Ilaria Filograsso – Tito Vezio Viola_Oltre i confini del libro

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Ilaria Filograsso - Tito Vezio Viola

OLTRE I CONFINI DEL LIBRO La lettura promossa per educare al futuro

ARMANDO EDITORE


Sommario

Capitolo 1: Per una teoria della promozione

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ILARIA FILOGRASSO

1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6.

Narrare Emozionare Costruire Motivare Promuovere la lettura oggi Il piacere di leggere tra emozione e cognizione

Capitolo 2: L’editoria per l’infanzia e per l’adolescenza

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ILARIA FILOGRASSO

2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5.

Leggere le figure: il valore formativo degli albi illustrati Una nuova scrittura per l’infanzia Aspetti tematici L’avventura di crescere: il lettore adolescente Editoria scientifica e ambientale (Tito Vezio Viola)

Capitolo 3: I luoghi, i tempi, gli strumenti

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TITO VEZIO VIOLA

3.1. La lettura e l’informazione: diritti di cittadinanza dei bambini e delle bambine. Le biblioteche per ragazzi 3.2. Il Centro Sistema Ragazzi (CESIRA) del Sistema Bibliotecario Provinciale di Chieti e della Biblioteca Comunale di Ortona. Un caso di cooperazione dei servizi bibliotecari per ragazzi 3.3. Il promotore competente (Ilaria Filograsso) 3.4. Dall’anima all’animazione: la professione di animare il libro, la lettura, le biblioteche 3.5. Oltre le righe: il laboratorio

Bibliografia

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Capitolo 1

Per una teoria della promozione ILARIA FILOGRASSO

1.1. Narrare Da sempre la narrazione di storie rappresenta una forma di spiegazione, il laboratorio di senso della vita di ogni persona, la più antica delle strade della conoscenza umana, la più umana delle strategie per decifrare e percorrere il complesso labirinto dell’esistenza. Le storie – fatte, nella prima infanzia, di rime, ritmi, sonorità, immagini – costituiscono ancora per il bambino il primo strumento di interpretazione e di modellizzazione dell’esperienza quotidiana, di se stesso, degli altri. Cosa è successo, a chi e perché è la definizione classica di narrazione. E la narrazione è ovunque, se non è mai esistita cultura, civiltà o gruppo umano che non abbia utilizzato il racconto come forma di comunicazione essenziale e indispensabile. La fiaba, nella notte dei tempi, nasce proprio per l’uomo adulto che attraverso la finzione narrativa impara a conoscere il mondo, i valori e il significato della propria cultura. E nel viaggio iniziatico dell’eroe, sottoposto all’allontanamento dalla sicurezza familiare, esposto alle prove e all’ignoto, fino al ritorno che esige nuova consapevolezza e nuova maturità per confrontarsi con le richieste della società adulta, si rintraccia la metafora di ogni percorso di formazione e di autoriconoscimento: La storia fiabesca racconta, dunque, non solo di un percorso di formazione, ma anche delle condizioni alle quali esso può avere successo, nel passaggio dalla solitudine dell’io al riconoscimento della pluralità dei soggetti, dalla sicurezza inconsapevole dell’infanzia all’avventura significativa dell’adolescenza e, infine, dalla negazione dei legami con la tradizione e il passato 7


alla ricomposizione/costruzione di legami dialettici tra presente, passato e futuro1.

L’uso educativo del narrare introduce ed avvia il processo razionale, conduce ad una prima formazione della mente in senso cognitivo, legandola al paradigma esplicativo, sia pure attuato in modo simbolico e traslato. La narrativa, pur essendo un evidente piacere, è una cosa seria. Nel bene e nel male, è il nostro strumento preferito, forse addirittura obbligato per parlare delle aspirazioni umane e delle loro vicissitudini, le nostre e quelle degli altri. Le nostre storie non solo raccontano, ma impongono a ciò che sperimentiamo una struttura e una realtà irresistibile, addirittura un atteggiamento filosofico2.

In uno scritto di Benjamin, significativamente intitolato Il narratore3, il filosofo correla la perdita della capacità di narrare da parte degli uomini contemporanei con il declino della facoltà di “scambiare esperienze”. L’ampliamento del campo del possibile ottenuto dalle innovazioni tecnologiche non si accompagna ad un analogo allargamento della capacità di compiere esperienze, ma ad una sua contrazione. La capacità di narrare sembra fondamentale a Benjamin come espressione di un soggetto che sappia cogliere la sua propria storia come un tutto, e che perciò possa narrarsi agli altri, proiettandosi nel futuro dando coerenza al progetto di un’esistenza scandita da tappe e momenti interpretabili e condivisibili. L’incapacità attuale di fare esperienza determina, invece, la distruzione del soggetto come totalità interna: non solo viene meno la capacità di esperire la singola situazione, ma soprattutto di allineare i vissuti in una biografia coerente e dotata di senso, in una trama che snodi le molteplici dimensioni della narrazione. Siamo noi, dunque, a narrativizzare il mondo, anche quando esso non si presenta come una ordinata catena di eventi crono-casuali. Non solo perché la mente di ognuno è naturalmente predisposta alla comprensione e alla produzione di storie – tanto che è possibile teorizzare l’esistenza di un 1 L. Bellatalla, Attraversare spazi: il viaggio iniziatico, in F. Cambi, G. Rossi, Paesaggi della fiaba. Luoghi scenari percorsi, Roma, Armando, 2006, p. 49. 2 Cfr. J. Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 101. 3 Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962.

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pensiero narrativo, basato sulla tendenza propriamente umana a dare senso e forma al proprio agire, a costruire narrativamente la realtà – ma anche perché la propensione a comunicare i significati che cogliamo nell’esperienza concreta, a mettere in rapporto il passato e il presente, a proiettare il presente nel futuro, a rappresentare gli individui e le loro azioni come connotati da scopi, intenzionalità, aspirazioni, si traduce nell’atto narrativo, a sua volta contropartita di un’esigenza tipicamente umana: il bisogno di “addomesticare l’imprevisto”, e di basare, pertanto, le proprie interazioni con l’ambiente e con gli altri sulla regolarità degli eventi, sulla coerenza, sulla prevedibilità, su criteri interpretativi della realtà condivisi e costruiti culturalmente4. Adriana Cavarero, in un suggestivo saggio di filosofia della narrazione, sviluppa la tesi, appunto, che la narrazione costruisca l’identità: la vita di ognuno lascia una traccia che il racconto di quella vita ricostruisce, dandole senso. La studiosa riporta un racconto affascinante di Karen Blixen, in cui si narra di un uomo che passa la notte a richiudere una falla di uno stagno che lasciava uscire acqua e pesci; la mattina dopo, affacciatosi alla finestra della sua casa riconosce, nelle tracce lasciate dai suoi passi la notte prima, la figura di una cicogna. Questa figura ricostruisce il senso dell’esperienza passata, è una narrazione di ciò che l’uomo ha vissuto la notte precedente. Il significato che salva la vita di ognuno dal mero succedersi degli eventi non consiste in una determinata figura, consiste però esattamente nel lasciarsi dietro una figura, ossia qualcosa di cui si possa scorgere l’unità del disegno nel raccontare la storia […] Se lasciarci dietro un disegno, un “destino”, una figura irripetibile della nostra esistenza, “è l’unica ispirazione degna del fatto che la vita ci è stata data”, nulla risponde al desiderio umano più del racconto della nostra vita5.

Se la tendenza a narrare può essere considerata una dotazione naturale, i modelli e i modi, le forme della narrazione sono senz’altro culturali, sono saperi, che esigono costruzione, adattamento, apprendimento. Viviamo dalla prima infanzia immersi in un mare di storie, e solo interiorizzando le regole della narrazione, frequentandole, ascoltandole, leggendole, 4

Cfr. J. Bruner, La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza, 1987. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 10-11. 5 A.

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creandole e raccontandole a nostra volta, impariamo a rappresentare e a scambiare le rappresentazioni di questo mondo e di noi all’interno di esso. Il narrare nutre, infatti, l’attività simbolica della mente, il suo bisogno di fissare simboli e miti, figure che fungono da orientatori di senso. La possibilità di fruizione dei racconti da parte dei bambini, facilitata dall’esercizio narrativo del gioco, è in relazione alla capacità degli adulti di raccontare storie significative in cui i bambini possono trovare un “senso” alla propria esperienza. Un’educazione alla narrazione è anche un percorso di strutturazione di “mondi possibili”, di versioni del sé e di costruzioni della propria autobiografia6.

Un’ulteriore funzione mentale, dunque, stimolata dalla narrazione, diversa e complementare a quella dello spiegare, ma connessa all’immaginare, al virtuale, al possibile. Le frontiere dell’immaginazione pongono in atto una discontinuità nel nodo compatto del reale, ne sospendono l’assoluta necessità, ne dilatano le frontiere, rendendo pensabile (e, pertanto, reale, in quanto posta in essere nel pensiero e, forse, realizzabile) l’alterità, l’altrove, il sogno/fantasticheria e, insieme, nutrono il dissenso, la capacità di dire no, la volontà di opposizione. Saldando, in tal modo, il cognitivo all’etico7.

La forma della narrazione, e le molte storie di cui disponiamo, rappresentano le prime occasioni per incontrare il valore della differenza, la centralità delle costruzioni identitarie, il piacere e l’esigenza di costruire sfondi all’interno dei quali le figure del sé possano darsi corpo e senso. Sono i luoghi in cui prendono forma le molte manifestazioni possibili della verità, della libertà, della bellezza8. Per questo la narrazione deve saper giocare sui due piani del lontano e del prossimo: parlare di ciò che è vicino ai bambini, che è prossimo, ma complesso, da spiegare e capire; parlarne con storie del fantastico, dell’immaginifico, dell’irreale, storie lontane. Ma i due piani poi si rovesciano e si scambiano le parti: la narrazione sarà 6

G. Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973, p. 35. F. Cambi, La funzione formativa della narrazione, in R.M. Morani (a cura di), Libri libroni libracci. Leggere a scuola senza annoiarsi, Roma, Carocci, 2007. 8 M. Dallari, La dimensione estetica della paideia, Trento, Erickson, 2005, p. 247. 7

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ancora esperienziale, cioè partirà dal concreto delle esperienze vissute dai bambini (dal prossimo), per affrontare a loro misura temi più ampi, lontani, astratti. Il tutto, senza confusione, senza ambiguità: narrare è complesso. L’adulto che racconta (il genitore, l’educatore, l’autore per ragazzi) sa che quelle storie saranno le risorse del bambino per conoscere e interpretare la realtà, e la loro costruzione non può essere lasciata al caso. Alla domanda se ci sia una corrispondenza funzionale tra ciò che gli adulti hanno da sempre offerto narrativamente ai bambini e i gusti di questi ultimi, Calabrese risponde sottolineando come le recenti ricerche cognitiviste e neuroscientifiche confermino che le stesse abilità che garantiscono ai bambini un apprendimento consentono loro di cambiare la realtà, di far nascere nuove ipotesi e immaginare mondi alternativi, mai esistiti. Il cervello dei bambini crea teorie causali del mondo, mappe del suo funzionamento che consentono loro di ideare nuove possibilità, di immaginare che il mondo sia diverso: immaginazione e causazione vanno di pari passo e si alimentano evolutivamente in modo biunivoco9. L’aveva capito, già molti anni or sono, Gianni Rodari, partendo da una formazione eclettica e aperta alle più diverse stimolazioni culturali, quando proponeva l’utilizzo della fiaba come strumento di educazione al futuro: il cuore della fantastica rodariana sarà proprio nel continuo integrarsi e reciproco stimolarsi di “fantasia” e “ragione”, essendo la fantasia una tecnica della ragione, il suo potenziamento immaginativo, utopico, progettuale e divergente, e la ragione, invece, l’orizzonte in cui opera la fantasia, che si inscrive in una visione dialettica della mente. L’immaginazione è funzionale a tutto lo sviluppo della mente, che è una sola e contrassegnata dalla creatività, che si irradia, se preparata e coltivata, in tutta l’attività umana, per creare una società rinnovata che si incardina sul cambiamento e sulla problematizzazione del reale. Le fiabe servono alla matematica come la matematica serve alle fiabe. Servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché, in apparenza, non servono a niente: come la poesia e la musica, come il teatro o lo sport (se non diventano un affare). Servono all’uomo completo. Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) ha 9

S. Calabrese, Le narrazioni nella mente dei bambini, in «Liber», n. 90, aprile-giugno 2011, pp. 18-21.

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bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione10.

Le storie che riceviamo in dono sin dalla prima infanzia, dunque, orientano il nostro sguardo, condizionano il nostro modo di leggere e interpretare il presente, trasformano la somma di parti in un mondo, contribuendo, inoltre, con l’indicazione dell’altrove e dell’alternativa, alla costruzione degli anticorpi necessari contro l’omologazione massificante. Se è vero che la mente crea la cultura, è altrettanto evidente che la cultura condiziona la mente: guardare sé e la realtà, costruire la coscienza di questa visione, trovare il senso a questo guardare e interpretare, costituisce un processo che non può prescindere da un modello di relazione interpersonale, un rapporto che trova nello scambio narrativo uno dei momenti fondanti della costruzione condivisibile delle rappresentazioni e dell’idea stessa di conoscenza. In questa prospettiva, la semplice fruizione di una fiaba mette in gioco una doppia iniziazione, quella del protagonista, descritta secondo uno schema ricorrente ed essenzialmente invariante, e quella dell’ascoltatore-lettore, che non solo è spinto a seguire il viaggio dell’eroe, identificandosi, ma è anche invitato, con la tradizionale formula di chiusura (es. larga la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia) a riprendere in mano la propria storia, a ricapitolarla per farne una nuova narrazione, in cui il suo ruolo sia attivo e propositivo. La narrazione attiva precocemente, infatti, competenze personali e sociali, individuate da psicologi e pedagogisti come aspetti irrinunciabili dello sviluppo dell’intelligenza emotiva: rappresentare la soggettività dell’altro e inferire il suo stato mentale; riconoscere le sue emozioni; assumere la prospettiva e il punto di vista dell’altro; attribuire agli altri qualità e disposizioni interne più o meno permanenti; riconoscere, monitorare e gestire le proprie emozioni usandole a vantaggio del pensiero e dell’azione. Il discorso narrativo rende facile un contenuto intrinsecamente difficile: le azioni umane sono imprevedibili, l’aleatorietà delle intenzioni e la soggettività dei progetti sfuggono alle regole e alle gabbie interpretative, ma non per questo l’essere umano rinuncia a cercare di negoziare significati per le 10

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G. Rodari, Grammatica della fantasia, cit., pp. 170-171.


proprie e altrui azioni ed emozioni. Perché è proprio dall’incontro con testi differenti, capaci di porsi come paradigmi di senso ma anche di problematizzarsi a vicenda, che può nascere la possibilità di concepire e produrre a nostra volta testi, e di dare forma alle nostre originali visioni del mondo; la narrazione, arte delicata, mentre rivela il significato non aspira a catturare l’universo nella trappola della definizione: essa piuttosto “rivela il finito nella sua fragile unicità e ne canta la gloria”11. Il racconto, infatti, non rende solo più prevedibile il contingente, ma è un apparato cognitivo e metacognitivo sempre potenzialmente eversivo, perché svela come il principio di realtà sia un congegno manipolabile, e le rappresentazioni del mondo siano continuamente rinegoziabili. Ritengo importante, alla fine, soffermarmi su altri due aspetti che sottolineano il valore della letteratura: la sua funzione pacificatoria, che ci conforta della nostra condivisa umanità, e la sua funzione sovversiva, che sfida costantemente i nostri pregiudizi, le nostre radicate abitudini, il nostro autocompiacimento12.

I racconti sono la moneta corrente di una cultura, che crea e impone il prevedibile, tesaurizzando al tempo stesso – paradossalmente – ciò che contravviene ai suoi canoni. La cultura è, in definitiva, una dialettica, piena di narrazioni alternative su ciò che il Sé è o potrebbe essere. E le storie che creiamo per raccontare noi stessi agli altri riflettono questa dialettica. La prima componente della lettura è dunque la narrazione: esperienza fatta di ascolto, pensiero, realtà, immaginazione. Esperienza che attiene al prossimo e al lontano. Un filo che sgomitola il mondo, che lo fa conoscere, costruisce il nostro Sé e lo racconta, veicola conoscenze, informazioni, emozioni: il lettore se ne appropria, lo fa suo, e con esso impara a leggere se stesso e la realtà con gli strumenti più sofisticati di una sensibilità allenata al decentramento, all’introspezione, all’incontro con l’altro che ogni libro promette.

11 A.

Cavarero, op. cit., p. 10. Chambers, Siamo quello che leggiamo. Crescere tra lettura e letteratura, Milano, Equilibri, 201, pp. 67-68. 12 A.

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