrontato con la riflessione scritta al termine del percorso formativo. L’oggetto di indagine sarà lo scarto che si potrà notare tra le due diverse scritture, al fine di comprendere elementi e processi insiti nel cambiamento. La rubrica permette di intravedere il cambiamento, come è avvenuta una nuova strutturazione di schemi, a volte dei cambiamenti radicali di concezioni. Il terzo artefatto è “un diario” che si presenta con due diversi livelli. Gli insegnanti sono impegnati, durante il master, nell’elaborazione di un project work da realizzare nella propria classe, avvalendosi della nuova conoscenza che si è creata nel confronto fra concetti spontanei e concetti scientifici proposti nel percorso formativo. Tale processo di progettazione-realizzazione in classe, viene accompagnato con un journal de bord da stilare durante l’esperienza. Successivamente, tali scritture diventano il materiale sul quale riflettere attraverso il sostegno di domande poste dal formatore. In questo modo l’opacità della quotidianità e gli eventi che la turbano vengono posti sotto la lente dell’analisi dapprima soggettiva, successivamente collaborativa, al fine di dare una maggiore visibilità alle tracce delle pratiche. 4. Conclusioni L’habitus, in quanto concetto preposto a definire un “non visibile”, non può trovare una sua manifestazione totalmente corrispondente. Si possono solamente cercare le tracce lasciate dal suo funzionamento e partire da queste per sviluppare nel soggetto una consapevolezza circa il proprio agire e le scelte sottese. Se la competenza professionale è fortemente connessa all’intenzionalità (Rey, 2003) e quindi ad un “essere competenti”, la formazione deve agire in questo ambito attraverso la predisposizione di dispositivi atti alla riflessione, alla concettualizzazione, alla reificazione per dare origine ad una ricorsività tra scoperta di sé, scoperta dell’altro (persone, pensieri, contesti, problemi…) e relative modificazioni o ricostruzioni. Scoprire le tracce dell’habitus comporta una riflessione sui dispositivi che si costruiscono; è necessario raccogliere, analizzare le pratiche per sostenere la riflessione al fine di comprendere come essa viene intesa, quali funzioni le si assegnano, su quali oggetti si concentra e con quali obiettivi, con quali tempi. La sfida lanciata da Perrenoud, ovvero cercare la strada per transitare dalla pratica riflessiva al lavoro sull’habitus, è ancora estremamen-

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te viva e richiede un rinnovato sforzo di indagine sia teorica, sia di ricerca sul campo. Inoltre il concetto complesso richiede anche una molteplicità di apporti disciplinari, in particolare dalla psicologia del lavoro e dall’ergonomia, per perseguire le tre grandi sfide in termini di professionalizzazione degli insegnanti proposte da Boutet (2004). La prima è quella di riuscire a costruire una “consapevolezza” nella gestione della complessità delle situazioni di insegnamento e apprendimento, comportamento evidentemente legato all’habitus. La seconda rimanda alla costruzione e affermazione di una propria “identità professionale” capace di dialogare continuamente con i diversi contesti. Il legame tra formale e informale, tra professionale e personale diviene uno snodo chiave per la formazione del professionista. La terza sfida consiste nel dare inizio ad un “processo collettivo” capace di valorizzare le comunità di pratica in rapporto all’organizzazione e le risorse umane come elemento fondante di ogni buon funzionamento istituzionale, ponendo in continua dialettica habitus individuale e collettivo. Presentazione dell’autore: Ricercatore in Didattica e Pedagogia speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Macerata. Si occupa prevalentemente della ricerca sui dispositivi per formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. Autrice del testo L’insegnante professionista. Dispositivi per la formazione (EUM, 2008), ha pubblicato diversi contributi a livello nazionale e internazionale aventi per tema il teacher portfolio e la formazione on line.

Bibliografia Bourdieu, P. (1972), Esquisse d’une théorie de la pratique, Genève, Droz. — (2005), Il senso pratico, Roma, Armando. Boutet, M., La pratique réflexive: un apprentissage à partir de ses pratiques, in: http:// www.mels.gouv.qc.ca/reforme/Boite_outils/mboutet.pdf, 2004 [20/08/2010]. Demetrio, D. (1996), Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina. De Kerchkove, D. (1992), Brainframes, Bologna, Baskerville. Fabre, M. (2000), «La question du sens en formation», in J.M. Barbier, O. Galantanu (dirr.), Signification, sens et formation, Bruxelles, De Boeck, pp. 115-138. Jedlowski, P. (1994), Il sapere dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore. Jorro, A., Réflexivité et auto-évaluation dans les pratiques enseignantes, in: http:// halshs.archives-ouvertes.fr/docs/00/11/23/37/PDF/EVA-REFLEXIVITE. pdf, n. 2. pp. 33-47, 2005 [20/08/2010]. Krais, B., Gebauer, G. (2009), Habitus, Roma, Armando.

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La didactique professionnelle Un point de vue sur la formation et la professionnalisation

PIERRE PASTRÉ

Abstract: This text presents a balance-sheet of the works realized in professional didactics since its origins until today. It also opens some perspectives for the future. Three subjects are able to summarize it: the analysis of the activity, the analysis of the learnings, and the analysis of the processes of formation. Only the first two subjects are approached on this article, the third having been practiced a lot by the author, but little theorized. For the analysis of the activity as for the analysis of the learnings, we approach successively the previous origins, the foundations and the openings connected to each of both subjects. A movement appears to it: the professional didactics centered a lot in its begins on the job analysis with the aim of the formation. And then, little by little, it was interested more and more strongly in the analysis of the processes of learning. Résumé: Ce texte présente un bilan des ouvrages réalisés dans le domaine de la didactique professionnelle depuis ses débuts jusqu’à aujourd’hui. Le présent travail ouvre aussi des perspectives pour l’avenir. L’analyse des activités, l’analyse des apprentissages et l’analyse des procès formatifs sont les trois éléments principaux. Les deux premiers sujets sont traités dans cet article, tandis que le troisième a été abordé par l’auteur plus dans la pratique qu’au niveau théorique. Pour ce qui concerne l’analyse des activités et des apprentissages nous sommes confrontés aux origines, aux fondements et aux ouvertures liées à chacun des deux éléments. Il est évident qu’un mouvement se produit: aux débuts la didactique professionnelle est très centrée sur l’analyse du travail finalisée à la formation. Ensuite, peu à peu, l’intérêt pour l’analyse des procès d’apprentissage grandit. Mots clés: compétence, didactique, professionnalité, conceptualisation, apprentissage.

On peut définir la didactique professionnelle comme l’analyse du travail en vue de la formation des compétences professionnelles. C’est une discipline récente, qui n’a pas encore développé toutes ses potentialités. Ses origines plongent dans plusieurs sources: trois domaines théoriques et un champ de pratiques. La première source est le cadre théorique de la conceptualisation dans l’action, développé par Piaget et continué par Vergnaud (1996). La deuxième source est la psychologie ergonomique, noEDUCATION SCIENCES & SOCIETY


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tamment de langue française, initiée par Ombredane et Faverge (1955) et continuée par Leplat (1997). La troisième source est la didactique des disciplines, avec une mention particulière pour la didactique des mathématiques, avec des auteurs comme Brousseau (1998) et Vergnaud (1990). Quant au champ de pratiques dont la didactique professionnelle s’est inspirée, il s’agit de l’ingénierie de formation (analyse de besoins, définition d’objectifs, construction et évaluation de dispositifs). Tout en puisant son inspiration dans ces différents domaines, la didactique professionnelle dès son origine a tenu à marquer ses spécificités. Elle a d’abord marqué sa différence avec l’ingénierie de formation: celle-ci est probablement une des inventions essentielles de la formation professionnelle continue (FPC), mais elle s’arrête généralement à la frontière de l’analyse du travail. En particulier, elle ne s’est pas beaucoup inspirée de la psychologie ergonomique, qui a développé les principaux concepts et méthodes à utiliser pour faire une réelle analyse du travail. A l’inverse, le but premier de la didactique professionnelle fut de mettre en exergue la nécessité de faire une analyse du travail comme préalable à toute formation professionnelle, ce qui l’a amené à s’emparer des concepts et méthodes de la psychologie ergonomique. De la même manière, à son point de départ, la didactique professionnelle a tenu à marquer sa différence avec les didactiques des disciplines: celles-ci sont structurées autour de la transmission et de l’acquisition de savoirs. La didactique professionnelle se centre sur l’apprentissage d’activités. Or, on le verra, le fait de prendre comme objet non un savoir, mais une activité entraîne des conséquences importantes. On peut mentionner un dernier élément pour qualifier la didactique professionnelle: elle se donne comme objet le développement chez les adultes, avec cette idée forte que c’est dans le travail que la majorité des adultes rencontrent leur développement. Pendant longtemps le développement cognitif a été considéré comme réservé aux enfants. Mais si l’on regarde le développement dans sa dimension historique, dans une perspective plus vygotskienne que piagétienne, on peut observer qu’il y a des épisodes de développement qui se produisent chez les adultes tout au long de leur vie, et notamment dans la confrontation aux problèmes qu’ils sont amenés à rencontrer dans leur métier. Ainsi la professionnalisation n’est pas complètement indépendante du développement personnel et cognitif: dans les moments les plus favorables, développement et professionnalisation évoluent de conserve; et les cas où ils se trouvent disjoints ne sont ni normaux ni acceptables. Cet article présente de façon brève les principaux points qu’a développés la didactique professionnelle. Il comportera deux grandes parties: la

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première est centrée autour de l’analyse du travail. La seconde est centrée autour de l’analyse des apprentissages professionnels. 1. L’analyse du travail en didactique professionnelle Le point de départ de la didactique professionnelle est le suivant: il faut faire une analyse du travail comme préalable à toute construction de dispositif de formation. Les analyses du travail se font selon diverses modalités. Ce qui caractérise la didactique professionnelle sur ce sujet tient en deux points: son cadre théorique de référence est la conceptualisation dans l’action; sa méthodologie s’inspire principalement de la psychologie ergonomique. La conceptualisation dans l’action nous vient directement de Piaget (1974): encore plus profondément que son constructivisme, on trouve chez lui l’idée que la connaissance est fondamentalement une adaptation, la manière dont les humains sont capables de s’ajuster à leur environnement. C’est pourquoi la première propriété de la connaissance est d’être opératoire: elle sert à orienter et guider l’action. Ce n’est que dans un deuxième temps que la connaissance donne naissance à des savoirs théoriques. C’est pourquoi la conceptualisation est à distinguer soigneusement de la théorisation: la conceptualisation a d’abord une fonction opératoire, ce qui oblige, contrairement à la pensée commune, à ne pas (trop) dissocier la connaissance et l’action. Vergnaud (1990) a repris cette inspiration piagétienne en faisant du concept de schème l’organisateur principal de l’activité humaine. Pour lui, il existe dans toute activité humaine une organisation invariante qui est suffisamment générale pour pouvoir s’adapter à un grand nombre de situations. Cette organisation de l’activité n’est pas forcément explicite ni connue du sujet. Mais une analyse de l’activité permet de la mettre en évidence. Vergnaud définit le schème comme «une organisation invariante de l’activité pour une classe de situations donnée». Cette organisation de l’activité n’est ni stéréotypée ni évanescente. Ainsi le concept de schème permet de combiner judicieusement les deux propriétés essentielles de l’activité: l’invariance de son organisation (en quelque sorte son squelette) et sa grande adaptabilité aux circonstances. Cette organisation de l’activité comporte un noyau central qui est d’ordre conceptuel, selon l’expression de Vergnaud «Au fond de l’action, la conceptualisation» (1996). Bien entendu, la conceptualisation dont il est question ne consiste pas à assujettir la pratique à la théorie, mais à repérer les concepts organisateurs qui sont utilisés pour orienter et guider l’action. On retrouve là l’inspiration piagétienne qui fait

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de la connaissance une adaptation. C’est pourquoi les analyses du travail en didactique professionnelle vont s’efforcer, pour chaque classe de situations, de repérer les concepts organisateurs, très souvent implicites, qui servent à orienter l’action en lui permettant de s’ajuster aux situations. Cette analyse du travail s’appuie sur une méthodologie qui s’inspire de la psychologie ergonomique, qui repose sur le principe suivant: dans le travail, on peut distinguer ce qui relève de la tâche prescrite (ce qu’un opérateur doit faire) et ce qui relève du travail réel (ce qu’un opérateur fait effectivement). Or il existe toujours un écart entre la tâche prescrite et l’activité réelle, car c’est là qu’on trouve la dimension créatrice du travail: l’activité est toujours plus riche et plus complexe que la plus détaillée des prescriptions. Leplat (1997) s’appuie sur ce principe pour définir une méthodologie d’analyse du travail: il faut commencer par faire une analyse de la tâche; mais celle-ci, loin d’être l’objectif réel de l’analyse, n’en est que l’introduction: il faut faire une analyse de la tâche pour avoir accès à l’analyse de l’activité, qui est le véritable but de l’analyse. Les premiers travaux de recherche de didactique professionnelle ont suivi scrupuleusement cette démarche: on cherchait à repérer les concepts organisateurs qui structurent la tâche, puis on regardait comment ces concepts étaient plus ou moins facilement et complètement mobilisés par les acteurs. Mais les limites de cette méthodologie sont peu à peu apparues. Le paradigme de Leplat est très bien adapté aux situations reposant sur une organisation taylorienne du travail: la tâche prescrite y est très détaillée et fournit un bon point de départ pour accéder à la tâche effective. Mais l’évolution du travail a vu se multiplier des situations qu’on peut qualifier de «discrétionnaires» (Maggi 2003, Valot 2006): il y a bien toujours une prescription, mais celle-ci se contente de préciser le but de l’action, laissant à la «discrétion» des acteurs, et à leur compétence, le soin de choisir le bon mode opératoire. C’est notamment le cas pour un grand nombre d’activités de service, où la variété des situations est telle qu’il serait illusoire de s’appuyer sur une prescription trop détaillée et rigide. Du coup, la démarche méthodologique est amenée à se complexifier: il faut certes toujours commencer par l’analyse de la tâche, mais celle-ci ne fournit guère qu’un squelette et est insuffisante pour accéder de façon fine à l’analyse de l’activité des agents. Pour cette dernière, on va chercher en didactique professionnelle à identifier, à côté des concepts qui structurent la tâche, des ‘jugements pragmatiques’, assez souvent implicites, qui permettent de comprendre comment les agents organisent leur activité. Autrement dit, la première démarche d’analyse du travail avait l’inconvénient d’être trop extrinsèque; la recherche et l’identification de jugements pragmatiques chez

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les acteurs permet d’accéder directement à l’organisation de l’activité, par conséquent de développer une analyse intrinsèque de l’activité. Avant de montrer comment les recherches de didactique professionnelle parviennent à articuler le cadre théorique de la conceptualisation dans l’action et la méthodologie issue de la psychologie ergonomique, il convient de signaler l’importance qu’a eue un auteur russe, Ochanine, avec son concept d’image opérative (1981). Rappelons en quelques mots l’exemple sur lequel s’est appuyé Ochanine: il compare l’activité de chirurgiens spécialistes de la thyroïde et celle de jeunes médecins non spécialistes. Il leur demande aux uns et aux autres de produire une représentation (dessin ou moulage) de thyroïdes malades. Les jeunes médecins produisent une image exacte de l’objet, alors que les spécialistes produisent une image laconique et déformée: certaines parties sont exagérées alors que d’autres ont pratiquement disparu. En étudiant leurs représentations, Ochanine découvre qu’ils donnent à voir leur démarche de diagnostic: les parties hypertrophiées sont celles qui sont importantes pour leur diagnostic. Ochanine en conclut qu’il y a deux sortes de représentations d’un objet: une image cognitive, qui décrit l’objet dans ses propriétés indépendamment de toute action; et une image opérative, qui représente l’objet en fonction de l’action à effectuer sur lui. C’est ainsi que dans le travail les représentations de la situation mobilisent un registre pragmatique, qui s’appuie certes sur un registre épistémique (la représentation des spécialistes n’est pas moins scientifique que celle des débutants), mais qui l’oriente en fonction de l’action à effectuer. On retrouve, dans un autre langage et un autre contexte, l’inspiration de Piaget, insistant sur la dimension opératoire de la connaissance. Venons-en maintenant à l’analyse du travail en didactique professionnelle. Elle repose sur trois notions: concepts pragmatiques, structure conceptuelle d’une situation, modèle opératif. Les concepts pragmatiques sont des concepts mobilisés dans l’action et issus d’elle-même, servant à l’orienter et à la guider. Voici un exemple tiré d’une recherche qui analyse la conduite d’une machine, une presse à injecter en plasturgie (Pastré, 2004). L’expert du domaine, quand il contrôlait le réglage des machines dans les ateliers, parlait toujours de «bourrage». Une analyse de la tâche a mis en évidence que le bourrage, qu’on peut qualifier de concept pragmatique, est ce qui permet aux opérateurs de savoir selon quel régime fonctionne leur machine: quand le bourrage est bon, la machine fonctionne en régime normal; quand il y a trop de bourrage, la machine fonctionne en régime compensé et tous les réglages en sont changés. Un bon conducteur est donc quelqu’un qui est capable de faire un diagnostic portant sur le régime de

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fonctionnement du système en mobilisant le concept de bourrage, dont il repère la valeur à l’aide d’un indicateur. Ce concept n’a jamais été défini ni par les opérateurs ni même par les experts: ils en parlent, le désignent du doigt, mais se contentent surtout de l’utiliser. C’est le chercheur qui, grâce à son analyse, a proposé une définition de ce concept pragmatique, qui a d’ailleurs été confirmée par les experts. Ainsi un concept pragmatique a trois propriétés: 1) quant à son origine, il est issu de l’action: on ne le trouve ni dans les manuels ni dans les traités. 2) Quant à sa fonction, il sert à orienter l’action, en assurant un diagnostic sur la situation. 3) Mais il a une dimension sociale: il n’est pas totalement implicite, même s’il n’est pas défini. On en parle beaucoup dans les ateliers. D’une certaine manière il se transmet, dans l’action même, des professionnels aux novices. Appelons structure conceptuelle d’une situation l’ensemble des concepts pragmatiques ou pragmatisés qui servent à orienter l’action. Pourquoi ajouter aux concepts pragmatiques des ‘concepts pragmatisés’? Tout simplement parce qu’il arrive souvent qu’on ait affaire à des situations de travail bien plus complexes que la conduite de machines de plasturgie. Piloter un avion, conduire une centrale nucléaire, c’est aussi conduire un système technique, mais il s’agit dans ces derniers cas de systèmes dynamiques, qui évoluent à leur propre rythme et au moins en partie indépendamment de l’action des opérateurs. De plus, pour concevoir ces systèmes très complexes, on mobilise énormément de connaissances techniques: les relations entre les différentes variables du système et leurs relations sont bien identifiées par des concepts scientifiques et techniques. On ne peut donc plus parler à leur endroit de concepts pragmatiques. Mais c’est ici qu’on retrouve l’intuition d’Ochanine: le registre épistémique (les concepts scientifiques et techniques) permet de comprendre comment le système fonctionne. Mais il est insuffisant pour orienter l’action des opérateurs, car les concepts scientifiques et techniques ne disent pas quelles sont les variables essentielles permettant de faire un diagnostic de situation. Il faut qu’ils soient «pragmatisés»: parmi toutes les variables qui sont en jeu dans le système, il faut identifier quelles sont celles qui sont cruciales pour la conduite, à la fois celles qu’il faut regarder et celles qu’il faut avoir en tête. Les premières analyses du travail en didactique professionnelle ont porté sur la conduite de systèmes techniques, des plus simples (les machines) aux plus complexes (les systèmes dynamiques). Plus tard, l’analyse s’est élargie à d’autres situations de travail, notamment les situations de service, où un humain agit sur et avec d’autres humains. On a conservé la notion de «structure conceptuelle d’une situation», qui s’applique aux activités

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relationnelles comme aux activités techniques. Il s’agit toujours d’identifier les concepts organisateurs, pragmatiques ou pragmatisés, qui servent à orienter l’action en assurant un diagnostic de situation. Mais il y a deux autres éléments qui font partie de la structure conceptuelle d’une situation: outre les concepts organisateurs on trouve des indicateurs et des classes de situations. Les indicateurs sont des observables qui permettent d’évaluer la valeur prise par un concept organisateur. Il faut bien voir que le but essentiel est et demeure l’action: il faut donc pouvoir donner une valeur aux variables (qui sont des concepts) qui sont essentielles pour la conduite. On a donc affaire à un couple variables-indicateurs, qui permet à l’opérateur de s’orienter en fonction de la situation singulière. Par ailleurs, une des particularités du cadre d’analyse proposé est qu’il fait correspondre une classe de situations à chacune des valeurs prises par les variables qui représentent les concepts organisateurs. On sait que tous les praticiens ont l’habitude de catégoriser empiriquement les situations qu’ils rencontrent, ce qui leur permet d’ajuster leur action à la situation ainsi identifiée. Le concept de structure conceptuelle ajoute un élément à cette pratique: il rend la catégorisation rationnelle en articulant les valeurs prises par les variables et les classes de situations, qui peuvent ainsi être clairement définies. Il reste un dernier élément à mentionner: la structure conceptuelle de la situation à analyser n’est pas uniformément comprise par les acteurs; les uns en ont une compréhension complète et fidèle, alors que d’autres ne font que s’en approcher. C’est ici qu’on retrouve la distinction de Leplat (1997) entre analyse de la tâche et analyse de l’activité. L’identification de la structure conceptuelle se situe du côté de la tâche; elle ne dit rien sur la manière dont tel ou tel acteur a réussi à la mobiliser. Appelons ‘modèle opératif ’ la manière dont un opérateur a assimilé, plus ou moins complètement, la structure conceptuelle de la situation. Ainsi le modèle opératif n’est pas seulement relatif à une situation professionnelle; il est relatif à un acteur pris individuellement et à la manière dont il s’est approprié la structure conceptuelle de la situation. Au fond, le modèle opératif d’un acteur exprime son niveau de compétence. Les experts du domaine ont un modèle opératif fidèle et complet par rapport à la structure conceptuelle; les novices ont généralement un modèle opératif qui peut être juste mais incomplet, ou alors incomplet et partiellement inexact. Telle est la première idée qu’on peut se faire du modèle opératif d’un acteur: on évalue sa plus ou moins grande fidélité par rapport à la structure conceptuelle de la situation. Mais à mesure que se sont développées les recherches en didactique professionnelle, on s’est rendu compte que d’autres éléments étaient pré-

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sents dans le modèle opératif d’un acteur. On y trouve d’abord des ‘genres professionnels’, tels que Clot (2008) les a définis: ils correspondent à des manières de faire qui sont propres à un groupe professionnel, qui ainsi se distingue d’autres groupes professionnels pratiquant le même métier. Une recherche ( Jaunereau, 2005) sur l’activité des agriculteurs (culture du colza) a montré qu’à côté de la structure conceptuelle de la situation, il y avait chez les acteurs au moins deux genres professionnels bien distincts, selon qu’ils étaient sensibles ou non aux exigences de l’agriculture durable: les uns privilégiaient le labour des sols; les autres privilégiaient des techniques de travail du sol plus légères. Un troisième élément est présent dans le modèle opératif des acteurs: c’est une dimension personnelle, liée à l’expérience passée qu’a acquise le sujet et qui donne une coloration spécifique à sa manière de procéder. En résumé, le modèle opératif d’un acteur contient trois sortes d’organisateurs de l’activité: l’un se réfère à la situation de travail; un autre se réfère au groupe professionnel auquel se rattache l’acteur; le dernier constitue sa signature et dépend de son expérience passée. Aussi pour identifier l’ensemble d’un modèle opératif, il ne suffit pas d’extraire les concepts pragmatiques ou pragmatisés: il faut aussi extraire les «jugements pragmatiques», exprimés par l’action ou par la parole, qui permettent de relever le genre professionnel et la place de l’expérience personnelle. C’est pourquoi l’analyse du travail en didactique professionnelle suppose deux étapes successives: la première est centrée sur la structure conceptuelle de la situation et identifie des concepts organisateurs. La seconde est centrée sur le modèle opératif des acteurs et identifie les jugements pragmatiques qui permettent de rendre compte de la manière dont ils organisent leur activité. 2. L’analyse des apprentissages professionnels Pour rester dans les limites d’un article court, on se contentera de développer deux points concernant les apprentissages professionnels. Le premier porte sur ce qu’on peut appeler l’apprentissage par les situations, le second insiste sur le rôle joué dans l’apprentissage par l’analyse réflexive de sa propre activité par un acteur. Il faut savoir que l’analyse des apprentissages professionnels est une perspective relativement récente en didactique professionnelle. Pendant longtemps tout l’effort a porté sur l’analyse du travail comme préalable à la formation. C’était urgent et indispensable. Peu à peu l’accent s’est déplacé sur l’analyse des apprentissages, permettant ainsi un rapprochement très marqué avec les didactiques disciplinaires, qui

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sont surtout centrées sur l’acquisition de savoirs. Pourtant il subsiste des différences et la plus remarquable est que les apprentissages professionnels reposent sur ce qu’on peut appeler une pédagogie des situations. Mais il ne faudrait pas durcir l’opposition: il faut se rappeler qu’un des fondateurs de la didactique des mathématiques, Brousseau (1998), a élaboré toute une théorie des situations comme sources d’apprentissage. Il l’a d’ailleurs fait avant l’apparition de la didactique professionnelle et il est très intéressant de faire une comparaison entre ces deux approches. Les limites de cet article ne permettent pas de le faire, mais on peut renvoyer à d’autres textes (Pastré, 2011) pour développer ce point. Il reste que la plus grande partie des apprentissages professionnels sont des apprentissages par les situations: un opérateur est confronté à une situation qui comporte un problème pour lui et c’est en cherchant à résoudre ce problème qu’il apprend à maîtriser la situation. On voit aisément que les deux principales notions développées dans la partie sur l’analyse du travail, structure conceptuelle d’une situation et modèle opératif, se retrouvent ici. Il faut dire que le travail humain est plein de problèmes, alors même qu’on essaie de les supprimer ou de les écarter en multipliant les procédures. Mais le réel résiste et de nouveaux problèmes surgissent quand on a réussi à éliminer les précédents. Ces problèmes peuvent être caractérisés par deux propriétés, leur complexité et leur difficulté (Savoyant, 2011), selon qu’on considère les problèmes en eux-mêmes ou les problèmes pour les sujets apprenants. La complexité d’un problème est indépendante du niveau de compétence atteint par l’acteur: elle vaut aussi bien pour un expert que pour un novice. La difficulté du problème est relative au sujet qui le rencontre: ce qui n’est plus un problème pour un professionnel peut être un problème d’une grande difficulté pour un novice. Que se passe-t-il quand un opérateur rencontre un problème dans son activité professionnelle? On peut résumer le processus par une description qu’on peut schématiser en 4 temps: 1) attente du sujet, 2) «réponse» de la situation, 3) contradiction éventuelle entre l’attente et la «réponse», 4) «genèse conceptuelle» ou échec de l’apprentissage. La première idée à souligner est qu’un acteur qui se confronte à un problème n’arrive pas la tête vide: il s’attend à trouver tel ou tel type de réponse de la part de la situation. Ou bien il a déjà une petite compétence concernant le domaine et cela lui donne une idée sur l’issue qu’il s’attend à trouver. Ou bien il est devant un problème tout nouveau, mais il peut alors puiser dans les situations qu’il juge proches et fonctionner par analogie. Il est probable qu’un sujet qui n’aurait aucune attente par rapport à la situation-problème ne serait

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pas en mesure d’apprendre quoi que ce soit: il serait hors de sa «zône de proche développement» (Vygotski, 1997). La «réponse» de la situation est l’élément qui distingue le plus clairement les apprentissages par les situations des apprentissages plus proprement scolaires qui, si l’on en croit Rey (2007), s’appuient principalement sur des textes. Les apprentissages par les situations fonctionnent un peu comme les tâches de poursuite: l’apprenant voit bien le but à atteindre et évalue à chaque opération sa distance au but: soit il s’en rapproche, soit il s’en éloigne, soit il ne bouge pas par rapport à ce but. La «réponse» de la situation est simplement l’information que l’action effectuée par le sujet apporte par rapport à cette distance au but: il s’en est rapproché, s’en est éloigné ou n’a pas bougé. Cette information est précieuse pour orienter l’action future. Mais elle est toujours ambigüe: il arrive souvent en effet qu’il faille s’éloigner momentanément du but pour, par un détour, être assuré d’y arriver plus rapidement. C’est pourquoi la «réponse» de la situation n’est qu’un élément parmi d’autres dans le processus d’apprentissage. Elle doit être intégrée dans un ensemble de connaissances sur la situation, présentes dans le modèle opératif de l’acteur. Sans référence à ce modèle opératif, la «réponse» de la situation peut induire en erreur, surtout quand la situation-problème est complexe. Seuls les problèmes très simples permettent une approche linéaire en direction du but; ces problèmes peuvent être difficiles pour un débutant, ils ne sont pas complexes parce qu’ils n’exigent pas une stratégie très élaborée. Considérons maintenant les problèmes complexes. Il arrive qu’un acteur, doté d’un modèle opératif assez pertinent, s’attende à obtenir une «réponse» de la situation et se trouve désarçonné en constatant une contradiction entre la réponse qu’il attend et celle qu’il observe. Cela se produit généralement quand l’acteur se trouve confronté à une nouvelle classe de situations, par exemple un problème totalement nouveau, pour lesquels son modèle opératif, pertinent pour les situations qu’il a déjà rencontrées dans le passé, s’avère inadéquat dans le cas présent. Cette contradiction peut être une occasion très intéressante d’apprentissage. Le modèle opératif de l’acteur n’est pas disqualifié pour autant: il est toujours valable pour traiter des classes de situations habituelles. Mais il demande à être élargi, réorganisé, pour être capable d’intégrer une nouvelle classe de situations. On peut appeler «genèse conceptuelle» (Pastré, 2011) cet élargissement du modèle opératif de l’acteur, qui est aussi un approfondissement. Il ne s’agit pas d’ajouter de nouvelles connaissances aux connaissances anciennes. Il s’agit d’une restructuration des ressources cognitives du sujet, dans une perspective qu’on peut qualifier de bachelardienne. La contradiction

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devient alors le support qui engendre une restructuration du modèle opératif de l’acteur. Comme le dit Canguilhem (1968), «Les contradictions ne naissent pas des concepts, mais de l’usage inconditionnel de concepts à structure conditionnelle». Ces genèses conceptuelles ne sont pas réussies par tous les opérateurs. Certains restent bloqués sur la contradiction rencontrée; ils conservent un modèle opératif pertinent, mais trop étroit pour embrasser de nouvelles classes de situations. D’autres expérimentent un véritable dépassement d’eux-mêmes en s’appuyant sur la contradiction rencontrée pour effectuer une genèse conceptuelle. Tous les apprentissages ne s’accompagnent pas de développement. Mais quand s’opère une genèse conceptuelle, on peut sans doute dire que l’apprentissage s’accompagne de développement, puisque ce sont les outils cognitifs du sujet qui sont élargis par cette restructuration. Les apprentissages professionnels se font principalement dans et par l’action. Mais il ne faudrait pas les cantonner à cela. Par rapport à l’action elle-même, on peut repérer un apprentissage avant, un apprentissage pendant et un apprentissage après. On n’insistera pas sur l’apprentissage avant: quand on a affaire à un domaine complexe, l’apprentissage commence généralement par l’assimilation de toutes les connaissances nécessaires pour que l’agent ne soit pas noyé au moment où il entre dans l’action. C’est un apprentissage très souvent nécessaire, mais on a vu qu’il n’était pas suffisant. Un point très intéressant est d’observer ce qui se passe en termes d’apprentissage après l’action, notamment dans les situations de debriefing, quand les acteurs sont amenés à revenir rétrospectivement sur leur activité pour chercher à la mieux comprendre. Une recherche sur l’apprentissage de la conduite de centrales nucléaires sur simulateur (Pastré, 2005) a montré que, lorsqu’ils sont soumis à des situations critiques, les apprenants perdent dans l’action la maîtrise des événements. Il leur arrive souvent d’agir à contretemps; ils ont le sentiment d’être embarqués dans une dynamique qui leur échappe. On a organisé, après l’action, des entretiens d’auto-confrontation, où les apprenants ont eu la possibilité de réinterpréter l’épisode qu’ils avaient vécu à l’aide de traces de leur propre activité. On s’est alors rendu compte que cet apprentissage après l’action était finalement plus important que l’apprentissage au cours d’action. En effet, les acteurs ne sont plus soumis au stress des événements. Comme ils savent désormais comment les choses se sont terminées, ils peuvent reconstituer l’intrigue de l’épisode, en repérant les enchaînements de causalité qui les ont conduits à l’issue qu’ils connaissent. Bref, ils reconstituent le sens de l’événement pour

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eux et réalisent ainsi l’apprentissage qu’ils n’ont pas pu faire totalement pendant l’action. Conclusion La didactique professionnelle a commencé par se centrer sur l’analyse du travail comme préalable à toute formation. C’était indispensable, dans la mesure où son objectif est d’articuler de façon forte le travail et l’apprentissage. Dans un second moment, elle s’est penchée sur les apprentissages professionnels. Elle est loin d’avoir fait aujourd’hui le tour de la question. Mais les résultats obtenus constituent un bon point de départ. On peut penser qu’une troisième étape est en train de se dessiner: beaucoup de recherches de didactique professionnelle se sont appuyées sur des dispositifs d’apprentissage qui se démarquent assez nettement des dispositifs proprement scolaires. Ces dispositifs ont beaucoup utilisé les simulations, mais il convient de généraliser le propos: il s’agit de concevoir des dispositifs qui permettent de produire des apprentissages par les situations. L’alternance, la validation des acquis de l’expérience en font partie au même titre que les simulations. Il devient important de réfléchir aux propriétés de ces dispositifs pour en élaborer la théorie. C’est sans doute la prochaine étape dans le développement de la didactique professionnelle. Présentation de l’Auteur: Pierre Pastré a été professeur titulaire de la chaire de communication didactique au CNAM (Conservatoire National des Arts et Métiers) à Paris. Il est actuellement professeur émérite du CNAM et président de l’Association «Recherches et pratiques en didactique professionnelle».

Bibliographie Brousseau, G. (1998), Théorie des situations didactiques, Grenoble, La Pensée Sauvage. Canguilhem, G. (1968), «Dialectique et philosophie du non chez Gaston Bachelard», in G. Canguilhem, Etudes d’histoire et de philosophie des sciences, Paris, Vrin, pp. 196-207. Clot, Y. (2008), Travail et pouvoir d’agir, Paris, PUF. Jaunereau, A. (2005), «Partir du raisonnement des agriculteurs pour élaborer un simulateur de mise en culture du colza», in Education Permanente, 165, pp. 115-126.

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Leplat, J. (1997), Regards sur l’activité en situation de travail. Contribution à la psychologie ergonomique, Paris, PUF. Maggi, B. (2003), De l’agir organisationnel. Un point de vue sur le travail, le bienêtre, l’apprentissage, Toulouse, Octares. Ochanine, D. (1981), L’image opérative, Paris: recueil de textes, doc ronéo, Laboratoire de Psychologie du Travail. Ombredane, A., Faverge, J.M. (1955), L’analyse du travail, Paris, PUF. Pastré, P. (2004), «Le rôle des concepts pragmatiques dans la gestion de situations problèmes: le cas des régleurs en plasturgie», in R. Samurçay, P. Pastré (dirr.), Recherches en didactique professionnelle, Toulouse, Octares, pp. 17-48. — (2005), «Analyse d’un apprentissage sur simulateur: de jeunes ingénieurs aux prises avec la conduite de centrales nucléaires», in P., Pastré (dir), Apprendre par la simulation, Toulouse, Octares, pp. 241-267. — (2011), La didactique professionnelle. Approche anthropologique du développement chez les adultes, Paris, PUF. Piaget, J. (1974), La prise de conscience, Paris, PUF. — (1974), Réussir et comprendre, Paris, PUF. Rey, B. (2007), «Pourquoi l’école s’obstine-t-elle à vouloir faire acquérir des savoirs?», in M. Durand, M. Fabre (dirr.), Les situations de formation entre savoirs, problèmes et activités, pp. 171-190. Savoyant, A. (2009), «Activité et expérience», in Travail et apprentissages, 5, pp. 119-126. Valot, C. (2006), Conférence donnée dans le séminaire doctoral, CNAM. Vergnaud, G. (1990), «La théorie des champs conceptuels», in Recherches en didactique des mathématiques, 10, pp. 2-3, 133-170. — (1996), «Au fond de l’action, la conceptualisation», in J.-M. Barbier (dir.), Savoirs théoriques et savoirs d’action, Paris, PUF, pp. 275-292. Vygotskij, L. (1997), Pensée et langage, traduction F. Sève, Paris, La Dispute.

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Comment penser la possibilité d’«apprendre des situations» pour des enseignants en formation: une co-élaboration entre chercheur et praticiens?

ISABELLE VINATIER

Abstract: What does it mean to analyze one’s professional practice at a time when teacher training is being standardized at the university level ? In a context where the trend is to quantify and codify professional activity, the issues surrounding the parameters for the “analysis of professional practice” must be brought into question. This article presents a paradigm for the option of “co-explanation” (Vinatier, 2009). In this critical setting, evidence of professional activity (transcripts of the audio recording of classroom time that was considered as significant for the participants) becomes the focus of a collaborative analysis between researchers and practitioners. This arrangement is grounded in the theoretical field of professional didactics (Pastré): its goal is the development of “capable subjects” (Rabardel). A capable subject is one who subordinates his or her need for knowledge to his or her possibilities to take action. For the author of this article, s/he is also a subject who constructs and designs his or her own resources, according to their own norms of emancipation. Résumé: Que signifie analyser sa pratique professionnelle à l’heure de l’universitarisation de la formation des enseignants ? Dans un contexte qui pousse à la quantification et à la codification de l’activité professionnelle, un questionnement portant sur les enjeux des dispositifs «d’analyse des pratiques professionnelles» est nécessaire. Dans cet article sont présentés les fondements paradigmatiques d’un dispositif de «co-explicitation» (Vinatier, 2009). Dans un tel dispositif, ce sont les traces de l’activité professionnelle (transcription de l’enregistrement audio de moments de classe jugés significatifs pour les acteurs) qui font l’objet d’une co-élaboration de l’analyse entre chercheur et praticiens. Ce dispositif est ancré dans le champ théorique de la «didactique professionnelle» (Pastré); il a pour visée de développer des«sujets capables»(Rabardel). Un«sujet capable» est un sujet qui subordonne son besoin de connaissances à ses possibilités d’action. Pour l’auteur de cet article, c’est aussi un sujet qui construit et élabore ses propres ressources, à savoir sa professionnalité, selon ses propres normes d’émancipation. Mots clés: didactique professionnelle, analyse de l’activité, collaboration entre chercheur et professionnels, apprendre des situations.

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Dans le champ de l’activité enseignante, les dispositifs dits “d’analyse de pratiques”, qui en France étaient en bonne place dans la formation initiale des enseignants en IUFM, constituent un des moyens les plus puissants du développement professionnel. Ces dispositifs n’ont pas tous les mêmes références théoriques: certains s’appuient sur une entrée de type psychanalytique, je pense aux groupes Balint enseignants “groupes de soutien au soutien” initiés par J. Lévine (2001), ou encore aux travaux de Cl. Blanchard-Laville (1998); ou de type didactique, axés sur l’analyse de productions d’élèves (Mercier, 2001; Lenoir, 1998). D’autres encore se fondent sur une théorie de l’activité humaine et utilisent des démarches pour amener les professionnels à réévoquer mentalement leur pratique professionnelle. L’activité réflexive des professionnels est engagée au moyen de techniques d’entretien. Les entretiens d’explicitation (Vermersch, 2008), le GEAS (Groupe d’Entraînement à l’Analyse des Situations éducatives)1 sont des “techniques d’aide à l’explicitation” dont l’objectif est de guider le professionnel vers une verbalisation précise du déroulement de ses actions, encore appelée “auto-explicitation”. On pourrait également évoquer les “méthodes d’analyse de l’activité” qui, visant le développement de l’action, sont formalisées par Y. Clot (2008) sous l’espèce de“l’instruction au sosie”2 et par D. Faïta (1997) avec “l’auto-confrontation croisée”. Toutes visent à une meilleure maîtrise de son activité par l’acteur concerné. Les différences essentielles relèvent de l’orientation des analyses menées (didactique, psychanalytique, identitaire, pragmatique, etc.) et tiennent au support choisi (enregistrements de la situation, verbalisation du vécu de l’acteur, etc.). Or, dans ce panorama déjà consistant, il importait pour moi de faire figurer un questionnement portant sur le rapport entre chercheur-formateur et professionnels lorsqu’il s’agit d’aider un de ces derniers à mettre en mots son activité professionnelle. Ce rapport mérite d’autant plus d’être interrogé que l’analyse des situations de travail est portée par l’interaction entre un chercheur-formateur et un professionnel: quels sont les enjeux de ces échanges verbaux ? En quoi et comment les rapports entre chercheur-formateur et professionnels de terrain peuvent-ils générer de l’apprentissage? Qu’est-ce qui peut se construire dans cette interaction? Pour quelle fin? N’y a-t-il pas là un moyen de fédérer les apports de la recherche avec ceux des terrains professionnels, à l’heure d’une formation des enseignants reprise par l’université? Y a-t-il un fondement paradigmatique à ce questionnement, et si oui, lequel? Quelles en sont les conséquences pour penser une formation des formateurs de terrain? Dans le cadre de la formation des enseignants, avec un ancrage théori-

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que dans le champ théorique de la didactique professionnelle (Pastré, 2002; Pastré, Mayen, Vergnaud, 2006) je développe des dispositifs dits “d’analyse de l’activité” (Vinatier, 2009) fondés sur le principe de la“co-explicitation” entre le chercheur et les professionnels. Ces dispositifs répondent à des besoins spécifiques d’enseignants volontaires qui collaborent à un dispositif de formation porteur d’un enjeu de recherche. Les enseignants manifestent leur intérêt à participer à ce dispositif pour répondre à leurs besoins: manque ou perte de connaissance sur ce qu’ils font, mal-être dans la gestion d’un groupe, perte de confiance dans leurs compétences, lassitude, alors que le chercheur a, lui, réciproquement, besoin des professionnels pour comprendre les enjeux des situations éducatives et les savoirs d’expérience qu’il est nécessaire de mobiliser pour faire face à la complexité des situations d’enseignement-apprentissage. Une orientation dans l’analyse de l’activité enseignante Comme le décrivent R. Samurçay et P. Rabardel (2004) à partir du cadre-outil d’analyse des compétences qu’ils ont développé, People At Work (PAW), il y a dans toute activité humaine deux faces: “une activité productive et une activité constructive”. La première relève de la transformation du réel par le professionnel, la deuxième relève de la transformation du professionnel par lui-même, laquelle procède du développement de la personne dans le temps. Je reprends à mon compte cette double dimension de l’activité comme un des fondements du fonctionnement de la dynamique des dispositifs de recherches collaboratives que j’ai mis en place. En effet, un principe essentiel consiste à établir une alternance entre une analyse des situations de travail à partir des traces de l’activité langagière d’un enseignant, son activité productive (des retranscriptions des échanges verbaux avec ses élèves lors de séances de classe ou lors de moments de classe) et l’analyse de ces traces pour essayer de repérer les compétences ou “connaissances en acte” (Vergnaud, 2006) qu’il a développées dans son expérience pratique, son activité constructive (les savoirs expérientiels qu’il est en mesure de mobiliser “in situ” afin de faire face à la situation à laquelle il se trouve confronté). Cette double dimension de l’activité renvoie à l’idée que dans toute situation de travail un professionnel certes apprend mais surtout qu’il apprend d’autant mieux qu’il dispose d’un espace pour analyser son expérience passée (dispositif d’analyse prévu à cet effet). Vues sous l’angle de l’activité productive, ses connaissances (théoriques, techniques

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et expérientielles) ont un statut d’outil à sa disposition afin de pouvoir agir au mieux et de pouvoir répondre aux besoins de la situation. Par contre, vues sous l’angle de l’activité constructive, ces mêmes connaissances ont un statut d’objet. Si le sujet se développe lui-même à travers l’activité qu’il déploie, une posture réflexive orientée vers l’élucidation des connaissances non seulement productives (visant l’efficacité de l’action) mais également constructives (liées au développement de la personne pour elle-même) a une forte valeur heuristique dans la perspective du développement de sa professionnalité. Une de nos hypothèses fondamentales est de penser que si l’on travaille à la compréhension de l’activité déployée par un professionnel dans le cadre de son expérience en faisant alterner le poids donné à la compréhension de l’activité productive et celui donné à l’activité constructive, alors on donne des outils à un professionnel pour qu’il s’approprie la part d’implicite de son activité professionnelle et qu’il développe son pouvoir d’action par et pour lui-même. Cette hypothèse se fonde sur l’idée d’une “pluri-détermination” (Samurçay, Rabardel, 2004) des connaissances: «la dynamique de l’activité productive, la dynamique de l’activité constructive et la dynamique du développement des savoirs socialisés». L’idée de “pluri-détermination” est l’idée que les connaissances professionnelles sont à la fois ressources (pour l’action), produites (par l’activité constructive) et déterminées (par l’ensemble des savoirs socialisés ayant fait l’objet de transmission). Penser cette “pluri-détermination” de manière dynamique, c’est inviter le chercheur à repérer les réseaux conceptuels qui peuvent être tissés entre ces différents registres de connaissances dans une articulation entre pratique-théoriepratique (Altet, 1994). 1. La dynamique de l’activité productive traduit le fait que c’est le sujet qui oriente et guide l’action et se sert de ses connaissances comme d’une ressource dans le cadre de la gestion des situations d’enseignement-apprentissage. Lorsque le vécu de l’enseignant va dans le sens d’une dévalorisation de cette dimension de ses compétences, surtout lorsqu’il est confronté quotidiennement à la résistance des élèves aux apprentissages c’est la personne même dans son fondement qui est blessée. Cette dimension interroge la forte pression politique qui, à un niveau international, tente d’orienter les recherches en éducation dans le sens du repérage des pratiques efficaces au détriment de la prise en compte du réel de l’activité enseignante dans toute sa complexité. Cette interrogation, certes, possède sa part de légitimité. Cependant, les recherches qu’elle induit par son format se condamnent à

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manquer non seulement la multidimensionnalité des variables en jeu, mais aussi les facteurs de détermination du fonctionnement des situations d’enseignement-apprentissage, en elles-mêmes extrêmement complexes. L’essentiel de cette activité professionnelle consiste dans une co-activité interactionnelle à propos d’un savoir: à l’activité de l’enseignant répond l’activité de l’élève et réciproquement. Pour une large part, cette co-activité est imprévisible et soumise aux aléas en situation. Par ailleurs, elle relève d’une discordance des temps: le temps d’une séance préparée et menée avec les élèves ne recouvre pas le temps de l’apprentissage, qui est un temps long. Ces dimensions de l’activité enseignante entraînent souvent de la part des maîtres un manque de visibilité de leur pratique, fréquemment accompagné d’une auto-dépréciation lorsqu’il s’agit notamment d’enfants en difficulté d’apprentissage. Il peut être alors intéressant de travailler au niveau de la construction même de la personne dans son activité de travail, c’est ce à quoi nous renvoie la deuxième dynamique des connaissances évoquées ci-dessus. 2. La dynamique de l’activité constructive traduit le fait que les connaissances sont orientées et contrôlées par le sujet en situation. Dans le cadre des dispositifs d’analyse de l’activité que je mets en place, c’est cette deuxième dynamique qui va particulièrement retenir mon attention. La part constructive de l’activité est celle qui est la moins accessible, pour un enseignant, surtout lorsqu’il a des difficultés à repérer son “efficacité” en situation. Notre orientation de travail consiste alors à penser qu’un accompagnement d’enseignants volontaires guidés par une analyse de leur pratique vers la perspective d’un repérage des connaissances qu’ils mobilisent dans leur pratique professionnelle est une démarche heuristique pour les aider à réamorcer, pour les uns, ou à chercher à développer, pour d’autres, une maîtrise de ce qu’ils mettent en œuvre “in situ”. L’approche est qualitative et adopte une posture compréhensive: conjugaison des observables et du sens que donne l’acteur à sa pratique. Il s’agit: – d’identifier les processus en jeu dans une pratique singulière en situation, – de repérer la façon dont un maître fait avancer son projet et gère sa place de maître dans sa classe face aux élèves (articulation entre enjeux de contenu et enjeux intersubjectifs). Notre objet de recherche est largement orienté vers l’idée de comprendre ce qu’un professionnel a construit comme connaissances dans le cadre de sa pratique, avec l’idée qu’icelles ont besoin d’être verbalisées, débattues,

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et “reconfigurées”, pour reprendre une expression de P. Ricœur, si l’on veut qu’elles puissent être objet de développement professionnel. C’est cette dimension constructive de l’activité qui est l’objet d’un travail réflexif avec les professionnels, articulé à leurs motivations et valeurs dans les dispositifs de “co-explicitation” que je mets en place depuis maintenant dix ans dans le champ de l’enseignement et dans ceux de l’éducation et de la santé, avec la collaboration de formateurs dans les différents champs professionnels considérés. Lorsque ces connaissances sont reprises au niveau du collectif des professionnels, on a effectivement affaire à la troisième dynamique évoquée ci-dessus, celle des savoirs socialisés. 3. Reprise collectivement entre le chercheur et un groupe de professionnels, ces connaissances sont inscrites dans une circulation, un partage et une reconfiguration des savoirs professionnels verbalisés à propos de la situation singulière qui est présentée. Dans l’orientation que j’ai prise, il nous fallait un dispositif de formation qui permettrait d’explorer le rapport du sujet à ses situations de travail mais également le rapport du sujet à lui-même et à d’autres, ses pairs et le chercheur. L’activité productive est repérable dans des traces langagières (les échanges avec les enfants), l’activité constructive est particulièrement repérable dans les choix des échanges langagiers qu’il rapporte à l’analyse du collectif (les transcriptions qu’il a lui-même choisies). Des dispositifs de co-explicitation Les “dispositifs de co-explicitation” (Vinatier, 2009)3 sont porteurs d’un enjeu de recherche et d’un enjeu de formation. Ils ont été élaborés à partir des concepts outils de la théorie de l’activité de G. Vergnaud (1990) qu’il nous semble ici nécessaire de présenter succinctement puisqu’ils nous ont amenée à concevoir: 1) la mise en place d’une ingénierie de formation et 2) la formalisation d’une démarche d’accompagnement permettant à des formateurs de terrain d’analyser leur pratique professionnelle “par et pour” eux-mêmes. La fin que nous poursuivons est celle du développement d’un“sujet capable” (Rabardel, 2005)4, c’est-à-dire d’un sujet critique qui subordonne ses besoins de connaissances à des choix d’actions conscientisés et assumés, voire revendiqués5. Il ne s’agit pas d’engager les professionnels à codifier et à quantifier leur activité. Car, comme l’indiquent Dardot et Laval (2010)6: «codifier et quantifier une activité ont précisément pour vertu de la réduire à une donnée d’information simple qui peut conduire à

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une décision rapide et à une sanction sans discussion sur le marché. C’est bien cette logique qui s’est étendue grâce à la diffusion des outils du management à la gestion des services et des hommes dans les entreprises et, maintenant, dans les domaines d’activité les plus divers. Par ces procédés et ces techniques, toute une discipline comptable de ces individus se met en place» (Dardot, Laval, 2010, 45). Pour les auteurs cités, la quantification de l’activité vise une modification de la subjectivité qui consiste à constituer l’acteur professionnel en “sujet de la valeur”7. Cette orientation nie la nécessité d’une analyse réflexive de l’activité pouvant inciter des professionnels (enseignants et formateurs en ce qui nous concerne) à une formalisation du sens de leur activité et donc des fins qu’ils poursuivent. Elle recourt par ailleurs à une auto-évaluation, «une subjectivité comptable, vouée à sa propre exténuation» (Ibidem, 48), afin de mieux répondre à des normes d’efficacité chiffrées et d’en attendre une récompense ou une punition. Le modèle du sujet ici convoqué repose sur la compétition interpersonnelle, la rivalité, la concurrence. Les concepts et méthodes issus de la théorie sont, dans notre perspective, à considérer comme des ressources mises à la disposition d’un collectif de professionnels. La conceptualisation verbalisée de leur activité est mobilisée par la tension entre “style” (individuel)8 et “genre” (collectif )9 leur permettant de s’ouvrir à des possibilités nouvelles d’action. Une théorie de l’activité comme ressource pour analyser l’activité Aider un professionnel à passer d’une pensée en acte à une conscience de son activité de pensée est un enjeu fort des dispositifs de co-explicitation. Pour tout professionnel, développer une conscience de son activité, c’est apprendre de ses situations en même temps que se déprendre du contexte dans lequel il se trouve engagé. Cette prise de conscience suppose conceptualisation. Une activité professionnelle devient activité de pensée pour un acteur particulièrement lorsqu’il lui semble souhaitable de mieux la maîtriser ou lorsqu’il vise à développer des connaissances sur cette activité. Les liens entre représentations et actions sont complexes et les unes ne sont pas un décalque des autres. Il est d’ailleurs nécessaire d’établir une distinction entre la représentation “dans” l’action et la représentation “de” l’action. Cette dernière se situe dans un deuxième temps, en décalage par rapport à l’action, et peut se développer sous certaines conditions que nous proposons

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d’explorer. Pour mieux comprendre la liaison qui peut être établie entre représentation et action, il n’y a rien de plus pratique, comme le rappelle G. Vergnaud citant J. Dewey, qu’une bonne théorie. La théorie de G. Vergnaud revisitée par P. Pastré Comme il le précise lui-même dans la présentation de sa théorie dans un article de la revue Intellectica10, G. Vergnaud se situe dans la filiation conceptuelle à J. Piaget. Il reprend la notion centrale de “schème” et la développe en l’articulant à la notion de “situation”. Pour lui, c’est là le concept qui permet le mieux de montrer en quoi une activité, toute activité en général, est organisée. Le couple conceptuel “schème-situation”, écrit-il, est la clef de voûte de la psychologie cognitive et de la théorie de l’activité pour cette raison simple que, la connaissance étant adaptation, ce sont les schèmes qui s’adaptent, et qu’ils s’adaptent à des situations. Il donne du concept de schème plusieurs définitions complémentaires les unes des autres. Sa première définition est d’ordre fonctionnel: «le schème est une forme invariante d’organisation de l’activité pour une classe de situations déterminée». Au regard de notre questionnement, une première visée des recherches collaboratives que nous avons mises en place consiste à tenter d’identifier, en collaboration avec les professionnels, des classes de situations. Comment définir une classe de situations lorsque celles-ci sont référées à des situations d’accompagnement de professionnels novices par des professionnels expérimentés? Une deuxième définition du schème, qu’énonce généralement G. Vergnaud, est d’ordre analytique, elle en précise les éléments constitutifs et en vient à exprimer l’idée que le schème est ce qui engendre l’activité au fur et mesure de son déroulement. Cette deuxième définition permet de faire le lien entre le caractère conditionnel de l’activité et la conceptualisation du réel. Il est essentiel d’identifier tous ces éléments constitutifs si l’on veut comprendre comment fonctionne un schème. Ainsi, dans un schème il y a “des buts, des sous-buts et des anticipations”. L’attente, l’intention d’une personne sont à intégrer dans le concept de schème lui-même. L’activité en tant que totalité dynamique fonctionnelle consiste dans une “succession de règles de prises d’information et d’actions” qui peuvent être organisées simultanément et séquentiellement. De la même façon, “les contrôles émaillent le déroulement de l’activité”. C’est particulièrement vrai quand on analyse l’activité verbale d’une personne au niveau d’une

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interaction dont chaque épisode rend compte d’une certaine organisation de son activité. Cette composante est la partie proprement générative du schème, c’est elle qui engendre l’activité dans son déroulement temporel. Ces règles engendrent la conduite mais aussi des “inférences” et des “processus de régulation”. L’organisation de l’activité repose sur des “conceptualisations”. Les “invariants opératoires” − concepts-en-acte et théorèmes-en-acte − représentent la partie la plus directement épistémique du schème. Un schème engendre une diversité de conduites et d’activités selon les caractéristiques particulières des situations rencontrées. Dans l’articulation profonde entre schème et “invariants opératoires” «ce qui se conserve sous certaines transformations», il y a l’idée que ce sont ces invariants qui permettent de prélever et de sélectionner l’information pertinente. Nous sommes renvoyés au fond le plus général de la pensée par cette idée de «ce qui est le même sous le différent». Par définition, écrit G. Vergnaud, un théorème-en-acte est «une proposition tenue pour vraie (par le sujet) dans l’activité». S’il n’y a pas de concept sans théorème, pour autant, «il est important de reconnaître qu’un concept-en-acte est toujours constitué de plusieurs théorèmes-en acte, dont la formation peut s’échelonner sur une longue période de temps au cours de l’expérience et du développement». On l’aura compris, l’analyse visée dans les dispositifs que nous mettons en place relève d’un processus de conceptualisation de l’activité déployée par un acteur dans une situation et dont on va chercher à repérer la dimension générique pour l’acteur et en quoi elle fait écho à l’expérience du collectif des professionnels qui participent à l’analyse. Cette théorie du développement humain a été transposée par P. Pastré au fonctionnement de l’adulte au travail. Le travail est analysable, on peut identifier ses composantes à partir de cette théorie et en sachant que ce que font réellement les personnes, qui ne recouvre jamais strictement ce qui est attendu d’elles, peut être énoncé et formalisé. A ce titre, il a développé la notion de “concepts pragmatiques”, organisateurs de l’action en situation. Pour P. Pastré, il existe des concepts pragmatiques dans la plupart des activités professionnelles. Il les caractérise par trois propriétés: – Les concepts pragmatiques “servent principalement à faire un diagnostic de situation en vue de l’action efficace”. Un diagnostic de situation, écrit-il, suppose que l’acteur sélectionne ce qui dans la situation est vraiment pertinent. La visée pragmatique se traduit donc par une dimension sémantique: il s’agit de construire des relations de signification entre des indicateurs et des variables fonctionnelles pour pouvoir faire un diagnostic de situation.

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– “ils sont présents dans la situation”, non pas à titre de concepts, mais à titre de dimensions pertinentes du réel, qu’il s’avère indispensable de prendre en compte pour avoir une action efficace; – “ils sont présents dans la représentation des acteurs” − quand ceux-ci ont opéré une conceptualisation adéquate − comme principes d’organisation de l’action efficace. L’enseignement et la formation sont des activités professionnelles qui ont la particularité de fonctionner en interaction avec l’apprentissage d’un élève, d’un novice et qui visent leur développement. Le diagnostic de situation ne porte pas seulement sur l’objet des échanges mais il convoque également des enjeux intersubjectifs mis en exergue par la formule de M. Pêcheux (1969)11 ainsi résumée: qui-suis je pour lui parler ainsi et pour qu’il me parle ainsi? Qui est-il pour me parler ainsi et pour que je lui parle ainsi? Le diagnostic de situation n’est pas indépendant de l’histoire des personnes et de leur engagement subjectif dans la situation. Cela explique certaines réactions verbales et certains formats interactionnels qui ne peuvent pas être attribués à un diagnostic seulement orienté par des enjeux d’apprentissage de savoirs disciplinaires ou professionnels mais aussi par des positionnements interpersonnels. La théorie de G. Vergnaud que nous revisitons par la prise en compte de l’engagement subjectif de la personne au travail Dans les situations d’enseignement-apprentissage et de formation, deux types de pertinence sont à prendre en compte: les besoins de la situation et les besoins de la personne. Cerner la conceptualisation des interlocuteurs dans leur gestion des interactions: les buts qu’ils poursuivent, les règles d’action, de prise d’information et de contrôle qu’ils mobilisent, et comprendre alors les principes qu’ils tiennent pour vrais suppose la prise en compte de cette nécessaire articulation entre les dimensions pertinentes de la situation professionnelle et les dimensions pertinentes de l’histoire de la personne. Pour penser cette nécessaire double lecture du positionnement des interlocuteurs, nous donnons aux “invariants opératoires, ou principes tenus pour vrais en situation”, une double orientation que nous traduisons conceptuellement en termes “d’invariants situationnels” et “d’invariants du sujet”.

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– Les “invariants situationnels” sont ceux qui correspondent à la prise en compte des caractéristiques essentielles de la situation se rapportant à un champ professionnel (Vinatier, 2009)12. – Les “invariants du sujet” (Vinatier, 2006, 2009), d’une toute autre nature, sont aussi présents dans la situation, ils expriment une dimension opérationnelle de la personnalité des acteurs. Par leur fonctionnement en situation, ils peuvent s’opposer, ou inversement donner plus de force et de portée aux ressources adaptatives des invariants situationnels mobilisés par le sujet pour répondre aux dimensions pertinentes de la dynamique interactionnelle. Ces deux types d’invariants, à savoir, d’un côté, la dimension opérationnelle de la connaissance et, de l’autre, l’implication subjective de la personne, se nouent dialectiquement dans le processus de conceptualisation du sujet au travail. La mise en œuvre des dispositifs de co-explicitation La constitution d’un collectif de professionnels ayant pour visée une analyse de leur propre activité de travail implique un engagement volontaire de chacun d’eux. Cette caractéristique est une condition du bon fonctionnement du dispositif lui-même. Nous avons expérimenté ces dispositifs dans le secteur de l’éducation (avec des conseillers pédagogiques et des maîtres formateurs) mais aussi dans le secteur sanitaire et social (avec des formateurs terrain éducateurs spécialisés, éducateurs de jeunes enfants et assistants de services sociaux), et il s’est avéré que cet engagement volontaire a eu pour corollaire une collaboration (entre chercheur-formateur et professionnels de l’accompagnement) dans la conceptualisation des enjeux de leur accompagnement des novices. Nous parlons de “dispositifs de co-explicitation” dans la mesure où le chercheur propose son analyse des situations professionnelles transcrites et la soumet à négociation avec le professionnel concerné. Pour Vygotski, le monde est codé par le langage. La nature, notre environnement de tous les jours sont en constante évolution, notre univers est transformé par l’histoire et la culture et le langage est un moyen de mettre en ordre ce que nous pensons des choses. La pensée permet d’organiser la perception et l’action. Le langage et la pensée, chacun à sa manière, sont des outils et de l’aide disponibles dans une culture pour mener à bien une action. En effet, la société nous procure un ensemble d’outils, de concepts, d’idées et de théories qui nous permettent menta-

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lement d’atteindre des formes de la connaissance qui diffèrent de celles des hommes des générations antérieures. Encore faut-il que les contextes sociaux les favorisent. Les contenus des échanges qui se sont tenus entre professionnels dans le cadre des dispositifs de co-explicitation, reflètent des visions du monde, des valeurs, des modes d’organisation qui s’élaborent dans la dynamique même des interactions. Ces dernières expriment des formes d’engagement et de participation au groupe de travail. Il n’y a pas seulement conceptualisation de situations professionnelles. Il y a dans la dynamique même de l’interaction des “objets” du discours qui sont amendés, transformés ou encore repris, retenus, qui font consensus et qui traduisent une version collectivement partagée, “prototypique” d’une identité professionnelle en construction individuelle mais aussi collective. Un sujet construit son identité professionnelle, interactivement dans le cadre de son travail. On peut aussi lui en fournir l’occasion dans le cadre d’une analyse collective qui favorise l’appropriation de ses situations. «Le mot identité qui porte en lui sa racine “idem”, le même, ne prend son sens que dans une dialectique, où la similitude renvoie au dissemblable, la singularité à l’altérité, l’individuel au collectif, l’unité à la différentiation»13 écrit Vincent de Gaulejac. Un contrat de communication L’engagement volontaire des professionnels a pour corollaire la construction d’un objet de recherche partagé entre le chercheur et les professionnels comme première condition du bon fonctionnement du dispositif lui-même. Comme évoqué plus haut, un “dispositif de co-explicitation” (Vinatier, 2009, opus cité) suppose que le chercheur propose son analyse des situations professionnelles transcrites et la soumette à négociation avec l’acteur. Il s’agit d’aider ce dernier, ainsi que le collectif, à se mettre à distance d’avec la situation en provoquant un décalage par rapport au vécu de chacun. Menée conjointement par les professionnels et le chercheur, l’analyse des interactions verbales prélevées lors des regroupements, outre le fait de développer des connaissances sur l’activité analysée montre comment une co-élaboration conceptuelle de la situation permet aux acteurs de cheminer dans le dialogue avec leurs situations. Ce qui apparaît clairement ce sont les tensions auxquelles sont soumis les professionnels, les enjeux identitaires auxquels ils sont renvoyés, et l’élargissement du pouvoir d’agir auquel ils aspirent. Cette perspective partagée et référée aux traces de l’activité, en

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situation, implique un contrat de communication entre les interlocuteurs. Ce contrat stipule qu’il s’agit de comprendre, par l’analyse, l’activité professionnelle en question et il installe un “format des échanges”, de différents points de vue: – les interlocuteurs en présence, chercheur et praticiens, utilisent leur position d’extériorité réciproque pour co-élaborer un discours sur l’activité. Pour un acteur, proposer à l’analyse du collectif la transcription d’une situation de travail dans laquelle il est impliqué est une forme de don, une prise de risque pour sa personne. Dans une logique de “contre-don”14 (Mauss, 2001) la théorie du chercheur, convoquée pour proposer une analyse de la situation, est mise en discussion avec les théories construites par les professionnels dans le cadre de leur expérience. Ce processus crée un espace d’interprétation à partager par chaque interlocuteur; – la finalité poursuivie par les échanges consiste à comprendre et non à juger. Il s’agit de coopérer à la compréhension mutuelle des savoirs professionnels: travail de coordination des cadres théoriques de la recherche et des savoirs pragmatiques, expérientiels; – aucun intervenant, fût-ce au titre de son domaine d’expertise, n’a de prise de position surplombante qui soit acceptable: les enjeux intersubjectifs de la séance sont circonscrits au développement d’un processus de collaboration et le chercheur en est le garant. – la démarche, dans les regroupements collectifs, est ainsi, dans sa structuration, toujours la suivante: 1. l’acteur décrit la situation, le contexte, et propose une analyse au regard de son vécu; 2. les autres professionnels du groupe de travail sont amenés à partager ce qu’évoque pour eux cette situation (il se trouve que chaque situation possède génériquement un fort pouvoir d’évocation); 3. le chercheur propose l’analyse du corpus avec les outils théoriques qui sont les siens; 4. l’acteur a le dernier mot. Partir des traces de l’activité Toute trace, nous dit Ricœur, est un “effet-signe”, elle permet la connexion de deux régimes de pensée: elle marque le passage de l’acteur, elle est objet de la “quête”, de l’explicitation et elle oriente “l’enquête” du collectif. Dans

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le cadre du dispositif, les professionnels sont invités à suivre leurs propres traces, à prendre en compte leur activité restituée par l’enregistrement et le décryptage de leurs séances de travail. La trace est un instrument de la mémoire qui marque le passage du professionnel dans sa situation, ses aspirations, ses perspectives, en même temps qu’elle est une marque de l’expérience du sujet. Expliciter son expérience suppose donc de considérer à la fois “l’activité productive du sujet” (ce qu’il a effectivement produit et que recueillent en partie les transcriptions) et “son activité constructive” (le sens qu’il a donné à son activité productive et développé dans le cadre de son expérience professionnelle)15. C’est dans ce sens que les professionnels sont invités à considérer leur activité comme œuvre, à la regarder comme telle. Au niveau du collectif de professionnels, la trace de l’activité, objet des échanges, se situe à un double niveau, celui de l’interaction en situation (enregistrements et transcriptions prélevées dans les situations); et celui constitué par les échanges entre les professionnels (transcriptions des séances de co-explicitation) qui sont transmis aux professionnels avant chaque nouvelle séance. La trace favorise la projection de leurs préoccupations dont la quête peut être une illustration. Conclusion et discussion Ainsi le fonctionnement du dispositif s’appuie sur des médiations à différents niveaux: la trace de l’activité, l’analyse du chercheur et le fonctionnement du collectif. La notion de “sujet capable” développée par P. Rabardel ouvre une orientation de recherche sur un modèle de développement du sujet, y compris à l’âge adulte, sujet qui n’est pas d’abord un sujet épistémique (orienté vers la production de connaissances), mais aussi et avant tout un sujet pragmatique et capable (orienté d’abord vers l’action) qui par conséquent dit “je peux” “avant même” de dire “je sais”. “Je peux”au sens de «je suis capable de, j’en ai la puissance». Les motifs (besoins personnels) de la personne, écrit-il, peuvent se trouver en conflit avec les buts proposés par ses milieux d’appartenance. En fonction des singularités des situations, il peut y avoir correspondance négative ou positive entre ses motifs (personnels) et les buts (liés aux situations auxquelles elle est confrontée). Ces tensions vont produire une mobilisation du sujet comme instance de choix. Ce dernier est alors amené à se déterminer pour dépasser les

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conflits que cela peut entraîner chez lui. On est ainsi fondé à considérer ces tensions comme porteuses de sens pour le sujet professionnel. C’est dans ce conflit entre ses motifs personnels et les besoins de la situation, entre une identité en acte (Vinatier, 2009) et une identité parlée, que le sujet va construire, élaborer, ses propres ressources, constitutives de son pouvoir d’agir. En analysant des situations d’interactions entre un enseignant et des élèves, mais aussi entre un conseiller et un débutant, on repère l’incursion de l’intersubjectivité entre les interlocuteurs en présence dans la gestion des savoirs à transmettre. C’est cette articulation qui est l’expression d’une identité en acte, toujours autre qu’une identité parlée. Dans le champ de recherche qui est le mien, celui de «la didactique professionnelle», lequel est porteur d’une question centrale, celle de savoir comment un professionnel peut apprendre des situations, il me semble de plus en plus nécessaire de travailler au développement de recherches qui viseraient à donner des outils aux formateurs concernés pour mener cette analyse réflexive. Il s’agit de leur permettre de vivre, par et pour eux-mêmes, ce qu’engage la recherche d’une reprise réflexive de leur activité d’accompagnement des débutants. Présentation de l’Auteur: Isabelle Vinatier est professeur des universités en Sciences de l’Education à l’université de Nantes. Elle est membre du CREN EA 2661 (Centre de Recherches en Education de Nantes) et responsable de l’axe de recherche intitulé “Analyse de pratiques, analyse de l’activité, formation et professionnalisation”. http://www.cren-nantes.net/spip.php?article32. Elle est également responsable de la mention d’un Master intitulé “Sciences de l’Education et de la Formation” (5 spécialités) et d’un parcours professionnel intitulé “Formation de Formateurs par l’Analyse des Situations de Travail” (FFAST) au sein de la spécialité “Métiers Pratiques et Recherches en Education et Formation” (MPREF).

Notes 1 On peut trouver une présentation des séances dans un article de Maurice Lamy: M. Lamy (2002), «Propos sur le G.E.A.S.E.», in Expliciter, 43, 1-13. Available from: www.expliciter.net. 2 L’exercice d’“instruction au sosie”, a été mis au point à la Fiat dans les années 1970 par Oddone au cours des séminaires de formation ouvrière de l’université de Turin (Oddone et al., 1981).

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Isabelle Vinatier

3 I. Vinatier (2009), Pour une didactique professionnelle de l’enseignement, Rennes,

PUR, col. Païdeia. 4 P. Rabardel, P. Pastré (2005), Modèles du sujet pour la conception, Toulouse, Octarès. 5 La question de la fin poursuivie par le dispositif est fondamentale dans le contexte idéologique actuel qui contraint chaque individu à se faire valoir par une évaluation quantitative de son activité. Comme l’indiquent en effet P. Dardot et Ch. Laval («Néolibéralisme et subjectivation capitaliste», in Cités, 41, P.U.F. 2010, p. 43): «L’évaluation quantitative sera le mode par lequel on peut guider les individus, les contraindre à se contrôler eux-mêmes, les transformer en sujets du calcul constitués de telle sorte qu’ils poursuivent les objectifs qui leur ont été assignés comme s’il en allait de leur propre désir». 6 P. Dardot, Ch. Laval, art. cit., pp. 35-50. 7 Il s’agit d’une caractéristique sociale, individuelle qui rend les individus comparables entre eux, et qui revient à donner de la substance à une “quantité moyenne de travail socialement nécessaire” pour se conformer à la production d’un travail chiffré car chiffrable. Cela dit, cette notion de “sujet de la valeur” ou, tout aussi bien, celle de “sujet du calcul” qu’évoquent les auteurs précités, se pense ici selon un paradigme qui rompt radicalement avec celui qui porte ce que j’appelais le “sujet capable”. Ce dernier se construit dans la dynamique de son propre développement, pour son compte, selon les normes de son émancipation. Le “sujet de la valeur”, lui, est “assujetti” dans la mesure où il est “constitué” comme tel par une pression externe (celle de la concurrence) que l’individu intériorise et qu’il finit par considérer comme la norme de sa subjectivité. De sorte qu’il finit par croire que c’est lui qui veut la valeur ou le calcul, comme si la concurrence, qui est leur enjeu, était l’expression de son désir. Il s’agit d’un sujet aliéné. 8 La manière dont le sujet professionnel s’approprie et transforme les règles d’un métier, voire les transforme. 9 L’ensemble des règles du métier, souvent implicites, et qu’il est nécessaire de faire expliciter. Le “style” et le “genre” sont deux notions développées par Y. Clot (2006). 10 G. Vergnaud (2001), «Piaget visité par la didactique», in Intellectica, 33, pp. 107-123. 11 M. Pêcheux (1969), L’analyse automatique du discours, Paris, Dunod. 12 I. Vinatier (2009), Pour une didactique professionnelle de l’enseignement, Rennes, P.U.R., col. Païdeia. 13 V. De Gaulejac (1987), La névrose de classe, trajectoire sociale et conflits d’identité, Paris, Hommes & groupes éditeurs, p. 98. 14 M. Mauss (2001), Sociologie et anthropologie, PUF, coll. « Quadrige ». Le don est présenté comme une structure paradoxale d’échange social marquée par une triple obligation: donner, recevoir et rendre. 15 La distinction entre “activité productive” et “activité constructive” est développée par P. Rabardel et R. Samurçay dans l’ouvrage coordonné par R. Samurçay et P. Pastré (2004), intitulé: Recherches en didactique professionnelle, Toulouse, Octarès.

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Comment penser la possibilité d’«apprendre des situations»

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Bibliographie Altet, M. (1994), La formation des enseignants, Paris, P.U.F. Blanchard-Laville, Cl., Fablet, D. (1998), Analyser les pratiques professionnelles, Paris, L’Harmattan. Clot, Y. (2008), Travail et pouvoir d’agir, Paris, P.U.F., col. Le travail Humain. Faïta, D. (1997), «La conduite du TGV: exercices de styles», in Champs Visuels, 6, pp. 75-86. Levine, J., Moll, J. (2001), Je est un autre. Pour un dialogue pédagogie-psychanalyse, Paris, ESF Editeur. Lenoir, Y. (2008), Didactique professionnelle et didactiques des disciplines, Toulouse, Octarès. Mercier, A. (2000), Des enseignants de mathématiques en formation professionnelle font l’analyse didactique de leur pratique, Paris, L’Harmattan. Oddone, I., Rey, A., Brante, G. (1981), Redécouvrir l’expérience ouvrière. Vers une autre psychologie du travail, Paris, Editions Sociales. Paquay, L., Altet, M., Charlier, E., Perrenoud, Ph. (2001), Former des enseignants professionnels, Bruxelles, de Boeck. Pastré, P. (2002), «L’analyse du travail en didactique professionnelle», in Revue française de pédagogie, 138, pp. 9-17. Pastré, P., Mayen, P., Vergnaud, G. (2006), «Note de synthèse: la didactique professionnelle», in Revue Française de Pédagogie, 154, pp. 145-198. Samurçay, R., Rabardel, P. (2004), «Modèles pour l’analyse de l’activité et des compétences», in R. Samurçay, P. Pastré (dirr.), Recherches et pratiques en didactique professionnelle, Toulouse, Octarès. Vermersch, P. (2008), «Activité réfléchissante et création de sens», in Expliciter, 75, pp. 31-50. Vinatier, I. (2009), Pour une didactique professionnelle de l’enseignement, Rennes, P.U.R. Col Païdeia.

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Workplace Learning: apprendere e produrre conoscenza nei contesti di lavoro

STEFANO BONOMETTI

Abstract: The transformation of work in the last few years is giving evidence of the change from a professional work environment where everything is planned and regulated to an environment which is distinguished by unexpected events and great uncertainty. At the present time the value of the group and the communities of practice represent an important factor for organizational development. This particular social ground has proved to be a highly fertile environment for activating learning processes at different levels of formality distinguished by positive effects on knowledge transformation. Skills development can be improved by training projects that integrate the training on the job (apprenticeship, coaching, project groups, improvement groups, action learning, continuing professional development) and learning activities that would support the reflection of the actions and the learning of specific topics. In the context of learning the interest, focused on the most efficient teaching methodologies that will best support the learning processes on the workplace, finds its privileged approach within the ambit of the research defined Workplace studies (Engeström, Middleton, 1996; Heath, Knoblauch, Luff, 2000) and in particular Workplace Learning where the context is not only considered as a container of actions but a social and cultural, cognitive and affective environment in which the interaction between the plurality of subject leads to working practices and learning opportunities. In general the experience (the specific working activity) is considered practical knowledge and with the aim to analyse and support it, it is necessary to start from a concrete action and from the social environment it belongs to. Riassunto: La trasformazione del lavoro in corso da anni, sta segnando il passaggio da un universo professionale in cui tutto è pianificato e regolamentato, ad un universo contrassegnato da avvenimenti imprevisti e da elevata incertezza. Il valore del gruppo e delle comunità di pratica è nei tempi attuali un importante fattore di sviluppo organizzativo. Questo particolare spazio sociale diviene il contesto più fertile in cui attivare processi di apprendimento a diverso grado di formalità caratterizzati per una trasformazione virtuosa delle conoscenze. Lo sviluppo delle competenze può essere attuato attraverso progetti di formazione in grado di integrare la formazione sul campo (apprendistato, affiancamento, gruppi a progetto, gruppi di miglioramento, action learning, continuing professional development)

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e azioni di formazione che sostengano la riflessività sull’azione e l’approfondimento di specifiche tematiche. L’interesse della didattica riguardo le modalità più efficaci per supportare processi di apprendimento all’interno dei contesti di lavoro trova come interlocutore privilegiato il settore di studio definito Workplace studies (Engeström, Middleton, 1996; Heath, Knoblauch, Luff, 2000) e in particolare Workplace Learning nel quale il contesto non è considerato solo come un contenitore di azioni, ma uno spazio sociale e culturale, cognitivo e affettivo, nel quale l’interazione fra la pluralità dei soggetti dà vita alle pratiche lavorative e ad eventi di apprendimento. L’esperienza in generale (l’attività lavorativa nello specifico) è conoscenza in pratica e per analizzarla e sostenerla è necessario partire dall’azione concreta e dal sistema di relazioni sociali in cui è inserita. Parole chiave: formazione degli adulti, apprendimento on the job, didattica.

1. Formazione e cambiamenti organizzativi La trasformazione del lavoro in corso da anni sta segnando il passaggio da un universo di lavoro in cui tutto è pianificato e regolamentato, nel quale ogni eventualità è conosciuta e prevista in anticipo, ad un universo professionale contrassegnato da avvenimenti imprevisti e da elevata incertezza (De Terssac, 1993, 84). La dimensione cognitiva del lavoro, come anche quella sociale ed emotiva (Goleman, 2000) assumono un ruolo preponderante nella gestione stessa delle attività professionali, ad ogni grado e responsabilità, non solo in termini di controllo del processo, ma come specifico contributo proattivo al superamento della complessità e dell’incertezza. Nell’attuale contesto i limiti di un’organizzazione rigida e centrata sulla descrizione minuziosa del compito esecutivo è superata dalla nozione di mission, ovvero definire e condividere gli scopi dell’attività i quali divengono criterio per gestire i processi di lavoro. Ciò non comporta la scomparsa delle procedure, ma piuttosto suggerisce l’esigenza di considerare incompleta la lista delle operazioni in essa descritte e accettare come suscettibili di completamento le modalità operative indicate. Secondo un linguaggio manageriale si può dire che l’attività di lavoro dovrà essere organizzata per obiettivi (management by objective), per cui il traguardo di lavoro assume una priorità maggiore rispetto alle regole (comunque sempre necessarie) di svolgimento del lavoro stesso. La flessibilità si traduce in margini di manovra assegnati agli esecutori affinché siano sviluppate le soluzioni più adatte al reale contesto di lavoro (De Terssac, 1993, 98). La declinazione del concetto di flessibilità nell’ambito dell’organizzazione del lavoro mette in luce il superamento della logica scientifica del COMPETENZA E PROFESSIONALITÀ


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mansionario, a favore di una logica soggettiva espressa nei concetti di mission, obiettivo e risultato. Questa discrezionalità è sostenuta da capacità di iniziativa intesa come abilità di inventare e adattare soluzioni ai problemi incontrati integrata con le capacità tecnico-professionali relative alle procedure di lavoro già conosciute. L’incertezza e l’imprevedibilità sono fattori da gestire all’interno della strategia d’impresa, valorizzando la dimensione umana, la capacità di interpretazione e di intuizione, di modifica e trasformazione delle norme necessarie che governano il processo di lavoro. Una sorta di riconoscimento della dimensione umana quale fattore indispensabile per una maggiore efficacia del processo organizzativo, «lasciare maggiori spazi di libertà agli esecutori, appare come una condizione di efficacia degli automatismi» (Ibidem, 90). Procedendo per questa direzione, che vede nella formazione e nello sviluppo della persona e del proprio capitale umano una vera e propria richiesta emergente dal mondo del lavoro, è opportuno focalizzare l’attenzione sul concetto che de Tressac definisce “unità di lavoro”. In questo specifico spazio, diviene fondamentale porre sempre maggiore attenzione alla dimensione relazionale, ovvero al riconoscimento di uno specifico contesto sociale che caratterizza e innerva lo spazio organizzativo. L’organizzazione riconosce la centralità della dimensione relazionale nelle pratiche di lavoro, dove vengono scambiati saperi espliciti e taciti, formali e informali. Questo particolare spazio sociale assume il valore di spazio organizzativo nel quale si attivano processi decisionali finalizzati alla gestione delle attività e dei processi di lavoro, in cui il coordinamento e l’integrazione delle azioni e degli obiettivi rimandano ad uno spazio di autonomia riconosciuto al gruppo di lavoro. Questo spostamento del baricentro organizzativo dal concetto di posizione a quello di unità organizzativa non nega l’importanza del valore del singolo ruolo, anzi lo innalza alla sua dimensione sistemica, attribuendo un peso rilevante allo scambio fra i ruoli. Un esempio di tale cambiamento organizzativo è rilevabile nei contesti ospedalieri, in cui il concetto di “reparto” è stato trasformato a tutti gli effetti in un’unità operativa, in cui sono presenti professionisti con competenze differenti che devono raggiungere in modo sinergico determinati obiettivi condivisi. Lo scambio di informazioni fra i ruoli nell’unità operativa e fra le unità operative è essenziale e determina il valore aggiunto per raggiungere l’eccellenza nelle prestazioni erogate. Il binomio composto dal responsabile di unità operativa e dal coordinatore infermieristico diviene un’asse relazionale decisiva per l’integrazione

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fra i diversi processi (clinico, terapeutico, assistenziale, alberghiero) e i differenti ruoli (medico, infermieristico, assistenziale). Il senso di appartenenza al gruppo e la condivisione dei medesimi obiettivi determinano l’efficienza e l’efficacia degli interventi (Bonometti, Maioli, 2008, 12-14). Questo approccio organizzativo è coerente con la logica di suddivisione e di integrazione definita “a matrice”. Tale modalità permette di governare i processi di coordinamento e di integrazione delle risorse sia tramite i rapporti gerarchici sia attraverso i collegamenti orizzontali, realizzando gruppi di lavoro costituiti da collaboratori con medesimo ruolo. Nell’ambito ospedaliero un esempio è rappresentato dalla presa in carico da parte di più medici afferenti a unità operative diverse del medesimo caso di studio con patologie attribuibili tradizionalmente a unità operative differenti, costituendo di fatto una “comunità di pratiche” che, seguendo un approccio olistico e integrato, mira a fornire una prestazione multiprospettica e multidisciplinare. Gli esempi potrebbero proseguire, ciò che è opportuno mettere in luce è l’importanza attribuita al fattore relazionale, alle competenze, alla capacità decisionale, alla capacità risolutiva e di collaborazione costruttiva, quali fattori decisivi per superare l’impasse data dalla complessità, dall’incertezza e dall’imprevedibilità tipiche dell’attuale contesto lavorativo. Il disegno organizzativo che sostiene questo approccio di lavoro richiede che per ogni ruolo vengano messe in luce tre variabili chiave: a) la formazione: indica la progressione del livello di competenza che la persona deve conseguire, passando da una posizione periferica ad una centrale rispetto alle competenze organizzative (Lave, Wenger, 2006); b) la discrezionalità: rappresenta i differenti gradi di decisionalità che la persona assume al fine di intervenire nel modificare il processo di lavoro; c) le conseguenze: mostrano i vari livelli di incidenza del ruolo su più processi di lavoro svolti da altri lavoratori. Queste tre variabili permettono di articolare il ruolo lavorativo in una prospettiva di sviluppo in ordine alle competenze richieste, al possibile incremento del potere decisionale e rispetto alla qualità del coordinamento e della gestione dei processi di lavoro. Questi fattori di definizione dei ruoli professionali permettono di mettere in luce l’importanza di attivare un piano di sviluppo organizzativo integrato con piani di sviluppo professionale dei lavoratori. Inoltre, indirizzano la gestione e lo sviluppo delle risorse umane verso l’attivazione di piani di formazione continua al fine di soste-

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nere il processo di crescita delle competenze e dell’entrata in ruolo della persona. Tale processo può essere rappresentato (vedi Tav. n. 1) come un itinerario che dalla periferia del ruolo, in termini di sapere, discrezionalità e incidenza sui processi, procede per passi successivi verso il baricentro del ruolo stesso (cfr. Tomassini, 1998). I piani di formazione continua che accompagnano i lavoratori in questo itinerario di sviluppo professionale devono tenere in considerazione il valore specifico dell’esperienza professionale che si sviluppa nella relazione con gli altri lavoratori. La dimensione tecnico-professionale del ruolo, unita al tessuto relazionale entro cui si attua, diviene il contesto più fertile in cui attivare processi di apprendimento con diverso grado di formalità caratterizzati per una trasformazione virtuosa delle conoscenze da tacite ad esplicite e il ritorno ad una dimensione più implicita (Nonaka, 1995, 117). Si concretizza una sorta di ri-combinazione delle conoscenze che permette di ristrutturare e innovare le competenze delle persone coinvolte. L’attivazione di un sistema sociale vivibile, secondo le regole necessarie per un gruppo di lavoro, è la base sulla quale le competenze tacite possono fluire e scambiarsi fra i collaboratori, in un clima di caldo coinvolgimento all’interno di un progetto d’impresa condiviso.

Tav. n. 1. Dinamica di sviluppo del ruolo professionale (tratto da De Terssac, 1993)

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2. L’ambiente di lavoro come contesto di sviluppo della conoscenza Lo sviluppo delle competenze richieste dal mondo del lavoro flessibile, incerto e in continua trasformazione, può essere attuato attraverso progetti di formazione in grado di integrare in modo coerente le azioni di formazione sul campo (apprendistato, affiancamento, gruppi a progetto, gruppi di miglioramento, action learning, continuing professional development) e azioni di formazione che sostengano la riflessività sull’azione e l’approfondimento di specifiche questioni, all’interno di una prospettiva che collega la produttività e l’operatività del lavoro con la finalità sociale e culturale del processo formativo. I saperi necessari per la gestione del cambiamento continuo, all’interno delle moderne organizzazioni e in generale nella società della conoscenza integrano tre ambiti fondamentali. Ambito tecnico-professionale: corrisponde all’insieme di competenze specialistiche relative al proprio settore di appartenenza. Sono saperi acquisiti nei percorsi di studio e durante l’esercizio della professione. Richiedono un lungo periodo di apprendistato che determina l’appartenenza alla categoria professionale. Ambito trasversale: rimanda ad un nucleo di macrocompetenze che favoriscono la possibilità di declinare le capacità specialistiche nel contesto. Tramite questi saperi la persona sviluppa relazioni sociali positive, per favorire un clima di lavoro collaborativo. Inoltre, nell’ambito trasversale risiedono le capacità di problem solving, le abilità di ricerca e di trasferibilità dell’esperienza. Ambito riflessivo: rappresenta la dimensione generativa della professione. Le competenze richieste per analizzare, mettere in dubbio, riformulare le proprie pratiche professionali tramite il confronto con altri, sono fondamentali per sostenere il cambiamento e la crescita professionale. Questo esige di saper stare nelle situazioni ambigue, complesse o anche contraddittorie senza farsi travolgere e saper trasformare gli errori in opportunità di crescita. È necessario, quindi, acquisire un meta-livello di analisi in grado di delineare i rapporti del sistema in cui si è inseriti e evidenziare possibili percorsi di miglioramento. All’interno di questa prospettiva, i piani di formazione continua nel mondo del lavoro avranno sempre più il compito di rinforzare il legame ricorsivo fra contenuto e metodo, tra operatività e riflessività al fine di raggiungere la competenza strategica dell’imparare ad apprendere. Questa particolare competenza, messa in luce anche dalle riflessioni in sede di

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Comunità Europea, evidenzia l’importanza di una crescita permanente dei saperi, non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche da quello qualitativo, infatti «le abilità dell’imparare ad apprendere dipendono dai modi di rappresentare, sintetizzare, riorganizzare nozioni e informazioni e non solo dalla “quantità” accumulata dalle stesse» (Meghnagi, 2005, 121). A. Alberici (2004) ha indicato alcune dimensioni che caratterizzano il repertorio culturale della competenza strategica e attraverso le quali si declina la finalità educativa dell’imparare ad apprendere: • dimensione della biograficità: capacità di riconoscersi, di attribuire significato, di orientarsi, di progettarsi, di scegliere; • dimensione della metacompetenza: strategie relative alla ristrutturazione degli schemi (consapevolezza degli schemi cognitivi acquisiti, dialogo con la situazione, scoperta e diagnosi del problema, adeguamento dei saperi alle richieste ambientali, controllo dei processi messi in atto); disponibilità a creare nuova conoscenza, a gestire in modo autoregolato le competenze e a reinventare le competenze; • dimensione della simbolizzazione: competenza simbolica relativa alla comprensione verbale e al ragionamento logico; • dimensione dell’emozione: competenze emotive di tipo personale e interpersonale; • dimensione sociale: competenza di comunicazione, del vivere insieme e di ruolo. Le cinque dimensioni indicate da A. Alberici, che contraddistinguono il profilo culturale della competenza strategica e che permettono di declinare in termini educativi la capacità dell’imparare ad apprendere, possono divenire criteri chiave nella progettazione di itinerari di educazione permanente e formazione continua. Tramite questo approccio progettuale si vuole contribuire all’inserimento e alla permanenza del maggior numero di persone nei contesti lavorativi, nonché sostenere lo sviluppo di competenze professionali e sociali che permettono di trasformare le differenti esperienze di lavoro in capitale culturale personale. Questa raccomandazione pedagogica nasce dalla considerazione che molte persone «faticano a “lavorare senza posto di lavoro”, secondo modalità discontinue. [Per essi] il rischio è quello della solitudine, del ritiro individualistico (una sindrome sociale sempre più diffusa), che isola emotivamente; che spinge alla ricerca di compensazioni, investendo su relazioni affettive forti, con gli amici, nel proprio clan, ma che di fatto interrompe i percorsi identitari fondati sui riconoscimenti reciproci, sul riconoscimento

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delle differenze, sul fare e progettare con altri, sulla ricerca del senso circa le cose che si fanno» (Kaneklin, 2005, 13). Gli interventi di lifelong learning hanno la finalità di sostenere l’innovazione e la produttività, di ricercare nuove strategie di gestione dell’impresa, dei servizi, di esaminare nuove soluzioni a problemi ricorrenti o insoliti e, inoltre, di promuovere opportunità di realizzazione sociale e professionale, per coloro che vivono il proprio lavoro con maggiore disorientamento, frustrazione, incertezza, senso di inadeguatezza. Questi lavoratori sono, infatti, coloro che con maggiore difficoltà trovano diritto di parola nel nuovo mondo del lavoro. L’attuale modalità di conduzione della vita professionale e aziendale costringe a navigare a vista, con un alto livello di attenzione e di tensione, ma con difficoltà ad individuare il possibile approdo e scegliere definitivamente la rotta migliore. Per alcune persone è preponderante la preoccupazione di avere un luogo di lavoro che possa essere considerato definitivo; per altre persone è di maggiore soddisfazione poter fare esperienze professionali diverse e da queste traggono il maggior profitto in termini di sapere professionale. In questo contesto la formazione può essere lo strumento fondamentale per sollecitare coloro che hanno risorse a progredire verso l’eccellenza e per sostenere coloro che esprimono un bisogno di aiuto a trovare luoghi e opportunità per esprimere le proprie risorse e le proprie potenzialità. Per raggiungere queste finalità il sistema della formazione deve integrarsi sia con la comunità locale di riferimento, avvalorando la rete dei soggetti con i quali definire politiche e strategie, sia con la società globale in modo da mantenere sempre aperta una finestra sul mondo, sulle tendenze in atto, sulle scoperte e sulle difficoltà globali. 3. Workplace Learning L’interesse della didattica riguardo le modalità più efficaci per supportare processi di apprendimento e produzione della conoscenza all’interno dei contesti di lavoro trova come interlocutore privilegiato il settore di studio definito Workplace studies (Engeström, Middleton, 1996; Heath, Knoblauch, Luff, 2000) e in particolare Workplace Learning. Questo particolare ambito di ricerca prende avvio intorno alla metà degli anni ’90 e può essere considerato un ambito di ricerca, ancora in fase di consolidamento, che accomuna ricercatori di settori disciplinari differenti intorno all’idea

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che il mondo del lavoro può essere conosciuto a partire dalle pratiche realizzate. Attraverso prospettive di lettura differenti (antropologica, psicologica, sociologica, pedagogica, economica e organizzativa), emerge come focus la forte dimensione sociale e culturale dell’esperienza lavorativa, vista come attività negoziata e fortemente legata al contesto. La forte caratterizzazione empirica di questi studi ha concentrato l’attenzione sulle pratiche di lavoro, sull’attività dei gruppi di lavoro, sulle relazioni sociali fra i diversi soggetti coinvolti in contesti caratterizzati anche da sistemi infotecnologici avanzati. L’attività in atto in specifici luoghi di lavoro è studiata attraverso una dettagliata analisi micro-sociale delle interazioni tra operatori e tra essi e le tecnologie utilizzate per lo svolgimento delle pratiche. La tecnologia diviene parte stessa del lavoro, configurandosi come un fenomeno sociale e non meramente “tecnico”. Il lavoro diviene un prodotto collettivo che coinvolge attori, strumenti e tecnologie, i quali, simmetricamente, partecipano alla definizione delle attività (Parolin, 2008). Il contesto non è considerato solo come un contenitore di azioni, ma come uno spazio sociale e culturale, cognitivo e affettivo, nel quale l’interazione fra la pluralità dei soggetti dà vita alle pratiche lavorative. La conoscenza da parte dei ricercatori che si occupano dei contesti di lavoro richiede necessariamente dei metodi di analisi capaci di cogliere l’agire dell’uomo in situazione, la cultura e i valori che guidano le scelte, gli strumenti concettuali e operativi impiegati, da qui l’importanza di un approccio etnografico, storico, partecipato per comprendere al meglio le dinamiche della realtà sociale. Si tratta di accostarsi al contesto indagando due aspetti in grado di favorire la comprensione dei partecipanti: il linguaggio e gli oggetti (artefatti presenti nel setting) (Parolin, 2008). Per quanto concerne l’importanza del linguaggio questa emerge dagli studi di Vygotskij, Mead, Piaget, i quali con opportune differenziazioni mettono in luce la stretta correlazione fra contesto culturale, linguaggio e processi di pensiero, osservando la forte influenza del dialogo e dell’interazione sociale nel sollecitare i processi di interiorizzazione del soggetto al fine di contribuire attivamente alla trasformazione del sistema sociale e culturale. La dimensione comunicativa (il linguaggio e le forme di scambio non verbale) rappresenta un indicatore fondamentale per comprendere le pratiche lavorative e gli schemi di significato che danno senso all’agire professionale.

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La dimensione degli artefatti rappresenta una seconda traiettoria importante per comprendere le pratiche di lavoro. L’ambiente e gli oggetti che ne fanno parte sono espressione concreta dell’interazione fra i soggetti. Gli oggetti assumono infatti il valore di artefatti culturali in quanto espressione di una competenza creativa che contribuisce attivamente alla definizione di un orizzonte culturale. «Il ruolo dell’ambiente, composto da oggetti materiali e relazioni sociali, viene così fortemente rivalutato come elemento che media l’azione attraverso una forma di “memoria sedimentata” nel contesto sociale a cui aderiamo» (Parolin, 2008, 158). L’Activity Theory offre un contributo importante per assumere una prospettiva che rilegga il prodotto del lavoro non solamente come oggetto realizzato, ma effettivamente come un artefatto rappresentativo del valore culturale delle pratiche del lavoro attivate per realizzarlo. Gli artefatti presuppongono un progetto, uno scopo e di conseguenza un’intelligenza capace di attività creativa. Possono essere intesi come entità ideate, progettate e costruite intenzionalmente per raggiungere uno o più scopi (Rossi, Toppano, 2009, 21) e si caratterizzano per l’intenzionalità che guida l’azione: sono il risultato di azioni intenzionali, piuttosto che involontarie od opportunistiche. Gli artefatti, inoltre, possono essere oggetti e/o processi: entità interamente presenti in un determinato momento oppure processi la cui persistenza nel tempo si esprime nella sequenzialità tra parti successive. Infine, l’artefatto, può essere visto come un sistema, ovvero una struttura costituita da parti e da relazioni appartenenti ad uno o più ambienti in continua interazione (Ibidem, 22-23) Artefatto, nella sua accezione più ampia, è un’entità fisica o non fisica, che presuppone utilizzazioni possibili. Nel momento stesso dell’utilizzo, produce un cambiamento delle capacità umane degli utilizzatori, e attraverso l’interazione (finalizzata alla costruzione di un senso comune) porta ad una nuova costruzione, inizialmente contestualizzata e soggettiva, del mondo che li circonda. Tale costruzione non sarebbe esistita senza l’artefatto che, attraverso il processo di mediazione, porta ad una nuova conoscenza, quindi non più soggettiva e contestualizzata, ma collettivamente condivisa e distribuita, influenzando così la realtà grazie all’innovazione apportata (Groppo, Locatelli, 1996). Secondo M. Cole e Y. Engeström (1993) questo nuovo orizzonte di sapere è anch’esso in continua trasformazione e ridefinisce le pratiche di lavoro attivate nei sistemi di attività che al tempo stesso attivano intenzionalmente azioni situate per risolvere contraddizioni interne al fine di realizzare nuovi artefatti culturali. Tale modello rappresenta un processo di

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apprendimento continuo e di produzione di nuovi saperi che non riguardano solamente il singolo soggetto, ma coinvolgono il contesto (cognizione distribuita). Il valore culturale dell’azione situata è stato messo in luce già da tempo da vari autori. A partire dagli anni ’60 Schutz, Mead e Vygotskij hanno evidenziato la centralità dell’esperienza e il suo rapporto con il contesto per lo sviluppo dei processi cognitivi e culturali. Successivamente Suchman e Norman con un’attenzione più sociologica, Bateson con uno sguardo “ecosistemico”, Cole con un’interpretazione psicologica e Engeström con una sensibilità relativa allo sviluppo dell’organizzazione e delle tecnologie hanno affermato che l’esperienza in generale e l’attività lavorativa nello specifico sono conoscenza in pratica e per analizzarle e sostenerle è necessario partire dall’azione concreta e dal sistema di relazioni sociali in cui sono inserite (Gherardi, 2009). Tali azioni sono fonte di un processo di apprendimento continuo. Si può dire che l’apprendimento è visto come una creazione collettiva fondamentalmente socio-culturale e storica della conoscenza che si trasforma e diviene la fonte stessa per ulteriori nuovi apprendimenti per gli individui (Toiviainen, 2007). L’apprendimento nei luoghi di lavoro si qualifica per differenti livelli di consapevolezza dell’apprendimento. Si possono individuare almeno quattro livelli di azione attraverso i quali viene promosso l’apprendimento: a. azioni di apprendimento esplicite, contestualizzate in azienda, ma temporalmente distinte dalle pratiche professionali (corso di formazione); b. azioni di apprendimento esplicite, contestualizzate in azienda nelle quali le pratiche professionali diventano oggetto stesso di riflessione e analisi e modifica (gruppo di miglioramento); c. azioni di apprendimento implicite, in cui l’agire pratico diviene occasione per migliorare prodotti e processi e quindi di crescita delle proprie competenze (gruppo di progetto); d. azioni di apprendimento implicite, in cui l’agire quotidiano nel risolvere i problemi e le contraddizioni permette il miglioramento continuo. I quattro livelli di azione proposti possono promuovere nuove competenze e nuovi saperi organizzativi. Ciò che deve emergere per concretizzare questo apprendimento è un livello di riflessività e consapevolezza sulle azioni in essere. In rapporto agli eventi di apprendimento espliciti, la riflessività permette il trasferimento dei saperi dall’aula alla pratica, mentre

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per quanto riguarda gli eventi di apprendimento impliciti, la riflessività favorisce la presa di consapevolezza delle nuove competenze raggiunte in relazione all’attività svolta e come tali competenze possano diventare buone pratiche da diffondere nell’organizzazione. Rafforzare un’attività di sviluppo organizzativo e delle risorse umane implica aver definito una strategia che permetta l’articolazione di un Workplace Learning, ovvero configurare un contesto di lavoro che con diversi gradi di formalità/informalità offra opportunità di miglioramento continuo sia delle pratiche di lavoro sia delle competenze dei lavoratori. Maggiore sarà la formalità del percorso di apprendimento, più esplicito sarà il curriculum at work necessario per raggiungere gradi differenti di padronanza delle competenze e performance lavorative. La minore formalità della proposta comporta una maggiore attenzione verso atteggiamenti e valori che favoriscono uno scambio continuo tra i lavoratori e tra essi e i sistemi informatici al fine di concretizzare pratiche di lavoro tese al miglioramento continuo. 4. Conclusione Declinare la prospettiva presentata nelle organizzazioni permette di mettere in luce studi recenti relativi alla Learning Organization. Inizialmente con i lavori di P. Lawrence e J. Lorsch (1976) e, in modo più approfondito con quelli di K. Weick (1997), emerge come gli attori organizzativi siano essi stessi co-protagonisti e co-costruttori della realtà organizzativa nella quale esercitano le loro attività. In particolare Weick, con le riflessioni sul senso e il significato nelle organizzazioni, sostiene che i partecipanti non si limitano a percepire l’ambiente, ma piuttosto lo costruiscono attivamente. Secondo l’autore «un punto di partenza passivo implicherebbe che i costruttori di senso dovrebbero darsi da fare per capire qualsiasi cosa si presenti loro. Questa passività può avere qualche fondamento se si pensa il sensemaking come un problema di scoperta. Ma se si pensa in modo costruttivista, e si vede il sensemaking come problema di invenzione, allora l’inventore va ben oltre il riflettere su quello che è dato. L’inventore deve metterci del suo, o consolidare quello che già c’è, o frugare per vedere che cosa potrebbe esserci, o ancora orchestrare qualche tipo di consenso su quello che c’è. Tutto questo mettere, consolidare, frugare e reclutare è una forma d’azione nel mondo. Questa azione influenza poi quello che l’organizzazione vede» (Weick, 1997, 177).

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Per Weick l’ambiente di un’organizzazione non si presenta come elemento di un mondo oggettivo, ma come ambiente attivato dai componenti dell’organizzazione, sulla base della propria cultura, delle proprie conoscenze, del proprio sapere pratico. È proprio la circolarità che si instaura nella relazione tra i pre-giudizi espressi dai soggetti e la realtà che si pone di fronte che genera la conoscenza. In termini organizzativi, si può dire che la riflessione sull’azione lavorativa produce una conoscenza, una cultura, un sapere che hanno valore di realtà. L’intrecciarsi delle azioni produce un orizzonte di sapere tipicamente contestualizzato e specificamente pratico, con valore di “verità”, in quanto coerente e condiviso. La produzione di un sapere culturale e professionale è frutto, come già esplicitato, di una trasformazione del fare in esperienza, attraverso processi di interazione fra i soggetti coinvolti. La mediazione sociale all’interno dell’agire professionale diviene lo strumento essenziale per valorizzare la pratica e trasformarla in esperienza significativa. Tale processo è evidentemente un recupero della riflessività come categoria centrale nei processi di apprendimento degli adulti. I processi di apprendimento attivati seguono una sorta di circolo che dall’operatività, connotata da un sapere implicito, passa alla formulazione di un modello di azione condiviso e diffuso nell’organizzazione. Ogni sistema organizzativo produce forme di conoscenza in particolare attivando un circolo virtuoso che consente un ininterrotto scambio tra saperi taciti e saperi espliciti. Presentazione dell’Autore: Ricercatore di Didattica presso l’Università degli Studi del Molise. Gli interessi di ricerca riguardano l’apprendimento nei contesti di lavoro, lo sviluppo delle risorse umane, l’e-Learning, il lavoro di gruppo. Ha pubblicato nel 2008 Apprendere nei contesti di lavoro. Prospettive pedagogiche per la consulenza formativa e nel 2009 Pratiche di formazione. Esperienze di apprendimento nel contesti operativi.

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Stefano Bonometti

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Il lavoro produttivo oggi tra fattori critici ed “eu-topia” pedagogica

FABRIZIO D’ANIELLO

Abstract: The advent of post-Fordism, along with progressive immateriality of a work increasingly characterized by high-cognitive activity, revitalizes the “pedagogical hope” about the representation of operational scenarios where the work experience fully assumes the features of a rich occurrence from the perspective of a learning experience, fully human and significantly formative in many ways. That wish, however, still seems far from corresponding to a western reality, and Italian first of all, where nowadays an anthropological and anthropocentric organizational model is widely practiced by companies. This is due to a cultural immaturity highlighted by numerous data which testify, to date, the existence of “difficult” working conditions, even though undignified, and the disregard for the lifelong training of workers, and also by the technocratic remark of a supremacy of means over intentions that exploits the work of man rather than celebrating it. This contribution, therefore, moving from the wording of the pedagogy of work as a scientific reflection over the “educability” of the person in contexts of productive work, aims to facilitate and accelerate the feasibility of such educational environments, opposing to such cultural obstacles an argumentation intended to reconsider the meaning of work itself, also foreseeing the effective exploitation of human relations and the overall growth of working people, as well as the development of enterprises who care about it. Riassunto: L’avvento del post-fordismo, insieme alla progressiva immaterialità di un lavoro sempre più caratterizzato da attività ad elevato contenuto cognitivo, rinvigoriscono la speranza pedagogica circa la rappresentazione di scenari operativi in cui l’esperienza lavorativa assuma finalmente i connotati di un’esperienza ricca dal punto di vista apprenditivo, umanamente piena e significativamente formativa sotto molteplici aspetti. Tale auspicio, tuttavia, sembra ancora lontano dal corrispondere ad una realtà occidentale ed italiana, in primis, in cui sia diffusamente praticato, da parte delle imprese odierne, un modello organizzativo antropologico ed antropocentrico. E ciò è dovuto ad un’immaturità culturale resa evidente da plurimi dati che testimoniano, a tutt’oggi, l’esistenza di condizioni lavorative “difficili”, quand’anche indegne, e il disinteresse verso la formazione continua dei lavoratori; nonché dalla constatazione tecnocratica di un primato dei mezzi sui fini che strumentalizza l’opera dell’uomo piuttosto che celebrarla. Questo contributo, pertanto, muovendo dalla formulazione della pedagogia del lavoro quale riflessione scientifica sull’educabilità della persona nei contesti di lavoro produt-

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tivo, si propone di agevolare e accelerare la praticabilità educativa di simili ambienti, opponendo a siffatti ostacoli culturali un’argomentazione tesa a riconsiderare il senso del lavoro medesimo in vista della valorizzazione effettiva delle relazioni umane e della crescita globale delle persone che lavorano, come pure dello sviluppo delle imprese che ne abbiano cura. Parole chiave: lavoro, educazione, formazione, persona, cultura.

1. Pedagogia del lavoro ed educabilità dell’uomo nei contesti produttivi post-fordisti Una serie di variabili causali concatenate, sottese all’evoluzione recente del lavoro in primis industriale, con peculiare riferimento al mondo occidentale, esortano l’adesione ad una rinnovata visione dell’esperienza lavorativa, segnatamente connotata dall’attenzione rivolta alla soddisfazione delle istanze antropocentriche. Elementi caratterizzanti o permeanti la configurazione tuttora in fieri di un post-fordismo “snello” – quali esigenze e strategie di flessibilità produttiva, ricerca costante della qualità, metabolizzazione “derivata” della logica del just in time, utilizzo dell’alta tecnologia tout court e delle tecnologie infocom in particolare, “integrazione” avanzata, influenza della globalizzazione e della knowledge economy in senso lato – parrebbero in effetti sollecitare l’attualizzazione di approcci organizzativi che, puntando sul progressivo abbandono di impostazioni gerarchico-verticali in favore di dinamiche gruppali contrassegnate da decentramento gestionale e di responsabilità, siano in grado di valorizzare appieno il “fattore” umano. La sincronica constatazione del passaggio verso attività ad elevato contenuto cognitivo, inoltre, legittimerebbe l’analogia che vedrebbe accomunati contesti produttivi rispondenti a simili approcci a verosimili microcosmi educativi e formativi, luoghi di apprendimento continuo. Luoghi, nondimeno, in cui i problemi evidenziati dalla pratica lavorativa favoriscano scambi informativi, conoscitivi ed esperienziali, alimentino la riflessione critica sulla pratica medesima, facilitino l’affioramento degli aspetti taciti che ne informano la padronanza indicibile e agevolino, quindi, sia l’emersione ed il rafforzamento delle energie euristico-creative utili ad individuare nuove soluzioni per gli ostacoli riscontrati sia la ridefinizione dialettica del senso e del significato dell’“operare”, unitamente a quella degli assunti di base che lo orientano (Corsi, 2009, 17-18). La progressiva immaterialità del lavoro post-fordista, così, non solo permetterebbe di produrre occasioni contestuali di condivisione, co-creazione e ricreazione di conoscenza e saperi, COMPETENZA E PROFESSIONALITÀ


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nutrendo il progresso apprenditivo dei soggetti coinvolti, ma, all’interno e trasversalmente alle predette dinamiche, genererebbe pure spazi virtuosi dove costruire relazioni significative, incrementare viepiù il potere negoziale circa la riperimetrazione dei sistemi simbolici e valoriali che sostengono una specifica cultura organizzativa (Alessandrini, 2001, 180), “pro-cedere” nello sviluppo identitario e, in definitiva, crescere in umanità. In sintesi, con il distacco dal taylor-fordismo e dal “neotaylorismo informatizzato” (Bonazzi, 1997, 188), e con l’avvento del post-fordismo, ci troveremmo innanzi ad ambiti produttivi equiparabili a sistemi tecnologici e insieme culturali (Bocca, 1998, 126), dove l’uomo nella sua globalità e il potenziale umano assumono finalmente un ruolo chiave imprescindibile per la resistenza sul mercato e il successo dell’impresa odierna. Considerati, dunque, l’accento posto sulla centralità delle risorse e delle relazioni umane e, parallelamente, l’originarsi di plausibili aperture ad ampi spazi di educabilità coinvolgenti molteplici aspetti della personalità (cognitivi sì, ma anche emotivi, affettivi, socio-relazionali, etico-morali, culturali, etc.), pare scontato, oltre che necessario, che la riflessione pedagogica, già da qualche anno e a tutt’oggi con maggior vigore, tratteggi linee di ricerca convergenti sui sunnominati cambiamenti per bordeggiare ermeneuticamente i confini di un’intrinsechezza formativa del lavoro attuale e tradurre le proprie argomentazioni in progettualità educative. Così come pare altrettanto naturale che rivendichi la “com-prensione” di ottiche invero parziali dal punto di vista educativo entro lo sguardo totale sull’uomo garantito dalla supervisione della propria intelligenza mediativa. Tuttavia, e veniamo a chiarire l’uso dei condizionali, pur riconoscendo l’esistenza di un accordo teorico multidisciplinare su un indispensabile sviluppo umanizzante delle imprese e su siffatta evoluzione organizzativa, la strada verso l’estesa praticabilità educativa di un “modello antropologico” (Nicoli, 2004, 120) appare, al momento, ancora in salita. E ciò, principalmente, per tre ordini di motivi che andremo a descrivere e per i quali si rende ancor più necessario, a nostro avviso, il contributo della succitata riflessione; nella fattispecie, di quella riconducibile alla pedagogia del lavoro intesa primariamente come riflessione scientifica sull’uomo in quanto educabile e sull’educabilità dell’uomo, attenzionato come “persona”, nei contesti di lavoro produttivo. Ovverosia, brevemente, un sapere che indaga criticamente fenomeni e processi lavorativi, decifra i flussi culturali che li attraversano e interpreta gli eventi umani e socio-tecnologici presenti in un ambiente di lavoro. Che, razionalizzate e mediate le informazioni ottenute, “pro-ietta” le proprie considerazioni e le trasforma in “pro-getti” umani,

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determinando la natura dell’impegno tanto pedagogico quanto educativo-formativo. Ma che, prima di ogni altra cosa, si “pre-occupa”, appunto, di accertare i requisiti dell’educabilità, la conformazione educativa di tali eventi, la sinergia tra essere e divenire sia della persona che lavora sia della comunità lavorativa in cui ha da “realizzarsi” (d’Aniello, 2009, 240). Una riflessione, pertanto, che sul versante storico e antropologico avanza interrogandosi, innanzitutto, sulla «possibilità di considerare il lavoro produttivo come ambito o modalità o risorsa per realizzare relazioni educativamente significative». Chiamata, cioè, «a verificare se e a quali condizioni il lavoro […] ha o può avere valore educativo» (Zago, 2009, 47), «può costituire un reale modo di porsi della persona nel suo processo di piena autorealizzazione», e se è in grado, nell’attualità socio-economica, di «rappresentare un ambito significativo per la progettazione intenzionale della propria esperienza» ed «essere un’opportunità per la crescita personale» (Bocca, 1992, 42-43). 2. Quando il lavoro non nobilita l’uomo Venendo alle sunnominate ragioni ostacolanti, la prima di queste ha a che fare, indubbiamente, con il fatto che le imprese occidentali non paiono ancora aver diffusamente recepito la lezione sul rispetto e la tutela della dignità e della salute del soggetto che lavora. Questo è reso manifesto da una pluralità di fattori che possiamo evincere sia da studi dedicati sia da rilevazioni statistiche internazionali e nazionali aventi come oggetto le condizioni lavorative e che elenchiamo sommariamente di seguito. Diminuzione dei salari: principalmente dovuta ad un “globalismo” (Beck, 1999, 22) senza regole, la sua applicazione si basa sovente sulla “minaccia” correlata al vantaggio comparativamente desunto di esportare la manodopera al Sud o all’Est del mondo, quindi sulla leva della competitività remunerativa tra lavoratori, arrivando a toccare in alcuni settori punte in ribasso del 30% ed oltre (Gallino, 2001, 3940). Aumento dell’orario di lavoro: se soli sei giorni di malattia concessi all’anno, 2.000 ore di lavoro e un buon 85% di lavoratori che denunciano orari insostenibili fanno degli Stati Uniti la patria del workaholism, anche in Spagna si sta diffondendo l’espressione adicto al trabajo e in Olanda quella di leisure illness (Coin, 2006, 43-47, 103); mentre l’Italia, dove la settimana lavorativa è per ora generalmente ferma a

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48 ore, in sede di riunione dei Ministri del Welfare UE ha aderito nel 2008 ad un testo di compromesso teso ad espandere i limiti della settimana standard, con l’ipotesi di estenderla alle 60/65 ore (Brivio, 2008). Lean production ed intensificazione del lavoro: i casi di realtà industriali americane, inglesi, francesi e italiane testimoniano un innalzamento dei secondi lavorati al minuto fino a 60, regimi di orari alienanti, produzioni cronometrate irragionevoli, quantità di “pezzi” da lavorare a turno che trascendono le possibilità umane, ingovernabilità della velocità delle “linee”, eliminazione delle pause (Coin, 2006, 82-89); inoltre, nella UE a 12, dal 1990 al 2005 la percentuale della forza lavoro che dichiarava di lavorare a ritmi altissimi è salita di 7 punti, dal 19 al 26% (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2007, 7). Esposizione al rischio: restringendo il campo di analisi alla sola realtà europea, mentre sembrano attenuarsi i rischi fisici connessi con l’esposizione a fumi, inalazioni, polvere, polveri e scintille, permangono stabili, o addirittura crescono, quelli connessi con la manipolazione di sostanze chimiche, la stanzialità a basse temperature, i movimenti ripetuti di mani e braccia, le disfunzioni ergonomiche, le vibrazioni e i rumori (Ibidem, 8). Crescente ricorso a sostanze psicotrope: quanto precedentemente descritto, insieme alla prevalente noncuranza verso la “salute organizzativa” (Avallone, Paplomatas, 2005, 65), dunque alla strenua resistenza, se non incremento, di patologie e disturbi fisici e psichico-psicologici (Coin, 2006, 106, 108; Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, 2009, 46-52), è a fondamento di un fenomeno che rappresenta forse il sintomo più palese del malessere dei lavoratori contemporanei, ovvero il sempre più frequente abuso di alcol, droghe, antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici per tentare di risolvere problematiche lavorative o rifuggire da esse (Coin, 2006, 47-71). Incidenti e morti sul lavoro: gli ultimi due fattori, congiuntamente ad un’immaturità culturale che è causa di una scarsa propensione formativa e di una lacunosa assunzione di responsabilità individuali e collettive riguardo alle norme in materia di sicurezza, sono certamente le lenti che consentono di interpretare al meglio i dati ILO, EUROSTAT e INAIL, i quali, seppur accennanti ad una lieve inversione di tendenza, rappresentano comunque un quadro terrificante

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in termini di infortuni gravi e decessi sul luogo di lavoro (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, 2009, 9-33, 53-62, 70-73). Discriminazioni di genere: oltre a non godere di un politica di “flessicurezza” che consenta di fronteggiare adeguatamente il loro triplice ruolo (lavoratrici, madri, casalinghe), ad essere altresì maggiormente interessate, rispetto agli uomini, dal lavoro sommerso, da contratti atipici, dal precariato, dal rischio disoccupazione, da mansioni subordinate e spesso routinanti, da stipendi più bassi e minori opportunità di formazione continua, le donne sono anche quelle che nel lavoro figurano ancora come il bersaglio preferito da azioni di mobbing, bullismo e comportamenti molesti (Sbattella,Tettamanzi, 2003; Iori, Maiani, 2006; Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2007, 2-5, 9-10; Garofalo, Marra, 2008). I fattori critici appena vagliati pongono in risalto un’immagine del lavoro distante dall’“eu-topia” neo-umanistica e persona-centrica illustrata in apertura. Il “capitale umano” tanto celebrato negli ultimi anni, la cui compiuta valorizzazione è finanche invocata dalle imprese medesime quale risorsa strategica ineludibile, fuori da ipocrite retoriche sembra, difatti, perlopiù confinato in un’area di strumentalità fine a se stessa, obnubilata da «veli ideologici che nascondono un’impostazione ancora sostanzialmente taylorista della concezione del lavoratore e del suo ruolo nell’organizzazione» (Bocca, 1999, 5). E la bassa temperatura antropocentrica notata indica, semmai, che il problema, a tutt’oggi, non sia tanto inerente al come potenziare l’agire cooperativo di un “sistema umano”, al come esercitare quella libertà, autonomia, discrezionalità e creatività idealmente o dichiaratamente richieste dall’avvento del post-fordismo, al come facilitare l’apprendimento continuo o al come alimentarlo con l’“attenzione relazionale” (Cepollaro, 2008, 10), quanto all’eventualità stessa di vedere affermato un “sistema umanamente sostenibile”. Di conseguenza, benché non in modo assoluto eppure in larga e sconcertante percentuale secondo i dati delle varie rilevazioni, venendo meno la cura dell’uomo che lavora – “automizzandone” la performance in termini quasi skinneriani, sfruttando oltremodo le sue risorse fisiche e psichiche, esponendolo a rischi e discriminazioni ingenuamente anacronistici, portandolo al baratro della malattia e perfino della tossicodipendenza, gettandolo infine tra le braccia di una morte impropriamente detta bianca –, viene meno anche la possibilità di concepire l’edificazione di microcosmi educativi e formativi. Coerentemente, poi, si irrobustisce la paura che la tendenza umanizzante dianzi evocata sia sof-

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focata dalla morsa di una tangibile arretratezza pedagogica e culturale e si riduca a quelle “pacche sulle spalle” che a lungo hanno contraddistinto la fuorviata applicazione degli orientamenti manageriali ispirati al movimento delle Human Relations (Novara, Sarchielli, 1996, 85). 3. Noncuranza e deficit formativi: la peculiarità negativa del “caso Italia” Il rimando alla dimensione culturale introduce, a questo punto, alla seconda ragione ostacolante, che ha per protagonista il disinteresse verso la formazione e del quale, pur non risparmiando altri contesti, è un esempio lampante ciò che accade proprio in Italia. Anche qui, si potrebbe citare un fiume negativo di numeri che rivelano: il colpevole ritardo delle imprese nostrane rispetto a quelle europee in materia di formazione continua (32% di imprese formatrici contro il 60% della media continentale); la loro carente disposizione a garantire offerte di formazione corsuale e non ai dipendenti, mantenendosi così limitrofe ai valori benchmark dei paesi neocomunitari piuttosto che a quelli di attendibili competitor quali Germania, Francia e Regno Unito (terzultimo posto in Europa); l’essenziale invariabilità del deficit formativo registrato da dieci anni a questa parte nelle piccole e medie imprese, vale a dire la spina dorsale della realtà produttiva nazionale (Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, Isfol, 2009, 34-35, 45, 223). Ci limitiamo, però, a riportare l’opinione degli autori dell’ultimo Rapporto sulla formazione continua (2008) disponibile al momento in cui si scrive, in quanto assai efficace dal punto di vista di un sunto esplicativo: «In periodi di crisi economica, come quello attualmente in corso, diventa fondamentale utilizzare la leva formativa in un’ottica di medio-lungo periodo, per salvaguardare il capitale umano presente nel sistema produttivo e avviare un nuovo corso di sviluppo […]. In Italia i livelli di partecipazione al lifelong learning da parte degli adulti occupati sono ancora largamente insufficienti. Le statistiche internazionali […] mostrano una situazione ormai molto grave, caratterizzata da un diffuso disinteresse del sistema produttivo italiano nel promuovere lo sviluppo delle competenze dei propri collaboratori» (Ibidem, 33). Tale gravità, come anticipato, è indice dell’indiscutibile mancanza di un humus culturale indispensabile per affrontare convenientemente i cambiamenti del lavoro nell’età della complessità e sostenere permanentemente

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quel continuum tra formazione e lavoro che la configurazione del post-fordismo esigerebbe, invece, come condizione irrinunciabile accanto ad una risolutiva armonizzazione delle due anime formative (tecnico-professionale ed umana). Un vulnus culturale, questo, che ha radici lontane, perse nella notte dell’antinomia tra otium e negotium, e di cui è colpevolmente soggetto passivo e attivo sia il mondo imprenditoriale sia quello politico, entrambi noncuranti del realistico pericolo di una nuova fase di esclusione professionale che potrebbe, quando già non lo faccia, colpire i così detti lavoratori “deboli”, come pure il sistema Paese in generale (Aleandri, 2003, 184). Non è dato dimenticare, infatti, che, se nel nuovo ciclo della “strategia di Lisbona 2008-2010” la formazione professionale continua occupa un posto di spesso rilievo nella promozione della summenzionata “flexicurity”, ossia il rapporto equilibrato tra flessibilità e sicurezza del lavoro (Turrini, 2008, 24), ciò è dovuto proprio alla missione di salvaguardia socio-economica attribuitale: l’investimento in formazione continua ridurrebbe, invero, «l’emarginazione sociale e le sperequazioni di reddito causate da un capitale umano insufficiente»; aiuterebbe «a mantenere i lavoratori anziani più a lungo sul mercato del lavoro, contribuendo […] alla sostenibilità finanziaria dei sistemi di protezione sociale»; renderebbe «più dinamici i mercati interni del lavoro»; e, soprattutto, permetterebbe ai lavoratori di acquisire e rinnovare «le competenze necessarie in un’epoca caratterizzata da rapidi mutamenti e dalla necessità di aggiornare le conoscenze» (Ibidem). 4. Tecnica, tecnologia e primato dei mezzi sui fini La variabile culturale, altresì, permea anche l’ultima ragione ostacolante, che attiene specificatamente al tema/problema del rapporto mezzi-fini. Esso comprende la deriva soggiacente al passaggio da una tecnica vista come contingente, subordinata e consapevolmente dominata “disponibilità dello strumento”, dal quale l’uomo non dipende se non per il soddisfacimento di bisogni e il raggiungimento di fini che sorgono esternamente alla “logica” stessa della tecnica e la trascendono, ad una vista come “apparato o sistema tecnologico”, che, viceversa, tende subdolamente ad assurgere a “sistema di vita” centripeto ed autosufficiente, capace di annullare e risucchiare qualsivoglia tensione finalistica nell’imbuto del primato dei mezzi. In altre parole, secondo questa transizione, il sistema tecnologico, di là dall’essere un mero “strumento isolato della tecnica”, prodotto dalla volontà umana finisce coll’autonomizzarsi da essa per ricadervi grevemente modi-

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ficandola, trasformando ad un tempo l’esistenza individuale e comunitaria; la persona, che dovrebbe signoreggiarlo, diviene paradossalmente succube della sua signoria, mezzo del mezzo originario che è ora diventato il fine moltiplicatore di fini solo apparenti (Totaro, 1998, 16-18). «Un apparato tecnologico ha infatti come fine se stesso e, attraverso i suoi prodotti, non punta ad altro che ad autoriprodursi. E riesce in questo intento tanto più quanto più si dispiega e si espande come un “campo totale”, che impregna con le sue linee di forza la globalità delle situazioni e dei rapporti. Se è questa la tendenza inarrestabile degli apparati tecnologici, nessuno può essere sicuro di potersene tirare fuori purché lo voglia. In essi non si entra e si esce a piacere, ma si rimane invischiati fino a prova contraria e inconsapevolmente» (Ibidem, 18-19). Alla riflessione sulla dirompenza culturale della Tecnica e sul suddetto imprigionamento nel “tecnologismo”, si legano le seguenti sottolineature inerenti agli esiti, da una parte, e al timore, dall’altra, scaturiti e scaturibili dall’estensione dei confini di sistemi tecnologici riconducibili dapprima alla meccanizzazione e poi all’automazione e all’alta tecnologia in genere. La prima concerne l’evidenza del cortocircuito tra produzione e consumo. Da quando innovazioni tecnologiche proprie dello stadio avanzato della seconda fase della rivoluzione industriale hanno favorito, ai primi del Novecento, lo sviluppo della linea di assemblaggio semovente in seno alla nascente industria automobilistica, quindi da quando la mass production di stampo fordista ha spinto ad accrescere quantitativamente gli standard produttivi e, contemporaneamente, a ridurre il costo dei beni, stimolare la domanda dilatando l’offerta e, infine, sostituire il tempo libero dal lavoro come svago con il tempo del consumo, produttivismo e consumismo sono andati di pari passo (Regni, 2006, 60-61). Una sinergia, viepiù, supportata fortemente dalla successiva genesi del marketing e dalla creazione del “consumatore insoddisfatto” (Ibidem, 61), ma coltivata nel suo momento aurorale dall’applicazione fordista del metodo tayloriano, in particolare del principio delle “differential rates” (Novara, Sarchielli, 1996, 53). È con le “tariffe differenziali” garantite agli operai in misura proporzionale al loro sforzo produttivo e, pertanto, alla loro obbedienza nei confronti della disciplina imposta dalla “macchina”, in effetti, che, secondo Bauman, si decreta la fine dell’etica del lavoro, da allora in avanti percepito unicamente quale “mezzo per guadagnare di più” (Bauman, 2005, 41). Facendo «cadere nel vuoto qualsiasi appello alla nobiltà del lavoro», tale cambiamento epocale ha ineluttabilmente innescato «la tendenza a considerare il valore dell’uomo in termini puramente monetari» e «ha proiettato irreversibilmente l’aspira-

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zione alla libertà nella sfera del consumo, determinando […] il passaggio a una società imperniata su quest’ultima anziché su quella della produzione» (Ibidem, 41-42). Se l’indirizzo produttivistico dettato da una inequivocabile scelta d’uso tecnologico, di convenienza e profitto, ha scatenato cotanta involuzione etica, sfamando al contempo la voracità di un apparato tecnologico incipiente, da questa non si sottrarrebbe, purtroppo, neppure il post-fordismo. Inseguendo per mezzo di tecnologie all’avanguardia il connubio ottimale flessibilità-qualità, questi, invero, continua ad incidere pesantemente nell’esporre il lavoratore alla ragionevole similitudine con il servitore del “contenuto oggettivo” del lavoro; sussumendo in questo concetto tanto il “dominio tecnico del mondo” (Fitte, 1996, 265) quanto i beni ottenuti con esso. Più precisamente, è concesso affermare che la diversificazione dell’offerta personalizzata di beni sottesa alla tensione continua verso la qualità e, dunque, alla soddisfazione completa del cliente, allarghi il ventaglio delle “preferenze” pressoché inesauribili della persona riverberandosi sull’indeterminabilità permanente della qualità raggiungibile, facendo sì che «le dinamiche del desiderio a servizio del consumo» si liberino «senza incontrare limiti che possano derivare da un’etica superiore», cedendo all’«etica comune della soddisfazione il più possibile immediata» (Totaro, 2007, 80). Detto altrimenti, in questa circolarità viziosa che celebra il “collasso dei fini sui mezzi” (Ibidem) e il consumare come meta ultima del lavorare, la qualità richiama con beffarda ironia la quantità, ribadendo senza soluzione di continuità il mito del produttivismo modernamente ma non diversamente associato al consumismo (Idem, 2009, 313-314). Da qui, si può allora asserire che, se i mezzi e il conseguimento dei risultati che essi agevolano «hanno in se stessi la potenza di fini», perché, più della carenza dei fini, «si impone l’abbondanza dei fini incorporati nei mezzi stessi e coincidenti con il loro perseguimento illimitato» (Idem, 2007, 80), il lavoratore medesimo, più che nella condizione di educarsi ed autoeducarsi, umanizzarsi mediante il lavoro, insieme ai colleghi, nel processo di produzione, sia piuttosto in quella di ingranaggio del meccanismo autoriproduttivo della ratio autoreferenziale del sistema tecnologico, usato affinché con la sua opera faccia consumare e consumi egli stesso, indossando le vesti di strumento dello strumento produttivo ancora una volta, nonché di consumatore consumato. Ciò nondimeno, se la temperie culturale che anima il mondo del lavoro, come pure la società tutta, è pervasa dalla «“stanchezza” riguardo a una

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teleologia impegnativa», che sfocia nel «finalismo più modesto corrispondente all’offerta dei mezzi» (Ibidem), è addirittura ipotizzabile che, finanche laddove abbia preso o prenda campo un knowledge working a livelli estesi e non circoscritto, tutte le energie e potenzialità personali ed interpersonali richieste e attivabili possano non servire un fine elevato, includente l’attuazione di quanto propriamente umano, ma finiscano con l’essere inghiottite dalla spirale di un vortice tecnocratico capace di fagocitare l’essere del lavoratore nella sua interezza. La metafora suggerita per veicolare tale rischio conduce alla presa in carico del timore precedentemente segnalato, che andiamo ad approfondire celermente. Il lavoro immerso nella società della conoscenza – lo abbiamo accennato esaminando gli elementi caratterizzanti il post-fordismo idealtipico –, essendo connotato da un’avanzante immaterialità, è (finora parzialmente) e sarà gradualmente di più un’“attività senza opera” (Virno, 2001a, 182), facente perno su processi produttivi basati su scambi di conoscenze, saperi e competenze, dove «pensieri e discorsi […] funzionano di per sé come “macchine” produttive» (Idem, 2001b, 149), dove la “materia prima” è essenzialmente «il sapere, l’informazione, la cultura, le relazioni sociali» (Idem, 2001a, 181). Ed è proprio qui che si insinua la preoccupazione, non già apocalitticamente relativa al controllo e alla manipolazione simbolica della conoscenza e della sua creazione da parte di un’élite manageriale, piuttosto ad una magra riduzione efficientistica del potenziale umano, al pericolo che venga riprodotto in chiave neo-toyotista il disegno strategico di un coinvolgimento sì totale dei dipendenti, ma strumentale all’ennesima potenza (Filosa, Pala, 1992). Perché, nel momento in cui si ha a che fare con tecnologie che esigono la messa in gioco della complessiva sfera vitale intra ed intersoggettiva (cognizioni, emozioni, etc.), è perfino augurabile, se non supponibile, che esse possano assistere la ricomposizione tra tempi della vita e tempi del lavoro, avvalorando la prospettiva dell’enucleazione perseguibile di un percorso educativo-formativo integrale, osmoticamente e reciprocamente articolato su ambedue i piani; ma è altrettanto lecito ritenere che si possa drasticamente scivolare in una “degenerazione funzionalistica” tesa a sottomettere anche i residui tempi della vita oltre quelli del lavoro, trasformando la globalità della persona che lavora, in ogni suo aspetto e talento, in una macchina al servizio di altre macchine, in un totalmente alienato o autoalienato “strumento della produzione” (Totaro, 2009, 315-316).

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5. Per una cultura persona-centrica del lavoro Analizzati i tre ordini di ragioni che, più di altri, oppongono resistenza ad una svolta antropopedagogica del lavoro le cui tracce sono ancorché rinvenibili nella delineazione del post-fordismo, e verificato che gli impedimenti che tengono in vita riluttanze formative e funzionalismi variegati diretti a indebolire la dignità dell’essere umano sono impregnati di pregiudizi e disvalori presenti nella cultura organizzativa delle imprese così come in sovra-dimensioni culturali, alla pedagogia del lavoro si impone un compito basilare in vista della promozione di una “personalizzazione” dell’esperienza lavorativa e di un’umanizzazione effettuale dei contesti produttivi. In vista, cioè, dell’attestazione certa della centralità manifesta, nella quotidianità lavorativa, del valore della persona e della persona come valore in sé e per sé; dunque del diffuso avverarsi delle condizioni della sua educabilità, esprimibile attraverso interazioni significanti in termini apprenditivi e di socialità, e del conseguente ascolto dei suoi appelli educativo-formativi. Questo compito, che si immagina come missione improcrastinabile per superare la salita citata in apertura, quindi per contrastare l’attecchimento espandibile dell’anti-umano e, perciò, dell’anti-educabile, per consolidare e legittimare, laddove già avviata, una modificazione in essere di determinati approcci organizzativi e, non ultimo, per evitare la sicura esclusione dal mercato di imprese restie a comprendere che il proprio destino è appeso al filo dell’indissolubilità che unisce la crescente cognitivizzazione delle “mansioni” a puntuali premure formative, consiste nel proporre una differente cultura del lavoro. A tal fine, un primo, fondamentale passo da compiere è in direzione della riscoperta dell’autenticità originaria del senso educativamente germinativo del lavoro stesso, a sua volta collocabile nell’alveo della prospettiva politico-culturale suggerita dall’“utopia razionalmente fondabile” (Macchietti, 2005, 7) dell’educazione integrale permanente. Lungi da una trattazione esaustiva che lo spazio a disposizione non ammette, ci serviamo del pensiero di alcuni studiosi, pedagogisti di ieri ed oggi e filosofi, solo per abbozzare questo passo. Seguendo un ordine non solo cronologico, senza peraltro tornare ad un passato troppo lontano, ma che sarebbe altrettanto foriero di spunti congeniali a questa disamina, per Fröebel lo scopo dell’attività lavorativa, grazie alla quale il soggetto si rende co-creatore del mondo simile a Dio, è consentire alla persona di produrre non già degli oggetti, bensì se stessa; perfezionarsi nel senso etimologico, svelare gradatamente la propria essenza per

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autoaffermarsi e servire una duplice finalità: il miglioramento individuale e comunitario (Fröebel, 1993, 6, 28-29, 32). Secondo Mounier, altresì, per controbilanciare gli effetti della “civiltà della tecnica” e l’“abbandonarsi alla schiavitù delle cose” (Mounier, 1981, 38), nonché per far sì che la persona che lavora non venga «considerata come un semplice strumento dell’efficienza e della produzione», schiacciata dal peso del profitto quale “fine quantitativo, impersonale ed esclusivo”, si dovrebbe ripartire dal “primato del lavoro”. Essendo l’«unico agente propriamente personale e fecondo dell’attività economica», solo esso, infatti, è nella possibilità di far «esercitare al massimo le prerogative della persona: responsabilità, iniziativa, padronanza, creazione e libertà» (Mounier, 1975, 159-192). Proseguendo, se per Hessen qualsivoglia mestiere è «un microcosmo che compendia nella sua struttura un più vasto insieme di rapporti naturali e sociali» (Hessen, 1954, 45), del quale andrebbero riconsiderate come prioritarie la “funzione sociale” (Ibidem, 29) e le opportunità da esso concedibili in ordine all’autorealizzazione della personalità umana, per Agazzi il lavoro è un “fare esecutivo finalistico” (Agazzi, 1958, 136) connaturato alla persona. Più dettagliatamente, una delle “forme irriducibili” con cui si esprime l’attività spirituale dell’uomo (Ibidem, 133), «specifica nella sua essenza, distinta nella sua natura e nel suo processo» (Ibidem, 128), “operazione intelligente e dell’intelligenza” (Ibidem, 138), la cui anima sta “solo nell’anima dell’uomo” (Ibidem, 125) e il cui fine sommo, oltre quello prettamente materiale, è “e-ducere”, unitamente e in sintonia con l’opera delle altre funzioni dello spirito, la totalità dell’humanitas (Ibidem, 146). Avvicinandoci ai giorni nostri, analogamente ad Agazzi, Bocca parla del lavoro come di «espressione tipica dell’uomo, aspetto peculiare della sua identità, una delle modalità elettive del porsi della persona rispetto al mondo» (Bocca, 1995, 13) e ne riconosce il senso «nel suo essere espressione della persona umana, in quanto esso nasce con l’uomo ed è criterio di umanità». Inoltre, «la dimensione personale costituisce la fonte del valore del lavoro, così che questo risulta inseparabile dall’uomo e appare irriducibile a mera merce di scambio» (Zago, 2009, 48). Più recentemente, Totaro scorge nel lavoro il «terzo livello di un’antropologia aperta alla completezza», in grado di oggettivare lo svolgersi della prassi nell’“essere per noi” e, garantendo disponibilità di cose che “im-mediatamente” non potrebbero essere godibili, di assurgere a “modalità particolare”, benché non esclusiva, di “far accadere l’essere” (Totaro, 1998, 152-153; Idem, 1996, 256), per dirla con Marcuse. Agli effetti di questa epifania

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ontologica, che autorizza la traslazione concettuale nel solco educativo del prendere forma umanamente degna e che, peraltro, si riconnette con il soddisfacimento di quello che il filosofo reputa il “requisito di autenticità”, imputabile in prima battuta al lavoro, quest’ultimo, sebbene non chiamato a risolverli unicamente in sé, è da restituire auspicabilmente al suo compito primario, ossia porsi «al servizio dell’agire e dell’essere» (Idem, 1998, 156158). Sulla scia della ricomprensione del lavoro come “attività antropologicamente significativa” (Ibidem, 159) si posiziona, infine, Verducci, secondo la quale, giustappunto, di là dallo stagliarsi quale “segmento mancante” dell’indagine speculativa, il lavoro è primariamente il tassello che completa il mosaico dell’integralità antropologica. In altre parole, è un “dispositivo esecutivo” che, in quanto tale, si fa mezzo per un’alta meta etico-educativa, se vogliamo tradurre pedagogicamente il discorso filosofico, giacché in esso e con esso si ha l’estensione processuale ultima della dimensione teoretica-ideativa e pratico-decisionale (Verducci, 2003). Di contro alla perdita di consapevolezza della “radice personale del lavoro” (Idem, 2009, 341), cagionata dalla sua ipertrofica oggettivazione, la primitiva e più veritiera accezione semantico-valoriale dell’operari si sostanzia, allora, nell’identificazione con l’incarico letteralmente metafisico di incrementare lo spazio di espressione vitale della persona, dispiegare appieno l’“ex-sistere” dell’essere. In conclusione, trascurare di ripartire da simili sottolineature, dal recupero del senso primigenio del lavoro, del suo essere della persona e per la persona, significherebbe invalidare a monte qualsivoglia pretesa di ripensare pedagogicamente il lavoro produttivo e concorrere in direzione metaantropopedagogica all’accostamento fattuale dei luoghi di lavoro a comunità educanti. Vale a dire comunità dove vi sia occasione di rovesciare la supremazia della finalizzazione meramente tecnica su quella umana, ripiegare l’oggettivo a vantaggio del soggettivo, con la consapevolezza dell’indivisibilità delle due polarità e del guadagno di un loro vicendevole arricchimento, e, recependo la multidimensionalità delle istanze formative, continuare a «chiedersi costantemente che cosa l’uomo voglia essere» (Corsi, 1997, 150) anche mentre lavora. Comunità, in definitiva, dove un “personale” senso del lavoro riconferisca senso e vigore alla «prospettiva del vivere-lavorando-per-benvivere» (Verducci, 2007, 158) e per “ben-essere”.

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Presentazione dell’Autore: Fabrizio d’Aniello è professore associato di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Macerata, dove insegna Pedagogia del lavoro. Tra le sue pubblicazioni, si segnala Pedagogia del lavoro e persona. Passaggi di stato della materia lavoro, Lecce, Pensa MultiMedia, 2009.

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Le Competenze degli adulti oggetto di Policy

GABRIELLA DI FRANCESCO

Abstract: This article describes a strategy for analysis and assessment of adult skills by referring to the program that the OECD, Organization for Economic Cooperation and Development, is currently being developed to assess literacy skills of adults, including familiarity with Information and Communications technologies, the ability to manage information, construct new knowledge and communicate with other individuals. This Programme is called PIAAC (International programme for assessment of adult competences) and it is an international research programme, according to the OECD this “is the most comprehensive international survey of adult competence ever undertaken”. The survey will support understanding of the effectiveness of education and training in development of basic cognitive skills and key generic skills required by the job. Riassunto: Questo articolo descrive una strategia di analisi e valutazione delle competenze degli adulti facendo riferimento al programma che l’OCSE, (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), sta attualmente sviluppando per valutare le abilità di literacy degli adulti, inclusa la familiarità con le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, l’abilità di gestire informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con altri individui. Tale programma denominato PIAAC è un programma di ricerca internazionale, secondo l’OCSE il programma PIAAC “is the most comprehensive international survey of adult competences ever undertaken”. Lo studio consentirà di valutare in modo più approfondito l’efficacia dei sistemi di istruzione e di formazione nelle attività di sviluppo delle abilità cognitive di base e delle abilità generiche fondamentali richieste dal mondo del lavoro. Parole chiave: competenza, policy, valutazione, literacy, skill.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un aumento della consapevolezza circa il valore e la centralità del “capitale umano”, identificato come una delle forze maggiormente significative sulle quali le economie dei Paesi possono fare leva per ricercare ed assicurare il proprio “sviluppo” e, più recentemente, per fare fronte e superare le conseguenze critiche dell’attuale scenario di “crisi” finanziaria, economica e sociale.

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Il “capitale umano” è inteso come il “patrimonio potenziale” di una comunità che, in un determinato contesto, si identifica con le “persone” che possono partecipare attivamente al “mercato del lavoro”, e costituisce uno dei prerequisiti non solo della cooperazione sociale e delle attività organizzate, ma anche come il fattore economico più determinante. In modo condiviso e coerente, tanto da parte degli studiosi e della relativa letteratura tecnico-specialistica, quanto dalle principali istituzioni internazionali e dalle iniziative volte a sostenere le scelte degli attori istituzionali dei singoli Paesi membri, si identifica nelle “competenze” la “moneta” della quale è costituito il “capitale umano”, e cioè l’asset fondamentale delle imprese. La globalizzazione, l’invecchiamento demografico, ma anche l’urbanizzazione e l’evoluzione delle strutture sociali, accelerano i cambiamenti sul mercato del lavoro e di conseguenza le esigenze di competenze professionali. L’acquisizione di nuove capacità e competenze per sfruttare appieno il potenziale di ripresa costituisce un obiettivo prioritario ed una sfida per l’UE1 e le autorità pubbliche nazionali, così come per gli Enti che erogano interventi di istruzione e formazione, per le imprese, per le persone. In tale prospettiva, le competenze rappresentano nel dibattito corrente uno strumento di policy chiave per lo sviluppo presente e futuro, e possono consentire non solo di affrontare la crisi economica, ma anche di uscirne rafforzati. Il Documento Italia 20202 richiama infatti la stretta relazione tra livello di educazione, probabilità di occupazione, qualità del lavoro, adeguatezza dei trattamenti retributivi, parità nelle opportunità di crescita professionale, produttività del lavoro e capacità di innovazione e sottolinea l’importanza di monitorare l’evoluzione nel tempo delle competenze per limitare il rischio che le competenze acquisite non siano coerenti con le nuove esigenze del lavoro e della società. Sfide come queste hanno portato ad una attenzione sempre maggiore a valutare e a raccogliere evidenze, valide ed affidabili, circa lo stock di competenze nella popolazione adulta, attiva nel mercato o alla ricerca di un lavoro, e ad investire sia sulla “valutazione”, sia sulle strategie di possibile “sviluppo” di nuove competenze, come interventi essenziali per affrontare le criticità attuali e muoversi in una prospettiva di sviluppo per il futuro. Si è affermata dunque, nel dibattito sui sistemi di istruzione e formazione e sul lavoro la centralità e la priorità del costrutto di “competenze” come un concetto di ordine diverso da quello legato alla sola istruzione formale, seppure fortemente in relazione con esso. Il “capitale umano e sociale”, non

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Le Competenze degli adulti oggetto di Policy

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appare più solo espresso dai livelli formali di istruzione, ma sempre più dai livelli di apprendimento acquisiti in “contesti formali” (istruzione, scuola, università), e dagli apprendimenti acquisiti in contesti “non formali” e “informali”. Ancora più in particolare, potremmo sottolineare come si sia venuta affermando la consapevolezza che una fonte essenziale di sviluppo di apprendimento sia costituita proprio dalla stessa “esperienza lavorativa”: sia quando essa è intenzionalmente organizzata (anche con finalità formative), sia quando essa non sia ispirata a tali intenzioni, ma segua logiche produttive e di mercato. In considerazione di tutto questo, soprattutto negli ultimi anni, si è posta una sempre maggiore attenzione ai “contesti di lavoro” quali scenari di sviluppo e di apprendimento di competenze. L’Agenda europea di Lisbona (2000)3 che fissava le priorità e gli obiettivi dei Paesi Membri fino al 2010 ed il più recente documento Europa 20204, che ne riattualizza obiettivi e priorità, hanno posto infatti ancor più enfasi sulla “conoscenza”, sul “sistema di istruzione e formazione”, così come sulla leva delle “competenze” per fare fronte alle sfide future. Ma se, da un lato, si consolida la comune convinzione che lo “sviluppo” di competenze sia un asset fondamentale per tutti, dall’altro parallelamente si afferma una esigenza altrettanto essenziale e strategica di valutazione delle “competenze” stesse: per verificarne il possesso individuale; per monitorarne la dotazione disponibile in un momento dato e in un contesto organizzativo, o settoriale, o territoriale; ed in questo modo per valutare, da un lato, la performance dei sistemi di istruzione e formazione formali, e dall’altro dei sistemi di apprendimento in contesti non formali ed informali, e dall’altro ancora, infine, per definire i fabbisogni di intervento (formazione, sviluppo). È questa una delle ragioni per le quali si sono sviluppate nel tempo, tanto a livello internazionale quanto nazionale, diverse survey e indagini finalizzate non solo alla valutazione della distribuzione dei titoli formali di studio, quanto piuttosto all’effettivo “possesso” di alcune competenze ritenute cruciali ai fini delle attività professionali e della stessa partecipazione alla vita sociale nei suoi diversi aspetti ed ambiti. In questa sede ci riferiamo ad indagini internazionali come quelle promosse dall’OCSE5 negli ultimi anni: si pensi alla survey comparativa “Adult Literacy and Life” (ALL)6 condotta nel 2003, in cui sono state valutate le competenze linguistiche (literacy skills) e le competenze matematiche (numeracy skills) e al “Programme for International Student Assessment” (PISA)7. Tuttavia, nonostante il grande successo del tema relativo alle “compe-

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tenze” (loro analisi, valutazione, validazione, etc.), testimoniato tanto dalla cospicua letteratura tecnico-scientifica e dall’interesse crescente degli studiosi e dei professionisti (Weinert, 2001)8, quanto dagli investimenti e dalle indagini promosse da organismi internazionali come l’OCSE e l’UE, ma anche il Cedefop9 e l’ISFOL (cfr. Di Francesco 1994, 2006, 2009)10, quello di poter contare su una definizione condivisa del costrutto di “competenze” risulta ancora essere un obiettivo cui tendere. Se la ricchezza e molteplicità dei costrutti teorici (e applicativi) riferiti al concetto di “competenze” testimonia la vivacità del confronto e del dibattito scientifico, le più recenti survey internazionali – cui anche l’Italia ha preso parte – sembrano assumere a riferimento proprio l’obiettivo di costruire un framework concettuale condiviso sulle competenze per una loro valutazione11 attraverso analisi comparative su larga scala. Sul piano concettuale un importante contributo è rappresentato dal progetto internazionale, denominato DeSeCo (Definition and Selection of Competencies – 2001) promosso dall’OCSE12. Tale progetto si poneva un obiettivo chiaro: fornire una struttura concettuale di riferimento più solida di quanto già non si disponesse, su cui poter condurre indagini a carattere internazionale, per accertare il livello degli apprendimenti acquisiti e il possesso di diverse competenze chiave da parte della popolazione dei diversi Paesi membri interessati. Il progetto DeSeCo costituisce un punto di riferimento per l’interpretazione delle acquisizioni relative ai risultati degli apprendimenti e dell’insegnamento. Ma costituisce un parametro di riferimento ancora più significativo a livello sociale, poiché tale progetto intende accertare come i giovani e gli adulti siano preparati ad affrontare le sfide della vita, contribuendo così alla definizione delle competenze che dovranno essere considerate prioritarie quando i programmi di istruzione e formazione verranno riformati e riorganizzati. Il progetto assume una prospettiva olistica e adotta una definizione secondo cui le competenze sono “le abilità di rispondere con successo e di adempiere a richieste complesse, in un particolare contesto, attivando prerequisiti psicosociali (incluse le facoltà cognitive, quanto quelle non-cognitive)”, (Rychen e Salganik, 2003)13. Le competenze chiave sono, di conseguenza, competenze individuali che contribuiscono ad una vita realizzata e al buon funzionamento della società, implicando la mobilitazione di conoscenze, abilità cognitive e pratiche, come pure altre dimensioni quali attitudini, emozioni, valori e motivazioni. Dal progetto DeSeCo emerge un quadro in cui appare ormai acquisito

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che oltre alle competenze linguistiche (literacy) e matematiche (numeracy) definite dalle indagini OCSE sin qui citate, l’attuale economia richiede sempre più competenze relative alle ICT (Information and Communication Technology), ma anche competenze imprenditoriali, auto-gestione (self-management), capacità e competenze di apprendimento, competenze relazionali, etc. La valutazione delle competenze nel nuovo programma internazionale denominato PIAAC Facendo seguito alle precedenti survey, l’OCSE ha avviato nel corso del 2008 una nuova importante iniziativa definita “Programme for the International Assessment of Adult Competencies” (PIAAC)14, considerata dall’OCSE stessa «the most comprehensive international survey of adult skills ever undertaken». Il Programma mira a sviluppare un nuovo ciclo di indagini, relativo alla valutazione delle competenze degli adulti (16-65 anni). L’avvio nel gennaio del 2008, prevede la realizzazione nel 2011 dell’indagine principale, e la conclusione nel 2013, con la presentazione del rapporto internazionale. Se le precedenti valutazioni internazionali hanno cercato di ampliare al massimo la copertura delle aree relative alle competenze cognitive, il Programma PIAAC, considerando l’enfasi che i Paesi avevano posto sull’analisi politica, ha intrapreso un percorso diverso spostando la bilancia dalla valutazione delle competenze di tipo prevalentemente cognitivo, verso la raccolta di informazioni sul rapporto tra competenze e altri risultati economici e sociali, su dati contestuali che possono essere utilizzati per esaminare lo sviluppo, il funzionamento e l’impatto delle competenze. PIAAC, sviluppa i risultati del progetto DeSeCo, e tra i suoi primi obiettivi pone l’esigenza di valutare il “possesso” e l’“uso di competenze” e monitorarne l’evoluzione ed i cambiamenti nel tempo. Il concetto tradizionale di “literacy” viene ampliato: l’interesse, l’attitudine e l’abilità degli individui ad utilizzare in modo appropriato gli strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri, al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale. I concetti principali che sono alla base di questa definizione vengono così descritti15:

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«…strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione…» Il concetto di “literacy” un tempo considerato dalla prospettiva di competenze minime, viene qui definito come un continuum di conoscenze, abilità e strategie che gli individui acquisiscono durante l’intero arco della loro vita, mentre l’importanza economica e sociale delle competenze nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è destinata ad aumentare nel tempo. Questo concetto include l’insieme indispensabile di abilità e conoscenze che spaziano in un certo numero di domini, inclusi reading literacy e numeracy. Le competenze nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno un’enorme rilevanza sulle attività più importanti delle agende dei politici di molti Paesi, dall’e-learning all’impatto delle nuove tecnologie sulla competitività e sulla crescita, alle diseguaglianze sociali associate ai confini digitali, al ruolo che queste tecnologie hanno nell’erogazione dei servizi sanitari. Rispetto alla componente ICT, l’enfasi di PIAAC è sui processi cognitivi che stanno alla base delle competenze di literacy, ad esempio come vengono affrontati i problemi dinamici e interattivi, piuttosto che sugli aspetti inerenti l’uso di tecnologie informatiche specifiche. Mentre PIAAC sottolinea la pertinenza della dimensione ICT nel contesto di una valutazione delle competenze di literacy, lo stesso principio vale per la misurazione delle competenze base di lettura, utilizzate come base essenziale per lo sviluppo delle abilità di literacy nel senso più ampio descritto sopra. La valutazione delle abilità semplici potrebbe inoltre supportare policy a livello nazionale, circa le risorse necessarie per intervenire con riforme strutturali sulle prestazioni degli individui in termini di competenze di literacy. «…è l’interesse, l’attitudine e l’abilità degli individui…» La definizione di PIAAC evidenzia che la sola abilità non è sufficiente per sviluppare competenze di literacy. Per sviluppare competenze di literacy e continuare a migliorare e aggiornare le proprie conoscenze nel contesto di un processo di formazione continua, gli individui devono essere motivati, interessati e credere che queste abilità possano realmente influenzare positivamente le loro vite. In particolare, l’interesse e l’attitudine molto probabilmente si riflettono nel tempo che gli individui dedicano alle attività di literacy e nella gamma di tali attività.

COMPETENZA E PROFESSIONALITÀ


Le Competenze degli adulti oggetto di Policy

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«…a utilizzare in modo appropriato…» Il termine “utilizzare” include l’idea di fluidità. Cioè, man mano che un individuo avanza oltre le abilità di lettura di routine e di base, l’obiettivo diventa essere in grado di utilizzare le competenze di literacy a un certo livello di automaticità e fluidità. “Utilizzare in modo appropriato” racchiude i concetti di utilizzare, capire e riflettere su materiali di literacy. In particolare, con un certo orientamento alla dimensione ICT, gli individui devono capire il potenziale offerto dalla tecnologia e fare scelte strategiche sulla convenienza di utilizzarla o meno e, in caso affermativo, come utilizzarla al meglio. «…per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri…» PIAAC identifica sei processi considerati componenti critiche delle competenze di literacy. Questi processi riflettono l’ampia gamma di usi in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione vengono oggi applicate. Questo elenco dimostra che le competenze di literacy come vengono qui definite non sono abilità tecniche specifiche, ma piuttosto si tratta di raccogliere informazioni, costruire una base di conoscenza e comunicare. Di per sé, questi processi riflettono l’integrazione delle conoscenze e delle abilità tecniche con abilità cognitive più tradizionali come quelle di literacy e numeracy. Segue una definizione di ciascuno di questi processi: – “accedere a”: sapere in generale e sapere come raccogliere e/o recuperare le informazioni. – “gestire”: organizzare le informazioni in schemi di classificazioni esistenti. – “integrare”: interpretare, riepilogare, confrontare e contrapporre le informazioni utilizzando forme di rappresentazione simili o diverse. – “valutare”: riflettere per esprimere giudizi sulla qualità, la pertinenza, l’utilità o l’efficacia delle informazioni. – “costruire”: generare nuove informazioni e conoscenze adattando, applicando, progettando, inventando, rappresentando o creando informazioni. – “comunicare”: trasferire informazioni e conoscenze a individui e/o gruppi diversi. «…al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale». Questa enunciazione della definizione di PIAAC riflette l’idea che le competenze di literacy consentono alle persone di impegnarsi nelle attività

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sociali, economiche e culturali della società. Il verbo “partecipare” viene utilizzato perché implica che le competenze di literacy consentono alle persone di contribuire la bene della società oltre che di soddisfare le proprie necessità. L’idea di una partecipazione efficace include la nozione di persone che orientano il loro apprendimento e i loro obiettivi utilizzando competenze di literacy, così come sono definite qui. Il termine “società” include la vita economica, politica, sociale e culturale. La valutazione delle competenze in PIAAC: aspetti metodologici In termini generali, nel “Programme for the International Assessment of Adult Competencies” (PIAAC) le competenze vengono valutate in modo diretto per quanto riguarda le: – competenze degli adulti nei luoghi di lavoro; – funzioni cognitive alla base delle competenze e in “modo indiretto” sono invece valutate tutta una serie di “competenze professionali specifiche” che riguardano il lavoro che gli adulti stanno svolgendo al momento della rilevazione. La “valutazione diretta” è compiuta mediante l’utilizzo di test e scale validate, mentre la “valutazione indiretta” delle “competenze professionali” specifiche viene effettuata mediante un questionario. Una parte specifica del questionario è relativa al Job Requirements Approach ( JRA) (già applicato in diverse survey nazionali come la British Skills Survey16, ma anche l’italiana OAC17, oltre alla statunitense O*NET, realizzata dal Ministero del lavoro degli USA con lo scopo di dare sostegno tanto ai lavoratori, agli orientatori e consulenti di carriera, quanto agli studenti circa le differenti richieste in termini di competenze che caratterizzano alcune professioni), mediante il quale si chiede ai soggetti di valutare il livello di competenze necessarie per svolgere uno specifico lavoro. Nonostante il metodo JRA sia stato utilizzato in molte indagini nazionali, con PIAAC sarà la prima volta di utilizzo in survey internazionali. Il “metodo JRA” valuta alcuni tipi di competenze, in particolare quattro ampie categorie di competenze (o skill domains): − “competenze cognitive” (cognitive skills); – “competenze sociali e di relazione” (interaction and social skills); – “competenze fisiche o manuali” (physical or manual skills); – “competenze di apprendimento” (learning skills).

COMPETENZA E PROFESSIONALITÀ


Le Competenze degli adulti oggetto di Policy

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Tale selezione di competenze si è basata sui seguenti “principi”: – si tratta di competenze valutabili e misurabili attraverso “item chiari e non ambigui, traducibili in differenti lingue” che presentano termini “equivalenti funzionali” (functional equivalents); – esistono legami potenzialmente forti fra le policy nazionali e la “domanda/offerta” di tali competenze; – tali competenze sono “generiche” nel senso che sono usate in molte occupazioni diverse, piuttosto che in una sola professione o in poche occupazioni. In particolare il primo di tali principi ha portato all’esclusione di alcune competenze, non valutabili in contesti di ricerca internazionali; tuttavia alcuni atteggiamenti o disposizioni sono spesso incluse fra i diversi job requirements del JRA, per esempio l’“adattabilità” o il “commitment”, anche se la valutazione di tali dimensioni risulta molto ardua e complessa in termini di validità e di affidabilità fra Paesi diversi. Considerare soltanto i risultati e gli esiti educativi e formativi, secondo l’OCSE, limiterebbe molto la valutazione del “capitale umano” e non darebbe conto della “eterogeneità” propria del mercato del lavoro, in particolare dei casi caratterizzati da successo socio-economico e da alti livelli di qualità del lavoro e di benessere dei lavoratori. Seguire una prospettiva più ampia, che accolga anche i risultati della ricerca legata ai diversi campi della psicologia (della “psicologia applicata al lavoro e alle organizzazioni” in particolare) è ritenuto fondamentale per considerare lo sviluppo delle competenze in tutto il ciclo di vita delle persone. Le ricerche che studiano le interdipendenze fra “funzioni e abilità cognitive e risorse personali” aiutano a capire meglio la “costruzione delle competenze”. Volendo sintetizzare alcune caratteristiche chiave della iniziativa PIAAC, promossa dall’OCSE, potremmo richiamare il fatto che essa definisca il framework per la realizzazione di “indagine quantitativa”, che si basa su un “campione stratificato” e “statisticamente rappresentativo” della popolazione di riferimento, ovvero lavoratori adulti, fra i 16 e i 65 anni. I dati che verranno raccolti risultano attendibili e validi, nonché utilizzabili per analisi di confronto fra i diversi Paesi, anche ripetibili nel tempo, secondo un’ottica longitudinale. Presentazione dell’Autore: È Dirigente di ricerca, responsabile dell’Area ISFOL “Sistemi e Metodologie per l’Apprendimento”, esperto nazionale nei gruppi della

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Commissione Europea in materia di European Qualification framework (EQF), sistema di riconoscimento dei crediti (ECVET) e Validazione dell’Apprendimento Non Formale ed Informale, National Project Manager per l’Italia relativamente all’Indagine OCSE-PIAAC (International Programme for assessment of adult competences). Collabora con riviste specializzate, è relatrice in numerosi convegni nazionali ed europei, ha pubblicato diversi volumi sui temi delle Competenze, Apprendimento, Validazione e Certificazione delle Competenze.

Note 1

New skills for new jobs; Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e Sociale europeo e al Comitato delle regioni. Nuove competenze per nuovi lavori: prevedere le esigenze del mercato del lavoro e le competenze professionali e rispondervi. Bruxelles, 16.12.2008 SEC(2008) 3058} 2 Italia 2020. Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro dei Ministri del Lavoro e dell’Istruzione. 23 settembre 2009. 3 Consiglio Europeo di Lisbona, 23 e 24 marzo 2000. 4 Comunicazione della Commissione Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Commissione Europea COM (2010) 2020. 5 Per approfondimenti http://www.oecd.org. 6 Indagine ALL http://nces.ed.gov/Surveys/ALL/index.asp. L’indagine ha coinvolto sei differenti nazioni (oltre al nostro Paese, hanno preso parte le Bermuda, il Canada, la Norvegia e ancora la Svizzera e gli Stati Uniti d’America). 7 Indagine PISA http://www.pisa.oecd.org – che costituisce un programma di valutazione internazionale e standardizzato che è stato sviluppato in modo congiunto fra diversi Paesi dell’OCSE, e che ogni tre anni è rivolto specificamente alle scuole e agli studenti di 15 anni, di cui sono già state realizzate quattro edizioni, che hanno permesso di raccogliere dati molto interessanti (nel 2000, 2003, 2006 e l’ultima nel 2009, di cui saranno disponibili i risultati a partire dal 7 Dicembre 2010). 8 Weinert, F.E. (2001), Concept of Competence: A Conceptual Clarification, in D.S. Rychen and L.H. Salganic (eds.) Defining and Selecting Key Competencies, Göttingen, Hogrefe & Huber. 9 Cedefop, Skills Needs in Europe. Focus on 2020. Lussemburgo, 2008. 10 Di Francesco, G. (2006), «La questione delle competenze per la costruzione di uno spazio europeo per il lifelong learning», in Rivista dell’Anapia, 2006, Roma. – (2009), «Valutazione delle competenze degli adulti: il programma PIAAC», in Professionalità, 105, luglio-settembre 2009, G. Di Francesco (a cura di) (1994), «Competenze trasversali e comportamento organizzativo. Le abilità di base per il lavoro che cambia», Collana ISFOL Strumenti e ricerche, Milano, Franco Angeli.

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Nella logica qui descritta, “valutare” le competenze significa adottare una metodologia rigorosa (e di conseguenza metodi e strumenti scientificamente affidabili e validi), che permetta di definire e di misurare le caratteristiche e le potenzialità del “capitale umano” sul quale un certo Paese, in un dato tempo e contesto, può contare per innovare, raccogliere le sfide future, puntare su un migliore sviluppo, una maggiore inclusione e partecipazione sociale, riducendo le disuguaglianza sociali e stimolando la ripresa economica per uscire dalla crisi attuale, per raggiungere un nuovo benessere. Secondo tale prospettiva, valutare le competenze significa misurare alcuni indicatori che forniscono ai decisori istituzionali le informazioni e i dati sulla base dei quali sapere dove e come intervenire, per progettare politiche e azioni maggiormente mirate ed efficaci. 12 OCSE – DeSeCo. Description and Selection of Competencies (pubblicata nel 2001 e successivamente ripubblicata nel 2003 col titolo Key competencies for a successful life and a well functioning society, Hogrefe & Huber, Göttingen, 2003). 13 Rychen, D.S., Salganik, L.H. (eds.) (2003), Key Competencies for a Successful Life and a Well-functioning Society, Göttingen, Hogrefe & Huber. 14 Indagine PIAAC “Programme for the International Assessment of Adult Competencies” http://www.oecd.org/piaac. Per l’Italia il Ministero del Lavoro ha aderito al Programma ed ha affidato all’ISFOL il coordinamento tecnico-scientifico e la sua realizzazione. 15 Trad. it. documento di Andreas Schleicher (2008). Responsabile della Divisione indicatori ed Analisi della Direzione per l’Istruzione dell’OCSE. 16 Indagine “Work Skills in Britain” (1996-2001). Rapporto a cura di Francis Green. 17 Tomassini, M. (ed.) (2006), Organizzazione, Apprendimento, Competenze. Indagine sulle competenze nelle imprese industriali e di servizi in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino.

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L’organizzazione, soggetto formativo

BRUNO ROSSI

Abstract: Nowadays, organizational success is considered a goal connected with the human capital improvement process. Therefore, in socioeconomic contexts characterized by complexity and flexibility, subjects within organisations are viewed as factors answerable for the organizational development. Consequently, both the educational process and the long life learning process are considered as the most promising factors to improve organizational innovation and changes. Educational practices, focused on learning processes, are not only a technical training suitable for the organization but processes oriented to the development and transformation of individual’s reference frames, feelings, skills and disposition to social and situated learning processes. Riassunto: Il vantaggio e il successo organizzativo sono sempre più considerati inscindibili dalla valorizzazione e dalla coltivazione del capitale umano. Alle persone si guarda come ai maggiori responsabili del cambiamento in un contesto socioculturale ed economico caratterizzato da variabilità, incertezza, complessità. Conseguentemente, la formazione è considerata come uno dei mezzi più efficaci per produrre e sostenere l’innovazione. Apprendere sempre, apprendere di più e meglio è ritenuto presupposto fondamentale per la generazione dello sviluppo organizzativo. In questione è una formazione che, declinata secondo la logica dell’apprendimento, è progettata e attuata non tanto come addestramento al lavoro e adeguamento meccanico all’organizzazione e alla macchina quanto come un complesso di dispositivi destinati a realizzare incremento personale, trasformazione delle strategie cognitive ed affettive, aumento di competenze, disposizioni all’apprendimento collettivo e situato. Parole chiave: organizzazione, formazione, lavoro, competenza, risorsa umana.

Sebbene ancora oggi siano facilmente registrabili culture e prassi organizzative orientate ad attribuire una prevalente valenza alle componenti strutturali, tecnologiche, procedurali, va affermandosi progressivamente la convinzione che culture e prassi capaci di aver cura della unicità e totalità della persona, di sostenere e potenziare le capacità creative e propositive di tutti, di dare cittadinanza all’autonomia divergente, di promuovere EDUCATION SCIENCES & SOCIETY


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il pensiero laterale, di sollecitare apprendimento e voglia di successo, di incentivare e indirizzare i soggetti alla produzione di valore si dimostrano in grado di generare sviluppo, efficacia, qualità, vantaggio, e dunque di ridurre notevolmente il rischio che l’organizzazione soccomba all’interno di sistemi economici fortemente concorrenziali. Cresce la consapevolezza della necessità di prestare un’attenzione maggiore alla umanizzazione del lavoro e quindi al bisogno di far riemergere le persone con la loro originale soggettività, i loro luoghi esistenziali, i loro vissuti, le loro aspettative e i loro significati, le loro qualità e risorse, e di collocarle “al primo posto”. Piuttosto che i sistemi di produzione e le tecnologie, sono le persone i maggiori responsabili del cambiamento e dell’innovazione in un contesto socioculturale ed economico caratterizzato alquanto da variabilità, flessibilità, incertezza, turbolenza, complessità. In una stagione e in un’esperienza organizzativa che non poche volte perdono il senso personale del lavoro umano, ciò implica la risoggettivizzazione dell’economia e della produzione, la riumanizzazione delle comunità lavorative, la deassolutizzazione prometeica del lavoro, la risignificazione degli spazi della riflessione e della comunicazione. Questo è conseguibile soprattutto tramite la riaffermazione del primato delle persone sugli automatismi tecnologici e sociali, la restituzione del valore e della dignità alla vita interiore, l’investimento nelle persone, l’investimento delle persone su di sé, sulla propria mente e sul proprio cuore, sulla propria crescita. Aumenta la consapevolezza che l’acquisizione, il mantenimento, la qualificazione e la valorizzazione del capitale umano contribuiscono considerevolmente a dare cifra e spessore alla complessiva strategia organizzativa e caratterizzano la risorsa umana come insostituibile fonte di vantaggio competitivo. Essa rappresenta il fattore che più degli altri è in grado di assicurare all’impresa quel valore aggiunto grazie al quale concorrere e affermarsi. Alle persone si guarda come alle componenti capaci di ampliare ed affinare, tramite l’apprendimento, il sapere teorico e pratico di cui le organizzazioni non possono fare a meno per acquisire quella competenza distintiva che consente il guadagno del vantaggio competitivo e del successo. Da parte delle scienze organizzative vantaggio e successo sono sempre più considerati inscindibili non tanto o soltanto dall’investimento in innovazione tecnologica, in differenziazione dei prodotti/servizi e in immagine quanto e soprattutto dalla realizzazione di una comunità lavorativa centrata-sul-soggetto, dalla generazione di un neoumanesimo organizzativo più attento e interessato alla persona ed al suo essere portatrice di desideri da gratificare anche tramite l’esperienza lavorativa, più disposto a custodire il

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progetto di benessere e sviluppo della persona, più sollecito a farsi carico dei suoi reali profondi bisogni e ad aiutarla a soddisfare esigenze che non possono essere appagate altrove, maggiormente capace di privilegiare la qualità della vita emotiva e relazionale. È obiettivo, questo, che, in quanto esige una “nuova cultura per il lavoro”, non esprime un significato meramente economico quanto piuttosto politico e valoriale, culturale e prescrittivo, dal momento che chiede lo sviluppo di pensieri alternativi sull’idea di lavoro, sulla persona-al-lavoro, sulla qualità della sua vita, sulla filosofia organizzativa, sulle forme e sulle strutture organizzative, sulle modalità lavorative. È traguardo che reclama l’attuazione di processi e tragitti destinati a far sì che la storia professionale sia storia di autoformazione. In questione è la necessità di dare evidenza e risalto alle dimensioni soggettive della vita organizzativa e di conferire centralità alle componenti individuali dei processi organizzativi, di mettere in atto azioni formative finalizzate ad ottimizzare le risorse umane e quindi a rendere “potenti” i soggetti organizzativi (tramite il rafforzamento della capacità di decisione e scelta, dell’autodirezione, dell’autoregolazione, dell’autostima e dell’autoefficacia e mediante la riduzione della sfiducia, della paura, dell’ansia), affinché le loro forze e i loro poteri siano mobilitati e investiti nella direzione del raggiungimento della co-esistenza del proprio programma di autoincremento con il programma della struttura lavorativa, del perseguimento del “doppio progetto” (l’autorealizzazione personale e il successo aziendale, la gratificazione delle aspettative individuali e la soddisfazione dei bisogni collettivi). Si tratta di iniziative destinate a creare un cambiamento che sia positivo per il singolo e per la realtà organizzativa. Grazie alla formazione, sono mobilitate le forze e i poteri dei soggetti lavorativi in funzione del guadagno e del consolidamento della professionalità. Ciò consente loro una partecipazione reale e una contribuzione creativa al cambiamento e all’innovazione del luogo di lavoro sia mediante l’offerta di differenti atteggiamenti e comportamenti sia mediante la pratica di nuovi compiti e di nuove competenze. Perché la formazione? Contesti di lavoro e di mercato difficili, turbolenti, imprevedibili esigono sempre più competenze elevate e attitudine ad incrementare queste continuamente. Le organizzazioni hanno sempre più bisogno di qualificare

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il patrimonio di competenze possedute e di sviluppare nuove competenze, hanno necessità di promuovere al proprio interno una più consistente attitudine al cambiamento e all’innovazione. In misura crescente ad esse sono richieste la disposizione e la capacità di dotarsi di “altre” conoscenze e pratiche, anche allo scopo di poter transitare da strutture rigide a strutture flessibili, da realtà immobili a realtà innovative. Per questo ad esse è domandato di investire qualitativamente e quantitativamente in formazione. Le scienze organizzative guardano a questa come ad uno dei mezzi più efficaci per generare e sostenere l’innovazione. Appare sempre più inestricabile l’intreccio tra formazione del capitale umano e sviluppo della cultura dell’innovazione, tra crescita delle persone e guadagno di successo aziendale. Sempre più diffuso e condiviso è il convincimento che soltanto la persona e la sua formazione sono capaci di conferire qualità al lavoro e alla vita organizzativa, sopravvivenza e forza competitiva all’impresa. La possibilità di distinguersi per prestazioni più elevate e per capacità innovativa dipende dalla realizzazione di azioni formative e di processi di apprendimento. Apprendere sempre, apprendere di più e meglio è presupposto fondamentale per la generazione del cambiamento e della crescita organizzativa. Stretto è il rapporto tra sviluppo professionale e sviluppo organizzativo. In un tempo in cui nei luoghi del lavoro hanno fatto irruzione l’incertezza e una ridotta prevedibilità e sono comparsi una crescente ipercompetitività ed il correlato traguardo della formazione permanente, il cambiamento organizzativo non è più possibile separarlo dall’incremento della professionalità e dell’impegno dei soggetti lavorativi, nonché dal miglioramento della qualità della vita personale e delle prestazioni professionali. La centralizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano vengono in questo modo a costituirsi in misura crescente compiti irrinunciabili. Oggi più di ieri sono richieste nuove soluzioni organizzative, in particolare prospettando ed attuando scenari di azione contrassegnati dalla divergenza, dalla competenza, dalla flessibilità, dall’innovazione. Ciò pone il soggetto lavorativo al centro della vita organizzativa e lo accredita variabile indipendente di successo in direzione della produttività, della qualità e della capacità trasformativa. Fondatamente, si è persuasi che le organizzazioni capaci di promuovere apprendimento e formazione sono in grado di generare le condizioni favorevoli per l’innovazione e la sopravvivenza soprattutto in una stagione economica caratterizzata da un’evoluzione consistente. Ai soggetti lavorativi motivati e competenti – alla loro dotazione cognitiva, emotiva, relazionale,

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etica, nonché alla loro voglia di esprimere nel luogo di lavoro la propria creatività e imprenditorialità, di essere protagonisti del proprio successo e responsabili della propria carriera, di cercare opportunità di incremento sintoniche con le personali aspettative, di dare attuazione ai propri desideri, di realizzare i propri sogni – si guarda in misura sempre maggiore come alle forze strategiche, alle principali risorse competitive. La ricchezza di un’organizzazione, piuttosto che dalle sole competenze dei suoi attori, finisce con il dipendere anche dalla sua capacità di produrre le opportunità per l’espressione e il potenziamento di doti e poteri personali, per la manifestazione delle potenzialità individuali e per l’incremento di nuova intelligenza, per l’apprendimento della gestione della personale biografia formativa e lavorativa anche allo scopo di imparare a governare possibili cambiamenti di ruolo e di responsabilità. In questo senso, è in gioco il ripensamento dei modelli gestionali delle risorse umane. Si tratta di transitare dal modello burocratico dell’amministrazione e dal modello della gestione al modello personologico dello sviluppo delle risorse umane. Ciò implica la centralizzazione e la formazione del capitale umano, la concezione dei soggetti lavorativi non tanto come portatori e generatori di problemi quanto come solutori di problemi, l’incentivazione del senso di appartenenza, la sollecitazione del contributo delle persone al processo di generazione del valore, la sintonizzazione delle variabili organizzative con le conoscenze, le competenze, le esperienze, i valori e i comportamenti dei soggetti, nonché la riscrittura delle modalità retributive accreditando forme più innovative e promettenti di tipo input oriented piuttosto che output oriented, ricompensanti la motivazione e la partecipazione piuttosto che il risultato prodotto e riconosciuto ex post. L’organizzazione non è soltanto un luogo di processi produttivi ma è anche un ambiente di vita dove le persone possono trovare la possibilità di ricercarsi, sfidarsi, sperimentarsi, elaborare il senso della propria esistenza, condursi, farsi padroni di sé, appartenersi. È un territorio nel quale esse possono conoscere e generare conoscenza, stabilire e consolidare rapporti, assumersi rischi e fare pratica di responsabilità, esercitare intelligenza creativa e sensibilità, e quindi arricchirsi cognitivamente, affettivamente, socialmente, eticamente, esteticamente. È uno spazio che, pur in presenza di vincoli e difficoltà, è capace di offrire occasioni molteplici di incremento della Bildung personale e pertanto opportunità plurali di apprendimento, sviluppo di competenze, self-empowerment, cura e realizzazione di sé. In gioco è l’attuazione di un’“organizzazione umanistica” destinata a costruire differenti modalità di vita organizzativa grazie alle quali configurare

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e realizzare scenari, assetti, processi personalisticamente ispirati e pertanto in grado di attribuire cittadinanza all’autonomia creativa, alla democratizzazione delle procedure e delle comunicazioni, alla relazione inclusiva e valorizzante, a logiche di co-decisionalità e cooperazione, e per questo alla responsabilizzazione e al coinvolgimento dei soggetti lavorativi. In questione è l’impegno a riscoprire e valorizzare la centralità antropologica del lavoro senza per questo assolutizzarlo e unilateralizzarlo, il suo darsi come opportunità di autoinvestimento in conoscenza e intelligenza, in creatività e motivazione, la sua offerta di una remunerazione globale comprensiva dello stipendio ma soprattutto di ricompense intrinseche, di retribuzioni simboliche, di guadagni immateriali di sicuro umanamente più significativi dei profitti economici: soddisfazione, orgoglio, sentimento e esercizio di potere, pratica di sapere e di saper fare, autonomia, responsabilità, stima, prestigio sociale, sicurezza, convivialità, amicizia, solidarietà, gioco, estetica, opportunità di sviluppo personale e di apprendimento continuo. Ancora oggi, in un tempo di consistenti precarietà economiche e di correlate difficoltà esistenziali, guadagnare denaro non sembra essere una delle principali ragioni che giustifica e motiva il lavorare. Nonostante tutto, non sono poche le persone che riconoscono nel proprio lavoro motivazioni di carattere “espressivo” fortemente gratificanti, opportunità molteplici grazie alle quali dare significato a sé e al proprio stare e agire. In proposito, il traguardo è quello della creazione di un’organizzazione caring ed empowering, della realizzazione dell’attività lavorativa secondo una strutturazione che si compia come modalità di formazione, della costruzione di una cultura organizzativa contrassegnata dall’accreditare e dal far vivere l’esperienza lavorativa come vicenda capace di contribuire alla soddisfazione, per la persona, della domanda di incremento del proprio essere, sapere, saper fare e saper convivere, e dunque impegnata a farsi sempre più attenta custode della formazione come strumento indispensabile per affrontare il cambiamento e produrre l’innovazione mediante la mobilitazione e la qualificazione del proprio capitale umano. In questione è la realizzazione di un ambiente da vivere come luogo di formazione, come risorsa per l’apprendimento e pertanto per la cura di sé, per il darsi forma e il prender forma. Questa organizzazione si consegna il compito di passare dalla condizione di realtà puramente economica a soggetto formativo. L’impegno necessario, al riguardo, è quello di provvedere a generare nuove forme organizzative mirate a creare “lavoro buono”, a realizzare pertanto una differente organizzazione dell’organizzazione finalizzata al superamento dell’antica antinomia fra qualità del lavoro ed efficienza dell’impresa, così

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da costruire presupposti culturali per lo sviluppo di nuovi modi di essere, convivere e produrre nei contesti lavorativi. Ciò è possibile soprattutto accreditando l’organizzazione come comunità di persone e, in quanto tale, risorsa di valori e significati, avvalorando la persona come ricchezza rilevante per la produzione di valore economico, e, conseguentemente, elaborando ed attuando imprese formative dell’adulto impegnato professionalmente destinate non solamente a fargli guadagnare saperi strumentali e tecniche di lavoro quanto in particolare a dotarlo di mentalità e competenze necessarie ad una partecipazione piena ed effettiva alla vita organizzativa e ai processi di cambiamento e innovazione del contesto lavorativo. All’organizzazione è richiesta la soddisfazione del compito di pensare e realizzare politiche e processi organizzativi tramite cui provvedere a promuovere la crescita e l’autorealizzazione del soggetto lavorativo, in particolare contribuendo alla qualificazione di una “soggettività creativa”. Il valore e la qualità, la produttività e la forza competitiva dell’organizzazione trovano sempre più la loro fonte nella creatività, nelle idee innovative efficaci e nel loro uso intelligente. Lo sviluppo organizzativo è sempre più inseparabile dal potere creativo delle persone inconfutabilmente generativo di quel cambiamento con il quale nel futuro prossimo le organizzazioni dovranno abituarsi a convivere e grazie al quale riusciranno a cogliere opportunità che altrimenti non sarebbero riuscite ad individuare. Nell’organizzazione creativizzante possono essere trovati il presupposto per la produzione di lavoro buono e la garanzia di poter abitare il contesto lavorativo secondo una sostanziale cittadinanza organizzativa, nonché la premessa per la ripersonalizzazione dell’organizzazione e pertanto le condizioni per l’avvaloramento dei tipici poteri di ogni persona e per la cura della sua singolarità, cosicché dall’ambiente di lavoro siano eliminati, o comunque alquanto ridotti, i vissuti di anonimato e impersonalità. Il prendersi cura della creatività delle risorse umane è in grado di disegnarsi vantaggio competitivo per eccellenza se riesce soprattutto ad offrire un contributo consistente alla costruzione di una «cultura della formazione permanente e dell’apprendimento continuo», pertanto della cultura del potenziamento ininterrotto e della crescita dei soggetti organizzativi e dunque della cultura della trasformazione personale con quanto questa contribuisce all’effettivo esercizio di una cittadinanza professionale attiva indispensabile per sapersi muovere in modo esperto all’interno di una complessa rete relazionale composta da persone, saperi, competenze, pratiche, valori, e se è finalizzata all’ottenimento della qualità formativa nella pratica lavorativa. In gioco è una formazione centrata primariamente sullo sviluppo delle

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potenzialità creative dei soggetti piuttosto che destinata al potenziamento delle capacità competitive, e pertanto una formazione non concepita riduttivisticamente come investimento dal quale aspettarsi, solo o soprattutto, l’aumento della produttività e l’innalzamento dell’efficienza. Accreditando questa prospettiva, è prefigurabile la costruzione di un contesto lavorativo nuovo, congruo con l’obiettivo di una crescita equilibrata dei singoli soggetti, capace di far transitare il lavoro da esperienza spesso imprigionante e demolitiva ad esperienza liberante, da realtà sovente mortificante a territorio di attuazione personale, da universo non di rado spersonalizzante a spazio privilegiato per l’autocostruzione, da contesto non poche volte di esecuzione e sofferenza a luogo di creazione e piacere, da attività in cui si fa un “cattivo uso di se stessi” ad attività dove di se stessi si fa un uso che soddisfa le aspettative di autoespressione e autosviluppo. In questo senso, insieme a contesti autonomizzanti, valorizzanti, rassicuranti, entusiasmanti, ricompensanti, alle organizzazioni è richiesto di dare attuazione a sistemi di gestione delle risorse umane che siano premianti, motivanti, corresponsabilizzanti, formativi. Esse devono esprimere con decisione la volontà di riscattarsi dalla cultura oggettivante di tayloriana concezione e fordiana realizzazione e di impegnarsi a valorizzare le persone e occuparsi della loro formazione (umanistica e generativa, “sentita” e contestuale, molteplice e ininterrotta), affinché esse non vedano sprecate intelligenze, volontà, ricchezze, diventino soggetti del proprio esistere organizzativo, siano in grado di dare significato al tempo del lavoro. Quale formazione? Il progressivo passaggio da un’economia basata sulle risorse naturali ad un’economia fondata sulle risorse intellettuali, la rapida affermazione delle tecnologie della comunicazione hanno contribuito a centralizzare il sapere in ordine allo sviluppo organizzativo e di conseguenza hanno richiesto una riscrittura della formazione, dei suoi modelli, delle sue logiche, delle sue metodologie. Fare formazione è realizzare azioni incentrate sulla ricerca e sulla costruzione di senso, orientate ad aiutare i soggetti a frequentare, interpretare e gestire secondo modalità maggiormente idonee e articolate i contesti lavorativi e le situazioni operative vissute, a ritrovarvi un valore di senso nonostante il loro essere caratterizzate da limite e contraddizione, rigidità e chiusura. Il successo trasformativo e sviluppativo di tale esperienza formativa è in-

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disgiungibile dalla sua declinazione secondo la filosofia dell’apprendimento, in particolare secondo la logica del learning e non tanto del teaching e del training, con quello che ciò chiede di coinvolgimento/protagonismo della soggettività, reciprocità, processualità, situazionalità, co-apprendimento. In questo modo, la formazione non rischia di deteriorarsi in un’azione finalizzata a garantire l’integrazione lavorativa del soggetto alle logiche produttive mediante tecnologie addestrative e adattative, non rischia di risolversi in un’esperienza mirata soltanto a favorire e sostenere il funzionamento organizzativo. Essa è progettata e realizzata piuttosto come un complesso di dispositivi destinati a generare sviluppo personale, trasformazione delle strategie cognitive ed affettive, aumento di abilità e capacità, disposizioni all’apprendimento collettivo e situato. Secondo questa prospettiva, la formazione è stimata, oltre che come un efficace strumento di autotutela e di governance dei processi di produzione e sviluppo della conoscenza, come un’esperienza di incremento ed evoluzione professionale basata su logiche di scoperta e innovazione, come un rilevante mezzo di valorizzazione, potenziamento e mobilitazione delle risorse umane, con quanto ciò reca con sé di promozione dei grandi poteri di cui è titolare la persona, compendiabili nella decisionalità e nella creatività, nell’inventività e nell’abilità di porre e risolvere problemi nuovi e complessi, nella capacità/compito di costruire significato e attribuire senso ad eventi e situazioni. Tale formazione è in grado di caratterizzarsi per contestualità e concretezza e pertanto per impegno e capacità di basarsi sugli effettivi processi di lavoro e sulle reali pratiche lavorative, sulla conoscenza pratica dei soggetti e sul loro patrimonio esperienziale, sui problemi quotidiani prodotti dalle loro relazioni e sulle modalità attuate localmente dagli attori per risolvere tali problemi. È una formazione che non considera i contesti lavorativi come territori di applicazione e consumazione di saperi teorici codificati altrove o di norme istituzionali, bensì come ambienti in cui le persone manipolano teorie e norme ai loro scopi pratici e costruiscono un universo di regole, teorie e paradigmi tramite il quotidiano comunicare e agire. In questo senso, ad ogni realtà lavorativa è possibile guardare come ad una comunità di pratiche e di saperi, come ad un comunità di apprendimento generativa di conoscenza socialmente costruita, situata, pragmatica, custodita, trasferita e trasferibile. La formazione è in grado di dare un considerevole contributo attrezzando i soggetti organizzativi al cambiamento anche mediante lo sviluppo delle loro competenze emotive e relazionali ed il rafforzamento dell’auto-

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consapevolezza e dell’autoriflessione. Lungi da prospettive tecniche e tantomeno tecnicistiche, è finalizzata alla liberazione e alla crescita di soggettività, alla promozione del capitale umano, alla conquista di competenze relative al sé. Accanto alla capacità di apprendere, essa persegue il traguardo dell’apprendere ad apprendere e, insieme al sapere e al saper fare, custodisce e coltiva il saper sentire e il saper convivere. Aiutando il soggetto lavorativo a fronteggiare i molteplici e continui cambiamenti e attrezzandolo di capacità mediante cui non soccombere di fronte alle difficoltà e rispondere creativamente e propulsivamente alle situazioni problematiche strutturali ad ogni cambiamento, la formazione contribuisce, oltre che alla generazione di valore e di significato, alla realizzazione di un’organizzazione del benessere ed offre alla persona gli strumenti tramite cui inventare e progettare il benessere. Il soggetto che è aiutato a prendersi per mano e ad essere leader di se stesso è in grado di proteggersi nei confronti del disagio lavorativo e di generare benessere per sé e per gli altri. In gioco è una formazione che non può non essere ispirata e presieduta da una definita opzione antropologica grazie alla quale avere consapevolezza che la persona, piuttosto che un fatto o un caso o una casella o un risultato di forze socioculturali o una funzione, è un valore e un ideale, è realtà polilaterale non riducibile ad alcun monismo, è soggettività cui sono strutturali il potere di autoaffermazione e autodirezione, la capacità di domanda e la volontà di significato. Essa si identifica in un impegno culturale centrato sulla persona, sulla sua totalità, sulla sua composizione identitaria e per questo non limitato alla componente professionale e soprattutto non ridotto all’acquisizione di apprendimenti strumentali e specialistici. Tale impegno è elaborato come un processo di trasformazione, poggia su un progetto formativo destinato in particolare alla manifestazione e all’arricchimento della dotazione creativa della persona piuttosto che mirato a rendere questa maggiormente informata trasmettendo contenuti e ad incrementarne unicamente le abilità pratiche e le capacità competitive. In gioco è anche il compito organizzativo di accompagnare la persona a rendersi (sempre più) consapevole di possedere “patrimoni” non sfruttati e ad imparare a valorizzarli e coltivarli. È una formazione non progettata riduttivisticamente come addestramento al lavoro, come qualificazione destinata alla sola generazione di maggior ricchezza, come adeguamento meccanico all’organizzazione e alla macchina, come apprendimento di mansioni specifiche, come adattamento ai ritmi e alle caratteristiche dell’organizzazione, come investimento da

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cui attendersi, soltanto o primariamente, il miglioramento immediato nelle prestazioni, l’innalzamento della produttività, dell’efficacia e dell’efficienza dell’impresa. È una formazione finalizzata soprattutto a dare una risposta agli umani insopprimibili bisogni di autodeterminazione, espressività, significato, relazione. In questione non è dunque solo o specialmente un’esperienza destinata alla trasmissione/acquisizione passiva di metodi e tecniche, alla dilatazione e al consolidamento delle abilità e delle capacità legate al mercato e nemmeno intenzionata a determinare esclusivamente cambiamento organizzativo. L’opzione è soprattutto per una formazione mirata a generare cambiamento qualitativo personale in modo da risoggettivizzare la vita organizzativa affinché non sia subita, non sia vissuta in modo periferico, con la consapevolezza della rilevante influenza esercitata dalla vita organizzativa e dall’esperienza lavorativa sulla costruzione dell’identità personale, della marcata incidenza svolta dall’apprendimento in fatto di percezione del proprio ruolo, della propria professionalità e dell’immagine di sé nel lavoro. Non si tratta, pertanto, di una formazione identificabile nella qualificazione professionale e nemmeno di una formazione orientata al solo sviluppo organizzativo. In gioco non sono la promozione di capacità esecutive e la qualità delle performance organizzative e dei prodotti, bensì soprattutto la qualità del lavoro e quindi lo sviluppo della vita totale del lavoratore. Ciò chiede l’impegno a tematizzare l’organizzazione come un contesto di convivenza produttiva ispirato e sostenuto dalla pedagogia dell’avvaloramento delle diverse soggettività e dal riconoscimento a tutti del diritto di cittadinanza, come uno degli ambienti eletti per il divenire personale che non trova nella retribuzione monetaria e negli incentivi esterni i soli regolatori, come una comunità di persone portatrici di basilari bisogni e di un complessivo progetto esistenziale che chiede espressione e nei cui confronti impegnarsi, assumere responsabilità, agire. In tale contesto al soggetto lavorativo è sempre più richiesto di farsi apprendista continuo al fine di incrementare il proprio sapere professionale nonché allo scopo di investire sul sé professionale in un modo eccedente la domanda di lavoro e le necessità organizzative così da rendersi possibile la costruzione di territori dove far pratica di creatività, di scelta e sperimentazione del possibile, dell’imprevedibile e del complesso. La formazione può configurarsi così presidio culturale in virtù del quale all’attore organizzativo è concesso di tutelarsi nei confronti delle difficoltà e delle incertezze occupazionali proprie di scenari lavorativi e di mercati caratterizzati da rapidità di mutamento, turbolenza, rilevante percentuale di incertezza e precarietà.

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Presentazione dell’Autore: Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale e docente di Pedagogia delle organizzazioni nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo – Università degli Studi di Siena.

Bibliografia Fabbri, L. (2007), Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Per una formazione situata, Roma, Carocci. Fabbri, L., Rossi, B. (a cura di) (2001), La formazione del Sé professionale, Milano, Guerini e Associati. Rossi, B. (a cura di) (2005), Sviluppo professionale e processi di apprendimento, Roma, Carocci. — (2008), Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro come formazione, Milano, Guerini e Associati. — (2009), Educare alla creatività. Formazione, innovazione e lavoro, Roma-Bari, Laterza.

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Lessico pedagogico

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Competenza

MICHELE PELLEREY

1. La parola evoca sia per la sua origine etimologica, sia per il suo uso quotidiano, l’agire umano in un contesto relazionale: con persone, cose, situazioni. Naturalmente ciò può essere vissuto, a causa della tipologia di relazione attivata, in forme competitive, cui lo stesso termine può alludere, oppure in forme cooperative. A quest’ultimo proposito oggi si parla anche di competenze distribuite. La parola in ambito giuridico e istituzionale indica la posizione di chi è legittimato a prendere determinate decisioni e/o ad agire secondo procedure più o meno predefinite: egli, cioè, è competente, o ha la competenza, nell’intervenire in settori specifici della vita pubblica. In ambiti professionali essa evoca più che uno stato (essere competenti), un processo nel quale si attivano rapporti con persone o con situazioni (manifestare competenza); e queste ultime in qualche modo sfidano la capacità personale di agire in maniera da rispondere positivamente a tali sollecitazioni. In altre parole si tratta di essere in grado di agire con competenza in un contesto che sollecita la propria capacità di risposta. Se al cuore della nozione sta l’agire umano, allora ne deriva una duplice esigenza: di riflessione critica di natura filosofica sul significato attribuito a una azione competente nei vari ambiti di esperienza, nel nostro caso in ambito formativo; di approfondimento psicologico relativo all’agire umano competente, soprattutto in ambito pedagogico, tenendo conto dei diversi approcci proposti, alcuni dei quali limitanti e ristretti, come il comportamentismo, altri più aperti e comprensivi, come la psicologia dell’azione di impostazione tedesca1. Rimane comunque la considerazione di un processo nel quale una persona manifesta la sua competenza nel saper decidere, agire e valutare i risultati della propria azione in maniera personalmente e socialmente soddisfacente. 2. Prima di approfondire tali tematiche occorre chiarire una questione spesso evocata da chi non ama molto l’insistere sul concetto di competenza in ambito educativo o scolastico: il pericolo di sottovalutare l’apporto formativo che viene dallo sviluppo dei saperi. Questi esercitano, se accostati validamente, due influssi positivi sulla crescita umana. Il primo riguarda la coltivazione della persona in aspetti meno direttamente e immediatamente spendibili, ma certamente fondamentali per arricchirla da molti punti di vista, come sensibilità verso valori e significati spesso meno evidenti, comprensione empatica di situazioni di vita e di sofferenza, esperienza di momenti di godi-

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mento estetico, riflessione critica rispetto a facili giudizi e orientamenti. In altre parole la coltivazione dello spirito attraverso l’accostamento del vero, del bene, del bello, del giusto mediante la frequentazione dei vari saperi. Una genuina loro esperienza favorisce lo sviluppo di uno spazio interiore, che permette nel tempo di penetrare sempre più in profondità il loro valore infinito e di coglierne sempre meglio la connessione con il senso e la prospettiva della propria esistenza, il significato più profondo del tutto, la stessa felicità personale presente e futura. Questa coltivazione della persona promuove lo sviluppo di gran parte di quelle risorse interne che sono spesso evocate come base portante della possibilità di agire con competenza. Anzi, se ben integrate nella persona, ne costituiscono fonte di motivi, desideri, aspirazioni, prospettive esistenziali che orientano e sostengono la stessa azione competente. Questa crescita personale e culturale dello studente è condizione necessaria per lo sviluppo di competenze adeguate al fine di affrontare le sfide poste non solo e non tanto all’interno della scuola, quanto fuori e oltre essa. Ed è questo il secondo apporto dei saperi. Occorre però insistere anche sul fatto che ciò non è sufficiente ai fini di una vera maturazione umana, perché è attraverso l’esercizio pratico che si sviluppa la capacità di agire in maniera pertinente e valida nei vari contesti esperienziali. 3. In generale, si può affermare che l’uso della parola competenza è stato spesso associato a una pratica umana, cioè a un’attività rilevante dal punto di vista professionale, sociale, culturale o personale; l’espressione indica che un soggetto è in grado di portare a termine in maniera soddisfacente un compito da lui scelto o a lui attribuito all’interno di tale pratica. In altre parole una persona è normalmente competente in un ambito specifico dell’esperienza umana. Tuttavia, l’uso del termine può essere esteso all’intera esistenza umana: nel contesto della propria esperienza vitale la persona riesce ad agire, a interagire, a svolgere i propri impegni lavorativi, sociali, famigliari, personali, in maniera competente, cioè coerente con le finalità che si è posta e feconda quanto a risultati ottenuti. Si tratta di quella competenza esperta evocata da Aristotele con l’espressione “virtù”, in particolare nella sua Etica a Nicomaco: un “organismo virtuoso” è capace di condurre una “vita buona”. La questione che viene posta immediatamente dopo è: quando possiamo definire una vita “buona”, una vita “riuscita”? Quando l’agire, l’interagire possono essere considerati soddisfacenti? In ambito pedagogico queste sono domande assai impegnative, perché concernono le finalità stesse dell’azione educativa e la concezione di maturità umana da promuovere. La storia dell’educazione e della pedagogia ci ha aiutato a comprendere come nel corso delle vicende umane la centralità posta dai processi educativi alla crescita delle varie dimensioni della persona umana sia spesso mutata, se non completamente rivoluzionata. Di conseguenza ogni pratica umana, ed educativa in particolare, è segnata sia storicamente, sia culturalmente. E così inevitabilmente è del concetto di competenza, sia come qualità dell’agire dell’educatore, sia come qualità da promuovere nell’agire degli educandi.

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4. Il fatto che l’agire competente sia associato a una pratica umana comporta, quindi, che la stessa nozione di competenza sia segnata da una sua evoluzione storicoculturale, sia per quanto riguarda i risultati attesi, sia per quanto concerne il modo di raggiungerli. Basti pensare al mondo professionale e del lavoro. In esso la progressiva trasformazione tecnologica e organizzativa implica ben diversi modi di agire e di interagire sia con le attrezzature tecniche, sia con le persone. Le sfide operative di conseguenza crescono in complessità e novità, i risultati attesi implicano la soluzione di problemi spesso imprevisti e talora con elementi di scarsa definizione. Anche dal punto vista della vita sociale i processi di globalizzazione pongono nuove sfide dovute ai fenomeni sempre più sollecitanti di pluralismo culturale, linguistico, religioso, comportamentale. La rapidità e profondità dei mutamenti economici, sociali, culturali influenza in maniera talmente incisiva la pratica educativa e formativa che gli stessi pedagogisti si trovano in difficoltà a delinearne una prospettiva valida e feconda. Le classiche antinomie pedagogiche tendono a moltiplicarsi e a porre non pochi ostacoli all’elaborazione di una proposta equilibrata di mediazione. In questo contesto come è possibile definire e riconoscere un educatore come competente e, ancor più, un pedagogista come competente nel formulare progetti di preparazione degli educatori? 5. Da parte di molti autori si insiste, credo giustamente, sul fatto che, dal punto di vista del riconoscimento di un agire competente, non è tanto e non solo la qualità delle risorse personali e collettive disponibili che fa premio, quanto la capacità di valorizzarle nel corso dell’azione. A questo fine il possesso e la qualità delle conoscenze, delle abilità e delle altre caratteristiche personali possedute è certamente condizione necessaria; ma essa non è sufficiente, se non si è in grado di metterle in moto e di integrarle efficacemente quando, dove e come è richiesto. Lo stesso vale per l’utilizzazione delle risorse esterne, quando esse siano disponibili e/o necessarie: persone, attrezzature, fonti scritte o multimediali, ecc. Viene così messa in risalto la capacità di gestire una complessa relazione tra il sé (e le proprie risorse personali), la situazione nella quale siamo chiamati a intervenire e il contesto sociale, culturale e professionale nel quale ciò deve essere attuato. In altre parole una competenza si manifesta perché si è in grado di agire validamente in un contesto di relazioni complesso e dinamico nel quale giocano almeno tre tipi di relazione: tra il soggetto e il compito da svolgere o la situazione sfidante; tra il soggetto e gli altri soggetti presenti direttamente o indirettamente coinvolti; tra gli altri soggetti presenti e il compito da portare a termine o la situazione sfidante. Nel caso della pratica didattica ciò può essere letto in questo modo: la relazione tra docente e discente è certamente guidata dagli obiettivi di apprendimento, espliciti e/o impliciti, che il docente vuole promuovere, e questi derivano dalla sua cultura disciplinare e pedagogica e da quella presente nella pratica educativa della scuola. Ma anche le forme concrete di sviluppo dell’azione di insegnamento nel contesto della classe sono segnate dall’esperienza del docente e dalla pratica pedagogico-didattica diffusa nella istituzione scolastica. Lo stesso vale, e forse più ancora, per quanto concerne la valutazione

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degli apprendimenti. Il riconoscimento della competenza educativa e didattica di un docente viene di conseguenza spesso riferita alla concettualizzazione della pratica pedagogica che si è sviluppata nel tempo all’interno e all’esterno della scuola. 6. La competenza nel rispondere a una sfida posta dall’attività nella quale si è coinvolti implica la capacità di leggere e interpretare correttamente la situazione che sollecita la nostra azione, di prefigurare un modo valido ed efficace di rispondere a tale richiesta, di attivare e coordinare le proprie risorse interne e quelle esterne in funzione del nostro intervento, di monitorare tale intervento e adattarlo alle circostanze che progressivamente emergono nel suo svilupparsi, di valutare la bontà o meno dei risultati ottenuti, di individuarne la ragioni e di trarne le conseguenze per il futuro. Si tratti di risolvere un problema, di realizzare un prodotto, di affrontare una situazione di lavoro o di relazione sociale, la competenza di una persona si evidenzia nell’essere in grado di attivare, guidare, sostenere, controllare, valutare il processo che permette di conseguire il risultato atteso. In questo entra in gioco lo stato interiore del soggetto. Cioè: quanto egli è coinvolto o motivato nell’affrontare il compito o la situazione sfidante; quanto tutto questo egli percepisce come complesso e poco famigliare o viceversa semplice e ripetitivo; se egli pensa di possedere le risorse in termini di conoscenze, abilità ed esperienza necessari per affrontarli; ecc. In effetti la generazione dell’intenzione di agire, di impegnare le proprie energie in una direzione, deriva dall’interazione tra il sistema del sé (conoscenze concettuali e operative; motivi, valori e convinzioni; attribuzioni di valore nei riguardi di sé, degli altri e del contesto lavorativo; ecc.) e la percezione della situazione specifica o del compito da affrontare e delle sue caratteristiche. In altre parole ha un ruolo del tutto rilevante una componente della competenza che possiamo denominare interpretativa, in quanto si tratta di dare senso a una situazione (o a una problema), cogliendone gli aspetti che implicano un intervento che la modifichi secondo un obiettivo preciso e, contemporaneamente percepire se si è in grado di affrontare tale situazione in maniera valida ed efficace. 7. Il processo sopra evocato può essere esaminato più specificamente utilizzando il quadro concettuale del transfer, cioè del processo attraverso il quale una competenza già raggiunta può essere modulata o addirittura trasformata per affrontare una situazione nuova e/o più complessa, evidenziandone i caratteri e le condizioni necessarie per una sua attivazione positiva. Alla base di tale processo sembra esserci l’intenzione e la voglia di impegnarsi in esso2. Di fronte a un compito più o meno nuovo e complesso entra in gioco da una parte la consapevolezza critica che si ha del patrimonio di competenze già acquisite e disponibili e, dall’altra, la percezione della situazione con cui ci si deve confrontare. È questo un passaggio fondamentale che implica la gestione di un processo di natura meta-cognitiva: la capacità di prendere in considerazione non solo le competenze già sviluppate, ma anche le conoscenze, le abilità e le altre disposizioni interne stabili a queste collegate, e su questa base valutare le esigenze che si pongono

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in termini di apprendimento di nuove conoscenze o abilità, di crescita personale e di esercizio pratico necessari per raggiungere competenze diverse o più elevate, oppure per trasferire quelle possedute verso un ulteriore e più esigente campo di valorizzazione. Spesso questo passaggio esige l’aiuto di altri più preparati. A partire da questa consapevolezza è possibile progettare un cammino di acquisizione progressiva delle conoscenze e delle abilità necessarie e di una loro valorizzazione in contesti di pratica coerenti con gli obiettivi da raggiungere. Ciò può anche essere vissuto come una forma di narrazione proiettata sul futuro, che si innesta sulla propria storia precedente. L’ulteriore passaggio è di tipo pratico e regolativo: mettere in atto il cammino progettato. La guida fondamentale allo svolgersi dell’azione rimane la rappresentazione interna dell’obiettivo da perseguire, in cui un ruolo decisivo è svolto anche dalla forza volitiva, che determina l’intensità e la perseveranza dell’azione stessa. Bandura3 indica tre fattori che concorrono al costituirsi di questa forza volitiva: una continua osservazione e valutazione del proprio agire nella direzione intesa, valutazione che risulta segnata emotivamente; la percezione soggettiva di poter raggiungere efficacemente lo scopo prefigurato; la capacità di adattarsi all’evolversi della situazione, rinforzando, quando necessario, il proprio comportamento. Ciò è stato spesso collegato al tratto della personalità che può essere descritto come “coscienziosità”. Infine, svolge un ruolo essenziale la valutazione. In primo luogo un’auto-valutazione che utilizza come criteri di riferimento sia la padronanza via via raggiunta, sia il confronto con le prestazioni degli altri e/o con riferimenti o standard generali. In tal caso si possono avere anche reazioni negative, se ci si accorge di un livello di prestazioni inferiori a quanto socialmente considerato. Tuttavia, questo tipo di valutazioni può assumere un ruolo assai positivo se il confronto viene fatto con una persona che fa da modello e da sostegno nell’operare. È questo il caso dell’apprendistato sia pratico, sia cognitivo. 8. Approfondendo la problematica da un punto di vista pedagogico e didattico, ci si può domandare quanto l’approccio per competenze sia compatibile con l’attuale assetto della nostra scuola. Infatti, varie obiezioni sono state avanzate circa la sostenibilità di una tale impostazione. In primo luogo promuovere una valorizzazione delle conoscenze sia dichiarative, sia procedurali acquisite nel contesto di un insegnamento disciplinare in contesti diversi da quelli sperimentati, nel contesto di altre discipline o di situazioni e questioni di vita ordinaria implica una riorganizzazione dei tempi di apprendimento. In altre parole occorre ridurre la quantità dei saperi da acquisire per dare spazio a un’attività sistematica che mira a imparare a servirsene in maniera intelligente nel risolvere problemi, elaborare progetti, produrre artefatti. La tendenza, invece, è quella di aumentare i contenuti proposti per le varie discipline di insegnamento. Inoltre nella tradizione scolastica italiana ben poco spazio viene dato alle cosiddette applicazioni dei concetti e procedimenti propri delle varie discipline, si è più attenti a presentare una loro costruzione logica ben strutturata. Di qui nascono non poche delle difficoltà pratiche come quelle connesse con la loro valutazione. Se non

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si dà adeguato spazio all’attività degli studenti nell’utilizzare le conoscenze apprese in contesti anche moderatamente complessi e poco famigliari, non è possibile cogliere dalle loro prestazioni indicazioni di competenza raggiunta. Analoga difficoltà deriva dalla organizzazione dell’orario scolastico articolato per insegnamenti molteplici (fin troppo numerosi), distribuiti secondo periodi troppo brevi di attività, le cosiddette ore scolastiche. Organizzare l’attività degli studenti al fine di promuovere lo sviluppo delle loro competenze implica modalità di strutturazione dell’orario scolastico e di intervento dei docenti che sia coerente e compatibile con tale intendimento. Anche per questi motivi l’esperienza che gli studenti vivono nella scuola primaria è molto più aperta allo sviluppo delle competenze fondamentali quali quelle connesse con la progressiva padronanza della lingua, della matematica, delle varie forme espressive di sé. Il passaggio alla scuola secondaria tende a ridurne gli spazi e le forme. Occorre approfondire tale problematica per individuare e sperimentare forme organizzative e metodi di intervento più coerenti e produttivi. Certamente i modelli provenienti dalle varie forme di apprendistato sia pratico, sia cognitivo, oppure dalle cosiddette comunità di pratica e/o di apprendimento, o, ancora, dalla tradizione di una didattica attiva possono aiutare in questa impresa.

Note 1

Cfr. la scuola avviata da Heinz Hechhausen, alla quale hanno dato contribuiti significativi J. Kuhl, P.M. Gollwitzer, F. Kanfer, E. Klinger. Per maggiori dettagli si può consultare il terzo capitolo del volume M. Pellerey, (1999), Educare, Roma, LAS. 2 M. Pellerey, «Processi di transfer delle competenze e formazione professionale», in ISFOL, Le dimensioni metacurricolari dell’agire formativo (a cura di C. Montedoro), Milano, FrancoAngeli, 2002, pp. 113-153. 3 A. Bandura (1988) «Self-regulation of motivation and action through goal systems», in V. Hamilton, G.H. Bower, N.H. Frijda (eds.), Cognition, motivation, and affect: A cognitive science view, Dordrecht, M. Nijhoff, pp. 37-61.

Suggerimenti bibliografici Bertagna, G. (2004), Valutare tutti, valutare ciascuno, Brescia, La Scuola. — (2009), «Saperi disciplinari e competenze», in Studium Educationis, 2, pp. 137155. Castoldi, M. (2009), Valutare le competenze. Percorsi e strumenti, Roma, Carocci. Deci, E.L., Moller, A.C. (2007), «The concept of competence», in J. Elliot e C.S. Dweck (eds.), Handbook of Motivation and Competence, New York, Guilford, pp. 579-597.

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Le Boterf, G. (2000), Construire les compétences individuelles et collectives, Paris, Éditions d’Organisation, trad. it. (2008) Costruire le competenze individuali e collettive, Napoli, Guida. — (2008), Repenser les compétences, Paris, Eyrolles. Maccario, D. (2006), Insegnare per competenze, Torino, SEI. Pellerey, M. (2004), Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci, La Nuova Italia. — (2006), Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola. — (2010), Ripensare le competenze, Napoli, Tecnodid. Perrenoud, P. (2003), Costruire le competenze a partire dalla scuola, Roma, Anicia. — (2010), «Sviluppo delle competenze e senso del lavoro a scuola», in M. Spinosi (a cura di), Sviluppo delle competenze per una scuola di qualità, Napoli, Tecnodid, pp. 169-170. Rey, B. et alii (2003), Les compétences à l’école, Bruxelles, de Boeck. Roegiers, X. (2000), Une pédagogie de l’intégration. Compétences et integration des acquis scolaires, Bruxelles, De Boeck. Spinosi, M. (a cura di) (2010), Sviluppo delle competenze per una scuola di qualità, Napoli, Tecnodid.

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Approfondimento bibliograямБco

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Approfondimento bibliografico

Competenza Pier Giuseppe Rossi, Lorella Giannandrea, Patrizia Magnoler

L’esplorazione del costrutto di competenza si presenta in letteratura con molteplicità di prospettive. La difficoltà di selezionare le scritture più significative induce a proporre un’organizzazione tematica articolata in quattro percorsi: alcuni studi sul concetto di competenza, le problematiche che si presentano ancor oggi nel parlare di competenze, il nodo della valutazione delle competenze e infine come si parla di competenze e professionalità.

Studi sul concetto di competenza La definizione di competenza risulta multiforme e pluriprospettica a causa dei differenti ambiti in cui essa viene utilizzata e ancor più a causa delle differenti radici teoriche delle prospettive che utilizzano il vocabolo competenza. Una ricostruzione storica delle diverse accezioni che il termine competenza ha assunto negli ultimi 50 anni è stata proposta nel volume di Pellerey del 2004, Le competenze individuali e il portfolio, Firenze, La Nuova Italia. A partire dagli anni Sessanta e dalla proposta tyleriana (R. Tyler, 1949, Basic principles of curriculum and instruction, Chicago, University of Chicago Press), che vedeva negli obiettivi di apprendimento intesi come comportamenti osservabili il fine dei processi formativi, si fa strada una concezione della competenza come prestazione, identificabile in un comportamento o in una serie di comportamenti connessi da relazioni operative. La competenza in quest’ottica si acquisisce attraverso forme di istruzione programmata, in grado di sviluppare e consolidare una serie di micro-procedure che danno luogo, per successive accumulazioni, a procedure più complesse. Questa impostazione è sostenuta da autori quali Bloom, Briggs e Gagné ed emerge in modo paradigmatico nell’opera di Mager (1978), Come progettare l’insegnamento, Teramo, Lisciani e Zampetti. L’identificazione della competenza con la prestazione, quindi con il comportamento osservabile messo in atto pubblicamente dallo studente, genera una tipologia di percorsi di definizione delle competenze detta “task analysis”, analisi del compito. Un compito veniva infatti scomposto in una sequenza di singole azioni che costituivano una procedura da interiorizzare al fine di raggiungere gli obiettivi di apprendimento. Negli anni Settanta, accanto alla ricerca in ambito scolastico, si inizia ad utilizzare il concetto di competenza anche in ambito professionale, cercando di definire la qua-

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Approfondimento bibliografico

lificazione necessaria ad occupare un posto di lavoro e parallelamente, indagando la qualificazione del lavoratore, intesa come il risultato formativo raggiunto attraverso l’esperienze personale e professionale accanto alla formazione iniziale necessaria per ricoprire il posto. P. Jardillier e M. Claude Loupe (1976), De la qualification du travail à l’évaluation des fonctions, Paris, Eme, propongono di identificare precise funzioni lavorative per definire i compiti e la retribuzioni dei lavoratori. La competenza del soggetto si fondava così sulla capacità di eseguire le prestazioni richieste da un determinato posto di lavoro. Questo concetto di competenza, ancora legato alla prestazione corrisponde ad una definizione di professionalità vista come capacità di occupare adeguatamente un determinato posto di lavoro. Il passaggio ad un approccio post-tayloristico, che avviene in quegli anni, modifica anche il concetto di competenza. Negli anni Ottanta si definiscono due differenti prospettive di analisi dell’idea di competenza, che la affrancano progressivamente dal legame con la prestazione. Secondo la prospettiva linguistica introdotta da Noam Chomsky (1968), Language and mind, New York, Harcourt, la competenza non è riducibile al comportamento osservabile, ma è una qualità che l’individuo possiede in quanto disposizione interna astratta. La prestazione è il corrispettivo tangibile della competenza, ma non dà ragione della sua complessità e dinamicità. Questa posizione produce due conseguenze operative importanti: da un lato la base per esprimere un giudizio di competenza si rintraccia in una famiglia di prestazioni che permettono di inferire la presenza, nel soggetto, della competenza stessa. D’altro canto, la mancanza di una prestazione di per sé non è sufficiente a diagnosticare l’assenza della competenza, perché sono molti i fattori che possono influire sulla prestazione. Una seconda linea di indagine vede lo sviluppo della competenza come un percorso che, a partire da situazioni mediate da un formatore o da testi di studio, si articoli in fasi successive che vanno dal livello del principiante al livello di esperto. L’apporto di Dreyfus & Dreyfus (1986) in Mind over machine, New York, The free press, suggerisce la presenza di cinque livelli di competenza, che vanno dalle abilità più semplici come l’applicare norme o procedure, a quelle più complesse come inquadrare le situazioni da affrontare per cogliere analogie e differenze. Dal punto di vista della definizione delle competenze in ambito professionale è da segnalare, in ambito italiano, il volume curato da Anna Maria Ajello (2002), La competenza, Bologna, Il Mulino. È una raccolta di saggi scritti da diversi studiosi italiani da tempo impegnati sul tema della competenza, che mettono in luce le caratteristiche dei diversi modelli utilizzati nei settori scientifico disciplinari di appartenenza. I contributi riferiti alle organizzazioni, oltre che agli individui, propongono una nuova visione dei luoghi di lavoro come contesti di attività in cui le azioni sono condivise e distribuite e di conseguenza, anche la competenza assume un carattere sociale e risulta costituita dall’azione di più individui e frutto di una convenzione sociale. In ambito internazionale sono da ricordare le opere di Guy De Boterf che, fin dai primi volumi degli anni 2000-2001 (2000, Compétence et navigation professional,

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Approfondimento bibliografico

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Paris, Les éditions d’organisation; Guy Le Boterf, 2001a, Ingénierie et évaluation des compétences, Paris, Les éditions d’organisation; Guy Le Boterf, 2001b, Constuire les compétences individuelles et collectives, Paris, Les éditions d’organisation) propone la sua linea di pensiero che si fonda sulla distinzione tra «avere delle competenze» e «agire con competenza». Gli esempi e i metodi proposti vogliono sottolineare che essere competente significa essere in grado di agire con competenza in una situazione data. Recentemente lo stesso autore si è occupato di delineare la nozione di “competenza collettiva” nel volume (2010) Construire les compétences individuelles et collectives. Agir et réussir avec compétence – Les réponses à 100 questions. Une approche novatrice pour traiter efficacement de la compétence, Paris, Les éditions d’organisation,. Nel testo, rispondendo alle 100 domande, l’autore mostra dei percorsi pratici per descrivere e sviluppare le competenze collettive all’interno delle organizzazioni, toccando i temi della riflessività e della trasferibilità delle competenze e proponendo uno «schéma directeur» per la gestione, lo sviluppo e la valutazione delle competenze.

Le problematiche La ricerca di una definizione del concetto di competenza ha incontrato numerosi ostacoli dovuti sia ai periodi storici e relative teorie sull’apprendimento, sia nella sua applicazione a concetti e soggetti diversi. L’essere stata identificata come performance, disposizione interna o processo complesso di mobilitazione ha creato diverse domande che hanno trovato riposte differenti e talvolta contraddittorie. Come si rende visibile la competenza e come la si può valutare? Se e come si può operare a livello didattico per aiutarne lo sviluppo? Quali sono le competenze da sviluppare in ambito scolastico e/o con gli adulti? Un saggio pubblicato da E. Damiano «Il sapere della conoscenza», in M. Baldacci, M. Corsi (a cura di) (2009), Un’opportunità per la scuola: il pluralismo e l’autonomia della pedagogia, Napoli, Tecnodid, 126-156, riassume le diverse tensioni nelle quali si articola la competenza. Queste vengono identificate nei seguenti dualismi: specializzazione vs integralità, disciplinarietà vs interdisciplinarietà, contestualità vs trasferibilità, valutabilità vs non valutabilità, insegnabilità e non insegnabilità. A tali nodi andrebbe aggiunto anche il tema della relazione tra il concetto di competenza in ambito scolastico e quello in ambito professionale. Fra le molte problematiche illustrate, alcune sono state oggetto di particolare approfondimento: la criticità del concetto di trasversalità, la “didattizzazione” della competenza, la sua traduzione in un linguaggio e la sua relazione profonda con la pratica e il soggetto. Il tema della trasversalità viene affrontato da B. Rey (1996), Les compétences transversales en question, Paris, ESF Editeur, (tr. it, 2003, Ripensare le competenze trasversali, Roma, Franco Angeli) che propone una disamina sulla nozione di trasversalità, sulle strutture logiche e il trasferimento per giungere ad una questione cruciale: competenze trasversali o intenzioni trasversali?

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L’autore perviene ad una conclusione che valorizza il soggetto e la sua intenzionalità, la presa di coscienza che regola le scelte, abbandonando così l’idea che vi possano essere competenze “da insegnare” e da trasferire in diversi ambiti. Si collega al problema di un insegnamento per lo sviluppo delle competenze, la riflessione degli ultimi capitoli del testo di B. Rey, in cui emerge fortemente la connessione tra le pratiche di insegnamento e un possibile sviluppo della competenza, o meglio dell’intenzionalità razionale, nello studente. Nella ricerca di una sorta di modellizzazione per la didattica si articolano i testi di X. Roegiers (2003), Des situations pour integrér les acquis scolaire, Bruxelles, De Boeck, in cui si affronta la differenza fra situazione, problema e situazione-problema per indicare la direzione verso una didattica che si avvalga soprattutto di situazioni complesse. D. Maccario (2006), in Insegnare per competenze, SEI, Torino, riprende e approfondisce il concetto di competenza per porsi successivamente alla “ricerca di un metodo” riprendendo criticamente anche diversi modelli di progettazione sviluppati negli ultimi decenni. Una visione che parte dal senso comune per giungere ad un’articolazione del curricolo scolastico per le competenze è presente nel testo di M. Baldacci (2010), Curricolo e competenze, Milano, Mondadori. Un aspetto evidenziato dall’autore è l’importanza che assume il “come si apprende” per sviluppare un abito (riprendendo Dewey). Sul rapporto tra competenza e habitus è interessante la disquisizione sviluppata da P. Perrenoud, De la pratique reflexive au travail sur l’habitus, in http://www.unige.ch/fapse/SSE/teachers/perrenoud/php_main/php_2001/2001_18. html in cui si ripresenta la non disgiungibilità tra strutture profonde del soggetto e il suo agire competente.

Valutare le competenze Per delineare un concetto di competenza che possa essere utilizzato anche sul piano operativo è necessario individuare modalità e prospettive per la valutazione delle competenze raggiunte da singoli e gruppi all’interno delle organizzazioni. La complessità del concetto impone uno sguardo plurale, che si focalizzi su diversi aspetti come la qualità delle conoscenze apprese, la loro disponibilità e stabilità, la possibilità di trasferire a compiti o situazioni diverse quanto appreso. Nel testo di Mario Castoldi (2009), Valutare le competenze. Percorsi e strumenti, Roma, Carocci, si delinea la sfida che il sistema scolastico e formativo deve fronteggiare: elaborare una serie di modalità e strumenti per la certificazione delle competenze conseguite nella formazione scolastica. Sempre in ambito scolastico una trattazione significativa delle problematiche connesse alla valutazione delle competenze si trova in M. Pellerey (2004), Le competenze individuali e il Portfolio, Firenze, La Nuova Italia. In quest’opera l’autore, dopo una approfondita analisi della struttura e delle caratteristiche della competenza, propone come strumento privilegiato per quella triangolazione l’autovalutazione del soggetto che compila il portfolio stesso.

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Al di fuori del contesto scolastico, in un’ottica legata alle professioni, si è riconosciuta negli ultimi decenni l’utilità del concetto di competenza allo scopo di definire le caratteristiche dei lavoratori già inseriti nelle aziende e di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. A questo scopo sono stati definiti strumenti come il “bilancio delle competenze” o “l’assessment per la preselezione”. Il bilancio di competenze nasce in Francia negli anni Ottanta e si sviluppa negli anni Novanta. Esso si struttura in un percorso di analisi e consapevolezza della propria esperienza culturale, sociale e professionale, allo scopo di sostenere lo sviluppo della qualificazione professionale ai fini di un miglioramento della carriera o del cambiamento della attività lavorativa. L’assessment per la preselezione è un dispositivo innovativo di valutazione di coloro che si candidano a ricoprire una determinata figura professionale. A questi strumenti, accanto ai testi di riferimento internazionali come M. Joras (1995), Le bilan de compétences, Paris, PUF; C. Levy-Leboyer (1993), Le bilan de compétences, Paris, Les Edition d’Organisation; S. Michel (1993), Sense e controsense des bilances de compétences, Rueil-Malmaison, Edition Liasons, sono stati dedicati diversi volumi in ambito nazionale: V. Sarchielli, M. Napoleone (a cura di) (2007), Valutare le competenze per il lavoro. L’assessment nei Centri per l’impiego, Milano, Franco Angeli; C. Ruffini e V. Sarchielli (a cura di) (2003), Il bilancio di competenze. Nuovi sviluppi, Milano, Franco Angeli.

Competenza e professionalità La riflessione sulla competenza in ambito professionale sposta l’asse dalle conoscenze e abilità intese come bagaglio che necessariamente entra a far parte della competenza, all’interazione che il soggetto ha con il contesto e con le attività connesse ad un particolare lavoro. È in quest’ambito che si sviluppa la didactique professionnelle, campo di studi e ricerche che si è manifestato a partire dagli anni ’80, e che si occupa di come si costruiscono, decostruiscono e ricostruiscono le competenze professionali. I maggiori esponenti del settore sono P. Pastré, R. Samurçay, J. Rogalski, P. Rabardel, i cui saggi vanno a definire l’identità disciplinare della didactique professionnelle evidenziando anche i domini teorici dai quali attinge: l’ergonomia, la didattica disciplinare e gli studi sul processo di concettualizzazione iniziato da J. Piaget e ripreso da G. Vergnaud. L’apparato teorico emerso dalle ricerche è quanto mai ricco e trova una sua sintesi nel testo di P. Pastré (2011), La didactique professionnelle. Approche anthropologique du développement chez les adultes, Paris, PUF. L’indagine sulla competenza dei professionisti ha condotto all’elaborazione di alcuni costrutti fondamentali che costituiscono ormai gli strumenti di riferimento per indagare lo sviluppo delle competenze professionali. Un primo costrutto è il modello operativo che viene ampiamente illustrato nel testo di P. Rabardel, P. Pastré (dir.) (2005), Modèles du sujet pour la conception, Toulouse, Octares. In particolare, i contributi di Pastré e Béguin consentono di porre in relazione la concettualizzazione dell’azione con l’organizzazione dell’attività operata

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dal soggetto secondo personali strategie dipendenti anche da un “monde commun” che trova assonanze con l’habitus collettivo descritto da P. Bourdieu (1980, Le sense pratique, Paris, Les Editions de Minuit, tr. it., 2005, Il senso pratico, Roma, Armando). Ma vi è un altro concetto fondamentale che viene illustrato nel testo di R. Samurçay, P. Pastré (2004), Recherches en didactique professionnelle, Toulouse, Octares, ovvero la struttura concettuale dell’azione. La complessità dell’analisi rimanda alla costruzione di schema, così come definito da G. Vergnaud (1985) in «Concepts et schèmes dans une théorie opératoire de la répresentation», Psychologie française, 30, e all’idea di immagine cognitiva e immagine operativa definita da D.A. Ochanine (1978) in «Le role des images opératives dans la regultaione des activités de travail», Psychologie et éducation, 2. Il professionista sviluppa le proprie competenze in dialogo con la situazione come rilevava Schön, dando origine al dialogo fra concetti scientifici e concetti spontanei maturati nella pratica. Questi ultimi costituiscono l’apparato di concetti pragmatici, nati nell’attività soggettiva e collettiva, condivisi, talvolta mai espressi, e si accompagnano ad altri concetti pragmatisés, ovvero traduzioni di concetti teorici per essere funzionali alla risoluzione del problema. Il suo sapere competente si manifesta nella gestione intenzionale della struttura concettuale delle diverse azioni caratterizzanti il suo lavoro. Nel processo di professionalizzazione assumono una forte rilevanza l’apprendimento per problemi, che può sfociare in una genèse instrumentale (P. Rabarde, 1995, Les hommes et les technologies: approche cognitive des instruments contemporains, Paris, Armand Colin), indicatore di uno sviluppo di conoscenza, e la simulazione, attività produttiva che genera anche un’attività costruttiva (Rabardel, 2005). La simulazione costituisce uno spazio-tempo in cui il focus non è creare situazioni quanto più simili al reale per attivare modelli operativi, ma lo spazio reale di apprendimento in cui vengono esplorate le costituzioni dei modelli operativi e la loro progressiva decostruzione e ricostruzione.

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A. GRANESE, L’albero della conoscenza e l’albero della vita. Saggio sulla disseminazione filosofica, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 367. Ecco un altro bel volume, interessante, ponderoso, articolato e colto, di un illustre pedagogista: di Alberto Granese. Come scrive Enrico Berti, nella Presentazione, questo nuovo libro di Alberto Granese è un libro di filosofia sulla filosofia: un libro, come si usa dire oggi, di meta-filosofia. Il fenomeno che esso descrive, analizza e commenta, è la disseminazione della filosofia in altre forme di sapere, o di attività umana, in cui si radica e da cui trae alimento, quali l’arte, la medicina, la teologia e la pedagogia. Risolvendosi, l’intera argomentazione, in una dichiarazione, sostenuta ed efficace, dell’insopprimibilità della filosofia, e dimostrando come il carattere di sapere, proprio della filosofia (l’“albero” della conoscenza del racconto biblico), si trasformi, da sempre, in una vera e propria forma di vita (l’“albero della vita”). Tre appaiono, dunque, da subito, le “stelle polari”, le coordinate di marcia o le architravi di questo testo. Innanzitutto, l’assoluta continuità di questa intensa monografia con tutta la precedente e copiosa produzione scientifica di Granese: pedagogista di formazione filosofica, specialista di Dewey, di Russell, della filosofia analitica, e, in particolare, di Moore (come di molto altro, come ben scrive pure il già citato Berti).

191 Poi, la riedizione, attenta e “critica”, dell’impostazione epistemologica fondamentale del collega cagliaritano: la sua interpretazione della pedagogia quale sapere filosofico “applicato” alle molte poliedriche sfaccettature del cristallo educativo. E, quindi, il nesso, forte e stringente, tra la pedagogia e la filosofia dell’educazione, come “traduzione”, qui e ora, della filosofia e delle filosofie in interesse. Infine, la “difesa”, ragionata e ragionevole, sia della filosofia che della pedagogia. In un’epoca in cui la prima è chiamata, per un verso, a “mutarsi”, per riaffermare il suo primato formativo, prospettico e progettuale, mentre altri ne celebrano, da cantori distratti come gli aedi inutili di molti tempi passati, la sua inutilità o la sua scarsa presa sul reale; e la seconda, per altro crinale, deve rintuzzare gli attacchi, interessati e pretestuosi, di chi la vorrebbe porre definitivamente in un angolo, per sostituirsi a essa, accusandola di ogni possibile nefandezza, in ambito scolastico come educativo: da “accusatrice” (nella sua storia anche recente) a grande “accusata”. La fondamentalità del sapere filosofico è sostenuta da Granese in tutto il corso del volume. Dalla sua “presenza” nell’arte, nella letteratura e nell’estetica (in cui recupera pure il pensiero estetico deweyano), al capitolo sui rapporti tra la filosofia e la disciplina medica (sul versante, attualissimo, della relazione tra la mente e il corpo), a quello sul pensiero teologico (di contro ai tanti esperti tuttologi, oggi largamente get-

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192 tonati). Infine, le pagine, “illuminate” dalla filosofia analitica (descritta nei suoi sviluppi anche più recenti e attentamente – ed equilibratamente – valutata), in cui l’Autore disserta, da par suo, di pedagogia e di Dewey in specie, riproponendo le ragioni di quella “pedagogia critica”, della quale, di certo, è uno dei maggiori e più autorevoli esponenti. Di particolare interesse pure la Premessa e Introduzione, con cui il volume si apre, e nella quale Granese, oltre alle tesi che espone con assoluta competenza, dà prova di un procedere propriamente filosofico, che padroneggia con maestria, per “postille” (anche nelle pagine successive del testo), metafore, provocazioni e digressioni, in un affresco a tutto tondo della filosofia e della sua storia, sospese, come sono, tra caratteristiche, limiti e “crisi”, contestualizzazione, autonomia ed eteronomia, effimero e “permanente”, spaziando dal marxismo filosoficamente inteso alla sapienzialità soteriologica del pensiero filosofico orientale. Fede, ragione, verità e “persona” è, non di meno, un interessante “quadrilatero” argomentativo che l’Autore analizza con dovizia di ragionamenti, e sul quale richiamiamo l’attenzione del lettore. Di assoluta menzione pedagogica è l’ultimo capitolo, già citato, che Granese intitola Coinvolgimento e trascendimento della filosofia nelle teorie e nelle pratiche dell’educazione, in cui filosofia e pedagogia, storia della filosofia e storia della pedagogia, come altri saperi, si intrecciano mirabilmente

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Recensioni tra loro: da Jäger a Rousseau, da Weber a Jaspers, da Rabelais a Montaigne, da Erasmo a Vives, da Comenio (e i suoi seguaci inglesi) a Dewey, da Scholem a San Benedetto, a molti altri. Non ultimi, Kant, Pestalozzi e Fröbel. Proteso, Granese, verso una “nuova modernità”, variamente ragionata e articolata secondo modalità storiche e concettuali, raffinate e discusse, in grado di superare le aporie della postmodernità, offre, infine, al lettore un Poscritto su Utopia e pensiero utopico, che non si configura, soltanto, come una “conclusione”, ma, soprattutto, quale ripresa di talune sue tesi ben note e prefigurazione di ulteriori piste di ricerca e di scrittura. Che attendiamo. Di pregio, poi, l’Elenco in ordine alfabetico dei termini ricorrenti e dei concetti notevoli e la Bibliografia, ampia e significativa. Michele Corsi

L. MOLINARI, Alunni e insegnanti. Costruire culture a scuola, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 220, con un’appendice di “Metodi e strumenti”. Un volume di taglio scientifico, organizzato in chiave didattica; un capitolo introduttivo, per la cornice teorica e metodologica, cinque capitoli “dimostrativi”, con ricerche condotte direttamente lungo un quindicennio, documentate di prima mano, una succinta conclusione che riprende i temi


Recensioni svolti e ne mostra le inferenze, appendice (20 pagine) di “metodi e strumenti”, ricca bibliografia. Di pertinenza psicologica – l’opera si può considerare un saggio mirato a mostrare il potenziale euristico della Psicologia culturale – ma di interesse didattico e pedagogico: non solo perché centrato interamente in ambiente scolastico (prevalentemente di scuola infantile ed elementare, con un breve excursus nella secondaria superiore), e nemmeno perché frutto di una collaborazione (insolitamente) rispettosa dei vincoli e delle condizioni d’esercizio del lavoro degli insegnanti, al punto da considerarsi, quasi, nel novero degli approcci da ricerca-azione. Ma per il motivo principale di portare alla luce l’universo brulicante delle interazioni fra bambini – e fra bambini e insegnanti, in situazioni formali e informali – regolarmente trascurati da tanta ricerca educativa, e pur così decisiva ai fini di una comprensione adeguata della vita quotidiana delle classi. Ancora di più, se si va ad esaminare il sorprendente capitolo 6, dedicato alla responsabilità educativa degli insegnanti, un campo inedito per la disciplina professata dall’Autrice, declinato con sensibilità etica, non solo psicologica. Oltre a quello introduttivo, sono i primi due capitoli che consentono meglio di comprendere a fondo l’approccio socio-culturale in Psicologia: man mano che si procede nella lettura, l’osservazione di aula e di scuola porta ad emersione un intero mondo di scambi fitti e intensivi, scopertamente finalizzati a costruire significati

193 condivisi che “fanno” il gruppo classe e qualcosa di più: autentiche “culture” infantili, che elaborano e rielaborano il materiale simbolico reso disponibile dagli adulti per attivare la microgenesi di processi di inclusione/esclusione, regole di partecipazione, attribuzione di ruoli, processi identitari e comunitari di una pregnanza sottratta allo sguardo dai noti schematismi e riduzionismi con i quali si è concepito in passato il canonico rapporto <maestro-scolaro>. Insieme alla messa in evidenza di questo mondo sommerso, la progressione dei 5 capitoli mostra le caratteristiche del repertorio metodologico, un’attrezzatura “leggera”, che privilegia l’osservazione, al naturale o partecipante. Quella che s’aggiusta meglio al mondo complesso della scuola ed offre pertanto migliori garanzie di affidabilità rispetto ad altri tipi di “arsenali”, che fanno ricorso al laboratorio o a situazioni strutturate che introducono artifici che non consentono di cogliere le “culture” che si propongono di conoscere. Una opzione che nel corso dell’opera viene giustificata quasi con timidezza, facendo ricorso all’appeasement proposto dalla Mantovani (2003), quando sarebbe ora di procedere alla piena emancipazione dei cd “metodi qualitativi”. Ma c’è una terza dimensione che le ricerche della Molinari consentono di riconoscere: quella epistemologica, ovvero il rigore con il quale le numerose e differenziate indagini collocano il loro focus in quello “spazio di mezzo” – dove si compie l’interazione tra

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soggetti, oppure tra soggetti e artefatti culturali – che è proprio della prospettiva costruzionista. Fedeltà mantenuta anche nel capitolo dedicato alla responsabilità educativa, che sulla scorta di Jonas avrebbe anche potuto essere ridotto ad una direzione sola. Un lavoro così stimolante induce a desiderare che il discorso avviato continui. L’attesa per ricerche ulteriori riguarda l’interazione con gli artefatti culturali (v. il cenno a p. 20), che a scuola rappresentano mediatori più che fondamentali, fin dalla materna e dalle elementari. Analogamente si può dire per l’attenzione che meritano, oltre ai processi di costruzione del dialogo a più vie alunni-insegnanti, le fasi in cui il discorso, aperto in modo erratico, viene ‘chiuso’ con una sintesi o una definizione da parte dell’insegnante. Infine, un’aspettativa a proposito di quello che si potrebbe considerare un postulato della Psicologia culturale: sulla scorta di referenti quali Vygotskij e Bruner, il linguaggio, da solo, sembra dominare in esclusiva la scena della costruzione dei significati. Se fossimo dinanzi all’affermazione di una tesi linguistica “forte”, credo che andrebbe perlomeno esplicitata, tenuto conto della cornice costruzionista della ricerca. Elio Damiano

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C. SIRIGNANO, La mediazione educativa familiare. Una risorsa formativa per le famiglie separate, divorziate e ricostituite, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 144. La pedagogia della famiglia, secondo l’autrice, per la sua connotazione non soltanto teorica ma anche declinata sul versante specificatamente prassico, è importante che tenga sempre conto e analizzi le variegate e complesse trasformazioni socioculturali che si sono verificate negli ultimi decenni e che hanno portato a nuove e multiformi tipologie familiari. È necessario pertanto ripensare le responsabilità genitoriali e le relazioni familiari verso forme di progettualità nuove. Proprio per questo, servizi, strumenti e progetti a sostegno della famiglia, della coniugalità e genitorialità si rendono sempre più urgenti, con l’obiettivo di rispondere in maniera adeguata e congruente ai bisogni di sistemi familiari sempre più complessi. Non a caso viene presentata un’approfondita analisi della legislazione attuale italiana in materia di politiche familiari e sociali: nello specifico, la legge 285/1997 per la promozione di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, la legge quadro 328/2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali e, infine, la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso dei figli. L’autrice presenta infine due proposte, una teorica e una pratica: la prima prevede l’elaborazione di un modello


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Recensioni di mediazione educativa familiare che sostenga la famiglia nei suoi articolati bisogni di educazione, la seconda identifica nel “Centro di mediazione educativa familiare” un luogo idoneo dove poter offrire opportunità, strumenti e risorse sul piano educativorelazionale in ambito familiare a chi si rivolgerà ad esso per avere un sostegno nel proprio percorso di adattamento, ripensamento, rimodellamento all’interno di una rinnovata struttura familiare, flessibile e aperta anche all’esterno. Affinché, ci congeda l’autrice, in una prospettiva in cui le istituzioni si stringano effettivamente in una rete congruente e efficiente, si possa credere ancora nella famiglia. Gabriella Aleandri

P. BARONE, Pedagogia dell’adolescenza, Milano, Guerini, 2009, pp. 252. La riflessione di Pierangelo Barone si inserisce all’interno di un quadro ermeneutico che mira a delucidare i significati propri di una stagione della vita concepita quale oggetto d’indagine per un nuovo discorso pedagogicamente fondato. La cosiddetta “età di mezzo”, di transito, incerta, critica, problematica, è stata ampiamente attraversata e rappresentata dai linguaggi delle scienze umane e sociali con esiti, talora, puramente descrittivi, o al più riparativi, nel convincimento che l’adultità fosse il fine ultimo, risolutivo, della crescita in umanità e in

educazione. Tali processi, ricorsivamente, hanno fomentato lo stereotipo dell’adolescenza quale età “difficile” (p. 38), costruendo immaginari che esulano dalla specificità di uno sguardo transdisciplinare, informato delle vicissitudini storiche che compongono la rispondenza diacronica tra l’aetas infirma quattrocentesca e le fragilità attribuite all’adolescente dell’oggi (p. 74). La pedagogia può contribuire ad analizzare i profondi mutamenti che coinvolgono, negli attuali scenari socio-culturali, l’identità adolescente, protesa a una complessa risignificazione delle dimensioni corporea e cognitivo-percettiva e a una differente calibratura delle coordinate spaziotemporali che hanno accompagnato il divenire della forma-uomo fino alla fase di crescita. Si tratta, nella prospettiva di Barone, di superare le visioni tanto “naturalizzante” quanto universalizzante dell’adolescenza per comprendere, infine, il sentire adolescente, o ciò che l’Autore stesso definisce “adolescenza al plurale”, situata, contestualizzata, nel nesso imprescindibile “tra aspetti materiali e traiettorie psicologiche” della persona adolescente (p. 113). Uno, tra i molteplici nodi critici posti in rilievo nelle argomentazioni addotte, pare oltremodo degno di menzione. Impegnati a rielaborare i confini tra realtà (bisogno di crescita) e onnipotenza (paura di crescere), i nuovi adolescenti esprimono “un disagio legato all’effetto di eccedenza” che “ha a che fare con una eccedenza del mondo adulto” (p. 122): i loro eccessi, in sintesi, ci parlano di “una

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realtà sociale in cui tutto sembra possibile e in cui, soprattutto, il corpo esistenziale appare ‘neutralizzato’ dal suo essere gettato sulla scena in modo spettacolare, attraverso il parossismo dell’esibizione che ne rende invisibili i bisogni” (p. 141). Da segnalare, infine, i “Laboratori adolescenti” che compongono l’ultimo capitolo del volume, con gli altrettanto pregevoli contributi di Matteo Ripamonti, Michele Stasi, Rossana Brambilla e Rosa Granato. Massimiliano Stramaglia

M. CONTINI (a cura di), Molte infanzie molte famiglie. Interpretare i contesti in pedagogia, Roma, Carocci, 2010, pp. 178. Un volume collettaneo tutto al femminile, attuale, necessario, assolutamente contemporaneo. Tipico di una pedagogia che guarda al presente per progettare pedagogicamente (ed educativamente) il futuro. Per governarlo, e non subirlo. Caratteristico, anche, di una pedagogia che ha a cuore la cura dell’infanzia e la prassi (e la teoria) della cura familiare rivolta alle molte infanzie del nostro tempo. Che non divide gerarchicamente famiglie e infanzie. E che si fa carico di proporre, intelligentemente e profeticamente, la pedagogia delle relazioni educative familiari. Superando, in tal modo, la pure comprensibile diatriba, idealmente

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giustificabile, e anzi da accogliere, sulla scorta, non di meno, delle altre scienze umane e sociali e di illustri pensatori e “operatori” quale, ad esempio, la francese Dolto, tra “famiglia” e famiglie. Un libro coordinato da quella straordinaria collega che è Mariagrazia Contini. La quale scrive in proposito, con lungimiranza pedagogica, che «bisogna imparare a conoscerle, le molte famiglie, nel quadro articolato e connesso delle loro caratteristiche, dei loro problemi e delle risorse con cui possono affrontarli e superarli. Se poi si opera – prosegue la pedagogista bolognese – in ambito educativo, bisogna anche imparare a collaborare con esse e, consapevoli della incisività che può guadagnare un comune impegnoazione a favore delle molte infanzie e delle molte famiglie, stabilire con esse fruttuosi patti di “alleanza educativa”, in un’ottica di reciproco empowerment». Una pedagogia, cioè, quella sostenuta una volta di più dalla Contini, che, nel tragitto virtuoso che va dal pragmatismo deweyano al problematicismo bertiniano, da cui non si discosta, ma che pure, in qualche modo, ha da tempo “superato” con la sua indiscutibile “cifra di originalità”, parte dal dato concreto (di diagnosi) per realizzare una proposta pedagogica (di prognosi e terapia) concreta, efficace, efficiente, del tutto perseguibile, democratica, e rispettosa di tutte le persone e di tutte le “storie”, nessuna esclusa.


Recensioni Sulla stessa linea, innovativa e moderna, troviamo i contributi (che compongono il volume) delle altre sette donne pedagogiste. Che seguono il primo, redatto da Mariagrazia Contini. Che, in Molte infanzie o nessuna infanzia?, analizza, con particolare attenzione, «le infanzie in più modi violate», simbolo non solo di quelle «infanzie al plurale» maggiormente tragiche, desolate e struggenti, ma non di meno «segnali dell’insufficienza evolutiva, oltre che culturale, di un’umanità che, anche quando ama i suoi bambini, non sa proteggere e rispettare le loro infanzie, rendendole a rischio di estinzione». Paola Manuzzi, poi, in Corpi bambini tra cura e incuria, indaga il tema della corporeità, che può costituire, a suo parere, «una via di alfabetizzazione empatica verso quella speciale normalità che sono i bambini». Silvia Leonelli, in Costruzioni di identità e pedagogia di genere, riflette, alla luce di quattro decenni di pedagogia di genere, sul senso (modalità e ostacoli) della «costruzione di un’identità di genere per chi è il bambino o la bambina, oggi». Silvia Demozzi investiga, in Quando l’infanzia incontra la malattia, il “dramma” dell’«infanzia “curata” che si ammala», non solo sul versante dei bambini tristemente interessati, ma anche degli adulti coinvolti. Mentre Alessandra Gigli affronta un nodo altrettanto cruciale in Molte famiglie: quelle “normali” e… le altre e cioè che, al di là di diversità o deviazioni, il benessere familiare costitu-

197 isce, di fatto, l’obiettivo comune «per tutte le molte famiglie, oltre le differenze». Stefania Lorenzini e Ivana Bolognesi, invece, nei loro contributi che hanno per titolo, rispettivamente: Genitori e figli che arrivano da lontano: l’adozione internazionale e Stranieri al nido, il nido straniero, riflettono sul cammino, ulteriormente complesso e problematico, rappresentato dal dialogo interculturale tra famiglie, infanzie ed etnie, “diverse” tra loro. Chiude il testo Sandra Benedetti con Servizi educativi per infanzie e famiglie: latitudini e longitudini di un sistema in cui, «tracciando la trama sociopolitica e culturale degli ultimi quarant’anni nella Regione EmiliaRomagna», argomenta il passato e il presente, e ipotizza il futuro, dei servizi educativi per la prima infanzia. Un “libro di libri”, quindi, da leggere assolutamente e su cui riflettere adeguatamente, per scrivere, assieme, una pedagogia della contemporaneità che non introietta, passivamente e acriticamente, la “liquidità post-moderna”. Ma che, al contrario, mentre la interroga, sa anche individuare i percorsi educativi e pedagogici per farne superare le debolezze e le fragilità, le strettoie e le cadute, per ricondurre le persone, le infanzie, le famiglie, le politiche tutte, alla “speranza” di un mondo migliore e di una società più “umana”. Michele Corsi

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198 B. TILLARD, M. ROBIN (dirr.), Enquête au domicile des familles: la recherche dans l’espace privé, Paris, L’Harmattan, 2010, pp. 156. En sept chapitres se développent les histoires méthodologiques de ce volume, qui représente une contribution originale dans le domaine de la recherche sur l’éducation familiale. A travers les regards des disciplines différentes (sciences de l’éducation, anthropologie, sociologie psychologie), les chercheurs croisent typologies des familles diverses tant sur le plan socioéconomique que culturel, « ordinaires» ou «vulnérables», minorités ethniques ou milieu de vie quotidienne, dont l’intérêt de recherche porte sur l’espace privé et domestique, au rencontre des familles chez-elles. Ce sont toutes circonstances diversifiées, telles que les familles tsiganes face à la scolarisations des enfants, les pratiques éducatives des familles de la minorité turque en Grèce, la perception de l’efficacité du travail sociale de la part des familles en difficulté, la domiciliation des mères en situations de précarité, l’observations des anniversaires come rite de socialisation de l’enfance, la construction de la parentalité chez les femmes, le relations entre familles et les institutions sanitaires et sociales ou encore la protection de l’enfance. Ce qui rapproche toutes les situations est l’articulation entre l’objet d’étude et les conditions d’exercice de l’enquête. Sur cette base, les questions

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Recensioni sont posées et les réflexions méthodologiques avancent. Le souci méthodologique ne s’attarde pas sur les outils d’investigation utilisés (entretiens, questionnaires, dessins, observations des interactions entre les personnes), mais plutôt enquête les pratiques, les objets, les modes de vie et les lieux dans lesquels habite le groupe familiale, en suivant des «éléments pertinents», par un «tâtonnement perpétuel» vers une «interprétation plausible»de la réalité. Les enjeux, les défis et les atouts des modes d’investigation sont pris en charge et précisent les questions de la relation entre chercheur et enquêté. L’implication et à la posture du chercheur font l’objet d’une riche réflexion qui porte aussi sur les dimensions éthique et du pouvoir. La lecture du livre convainc le chercheur de l’importance de rester près des données de la vie réelle, pour mieux comprendre les phénomènes liés à l’éducation familiale, mais en même temps favorise sa formation par rapport à la richesse de l’approche de recherche qualitative. Livia Cadei

E. MORIN, Oltre l’abisso, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 128. In questa raccolta di saggi, il celebre filosofo e antropo-sociologo francese affronta il tema della crisi della modernità, che sta attualmente attanagliando il mondo globalizzato.


Recensioni L’umanità è destinata inesorabilmente verso la catastrofe, verso il disastro, verso l’abisso? O si prospetta una soluzione? Il caos, infatti, afferma Morin, «può essere distruttivo, può essere generativo, ma potrebbe anche essere l’ultima occasione dentro l’ultimo rischio»: l’autore conserva la fiducia nell’uomo e nell’umano, ma è necessario che l’uomo abbandoni le sue pretese di dominio, sugli altri uomini (con le armi, con le guerre), sulla natura, sulla scienza, sulla tecnica, sulla tecnologia, sull’economia. Secondo l’autore, è necessario coniugare quattro riforme: quella dell’organizzazione sociale, quella attraverso l’educazione, la riforma di vita e, infine, la riforma etica, al fine di pervenire ad un reale e autentico progresso. Cui va affiancata, altresì, anche la riforma del pensiero, considerato un problema antropologico e storico fondamentale. Ma forse, ormai, riforma o rivoluzione si rivelerebbero insufficienti. La prospettiva di salvezza, comunque, è riposta in una vera e propria metamorfosi – la metamorfosi della farfalla, o meglio, del bruco in farfalla – che potrà verificarsi qualora gli uomini si stringano non più intorno all’idea di profitto, ma intorno al valore di una solidarietà riscoperta e rinnovata, cui aderiranno anche tutte le nazioni: si darà inizio, allora, ad una società civile planetaria, una società-mondo, aperta ad un divenire che potrà comportare rischi e incertezze, ma anche innovazioni positive e creative, nel senso di uno sviluppo della compren-

199 sione reciproca, della bontà e della coscienza umana. «La nostra speranza è la fiaccola nella notte: non esiste alcuna luce accecante, ci sono solo fiaccole nella notte». Gabriella Aleandri

M. CONTINI, S. ULIVIERI (a cura di), Donne, famiglia, famiglie, Milano, Angelo Guerini e Associati, 2010, pp. 272. Questo libro, curato da Maria Grazia Contini e Simonetta Ulivieri, raccoglie, oltre ai loro contributi, gli scritti di Gianfranco Bandini, Lisa Bichi, Margherita Durst, Rosalba Favara, Rosella Frasca, Maria Antonella Galanti, Alessandra Gigli, Anita Gramigna, Silvia Guetta, Patrizia Meringolo, Maria Giovanna Papucci, Daniela Sarsini, Tania Terlizzi e Tamara Zappaterra. E si inserisce all’interno della “Scuola delle donne pedagogiste”, che ha avuto il suo avvio a Livorno nel 2005 «grazie all’intelligenza e allo slancio coinvolgente di Simonetta Ulivieri e all’interesse di quell’Amministrazione Comunale, per la creazione di spazi permanenti di riflessione e di confronto pedagogico sulle tematiche educative di genere». Dando la parola direttamente agli Autori (che è la “scelta” di questa recensione, totalmente positiva): «nella prima parte – scrivono Contini e Ulivieri – si delineano le fondamenta storiche del discorso pedagogico sul

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200 rapporto fra le dimensioni femminili e le compagini familiari. A partire invece dalla crisi degli anni Settanta, si colgono e si interpretano, nella seconda parte, le grandi trasformazioni dei “volti” della contemporaneità familiare. Nella terza parte, si avvia una delicata analisi a più voci sulle nuove sofferenze al femminile. Mentre, nella quarta e ultima parte, si assume una prospettiva interculturale sulle diverse composizioni e ri-composizioni familiari, alla luce di un chiaro e accentuato prisma di genere». Nella prima parte: «Storia e Storie», è sempre Ulivieri ad affermare che «quella patriarcale è stata una cultura che ha disprezzato la donna e ha cercato di svalorizzarne la diversità. Una cultura, cioè, in cui alle bambine e alle donne non si è insegnato l’amore della madre». Una «circostanza, vivente la madre», che non è stata in grado, però, di cancellare «il rapporto privilegiato del bimbo con lei dal punto di vista educativo», sostiene Frasca. Sono stati, comunque, gli anni ’60 e ’70 – per Favara – a segnare «nella storia della famiglia una svolta complessiva del ruolo genitoriale, passando a un modello di padre più attento ai bisogni dei figli. Sul piano della maternità, invece, i valori della comunicazione al femminile hanno dato le basi alla nuova famiglia». Una famiglia importante e insostituibile, non di meno per la tradizione ebraica, argomenta Guetta: «vero e proprio “santuario” della formazione e del pensare ebraico». Nella seconda parte: «Modernità

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Recensioni e dimensione familiare», «la maggiore presenza dei padri, la doppia presenza delle madri, e la necessità di condividere le funzioni genitoriali, sono fenomeni – analizza Gigli – che caratterizzano l’attualità, capaci di fondare rapporti familiari autenticamente democratici e civili tra uomini e donne». Per la Terlizzi, in particolare, «il sostegno alle madri e alla genitorialità necessita di ulteriori servizi che consentano di gestire la doppia presenza femminile, con agevolazioni che permettano alle donne di stare vicine ai figli senza perdere la possibilità di una carriera gratificante». Dal canto suo, la Meringolo si sofferma sui casi di infanticidio, ai quali è stato «dedicato largo spazio nella stampa e nei media, additando la donna alla pubblica riprovazione». Con minore attenzione per «la riflessione del fenomeno e la possibile prevenzione di nuovi infanticidi». Bandini scrive invece dell’adozione, sostenendo che «i bambini adottati sono “capaci” di sondare la “tenuta” della famiglia e di mettere alla prova i genitori». La Bichi porta infine l’attenzione sulla disabilità e scrive che «la relazione tra madre e figlio disabile si connota di sentimenti spesso contrastanti». Ma che l’iter di «consapevolezza, che si ritrova in alcuni resoconti genitoriali, mostra come sia possibile intraprendere un percorso ricco di senso e significato». Nella terza parte: «Donne e diversità nella società senza rete», Galanti


Recensioni asserisce che «c’è un rischio maggiore di patologia per le donne rispetto agli uomini», proprio perché educate, sin dalla nascita, a far più «posto ai bisogni degli altri, che ai propri». Mentre la Sarsini affronta il tema delle narrazioni al femminile, in grado «di evocare» una maggiore assunzione di “responsabilità” nel soggettonarratore, «favorendo quel processo di distanziamento che costituisce il luogo privilegiato dell’autoformazione e della cura sui». La Zappaterra riprende il tema dell’«intersezione pedagogica tra le tematiche del genere e della disabilità, con approdi molto interessanti nelle recenti autobiografie di giovani donne disabili». Per la Papucci, «è fondamentale, in ultima istanza, rivitalizzare e progettare buone pratiche, con un aggiornamento continuo del personale educativo sulla differenza di genere e sulle differenze in genere». Nella quarta parte: «Donne e famiglie nel mondo», Gramigna espone la situazione delle donne e delle giovani generazioni in molti paesi dell’America Latina «dove si coltiva, peraltro, un senso profondo della dignità e della responsabilità personale». La Durst si “apre” invece all’Africa, ritornando al tema della “big mama”, e scrive che «nelle giovani donne nere urbanizzate si avverte più forte la tensione alla libertà e all’indipendenza». La Contini ci conduce, invece, in India: «un paese in grandissimo sviluppo, che però conserva, al suo interno,

201 sacche di povertà estrema e pratiche di discriminazione, di sopraffazione, di violenza». Un libro “importante”, allora, da leggere e su cui riflettere con cura, per dar vita, in Italia e nel mondo, a nuove pratiche educative e a differenti teorie pedagogiche “con” le donne e le famiglie. Michele Corsi

B. KRAIS, G. GEBAUER, Habitus, Armando, Roma, 2009, pp. 160. La definizione del significato di “habitus” si presenta, nel testo di Krais e Gebauer, come il risultato di una accurata e intensa ricerca interdisciplinare sviluppatasi nel tempo. Diverse sono le prospettive attraverso le quali gli autori pervengono a tracciare il concetto di habitus e delle sue innumerevoli influenze nella vita sociale, personale, professionale. Una prima ricostruzione storica dell’evoluzione del concetto, partendo dall’hexis aristotelica, apre successivamente alle differenti esplorazioni elaborate da Bourdieu. Una prima e pervasiva prospettiva con cui si guarda all’habitus, è sociologica: vengono analizzati i rapporti tra persona-habitus-identità, habitus e istituzioni, habitus e classe sociale. Un ulteriore approfondimento in questa direzione, mette in relazione l’habitus con lo spazio sociale, riprendendo l’importanza delle condotte di vita, delle pratiche sociali che divengono vere e proprie discriminanti e

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202 origine di strutture sociali. Una notevole importanza all’habitus viene assegnata anche per esaminare le disuguaglianze nei rapporti di genere. Il testo presenta quindi una riflessione su come si sia stratificata nel tempo, attraverso relazioni che si avvalgono di ordini simbolici, una sorta di violenza tra generi come elemento invisibile per esercitare il potere, accettata dall’habitus e quindi non percepita come tale. Una seconda prospettiva è riconducibile alla teoria sui giochi linguistici di Wittgenstein, esaminata da Bourdieu. L’aspetto che viene ripreso è il gioco sociale in cui si apprende, metafora dell’agire sociale. Gioco e schemi, simboli, prototipi di comportamento si sviluppano in un dialogo fra interpretazione soggettiva e significato condiviso. Una terza prospettiva permette di guardare all’habitus nella sua partecipazione allo sviluppo dei processi di costruzione di conoscenza. Il ruolo assegnato alla mimesis nell’imparare, nell’acquisire forme di partecipazione alla conoscenza riporta all’analisi di come si strutturano schemi che agiscono da filtri nell’acquisizione del nuovo. È la dialettica fra la parte strutturata e la parte strutturante che caratterizza l’habitus, in un dinamismo che opera sempre per la propria conservazione e sopravvivenza attraverso operazioni di difesa e di autopoiesi. Il concetto di habitus è strumento per comprendere la relazione tra l’agire individuale e collettivo, per definire ciò che è sensato e condiviso, per in-

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Recensioni dagare come possa essere considerato un sociale incorporato. Patrizia Magnoler

S. ANGORI, S. BERTOLINO, R. CUCCURULLO, A.G. DEVOTI, G. SERAFINI (a cura di), Persona e educazione. Studi in onore di Sira Serenella Macchietti, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 590. Il volume rende omaggio alla pedagogista e studiosa Sira Serenella Macchietti attraverso molteplici contributi, analizzando il rapporto persona-educazione per mezzo di diversi sguardi pedagogici orientati a svelarne la densità di significato e l’applicabilità in ambito di ricerca e di progettualità. Nella prima parte del testo vengono messe in luce le principali sfaccettature del lavoro di ricerca condotto da Sira Serenella Macchietti che ha posto al centro del suo orientamento pedagogico un personalismo declinabile in ogni ambito sociale come fondamento su cui poter costruire una pedagogia della persona volta a creare tessuti di vera interazione e di reciprocità continua. Segue poi un interrogativo che pone in luce il concetto di persona e di personalismo e che accompagna il lettore a un ripensamento del significato dell’educazione e della pedagogia come binomio rintracciabile e percorribile nel contesto odierno e come sguardo riflessivo e progettuale in ambito pedagogico. La personalizzazione


Recensioni viene in seguito presentata all’interno di varie situazioni, luoghi ed esperienze educative attraversando percorsi scolastici e universitari, il mondo dei giovani e la famiglia. All’interno di ciascuno di questi ambiti, che contribuiscono a costruire la complessità del nostro vivere quotidiano, è possibile ritrovare, riscoprire, valorizzare e sostenere la dimensione della persona in continua crescita e sviluppo. La scientificità dell’approccio riflessivo che pervade il volume passa anche attraverso le proposte provenienti dalla pedagogia e le sollecitazioni di grandi studiosi; è così che il testo ripercorre il problema dell’educazione e la struttura dell’insegnamento in Filippo Melantone, la visione educativa del Ferrante Aporti fra strumenti di crescita per i ragazzi e intreccio con la dimensione sociale, la cultura educativa nella riflessione pedagogica al di fuori di ogni “tecnicismo” di Marcello Peretti, la riflessione riguardante la cultura classica per la formazione dell’uomo di Augusto Monti attraverso il binomio insegnamento-educazione e la pedagogia della didattica di Aldo Agazzi fra riflessione e metodologia. Nuovamente un quadro complesso che, per mezzo delle tracce della storia della pedagogia, srotola ed evidenzia il nastro di continuità della riflessione consolidata e, allo stesso tempo, in evoluzione, sul binomio persona-educazione. Nell’ultima parte del volume vengono proposte le sfide dell’attualità e le possibili piste di ricerca da perseguire: la costruzione della prospettiva dell’intercultura, la dimensione della

203 formazione per la persona, l’intreccio fra civiltà e religioni, la genitorialità, la città intelligente, la scuola dell’infanzia e l’educazione permanente. Tracce, contributi, frammenti, progettualità che inducono a pensare e ripensare il rapporto fra persona ed educazione anche sul piano operativo. Rosita Deluigi

F. D’ANIELLO, Pedagogia del lavoro e persona. Passaggi di stato della materia lavoro, Lecce, Pensa Multimedia, 2009, pp. 304. La prima parte dell’indagine condotta da Fabrizio d’Aniello approfondisce i significati e le direzioni di senso che il tema del lavoro ha assunto e perseguito dalle origini a oggi: dalla dicotomia originaria tra otium et negotium, riconcettualizzata dalla grande sintesi cristiana, alle corporazioni artigiane, che ruotano intorno al modello composito dell’apprendistato; dalla prima rivoluzione industriale, che tematizza la centralità del lavoro manuale, alla concezione meccanicistica ed efficientistica del lavoro promossa dal taylorismo; fino alla terza rivoluzione industriale, nel corso della quale il lavoro si invera alla luce della tecnologia come sistema allargato della tecnica. La fondazione del discorso sul lavoro in chiave storica, merito dell’analisi attenta, feconda e rigorosa dell’Autore, risponde alla chiara esigenza di incrementare conoscenze e sollecitare riflessioni ad

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204 appannaggio di una branca per lo più marginale, al presente, nell’ambito delle scienze pedagogiche. Il rilievo del lavoro nelle correnti dinamiche socio-identitarie della persona emerge non solo nell’ambito dell’attuale dibattito pedagogico, ma nelle stesse pagine del volume, dense di riferimenti al carattere cruciale dell’esperienza lavorativa nell’educazione della persona all’impegno e alla responsabilità personali e sociali. La seconda parte del volume introduce alla dimensione più strettamente attuale del lavoro a partire dalla rilettura del contributo di Aldo Agazzi. Idea guida di tale percorso è che il lavoro debba porsi quale ambito di piena umanizzazione della persona umana: nel lavoro, infatti, vi è l’operato della persona intera; questa, pertanto, deve potersi riconoscere interamente nell’attività svolta. Perché ciò accada, è necessario ripensare il lavoro antropopedagogicamente, attestare il primato della persona quale soggetto del proprio lavoro e dei luoghi di lavoro quali comunità di persone. L’imprescindibilità della componente educativa della formazione al lavoro comporta la messa in discussione dello sfondo antropologico all’interno della grande cornice imprenditoriale del presente: l’umanità è il fine, giammai il mezzo della produzione. Occorre valorizzare le risorse umane alla luce di un’antropopedagogia solidamente e solidaristicamente umana, centrata sul valore della persona, di contro alla pluridecennale tendenza ad adoperare inautenticamente fondi e a impiegare strumentalmente materiale umano.

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Recensioni La metafora dei passaggi di stato della materia lavoro (dallo stato aeriforme, storicamente sedimentato, all’odierno stato liquido, fino all’attualizzabile stato solido), oltre a descrivere scenari, individua proposte. Agenti di consolidamento, infatti, sono il recupero del senso del lavoro (attraverso il lavoro, l’uomo realizza maggiormente sé come uomo), della soggettività sull’oggettività (l’uomo è fine, il lavoro è mezzo del fine più ampio di umanizzazione), dell’etica del lavoro e per il lavoro (l’uomo è valore). Massimiliano Stramaglia

F. GRANATO, Persona e democraticità, Milano, Guerini, 2009, pp. 270. L’autore affronta in questo volume il tema dell’educazione alla politica, ponendo come valori pedagogici fondanti la persona e la democrazia, rilevando altresì la necessità che, mai come oggi, non sia sufficiente la vasta diffusione – nei media e nell’opinione pubblica – dei due termini appena citati perché ciò significhi che essi vadano di pari passo con i loro contenuti e significati più autentici e profondi. Pertanto, l’autore comincia la sua analisi innanzitutto denotando la pedagogia quale scienza al servizio dell’uomo, dichiarando in tal modo una chiara impronta personalistica, cercando poi di individuare i punti di convergenza tra pedagogia e politica, in un rapporto di reciprocità che non


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Recensioni viene meno seppur diverse sono le “sensibilità” e le modalità con cui la pedagogia e la politica accompagnano e sostengono comunque l’uomo nel suo incessante processo di umanizzazione. Entrambe si incontrano non soltanto sul versante della progettualità, flessibilità, mediazione e apertura al cambiamento, ma anche nel “comune radicamento nel tessuto della storia”. Interessante poi il rapporto tra persona e democraticità articolato tra l’“avere” democrazia e l’“essere” democratici. La dimensione politica della persona, poi, viene analizzata in maniera approfondita, iniziando con il connotare l’uomo come “animale politico” di stampo aristotelico per giungere man mano fino alle considerazioni del celebre e contemporaneo sociologofilosofo polacco Z. Bauman. L’educazione alla politica e l’educazione alla democraticità rappresentano due importanti risorse su cui focalizzarsi nell’attuale “temperie socio-culturale” dell’era della complessità, così come, al loro interno, l’educazione alla cittadinanza e alla multiculturalità. Proprio la prospettiva interculturale in un contesto sempre più globalizzato, infatti, viene considerata come elemento qualificante di un’educazione alla politica che accorda dignità e valore al “partecipare migrando”. Gabriella Aleandri

M.A. BOCCHETTI, L’apprendimento unitario. Ovvero l’U.D.A. nella scuola-territorio, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 256. Il testo sviluppa diverse tematiche in un tessuto fortemente connesso: Scuola-Territorio, Ricerca, Apprendimento unitario del sapere, Unità Di Apprendimento. Le Unità Di Apprendimento rappresentano il terreno ideale per coltivare l’unitarietà dell’apprendimento del sapere e lo sviluppo del nuovo modello di scuola: la Scuola-Territorio. L’autore tende a focalizzare l’attenzione non tanto sul rapporto ScuolaTerritorio quanto sul Territorio visto come spazio fisico e culturale nel quale la scuola è collocata e di cui la stessa deve finalmente prendere atto e quindi impostare percorsi di apprendimento che abbandonino i ‘vecchi’. Quelli nei quali “Si privilegiava il pensiero assorbente e si ‘evitava’ il pensiero critico” (p. 18). Quindi Territorio come conoscenza consapevole del mondo nel quale lo studente è immerso e come utile tramite per “educare il pensiero a capire le realtà nelle loro molteplici manifestazioni, a capirle nella loro dimensione storica, nelle loro dinamiche sociali e politiche in modo da orientare bene le nuove generazioni nella ‘progettazione’ del loro futuro” (p. 28). Sia le vigenti Indicazioni per il curriculo del 2007, sia quelle precedenti del 2004, ma anche i Programmi per la Scuola Elementare del 1985 evidenziano come sia importante la ricerca intesa

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206 come lo “studio delle discipline e delle realtà del Territorio con atteggiamento problematico in modo che si colgano le strutture portanti sia dei saperi che dei fenomeni vari e si abitui il pensiero a riflettere, analizzare, dedurre, indurre, trasferire e comprendere con immediatezza nuove realtà” (p. 33). Quindi occorre coniugare “contenuti disciplinari e contenuti culturali offerti dal Territorio”, conducendo una appropriata ricerca che coinvolga gli alunni, che li “entusiasmi e li faccia innamorare dei Saperi” (q. di c.) e che permetta di individuare “concetti, principi e leggi che, per transfert, faranno da collegamento tra le varie discipline garantendo così quell’unità del sapere che si traduce in unità della cultura: condizione per vivere ‘liberamente’ in una società dinamica e globalizzata qual è la nostra” (p. 47). Per poter realizzare ciò, l’Autore propone “di andare oltre la semplice Unità Didattica e di privilegiare un’azione didattico-metodologica che garantisca l’Unità di Apprendimento quale condizione per l’unità del sapere e quindi della cultura. La moderna concezione dell’U.D.A. si regge sul principio che un qualsiasi contenuto non è una realtà a sé stante: in sé porta richiami sia contenutistici che concettuali di altre realtà” (p. 43). Bruner (Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture, Roma, Armando, 1979) chiarisce che “Il collegamento fra le materie scompare se ogni materia è considerata nei suoi aspetti formali, ma acquista più vigore di una esplorazione ambientale se nell’inse-

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Recensioni gnamento di ogni materia l’insegnante riesce – e per far ciò deve conoscerla scientificamente – a collegarla con le altre nei contenuti, a farne comprendere sia gli aspetti o le strutture comuni sia gli aspetti o le strutture diverse” (p. 44). L’Autore presenta, nella seconda parte del testo, due U.D.A., entrambe nell’ambito del rapporto della scuola con il territorio, soddisfacendo ad una delle finalità indicate: fornire esempi di costruzione di U.D.A.; spesso, infatti, i Docenti trovano delle difficoltà nella loro progettazione, costruzione e sviluppo. I campi di indagine delle due unità sono “La Falconeria Medievale” e “Il Parco archeologico romano”. Per entrambe viene presentato il piano di sviluppo, che fa proprio il metodo della ricerca: individuazione del problema, ipotesi, verifica. L’ampia e dettagliata narrazione delle due unità, contiene anche tutto ciò che viene realizzato durante il loro svolgimento. In entrambe viene trattata con dovizia di particolari e con convincente e chiara esposizione la costruzione dell’Unità dei Saperi “intorno a concetti trasferibili […] per cui ciascuna disciplina, pur conservando la propria autonomia, si schiude e armonizza con le altre […]” (q. di c.) L’opera non trascura un’analisi finale sui momenti e sugli strumenti di verifica degli apprendimenti e di valutazione dei processi di crescita culturale degli alunni prendendo spunto da quelli inseriti nelle due unità. Giuseppe Alessandri


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L. DE VITA, Genitori senza controllo, Roma, Armando Editore, 2010, pp. 222. Il volume di Loredana De Vita è un vademecum di facile lettura, articolato in brevi capitoli, per genitori che nutrano il bisogno di riprendere il controllo sulle modalità e sulle finalità di adeguati interventi educativi all’interno di contesti familiari che paiono indulgere sui modelli deleteri del permissivismo e della lode proiettiva. Idea-guida del saggio è che la riduzione dei tempi familiari dettata da un diffuso consenso adattivo ai desiderata sociali, ai comportamenti di ruolo, al primato dell’individuo sulla persona, comporti, di necessità, la privazione delle coordinate affettive e valoriali che, sole, possono permeare di senso e di significato l’agire parentale. La perdita di controllo è la cifra di uno smarrimento che coinvolge le attuali famiglie, traducendosi in una più globale crisi dell’educare e nelle inedite forme di solitudine esperite dalle nuove generazioni. Occorre, quindi, ripartire dall’adulto, chiamato al superamento delle paure e delle ansie che condizionano i processi educativi, fino a renderli incontrollabili. L’istanza di provvisorietà, che governa gli esiti dell’odierno educare, non può

207 tradursi nel futuro incerto e negli scenari desertici cui sembrano inesorabilmente avviarsi le nuove generazioni: la madre e il padre debbono riappropriarsi degli spazi necessari a favorire la crescita dei minori, aprendo scenari che restituiscano dignità assiologica, fiducia e speranza, all’esistenza umana. I nuovi genitori, spesso, non conoscono i figli, perché impiegati dalla frenesia inautentica di un oggi che è già domani. Ma se da nessuna parte vi è l’adulto, se nessuno assume il rischio di infrangere l’incantesimo fusionale delle eterne appartenenze filiali, l’educazione varca la soglia dell’improvvisazione. Rispettare il mandato parentale, al contrario, apre all’amore per i figli. Tornare a riflettere sull’essere e sul sentirsi genitori, allora, è una forma di rispetto nei riguardi dell’originaria scelta procreativa. Una scelta che si rinnova, enuclea Loredana De Vita, tra l’imbarazzo e il senso di colpa, il desiderio e la necessità, la mancanza di regole e il bisogno stesso di regole, l’indipendenza e l’autonomia, il diritto e il dovere, la libertà positiva e la libertà negativa, per una famiglia autorevole, in cui gli adulti vogliano davvero rieducarsi alla genitorialità. Massimiliano Stramaglia

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