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SOMMARIO
Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza Salute mentale e riabilitazione
Volume 78 N. 1 Gennaio-Aprile 2011 SOMMARIO
Editoriale
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Sezione: disturbi dello sviluppo e disturbi di personalità A.M. Persico, Gli autismi ……………………………………………
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P. Venuti, G. Esposito, Indicatori precoci dei disturbi pervasivi dello sviluppo: alcuni contributi di ricerca …………………………………
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L. Soletti, S. Panunzi, C. Colombini, Autismo e Disturbo OssessivoCompulsivo in adolescenza: verso un sottotipo ossessivo-compulsivoautistico ………………………………………………………………
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R. Pollice, V. Bianchini, L. Verni, N. Giordani Paesani, R. Roncone, M. Casacchia, F. Pollice, Psicosi giovanili: fattori di rischio, precursori, prodromi e caratteristiche psicopatologiche …………………
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Sezione: neuropsicologia dello sviluppo e riabilitazione E. Fazzi, J. Galli, I. Maraucci, S.G. Signorini, A. Luparia, A. Alessandrini, P. Mattei, C. Uggetti, U. Balottin, G. Ruberto, P.E. Bianchi, Aprassia oculomotoria congenita: riflessioni cliniche e riabilitative …………………………………………………………………
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A. Gallani, A.M. Re, F. Sella, M. Tolomei, A. Zanellato, C. Cornoldi, Il ruolo della generazione di idee e della pianificazione nelle difficoltà di produzione del testo di bambini ADHD ……………………
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M.C. Levorato, M. Roch, E. Florit, La comprensione del testo orale nel Disturbo Specifico del Linguaggio: il ruolo del vocabolario recettivo e della comprensione della frase ………………………………………
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M.A. Tallandini, L. Tellini, L. Morassi, Analisi longitudinale delle capacità spaziali e visuo-costruttive in bambini con disturbo di sviluppo della coordinazione (DSC) ……………………………………………
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SOMMARIO
Sezione: psicopatologia dello sviluppo e salute mentale L. Sacrato, A. Pellicciari, E. Franzoni, I bambini troppo bravi non mangiano: quando le aspettative ed i bisogni genitoriali attaccano il Sé emergente del figlio ……………………………………………………
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T. Giacolini, Anoressia e competizione sociale………………………
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R. Ricci, Il lutto come fattore di rischio per i disturbi psichiatrici in età evolutiva ………………………………………………………………
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G.V. Margherita, I. Nuzzo, Nuove anoressie. Una lettura psicodinamica del fenomeno “Pro-Ana” ………………………………………
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Sezione: epidemiologia clinica e prevenzione V. Cardi, C. Colombini, C. Nacci, B. Shashaj, N. Sulli, M. Cuzzolaro, Disturbi dell’alimentazione e disagio del corpo in adolescenti con diabete mellito di tipo 1: uno studio psicometrico ……………………
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F. D’Alberton, S. Dicasi, C. Rosso, Assaggiare il diabete: pazienti con diabete giovanile in trattamento analitico e psicoterapico ……………
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Sezione: psicologia clinica: strumenti e interventi G. Bolchi, M. Ragazzi, C. Brembilla, C. Vezzoli, C. Bellebono, Tre anni di lavoro con i bambini di scuola materna del territorio della provincia di Bergamo: tra area protettiva e area del rischio – 1200 bambini dai 4 ai 5 anni ……………………………………………………
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U. Uguzzoni, S. Gelosini, Il disagio degli adolescenti. Il malessere espresso dagli studenti negli sportelli di ascolto ………………………
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Istruzioni per gli Autori ………………………………………………
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 3-8
EDITORIALE Nuovi sintomi Vs nuovi racconti in un ambulatorio di neuropsichiatria infantile
al ricordo di Giovanni Bollea per il futuro della sua disciplina Chi arriva oggi agli ambulatori di neuropsichiatria dell’età evolutiva? Qual è la tipologia e la distribuzione della domanda? Quali sono le informazioni già disponibili e le attese dei genitori? Partendo dalla prospettiva di un ambulatorio quotidiano, a cui l’utenza arriva con una domanda senza selezioni, è possibile cercare di comprendere cosa succede nel territorio circostante a monte ed a valle? La domanda più profonda è un’altra, ambiziosa quanto pressante: è possibile individuare nuove problematiche e nuovi interrogativi nella popolazione che arriva ai nostri ambulatori? Che cosa succede nel comparto sanitario che ci riguarda da vicino? Che cosa sta succedendo nella società attuale dei bambini e degli adolescenti? Che cosa sta succedendo nella corrispondente società dei genitori? A distanza di circa vent’anni, sono tornato ad impegnarmi nell’organizzazione e nella pratica di un ambulatorio generale di neuropsichiatria infantile. I bambini ed i ragazzi che ci arrivano ogni anno sono circa 1500, un terzo dei quali viene con la richiesta di una seconda opinione. Più o meno le prime visite vere sono quelle attese nella realtà italiana, per una popolazione di circa 60.000 soggetti in fascia di età. Dopo sei mesi, mi viene spontaneo tentare di fare un’analisi su quello che sto vedendo per formulare, con cautela, alcune riflessioni sui segnali di continuità e di cambiamento che mi sembrano più evidenti. Per rendere comprensibile il discorso, fornisco alcuni dati con cui inquadrare le attività del nostro Ambulatorio. Modalità di segnalazione. Oltre metà degli arrivi è dovuta alla sollecitazione di educatori ed insegnanti. Seguono le richieste nate in ambito familiare (per lo più dalle madri, con qualche resistenza dei padri). Le segnalazioni proposte e motivate dai medici sono meno di un quinto. I picchi di età rimangono quelli collegati con i momenti di passaggio sociale: ai 3, 5, 7, 9, 12 e 14 anni. L’interrogativo formulato è molto spesso ambivalente: si chiede di escludere un problema di gravità lieve-media mentre si teme, avendone un sospetto abbastanza chiaro, un problema più serio; si chiedono informazioni sulle cause remote, mentre si cerca di capire, senza dirlo, quali saranno le conseguenze a lungo termine. Tipologia delle segnalazioni. Nell’ordine e nel rapporto 4/2/1: Disturbi Neuropsicologici (DSA, DSL, RPM, DCD, RML, DGS, ADHD); Disturbi Psicopatologici
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(DOP, DC, DD, DA, DOC, DP); Disturbi Neurologici (PCI, Disturbi del Movimento, Epilessia, Cefalea, Disturbi del Sonno, Tics). Vanno considerati alcuni altri dati utili: 1) i casi con forte e determinante componente sociale sono circa un caso su quattro; 2) i casi con problematiche miste neuropsicologiche o psicopatologiche (Disturbi di Sviluppo) sono circa uno su cinque, considerando tutta la casistica; 3) la concordanza tra motivo della segnalazione e nostra valutazione diagnostica è buona, anche se approssimativa, per 60 casi su 100; per circa 25 casi su 100 la valutazione diagnostica modifica radicalmente l’area problematica; 5) per circa 8 casi su 100 la segnalazione non viene confermata da una diagnosi clinica. Tenendo presente questa cornice operativa, mi sembra interessante soffermarci sulle situazioni che mi sono sembrate avere alcune caratteristiche di novità ed essere abbastanza ricorrenti. Bambini in cerca di regole Molti genitori portano a visita i loro figli “perché sono irrequieti e scontenti, litigiosi, ma paurosi”. Il contrasto che esiste in queste descrizioni è abbastanza evidente: 1) il bambino si muove sempre ed è sempre agitato, ma non si sfoga mai, partecipando il suo disagio e prendendone coscienza; 2) il bambino entra molto facilmente in conflitto, ma ha paura degli altri. Il problema può essere percepito già in famiglia, ma senza essere mai definito. Le prime preoccupazioni tendono a venire dall’esterno, dai genitori di altri bambini, ai giardinetti, dagli insegnanti. Una fonte tipica di allarme è la discordanza tra i momenti in cui il bambino sembra un tiranno (più spesso a casa) ed i momenti in cui sembra una vittima sociale. Quello che colpisce nei genitori di questi bambini è la poca chiarezza con cui ricordano le tappe di sviluppo del bambino e le sue caratteristiche personali (i suoi gusti ed il suo modo di esprimere le emozioni). Il figlio viene presentato attraverso una serie molto lunga e precisa di richieste e di capricci, che non vengono definiti come tali, né graduati rispetto a criteri di realtà. La stanchezza dei genitori è proporzionale alla loro indecisione: “Vuole sempre qualcosa di più e con forza; non so mai se gli ho dato abbastanza”. Rabbia e tristezza si alternano tra figli e genitori, mascherando la sostanziale frustrazione, la costante irritabilità e la sconsolata rassegnazione. La diagnosi volgare da cui questi bambini sono preceduti, già dai genitori, è di solito: iperattività e/o mancanza di concentrazione. In realtà questi bambini non sono iperattivi e neppure mancano di concentrazione. Si muovono psicologicamente con la ricerca precisa e diretta di un rapporto che li contenga. La loro richiesta non è di avere degli oggetti da consumare ma quella di avere un ambiente più personalizzato. Un sistema di regole è anche un sistema di scambio. Mostri senza telecomando Alcuni bambini un po’ isolati e bizzarri vengono segnalati per le loro frequenti, o quasi invasive fantasticherie. I genitori di questi bambini sono preoccupati perché,
NUOVI SINTOMI VS NUOVI RACCONTI
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quando non possono fare i loro giochi, i loro figli o si mettono all’angolino o diventano facilmente aggressivi. L’origine apparente delle fantasticherie riferite (ed anche osservabili) è facilmente collegabile con il mondo della televisione e, in particolare, dei cartoni animati. Mostri meccanici e dinosauri, gnometti e bambini indifesi appaiono nelle loro storie tipicamente frammentate e, quando ci sono, nei loro disegni e giochi ripetitivi. La rappresentazione e la figurazione sembrano molto tranquille. I canovacci non sono quasi mai ricostruibili perché sono assemblati per associazioni che sfuggono. Gli elementi che tuttavia discordano sono: la tranquilla aggressività recitata, il crescendo della confusione e lo sforzo di fare emergere e nascondere allo stesso tempo temi distruttivi, quasi sempre cannibalici. Non è facile individuare chi mangia e chi è mangiato e neppure chi è il buono e chi è il cattivo. Una nota interessante: quando la narrazione si conclude, nello scenario i mostri sono gli unici ad essere sopravvissuti ed i bambini sono esausti. Un genitore ha detto, abbastanza distaccato: “Il dinosauro ha mangiato mio figlio, ma lui lo controlla”. Il bisogno di controllo è una caratteristica fondamentale di questi bambini. Molto spesso compensa male una difficoltà di coordinazione motoria e di progettazione prassica. Ad un’osservazione superficiale questi bambini possono sembrare avere un disturbo dello spettro autistico. Ci sembra invece che ci troviamo di fronte a dei disturbi precoci di personalità. Riempirsi, svuotarsi, straparlare: il corpo Siamo abituati a vedere bambini che, avendo un conflitto di cui non possono parlare e neppure pensare, esprimono il loro disagio attraverso il linguaggio del corpo. Questi bambini hanno, classicamente, un problema di accesso alla mentalizzazione. In questi mesi abbiamo visto diversi bambini che hanno un sintomo somatico atipico (svenimenti, enuresi secondarie, selettività alimentari e comportamenti pseudoanoressici) emerso con evidenza dopo un trauma o un conflitto certo e riconoscibile. Questi casi ci hanno colpito per il forte bisogno e la evidente consapevolezza di voler parlare un po’ del sintomo e molto al di fuori del sintomo. Nei racconti di questi bambini non esiste l’inibizione a pensare; non esiste la ritualità che consente la stabilizzazione e la manipolazione; non esiste l’affettività della solitudine – tristezza, vergogna –. Nei loro racconti il collegamento è sulla storia del sintomo nella loro vita e, abbastanza rapidamente, si passa sui limiti sociali e relazionali dei loro ambienti. Il sintomo è utilizzato, con una certa abilità, strumentalmente, come una chiave per aprire delle trattative rispetto a vecchi rancori e richieste precise: di maggiore libertà o di ruolo sociale (a seconda dell’età). I genitori riconoscono ed amplificano la valenza patogena dell’evento traumatico, mentre ignorano e negano l’esistenza ed il peso dei conflitti relazionali. Sembra che tra fatti, azioni, pensieri e rappresentazioni non esista un vocabolario comune sulle emozioni. Questi bambini non hanno dei racconti complessi da presentare o inscenare. Anche i traumi che riferiscono sono relativamente dei traumi piccoli che vengono vissuti
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come un grande avvenimento quasi atteso. Il teatro del corpo sembra sostituire un bisogno di raccontarsi. I genitori di questi bambini sembrano incontrare delle grosse difficoltà nel ricostruire i significati emotivi che sottendono i comportamenti agiti dai loro figli. Persino quando sono in gioco delle dinamiche di forte identificazione-controidentificazione, la superficie delle interazioni è di tipo alessitimico. Bambini che non sanno in-segnare Le difficoltà scolastiche costituiscono sempre un’ampia fonte di segnalazione. Sulle difficoltà scolastiche convergono, regolarmente, tre ordini di fattori: disturbi neuropsicologici, problemi affettivi e dinamiche microsociali. Il quesito determinante è, caso per caso, comprendere il peso relativo e la successione patogenetica dei tre fattori. La recente Legge sui DSA ha movimentato molto il settore, aumentando le segnalazioni proprie ed improprie. Forse in relazione a questo nuovo impatto, stiamo vedendo una casistica in parte nuova. I disturbi neuropsicologici risultano più selettivi e più penetranti. I disturbi affettivi risultano più acutamente come disturbi di accesso al pensiero. Dissociazioni che non sembrano ampie tra competenze logicospaziali e logico-linguistiche si correlano con curiose dislogie, con difficoltà a mettere a fuoco la gerarchia delle intenzioni. La somma di tutte queste difficoltà è, nel bambino e più spesso nel ragazzo, una situazione di costanti e ricorrenti equivoci. Più che non comprendere, questi casi non sanno come farsi comprendere e come sottolineare, nella relazione, il proprio punto di vista ed i propri interessi. Nelle situazioni scolastiche, questi soggetti sanno rispondere a domande precise e, con l’aiuto di domande precise, possono fornire delle prestazioni discrete anche rispetto a nuovi apprendimenti. Quello che non sanno fare è spiegare anche dati e acquisizioni padroneggiati a qualcuno che non fa domande o che non sa (per esempio un bambino più piccolo). Questi ragazzi non sono inibiti, ma in qualche modo, confusi. Anche rispetto alla conoscenza di sé non sanno raccontarsi, ma sanno rispondere con acutezza a domande precise. In questi bambini un disturbo neuropsicologico focale sembra diventare, lentamente, un paradossale organizzatore della realtà rappresentazionale. Il silenzio preadolescenziale Diversi preadolescenti, ed anche adolescenti, arrivano ad una prima consultazione per problemi non tipici dell’età e di solito presenti da molto tempo. Di più: la segnalazione avviene in questo particolare momento di vita senza che ci sia una qualche crisi o una qualche accentuazione del vecchio problema. È una situazione che ci sembra interessante ed in parte nuova. La presentazione del caso è abbastanza tipica. “A) pensavamo che il vecchio problema si risolvesse da solo ed abbiamo aspettato; B) ci sembra poco maturo per la sua età, anche se intelligente”. I sottointesi di questi arrivi ambulatoriali ci sembrano appena sotto traccia. I genitori, che sono molto presenti, sono seriamente preoccupati, anche se non sanno perché. Dopo qualche sollecitazione, confessano spontaneamente che “In fondo i figli
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NUOVI SINTOMI VS NUOVI RACCONTI
non li conosciamo, non dicono molto di se stessi e noi non sappiamo capire da soli o aprire un dialogo”. Nonostante questi limiti dichiarati i genitori hanno delle richieste concrete e puntuali, e forse eccessive di tipo scolastico e sociale. I ragazzi non vogliono parlare di sé e, per riuscire in questo intento, parlano d’altro, banalizzano tutto e intanto i loro punti di crisi manifestano una sicurezza forzata, un falso controllo delle proprie emozioni ed inventano competenze e frequentazioni sociali che non possiedono. Curiosamente la richiesta di consultazione è stata bene accolta da questi ragazzi: sintomi di riferimento sono balbuzie, disgrafia, stancabilità, orsaggine in alcuni contesti e sguaiatezza in altri; forte competitività in settori specifici e atteggiamenti rinunciatari in aree di vita più quotidiane. Mancano avvenimenti più clamorosi. In questi ragazzi, ad un minimo approfondimento, emerge una vita emotiva contenuta e repressa da molti anni. Il registro dominante è quello di paura della propria rabbia e paura della propria tristezza. L’altro è pensato come un possibile aggressore che va manipolato. I sentimenti personali debbono essere il più possibile dissimulati. In sintesi: questi ragazzi sembrano avere una crisi adolescenziale attesa e pensata precocemente e subito compressa in un faticoso gioco di falsificazione. *** Cercando di evitare generalizzazioni affrettate e conclusioni impressionistiche, cosa penso di aver cominciato ad intravedere? La distanza di tempo da una esperienza così intensa e la vivacità delle domande mi permettono di avanzare qualche ipotesi da verificare. A questi ragionamenti contribuiscono le osservazioni e le inquietudini dei più giovani colleghi (neuropsichiatri infantili, terapisti, psicologi) con cui sto condividendo questa avventura, che confesso ci emoziona. Mi sembra proprio che il disagio psicologico, la sofferenza mentale ed i disturbi psicopatologici, pur rimanendo gli stessi sul piano nosografico, stanno cambiando come espressività. 1) I genitori ci sembrano più attenti a mettersi in discussione, a sentirsi poco adeguati, ma anche meno capaci di definire cosa debbono fare in quanto genitori e come regolare la relazione trans-generazionale. I punti di crisi, anche dichiarati come tali, sono due: a) avere difficoltà a comprendere cosa i bambini ed i ragazzi possono fare/non fare nelle diverse età della crescita; avere molti imbarazzi nel definire gli obiettivi dell’educazione (quello che bisogna saper fare e quello che bisogna essere). Quanto essere forti e quanto essere visibili? Quanto essere competitivi e quanto essere trasparenti? Quanto saper cedere e quanto essere buoni? Su questo ultimo punto sembra esistere una vera e propria vergogna a pensare. 2) I bambini ed i ragazzi sembrano avere più spinte a muoversi in una relazione di attaccamento-evitamento che in una relazione di trattative e scambio. Questa dinamica è resa più pesante nei contesti di isolamento sociale in cui, spesso, il disagio psicologico trova il suo vocabolario.
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3) Come sempre i sintomi che si esprimono attraverso la somatizzazione o attraverso la mentalizzazione hanno una gran parte nel repertorio dell’età evolutiva. Quello che ci sembra interessante è che sintomi del corpo e sintomi del pensiero sono più mescolati e confusi tra di loro. Forse perché ci arrivano anche situazioni cliniche meno hard di una volta (anche se ugualmente drammatiche). Forse perché le caratteristiche individuali sono meno esprimibili nel ventaglio dei riconoscimenti psicologici e nel gioco dei ruoli. I bozzetti clinici che ho cercato di illustrare riguardano, tutti assieme, un numero importante di casi visti in questi ultimi mesi. Ho anche avuto modo di fare un minimo confronto con una casistica parallela di circa quindici anni fa. Le mie valutazioni, per quanto non elaborate, mi sembrano ragionevoli. Nella prospettiva di approfondire con una ricerca che tenga conto anche delle nuove realtà sociali (i movimenti migratori; i cambiamenti demografici, la crisi economica), credo che, in pratica, le linee emergenti di lavoro siano le seguenti: 1) stanno aumentando sensibilmente i casi misti, neuropsicologici-psicopatologici; 2) stanno cambiando i rapporti tra le dinamiche psicologiche che portano verso la somatizzazione dei sintomi e quelle che portano verso la loro mentalizzazione; 3) la messa in scena della patologia è molto influenzata dalle difficoltà di stabilire delle regole concordate (il confine tra capriccio e provocazione angosciosa); sembra cioè meno chiaro anche il confine tra esternalizzazione ed internalizzazione dei sintomi e gli equilibri tra presa di coscienza e racconto di Sé (privato e pubblico). Forse stiamo aprendo un nuovo filone di ricerca sullo sviluppo dei disturbi di personalità che, anche per altre sollecitazioni cliniche, stiamo comprendendo essere il problema dei prossimi decenni. gabriel levi
P.S. Non ho affrontato, in questa nota, le notizie che la nostra utenza rivela sullo stato di funzionamento dei Servizi Territoriali. È un argomento delicato, per cui è necessaria un’ulteriore elaborazione. Avendo confrontato i ns. dati sia con quelli regionali dell’ASL RM C e dell’ASL LT, sia con quelli delle ASL di Modena e Firenze, posso soltanto anticipare due punti importanti: A) in questo periodo, da almeno cinque anni, il rapporto tra casi che chiedono una prima visita e casi che vengono presi in carico è di 1 a 3; B) molti casi che ricevono una diagnosi abbastanza precoce vagano per mesi, e qualche volta fino a due anni, prima di ricevere una risposta terapeutica. Su questi problemi dovremo tornare.
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Gli autismi Autisms Antonio M. Persico*
Summary This article reviews all forms of autisms due to known etiologies, including (a) “classical” syndromic forms, (b) mitochondrial disorders, (c) autisms due to small chromosomal rearrangements (Copy Number Variants), (d) syndromic autisms of monogenic nature due to mutations affecting single genes involved in the structure and function of synapses, the packaging of DNA into chromatin, the regulation of cell cycle and morphogenesis, calcium signalling, as well as (e) environmental autisms due to teratogenic drugs, such as valproic acid, misoprostol and thalidomide, or prenatal infections with rubella or cytomegalovirus. Whenever present, signs and symptoms which should spur targetted diagnostic testing are outlined. Progress in our understanding of the biochemical and genetic underpinnings of autism spectrum disorder should pave the path toward pharmacological treatments targeted toward the core symptoms of autism and not merely toward comornid conditions, as suggested by the exciting therapeutic results recently obtained in several animal models of syndromic autisms. Key words Autism – Copy Number Variant – MECP2 – Neuroligins – PTEN.
1. Introduzione L’esistenza di una estrema eterogeneità clinica nell’ambito dell’autismo non rappresenta certo una acquisizione recente. A distanza di un solo anno dall’iniziale descrizione da parte di Leo Kanner di 11 bambini caratterizzati da una patologica “chiusura in se stessi” (Kanner, 1943), Hans Asperger descriveva quattro ragazzi che mostravano solo alcune, ma non tutte, le anomalie comportamentali presenti nei pazienti di Kanner (Asperger, 1944a). Il lavoro di Asperger, scritto in tedesco, raggiunse una maggiore diffusione a partire dal 1981 quando Lorna Wing descrisse 34 pazienti tra i 5 ed i 35 anni che presentavano un quadro clinico più simile a quello dei pazienti descritti da Asperger che non ai casi seguiti da Kanner (Wing, 1981), nonché dopo la sua traduzione in inglese da parte di Uta Frith nel 1991 (Asperger, 1944b). Da allora, anche la definizione della malattia “autismo” è stata oggetto dell’altalenante propensione a privilegiare un approccio categoriale oppure un approccio dimensionale, alternanza tra analisi e sintesi che da sempre accompagna la storia della nosografia psi*
Laboratorio di Psichiatria Molecolare & Neurogenetica, Università Campus Bio-Medico, Roma, e Dipartimento di Neuroscienze Sperimentali, I.R.C.C.S. “Fondazione Santa Lucia”, Roma.
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chiatrica. Nel DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) si sono pertanto distinti, all’interno dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS), diversi quadri clinici che includono il Disturbo Autistico, il Disturbo di Asperger, la Sindrome di Rett, il Disturbo Disintegrativo dello Sviluppo ed il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Classificato (PDD-NOS). Al contrario, nel DSM-V queste diverse categorie diagnostiche verranno probabilmente a convergere in un unico “Disturbo dello Spettro Autistico” (DSA) (vedi http://www.dsm5.org/Pages/Default.aspx). Questa scelta, al di là di motivazioni di ordine pratico intrinseche al sistema sanitario americano (quali, ad esempio, che la parola “autismo” compaia nella diagnosi perché le terapie del paziente ricevano parziale o completa copertura da parte delle assicurazioni), sottolinea l’esistenza nella popolazione generale di un continuum dimensionale da tempo noto come “spettro autistico”, quantificabile mediante appositi strumenti e ben rappresentato nel “fenotipo intermedio” che spesso caratterizza i familiari di pazienti autistici (Piven et al., 1997; Wheelwright et al., 2010). Tuttavia anche questa ridefinizione della patologia autistica in una singola ampia categoria diagnostica, se da un lato semplificherà la definizione diagnostica dei pazienti, non renderà ragione della impressionante variabilità di quadri sintomatologici, traiettorie di sviluppo, modalità d’esordio, gravità del disadattamento, risposta alle terapie riabilitative e comorbidità che si riscontra costantemente nella pratica clinica. Proprio per rispettare il dato ineludibile di questa grande variabilità interindividuale, che molti ritengono sottesa da altrettanto significative differenze a livello eziologico, è stato coniato il termine “autismi”. Questo termine designa un gruppo di disturbi del neurosviluppo ad esordio precoce, caratterizzati dall’autismo come elemento unificante, ma risultanti da processi patologici diversi. Il nostro articolo riassumerà brevemente le attuali conoscenze in riferimento alle caratteristiche cliniche ed eziopatologiche degli “autismi”. Riteniamo infatti che, nonostante i grandi limiti che tuttora mostrano le nostre conoscenze in tale ambito, solo un’approfondita comprensione della fisiopatologia sottesa al disturbo autistico potrà consentire al neuropsichiatra infantile una corretta distinzione tra “salute” e “malattia”, nonché la definizione del percorso terapeutico più appropriato. 2. Verso una classificazione degli autismi Per avviarci verso una classificazione degli “autismi” fondata sulla fisiopatologia, si è cercato di identificare sottogruppi di pazienti relativamente omogenei dal punto di vista eziopatogenetico. Questi studi hanno essenzialmente perseguito due strategie diverse ma complementari, ossia la definizione di endofenotipi autistici e lo studio della genetica. Da un lato, si è cercato di identificare degli “endofenotipi”, ossia tratti quantitativi di natura morfologica, elettrofisiologica, biochimica, immunologica, neuroradiologica, e così via, dotati di (a) familiarità, (b) ereditabilità, (c) associazione con la patologia complessa di interesse (Gottesman e Gould, 2003). Alcuni tra i più comuni esempi di endofenotipi presenti in sottogruppi di pazienti autistici sono la macrocefalia/macrosomia (Sacco et al., 2007), la presenza di piccoli dismorfismi o
GLI AUTISMI
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malformazioni (Tripi et al., 2008), elevati livelli plasmatici di serotonina (Piven et al., 1991), bassi livelli plasmatici di ossitocina o di melatonina (Melke et al., 2008), un’anormale escrezione di soluti urinari (Reichelt et al., 1981; Sacco et al., 2010), alterati parametri immunitari (Serasella et al., 2009). Dall’altro, è noto come l’autismo representi il disturbo psichiatrico più “genetico”, cioè quello con le più alte stime di ereditabilità (>90%), e con un rischio di ricorrenza tra fratelli e sorelle di bambini autistici pari al 5-6% per il disturbo autistico ed al 15% circa per tratti dello spettro autistico, cioè superiore di ben 10-30 volte rispetto all’incidenza del 2-6:1.000 nati registrata nella popolazione generale (per review sulla genetica dell’autismo, vedi Persico e Bourgeron, 2006; Abrahams e Geschwind, 2008). Studi di linkage e di associazione hanno identificato numerosi geni di suscettibilità posti in varie regioni cromosomiche, specialmente 2q, 7q, 15q e sul cromosoma X. Anche la presenza di tratti di spettro in molti familiari di primo grado suggerisce l’esistenza di un importante componente genetica nel DSA (Piven et al., 1997; Wheelwright et al., 2010). 3. Autismi sindromici “classici” Nel 10% circa dei casi, il DSA fa parte di una sindrome più ampia dovuta a cause note, quali mutazioni genetiche, espansioni di triplette, o anomalie citogenetiche visibili mediante cariotipo. Le sindromi più spesso associate ad autismo comprendono la sindrome dell’X fragile, la sclerosi tuberosa, la neurofibromatosi tipo 1 e la sindrome di Smith-Lemli-Opitz, tra molte altre (per review vedi Zafeiriou et al., 2007; Benvenuto et al., 2009). Sebbene ogni sindrome presenti segni e sintomi propri, l’autismo in questi quadri clinici generalmente si accompagna a dismorfismi, malformazioni, micro- o macro-somia/cefalia, ritardo mentale e/o sintomi neurologici quali epilessia ed ipotonia. Si deve comunque sottolineare la grande variabilità interindividuale dell’espressione clinica di queste anomalie genetiche o genomiche. L’influenza del background genetico sull’espressione clinica di una stessa identica mutazione o riarrangiamento cromosomico rappresenterà una costante anche nella descrizione dei quadri clinici dovuti ad anomalie genetiche/genomiche di più recente scoperta, oppure ad agenti ambientali (par. 4-7). 4. Autismi mitocondriali Gli autismi dovuti a mutazioni o anomalie genomiche del DNA mitocondriale presentano un grado ancora maggiore di eterogeneità clinica, dipendente oltre che dal background genetico anche dal grado di eteroplasmia, ossia dalla percentuale di mitocondri portatori della mutazione che differisce da paziente a paziente. Ciò nonostante, queste forme spesso mostrano alcuni aspetti peculiari (per review vedi Palmieri e Persico, 2010): segni e sintomi neurologici, quali anomalie oculomotorie, disartria, ptosi palpebrale, sordità, ipertonia muscolare e disturbi del movimento; una regressione cognitiva, oltre che autistica, concomitante ad un episodio febbrile; una
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storia familiare generalmente positiva per patologie mitocondriali sul versante materno. Almeno uno tra i diversi parametri biochimici tipicamente alterati nelle malattie mitocondriali mostrerà una patologica deviazione dalla norma (elevati livelli ematici di lattato, piruvato e/o alanina; anormali livelli urinari di acidi organici; aumentato rapporto lattato/piruvato nei fibroblasti). L’incidenza di microcefalia o macrocefalia è piuttosto elevata ed anomalie neuroanatomiche documentate neuroradiologicamente sono anch’esse frequenti, sebbene di natura assai variegata. Le ‘ragged red fibres’, ossia fibre rosse “stracciate”, caratterizzate da una proliferazione segmentaria di mitocondri anormali sotto la membrana del sarcolemma, sono spesso visibili nelle biopsie muscolari degli adulti, molto più di rado nei bambini. Purtroppo, nonostante accurate indagini molecolari, in circa il 50% degli adulti e nel 90% dei bambini affetti da patologie mitocondriali documentate a livello biochimico e/o istologico non si arriva alla identificazione della mutazione genetica o del riarrangiamento genomico all’origine del disturbo (Di Donato e Zeviani, 2004). 5. Autismi dovuti a piccoli riarrangiamenti cromosomici (Copy Number Variants) Il recente avvento delle tecnologie di analisi genomica basate sui microarray ha enormemente aumentato la capacità di identificare delezioni e duplicazioni. Le “copy number variants” (CNV) sono microdelezioni e microduplicazioni di almeno 1000 paia di basi, ma abitualmente di dimensione tra 1 kb e 2 Mb. Non sono evidenziabili tramite le abituali tecniche di cariotipizzazione, mentre sono invece rilevabili mediante tecniche quali l’array-Comparative Genome Hybridization (CGH), oppure microarray per polimorfismi a singolo nucleotide (SNP), che rispettivamente utilizzano come sonde dei Bacterial Artificial Chromosomes (BAC) oppure degli oligonucleotidi ordinati in un microarray. Queste metodiche stimano il numero di alleli sulla base dell’intensità del segnale proveniente da ogni singola sonda. La presenza di una delezione può inoltre essere suggerita dalla presenza di una serie di SNP in omozigosi. È importante notare che l’affidabilità dei microarray è maggiore per le delezioni rispetto alle duplicazioni, perché l’intensità del segnale proveniente da un allele è inferiore del 50% rispetto a quella prodotta da 2 alleli, mentre 2 alleli sono inferiori solo del 33.3% rispetto a 3 alleli. Inoltre microdelezioni e microduplicazioni potenzialmente patogene devono essere confermate mediante una seconda tecnica (abitualmente la PCR quantitativa). Il ruolo dei CNVs nell’autismo è stato oggetto di vari recenti articoli di review (Merikangas et al., 2009; Weiss, 2009). In generale, gli studi iniziali suggerivano l’esistenza di un’associazione tra autismo e CNV, presenti in media nel 6%-10% dei pazienti contro l’1%-3% dei controlli; questo dato veniva interpretato come derivante da una patologica instabilità genomica. In realtà studi successivi non hanno confermato un eccesso quantitatitvo di CNV, mentre appare più importante la localizzazione dei CNV, che nell’autismo colpiscono più spesso regioni geniche codificanti, quindi funzionalmente attive: alcuni tra i geni colpiti sono coinvolti in fenomeni
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critici per il neurosviluppo, quali la sinaptogenesi, la proliferazione cellulare, l’ubiquitinazione, il segnale mediato da GTPasi/Ras (Merikangas et al., 2009; Weiss, 2009). Rivedremo molti di questi loci nella disamina degli autismi monogenici di più recente identificazione (par. 6). Talvolta risulta difficile definire se in un paziente autistico un CNV rappresenti la vera causa di malattia, un fattore di rischio, oppure un fenomeno casuale e non correlato alla patologia. A causa di questa difficoltà nel distinguere CNV patogenetici da CNV benigni, un pannello di esperti ha recentemente emesso un “consensus statement” nel quale si forniscono alcune linee guida, sottolineando soprattutto la maggiore sicurezza nel definire patogenetici i CNV de novo, ossia presenti nel bambino affetto ma assenti in ambedue i genitori (Miller et al., 2010). La maggior parte dei CNV patogenetici si ritrova in un singolo paziente, sia per dimensione, sia per localizzazione cromosomica. Sono state tuttavia descritte alcune sindromi da CNV ricorrenti, ossia microduplicazioni e microdelezioni identiche o quantomeno molto simili presenti in vari pazienti (Merikangas et al., 2009; Weiss, 2009). I CNV patogenetici spesso (ma assolutamente non in tutti i casi) si associano a malformazioni, dismorfismi facciali, sintomi neurologici, autismo oppure semplici tratti di spettro, se non addirittura disturbi comportamentali al di fuori dello spettro autistico, spesso presenti nei fratelli e sorelle che condividono lo stesso CNV con un individuo autistico. 6. Nuovi autismi sindromici di natura monogenica Negli ultimi anni sono state scoperte varie forme monogeniche di autismo, dovute a mutazioni o ad anomalie citogenetiche ognuna presente in un numero molto piccolo di pazienti (per review vedi Lintas e Persico, 2009). Alcuni hanno pertanto proposto che gli autismi non siano altro che una raccolta di sindromi rare, ognuna dovuta a mutazioni o CNV altrettanto rari se non addirittura “privati”, cioè specifici di ogni singolo paziente (Buxbaum, 2009). Tuttavia è importante notare che queste mutazioni o riarrangiamenti cromosomici non sono sempre de novo, bensì sono più spesso ereditati da uno dei genitori e presenti anche in altri familiari non affetti, dato questo che sottolinea ancora una volta l’importanza del background genetico nel determinare la penetranza e il grado di espressività della mutazione stessa. Le caratteristiche cliniche e neurobiologiche più salienti di questi nuovi autismi monogenici sono riassunte nella review di Lintas e Persico (2009). In breve, seguendo un ordine basato sul ruolo funzionale fisiologicamente svolto dal gene mutato, possiamo distinguere forme monogeniche che colpiscono (a) geni sinaptici, (b) geni che regolano la struttura della cromatina, (c) geni che regolano il ciclo cellulare, la crescita e la morfogenesi, e (d) geni connessi con il calcio. (a) I geni “sinaptici” (le neurolighine NLGN3, NLGN4, e NLGN4Y, in Xq13, Xq22.33, e Yq11.2; SHANK3 in 22q13.3; NRXN1 in 2p16.3) codificano proteine sinaptiche implicate nella genesi, maturazione, stabilizzazione e funzionamento delle sinapsi (Betancur et al., 2009). Il fenotipo clinico dei pazienti portatori di mutazioni
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è molto eterogeneo e privo di dismorfismi o altri tratti che possano indirizzare il clinico a richiedere analisi genetiche specifiche, eccetto forse per il possibile legame tra SHANK3 e l’assenza o un grave disturbo del linguaggio (Lintas e Persico, 2009). L’esordio di malattia può essere lento ed insidioso, oppure anche improvviso ed addirittura regressivo (dimostrando come una “regressione” non sia affatto necessariamente dovuta all’esposizione ad agenti ambientali dannosi in concomitanza con la regressione stessa). (b) La scoperta che in circa l’80% dei casi le pazienti con sindrome di Rett sono portatrici di mutazioni de novo del gene che codifica la methyl-CpG-binding protein 2 (MECP2), ha attirato l’attenzione della comunità scientifica sull’importanza dell’epigenetica nei DPS (per review vedi Chahrour e Zoghbi, 2007). Mutazioni de novo del gene MECP2, posto nel cromosoma Xq28, oltre a causare forme classiche di sindrome di Rett, possono anche produrre quadri praticamente asintomatici, ritardo mentale lieve, varianti verbali della sindrome di Rett, nonché disturbi dello spettro autistico da ricercarsi nelle femmine, perché nei maschi, che hanno una sola copia del cromosoma X, le mutazioni di MECP2 sono generalmente letali oppure causano ritardo mentale profondo (Chahrour e Zoghbi, 2007). Specialmente durante i primi anni di vita, le bambine autistiche portatrici di mutazioni de novo di MECP2 non mostrano nessun sintomo tipico della sindrome di Rett, quale epilessia, microcefalia, stereotipie, problemi respiratori; anche la regressione è spesso assente (Carney et al., 2003). Segni e sintomi più tipici della sindrome di Rett possono invece comparire ad un’età più avanzata (Young et al., 2008). È pertanto raccomandabile ricercare mutazioni di MECP2 nelle bambine autistiche e strutturare programmi di follow-up che permettano di seguire l’evoluzione del quadro clinico nel tempo. (c) Tra i geni coinvolti nella crescita corporea e nella morfogenesi, quelli coinvolti in forme monogeniche di autismo includono il gene homeobox A1 (HOXA1), il gene Phosphatease and Tensin homologue (PTEN), ed il gene che codifica lo Eukaryotic Translation Initiation Factor 4E (EIF4E). Il gene HOXA1 (ch 7p15.3) è coivolto in rari casi portatori di mutazioni recessive e quindi provenienti da famiglie consanguinee (Tischfield et al., 2005). Questi soggetti evidenziano un quadro noto come sindrome di Bosley-Salih-Alorainy, comprendente anomalie dei movimenti oculari orizzontali, sordità, ipoventilazione, malformazioni vascolari dell’arteria carotide e di altre grandi arterie, ritardo mentale ed autismo (Bosley et al., 2007). PTEN, un gene “tumor suppressor” localizzato sul cromosoma 10q23, favorisce l’arresto del ciclo cellulare in fase G1 e la susseguente apoptosi cellulare. Insieme ad altri geni tumor suppressor, quali TSC1, TSC2 e NF1, tende a bilanciare la stimolazione esercitata fisiologicamente sulla proliferazione cellulare e sulla crescita corporea dalla disponibilità di sostenza nutritive (zuccheri e proteine), dall’insulina e da citochine proinifiammatorie, attraverso le vie biochimiche di ERK/PI3K/mTOR (Ma e Blenis, 2009). Mutazioni che inattivano questi geni tumor suppressor sono spesso associate a sindromi autistiche. In particolare, mutazioni di PTEN provocano una marcata macrocefalia/macrosomia ed oncogenesi, come avviene nella sindrome di Cowden (Eng, 2003). Inoltre, mutazioni missenso sono state identificate in soggetti con autismo idiopatico e macrocefalia generalmente superiore a 3 deviazioni standard dalla
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media (Butler et al., 2005; Varga et al., 2009). L’identificazione dei portatori di mutazioni nel gene PTEN rappresenta una seria responsabilità per il medico curante, sia per le prospettive terapeutiche aperte dal possibile utilizzo della rapamicina nella terapia di queste forme (Zhou et al., 2009), sia soprattutto perché la predisposizione allo sviluppo di tumori richiede un accurato monitoraggio oncologico durante tutta la vita di questi pazienti (Herman et al., 2007; Schaefer e Mendelson, 2008; Lintas e Persico, 2009; Varga et al., 2009). (d) Il ruolo fondamentale svolto da anomalie del segnale intracellulare mediato dal calcio nell’autismo è sostenuto da varie prove sperimentali (vedi review di Krey e Dolmetsch, 2007). Rare forme di autismo sono dovute a mutazioni che producono un aumento del Ca2+ intracellulare, o aumentando direttamente la conduttanza al Ca2+, oppure prolungando indirettamente i tempi di apertura dei canali per il Ca2+ voltaggio-dipendenti. Nel primo caso, queste mutazioni si trovano in geni che codificano subunità di canali per il Ca2+ voltaggio-dipendenti (CACNA1C, CACNA1F, CACNA1H), mentre nel secondo caso alterano il funzionamento di canali per il potassio o per il sodio (BKCa e SCN2A) (Krey e Dolmetsch, 2007). Di particolare interesse sono le mutazioni del gene CACNA1C che codifica la subunità Cav1.2 dei canali per il Ca2+ voltaggio-dipendenti di tipo L. Queste mutazioni causano un disturbo multisistemico, la sindrome di Timothy, caratterizzata da aritmie letali, dita palmate, cardiopatie congenite, immunodeficienza, ipoglicemia intermittente, autismo e ritardo mentale (Splawski et al., 2004). Allo stesso modo, mutazioni del gene CACNA1F, che codifica la subunità Cav1.4 degli stessi canali, causano una forma incompleta di cecità notturna legata al cromosoma X, spesso accompagnata da autismo, ritardo mentale e/o epilessia ma solo nei casi in cui le mutazioni producono un’aumentata entrata di Ca2+ nelle cellule. Mutazioni che invece causano una diminuita entrata di Ca2+ producono cecità notturna in assenza di disturbi neuropsichiatrici (Hemara-Wahanui et al., 2005; Hope et al., 2005). Un aspetto veramente sorprendente della biologia sottesa a queste forme è che nel sistema nervoso centrale il gene CACNA1F è espresso solamente a livello della ghiandola pineale (Hemara-Wahanui et al., 2005). 7. Autismi di origine ambientale Il termine “ambientale” viene tradizionalmente utilizzato in psichiatria come sinonimo di “relazionale”. In realtà, laddove i rapporti interpersonali specie all’interno del nucleo familiare svolgono un ruolo determinante nel plasmare la neurobiologia dell’individuo ed in molte patologie psichiatriche, soprattutto in quanto induttori di modificazioni epigenetiche permanenti, ciò non vale tanto per l’autismo, i cui determinanti si inscrivono temporalmente ben prima della nascita, ossia durante il I-II trimestre di gravidanza (Bauman e Kemper, 2005; Di Cicco Bloom et al., 2007; Persico e Bourgeron, 2006). Infatti gli eventi teratogenetici che possono causare autismo si verificano tutti in epoca prenatale, come recentemente riassunto da Landrigan (2010), e comprendono: (a) la sindrome fetale da anticonvulsivanti, specie l’acido
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valproico, che interferisce con lo sviluppo fetale a livello epigenetico (Rasalam et al., 2005); (b) il danno mediato da un’interferenza con la circolazione ematica fetale ad opera della talidomide (inibitore dell’angiogenesi) o del misoprostol (derivato metilestere della prostaglandina E1); (c) infezioni virali prenatali (rosolia, citomegalovirus) (Libbey et al., 2005). I casi esclusivamente dovuti all’azione di questi agenti farmacologici o virali sono relativamente rari, ma rappresentano una importante fonte di informazioni sulla tempistica del danno embriologico nella patogenesi dell’autismo. Il periodo critico per la teratogenicità da talidomide è ristretto alla 4°-6° settimana di gestazione, pari alla 6°-8° settimana dall’ultimo ciclo mestruale (Stromland et al., 1994; Miller et al., 2005), mentre per il misoprostol non si ha la stessa precisione ma è noto che la massima sensibilità si ha durante i primi due mesi di gravidanza (Bandim et al., 2003). Nell’insieme lo studio di questi casi sottolinea la maggiore importanza della tempistica precoce rispetto all’esatta natura dell’agente teratogenetico. Ulteriori studi su altri meccanismi eziologici di natura non genetica sono attualmente in corso. Si sta cercando di valutare in particolare l’aumento di rischio conferito dall’esposizione a composti inquinanti chimici quali pesticidi e metalli pesanti (Eskenazi et al., 2008), nonché il possibile ruolo dei virus polioma, nel contesto di una trasmissione verticale del virus stesso mediata al momento del concepimento dai gameti parentali (Lintas et al., 2010; Persico, 2010). 8. Conclusioni Allo stato attuale, solo il 10% circa dei casi può essere inquadrato negli autismi sindromici ed un altro 7-15% può essere spiegato come conseguenza di CNV o mutazioni rare. Il restante 80% dei pazienti rimane nell’alveo dell’autismo “idiopatico” o “primario”, che sappiamo avere una importante base genetica. Alcuni ritengono che quasi tutti i casi di autismo altro non siano se non i portatori di mutazioni o CNV rari, se non addirittura “privati”, e che solo il sequenziamento del genoma del singolo paziente potrà condurci ad una conoscenza approfondita della eziopatogenesi del disturbo nello specifico del singolo paziente (Baxbaum, 2009). Altri studiosi ritengono che anche la coincidenza in un unico individuo di molte varianti genetiche comuni possa causare la malattia direttamente o indirettamente, ad esempio abbassando la soglia di sensibilità ad agenti ambientali patogeni. Esula dagli scopi del presente articolo rivedere i dati relativi alle basi genetiche dell’autismo idiopatico, specialmente in riferimento alle varianti genetiche comuni (il “background genetico”) in grado di conferire vulnerabilità pur non causando direttamente la malattia (per review vedi Persico e Bourgeron, 2006, nonché Abrahams e Geschwind 2008), l’evidenza sperimentale attualmente disponibile chiama maggiormente in causa i geni Reelin (RELN), protooncogene MET, recettore per l’ossitocina (OXTR), contactin-associated protein-like 2 (CNTNAP2), engrailed 2 (EN2), recettore β3 per il GABA (GABRB3), trasportatore della serotonina (SLC6A4) e subunità β3 dell’integrina (ITGB3). In una prospettiva applicativa, per i prossimi anni potrà ancora essere più semplice stimare il rischio di autismo a partire da alcune varianti genetiche comuni
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ben conosciute (per un primo esempio di questo approccio, vedi Carayol et al., 2010), piuttosto che cercare di identificare tutte le molteplici mutazioni rare o CNV in grado di causare la malattia. Comunque la definizione dell’esatta patogenesi dell’autismo nel singolo paziente è destinata a divenire progressivamente più importante, mano a mano che il sequenziamento dell’intero genoma di un individuo entrerà nel corrente uso clinico. Una ulteriore spinta in questa direzione proviene dai risultati sorprendenti che nuovi trattamenti farmacologici mirati stanno evidenziando in modelli animali di sindrome da X fragile, sindrome di Rett ed aploinsufficienza del gene PTEN, persino in topi nei quali il trattamento viene avviato in età adulta (Zhou et al., 2009; Dölen et al., 2007; Tropea et al., 2009). Questi inattesi successi sperimentali dimostrano come una crescente comprensione della patogenesi molecolare degli autismi possa portare alla definizione di interventi farmacologici mirati, in grado di migliorare i sintomi dell’autismo e non solo le comorbidità. Riassunto Questo articolo descrive sinteticamente le diverse forme di autismo dovute ad una causa nota, ossia (a) gli autismi sindromici “classici”, (b) le forme mitocondriali, (c) gli autismi dovuti a piccoli riarrangiamenti cromosomici (Copy Number Variants), (d) gli autismi sindromici di natura monogenica connessi con mutazioni di geni coinvolti nella strutturazione e nel funzionamento delle sinapsi, nella struttura della cromatina, nella regolazione del ciclo cellulare e della morfogenesi, nonché nel signalling intracellulare del calcio, ed infine (e) gli autismi di origine primariamente ambientale, ossia dovuti alla esposizione a farmaci teratogenetici quali acido valproico, misoprostol e talidomide, oppure ad infezioni virali prenatali da rosolia o citomegalovirus. Di ogni forma si descrivono brevemente i segni e sintomi che, quando presenti, dovrebbero evocare un sospetto clinico e spingere a richiedere gli opportuni approfondimenti diagnostici. Si auspica infine un progressivo miglioramento delle nostre conoscenze sulle basi genetiche e biochimiche dell’autismo, visto il recente successo che terapie farmacologiche mirate hanno sortito in diversi modelli animali di autismi sindromici. Parole chiave Autismo – Copy Number Variant – MECP2 – Neuroligine – PTEN.
Ringraziamenti L’Autore ringrazia i pazienti e le famiglie che hanno generosamente partecipato ai progetti di ricerca svolti in questi anni, e gli enti che hanno finanziato il suo lavoro: MIUR (PRIN prot. n. 2006058195 e 2008BACT54_002), Ministero della Salute (RFPS-2007-5-640174), la Fondazione Autism Speaks (Princeton, NJ), e la Fondazione Gaetano e Mafalda Luce (Milano). Sono inoltre grato alla NICHD Brain & Tissue Bank for Developmental Disorders (Baltimore, MD), all’Harvard Brain Tissue Resource Center (Belmont, MA), ad all’Autism Tissue Program (Princeton, NJ), per avermi generosamente fornito i tessuti postmortem oggetto delle nostre ricerche. Ringrazio infine i miei collaboratori, Roberto Sacco, Carla Lintas, Laura Altieri, Federica Lombardi e Valerio Napolioni, per la loro dedizione alla ricerca sull’autismo e Nicoletta Della Vecchia per la videoscrittura della bibliografia di questo testo.
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Indicatori precoci dei disturbi pervasivi dello sviluppo: alcuni contributi di ricerca Early Indicators of Pervasive Developmental Disorders: A Review of Current Research Paola Venuti*, Gianluca Esposito*
Summary Pervasive Developmental Disorders (PDD) are the most heritable neurodevelopmental conditions and they include Autistic Disorder, Asperger Sindrome and Pervasive Developmental Disorders Not Otherwise Specified. PDD have an early onset, with symptoms being required to be present in early childhood in order to meet criteria for the ‘core’ disorder in the DSM-IV-R classification systems. As such, the focus on studying early signs over the past decades has been on pre-clinical signs or indicators that will be present very early in life, certainly in infancy. To this end, a number of novel lines of investigation have been used, including retrospective and prospective studies. In this review we want to investigate the areas that have been highlighted on the international scientific literature as possible markers for an early identification of ASD. In particular, we want to study the development of motor and social competencies. Key Words Pervasive Developmental Disorders – Early indicators – Autism.
Introduzione I disturbi pervasivi dello sviluppo sono uno dei principali disturbi dello sviluppo. Possono essere definiti disturbi del neurosviluppo, con esordio nei primi anni di vita e sono caratterizzati clinicamente da compromissioni qualitative delle interazioni sociali, compromissioni qualitative della comunicazione, repertorio limitato, stereotipato, ripetitivo di interessi e di attività. I disturbi pervasivi comprendono al loro interno differenti disturbi tra cui l’autismo, il disturbo di Asperger e il disturbo pervasivo non altrimenti specificato. Attualmente la ricerca internazionale riconosce che tali patologie sono caratterizzate da gravità e caratteristiche differenti e principalmente riconosce che esistono fenotipi molto diversi di disturbo all’interno dello stesso contesto ampio del disturbo pervasivo. Il coinvolgimento sia di fattori genetici (sia familiari, che sporadici) che ambientali (es. cause perinatali) nel determinare l’insorgenza della patologia conducono ad una variabilità estremamente ampia. Questi * Laboratorio di Osservazione e Diagnosi Funzionale, Dipartimento di Scienze della Cognizione e della Formazione – Università di Trento.
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fattori influenzano e determinano il modo in cui si sviluppa il cervello e proprio per questo le traiettorie di sviluppo che caratterizzano diversi soggetti possono essere molto varie e diverse. Proprio per questo si tende sempre di più a parlare di disturbo dello spettro autistico [ASD dall’inglese Autism Spectrum Desorders] intendendo un disturbo simile che determina un funzionamento alterato del cervello ma che può manifestarsi nei diversi individui con modalità ed intensità diverse (Happè, Roanld e Plomin, 2006; Russel, Ford, Steer, Golding, 2010). Una accurata diagnosi di autismo appare realizzabile non prima dei 2-3 anni di età (Lord, 1995) tuttavia è diffusa la convinzione che tale patologia sia un disordine dello sviluppo di origine prenatale (Bailey, Phillips e Rutter, 1996; Gillberg e Coleman, 1992; Rutter e Schopler, 1987; Volkmar, Stier e Cohen, 1985). La elusività della patologia nei primi stadi della vita spinge a speculare sulla esistenza reale di segni durante questi stadi e soprattutto sul fatto che questi segni siano effettivamente rilevabili. Una diagnosi precoce appare difficile sia perché si hanno poche conoscenze dello sviluppo precoce dei bambini che paleseranno poi la sintomatologia autistica, ma anche perché per fare una diagnosi ci si riferisce a sistemi di classificazione basati (es. DSM-IV TR; American Psychiatric Association [APA], 2000, ICD 10, 1992) sui deficit della “triade comportamentale” (cioè socialità, linguaggio e comportamenti stereotipati). Poiché per una diagnosi si fa riferimento alla “triade comportamentale” tale diagnosi non si farà prima che il bambino non avrà l’età in cui tipicamente dovrebbero essersi sviluppate capacità linguistiche e sociali (ad esempio: l’ iniziativa sociale, l’offrire conforto, l’attenzione condivisa). Una serie di evidenze hanno messo in luce l’ importanza di una diagnosi precoce per mettere a punto il trattamento più efficace ed arginare i deficit sia relazionali che cognitivi. In primo luogo identificare i segni precoci di disturbo dello spettro autistico nasce dall’esigenza di sviluppare e verificare interventi precoci che possano prevenire l’instaurarsi di disturbi secondari dello sviluppo (Dawson, 2008; Mundy, Sullivan e Mastergeorge, 2009). È stato infatti sottolineato come interventi intensivi precoci in setting educativi ottimali producono risposte migliori in bambini diagnosticati entro il secondo anno di età. I miglioramenti riguardano sia il livello di funzionamento globale, sia le performance intellettuali (Rogers, 2009). È per questo motivo che l’attenzione nel campo della ricerca sull’autismo si è spostata sugli indicatori precoci. Lo studio degli indicatori precoci (prima dei 18 mesi di vita) dell’autismo ha considerato inizialmente i precursori dello sviluppo sociale e linguistico, considerata la loro grande importanza nella sintomatologia autistica. In particolare sono stati analizzati la presenza e assenza del gesto dell’indicare e del gioco simbolico come indicatori precoci della capacità di condividere l’attenzione con un altro (Lord, 1995; BaronCohen, 1992). L’assenza di uno sviluppo tipico di alcune funzioni prelinguistiche (l’indicare), il mostrare oggetti, la joint attention, gli scambi affettivi e l’imitazione sono stati valutati come possibili marker dei DSA nei bambini piccoli (Osterling, Dawson e Munson, 2002; Baranek, 1999). Tuttavia non è stato finora possibile verificare la validità predittiva di questi approcci prima dei 18 mesi (Baron-Cohen et al., 1996, Baird et al., 2001).
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Uno dei problemi di fondo che i ricercatori hanno incontrato nello studiare gli indicatori precoci è stato quello del come reperire i materiali di studio. La diagnosi di autismo infatti, come già detto, si fa generalmente intorno ai 3 anni rendendo difficile, se non impossibile, studiare le fasi precedenti. I ricercatori hanno pertanto utilizzato due metodi: nel primo caso hanno utilizzato materiale retrospettivo, nel secondo hanno studiato popolazioni a rischio di insorgenza della patologia autistica. Gli studi su materiale retrospettivo si basano sulla analisi di filmati o dati raccolti prima che il bambino abbia avuto una diagnosi. Questi studi hanno dato la possibilità di esplorare i primi comportamenti del bambino e le loro caratteristiche in un contesto naturalistico, avvalendosi della possibilità di osservare il comportamento del bambino in momenti e contesti diversi; ma sussistono diverse limitazioni, per di più metodologiche, all’uso di tale procedura. Infatti le riprese sono fatte da genitori e da parenti che per lo più riprendono momenti in cui il bambino manifesta i suoi comportamenti migliori, le osservazioni quindi presentano solo un aspetto della routine del bambino, spesso quindi non sono ripresi quei comportamenti più problematici che sono i più interessanti per chi studia i segni precoci dei disturbi dello spettro autistico. Inoltre quando si vogliono utilizzare questi dati per ricerche trasversali si hanno diversi problemi a comparare le osservazioni: differenza di tempi di osservazione, difficoltà ad avere l’età precisa del soggetto etc. In ogni caso dal 1990 diversi ricercatori utilizzano questa metodologia di ricerca, in primo luogo Losche che, confrontando home video di bambini tra i 4 e 42 mesi che avevano avuto la diagnosi di disturbo autistico con quelli di bambini con sviluppo tipico, individuò differenze nello sviluppo sensomotorio, nelle attività di attenzione condivisa e nel gioco simbolico (Losche, 1990). Osterling e Dawson pubblicarono nel 1994 un famoso studio, poi ripreso nel 2000 in cui evidenziarono, studiando da home video la festa del primo compleanno, lo scarso contatto oculare, la mancanza di risposta al suono del loro nome e la mancanza di attenzione condivisa (Werner et al., 2000) presente in bambini con disturbo dello spettro autistico. Baranek (1999, Baranek et al., 2005) con la stessa metodologia conferma la non risposta dei bambini, che saranno poi diagnosticati con disturbo autistico, al loro nome, così come avversione al contatto. Il gruppo italiano di Maestro e Muratori dello Stella Maris ha esaminato lo sviluppo di comportamenti intersoggettivi e di attività di simbolizzazione nei primi due anni. i risultati hanno mostrato come i bambini con disturbo dello spettro autistico hanno diverse anomalie nello sviluppo dell’intesoggettività; inoltre in studi successivi (Maestro et al., 2002; 2005) evidenziano come ci sia poca attenzione allo stimolo sociale da parte dei bambini che più avanti manifesteranno l’autismo; questi soggetti spostano la loro attenzione principalmente verso stimoli non sociali durante la seconda metà del primo anno di vita e questo precoce deficit di attenzione sociale potrebbe per gli autori essere considerato un precursore dei deficit di attenzione condivisa che si manifesteranno nel secondo anno di vita del bambino (Maestro et al., 2006). Anche nel Laboratorio di Osservazione e Diagnostica Funzionale dell’ Università di Trento si è da anni impegnati nello studio dei filmati familiari di bambini a cui dopo i 3 anni è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico confrontandoli con filmati
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di bambini con ritardo mentale e con sviluppo tipico. L’obiettivo è stato lo studio del movimento come uno dei possibili indicatori precoci (Esposito e Venuti, 2008; Esposito et al., 2009; Esposito et al., 2010) e lo studio delle prime forme di espressione del disagio, in particolare del pianto (Esposito e Venuti, 2009; 2010). Questi due temi saranno approfonditi nei prossimi paragrafi. Gli studi prospettici su bambini a rischio sono da alcuni anni utilizzati per lo studio dell’evoluzione dei DSA in un’età precedente la diagnosi. Bambini a rischio sono generalmente considerati i fratelli dei soggetti con DSA, in base a studi che evidenziano come per questo gruppo di soggetti il rischio di avere patologia autistica è di circa il 3% e di avere un disturbo dello spettro autistico è del 7%. (Micali et al. 2004). Una serie di ricerche (eg. Zwaigenbaum et al., 2007) hanno evidenziato come, nell’ambito degli studi prospettici (vs studi retrospettivi), gli studi su popolazioni a rischio possano essere utili per ottenere informazioni accurate e metodologicamente “pulite” sullo sviluppo dei DSA in un’età precedente la diagnosi ed allo stesso tempo sono sostenibili dal punto di vista finanziario. Il primo studio prospettico con popolazione a rischio può essere considerato quello condotto da Baron Cohen (1992) rivolto a testare le capacità discriminative della CHAT (Checklist for Autism in Toddlers) su un gruppo di 41 fratelli di 18 mesi di bambini con diagnosi di autismo o di disturbo dello spettro autistico. La CHAT misura livelli di simbolizzazione attraverso l’uso di semplici giochi (set da thè, bambola, etc) e i comportamenti di attenzione condivisa e di indicazione verso oggetti che interessano; la misura avviene tramite domande a cui rispondono i genitori o i pediatri osservando direttamente i comportamenti. Clinicamente la sensibilità della CHAT è risultata moderata e i risultati non inducono a considerare lo strumento un valido screening (Baird et al., 2000). Studi osservativi su fratelli di bambini con diagnosi di ASD sono stati condotti in varie parti del mondo con la formazione di gruppi molto ampi di ricerca e di messa insieme dei dati ottenuti (Yirmiya e Charman, 2010). Da queste ricerche sono emersi interessanti contributi circa la comprensione dello sviluppo della patologia e delle traiettorie diverse che può assumere in diversi bambini. Si sono focalizzate evidenze circa il non funzionamento dei processi neurali connessi agli stimoli sociali e non che possono essere indicativi dell’endofenotipo neurale dei bambini con ASD (Elsabbagh et al., 2009). È emersa anche l’evidenza di come alcuni fratelli possono manifestare comportamenti problematici, ma non sviluppare la patologia specifica, mettendo in luce la plasticità del cervello umano e la presenza di traiettorie differenti della patologia stessa sulla base della diversa interazione tra fattori genetici e condizioni ambientali (Elsabbagh e Johnson, 2007; Rogers, 2009). Alcuni recenti contributi di ricerca per l’individuazione di indicatori precoci Vogliamo qui presentare alcune ricerche che si sono occupate di indagare i possibili marker predittivi per l’identificazione precoce dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, partendo dall’analisi dell’area motoria e dell’area delle prime interazioni sociali.
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1. Il movimento come indicatore precoce dei disturbi dello spettro autistico La letteratura degli ultimi decenni ha sottolineato l’importanza delle alterazioni del movimento nella sintomatologia dell’autismo; l’attenzione degli autori è stata rivolta: al camminare (Damasio e Maurer, 1978; Vilensky et al., 1981; Hallett et al., 1993; Teitelbaum et al., 1998), alla preparazione del movimento (Mari et al., 2003), alla destrezza motoria (Manjiviona e Prior, 1995), al reach-to-grasp (Mari et al., 2003), ai movimenti oculari (van der Geest et al., 2001). Recentemente si è cominciato a lavorare sul movimento come un possibile indicatore prcoce della patologia (Esposito et al., 2009; 2010) e si sono considerati sia i movimenti preambulatori che ambulatori. Una serie di studi compiuti su campioni di soggetti con DSA su movimenti predeambulatori (Teitelbaum et al., 1998; 2004) hanno utilizzato uno strumento osservativo per l’analisi del movimento chiamato Eskhol Wachman Movement Notation (EWMN) e si sono basati sull’analisi di home video. Gli autori si sono occupati di analizzare le tappe fondamentali dello sviluppo del movimento (giacere, raddrizzarsi, sedersi, camminare a carponi, stare in piedi e camminare) sostenendo che i bambini con DSA non superano adeguatamente tali fasi e mostrano maggiori livelli di asimmetria. Gli autori sottolineano come l’analisi del movimento predeambulatorio, possa essere utile ai fini diagnostici. Nel 2004 gli stessi autori hanno presentato un secondo studio questa volta considerando soggetti con sindrome di Asperger. Questo secondo lavoro spostava il focus su disordini del sistema vestibolare. Gli studi sull’asimmetria posturale nello sviluppo predeambulatorio sono stati replicati, con una metodologia più rigorosa per quanto riguarda il matching da un gruppo di ricercatori italiani (Esposito et al., 2009) che hanno analizzato la simmetria posturale durante il giacere in bambini con DSA, ed in quelli con sviluppo tipico (ST) o con ritardo mentale (RM) tra il 3 ed il 5 mese di età. Nello studio è stata utilizzata come per gli studi dei Teitelbaum, l’osservazione di homevideo retrospettivi, analizzati attraverso la EWMN (Eshkol e Harris, 2001). Gli autori hanno evidenziato come bassi livelli di simmetria posturale, nella posizione di giacere, fossero presenti maggiormente nei soggetti con disturbo dello spettro autistico e come sin dai primi mesi essi, con accurati strumenti osservativi, siano evidenti. Gli autori ritengono che le anomalie motorie possono rivelarsi utili come segnali precursori della patologia. Nello specifico hanno proposto che i differenti livelli di funzionamento motorio rispecchiano differenti percorsi neuronali di accesso alla patologia. In particolare i bassi livelli di funzionamento potrebbero essere collegati ad un anomalia delle cellule di Purkinje nella zona cerebellare, spesso descritta in soggetti con DSA (Esposito et al., 2009). I primi sistematici studi sulla Deambulazione (Damasio e Maurer, 1978; Vilensky, Damasio e Maurer, 1981) hanno sottolineato la deambulazione come movimento generale prioritario da considerare nel quadro dell’assessment motorio generale e mettevano in luce come i soggetti con DSA di età compresa tra i 3 ed i 10 anni mostrassero un pattern deambulatorio simile a quello dei soggetti con morbo di Parkinson (camminano molto lentamente e compiono piccoli passi). Tale similitudine aveva portato questi autori a speculare circa una possibile compromissione del sistema
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dopaminergico in tali soggetti. In uno studio francese del 2005 è stato sottolineato il ruolo centrale dei gangli basali e del sistema dopaminergico (Vernazza-Martin et al., 2005). In particolare, gli autori si sono occupati di analizzare la postura, l’equilibrio ed altri parametri deambulatori in soggetti con DSA utilizzando il sistema ELITE (utilizzando 15 markers) per l’analisi cinematica del passo. I loro risultati sottolineano la compromissione di alcuni dei parametri deambulatori ed enfatizzano il ruolo della pianificazione del movimento nel quadro sintomatologico dei soggetti con ASD. Lo sviluppo del comportamento deambulatorio nei soggeti con disturbo dello spettro autistico è stato condotto da Esposito e Venuti (2004; 2008), che hanno analizzato la capacità deambulatoria in bambini con disturbo dello spettro autistico, ritardo mentale e sviluppo tipico a partire dai 6 mesi fino all’acquisizione della deambulazione autonoma. Gli autori utilizzando la Walking Observation Scale (WOS, Esposito e Venuti, 2004; 2010) hanno evidenziato differenze significative tra i gruppi, mostrando livelli di performances più bassi dei soggetti con DSA rispetto ai gruppi di controllo. Gli stessi autori hanno poi condotto un successivo studio per indagare se i disturbi della deambulazione, fossero stabili e permanenti nei DSA oppure fossero legati ad un ritardo nello sviluppo che si risolve con il passare del tempo. Utilizzando la WOS e la EWMN su filmati di bambini con DSA, ST e RM in tre fasce d’età (3-5anni; 7-8a; >16a) gli autori hanno mostrato delle differenze significative nelle performance motorie dei soggetti con DSA, rispetto ai soggetti con ST e RM. In particolare in tutte e tre le fasce d’età erano emerse delle distribuzioni bimodali nel gruppo di soggetti con DSA. I dati di questa ricerca suggeriscono l’esistenza di un sottogruppo di soggetti con DSA la cui patologia compromette aree che governano il sistema d’integrazione motoria a livello cerebellare. In tale sottogruppo sarebbero evidenti dei disturbi motori nelle diverse fasce d’età. 2. L’espressione del disagio: il pianto Il comportamento sociale del bambino, sin dalle prime fasi, è organizzato secondo schemi geneticamente predeterminati la cui funzione è di inviare segnali differenziati che inducono particolari tipi di risposta nella madre (Acebo e Thoman, 1992). Il pianto compare fin dalla nascita e ha l’effetto di far intervenire la madre per nutrire, proteggere o confortare il bambino. La funzione del pianto è quindi in primo luogo quella di provocare la vicinanza (Bowlby, 1969; D’Alessio, 2001) e di attivare comportamenti responsivi nelle persone che l’ascoltano (Gustafson et al., 2000). Il pianto verso gli otto mesi diviene un segnale sociale, ma è solo dopo i 12 mesi che il pianto diviene un segnale comunicativo efficace e completo, fatto di pause e di un effetto di turnazione. È un pianto che fonda lo sviluppo del linguaggio verbale e che resterà come canale comunicativo prioritario delle emozioni più forti per tutta la vita (Rothganger, 2003). Recentemente è emerso in letteratura anche un interesse per la percezione del pianto utilizzando tecniche di fMRI, in particolare si vogliono identificare le aree che si attivano durante l’ascolto di episodi di pianto. In uno studio di Sander, Frome e Scheich (2007) ad un gruppo di non-genitori veniva chiesto di ascoltare degli episodi di pianto di bambini con sviluppo tipico. In generale l’ascolto di tali stimoli
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produceva attivazioni della Corteccia Uditiva (CU), della Corteccia Cingolata Posteriore (CCP) e dell’Amigdala. Inoltre, pattern di attivazione diversi negli uomini e nelle donne hanno spinto i ricercatori a sottolineare la maggiore predisposizione delle donne a rispondere alle vocalizzazioni pre-verbali di un bambino. Le caratteristiche fisiologiche del pianto, pressoché simili in tutti i bambini, risultano variate in soggetti con anomalie o patologie (Fisichelli e Karelitz, 1963; D’Alessio, 2001; Esposito e Venuti, 2008). Alcune iniziali ricerche condotte attorno agli anni 1960-70 hanno evidenziato che il pianto di bambini con danni neurologici aveva delle caratteristiche particolari. Attraverso analisi spettografiche questi studi hanno messo in luce la correlazione tra danno neurologico e alterazioni della modulazione del pianto. Si potrebbe quindi considerare il pianto come un indicatore precoce di eventuali rischi o danni subiti dal bambino. Il tipo di pianto e la percezione che se ne ricava potrebbero diventare funzionali all’evidenziazione dello stato di rischio neonatale. Pochissime sono le ricerche sul pianto dei soggetti con autismo nonostante tale comportamento assuma un valore molto intenso nelle descrizioni che ne fanno i genitori. Bieberich e Morgan (1998) hanno mostrato come bambini con DSA confrontati con pari età con sindrome di Down mostravano dei deficit nell’espressione emotiva, ma non erano riusciti ad identificare le componenti espressive di tali anomalie. Recentemente l’interesse di alcuni ricercatori (Venuti e Esposito, 2008; Esposito e Venuti, 2009; 2010) si sta rivolgendo ad individuare le caratteristiche del pianto anche in bambini con DSA. In effetti, considerata la stretta connessione tra il pianto ed il funzionamento della zona tronco-encefalica e del sistema libico, aree decisamente compromesse nei soggetti con DSA sarebbe ovvio aspettarsi delle anomalie e irregolarità nel pianto. Lo studio delle caratteristiche strutturali del pianto attraverso l’analisi spettrografia e l’analisi della modulazione dell’onda acustica ha mostrato come ci fossero delle differenze tra i pianti di bambini con DSA e quelli con ST o RM (Esposito e Venuti, 2010). In particolare, nei soggetti con autismo, da un punto di vista morfologico, gli episodi di pianto si caratterizzano per la breve durata, la poca modulazione d’onda nei pianti e la mancanza di picchi regolari (Venuti, Esposito e Giusti, 2004). In una serie di studi (Esposito e Venuti, 2009) condotti su home video di bambini con DSA sono emerse caratteristiche strutturali atipiche del pianto: analizzando il pianto di 30 bambini con ASD, 30 con RM e 30 con ST a 5 e 18 mesi si è evidenziato che la frequenza fondamentale (f0), ossia il picco acustico che si sente quando si ascolta un pianto, decresce nei bambini con sviluppo tipico e con ritardo mentale nel corso del secondo anno di vita, mentre nel pianto dei soggetti con ASD non si evidenzia nessun cambiamento nella frequenza fondamentale. Ciò potrebbe essere la causa di una difficile interpretazione del pianto dei bambini con autismo da parte degli adulti e della attivazione di sentimenti di disagio con possibili risposte parentali inadeguate; infatti in studi che hanno confrontato il pianto di bambini tipici e atipici, i picchi di pianto più alti vengono generalmente percepiti come più negativi e anomali rispetto a picchi più bassi. Abbiamo condotto alcuni studi (Venuti, 2003; Venuti,
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Esposito, 2008; Esposito, Venuti, 2008; 2010) per indagare più approfonditamente come i genitori percepiscono e reagiscono al pianto di soggetti con ASD. A partire da un questionario somministrato a genitori di bambini con ASD (Venuti, 2003) erano state raccolte interessanti osservazioni circa l’attivazione di sentimenti negativi al suono del pianto del proprio figlio con autismo e la difficoltà a percepirne il significato. Una serie successiva di situazioni sperimentali sono state predisposte per verificare la reazione di un campione di genitori e non genitori all’ascolto dei pianti di bambini con sviluppo tipico, di bambini con disturbo dello spettro autistico, e infine di bambini con ritardo mentale. La situazione sperimentale è sempre consistita nell’ascoltare gli episodi di pianto, presentati in maniera randomizzata. Gli stimoli erano presentati al soggetto mediante un computer e con l’ausilio di auricolari. Dopo l’ascolto di ogni episodio di pianto, il soggetto doveva rispondere a una serie differente di domande. Dai risultati è emerso che sia i genitori che i non genitori valutano gli episodi di pianto dei bambini con disturbo dello spettro autistico più simili al pianto di bambini di un’età cronologica inferiore, e che tali episodi sono più difficilmente riconducibili ad una causa specifica. Inoltre nell’ascoltare gli episodi di pianto di bambini con diagnosi di autismo hanno espresso maggiormente vissuti negativi rispetto a quelli dei due gruppi di controllo (Esposito e Venuti, 2008). L’importanza dei risultati ottenuti e le possibili implicazioni per la ricerca di indicatori precoci ha indotto ricerche più approfondite con l’utilizzo anche di tecniche di risonanza magnetica funzionale. L’obiettivo principale della ricerca è stato quello di verificare se l’ascolto di pianti dei bambini con DSA provochi una risposta cerebrale specifica rispetto al pianto dei bambini con sviluppo tipico che spieghi i risultati comportamentali. 21 soggetti adulti neurotipici (12 donne; 11 genitori) sono stati sottoposti ad una sessione fMRI e successivamente ad una valutazione comportamentale. Gli stimoli uditi sono stati 10 pianti di bambini con ASD e 10 pianti di bambini con sviluppo tipico di circa 20 mesi presentati alternativamente e intervallati da un rumore bianco. I risultati evidenziano una maggiore attivazione delle zone del giro temporale superiore e sopramarginale, del giro frontale inferiore e del giro frontale mediano, oltre che una maggiore attivazione dell’insula. La maggiore attivazione di aree che comprendono la corteccia uditiva primaria (giro temporale superiore) e di quelle implicate nell’elaborazione delle informazioni uditive (giro sopramarginale) spingono ad interpretare questi risultati nella direzione dei dati comportamentali: una difficoltà nell’immediata comprensione del significato del pianto conduce ad un maggior lavoro e ad una maggiore attivazione utilizzando anche aree implicate nell’elaborazione fonologica (giro frontale inferiore) e nella discriminazione della voce (giro frontale mediano). Inoltre la maggiore attivazione dell’insula sembra il correlato del maggiore disagio e ansia suscitato da questi pianti (Venuti, Esposito, Rigo, Caria e de Falco, in preparazione). I risultati di questi lavori mettono in luce come la relazione genitore bambino autistico possa essere compromessa fin dalle prime fasi di vita del bambino. Una risposta comportamentale adeguata del caregiver, che soddisfi e sollevi il neonato dai suoi bisogni, è necessaria per un adeguato sviluppo relazionale, così come sottolineato da tutti gli autori che si sono occupati di sviluppo della relazione madre-bambino (Bow-
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lby, 1969; Stern, 1985). Nel bambino autistico, l’alterazione morfologica e strutturale del pianto, ossia della prima forma di comunicazione e contatto, determina la non facile comprensione, guidata da meccanismi neurali geneticamente determinati del genitore, del significato di questo pianto e di conseguenza una alterazione generale della relazione. Si attiva così un circolo vizioso negativo (Venuti, 2003) che compromette tutto il successivo sviluppo relazionale. Conclusioni Gli elementi fondamentali che emergono dalla ricerca sugli indicatori precoci sono molteplici e problematici. È evidente la motivazione a ricercare segni precoci o addirittura “preventivi” per ridurre i danni di questa patologia e per attivare interventi, d’altra parte quasi tutti gli indicatori che sono stati ritrovati prevedono e si adattano a una particolare tipologia di soggetti affetti da disturbo dello spettro autistico, ma non a tutti. Si evidenzia quindi un gruppo molto ampio di indicatori che variano dai deficit nella precoce comunicazione sociale all’emergere dei primi segni di rigidità comportamentale e di insorgenza di interessi ristretti, alle asimmetrie e difficoltà motorie. Tali indicatori, sebbene non tipici di un unico fenotipo autistico, possono essere utilizzati per procedere velocemente verso una segnalazione di rischio di disturbo ed attivare quindi misure osservative e trattamenti educativi precoci. In particolare sembra essere molto importante fornire sin da subito supporto alle famiglie per impedire che alterazioni della relazione genitore-bambino possano condurre all’alterazione di processi sia cognitivi, che linguistici, che non appartengono al nucleo fondamentale della patologia. Riassunto I Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (PDD) sono la condizione neuropsichiatrica maggiormente diagnosticata in età evolutiva. I PDD comprendono il Disturbo Autistico, la Sindrome di Asperger ed i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo Non Altrimenti Specificati. I PDD hanno un esordio spesso precoce, con sintomi che si manifestano nella prima infanzia. Per questo motivo le ricerche recenti hanno posto l’attenzione sui segni precoci della patologia presenti sin dall’infanzia. A tal fine, sono stati utilizzati sia studi retrospettivi che studi prospettici. In questa rassegna si intende descrivere recenti studi apparsi sulla letteratura internazionale e che hanno analizzati i possibili marker predittivi per l’identificazione precoce dei PDD. In particolare verranno descritti gli studi che hanno considerato lo sviluppo motorio e le prime interazioni sociali come possibile biomarker precoce del disturbo. Parole Chiave Disturbi Pervasivi dello Sviluppo – Indicatori precoci – Autismo.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 36-48
Autismo e Disturbo Ossessivo-Compulsivo in adolescenza: verso un sottotipo ossessivo-compulsivoautistico Autism and Obsessive-Compulsive Disorders in adolescence: toward an obsessive- compulsive-autistic subtype Laura Soletti*, Sara Panunzi**, Cristina Colombini**
Summary This study proposes a review of the literature concerning the association between Obsessive-Compulsive Disorder (OCD) and Autism Spectrum Disorders (ASD) in adolescence. Works selected from scientific articles published between 1989 and 2009 are analyzed through a phenomenological and dimensional approach that places the DOC as a trait d’union between different groups of disorders, including the high-functioning autism. The possibility of a common pathogenetic ground appears in terms of neurophysiology, neuroanatomy and genetics, with a limited overlap of symptoms. Several authors agree on considering an obsessivecompulsive autistic atypical subtype, more pronounced in adolescence. This subtype may open news and interesting perspectives in psychotherapeutic and pharmacological fields. Key words Obsessive-Compulsive Disorder – Adolescence – Autism Spectrum Disorders – Obsessive-Compulsive Spectrum Disorders.
Introduzione: il tema Autismo-Ossessività Negli ultimi anni la letteratura internazionale si è molto interessata all’associazione tra il disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) ed i disturbi dello Spettro Autistico (DSA) ad alto funzionamento. L’accostamento autismo-ossessività trova una radice storica già in Kanner che, descrivendo il “desiderio ossessivo di conservare la ripetitività” come uno dei nodi fondamentali dell’autismo, introdusse il fenomeno del sameness, come l’importanza delle routines, la tendenza a restringere l’intenzionalità nella ripetizione azzerandola nelle stereotipie (Kanner, 1943). Rutter dichiarava che i fenomeni ritualistici e compulsivi sono molto comuni nell’autismo. Nei primi anni di vita prendono la forma di rigide routines, ma in adolescenza è frequente il passaggio a sintomi francamente ossessivi, con compulsioni tattili e simili (Rutter, 1985). * Specialista
in Neuropsichiatria infantile. Frequentatore presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Riabilitative dell’Età Evolutiva, Sapienza Università di Roma. ** Medico
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La sintomatologia ossessivo compulsiva in età evolutiva trova definizioni vaghe nella “mitomania infantile” di Dupré, nella “fobia infantile” di Freud, fino al 1908 quando Vidal Perea introdusse, per la prima volta in un manuale di psicopatologia infantile, un capitolo dedicato alle ossessioni (Dupré, 1905; Freud, 1909; Vidal Perea, 1908). Fino ad allora la necessaria coscienza del proprio stato vitale per avere sintomi ossessivo-compulsivi, obbligava gli autori a riferirsi solo ad una popolazione adulta ( Jaspers, 1962). Schneider aveva definito l’ossessione (dal latino obsidere, assediare) come “un contenuto di pensiero accompagnato da un’esperienza ad agire dominante e persistente, senza alcun fondamento o motivo” (Schneider, 1925). Per Rachman e Hodgson l’ossessione è un “pensiero, un’immagine o un impulso, che risulta inaccettabile, indesiderato e che determina resistenza e senso di diffusa tensione” (Rachman e Hodgson, 1980). Gli autori sviluppano la definizione inserendo un concetto di egodistonia. Per il DSM-IV-TR l’ossessione è “un pensiero, un’idea, un’immagine che compare nella mente contro la volontà del soggetto e può dare un senso di sgradevolezza, stupidità o imbarazzo”. Tutte queste definizioni sottolineano come l’ossessione sia un fenomeno mentale, non tangibile e segreto. La compulsione (dal latino compellere, obbligare) è un sintomo espresso sul piano comportamentale in risposta all’ansia generata dall’ossessione. Rachman e collaboratori (2003) la definiscono come un’ azione ripetitiva e stereotipata che risulta generalmente intollerabile e che viene considerata dagli altri come eccessiva ed esagerata. È preceduta da una sensazione soggettiva di tensione e provoca una resistenza soggettiva. Un rituale compulsivo è uno stile di esecuzione di alcune attività. Qui viene sottolineato ancora il carattere soggettivo dell’esperienza, ma anche la funzione di ridurre il livello di tensione. Tale azione facilmente obiettivabile, acquisisce le caratteristiche di necessità o obbligo. Già nel 1959 Jaspers, parlando di coazione (dal latino cogere, costringere), definiva questo fenomeno come una forza che guida l’individuo suo malgrado e costringe la sua volontà nella direzione del rituale ( Jaspers, 1959). Di nuovo viene sottolineato un elemento egodistonico. In un articolo di qualche anno fa, ma sempre attuale, Baron-Cohen si interrogava se fosse corretto utilizzare i termini di ossessione e compulsione riguardo ai sintomi autistici. Da un’attenta analisi della letteratura, articolava di come questi termini fossero sovrapponibili a tre caratteristiche tipiche dell’autismo (Baron-Cohen, 1989): • azioni ripetitive e stereotipate, • necessità di routines con intense reazioni ai cambiamenti, • interesse ripetitivo e bizzarro per alcuni particolari dell’oggetto. L’autore s’interrogava se l’utilizzo di questi termini nei fenomeni autistici fosse corretto o se, al contrario, ne mistificasse la reale natura. Per quanto riguarda il concetto di ossessione, la caratteristica chiave d’essere intangibile e profondamente soggettiva, collide con le attuali conoscenze, ancora incomplete, sull’autismo nel quale si riscontra, peraltro, una disabilità nella percezione, nell’espressione e nella rappresentazione delle emozioni, nonché una difficoltà nella
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consapevolezza di sé ed uno sviluppo limitato e confuso del senso d’identità e di realtà (Levi e D’Ardia, 2006). L’estrema ossessività è fortemente connessa alla clinica dell’autismo, sia in età evolutiva, sia in età adulta e lo spettro dei disturbi ossessivi rappresenta un’area di confine che crea notevoli difficoltà diagnostiche. L’insistenza ossessiva nella ripetitività del disturbo autistico può assumere le forme più diverse a seconda dell’età, dei livelli di intelligenza, dei percorsi di sviluppo e delle storie individuali (Militerni et al., 2002). In molti casi, soprattutto in quelli associati ad importante ritardo, si tratta di comportamenti ripetitivi semplici, rituali ed elementari, in cui si fa sempre più sfumato il confine con quel grado zero dell’intenzionalità, con quella ripetizione quasi meccanica che sono le stereotipie. In altri casi, invece si tratta di creazioni di routines ed interessi, via via più elaborati, talvolta bizzarri e, man mano che il livello cognitivo cresce, persino sofisticati. Il soggetto coltiva con pedanteria una ricerca di ordine e chiusura, un bisogno di prevedibilità, una mancanza di flessibilità, un aspetto di necessità che ne fa dei veri mondi a parte con delle aree ritualistiche e chiuse, perseguite ossessivamente con intolleranza ad ogni ostacolo e anche indifferenza ad ogni aspetto pragmatico. I rituali e le azioni stereotipate, che appartengono ad entrambi i fenomeni psichici, compulsività ed autismo, espressi sul piano comportamentale, sono osservabili e non necessariamente privati. Tuttavia, non è possibile definirne il sentimento di egodistonia, tanto più se si tiene in considerazione il deficit della teoria della mente che nei pazienti autistici determina difficoltà a definire i propri stati mentali, ostacolando il clinico nella valutazione della soggettività dell’esperienza anche in termini di resistenza e insight di malattia. Infatti, l’ossessività e la ripetitività svolgono precocemente una funzione di organizzatore dell’esperienza autistica, un sistema di orientamento nel mondo delle cose e nel mondo interpersonale, in assenza dello sviluppo di altri sistemi (Barale, 2004). Lewis, già nel 1935, aveva inquadrato i sintomi ossessivo-compulsivi da un punto di vista fenomenologico (Lewis, 1935), ma in una prospettiva attuale, lo stesso approccio per l’autismo risulta essere di difficile utilizzo considerato che il metodo d’osservazione predilige un’ottica comportamentale. Sarebbe importante auspicare, nei limiti derivanti da una soggettività scarsamente condivisibile, lo stesso punto di vista per i soggetti che appartengono a quella categoria definita dai sistemi nosografici dimensionali, come disturbi dello spettro autistico. In questo modo ci si potrebbe interrogare sulla possibile co-presenza di ossessioni e compulsioni. Foa (1980) si chiede se nell’autismo le stereotipie svolgano la medesima funzione di riduzione dell’ansia, come le compulsioni nel disturbo ossessivo-compulsivo. Anche questo è un interrogativo di difficile risposta, poiché risulta complesso misurare i livelli d’ansia nei disturbi dello spettro autistico con gli strumenti psicometrici attualmente a disposizione. Analizzando il contenuto delle ossessioni e delle compulsioni nelle due dimensioni psicopatologiche sono state riscontrate delle differenze. La presenza di rituali di lavaggio, idee aggressive, impulsi sessuali, idee e rituali di simmetria e ossessioni somatiche, è di raro riscontro nei soggetti autistici e tende a presentarsi soprattutto
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nei Disturbi Ossessivo-Compulsivi (Mc Dougle et al., 1995; Kobayashi e Murata, 1998; Russel et al., 2005). Al contrario, rituali di ordine, di accumulo di oggetti, collegati al canale percettivo tattile come toccare, battere, picchiettare, strofinare in maniera ripetitiva, sono presenti sia nei DOC, sia nell’autismo (Russel et al., 2005). Tuttavia, la qualità dell’esperienza è significativamente diversa: se da un lato, nei disturbi autistici tali azioni svolgono una funzione altamente percettiva, dall’altro, nei disturbi ossessivo-compulsivi appaiono al servizio di una riduzione dello stato di tensione. Le attività stereotipate e ripetitive nell’autismo possono rappresentare un modo per i bambini autistici di interagire con un ambiente che non sono in grado di comprendere (O’Gorman, 1967; Rimland, 1964). È proprio nell’azione su quest’ambiente sconosciuto e temuto che questi pazienti, attraverso il controllo, lo rendono meno spaventoso. In particolare, vi è un’attenzione soprattutto su alcuni oggetti che questi pazienti ritengono molto più prevedibili e verso i quali, quindi, manifestano una comprensione più diretta. Anche in questo caso l’azione ripetitiva avrebbe la funzione di ridurre lo stato di tensione generale. Tale stato, molto frequente nei disturbi autistici, considerando il deficit della teoria della mente, è da ascrivere ad una diffusa incapacità a prevedere le azioni degli altri, soprattutto in situazioni sociali percepite come imprevedibili; lo stesso stato di tensione tende a ridursi, invece, nell’esecuzioni di azioni prevedibili, quali le azioni stereotipate e ritualistiche. Nei pazienti con disturbi dello spettro autistico gli interessi ristretti ed i comportamenti ripetitivi tendono ad essere consolatori e piacevoli (Mc Dougle, 2000a). Non vi è, peraltro, in questi pazienti, alcun interesse circa le possibili implicazioni sociali dei loro comportamenti e ciò comporta una notevole compromissione funzionale. È altresì vero che in alcuni pazienti con disturbi dello spettro autistico, in particolare, quelli a più alto funzionamento, è possibile considerare la diagnosi in comorbidità con DOC, poiché i comportamenti ripetitivi, com’è di frequente riscontro nel DOC, sono ingaggiati per ridurre il livello d’ansia (Bodfish et al., 2000; Martin et al., 2003; Mc Dougle et al., 2000b). Tali comportamenti sono rappresentati soprattutto da azioni ripetitive, semplici, messe in atto per lunghi periodi di tempo. È deduttivo pensare che un funzionamento cognitivo adeguato svolga un ruolo di spartiacque tra la percezione egodistonica e quella egosintonica del disturbo (Russel et al., 2005), dove ad un livello cognitivo non compromesso corrisponde una maggiore consapevolezza di malattia. Nel 2006 un gruppo multidisciplinare si è riunito per validare l’affidabilità e l’utilità clinica di una nuova scala basandosi sulla Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale – CYBOCS (Scahill et al., 1997), la CYBOCS-PDD, Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale Modified for Pervasive Developmental Disorders (Research Units on Pediatric Psychopharmacology – RUPP, 2006). Con l’utilizzo di questo strumento si prevede di poter misurare i comportamenti stereotipati tipici dei disturbi dello spettro autistico. Una tale valutazione permette un migliore inquadramento diagnostico e la possibilità di impostare più correttamente la terapia a seconda della tipologia dei sintomi, come avviene già nel disturbo ossessivocompulsivo puro (Mc Dougle et al., 2005a).
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Inoltre, durante i lavori preparatori per la pubblicazione del DSM-V, è stata suggerita l’eliminazione del DOC dal gruppo dei disturbi d’ansia, in linea con l’attuale Classificazione Internazionale dei Disturbi Mentali - ICD-10, e l’introduzione in una nuova categoria, intitolata OCRDs - Ossessive Compulsive- Related Disorders, che si potrebbe configurare sia autonomamente, sia all’interno di una più ampia classificazione dei disturbi d’ansia (Hollander et al., 2008; Hollander et al., 2009). Correlati neurobiologici Sebbene molti di questi aspetti interlocutori non siano stati ancora approfonditi dalla ricerca, vi è un vivo interesse a considerare un sottotipo ossessivo-compulsivo autistico, tanto più che le moderne metodologie diagnostico strumentali consentono di studiare, in parte, la possibilità di un terreno patogenetico comune. In una revisione della letteratura sul tema, Gross-Isseroff e collaboratori (2001), ipotizzando un entità diagnostica autistico-compulsiva, ha evidenziato il coinvolgimento delle vie serotoninergiche e delle strutture limbiche, implicate nella genesi dei movimenti stereotipati e ripetitivi sia nel DOC, sia nell’autismo. Da un punto di vista neurobiologico, nell’autismo vi è un aumento dei metaboliti della serotonina, in particolare il 5-HIAA nelle urine e il 5-HT nel sangue (Yuwiler et al., 1992; Warren e Singh, 1996; Herault et al., 1996; Singh, 1997). Elevati livelli serotoninergici sono risultati essere presenti anche nei familiari di questi pazienti (Leboyer et al., 1999). Nel disturbo ossessivo-compulsivo non tutti gli studi concordano su un aumento dell’attività serotoninergica (Insel, 1985; Thoren, 1980). È stato ipotizzato nell’autismo, così come nel disturbo ossessivo-compulsivo, un’iperserotoninemia periferica accompagnata da un’ipoattività centrale del sistema (Gross-Isseroff et al., 2001). Al momento non è ancora chiaro se l’aumento dell’5HT riscontrato sia nell’autismo, sia nel DOC, rappresenti una relazione causale od un semplice epifenomeno. Il neuropeptide, β-endorfina è risultato essere basso rispetto ai campioni di controllo, sia in presenza di autismo, sia in presenza di disturbo ossessivo-compulsivo (Weizman et al., 1988; Gil-Ad et al., 1990). L’ossitocina sembra essere coinvolta in entrambi i disturbi (Insel et al., 1999; Hollander et al., 2003a). Sotto il profilo neurofarmacologico, è stato accertato come alcuni neurolettici, in particolare Risperidone e Aloperidolo, siano efficaci sia nei disturbi dello spettro autistico, sia nei disturbi ossessivo-compulsivi (Mc Dougle et al., 1998a; Nicolson et al., 1998; Epperson et al., 2000; Mc Dougle et al., 2005b). Pazienti che presentano tratti autistici e disturbi ossessivo-compulsivi, sembrano essere i candidati ideali alla terapia in associazione tra SSRI selettivi e neurolettici atipici (Brodkin et al., 1997; Mc Dougle et al., 1997). Inoltre, una considerevole proporzione di soggetti con DOC e DSA mostra un significativo miglioramento della sintomatologia con trattamento psicologico standard (Russel et al., 2009).
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Studi di neuro-immagini su pazienti con DOC mostrano l’interessamento delle seguenti aree: il nucleo caudato (Costa et al., 1995; Lucey et al., 1997), la corteccia orbitofrontale (Mc Guire et al., 1994; Rauch et al., 1997), il giro cingolato (Mc Guire et al., 1994; Rauch et al., 1994), la corteccia temporale (Breiter e Rauch, 1996; Cottraux et al., 1996), il talamo ed il cervelletto (Mc Guire et al., 1994; Costa et al., 1995; Cottraux et al., 1996; Hott Pian et al., 1998). Mentre nell’autismo, sembrerebbero maggiormente coinvolti: il cervelletto e verme cerebellare (Schaefer et al., 1996; Piven et al., 1997; Muller et al., 1999), il giro cingolato anteriore e la corteccia orbitofrontale (Haznedar et al., 1997). Anche da un punto di vista genetico, sono state riscontrate correlazioni tra disturbi dello spettro autistico e DOC, in particolare un polimorfismo nella regione promotrice del gene che codifica per la proteina trasportatrice della serotonina, 5-HT transporter gene (Mc Dougle et al., 1998b; Wassink et al., 2004). In uno studio di Hollander viene evidenziata un’associazione significativa tra pazienti con disturbi dello spettro autistico e familiarità per disturbo ossessivo-compulsivo (Hollander et al., 2003b). Nello specifico, un punteggio alto all’ADI-R per comportamenti ripetitivi e/o rituali ed interessi ristretti è stato significativamente correlato ad un’incidenza notevolmente maggiore di familiarità di primo grado per DOC clinico. Adolescenza e sottotipo ossessivo-autistico atipico? Dai dati della letteratura internazionale, vi è un ampio consenso a considerare possibili sovrapposizioni eziopatogenetiche in termini di neurobiologia, neuroanatomia e genetica. In letteratura emerge la possibilità di ipotizzare un continuum psicopatologico tra disturbo ossessivo compulsivo e quei disturbi che, attualmente, per la loro eterogeneità e per la difficoltà ad essere inquadrati dai sistemi categoriali in uso, vengono generalmente inclusi nell’ampia categoria dei disturbi dello spettro autistico (Hollander, 2005; 2008; 2009; Ruta, 2009; Cath, 2008; Ivarsson, 2008). Alcuni autori sostengono l’esistenza di un sottotipo ossessivo-autistico (Bejerot, 2001, 2007; GrossIsseroff, 2001) . Questa revisione della letteratura non mira a discutere la posizione nosografica, bensì ad esplorare come la dimensione dei sintomi tra questi due disturbi si sovrapponga. Nell’approcciarsi ad un sottotipo ossessivo-autistico, occorre interrogarsi sulla qualità del pensiero, sia ossessivo, sia autistico. Entrambe queste modalità di pensiero sono scarsamente raggiungibili da parte dell’altro. Nei pazienti ossessivi le idee e le pulsioni non sono vissute in maniera conflittuale con i bisogni dell’io e con l’immagine che il soggetto ha di sé, ma sembrano al contrario contribuire alla costruzione di “un rifugio”. Rifugio, nel quale proteggersi dalle richieste esterne e dalle forme di soggettività e intersoggettività con cui si esprime l’alterità. L’adolescenza costituisce già di per sé un elemento generico di “scompenso della vulnerabilità soggiacente”; “l’intero contenitore mentale” di questo momento evolutivo è precario (Barale, 2003).
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Questi pazienti, quando arrivano all’età adolescenziale, si trovano a dover affrontare un compito difficile. La materia del lavoro dell’adolescenza è l’alterità; il fine di questo lavoro, ed il suo contributo alla soggettivazione, è comprenderla, tollerarla, dosarla, integrarla o metterla da parte. L’autoreclusione sia mentale, sia reale che contraddistingue questi pazienti, li allontana sempre più dalla socializzazione e li chiude in “quel mondo in una stanza” (Carratelli e Ardizzone, 2009) che concretamente, metaforicamente e psicologicamente rappresenta l’ambiente in cui questi ragazzi passano la loro adolescenza. Come nell’autismo ad alto funzionamento il pensiero ossessivo finisce per essere autoreferenziale e l’accesso al contenitore sociale delle problematiche adolescenziali risulta impossibile. Di nuovo occorre considerare quanto sia difficile poter definire la qualità del pensiero autistico. Si potrebbe affermare che ci sia qualcosa nell’originaria esperienza di autismo che altera la costituzione di quello sfondo intersoggettivo, evidenza naturale del nostro mondo interumano. La ripetitività e il bisogno di sameness nascono dall’impossibilità a costruirsi una visione naturale del mondo e a sviluppare i diversi passi dell’intelligenza sociale. Queste azioni ripetitive creano un qualche ordine in un mondo altrimenti caotico e rappresentano delle operazioni di sicurezza per il paziente autistico. Temple Grandin raccontava ad Oliver Sacks di sentirsi da sempre, rispetto al mondo degli umani, “un antropologo su Marte”. Su questo pianeta aveva imparato ad orientarsi con grande sforzo, uscendo a poco a poco, con la sua grande intelligenza, da quel groviglio iniziale di sensazioni caotiche, da quelle oscillazioni brusche e continue tra una sensorialità iperbolica ed una sottostimolazione, da quel sentimento confuso di incontrollabilità delle emozioni, delle rabbie, delle paure, delle esperienze del corpo che, come ci descrive, era stata a lungo la sua esperienza autistica (Sacks, 1995). Interrogarsi sulla possibilità di un continuum psicopatologico tra questi due disturbi, comporta valutare in quale misura le compulsioni nei casi gravi di disturbo ossessivo-compulsivo assomiglino alle stereotipie presenti nei disturbi autistici ad alto funzionamento. Forse entrambe sono al servizio di una modalità sensoriale particolare. Si è rilevato come le compulsioni maggiormente presenti nei disturbi dello spettro autistico, siano da riferirsi ad azioni che coinvolgono i sensi, in particolare il tatto (Pernon et al., 2007; Tanidir et al., 2007). D’altra parte nei pazienti autistici l’esperienza percettiva è particolarmente atipica. Considerare un continuum psicopatologico tra queste due dimensioni obbliga “nell’area dell’atipico”. Come affermato nello scritto “La debolezza piena”, la peculiarità dell’esperienza percettiva autistica probabilmente ha un peso importante nell’organizzazione della particolare forma autistica di esistenza (Ballerini et al., 2006). Anche le compulsioni nei disturbi ossessivo-compulsivi gravi, generalmente egosintoniche, possono rappresentare un rèpere sensoriale per rafforzare il senso di Sé. E l’ossessione in sé può prendere la forma dell’“accarezzare un’idea”. In conclusione, il presente lavoro di revisione della letteratura non mette in discussione la correttezza delle categorie nosografiche attualmente in uso, piuttosto si propone di fornire alcuni spunti, aprendo un dibattito sull’opportunità di osservare, in ogni singolo paziente, caratteristiche proprie a dominii psicopatologici da sempre
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considerati distanti. La possibilità di un terreno patogenetico comune, sul quale l’attuale ricerca sta cercando evidenze o smentite, pare poter avere notevoli implicazioni in ambito sia terapeutico, sia farmacologico. Riassunto Nel presente lavoro si propone una revisione della letteratura sull’associazione tra il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) ed i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) in adolescenza. I lavori selezionati da articoli scientifici pubblicati tra il 1989 e il 2009 sono analizzati attraverso un approccio fenomenologico e dimensionale, che pone il DOC come trait d’union tra diverse categorie di disturbi, tra i quali l’autismo ad alto funzionamento. Emerge la possibilità di un terreno patogenetico comune in termini di neurofisiologia, neuroanatomia e genetica, assieme alla parziale sovrapposizione sintomatologica. Diversi autori concordano nel considerare un sottotipo ossessivo-compulsivo autistico atipico che risulta essere più marcato in adolescenza. Tale sottotipo aprirebbe nuove ed interessanti prospettive sia in ambito psicoterapeutico sia farmacologico. Parole chiave Disturbo Ossessivo-Compulsivo – Adolescenza – Spettro autistico – Spettro ossessivo-compulsivo.
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Psicosi giovanili: fattori di rischio, precursori, prodromi e caratteristiche psicopatologiche Risk-factors, precursors, prodromes and psychopatological features in youth psychosis Rocco Pollice*, Valeria Bianchini*, Laura Verni*, Natascia Giordani Paesani*, Rita Roncone*, Massimo Casacchia*, Filippo Pollice**
Summary During the neuro-psycho-development, slight neuromotor, emotional neropsychological, psychic and behavioral anomalies are often present in individuals, who are apparently in good health, and only subsequently will manifest a psychotic disorder. This fact suggests that some aspetcs concerning the aetiopathogenesis and the syntomatology of the disorder do manifest much earlier than the clinical beginning of the disorder itself. Such “vulnerabilities” or “debilities” can influence the evolutionary learning processes and the global adjustment, some years before the beginning of the disorder. Among the risk factors identified as facilitators of the development of the psychotic disorder (being it of an affective or a schizophrenical nature), the most important seem to be the genetic (or family) vulnerability, the obstretic complicantion (pre, peri and post natal), the alterations in neurodevelopment and the low school and cognitive performances. Unfortunately, even today the predictive power of those factors (that is either in qualitative or quantitative terms) is still too small and non specific. In fact, the clinical precursors which have been identified during the development, do not seem to be specific of one syndromic group but appear to be common to various disorders related to no other than the psychotic spectrum (schizophrenic and affective) regardless their presence is heavier in the schizophrenic disorder than in the affective one. It seems useful, however, that research in the next years highligths the identification of endo-esophenotypic markers, more and more specific and sensitive in order to allow an early approach to the treatment of psychosis, improving in this way the prognosis. On the evaluation of a possible early onset psychotic disorder, it is necessary to make an accurate anamnesis in order to first recognize and treat the pathology during its prodromal phase. Key words Psychosis – Schizophrenia – Bipolar Disorder – Developmental precursors – Adolescence and childhood.
* Cattedra
di Clinica Psichiatrica, S.M.I.L.E. (Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per la Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani) – Dipartimento di Scienze della Salute Facoltà di Medicina e Chirurgia – Università degli Studi di L’Aquila. ∗∗ Università “G. D’Annunzio” – Chieti.
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Introduzione I disturbi psicotici sono uno tra i maggiori problemi di salute pubblica. L’esordio di tali disturbi può avvenire in qualsiasi momento nel corso della vita di un individuo, ma la sintomatologia clinica di solito si manifesta caratteristicamente nel corso della prima età adulta e conduce ad una graduale perdita di condivisione, nella quotidianità e nella realtà, con gli altri individui determinando un graduale e progressivo sgretolamento del riconoscimento di sé, della propria identità psicologica, fisica, sessuale, creativa, lavorativa e relazionale. La prognosi di questi disturbi, infatti, è spesso infausta e ad essi è spesso associato un elevato tasso di morbidità e di mortalità insieme ad una serie di conseguenze negative in ambito personale, familiare, socio-lavorativo, con un pesante carico assistenziale sostenuto principalmente dai pazienti e dai loro familiari nonostante le più moderne terapie farmacologiche. Numerosi studi di follow-up hanno evidenziato che la disabilità dovuta al disturbo psicotico si sviluppa fin dai primi anni (Bleuler, 1950; Gourion et al., 2004; Jones et al., 1994; Fallon, 1992). Interferendo su diverse aree del funzionamento psicosociale (Kessler, Davis, Kendler, 1997), alcuni autori ritengono che l’intervento precoce sia in grado di ridurre i successivi livelli di disabilità (McGorry et al., 1997). Da diversi anni in letteratura sono presenti studi epidemiologici che si occupano di rilevare variabili significative nell’ambito del contesto nel quale avviene l’evoluzione di un disturbo, la concatenazione dei possibili meccanismi causali e le interazioni ambiente-individuo. I precursori neuropsico-comportamentali, che precedono i disturbi psicotici a caratteristico esordio in età adulta, suggeriscono che alcuni meccanismi eziopatogenetici intervengano nelle fasi precoci della vita degli individui affetti, e che le diverse sfumature di vulnerabilità e di espressività clinica si possano modificare nel corso del tempo durante il quale evolve lo sviluppo neuro-psico-comportamentale. Negli ultimi dieci anni, la ricerca ha focalizzato l’attenzione sulla possibilità che le radici della Schizofrenia, possano avere un’origine neonatale o addirittura prenatale; è infatti possibile che già a questa età, si apprezzino alcuni segni neuromotori che sono aspecifici ma indicativi di una qualche disfunzione a carico del Sistema Nervoso Centrale (Gourion et al., 2004). Da questa prospettiva, i disturbi psicotici e specie la schizofrenia sembrerebbero essere la conseguenza di una sorta di Encefalopatia Neuroevolutiva (Rodgers et al., 1994). Una maggiore chiarezza sui meccanismi responsabili di tali disturbi è ancora oggi ostacolata dall’assenza di studi di coorte che forniscano informazioni sull’ endo-esofenotipo in età fetale e nelle età successive, e dallo scarso numero di studi prospettici e longitudinali che diano informazioni sul follow-up. Anche il mancato riconoscimento del primo episodio rappresenta, attualmente, un problema importante ed è associato con una prognosi peggiore (Kessler, Davis, Kendler, 1997): la recente letteratura suggerisce che esiste un periodo estremamente variabile, da 1 mese a 20 anni, tra il primo episodio psicotico ed il primo intervento terapeutico (Haas, Gattatt, Sweeney, 1998), definito come DUP (Duration of Untreatment Psychosis). Le ragioni di tale variabilità sono dovute a molteplici fattori (clinici, disomogeneità diagnostiche, culturali, sociali, ecc.) che convergono insieme a determinare un significativo ritardo diagnostico e terapeutico, tra questi secondo McGorry (McGorry, Yung, Phillips, 2001) tre sarebbero i più
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importanti: il riconoscimento della malattia ossia mancanza di insight (Gourion et al., 2004); l’età di esordio ed il sesso, il comportamento deviante degli adolescenti generalmente tollerato dal contesto sociale (Loebel et al., 1992); le difficoltà diagnostiche: si visto che il malessere a livello dell’umore, unitamente alla maggiore visibilità e vistosità della sintomatologia affettiva, porta ad una ricerca di aiuto più precoce rispetto alla schizofrenia (Gourion et al., 2004). Questo ritardo, che si realizza in fasi critiche dello sviluppo per l’adolescente ed il giovane adulto, potrebbe influenzare in modo profondamente negativo la progressione del disturbo, il funzionamento psicosociale, la risposta al trattamento farmacologico e l’incidenza delle ricadute e delle ospedalizzazioni (Rodgers et al.,1994; Johnstone et al., 1996). In questa prospettiva, è auspicabile che lo studio delle fasi che precedono l’esordio della sintomatologia psicotica possano permettere di riconoscere soggetti ad alto rischio per lo sviluppo futuro di un disturbo psicotico su cui intervenire con intenti di prevenzione secondaria. La psicosi all’esordio L’instabilità diagnostica Il termine “psicosi” fu introdotto nel 1845 da von Feuchtersleben con il significato di “malattia mentale o follia” e da allora è stato in uso nella letteratura psichiatrica per indicare le malattie mentali in generale. Attualmente il termine psicosi viene usato in senso più pragmatico e per lo più in forma aggettivata (psicotico) ad indicare la presenza di sintomi tipo deliri, allucinazioni, incoerenza ideativa, catatonia, ecc. (McGorry et al., 1997). Altre sono le caratteristiche che permettono di formulare una diagnosi definitiva: per i disturbi psicotici affettivi, per esempio, sono rappresentate dalla presenza di sintomi legati alla polarità del tono dell’umore mentre per la schizofrenia il DSM richiede la presenza di criteri temporali (sei mesi) (schema criteri schizofrenia DSM), oltre alla presenza di altri sintomi, riconosciuti già da Bleuler in tempi meno recenti, e definiti modernamente, “negativi” (schema in G.B. Cassano, 1994). Inoltre l’ICD-10 riconosce una categoria di “schizofrenia semplice”, che consiste in sintomi negativi e deterioramento progressivo, senza che vi sia in alcun momento presenza di sintomi psicotici positivi. Da queste problematiche nosologiche scaturiscono implicazioni importanti per esempio nel distinguere il momento in cui definire l’inizio, o meglio l’esordio, dei disturbi definiti psicotici. Poiché i nostri sistemi di classificazione attuali si concentrano sulla presenza di psicosi e solo successivamente distinguono le sindromi in differenti disturbi psicotici, l’esordio viene generalmente identificato con la prima comparsa dei sintomi psicotici stessi (Rodgers et al., 1994). Del resto lo stesso Kraepelin (1921) riconosceva l’instabilità diagnostica al momento del primo esordio psicotico ed affermava:“Sono stato costretto a rilevare che in un numero spaventosamente grande di pazienti, i quali al primo episodio sembravano avere sindromi quali la mania, la melancolia, l’insanità, l’amenzia o la follia, le sindromi cambiavano abbastanza rapidamente, evolvendo in una tipica demenza progressiva e, nonostante alcune differenze, diventavano sempre più simili. Ho presto capito che le anormalità agli inizi del disturbo non avevano un’importanza decisiva, se paragonate con il decorso della malattia che conduce allo specifico stato finale del disturbo”. A questa instabilità diagnostica, che come abbiamo visto ha origini lontane, spesso segue un ritardo nella formulazione della diagnosi definitiva ed un ritardo nel trattamento del disturbo stesso. Per questo la recente ricerca internazionale si è concentrata non solo sullo studio degli esordi della sintomatologia psicotica ma anche degli eventi che li precedono. Tra terapia e prevenzione Esiste una correlazione tra DUP (Duration of Untreatment Psychosis) ed il periodo necessario per la remissione della sintomatologia psicotica, così come tra DUP e una maggiore
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presenza di sintomatologia negativa (Kessler, Davis, Kendler, 1997). I pazienti individuati e trattati tempestivamente dopo l’esordio della psicosi hanno avuto una prognosi migliore (McGlashan, 1996; Larsen, McGlashan, Moe, 1996). Comunque è ancora aperta la questione secondo cui la DUP non sia altro che un epifenomeno del funzionamento premorboso. È stato visto come una più lunga DUP sia associata con uno scarso funzionamento lavorativo, sociale e globale nell’anno precedente al ricovero e con la presenza di una sintomatologia negativa all’esordio (Kosky, Hardy, 1992). Gli stessi autori evidenziarono che vi era inoltre una differenza tra i generi, infatti i maschi non solo avevano un funzionamento premorboso peggiore rispetto alle femmine, ma presentavano, anche, un deterioramento più veloce, poco dopo tempo dall’esordio. Gli studi che si occupano di individuare i prodromi ed i precursori dei disturbi mentali dell’età adulta sono gravati da bias: le modalità di studio per lo più retrospettive, e soprattutto non sono riusciti ad identificare segni e sintomi predittivi, falsi positivi e falsi negativi; il rischio di interventi ingiustificati, carenza di una domanda esplicita, potenziale esposizione dei falsi positivi ad un rischio iatrogeno. Rimane l’evidenza che esiste un ritardo concreto nella cura dei pazienti che svilupperanno un disturbo psichiatrico grave e che questo ritardo grava sulla prognosi del disturbo stesso e sul funzionamento socio-lavorativo di questi pazienti. Gli interventi rivolti alla promozione della salute mentale possono essere universali, applicabili all’età adolescenziale ed in particolare al contesto scolastico: insegnare l’empatia; promuovere la capacità di gestire lo stress (strategie di coping), i conflitti, il controllo degli impulsi; promuovere la creatività e la competenza sociale; lottare contro i processi di stigmatizzazione; educare alle emozioni; promuovere l’empowerment individuale e di gruppo. Gli interventi preventivi selettivi riguardano, invece, soggetti ad alto rischio, ma che non presentano ancora segni oggettivi di disagio. Mirano a individuare e ridurre i fattori di rischio; promuovono i fattori protettivi: la strategia della home visitations a favore della diade madrebambino quando esistono concreti fattori di rischio (madri senza partner, disoccupate, con abuso di sostanze, con disturbi mentali e di personalità) che rendono molto concreto il rischio che la prole possa strutturare modelli di attaccamento patologico; programmi prescolari per i bambini dei quartieri poveri; interventi sul drop-out scolastico; interventi sui figli in età evolutiva dei pazienti affetti da patologie psichiatriche. Gli interventi preventivi cosiddetti indicati o specifici sono rivolti a individui che presentano segni minimi, ma identificabili, di disagio o disturbo (per es., quadri prodromici, stati mentali ad alto rischio per lo sviluppo di psicosi). Rientrano in questa classe di interventi le strategie di identificazione e trattamento precoce dei disturbi psicotici; i programmi preventivi nei figli di pazienti depressi; gli interventi sui disturbi della condotta in età evolutiva; la prevenzione del suicidio in età adolescenziale; gli interventi sui disturbi del comportamento alimentare; la prevenzione degli stati di abuso nei confronti dei minori nell’accezione ampia che comprende l’abuso sessuale, il maltrattamento, la patologia delle cure primarie (deprivazione, “ipercura”). L’intervento pertanto dovrebbe essere rivolto sia ai soggetti nella fase prodromica della malattia che ai soggetti al primo episodio. A questo proposito la letteratura concentra la sua attenzione sui disturbi psicotici sia dello spettro schizofrenico che affettivo (Rodgers et al., 1994).
Le fasi dello sviluppo della patologia psicotica La maggior parte della psicosi tendono ad insorgere per la prima volta durante l’adolescenza o la prima età adulta. L’età mediana di insorgenza risulta essere per entrambe, schizofrenia e disturbo bipolare dell’umore, di circa 19 anni (Hafner et al., 1993), mentre per i maschi sembra lievemente più precoce (Foerster et al., 1991). Dall’esperienza clinica abbiamo imparato, però, ormai da tempi remoti, che il momento dell’esordio è solo l’ultimo evento di una sequela tanto lunga quanto a noi, per molti versi, ancora ignota di cambiamenti nella persona che presenta una sintomato-
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logia psicotica. Per esempio nelle persone che svilupperanno un disturbo schizofrenico, la piena espressione della patologia è preceduta da lievi deficit del funzionamento, secondo molti autori ( Jones, Bebbington, Forester, 1993), nonché da anomale caratteristiche personologiche (Done, Sacker, Crow, 1994). Questo sembra essere più specifico per la schizofrenia che per le altre psicosi (Dalkin et al., 1994), in accordo con le teorie sul neurosviluppo di Weinberger (1987), che propose la possibilità di una vulnerabilità neurologica nella popolazione a rischio di schizofrenia. In conformità con questa teoria il deficit funzionale che precede la piena espressione del disturbo potrebbe essere considerato come la prima parziale espressione del medesimo disturbo. I principali ostacoli allo studio delle fasi prepsicotiche della patologia psicotica sono determinati dal lungo periodo di latenza che va dalla nascita allo sviluppo dei sintomi psicotici evidenti e la loro relativa bassa incidenza nella popolazione generale (McGorry et al., 1993). A parte i pochi studi di follow-up effettuati sulle popolazioni ad alto rischio (ossia con un parente di primo grado affetto da un disturbo psicotico), gli studi che abbiamo a disposizione sono quelli retrospettivi, con tutti i limiti di cui essi sono gravati. Negli ultimi anni si è giunti nella letteratura internazionale a considerare che il quadro clinico della malattia psicotica, nel suo decorso temporale, può avere configurazioni molto diverse ma può essere descritto, generalmente, sulla base di cinque periodi o fasi successive: il periodo premorboso, il periodo prodromico, l’esordio, il periodo di stato e il periodo degli esiti. I criteri per diagnosticare un disturbo psicotico richiedono un’accurata datazione dell’inizio del disturbo e la distinzione dei sintomi prodromici da quelli dell’episodio psicotico acuto. Queste esigenze diagnostiche implicano che la datazione clinica delle fasi critiche dell’evoluzione del disturbo psicotico siano attuabili, affidabili e valide, ma tutt’ora non esistono criteri precisi, universalmente condivisi, per definire l’inizio di un periodo e la fine di un altro (Keshavan, Schooler, 1992). Anche nella letteratura scientifica, per molto tempo, i diversi studi utilizzavano definizioni differenti di esordio e di prodromo portando a risultati non confrontabili gli uni con gli altri. Negli ultimi anni, nonostante tutto, sembra che i diversi autori siano giunti a delle definizioni molto più omogenee di esordio e di prodromo. Per esordio intendiamo indicare, solitamente, la prima apparizione, nella storia del paziente, della sintomatologia positiva (Resanen et al., 2000). Mentre, per prodromo, generalmente, si intende il periodo compreso tra la comparsa dei primi segni di patologia e l’esordio del primo sintomo francamente psicotico. Ossia la prima deviazione, riconoscibile, dell’esperienza di un soggetto. Tutto il periodo che precede il prodromo è definito come premorboso. Il passaggio dalla fase premorbosa a quella prodromica, o dalla fase prodromica al primo episodio di malattia, avviene nel corso di settimane o mesi. Mentre il peggioramento o la comparsa di un sintomo possono non essere definiti nel tempo con certezza, come è evidente dalla Figura 1: la fase premorbosa sfuma durante i primi sintomi psichiatrici – i prodromi – che a loro volta sfumano nell’esordio del primo episodio di psicosi. Solitamente è possibile stimare la data di esordio dei sintomi in maniera affidabile nell’arco di mesi (Figura 1). Il periodo premorboso si riferisce al periodo che precede l’esordio dei sintomi prodromici o psicotici. In questa fase, i soggetti che successivamente svilupperanno un disturbo psicotico, per definizione, non sono distinguibili in maniera evidente dai
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loro coetanei. Tuttavia, anche in questo caso, studi retrospettivi hanno identificato numerose caratteristiche premorbose che potrebbero rappresentare le manifestazioni cliniche di una vulnerabilità biologica alla successiva manifestazione di una psicosi. Figura 1. Evoluzione dei disturbi psicotici.
La fase prodromica Il termine “prodromo” deriva dal termine greco prodromos che significa precursore di un evento. Nella clinica medica, un prodromo si riferisce ai sintomi ed ai segni precoci di una malattia che precedono le manifestazioni caratteristiche della forma acuta e completamente sviluppata (Hafner et al., 1992). Considerando le diverse definizioni di prodromo psicotico che sono state date, nel corso degli ultimi decenni, dai diversi autori (Tabella 1) si può concludere che la fase prodromica dei disturbi psicotici possa essere considerata come un periodo di “disturbo prepsicotico”, ossia un periodo di deviazione dall’esperienza precedente e dal comportamento della persona, in cui ancora non compare una sintomatologia che permetta di soddisfare i criteri per la diagnosi di un disturbo conclamato. Infatti Hafner e colleghi (1992) distinguono l’esordio della “malattia” dall’esordio dell’ “episodio”, definendo l’esordio della malattia come il primo (non specifico) segno del disturbo mentale e l’esordio dell’episodio come il primo sintomo di primo ordine (segno specifico), nel caso della schizofrenia, o il primo momento in cui vengono soddisfatti i criteri operazionali del sistema diagnostico (Gourion et al., 2004; Hafner et al.,1994; Keith, Matthew, 1991). Il prodromo è definito come il periodo di tempo che intercorre dal primo cambiamento in una persona fino allo sviluppo dei primi sintomi franchi del disturbo psicotico. A partire da questa definizione non è facile stabilire l’inizio della fase prodromica e bisogna affidarsi ai ricordi dei pazienti e dei loro familiari per ricostruire quello che è il processo psicotico (Figura 2), poiché, come nella clinica medica, il prodromo è un concetto retrospettivo, diagnosticato solo dopo lo sviluppo dei sintomi e dei segni definitivi. Gli elementi da tenere presente nella descrizione dei sintomi prodromici sono il grado di deviazione dalla norma, la frequenza dell’esperienza ed il tempo durante il quale è stata presente (Yung, McGorry, 1993). È da notare, infatti, che qualunque sintomo prodromico può essere esperito come una caratteristica premorbosa. In soggetti che riferiscono un determinato sintomo come una caratteristica presente da molto tempo, solo in caso di evidente peggioramento del sintomo esso dovrebbe essere considerato come prodromico. Inoltre, i soggetti possono riferire un aumento di intensità e durata dei sintomi prodromici, che possono in alcuni casi raggiungere il livello di intensità dei sintomi psicotici. La durata della fase prodromica varia da pochi giorni a diversi anni, ma in media è di 24-36 mesi (Perkins et al.,
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2000; McGorry et al., 1993). Il riconoscimento del prodromo psicotico è di fondamentale importanza per la diagnosi ed il trattamento precoce dei disturbi psicotici, per l’ identificazione della ricaduta, per futuri studi sugli individui ad alto rischio; inoltre il ritardo nel trattamento del primo episodio è un problema importante ed è associato con una prognosi peggiore. È stato infatti dimostrato che un lungo periodo di malattia non curata (DUP) necessita di un periodo maggiore per la remissione dei sintomi e comporta periodi di remissione più brevi (Davidson et al., 1999). Le metodologie impiegate nel passato per studiare la fase prodromica dei disturbi psicotici includono: la ricostruzione dettagliata e retrospettiva attraverso i colloqui con i familiari e con il paziente circa i cambiamenti avvenuti nella personalità del paziente, dalla comparsa dei primi sintomi prodromici fino alla psicosi franca ( Johnstone et al., 1996); interviste dei pazienti nelle fasi iniziali della psicosi: solo in questa fase i pazienti possono descrivere i sintomi e le esperienze come li hanno realmente vissuti considerato il recente esordio del disturbo, tuttavia, essendo già evidenti le alterazioni cognitive, la loro attendibilità deve essere ben valutata; osservazioni approfondite di un piccolo numero di pazienti durante lo sviluppo della psicosi: questo metodo presenta il vantaggio di essere prospettico permettendo l’osservazione e la registrazione dei cambiamenti nell’individuo mentre accadono. Tabella 1. Definizioni di Prodromo nel corso degli ultimi decenni. Keith e Matthews (1991)
“un gruppo eterogeneo di comportamenti in relazione temporale con l’inizio di una psicosi”
Loebel et al. (1992)
“un intervallo di tempo compreso tra la comparsa di un comportamento insolito e l’inizio dei sintomi psicotici”
Beiser et al. (1993)
“un periodo di tempo compreso tra i primi sintomi evidenziabili ed i primi sintomi psicotici prominenti”
Figura 2. Sequenza ipotetica dei possibili cambiamenti che si possono riscontrare durante la fase prodromica: sull’asse delle Y è rappresentata la severità dei sintomi o dei cambiamenti nel funzionamento ipotetico di un paziente che ha sviluppato una psicosi. Le frecce indicano i punti di cambiamento riferiti dal paziente stesso e dai suoi familiari. 1= per la prima volta il paziente nota qualche cambiamento, 2= i familiari o gli amici per la prima volta notano un cambiamento nel paziente, 3= il paziente nota la comparsa di sintomi psicotici, 4= i familiari o amici notano sintomi psicotici nel paziente, 5= primo intervento psichiatrico. (Modificata da Yung e McGorry, 1996.
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Caratteristiche della fase prodromica nello spettro schizofrenico Nella maggioranza dei casi l’esordio della psicosi franca, nei disturbi dello spettro schizofrenico, è preceduto da un periodo caratterizzato da una sintomatologia definita come prodromica. Circa l’80-90% dei pazienti con schizofrenia riferisce una varietà di sintomi che hanno preceduto l’esordio della patologia conclamata e che comprendono cambiamenti riguardanti percezione, credenze, sfera cognitiva, umore, affettività e comportamento (Tabella 2), mentre circa il 10-20% dei pazienti sviluppa sintomi psicotici improvvisamente, senza una significativa fase prodromica (Yung et al., 1996). Inoltre vi è una grande variabilità tra i pazienti rispetto alle manifestazioni sintomatiche: i sintomi prodromici possono manifestarsi gradualmente, o in maniera relativamente improvvisa, i soggetti possono riferire che i sintomi prodromici inizialmente compaiono raramente, ma nel tempo diventano più frequenti. McGorry in uno studio del 1995 (McGorry et al., 1995), prendendo in considerazione quelli che il DSM III annoverava tra i sintomi prodromici, somministrò un questionario, contenente domande relative a tali sintomi, ad una popolazione di 2.525 studenti di scuola superiore. I risultati evidenziavano una prevalenza altissima di sintomi prodromici così come alta risultava la presenza di una vera e propria sindrome prodromica (dal 10-15% al 50%) secondo i criteri del DSM III. Questo risultato sottolineò soprattutto l’aspecificità della sintomatologia definita come prodromica, lontana dal predire il futuro sviluppo di un Disturbo Schizofrenico. Uno dei più importanti e costanti sintomi prodromici è rappresentato dal ritiro e dall’isolamento sociale. Il ritiro ha in genere un andamento progressivo ed ingravescente; inizialmente infatti coinvolge aree specifiche (ad es. la scuola o il lavoro) per poi estendersi a tutta la rete relazionale del soggetto. Una seconda manifestazione è la riduzione delle capacità di svolgere un comportamento finalizzato. Ciò si manifesta attraverso una diminuzione del rendimento scolastico o lavorativo. Talvolta tali alterazioni comportamentali si accompagnano alla comparsa di nuovi interessi, con caratteristiche di stranezza e di bizzarria rispetto al periodo precedente. A questo sono spesso associati modificazioni del pensiero che, pur non assumendo ancora la connotazione di alterazioni formali vere e proprie, si allontanano dagli schemi di funzionamento precedente (Subotnik et al., 1998). Tutti questi sintomi sono, per tutta la durata della fase prodromica, associati ad una notevole quota di ansia che inizia con la comparsa del cambiamento descritto e che tende ad aumentare con la progressione verso lo scompenso psicotico. Anche una scarsa performance scolastica è stata considerata come segno premorboso di schizofrenia fin dai tempi di Bleuler. In uno studio di coorte effettuato in Finlandia, gli adolescenti che erano in una classe inferiore rispetto a quella attesa per la loro età, avevano una probabilità tre volte maggiore di sviluppare una schizofrenia rispetto ai loro coetanei che Tabella 2. Aspetti prodromici nel primo episodio di psicosi più comunemente descritti negli studi sul primo episodio. (Modificata da McGorry, 1999). ASPETTI PRODROMICI Riduzione della concentrazione e dell’attenzione Riduzione dell’iniziativa e della motivazione, mancanza di energia Depressione dell’umore Disturbi del sonno Ansia Ritiro sociale Sospettosità Deterioramento del funzionamento di ruolo Irritabilità
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frequentavano una classe adeguata per la loro età. Individui destinati allo sviluppo della schizofrenia tendono a giocare da soli, hanno problemi nel linguaggio e nell’educazione, ed hanno difficoltà nel mantenere relazioni personali intime (Malla, Norman, 1994). L’identificazione di questi sintomi ha dato fiducia alla possibilità di avere fattori predittivi per il successivo sviluppo di una psicosi in bambini e adolescenti sani (Murray et al., 2003). Conrad (1958) riportò che virtualmente tutti i pazienti vivono una fase prodromica e che la durata di questa è assai variabile. La durata media del prodromo nella schizofrenia era di 52,7 settimane. Loebel et al. (1992) hanno trovato che l’intervallo di tempo dall’inizio dei sintomi prodromici all’inizio dei sintomi psicotici dura in media 98,5 settimane. Questo intervallo di tempo non era significativamente differente per la schizofrenia e per gli episodi schizoaffettivi. Secondo McGorry e colleghi (1995) la durata del prodromo nel disturbo schizofrenico è in media di 2 anni. Per quello che riguarda invece i prodomi della ricaduta, è stato visto che questi hanno una durata media compresa tra 2 e 4 settimane. Caratteristiche della fase prodromica nello spettro affettivo Contrariamente alla quantità di letteratura sui prodromi nella schizofrenia, poco è stato scritto circa le caratteristiche prodromiche delle psicosi affettive e non ci sono studi specifici che esaminano i prodromi nei pazienti al primo episodio di disturbo affettivo. L’episodio maniacale solitamente ha un inizio acuto, in altre parole, con un prodromo di breve durata. Già Kraepelin (1919), a tale proposito, scriveva: “l’inizio della malattia è sempre improvviso; nella maggior parte dei casi emicranie, stanchezza, mancanza di piacere nel lavoro o un grande affaccendamento, irritabilità, insonnia, precedono di alcuni giorni o settimane le manifestazioni più violente”, contrapponendo l’esordio di questo disturbo a quello più insidioso della demenza praecox (schizofrenia). Winokur (1973) studiò in modo retrospettivo le modalità di esordio dei disturbi affettivi riscontrando che gli episodi maniacali avevano più frequentemente un inizio acuto (più breve di 1 mese) rispetto agli episodi depressivi (Subotnik et al., 1997). Altri autori, invece, evidenziarono che la durata media dei prodromi sia nell’episodio maniacale che in quello depressivo era variabile nei diversi pazienti. Al contrario, studi precedenti (Altman et al.,1992; Jackson, Cavangh, Scott, 2003) avevano riscontrato che il prodromo dell’episodio maniacale era addirittura significativamente più lungo del prodromo dell’episodio depressivo. Per questi stessi autori i sintomi prodromici più frequenti erano per l’episodio depressivo umore depresso, mancanza di energia e difficoltà di concentrazione, per quello maniacale, ovviamente, umore elevato, aumento dell’attività e ridotta necessità di dormire. Molnar et al. (2002) studiarono i sintomi e le caratteristiche prodromiche dei primi episodi bipolari, sia maniacali che depressivi. Chiesero a 20 soggetti con diagnosi di disturbo bipolare di descrivere ciascuno dei loro episodi. L’iperattività, l’umore elevato, la diminuita esigenza di sonno, l’accelerazione ideica, la logorrea, l’aumento dell’autostima, la distraibilità e l’irritabilità erano i sintomi frequentemente segnalati come antecedenti rispetto ad un episodio maniacale. L’umore sottoslivellato, la perdita di energia e di interesse nelle cose, la difficoltà di concentrazione, la riduzione del sonno ed i pensieri patologici erano i sintomi più frequentemente riferiti prima di un episodio depressivo. Diversamente dagli studi precedenti, fu osservato che i prodromi maniacali erano considerevolmente più lunghi dei prodromi depressivi (in media, rispettivamente, 20,50 giorni e 10,96 giorni). Comunque, in questo studio, i pazienti avevano una durata media di malattia maggiore di 14 anni, quindi i pazienti dovevano ricordare eventi accaduti anche da molto tempo; la maggior parte dei dati ottenuti in questo studio si riferiscono alle caratteristiche prodromiche della ricaduta piuttosto che del primo episodio. Jackson et al. (2003), più recentemente, hanno effettuato un’attenta ed ampia revisione della letteratura sulla durata e sui sintomi delle fasi prodromiche degli episodi depressivi e maniacali. I cambiamenti del tono dell’umore e dell’attività psicomotoria, un aumento dell’ansia, i disturbi del sonno, i cambiamenti dell’appetito e la comparsa di pensieri di morte costituivano i sintomi prodromici più frequenti degli episodi depressivi. I disturbi del sonno rappresentavano i maggiori indicatori prodromici di un episodio maniacale, seguiti
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dalla comparsa di sintomi francamente psicotici, labilità del tono dell’umore, cambiamenti dell’attività psicomotoria e dell’appetito e da un aumento dell’ansia. La durata del prodromo depressivo era, in media, di 11-19 giorni, mentre quella del prodromo maniacale era di 2129 giorni (Tabella 3). Recentemente in soggetti con Disturbo Bipolare, può essere presente anche prima dell’esordio del disturbo, rappresentando una vera e propria caratteristica prodromica. In conclusione, la ricerca sui prodromi clinici del Disturbo Bipolare appare ancora vaga e ricca di difficoltà. La prima difficoltà è la distinzione dei sintomi precoci della malattia dalle patologie in comorbidità ed una definizione più precisa dell’età di esordio del Disturbo Bipolare. I pazienti, inoltre, possono presentare nella fase prodromica caratteristiche comuni con altre patologie come la schizofrenia. Per poter chiarire alcuni di questi aspetti sono necessarie ulteriori ricerche sui prodromi iniziali. Tabella 3. Sintomi prodromici identificati nel Disturbo Bipolare. (Adattata da Jackson et al., 2003).
Depressione bipolare
Mania
Sintomi precoci
Range dell’ampiezza del campione
% di individui con sintomi precoci
Mediana (%)
Cambiamenti dell’umore
20-40
10-88
48
Sintomi psicomotori
20-40
10-86
41
Aumento dell’ansia
20-40
18-59
36
Cambiamenti dell’appetito
20-40
10-53
36
Idee/Intenti suicidari
20
29-64
29
Disturbi del sonno
20-40
17-57
24
Altro
20
14-29
22
Disturbi del sonno
20-206
53-90
77
Sintomi psicotici
20-206
7-80
47
Cambiamenti dell’umore
20-206
14-100
43
Sintomi psicomotori
20-206
10-100
34
Aumento dell’ansia
20-40
11-20
16
Cambiamenti dell’appetito
20-206
12-67
20
Altro
20
20-35
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La fase premorbosa Le caratteristiche premorbose o precursori si riferiscono alla presenza di lievi anomalie che precedono di alcuni anni l’espressione clinica della patologia, ovvero “segni e sintomi di un determinato gruppo diagnostico che precedono il disturbo, ma non predicono l’esordio” (Cannon et al., 1997). I precursori di un disturbo sono descritti sin dall’infanzia, sono relativamente stabili per gravità, sono cronici e precedono quelli che abbiamo definito, in precedenza, come sintomi e segni prodromici. Le caratteristiche cliniche descritte più frequentemente nella fase premorbosa dei Disturbi Psicotici includono: scadente funzionamento sociale premorboso (ad esempio, pochi amici, timidezza, scarse competenze sociali); profitto scolastico scadente,
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problemi comportamentali a scuola, QI basso (rispetto al previsto), disturbi dell’attenzione, deficit della coordinazione motoria, pensieri strani, sintomi negativi. Queste evidenze sono soprattutto riferite ai soggetti che hanno in seguito sviluppato un disturbo dello spettro schizofrenico. Il funzionamento premorboso dei pazienti affetti da psicosi affettive, invece, sono stati, anche in questo caso, meno studiati (Rabinowitz et al., 2000; Weinberger, 1995). La fase premorbosa nei disturbi dello spettro schizofrenico Numerosi studi sono concordi nell’affermare che la maggior parte dei pazienti con schizofrenia presenta evidenti anomalie comportamentali premorbose molto prima dell’esordio clinico della patologia (Amminger et al., 1999). Le ricerche sui precursori comportamentali nell’infanzia di questi pazienti hanno rilevato un aumento dei disturbi dell’adattamento e segni di disfunzione cognitiva e motoria. I disturbi più frequentemente riscontrati sono il ritiro sociale, l’ansia e l’aggressività. Sulla base di queste evidenze molti ricercatori hanno formulato l’ipotesi che la gran parte, se non addirittura tutti, i Disturbi Psicotici siano la conseguenza di un’alterazione morfofunzionale intervenuta nel periodo precoce di sviluppo del SNC. In circa il 25% dei casi le osservazioni sui soggetti ad alto rischio di ammalare di schizofrenia hanno dimostrato che si trattava di soggetti tendenzialmente chiusi ed isolati con tratti spesso pseudo-depressivi. A scuola apparivano poco motivati, scarsamente coinvolti nei giochi e poco tolleranti alle frustrazioni (Keshavan et al., 2005). Gli studi di prima generazione confermavano il rischio genetico legato al Disturbo Schizofrenico per lo sviluppo del medesimo disturbo o di un Disturbo di Personalità del Cluter A, evidenziando alcune caratteristiche premorbose nei giovani ad alto rischio riassunte in Tabella 4. Gli studi di seconda generaTabella 4. Studi di “prima generazione” del rischio di schizofrenia all’esordio. (Modificata da Keshavan et al., 2005).
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zione tengono in considerazione che la Schizofrenia è un disturbo del neurosviluppo della seconda e terza decade di vita, pertanto l’esordio della malattia può essere preceduto da una progressiva perdita del controllo neuroregulatorio, probabilmente associato alla distruzione del programma del normale neurosviluppo, con processi neuroregressivi nella tarda infanzia ed in adolescenza (Lewis, Levitt, 2002) (Tabella 5). Carter et al. (2002) esaminarono 25 variabili premorbose (tra le quali rischio genetico, modalità del parto, funzioni cognitive, funzioni automatiche, personalità e comportamento scolastico) in 212 soggetti ad alto rischio per lo sviluppo di Schizofrenia; dopo 25 anni di follow-up, 33 di questi avevano ricevuto diagnosi di Schizofrenia, ed individuarono che tra tutte le variabili ciò che prediceva il disturbo era l’interazione tra rischio genetico ed il comportamento sociale dirompente a scuola. Malmberg et al. (Malmberg et al., 1998) in uno studio prospettico che prevedeva l’osservazione di un ampio campione (50.054), tutti di sesso maschile, dall’età di 18 anni per 15 anni, rilevarono che 4 erano le variabili premorbose associate allo sviluppo in età adulta di Schizofrenia: avere meno di 2 amici intimi, preferire socializzare in piccoli gruppi, sentirsi più sensibile degli altri e non avere relazioni sentimentali. Alcuni autori hanno confrontato il funzionamento premorboso dei pazienti con disturbo schizofrenico con quello dei pazienti affetti da una psicosi affettiva, verificando che i primi presentavano deficit più evidenti rispetto ai secondi (Van Os et al., 1995). Qualunque sia l’eziopatogenesi della schizofrenia è ormai evidente sia dagli studi retrospettivi che da quelli prospettici (Keshavan, 1999) che già da bambini, le persone che svilupperanno un disturbo dello spettro schizofrenico, si ritrovano relativamente isolati, insicure di se stesse e con limitate opportunità di interazione sociale. Questo li può predisporre alla schizofrenia, limitando le opportunità per un esame corretto della realtà e favorendo uno stile paranoideo di pensiero. Alcuni autori suggeriscono che gli individui “destinati” a sviluppare un disturbo schizofrenico non sono in grado di apprendere nuove abilità cognitive nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, evidenziando un peggioramento se comparati con il gruppo di pari (Gureje et al.,1994). Del resto fare amicizia durante l’infanzia costituisce un processo complesso che dipende dall’abilità di entrare in reciproca interazione con altre persone e tollerare una certa quota di disaccordo. Questo processo potrebbe dipendere da diverse variabili, come per esempio la precoce esperienza di una buona relazione con i genitori o con altre figure chiave. Molti fattori potrebbero interferire con questo processo incluso un alterato Tabella 5. Evidenze comportamentali nei giovani parenti dei pazienti schizofrenici ottenute dagli studi sull’alto rischio di “seconda generazione”. (Adattata da Keshavan et al., 2005). Dominio
Evidenze
Clinico
Alta percentuale di disturbi in Asse I, in particolare ADHD e Disturbi della Condotta; Alta percentuale di Schizotipia
Neurocognitivo
Compromissione di attenzione, memoria di lavoro spaziale e funzioni esecutive; Punteggi maggiori alla Neurological Evaluation Scale (NES)
Struttura cerebrale
Riduzione volumetrica di amigdala, ippocampo e circonvoluzione temporale superiore; Riduzione della sostanza grigia prefrontale nei soggetti ad alto rischio di Schizotipia
Funzione cerebrale
Riduzione dell’attivazione prefrontale alla fRMN durante compiti relativi alle funzioni esecutive
Chimica cerebrale
Riduzione dei livelli di N-Acetil-Aspartato/Colina
Elettrofisiologia
Riduzione delle onde lente del sonno; Alterazione della risposta oculomotrice ritardata
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sviluppo cerebrale per cause genetiche o per complicanze ostetriche, patologie dell’infanzia o l’isolamento sociale, contribuendo ad una “Cascata autoalimentante di funzionamento anormale” che potrebbe costituire un bias per lo studio dei fattori premorbosi della Schizofrenia. Un possibile meccanismo psicologico alla base di questa dimensione potrebbe essere una cattiva “teoria della mente”, che consiste nella capacità di inferire con gli stati mentali altrui. Questo deficit potrebbe aumentare il rischio di sviluppare alcune caratteristiche psicopatologiche della schizofrenia, come l’evitamento sociale o i disturbi del pensiero (Carter et al., 2002). Una scarsa performance scolastica è stata considerata come segno premorboso di schizofrenia fin dai tempi di Bleuler (1950), insieme a molti altri fattori correlati alla scolarità come le ripetizioni degli anni scolastici, le difficoltà a terminare il corso di studio, le difficoltà sociali e comportamentali. La schizofrenia determina un globale deterioramento delle funzioni cognitive di entità variabile. Studi di coorte e di popolazione hanno dimostrato che individui affetti da schizofrenia avevano un quoziente d’intelligenza premorboso più basso rispetto alla popolazione generale (David et al., 1997). Il quoziente d’intelligenza inferiore alla media rappresenta, attualmente, ancora il più importante fattore di rischio per lo sviluppo di una schizofrenia in età adulta (Malmberg et al., 1998). La fase premorbosa nei disturbi dello spettro affettivo A differenza della numerosa letteratura presente sugli antecedenti psico-comportamentali della schizofrenia, il funzionamento premorboso dei soggetti che svilupperanno un disturbo affettivo è stato meno studiato. Goodwin e Jamison (1990) affermarono che molti soggetti che svilupperanno un Disturbo Bipolare hanno problemi comportamentali ed affettivi molto prima di un episodio di malattia chiaramente identificabile. Inoltre riportarono che “sebbene sia difficile distinguere questi precursori da una normale irascibilità, è importante il loro riconoscimento perché c’è ragione di credere che un trattamento precoce ed aggressivo possa diminuire una futura morbidità”. Cannon et al. (2002), in uno studio retrospettivo controllato, evidenziarono che i soggetti con Disturbo bipolare presentavano un peggiore funzionamento psicosociale premorboso rispetto ad un gruppo di controllo costituito da soggetti sani e che tale deterioramento era relativo soprattutto al funzionamento sociale e relazionale mentre il funzionamento scolastico appariva conservato. Cambiamenti episodici del tono dell’umore (depressione ed irritabilità) e discontrollo dei livelli di attività e di rabbia, sono stati riportati da alcuni autori così come la presenza di deficit dell’attenzione e di un comportamento antisociale (Thompson et al., 2003). Nell’ambito dei Disturbi Bipolari i precursori clinici della fase premorbosa non sembrano predire l’esordio del disturbo in maniera indiscriminata. Carlson e Weintraub (1993), in uno studio controllato tra bambini ad elevato rischio per un Disturbo Bipolare, bambini ad elevato rischio per altri disturbi psichiatrici e bambini senza rischio per disturbi psichiatrici, hanno messo in evidenza che le anomalie comportamentali (comportamento antisociale ed aggressivo-distruttivo) ed i deficit dell’attenzione sono più frequenti nel gruppo ad alto rischio per Disturbo Bipolare e nel gruppo ad alto rischio per disturbi psichiatrici rispetto al gruppo di controllo. Tuttavia, solamente nel gruppo ad alto rischio per il Disturbo Bipolare i problemi comportamentali ed attentivi apparivano correlati allo sviluppo di un Disturbo Bipolare in età adulta, mentre negli altri due gruppi l’importanza dei problemi durante l’infanzia non era limitata esclusivamente allo sviluppo di un disturbo affettivo. Gli studi effettuati su popolazioni ad alto rischio per lo sviluppo del disturbo hanno evidenziato che i soggetti con due genitori affetti da disturbi dell’umore (Disturbo Bipolare in un genitore, Disturbo Bipolare o Depressione unipolare nell’altro) avevano elevati livelli di irritabilità, depressione, maggiore sensibilità di reazione, e scarsa modulazione dell’umore rispetto ai soggetti con un solo familiare affetto (Fuller et al., 2002). I figli di genitori affetti da Disturbo Bipolare, inoltre, mostrano iperattività, scarsa capacità di effettuare un compito e scarsa flessibilità e capacità di adattamento. Queste caratteristiche appaiono simili al costrutto temperamentale della disinibizione comportamentale che appare correlato allo sviluppo di un disturbo del comportamento impulsivo/iperattivo o disattento. La presenza di anomalie
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psico-comportamentali durante l’infanzia e l’adolescenza sembra avere un impatto sul decorso clinico del Disturbo Bipolare. Numerose evidenze, infatti, suggeriscono che la presenza di anomalie del neurosviluppo e di uno scarso funzionamento psicosociale premorboso sia correlata con un’età di esordio precoce del Disturbo Bipolare, con lo sviluppo di una comorbidità con abuso di sostanze, con aumento del rischio di tentativi di suicidio e con lo sviluppo di un Disturbo Bipolare a cicli rapidi (Egeland et al., 2000). Il funzionamento premorboso Nella lettura scientifica esistono forti evidenze sull’esistenza di precursori comportamentali che precedono di molto tempo l’esordio dei sintomi psicotici acuti nella schizofrenia (Keshavan et al., 2005) e nelle psicosi affettive. Uno degli indici dei precursori di malattia più frequentemente utilizzati è il funzionamento premorboso. L’associazione tra fattori premorbosi e variabili cliniche, sia all’esordio che più tardi nel corso della malattia, è stata riportata da numerosi studi. Kraepelin fu il primo a descrivere le caratteristiche di personalità durante l’infanzia dei pazienti affetti da “Dementia praecox”, sottolineando che questi erano bambini silenziosi, timidi, con difficoltà a fare amicizia e vivevano “solo per se stessi” (Kraepelin, 1919). Anche Bleuler (1950) descrisse la mancanza di interessi di questi bambini. A partire dal 1941 con Wittman (1941) iniziarono ad essere creati strumenti psicometrici specificatamente studiati per la valutazione del funzionamento premorboso. Diversi studi hanno tentato di individuare un valore predittivo del funzionamento premorboso rispetto ad alcune variabili fenomenologiche e neurobiologiche. Questa letteratura suggerisce che uno scarso funzionamento premorboso predice un esordio più precoce, la preponderanza di una sintomatologia negativa o comunque più grave, con manifestazioni cognitive più severe all’esordio (Goldberg e Ernst, 2004), un decorso clinico cronico e più grave della malattia, e la presenza dei “neurological soft signs”, indici aspecifici di un danno cerebrale, a supporto dell’ipotesi neuroevolutiva della patologia psicotica. Altri autori, invece, ad una storia premorbosa hanno associato un’età di esordio più avanzata, un più tardivo utilizzo di antipsicotici e una più tardiva prima ospedalizzazione. I pazienti con una sindrome deficitaria sono caratterizzati da un funzionamento premorboso più povero, mentre pazienti con un tipo di schizofrenia paranoide hanno un migliore funzionamento premorboso se confrontati con i pazienti con schizofrenia non paranoide. In più se è presente un peggioramento del livello di funzionamento premorboso nel passaggio dall’infanzia all’età adulta questo è associato ad una sintomatologia negativa o uno stato deficitario così come una lunga durata di psicosi non trattata. Comunque, questo cambiamento nel comportamento e nel funzionamento – è stato suggerito – possa essere dovuto alla fase prodromica della patologia, ossia la fase immediatamente precedente l’esordio del primo episodio psicotico (Rabinowitz et al., 2000).
Conclusioni Da diversi anni la letteratura sui disturbi dello spettro psicotico ha evidenziato che la maggior parte delle persone affette da schizofrenia e psicosi “schizophrenia-like” presentano uno scarso funzionamento psicosociale molto prima dell’esordio conclamato della patologia. Nonostante i numerosi studi su tale argomento, la prevalenza, il decorso e le caratteristiche della fase premorbosa e prodromica dei disturbi dello spettro psicotico sono ancora poco conosciuti. Tale ambito di ricerca, tuttavia, è di grande importanza dal momento che attraverso lo studio degli eventi che precedono il primo episodio psicotico potrebbe essere possibile individuare i fattori protettivi o di vulnerabilità allo sviluppo del disturbo e, quindi, programmare interventi mirati di prevenzione secondaria.
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Riassunto Nel corso del neuro-psico-sviluppo, lievi anomalie neuromotorie, emotive, neuropsicologiche, psichiche e comportamentali sono spesso presenti in individui, apparentemente in stato di buona salute, che successivamente manifesteranno un disturbo psicotico; questo dato suggerisce che alcuni aspetti attinenti l’eziopatogenesi e la sintomatologia del disturbo si manifestino molto prima dell’esordio clinico dello stesso. Tali “vulnerabilità” o “debolezze” possono influenzare i processi evolutivi di apprendimento ed il funzionamento globale anni prima dell’esordio del disturbo. Tra i fattori di rischio identificati come facilitatori dello sviluppo di un disturbo psicotico (sia esso affettivo o dello spettro schizofrenico), i più importanti sembrano essere la vulnerabilità genetica (o familiare), le complicanze ostetriche (pre, peri e post natali), le alterazioni del neurosviluppo e i deficit delle performance scolastiche e cognitive. Purtroppo, ad oggi, il potere predittivo di tali variabili (sia in termini qualitativi che quantitativi) è ancora troppo basso ed aspecifico. Infatti, i precursori clinici identificabili nel corso dello sviluppo non sembrano essere specifici di un unico gruppo sindromico ma appaiono essere comuni a diversi disturbi sempre, però, dello spettro psicotico (schizofrenico ed affettivo). Appare utile, tuttavia, che, nei prossimi anni, la ricerca focalizzi l’attenzione sull’identificazione di markers endo-esofenotipici, sempre più specifici e sensibili, allo scopo di consentire un approccio precoce al trattamento delle psicosi per migliorarne la prognosi. È necessario, inoltre, nella valutazione di un possibile disturbo psicotico ad esordio precoce, avvalersi di un’accurata anamnesi allo scopo di poter diagnosticare, e quindi trattare, la patologia durante la sua fase prodromica. Parole chiave Psicosi – Schizofrenia - Disturbo Bipolare - Precursori clinici - Infanzia e adolescenza.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 67-84
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Aprassia oculomotoria congenita: riflessioni cliniche e riabilitative Congenital oculomotor apraxia: clinical and rehabilitation aspects Elisa Fazzi1,3, Jessica Galli1, Ilaria Maraucci2, Sabrina Giovanna Signorini3, Antonella Luparia3, Anna Alessandrini1, Paola Mattei1, Carla Uggetti6, Umberto Balottin3,4, Giulio Ruberto5, Paolo Emilio Bianchi5
Summary Background: congenital ocular motor apraxia (COMA), described in 1952 by Cogan, is characterized by an impairment of voluntary, saccadic eye movements in the horizontal direction and by normal vertical eye movement. Objectives: to describe the clinical features of COMA and to evaluate the relationship between phenotype and physio-pathogenic mechanisms. Methods: 14 COMA children underwent neurological, neuro-ophtalmological and cognitive evaluations. Brain MRI and, in some cases electrophysiological investigations including electroencephalograms and evoked potentials were also performed. Results: we identified, according to clinical and neuroradiological pictures, three groups: A (5 patients, 35%) characterized by defective horizontal saccades and smooth pursuit, hyperfixation, jerk of the head and blinking, normal neurological examination, cognitive level and MRI; B (6 patients, 42%) with failure of horizontal (and in 2 cases also vertical) saccades and smooth pursuit, jerk of the head and blinking, hyperfixation (4/6), mental retardation (1/6), delay of motor development (6/6) and of language (5/6), ataxia (4/6), oral dyspraxia (4/6), others neurological signs (4/6) and a complex midbrain-hindbrain malformation known as the molar tooth sign; C (3 patients, 21%) with an impairment of horizontal (1/3) and also vertical (2/3) saccades and smooth pursuit, jerk of the head and blinking (3/3), hyperfixation (2/3), normal cognitive level, delay of motor and language development (2/3), others neurological signs (1/3) and aspecific MRI (with brain structural abnormalities suggesting perinatal problems). Conclusion: the 1 Unità di Neurologia dello Sviluppo e Neuro-riabilitazione precoce - U.O. Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza - Spedali Civili, Università degli Studi di Brescia. 2 U.O. Neuopsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza – Azienda Ospedaliera Nazionale SS Antonio e Biagio e Cesare Arrigo – Presidio Ospedaliero Infantile Cesare Arrigo, Alessandria. 3 Centro di Neuroftalmologia dell’Età Evolutiva - U.O. Neuropsichiatria Infantile - IRCCS C. Mondino, Università di Pavia. 4 Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università di Pavia. 5 Clinica Oculistica, Università di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo. 6 Unità di Neuroradiologia- Servizio di Radiologia, Ospedale S. Carlo, Milano.
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E. FAZZI - J. GALLI - I. MARAUCCI ET AL.
ocular motor apraxia is an oculomotor disorder extremely heterogeneous not only for its clinical features but also for its aetiology and the identification of belonged group seems to be useful for therapeutic rehabilitation programs. Key words Congenital oculomotor apraxia – Children - Oculomotor disorders.
Introduzione Con il termine di “aprassia”, storicamente, si indica un disturbo dell’azione (prassia), definibile “più in termini negativi che in termini positivi” per cui “è più facile dire ciò che non è, piuttosto che spiegare ciò che è” (Déjerine, 1894). Per descrivere l’aprassia diversi autori (Liepman, 1898; Jackson, 1932; Wilson, 1908; 1955; De Renzi e Faglioni, 1990) si sono basati sul criterio cosiddetto “per esclusione”: l’aprassia viene considerata come un disturbo del movimento volontario (intenzionale, a comando) non attribuibile a paralisi, a disturbi sensitivi o cerebellari o a un deficit intellettivo. La letteratura più recente conferma questa opinione: l’aprassia è un disordine delle funzioni motorie che determina una compromissione nella capacità di portare a termine specifici movimenti appresi, non attribuibile a danni senso-motori (Gross e Grossman, 2008; Heilman et al., 2003). L’impostazione nosografica sopraccitata riguarda lo studio delle aprassie dell’adulto. In età evolutiva la situazione è più complessa: il sistema in via di sviluppo fa sì che accanto al termine aprassia (assenza della funzione da perdita o da mancanza) si affermi quello di disprassia (malfunzionamento, disfunzione). Come spesso accade per i termini applicati in età evolutiva, il prefisso “a” (mancanza di) è sostituito da “dis” (anomalo) quando si tratta di un contesto in via di sviluppo (Steinman, Mostofsky, Denckla, 2010). Bruner (1976) e Sabbadini (1995) puntualizzano la definizione di disprassia in un’ottica “evolutiva”: un bambino disprattico ha acquisito determinate funzioni ma le realizza in modo stereotipato, con strategie povere e con scarse alternative. In passato, il termine disprassia è stato talvolta assimilato alla goffaggine o maldestrezza mentre quello di prassia alla destrezza, scioltezza ed eleganza. Secondo lavori più recenti la parola goffaggine è troppo vaga per essere accettata come sinonimo di disprassia, che deve essere intesa invece come un segno neurologico (con la goffaggine come possibile sintomo associato) limitato a situazioni in cui l’anomala esecuzione di specifici movimenti o gesti non può essere spiegata con la sola compromissione motoria o percettivo-motoria (Steinman, Mostofsky, Denckla, 2010). Alla base delle prassie esiste un network complesso (la cui trattazione estensiva esula dallo scopo del nostro lavoro) che coinvolge specifiche strutture cerebrali: corteccia frontale e parietale, gangli della base e fasci associativi (Gross e Grossman, 2008; Leiguarda e Marsden, 2000). Tale network può essere alterato in diverse sedi e per differenti cause, ciò rende ragione della variabilità del quadro clinico. Esistono, infatti, diversi tipi di aprassia, le forme più comuni sono quella ideomotoria, ideativa e concettuale, orofacciale e cinetica degli arti (Gross e Grossman, 2008). Una forma particolare è l’aprassia oculomotoria che colpisce il distretto oculare.
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Essa è definita come l’incapacità a spostare volontariamente gli occhi verso oggetti d’interesse (Chun e Gatti, 2004). La forma più tipica è l’aprassia oculare congenita di Cogan che è caratterizzata da paralisi di sguardo intenzionale che investe i movimenti orizzontali con risparmio di quelli verticali e dei movimenti “spontanei” (random eye movements), sguardo iperfisso con incapacità ad inibire la fissazione, spasmi di fissazione, scatti compensatori orizzontali del capo ed ammiccamenti e assenza di altri segni neurologici (Cogan, 1952). Lo scatto veloce del capo è interpretato come un compenso di natura vestibolare e serve per mobilizzare ed eccitare i canali semicircolari orizzontali e provocare un movimento lento vestibolare degli occhi verso il lato opposto, a sostituire il movimento di sguardo (Cogan, 1952; Fielder et al. 1986; Rosemberg e Wilson, 1987). Gli ammiccamenti sono presenti nei casi in cui vi è iperfissazione (incapacità a staccare lo sguardo dall’oggetto). La chiusura degli occhi permette di “inibire passivamente” la fissazione e spostare lo sguardo in un’altra direzione. Gli spasmi di fissazione sono deviazioni “spastiche” in alto e da un lato degli occhi che rimangono in quella posizione per qualche secondo e compaiono soprattutto al momento in cui il bambino decide di spostare lo sguardo verso un nuovo target. Nella sindrome di Cogan spesso si apprezza un aumento della latenza dei movimenti saccadici, pur mantenendosi inalterata la velocità: i saccadici seguitano pertanto ad essere movimenti veloci e con accelerazione, ma vi è un ritardo tra la decisione di spostare lo sguardo e la messa in moto, cioè un deficit dello starter. Un’altra frequente caratteristica, osservabile soprattutto nei casi in cui vi è iperfissazione, è la diminuizione dell’ampiezza dei saccadici. In tal caso per mobilizzare lo sguardo e per spostare la fissazione da un oggetto a un altro, il bambino compie più saccadici di ridotta ampiezza prima di centrare esattamente il nuovo target (Sabbadini, 1995). In letteratura sono stati descritti casi sporadici o a trasmissione familiare (Orssaud et al., 2009; Hsu,Yang, Lai, 2002; Phillips, Brodsky, Henry, 2000; Prasad e Nair 1994; Gurer et al., 1995; Borchert et al., 1987; Godel, Nemet, Lazar, 1979; Cogan 1972; Vassella, Lutschg, Mumenthaler, 1972; Robles, 1966). Da un punto di vista classificatorio, Sabbadini propose di distinguere, accanto alla forma Cogan, l’aprassia oculomotoria congenita “tipo Cogan”, più comune. Le forme tipo Cogan prevedono paralisi di sguardo volontaria orizzontale e verticale con conservazione dei random eye movements, iperfissazione, spasmi di fissazione (20% dei casi) e scatti compensatori del capo orizzontali o rotatori ed ammiccamenti (27%) e altri sintomi disprattici e segni neurologici maggiori (diplegia) e minori (50%) (Sabbadini, 1986, 1995). Tali forme sono sottese a lesioni del sistema nervoso centrale da sofferenza pre, peri o post-natale come ipossia, emorragia periventricolare e idrocefalo (Anteby et al., 1997; Ebner et al., 1990; Ro et al., 1989; Hughes et al., 1985; Orssaud et al., 2009) o da malformazioni a carico della fossa cranica posteriore come il segno del dente molare nella sindrome di Joubert (Tusa e Hove, 1999; Orssaud et al. 2009; Sturm et al., 2010).
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Obiettivo del lavoro La rarità delle forme, la confusione terminologica, la frequente associazione con le sindromi malformative complesse e/o con le paralisi cerebrali infantili e le implicazioni sul piano riabilitativo giustificano l’interesse clinico di condurre degli studi su questo argomento. Lo scopo del nostro lavoro è pertanto quello di descrivere i diversi aspetti clinici e strumentali di un campione di soggetti con aprassia oculomotoria congenita e valutare se vi sia o meno una diversa espressività in funzione del quadro neuroradiologico sottostante e quindi dell’eziopatogenesi. Casistica e metodologia La nostra casistica comprende 14 bambini con aprassia oculomotoria congenita (10 maschi e 4 femmine), di età, alla prima valutazione, compresa tra i 7 mesi ed i 14 anni e ½ (età media: 45.4 mesi, ds: 59.5 mesi), afferiti al Centro di Neuroftalmologia dell’Età Evolutiva della Neuropsichiatria Infantile IRCCS C. Mondino di Pavia in un periodo di 15 anni, che va dal 1988 al 2003 e per un follow-up medio di 24 mesi (ds: 28.6, range 0-86.5 mesi). La metodologia di valutazione prevede la raccolta anamnestica, l’esame obiettivo generale e neurologico, la valutazione neuroftalmologica, l’esecuzione di una RM encefalo ed, eventualmente, di altri esami strumentali (EEG, elettroretinogramma e potenziali evocati visivi ed acustici). È prevista, a seconda delle età del paziente, una valutazione del livello di Sviluppo Psicomotorio (Stanford-Binet, Brunet-Lezine, Bayley Scales of Infant Development, Griffiths Mental Developmental Scales) o del Quoziente Intellettivo (Wechsler Preschool Primary Scale of Intelligence-WPPSI-, Wechsler Intelligence Scales for Children-revised-WISC-r-, Raven). Descriviamo di seguito le caratteristiche salienti della valutazione neuroftalmologica (Fazzi et al., 2007) Valutazione visiva funzionale: studio delle competenze visive di base (fissazione ed inseguimento, movimenti saccadici) e delle aree di localizzazione visiva. Valutazione dell’acuità visiva di risoluzione (Teller Acuity Cards). I soggetti esaminati vengono suddivisi in 4 gruppi in base al grado di acuità visiva presentato con la miglior correzione diottrica possibile: – visione normale (acuità visiva maggiore o uguale a 0.8 o maggiore di 26.0 cy/ deg), – ipovisione lieve (acuità visiva compresa tra 0.3 e 0.8 decimi o tra 26.0 e 9.6 cy/ deg), – ipovisione (acuità visiva minore di 0.3 decimi o compresa tra 9.6 e 1.6 cy/ deg), – cecità (acuità visiva minore di 0.05 decimi o inferiore a 1.6 cy/deg o solo percezione luce). Valutazione dei riflessi fisiologici: riflesso Vestibolo-Oculare (VOR) e Nistagmo optocinetico (NOC).
APRASSIA OCULOMOTORIA CONGENITA
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Valutazione di attenzione visiva, attenzione visiva a distanza e fixation shift con e senza competizione. Esame oftalmologico: comprende l’ispezione di occhi e facies, la valutazione dell’eventuale presenza di uno strabismo (Test di Hirschberg per i Riflessi Luminosi Corneali e Cover-test) o microstrabismo (Test 8^/16^ di Paliaga) e di nistagmo, lo studio della motilità oculare estrinseca, della statica e dinamica pupillare, della stereopsi (Lang Stereotest I e II), l’osservazione del segmento anteriore e del fundus oculi e lo studio della refrazione (in cicloplegia). Esami elettrofisiologici: – Potenziali Evocati Visivi (PEV) da Pattern e Flash: eseguiti con montaggio a 5 elettrodi e derivazioni in O1,O2,O3 per evidenziare eventuali asimmetrie emisferiche. La stimolazione pattern viene eseguita a 5 frequenze spaziali (15’,30’, 60’, 120’,300’) con il soggetto posto a 75 cm di distanza dallo schermo richiamandone l’attenzione con piccoli oggetti strutturati e/o sonori. – Elettroretinogramma (ERG): eseguito con elettrodi a filamento corneale (DTL Plus Electrode), effettuando una stimolazione scotopica dopo 20 minuti di adattamento al buio, una stimolazione fotopica e a 30 hz dopo 10 minuti di adattamento alla luce. Risultati I risultati si riferiscono ai dati anamnestici raccolti e a valutazioni cliniche ed evolutive effettuate nel corso del periodo dello studio con un follow-up medio di 24 mesi (ds:28.6, range 0 a 86.5 mesi) Anamnesi familiare: una consanguineità tra i genitori è presente in 2/14 bambini (14%), entrambi con malformazione tipo dente molare: i genitori del primo paziente sono cugini di secondo grado, la madre ha effettuato un’interruzione di gravidanza al sesto mese per riscontro all’ecografia fetale di policistosi renale e malformazione di Dandy-Walker; la malformazione cerebrale del feto abortito ad un esame successivo è risultata simile a quella del fratello in vita. Per il secondo paziente il vincolo di parentela tra il padre e la madre risale ad un antenato comune, vecchio di più di trequattro generazioni. Sono presenti due coppie di fratelli, tutti di sesso maschile, una con RM encefalo normale e l’altra con dente molare. Periodo pre-, peri- e post-natale: in 8/14 bambini (57%) hanno presentato complicanze di varia gravità durante il periodo pre-peri o postatale. In un caso si è verificata una lieve sofferenza respiratoria alla nascita risoltasi rapidamente e senza esiti neurologici e neuroradiologici, quattro soggetti hanno presentato complicazioni di varia gravità durante la gravidanza e/o il parto (nel primo caso minaccia di aborto al IV° mese; nel secondo taglio cesareo all’VIII° mese per gestosi gravidica; nel terzo gravidanza gemellare con perdita spontanea di un feto al II°mese, distress respiratorio alla nascita e convulsioni da ipocalcemia neonatale e nel quarto scarsa crescita intrauterina e taglio cesareo per presentazione podalica). Tre bambini hanno avuto complicazioni e segni neuroradiologici di sofferenza cerebrale (ventricolomegalia alla
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20° sett.), prematurità (35°sett.), ipotonia neonatale transitoria, lievi dismorfie (palato ogivale ed ipogenitalismo) ed emorragia di I-II° bilaterale in un soggetto; cardiopatia congenita cianogena corretta chirurgicamente con conseguente anossia cerebrale in un altro bambino e sofferenza fetale trattata alla nascita con manovre rianimatorie e supplementazione di ossigeno nel terzo bambino. Sviluppo motorio: un ritardo motorio, di grado variabile, è presente in 11/14 pazienti (78%). Un ritardo nell’acquisizione del controllo del capo (controllo del capo> 3 mesi) è presente in 9/14 (64%) soggetti (età media 4,1 mesi, ds 1.9, range 2-7 mesi). Un ritardo nel mantenimento della posizione seduta autonoma (controllo del tronco > 8 mesi) si evidenzia in 5/14 (35%) soggetti (età media 8.5 mesi, ds 2.6, range 6-14 mesi). Un ritardo nell’acquisizione della deambulazione autonoma (≥18 mesi) è presente in 9/13 (69%) bambini deambulanti (età media 22.8 mesi, ds 14.4, range 11-54 mesi). Una bambina valutata l’ultima volta a 12 mesi non ha ancora raggiunto la verticalizzazione e presenta un ritardo negli spostamenti autonomi. Sviluppo del linguaggio: 7/14 bambini (50%) presentano un ritardo dell’acquisizione del linguaggio di grado variabile: lieve (prime parole tra i 18 mesi ed i due anni, prime frasi intorno ai tre anni) in 5 bambini e di maggiore entità (prime parole dopo i 3 anni, prime frasi intorno ai 5-6 anni in entrambi) in 2 bambini. Esame obiettivo neurologico: in tutti i soggetti è presente un certo grado di impaccio motorio che, in tutti i casi in cui è stata possibile un’osservazione nel tempo, è migliorato con l’età. Un’ipotonia muscolare di tipo centrale, di grado variabile, è segnalata in 12 soggetti (85%) mentre un ipertono di grado lieve è stato riscontrato in un bambino. Cinque bambini (35%) presentano un’atassia della marcia e 6 (42%) una disprassia orale (difficoltà di masticazione e/o scialorrea, prassie bucco-linguali difficoltose, motilità linguale ridotta, imperfetta chiusura labiale, soffio inadeguato). Altri segni neurologici sono stati riscontrati in 7/14 (50%) bambini (microcefalia dal 5° mese di vita; ipercinesie, lieve deficit del VII nervo cranico a sinistra, frenage e parola scandita; macrocrania e teleangectasie delle sclere e del naso; riflessi osteotendinei rotulei vivaci e aumento dell’area reflessogena; tremore intenzionale; ipercinesie extrapiramidali e risposta scorretta all’evocazione del riflesso cutaneo plantare; lieve ipertono e lievi note dismorfiche al volto. Aprassia oculomotoria: in tutti i bambini sono stati evidenziati, fin dai primi mesi, ed in combinazione variabile, i seguenti segni: difficoltà o assenza della fissazione e dell’inseguimento visivo, iperfissazione, sguardo in lateralità, posizione anomala del capo, scosse di nistagmo, movimenti latero-laterali del capo. Valutazione neuroftalmologica: si evidenzia iperfissazione in 11 soggetti (78%) e spasmi di fissazione in 2 bambini (14%). L’inseguimento visivo è discontinuo ed a scatti in tutti i pazienti: in 10 (71%) sul piano orizzontale e in 4 (28%) sia sul piano orizzontale che verticale. Tutti i soggetti presentano un deficit delle saccadi, con conseguente alterazione dello scanning visivo. In 10 (71%) le saccadi sono difficoltose sul piano orizzontale e in 4 (28%) anche sul piano verticale. Scatti compensatori del capo e ammiccamenti sono presenti in tutti i soggetti. Tre bambini dei 5 (60%) rivalutati a distanza di tempo hanno presentato una riduzione
APRASSIA OCULOMOTORIA CONGENITA
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degli scatti del capo e degli ammiccamenti mentre 2/5 (40%) una quasi totale scomparsa dei compensi (in particolare degli scatti del capo). Gli ammiccamenti, inoltre, tendono a sostituirsi agli scatti compensatori del capo. In tutti i soggetti non sono evidenziati grossolani deficit delle aree di localizzazione visiva ma a causa del deficit dello scanning visivo, tutti si aiutano con rotazione del capo e/o ammiccamenti per individuare i target proposti. In 12 casi (85%) l’acuità visiva risulta nella norma mentre in due (14%) è presente una lieve ipovisione. La motilità oculare estrinseca è nella norma in 13 soggetti (92%) mentre in uno è presente un deficit di abduzione in occhio sinistro. Cinque (35%) bambini hanno strabismo: 4 esotropia, 1 exotropia. La statica pupillare è normale in tutti i soggetti. Quattro (28%) individui mostrano nistagmo, due a scosse sporadiche in estrema lateroversione, uno pendolare ciclorotatorio e uno in estrema lateralità di sguardo. In 3/13 (23%) soggetti il Fundus oculi presenta una lieve ipoplasia papillare. In 6 bambini sono stati eseguiti i PEV flash+pattern-reversal, mentre in 4 solo i PEV flash. Solo un bambino presenta una conduzione lievemente ritardata in occhio sinistro. L’elettroretinogramma risulta normale in tutti i casi in cui è stato effettuato (10/14). Evoluzione dell’aprassia oculomotoria L’aprassia oculomotoria tende a migliorare con lo sviluppo. I bambini rivalutati nel tempo inibiscono l’iperfissazione con gli scatti del capo e gli ammiccamenti e i secondi tendono a sostituirsi ai primi come modalità di compenso energeticamente più conveniente. Il miglioramento più eclatante è stato osservato in due bambine che a distanza di tempo presentavano solo sporadici ammiccamenti. Anche la disprassia orale ed il ritardo del linguaggio tendono a migliorare nel tempo in tutti i pazienti che è stato possibile valutare più volte. Livello cognitivo: la valutazione del livello cognitivo (in 3 pazienti con scala Raven ed in 3 pazienti con scala di Weschler) e del quoziente di sviluppo (in 5 pazienti Griffiths, in uno con Bayley, in uno con Stanford-Binet e in un altro con Brunet-Lezine) evidenzia un punteggio nella norma in 11 soggetti (78%), borderline in 2 (14%), sotto la norma (ritardo mentale lieve) in uno (7%). Risonanza magnetica dell’encefalo: cinque bambini (35%) presentano una RM normale, 6 (42%) mostrano il segno del dente molare (in un caso si associa una lieve ipoplasia dei lobi temporali, mentre in un altro caso è evidente un’ipoplasia dell’emisfero cerebellare destro ed una lieve dilatazione ventricolare con atrofia focale fronto-temporale bilaterale) e 3 (21%) hanno un quadro neuroradiologico caratterizzato da anomalie aspecifiche (nel primo caso: dilatazione ventricolare, più evidente a livello dei ventricoli laterali ed alterazione di segnale della sostanza bianca periventricolare posteriore, interpretata come piccolo esito leucomalacico ed in parte causata dall’idrocefalo; nel secondo caso: ampliamento della porzione posteriore dei ventricoli laterali, soprattutto a sinistra; nel terzo: ampliamento dell’intero sistema ventricolare e dei solchi corticali interpretato come atrofia corticale). Altri esami strumentali: 12 bambini hanno eseguito un EEG che è risultato normale in 10 casi (83%) ed alterato in 2 (alterazioni aspecifiche in un caso e anomalie
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epilettiformi temporo-mesiali sinistre nell’altro). 7 soggetti hanno eseguito potenziali evocati acustici risultati nella norma. In base alle caratteristiche clinico-strumentali riportate, abbiamo suddiviso il campione in tre gruppi (vedi Tabella 1 e 2). Gruppo A: cinque bambini (35%) presentano un quadro neuro-oftalmologico omogeneo. Tutti i soggetti mostrano un’alterazione dei movimenti saccadici volontari sul piano orizzontale con conservazione di quelli verticali, scarsa fluidità dell’inseguimento sul piano orizzontale, iperfissazione, movimenti a scatto del capo ed ammiccamenti che, nel tempo, sono quasi totalmente scomparsi in due casi. Tutti questi bambini presentano inoltre un livello cognitivo adeguato all’età, assenza di ritardo del linguaggio e di disprassia orale. In anamnesi viene segnalata una familiarità (due casi del gruppo sono fratelli) e non vengono riferite importanti complicanze del periodo pre-peri e post natale, in accordo con la normalità del quadro neuroradiologico. In 3 soggetti (60%) è presente un lieve ritardo nell’acquisizione delle tappe di sviluppo motorio (controllo del capo in un caso, della deambulazione autonoma in un altro e di entrambe le competenze nel terzo), parzialmente recuperato. All’esame obiettivo neurologico viene riscontrata una lieve ipotonia in 4 bambini (80%), di cui uno presenta anche una microcefalia. Il Gruppo B che include 6 bambini (42%) con caratteristiche cliniche eterogenee ma accomunati dalla presenza della malformazione del dente molare alla RM encefalo. Tutti i soggetti presentano una compromissione dei saccadici volontari e dell’inseguimento visivo, 4 (66%) solo sul piano orizzontale e 2 (33%) anche su quello verticale. In tutti i casi sono presenti movimenti a scatto del capo e ammiccamenti, ridottisi a distanza di tempo in 2 casi. In 4 bambini (66%) è presente iperfissazione, in uno (16%) spasmi di fissazione, in uno (16%) lieve ipovisione, in due (33%) nistagmo (pendolare ciclorotatorio in un caso e in estrema lateralità nell’altro), in 3 (50%) strabismo. Tutti questi bambini presentano un ritardo motorio che tende a migliorare con l’età, 5/6 un ritardo del linguaggio, 1/6 un ritardo mentale e 1/6 un livello cognitivo bordeline. All’esame obiettivo neurologico si evidenzia un’ipotonia in tutti i soggetti, un’andatura impacciata ed a base allargata in tutti i bambini deambulanti (5/6) e francamente atassica in quattro (80%), una disprassia orale in 4/6 e altri segni neurologici associati, soprattutto cerebellari (tremore intenzionale, frenage alla prova indice-naso e parola scandita) in 4/6. In anamnesi viene riferito che un bambino ha genitori consanguinei e viene segnalata una familiarità (due fratelli maschi). Il Gruppo C comprende 3 soggetti (21%) con storia anamnestica suggestiva di sofferenza pre-peri o postnatale, quadro clinico eterogeneo e segni neuroradiologici compatibili con una sofferenza del sistema nervoso centrale. Nessun bambino ha genitori consanguinei né familiarità positiva per aprassia oculomotoria. Tutti i bambini mostrano un’alterazione dei movimenti saccadici, in un caso (34%) solo orizzontali e in due casi anche verticale (66%). In tutti i soggetti è presente una scarsa fluidità dell’inseguimento visivo, movimenti a scatto del capo e ammiccamenti, in 2 (66%) si osserva iperfissazione, in uno (34%) lieve ipovisione, in 2 (66%) scosse di nistagmo in estrema lateroversione. In due bambini è segnalato un lieve ritardo motorio e del
si
si
si
no
si
si
144-156
18-90
12-20
175-183
9-12
14-72
No
si
7-40
10,5-13
-
7-16,5
si
si
10,5-97
122-122
si
no
36-69
27-27
no
9-19
no
si
No
No
No
Si
Si
Si
Si
no
no
no
no
no
Ritardo controllo tronco
no (12)
Si (24)
Si (24)
NV
Si (20)
Si (18)
Si (54)
Si (54)
Si (18)
No (11)
No (14)
Si (18)
Si (18)
No (12)
Ritardo deambulazione (mesi)
N
border
N
N
N
N
RM
border
N
N
N
N
N
N
QI
no
lieve
lieve
no
lieve
lieve
medio
medio
lieve
no
no
no
no
no
Ritardo linguaggio
No
No
Si
No
Si
No
Si
Si
Si
No
No
No
No
No
Disprassia orale
Legenda QI: quoziente intellettivo; NV non valutabile, N: normale, RCP: riflesso cutaneo plantare.
C
B
A
Ritardo controllo capo
EtĂ prima e ultima visita (Mesi)
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Si
Impaccio motorio
Tabella 1. Caratteristiche cliniche del campione.
No
No
No
NV
Si
No
Si
Si
Si
No
No
No
No
No
Atassia marcia
no
si
si
si
si
si
si
si
si
no
si
si
si
si
Ipotonia
Note dismorfiche
Ipercinesie, RCP scorretto
Di smorfie e ipogenitalismo
Ritardo passaggi posturali
Tremore intenzionale
No
Atassia tronco, Iperrflessia OT
Ipercinesie lieve deficit VII sx, frenage e parola scandita
Macrocrania
No
Microcefalia
No
No
No
Altri segni neurologici generali
APRASSIA OCULOMOTORIA CONGENITA
75
+
+
+
-
-
+
+
+ Duratura
+ Duratura
+ Alterna
+ Duratura
+ Duratura
+ Duratura
+ Duratura
+
+
+ Duratura
+ Duratura
+
+ Duratura
-
+
+ Duratura
+ Duratura
+
+ Duratura
Iper fissazione
-
-
+
-
-
-
-
+
-
-
-
-
-
-
Spasmi di fissazione
Discontinuo O
Disc OV
Disc OV
Disc OV
Discontinuo O
Discontinuo O
Disc OV
Discontinuo O
Discontinuo O
Discontinuo O
Discontinuo O
Discontinuo O
Discontinuo O
Discontinuo O
Inseguimento N/ discontinuo
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
Blink
-
-
-
-
-
N
+ (ipo lieve)
N
N
N
N
+ (ipo lieve)
-
N
N
N
N
N
N
N
↓AV
-
-
-
-
-
-
-
↓CVS
N
N
N
N
N
N
Alt*
N
Alt*
N
N
N
N
N
Alt. MOI
N
Alt**
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
Alt. MOE
-
-
-
-
-
-
+
-
+/-
-
+/-
-
+/-
-
NYS
Alt***
N
Alt***
N
N
N
N
N
N
N
N
N
Alt***
nv
Alt. FOO
N
nv
N
N
N
N
Lieve
N
N
nv
N
N
nv
nv
Alt. PEV
N
nv
N
N
N
N
N
N
N
nv
N
N
nv
nv
Alt. ERG
Legenda Blink: ammiccamenti CVS: campo visivo di sguardo, AV: acuità visiva, MOI: motilità oculare intrinseca, MOE: motilità oculare estrinseca, NYS: nistagmo, FOO: fundus oculi, PEV: potenziali evocati visivi, ERG: elettroretinogramma, Alt*: fotomotore lievemente torpido, Alt** lieve deficit abduzione occhio sinistro, + presente, - assente, +/- sporadiche scosse, Alt***: lieve ipoplasia papilla, N: normale, O: orizzontale, OV: orizzontale-verticale.
C
B
A
+
+ Duratura
Fissazione
Tabella 2. Caratteristiche neuroftalmologiche del campione.
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linguaggio mentre in nessun caso è stato riscontrato un ritardo cognitivo. All’esame obiettivo neurologico si evidenzia una riduzione del tono muscolare in 2 casi e un suo aumento in uno, disprassia orale in un caso e in un altro segni neurologici associati (ipercinesie di tipo extrapiramidale ed risposta scorretta all’evocazione del riflesso cutaneo plantare). Discussione e conclusioni La nostra casistica comprende un gruppo di 14 soggetti con aprassia oculomotoria congenita la cui numerosità è legata al fatto che si tratta di un disturbo abbastanza raro, soprattutto nella sua forma “pura”, classicamente descritta da Cogan. In letteratura, come nel nostro campione, sono più frequenti i casi in cui la COMA si associa ad altri segni neurologici: ritardo psicomotorio di grado variabile (Rappaport et al., 1987; Jan et al., 1998), difficoltà scolastiche (Marr, Green, Willshaw, 2005), ipotonia generalizzata ed atassia (Kondo et al., 2007). I 5 soggetti del gruppo A presentano un quadro di aprassia oculomotoria “pura” (Cogan tipica). Gli elementi salienti che caratterizzano questi casi sono la riproducibilità del quadro neuro-oftalmologico (compromissione delle saccadi e dell’inseguimento visivo solo sul piano orizzontale, iperfissazione, movimenti latero-laterali del capo ed ammiccamenti), la negatività della storia anamnestica con una tendenza alla familiarità e la negatività/aspecificità del quadro clinico e neuroradiologico. L’interpretazione che possiamo dare a questo primo gruppo, in accordo con i lavori in letteratura, è quella di un’eziopatogenesi genetica o disfunzionale-dismaturativa (Tusa, Hove, 1999; Kondo et al., 2007). A sostegno di tale ipotesi possiamo addurre la negatività delle neuroimmagini strutturali e possiamo ipotizzare, per il futuro, l’utilità delle indagini neruroradiologiche funzionali (Merlini et al., 2010). I bambini del gruppo B e C potrebbero essere considerati, secondo la classificazione di Sabbadini, come affetti da aprassia oculomotoria “tipo Cogan” la cui eziopatogenesi è malformativa-genetica (gruppo B) o lesionale (gruppo C) e il cui quadro clinico è eterogeneo. In particolare questi bambini presentano una compromissione dei movimenti saccadici e dell’inseguimento visivo non solo sul piano orizzontale ma anche su quello verticale, iperfissazione e spasmi di fissazione solo in alcuni casi e lieve ipovisione occasionalmente. In base alla nostra esperienza possiamo sostenere come l’aprassia oculomotoria congenita sia una patologia complessa, per la quale è difficile stabilire un’eziopatogenesi univoca. L’aprassia oculomotoria è generalmente sporadica, ma in letteratura (e nel nostro campione) è stata descritta in membri della stessa famiglia e con diverse modalità di trasmissione, autosomica recessiva o dominante, nella sua forma idiopatica (Robles, 1966; Cogan, 1972; Narbona, Crisci, Villa, 1980; Borchert et al., 1987; Harris et al., 1998; Phillips, Brodsky, Henry, 2000; Hsu, Yang, Lai, 2002; Gonzalez et al., 2004; Orssaud et al., 2009) e autosomica recessiva nella forma malformativa associata a dente molare (Valente, Brancati, Dallapiccola, 2008). In particolare il riscontro di
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delezioni/mutazioni del gene nefronoftisi di tipo 1 (NPHP-1) o di geni ad esso contigui in soggetti con aprassia oculomotoria congenita e nefronoftisi di tipo 1 ha portato alcuni studiosi a supporre che la COMA possa essere dovuta ad un difetto di tali geni (Betz et al., 2000, Graber et al., 2001). Negli anni successivi sono state segnalate mutazioni di NPHP-1 in alcuni casi di sindrome di Joubert e aprassia oculomotoria tipo Cogan (Parisi et al., 2004; Valente, Brancati, Dallapiccola, 2008), ma mai in casi isolati di COMA. Negli ultimi anni vengono più frequentemente chiamate in causa disfunzioni del tronco e del verme cerebellare. Secondo Jan et al. (1988) un’ipoplasia vermiana, in particolare della porzione inferiore, potrebbe essere presente in molti, forse in tutti, i casi idiopatici. In altri lavori si ipotizza che l’aprassia oculomotoria insorga in seguito ad un’alterazione dei fasci associativi che connettono il collicolo superiore alla formazione reticolare parapontina e al fascicolo longitudinale mediale (nucleo rostrale interstiziale) e che un’ipoplasia della porzione posteriore del verme cerebellare possa determinare saccadici ipometrici, inseguimento difficoltoso ed abolizione del riflesso vestibolo-oculare (Tusa e Hove, 1999; Sturm et al., 2010). Tali dati trovano conferme dagli studi di neuroimaging funzionale che hanno dimostrato che il verme cerebellare e il collicolo superiore controllano, in parte, la generazione dei movimenti saccadici (Dieterich et al., 2000). Recentemente indagini neuroradiologiche funzionali in soggetti con aprassia oculomotoria congenita (3 con soli segni clinici di COMA e 1 con COMA e caratteristiche fenotipiche compatibili con Joubert Syndrome Related Disorders-JSRD) hanno permesso di evidenziare un’alterazione dell’integrità delle fibre rubrospinali che attraversano la decussazione ventrale tegmentale solo nel caso di COMA associata a JSRD. Tale riscontro ha portato gli autori ad ipotizzare che la Sindrome di Cogan non appartenga di per se allo spettro delle JSRD e che probabilmente non sia una ciliopatia (Merlini et al., 2010). Altri considerano l’aprassia oculomotoria un segno clinico, espressione di un coinvolgimento del sistema nervoso centrale a vari livelli, e non una sindrome definita. Essi basano le loro affermazioni sulla constatazione che un’ampia gamma di anomalie malformative dell’encefalo, condizioni degenerative del sistema nervoso centrale e situazioni di danno neurologico da insulti avvenuti in epoca perinatale, possono essere associati all’aprassia oculomotoria (Gonçalves et al., 2008; Kondo et al., 2007). Se questa ipotesi è senz’altro condivisibile per quanto riguarda i soggetti con sindrome di Joubert, oppure per quelli con storia di danno encefalico, non si può altrettanto sostenere senza ombra di dubbio se si pensa ai soggetti con aprassia oculomotoria idiopatica, in cui il disturbo oculomotorio spesso rappresenta (ma non necessariamente) la sola espressione clinica della patologia. Nei pazienti rivalutati nel tempo si è osservata una evoluzione positiva dell’aprassia oculomotoria: i bambini imparano ad inibire l’iperfissazione e ad utilizzare i compensi in modo energeticamente meno dispendioso, in particolare gli ammiccamenti tendono a sostituirsi ai movimenti a scatto del capo. Un miglioramento particolarmente eclatante, caratterizzato dalla quasi totale scomparsa degli scatti del capo e dalla riduzione degli ammiccamenti, è stato osservato in casi con Cogan pura. Possiamo supporre che l’aprassia oculomotoria idiopatica sia un disturbo più lieve rispetto
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alle forme “tipo Cogan”, con una compromissione neurologica minore e un’evoluzione più frequentemente favorevole. Tale dato trova conferma in letteratura dove si sottolinea come l’aprassia oculomotoria idiopatica tenda a migliorare nel tempo, a differenza di quella associata ad altri quadri neuroradiologici (Tusa e Hove, 1999). Molti autori hanno posto l’accento sul fatto che in questi bambini vi sia un ritardo delle acquisizioni neuropsicologiche (ritardo del linguaggio, difficoltà di apprendimento) e neuromotorie (ipotonia, ritardo della deambulazione, impaccio motorio, oral motor apraxia) (Cogan, 1952; Fielder et al., 1986; Rappaport et al., 1987; Harris et al., 1996; Marr Green e Willshaw, 2005). Non sempre l’aprassia oculomotoria va incontro ad un miglioramento con la crescita: il disturbo oculomotorio sembrerebbe seguire la stessa evoluzione del ritardo psicomotorio (Fazzi et al., 1995). Sebbene dal punto di vista eziopatogenetico ci siano ancora tanti dubbi, dal punto di vista clinico le nostre osservazioni documentano chiaramente l’esistenza delle due forme di COMA (tipica ed atipica) e uno dei quesiti più frequentemente posti al clinico è cosa fare per aiutare i bambini. L’utilizzo, il sostegno ed il potenziamento della funzione visiva appare di primaria importanza in un percorso ri-adattativo. Accanto a ciò è determinante il timing di intervento, la cui precocità è essenziale nell’ottica di creare quell’ambiente arricchito che si dimostra essere uno dei più potenti attivatori della plasticità del sistema nervoso centrale e delle sue possibilità di riorganizzazione dopo eventi lesionali, tanto più per quanto riguarda la funzione di sguardo la cui teoria di “maturazione” è da tempo nota e discussa (Sabbadini e Bonini, 1876; Caforio, Sabbadini et al., 1980). Secondo tale ipotesi alla nascita lo sguardo è caratterizzato da una iniziale caoticità a cui segue precocemente una fase di tendenza all’iperfissazione, di brevissima durata in bambini sani ma durevole e talvolta permanente in casi patologici, in particolare nella disprassia. In epoche ancora successive la motilità oculare diviene a scatti, giustificata da una esplorazione ambientale che avviene inizialmente tramite arrampicamento maculo-maculare (scivolamento della fissazione da un oggetto ad un altro, sufficientemente vicino da essere anch’esso all’interno della macula), che si evolverà nel tempo in arrampicamento saccadico e poi in vera e propria esplorazione saccadica, determinata dalla curiosità e dall’interesse. Questo tipo di evoluzione ordinale può essere applicata anche all’approccio riabilitativo, facendo attenzione a non prescindere dall’approccio globale che mira al miglioramento della funzione come parte di una globalità, e quindi come funzione adattiva. In questa ottica è possibile formulare una serie di suggerimenti utili per il potenziamento delle funzioni visive e/o oculomotorie nei soggetti con aprassia oculomotoria: il primo compito del riabilitatore è di individuare la distanza alla quale il soggetto “mette a fuoco” in modo ottimale, poiché è da essa che si deve partire nelle attività di rieducazione. Parallelamente è importante allenare il soggetto a lavorare a diverse distanze focali, avvicinando e allontanando gradualmente i target proposti. Una volta stabilita la distanza ideale a cui lavorare, è importante allenare la fissazione, cercando di prolungarne i tempi di mantenimento: è possibile utilizzare a questo scopo l’evocazione del riflesso di fissazione (volto a raggiungere un oggetto che compare alla periferia del campo visivo), che serve al soggetto per abituarsi a
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misurare l’errore retinico e addestra quindi contemporaneamente la fissazione ed il movimento saccadico di sguardo, seppur d’attrazione. Un’altra problematica da affrontare in ottica riabilitativa è quella dell’iperfissazione: si deve però tenere conto che non sempre l’intervento consente di superare questa difficoltà, e che talvolta è necessario fornire o sostenere strategie di compenso quali l’utilizzo del campo visivo periferico, gli scatti del capo o gli ammiccamenti, che consentono in parte un utilizzo della funzione in termini adattivi ovviando il problema. Ricordandosi ciò, si ritiene comunque utile addestrare il paziente al movimento saccadico di sguardo, partendo dall’arrampicamento maculo-maculare, condizione facilitata, passando dall’arrampicamento saccadico per giungere poi gradualmente alla libera esplorazione dell’ambiente. L’efficacia di questo percorso è strettamente vincolata all’aspetto motivazionale, poiché l’apprendimento ed il miglioramento della funzione sono realizzabili solo laddove il soggetto è attentivamente interessato e coinvolto nell’attività. È quindi fondamentale l’inserimento delle attività indicate sopra in contesti ludici e/o narrativi, che invoglino il bambino alla partecipazione alle proposte, e la selezione di oggetti/target che ne catturino l’attenzione. Nel bambino più grande, con il quale è già stato attuato il percorso riabilitativo ordinale sopracitato e che quindi è in possesso di competenze e/o strategie per eseguire una libera esplorazione ambientale, è necessario dedicarsi agli aspetti cognitivi e meta-cognitivi della “prassia” ed in particolare a quello dell’intenzionalità. Essa infatti non può prescindere da aspetti come la rappresentazione interna dell’oggetto da raggiungere (nel nostro caso con lo sguardo), la rappresentazione del gesto necessario e delle sequenze del gesto (cioè della seriazione degli atti motori che costituiscono il gesto), la loro verifica on-line (in corso di esecuzione), la verifica del risultato. Questi aspetti possono essere affrontati in un percorso riabilitativo ad esempio attraverso attività di classificazione e seriazione, attraverso il gioco del “contare”, o attraverso l’analisi e la verifica verbale. Resta presente anche in ambito riabilitativo la distinzione tra le forme di aprassia oculomotoria congenita di Cogan, per le quali l’intervento investe strettamente (o prevalentemente) l’ambito visivo oculomotorio, e quelle “tipo Cogan”, per le quali l’aprassia oculomotoria è parte di una sintomatologia più complessa e la riabilitazione visiva deve necessariamente inserirsi in un approccio globale neuropsicomotorio che tenga conto degli altri aspetti adattivi coinvolti. Riassunto Introduzione: l’aprassia oculomotoria congenita (COMA) descritta da Cogan si caratterizza per una compromissione dei movimenti di sguardo volontari e di attrazione sul piano orizzontale con conservazione dei movimenti volontari verticali. Gli aspetti clinici e l’eziopatogenesi di tale disturbo sono ancora aperti ad una ridefinizione. Obiettivi: descrivere gli aspetti clinici della COMA e valutarne la differente espressività in funzione dell’eziopatogenesi. Metodi: 14 bambini con COMA sono stati sottoposti a valutazione neurologica, neuroftalmologica e cognitiva ed ad indagini strumentali neuroradiologiche (RM encefalo) e elettrofisiologiche (EEG, elettroretinogramma, potenziali evocati visivi e acustici). Risultati: in base alle caratteristiche clinico-strumentali
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possiamo distinguere tre gruppi. Cinque (35%) soggetti (gruppo A) presentano alterazione dei movimenti saccadici volontari, scarsa fluidità dell’inseguimento sul piano orizzontale, iperfissazione, movimenti a scatto del capo ed ammiccamenti, livello cognitivo e quadro neuroradiologico nella norma. Il gruppo B include 6 bambini (42%) con compromissione dei saccadici volontari orizzontali (in 2 casi anche verticali) e dell’inseguimento visivo, movimenti a scatto del capo e ammiccamenti (6/6) iperfissazione (4/6), ritardo mentale (1/6), ritardo motorio (6/6) e del linguaggio (5/6), atassia (4/6), disprassia orale (4/6), altri segni neurologici associati (4/6) e RM encefalo con dente molare. Il gruppo C comprende 3 soggetti (21%) con movimenti saccadici compromessi in orizzontale (1/3) e anche in verticale (2/3), scarsa fluidità dell’inseguimento visivo, movimenti a scatto del capo e ammiccamenti (3/3), iperfissazione (2/3), livello cognitivo normale, lieve ritardo motorio e del linguaggio (2/3), disprassia orale (1/3), altri segni neurologici (1/3) e RM encefalo aspecifica (probabile eziopatogenesi lesionale), Conclusioni: l’aprassia oculomotoria si conferma un disturbo oculomotorio eterogeneo nella sua manifestazione clinica e nella sua eziopatogenesi che può essere meritevole di ulteriori approfondimenti. L’individuazione dei vari sottotipi appare utile per prospettive terapeutico riabilitative. Parole chiave Aprassia oculomotoria congenita – Bambini – Disturbi oculomotori.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 85-101
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Il ruolo della generazione di idee e della pianificazione nelle difficoltà di produzione del testo di bambini ADHD The role of ideas generation and planning in the ADHD children’s difficulties of text production Anna Gallani*, Anna Maria Re*, Francesco Sella*, Melanie Tolomei*, Arianna Zanellato*, Cesare Cornoldi*
Summary Text production is one of the academic areas where ADHD children meet difficulties. However literature has not deeply studied the issue. However, ADHD children seem to produce written texts which are characterized by many spelling errors, poor coherence and cohesion, difficulties in production of ideas and planning. These two aspects are potentially related with Executive functions which can be also poor in ADHD children. The paper presents the results of a study which has examined the abilities of ADHD children and controls in planning (with the Tower of London test) and semantic fluency (with a task requiring to rapidly generate category exemplars) and their relationship with planning and generation of ideas during the elaboration of texts. Key words Writing fluency – Planning – ADHD.
Introduzione Grazie al contributo di molti ricercatori (Lambert e Sandoval, 1989; Barkley et al., 1990; Mayers et al., 2002), è assodato un rapporto di comorbilità tra ADHD e i Disturbi dell’Apprendimento. Il dato costante nelle ricerche è che la prestazione risulta peggiore nel gruppo con ADHD rispetto al gruppo di controllo. In particolare l’abilità più studiata è stata la lettura (Shaywitz et al., 1995). L’abilità di scrittura, invece, poiché considerata subordinata alla lettura, ha ricevuto minor attenzione. Tutto ciò ha determinato un esiguo numero di studi riguardanti il processo di scrittura nei soggetti con questo disturbo. Un primo studio (Resta e Eliot, 1994) ha preso in considerazione un gruppo di 32 studenti, di età compresa tra gli 8 e gli 13 anni, di cui 10 con disturbo di attenzione con iperattività (ADHD), 11 con disturbo di attenzione senza iperattività (DDA) e 11 senza nessun problema (gruppo di controllo). Gli autori si sono proposti di accer*
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova.
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tare la differenza nella leggibilità della calligrafia nei due gruppi, ADHD e controllo, attraverso la valutazione della maturazione percettivo-motoria e di verificare l’espressione scritta nei tre gruppi presi in considerazione. La prova di scrittura consisteva nella stesura di tre brevi componimenti su tre diversi argomenti. Le variabili prese in considerazione erano: le abilità generali di scrittura, la produttività, la complessità di parole e la leggibilità. I risultati hanno dimostrato che effettivamente il gruppo ADHD aveva una prestazione peggiore rispetto a quella del gruppo di controllo per quanto riguarda la leggibilità della calligrafia. Per quanto riguarda le prove di scrittura, si è riscontrata una prestazione generale migliore del gruppo di controllo rispetto al gruppo sperimentale, tranne che per due eccezioni: la prima per la variabile “leggibilità” (readability), definita dagli autori come la misura della relazione tra numero medio di sillabe e frasi in un testo, in cui i due gruppi si sono comportati allo stesso modo; la seconda per la variabile “produttività” (productivity), intesa come quantità di parole scritte, in cui il gruppo di controllo faceva meglio solo dei soggetti con iperattività. Un secondo studio (Ross et al., 1995) ha verificato la velocità di scrittura di 48 bambini della scuola elementare con una diagnosi di disturbo di attenzione ed iperattività, confrontandola con quella di altrettanti bambini della stessa età e dello stesso genere, senza nessun disturbo. Il compito consisteva nello scrivere i numeri da 0 a 9 e le lettere del proprio nome per un minuto. I risultati non hanno dimostrato nessuna differenza significativa tra i due gruppi in nessuna delle due prove, pertanto gli autori hanno concluso che la fluidità di scrittura non fosse un problema specifico dei bambini con ADHD. Questo pattern di risultati suggerisce che i bambini con ADHD scrivono meno perché hanno difficoltà nella produzione del testo, non perché hanno problemi nella fluenza di scrittura. I risultati decritti finora, relativi al rapporto tra espressione scritta e ADHD, sembrano confermati anche da una serie di studi condotti in Italia (Re, 2006; Re, Pedron, Cornoldi, 2007; Re, Caeran, Cornoldi, 2008). Da questi studi è emerso che i bambini con caratteristiche ADHD hanno difficoltà cospicue nell’abilità di scrittura, che sono indipendenti dall’età, in quanto sono state riscontrate sia in bambini della scuola primaria che in ragazzi della scuola media inferiore, e indipendentemente dal tipo di istruzioni utilizzate (descrizione di una immagine vs istruzioni verbali, come il titolo di un tema) e dal tipo di compito (testo descrittivo vs testo narrativo). Queste difficoltà sono risultate abbastanza generali in quanto rilevate in diversi aspetti del processo di scrittura. Da un punto di vista qualitativo i testi prodotti dai bambini e dai ragazzi con caratteristiche ADHD appaiono poco strutturati e i concetti espressi sembrano un elenco di elementi (Re, Pedron, Cornoldi, 2007). Inoltre, i componimenti sembrano meno aderenti alle consegne e inadeguati grammaticalmente. Per quanto riguarda la correttezza dei componimenti i bambini con caratteristiche ADHD commettono più errori ortografici dei loro coetanei del gruppo di controllo (Re, 2006). Infine, è emerso che i bambini con caratteristiche ADHD conoscono le regole ortografiche e grammaticali, ma non riescono ad applicarle, perché non hanno ab-
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bastanza risorse cognitive disponibili per poter prestare attenzione anche a questo aspetto, che passa automaticamente in secondo piano. Come gli scrittori inesperti, questi bambini non monitorano il compito né durante né dopo aver finito la stesura del componimento e non rileggono il testo, lasciando errori grammaticali (Re, Caeran, Cornoldi, 2008). In base a questi risultati si può dunque ipotizzare che i bambini con ADHD producano molte idee, ma, date le loro difficoltà nella pianificazione e nell’organizzazione, non siano in grado di organizzarle in maniera adeguata. Potrebbero essere paragonati a degli scrittori inesperti o a dei cattivi scrittori (Bereiter e Scardamalia, 1987), che non solo mostrano deficit nelle strategie durante la produzione del testo scritto ma anche nell’acquisizione e nell’uso delle conoscenze dichiarative e procedurali circa la scrittura. Lo scopo della presente ricerca consiste pertanto nel portare un contributo allo studio del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, analizzandolo proprio in rapporto alle abilità di scrittura. In particolare si è deciso di focalizzarsi su due funzioni esecutive, la pianificazione e la produzione di idee, che sono coinvolte nell’espressione scritta. Se consideriamo lo scrivere come un processo di problem solving (Boscolo, 1997) e quindi come un’attività orientata al raggiungimento di un obiettivo, si deve ipotizzare che chi scrive, abile o inesperto che sia, si serva di alcune procedure che lo aiutino a raggiungere lo scopo. Una prima fase fondamentale del processo di scrittura è la pianificazione, definita come un’attività simbolica che consiste nel prefigurare una sequenza di azioni sufficiente per raggiungere un obiettivo. Nella pianificazione si possono individuare tre momenti: la generazione di idee, attraverso il recupero dalla memoria di informazioni rilevanti per l’esecuzione del compito; l’organizzazione che riguarda la scelta e la disposizione delle idee generate dalla memoria; e il “porsi degli obiettivi”, ossia quei criteri utili alla valutazione del testo che accompagnano la generazione di idee e che saranno poi utilizzati nella revisione (Hayes e Flower, 1980; v. anche Cornoldi et al., 2010). Nel produrre un testo i bambini hanno spesso difficoltà nella ricerca dei contenuti, la quale non dipende tanto dalla quantità di conoscenze di cui dispongono, quanto piuttosto dalla maggiore o minore facilità di accesso a tali conoscenze. Nello scrivere si devono compiere due tipi distinti di operazioni di ricerca nella memoria a lungo termine, entrambi problematici per i bambini. La prima difficoltà è attivata dalla tematica della composizione perché richiede un inventario di ciò che un soggetto sa su un argomento. Il secondo ostacolo deriva dalla conservazione delle informazioni nella memoria a breve termine in vista del loro utilizzo. È proprio nella pianificazione e nella produzione di idee che si richiede al bambino il massimo sforzo cognitivo e attentivo: ci si aspetta quindi di incontrare in questo tipo di lavoro maggiori difficoltà da parte di bambini con ADHD, aggravate dall’eventuale presenza di difficoltà scolastiche. Va aggiunto che questi due momenti del processo di produzione scritta appaiono, almeno sul piano teorico, in relazione con due basiche funzioni esecutive e cioè la fluenza e la pianificazione, così come
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esse vengono testate da classici test di funzioni esecutive, come la fluenza categoriale e la torre di Londra (v. Bisiacchi et al., 2005). Ci sono larghe evidenze del fatto che i bambini ADHD incontrano difficoltà in molti test di funzioni esecutive, ma le evidenze relative a questi due specifici test e le loro relazioni con procedure di valutazione legate alla scrittura non sono chiare. Scopo del presente studio è stato quindi quello di esaminare questi punti. Metodo Procedura La ricerca è stata suddivisa in due fasi: a) nella prima fase (Ottobre 2007-Dicembre 2007) è stata richiesta la compilazione da parte degli insegnanti di un questionario di valutazione del comportamento e del rendimento scolastico dei bambini; b) nella seconda fase (Marzo 2008), in base ai punteggi ottenuti al questionario, ad un breve colloquio con gli insegnanti e ad un’osservazione diretta, sono stati individuati i possibili bambini con caratteristiche ADHD che sarebbero andati a costituire il Gruppo ADHD, i bambini con caratteristiche ADHD e difficoltà scolastiche (che abbiamo chiamato per semplicità Gruppo ADHD+DSA) e i bambini del Gruppo di Controllo (definiti CTRL). Per la ricerca è stato chiesto e ottenuto il consenso scritto dei genitori. Nella prima fase della ricerca sono state proposte le seguenti prove a tutti gli studenti come normali esercitazioni nelle classi di appartenenza, ma in modo anonimo (a ciascun soggetto è stato associato un codice numerico arbitrario): • Prova di vocabolario del PMA (Primary Mental Abilities) di Thurstone e Thurstone, (1963/1981), per una stima del QI. • Prova di Scrittura Spontanea di Narrazione tratta da “Batteria per la valutazione delle competenze ortografiche nella scuola dell’obbligo” di Tressoldi e Cornoldi (1991). • Prova di Velocità di Scrittura tratta da “Batteria per la valutazione della scrittura e dell’ortografia” di Tressoldi e Cornoldi, 2000. • Prova della Casa (Produzione di idee) creata “ad hoc”. • Prova di Riordinamento di Frasi (Sketchy planning) creata “ad hoc”. Per favorire un clima sereno e di collaborazione, è stato sottolineato ai bambini che gli elaborati non sarebbero stati oggetto di valutazione da parte degli insegnanti. Al gruppo di controllo e ai gruppi ADHD e ADHD + DSA sono state somministrate individualmente due ulteriori prove neuropsicologiche: • Fluenza Categoriale tratta da “Batteria di Valutazione Neuropsicologica per l’età evolutiva” di Bisiacchi et al., 2005. • Torre di Londra: Test di Valutazione delle Funzioni Esecutive (Pianificazione e Problem Solving) di Shallice, 1982.
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Partecipanti La ricerca ha coinvolto otto scuole primarie della provincia di Rovigo, più precisamente nei comuni di Rovigo, Ceregnano, Pezzoli, Gavello, Sarzano, Buso. Il campione, da cui sono stati selezionati i gruppi di ricerca, era costituito da 430 bambini: 210 maschi (48,84 %) e 220 femmine (51,16 %) con un’età media di 116,87 mesi (DS= 10,72 mesi). Nella Tabella 1, sono riassunte le caratteristiche del campione in base alla fascia scolastica. Il campione comprendeva: 133 bambini del terzo anno (di cui 65 maschi e 68 femmine, con un’età media di 104,43 mesi); 153 bambini del quarto anno (di cui 78 maschi e 75 femmine, con un’età media di 116,29 mesi); 144 bambini del quinto anno (di cui 67 maschi e 77 femmine, con un’età media di 128,98 mesi). In base alla scala SDAI, dal campione totale sono stati creati tre gruppi (Tabella 1): • un gruppo di 18 bambini con caratteristiche ADHD, (Gruppo ADHD) ovvero bambini problematici che ottenevano un punteggio pari a 14 in almeno una delle due sub-scale (il punteggio massimo che un soggetto poteva ottenere nella SDAI era 27 per ogni sub-scala); • un gruppo di 11 bambini che presentano sia un punteggio pari a 14 in almeno una delle due sub-scale della SDAI (il punteggio massimo che un soggetto poteva ottenere nella SDAI era 27 per ogni sub-scala) che un punteggio ≥ 2 negli item riguardanti le difficoltà scolastiche (item 2 e 3). Per comodità chiameremo questi bambini “Gruppo ADHD + DSA”; • un gruppo di bambini di controllo equiparati per genere, età, classe frequentata e livello socioculturale ai gruppi sperimentali, ma che hanno un punteggio inferiore a 10 in entrambe le sub scale della SDAI (per comodità chiameremo “Gruppo CTRL”) e presentano punteggi bassi (≤ 1) negli altri indici del questionario.
Tabella 1. ADHD 18
N
ETÀ
ADHD+DSA
CTRL
11
29
Maschi
Femmine
Maschi
Femmine
Maschi
Femmine
12
6
8
3
19
10
MEDIA
DS
MEDIA
DS
MEDIA
DS
116,22
10,7
112,27
12,01
114,03
9,43
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I tre gruppi sono stati confrontati attraverso una ANOVA UNIVARIATA sul PMA e l’età, ed è emerso che non vi è alcuna differenza significativa tra di essi (p>.05). I bambini stranieri e quelli certificati sono stati esclusi dall’analisi dei dati. Strumenti Il disegno sperimentale prevedeva cinque prove da sottoporre collettivamente alla classe. L’ordine di presentazione delle prove è stato bilanciato. Prova di vocabolario del PMA (Thurstone e Thurstone, 1963/1981) Il test è parte della Batteria di Thurstone (Thurstone e Thurstone, 1963/1981) sulle componenti di base dell’intelligenza. Ai bambini erano consegnati il protocollo della prova con le relative istruzioni scritte che contemporaneamente erano lette ad alta voce dallo sperimentatore: “Questa prova è chiamata PAROLE. È una prova per vedere quanto bene conosci le parole. Nell’esempio alla lavagna la prima parola è GRANDE. Le altre parole della riga sono (A) bello, (B) ventoso, (C) morbido, (D) grosso. Quale di queste parole ha lo stesso significato di “grande”? (pausa) la parola che ha lo stesso significato di GRANDE è grosso. Osserva che la lettera D è davanti alla parola grosso, quindi la cerchiamo con il gesso rosso. Ora sul foglio che ti abbiamo consegnato devi fare la stessa cosa, per ognuna delle parole elencate in stampatello, devi cerchiare con la penna rossa la parola che ha lo stesso significato. Lavora velocemente, ma cerca di non fare errori. Non sprecare troppo tempo per una parola sulla quale sei in dubbio, ma segna quella che tu pensi sia la risposta migliore e vai avanti alla seguente. Se finisci prima che il tempo sia finito, torna indietro e controlla le tue risposte. Se desideri cambiare una risposta, cancella completamente il primo segno prima di fare l’altro. Assicurati di aver capito come risolvere questa prova: se hai qualche dubbio chiedi ora le spiegazioni che desideri, perché poi non te ne saranno date altre. Ci sono due pagine di prove di PAROLE.” Il tempo previsto per la prova era di 7 minuti. La correzione consisteva nell’assegnare un punto per ogni risposta corretta fino ad ottenere il punteggio totale per ogni singolo bambino. Prova di Scrittura Spontanea di Narrazione La prova di scrittura spontanea utilizzata è denominata “prova di Narrazione” ed è stata tratta da “Batteria per la valutazione delle competenze ortografiche nella scuola dell’obbligo” di Tressoldi e Cornoldi (2000). Il compito consisteva nella presentazione di cinque vignette a colori raffiguranti l’avventura di un bambino che, salito su un albero per prendere e/o guardare degli uccellini dentro ad un nido, cade e si rompe una gamba. Ogni bambino riceveva una copia della suddetta immagine e aveva 10 minuti di tempo per narrare quello che vedeva rappresentato nelle immagini, seguendo la seguente istruzione “Ad un tuo amico è successo quello che vedi nella storiella. Prova a raccontarlo a dei tuoi compagni che non lo conoscono. Per questo compito hai a disposizione un massimo di 10 minuti”.
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La valutazione della prova si è basata su criteri quantitativi e su parametri qualitativi. Nei primi rientrano: - Totale delle parole (sono conteggiate tutte le parole utilizzate nell’intera composizione scritta compresi gli articoli). - Percentuale di errori ortografici (è contato un errore per ogni parola sbagliata). Se l’errore si ripete più volte nel testo si conta solo il primo errore commesso. Se all’interno della stessa parola sono presenti più errori si considera l’errore più grave. La percentuale di errori è calcolata sul totale delle parole tramite la seguente formula: [(n°di errori / totale delle parole) x 100]. Gli errori ortografici sono classificati in tre categorie: errori fonologici, cioè tutti gli errori in cui non è rispettato il rapporto tra fonemi e grafemi; errori non fonologici, cioè gli errori nella presentazione ortografica (visiva) delle parole, senza errori nel rapporto tra fonemi e grafemi; altro. Anche gli errori per tipologia si calcolano in rapporto al totale delle parole tramite la seguente formula: [(n° errori per tipologia / totale delle parole) x 100]. - Percentuale di aggettivi qualificativi (è calcolata sul totale delle parole tramite la seguente formula [(n° aggettivi / totale parole) x 100]. - Percentuale di ripetizioni (è calcolata sul totale delle parole tramite la seguente formula [(n° di ripetizioni / totale parole) x 100]. - Numero totale di frasi (ogni frase per essere tale deve contenere un verbo. Si devono conteggiare tutte le frasi prodotte dal bambino). - Percentuale di subordinate. La percentuale è calcolata sul totale delle frasi tramite la seguente formula [(n° di subordinate / totale frasi scritte) x 100]. Nei parametri qualitativi ritroviamo: - L’impressione globale: il contenuto dell’elaborato è valutato in base all’ampiezza, ricchezza, completezza e precisione delle idee espresse. - Aderenza alle consegne: è considerato come aspetto determinante l’intenzione comunicativa intesa come corretta interpretazione da parte del bambino di due aspetti fondamentali della composizione, ovvero il destinatario e lo scopo. - Struttura del testo: si valuta se la struttura rispecchia l’ordine delle immagini che costituiscono la storia e l’aderenza alle vignette proposte. - Lessico: si valutano la quantità di termini diversi utilizzati, la presenza di sinonimi, la proprietà di linguaggio manifestata. - Grammatica: si valuta l’uso corretto della punteggiatura, le parentesi, la divisione in paragrafi. - Morfosintassi: si pone attenzione all’uso corretto di modi e tempi verbali, di pronomi relativi, all’alternanza adeguata tra discorso diretto e indiretto etc. Per la valutazione di tali parametri qualitativi è stata utilizzata una scala valutativa crescente da 1 (completamente inadeguato) a 5 (completamente adeguato). Le variabili qualitative sono state valutate da due giudici esperti e indipendenti che non sapevano a quale dei gruppi di ricerca appartenessero le prove oggetto della correzione.
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È stata effettuata un’analisi preliminare per verificare il grado di accordo tra i due giudici sulle variabili qualitative. Tali correlazioni vanno da un valore minimo di r =.432 p <.01 ad un valore massimo di r =.881 p<.01. Si è deciso di considerare la media tra i giudici. Prova di velocità di scrittura Questa prova è stata tratta dalla “Batteria per la valutazione della scrittura e dell’ortografia” di Tressoldi e Cornoldi (2000). Il compito consisteva nello scrivere i numeri in parola nell’arco di tempo di 1 minuto. La correzione consisteva nel contare il numero di grafemi che il bambino era stato in grado di scrivere nel tempo a disposizione. Prova della Casa (Produzione di idee) Nella “Prova della Casa” ai bambini era letta ad alta voce e scritta alla lavagna tale consegna: “Scrivi tutte le idee che ti vengono in mente sulla casa dove abiti”. Per facilitare la comprensione del compito, erano riportate alcune frasi-esempio relative ad altre tematiche. Ai bambini era inoltre specificato che non esisteva un modo giusto o sbagliato nell’eseguire la prova, in quanto non era richiesta una specifica tipologia di testo (narrativo, descrittivo, argomentativo…). Per la correzione della prova sono state create undici categorie nelle quali far rientrare le idee prodotte dai bambini: 1: LOCALIZZAZIONE (indirizzo, punti di riferimento). 2: L’ESTERNO (giardino, tetto, terrazza, colore). 3: L’INTERNO (numero e tipologia delle stanze…). 4: OGGETTI, ACCESSORI E MOBILIO. 5: GIUDIZI ESTETICO-EMOTIVI. 6: EMOZIONI SPECIFICHE. 7: PERSONE E ANIMALI PRESENTI. 8: LA STORIA DELLA CASA. 9: DETTAGLI SIGNIFICATIVI. 10: AZIONI. 11: DESIDERI. Per la valutazione della prova sono state considerate due variabili: “n° totale di categorie” (ottenibile contando il numero delle categorie a cui appartenevano le idee elencate dal bambino) e “n° totale di idee” (somma di tutte le idee prodotte dal bambino indipendentemente dalla categoria di appartenza). Prova di Riordinamento di Frasi Nella Prova di Riordinamento di Frasi (Sketchy planning) ai bambini era richiesto di disporre, secondo un ordine logico, le frasi di un testo presentate in modo disordinato. Si trattava di sette frasi tratte da un brano di carattere scientifico riguardante una particolare caratteristica delle ali delle farfalle. La scelta di un testo argomentativo, piuttosto che narrativo, ha reso la prova un po’ più complessa, in quanto il bambino
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doveva pensare all’organizzazione ideale del testo, piuttosto che a un semplice riordinamento di fatti. Per la valutazione della prova si è considerato il numero di riordinamenti corretti, ottenuti contando il numero di frasi che rispettavano la sequenza ottimale del brano. Fluenza Categoriale È una prova tratta dalla Batteria di Test BVN 5-11 (Bisiacchi et al., 2005) per la valutazione neuropsicologica delle principali funzioni cognitive. La prova è composta di quattro categorie di termini: colori, animali, frutti e città. Il test è stato effettuato chiedendo al bambino di nominare quante più voci possibili per ciascuna delle quattro categorie. Il tempo massimo consentito per ogni categoria era di un minuto. Per la valutazione della prova è stata controllata la correttezza delle risposte date, cioè che tutte le parole dette dal bambino esistessero e appartenessero alla categoria data, ed è stato assegnato un punto per ogni risposta corretta. Il punteggio totale è dato dagli item corretti prodotti nel tempo dato per ciascuna categoria e la somma totale. Torre di Londra (TOL) La TOL (Shallice 1982) valuta le abilità di decisione strategica e di problem solving in bambini dai 4 ai 13 anni basandosi sull’utilizzo di uno strumento costituito da tre pioli di diversa lunghezza, nei quali sono infilate tre biglie (una rossa, una verde e una blu). Il bambino deve, partendo sempre dalla stessa posizione iniziale, raggiungere le diverse configurazioni che lo sperimentatore mostra sul blocchetto utilizzando il numero di mosse che gli viene indicato. L’esaminatore registrava il tempo di decisione (dalla presentazione della figura al momento in cui la prima pallina era completamente estratta dal bastoncino) e il tempo totale (quando il bambino diceva stop, compreso il tempo di decisione). Erano ammessi tre tentativi per risolvere ogni problema. Il test è stato somministrato in una solo seduta; con i bambini di tutte le età si iniziava dal problema di esempio e si somministravano tutti i 12 item a meno che il bambino dimostrasse di non essere in grado di risolvere il problema di esempio. Nel protocollo di registrazione venivano riportati il punteggio totale delle risposte corrette, le mosse eseguite dal bambino in ciascun tentativo, la violazione di regole, il tempo di decisione, il tempo totale e il tempo di esecuzione (dal tempo totale veniva sottratto il tempo di decisione). Dopo aver codificato le risposte corrette e la tipologia degli errori, si procedeva al calcolo del punteggio di correttezza: ogni problema si considerava risolto solo se effettuato con il numero di mosse indicato. Se il problema era risolto al primo tentativo venivano attribuiti 3 punti; al secondo tentativo 2 punti; al terzo tentativo 1 punto; in tutti gli altri casi erano attribuiti 0 punti. Il “punteggio totale” massimo era 36. Questo parametro ha fornito una misura della capacità di pianificare, cioè di predisporre una procedura finalizzata al raggiungimento di un obiettivo e di controllare l’effettuazione della procedura stessa fino al
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risultato ottenuto. La corretta esecuzione del test richiedeva al bambino un’efficiente memoria di lavoro e nelle diverse prove, l’adattamento a schemi che si opponevano a quelli precedentemente utilizzati, inibendo risposte perseverative. Risultati Correlazioni tra “Prova della casa” e gli altri strumenti Come si può notare dalla Tab. 2 la Prova della Casa presenta una correlazione moderata con la prova di Fluenza Categoriale (r =.356 p<.01). Questo risultato, comunque modesto, ci fa supporre che un bambino con un punteggio elevato nella prova di Fluenza Categoriale produce una varietà maggiore di idee nella Prova della Casa. Una seconda serie di correlazioni riguarda la Prova della Casa con le componenti quantitative e qualitative della Prova di Scrittura Spontanea. Le due prove correlano discretamente per le variabili “numero totale di parole” e “numero totale di frasi”, rispettivamente r =.425 p<.01 e r =.409 p<.01. Questo risultato conferma l’ipotesi che un bambino che produce molte idee su un determinato argomento scrive testi più lunghi. Infine non emergono dati significativi nella correlazione tra la Prova della Casa e il PMA. Questo ci fa supporre che al bambino non è necessario avere un vocabolario ricco, ampio e ricercato per produrre un maggior numero di categorie su un argomento che appartiene alla propria quotidianità, mentre una buona padronanza del lessico sembra aiutare il bambino nel produrre più elementi di una categoria.
Tabella 2. Fluenza Categoriale
Prova della Casa
r =.356 p<.01
Prova di Scrittura Spontanea di Narrazione
Prova di Scrittura Spontanea di Narrazione
(n° totale parole)
(n° totale di frasi)
r =.425 p<.01
r =.409 p<.01
Correlazioni tra “Prova di Riordinamento di Frasi” e gli altri strumenti Una prima correlazione riguarda la Prova di Riordinamento di Frasi con la Torre di Londra (TOL) nelle sue distinte variabili (vedi Tab.3). È emerso che la prova di riordinamento correla in maniera significativa solo con la variabile “tempo di decisione” nella TOL (r =.294 p<.05). Una seconda serie di correlazioni è stata calcolata fra la Prova di Riordinamento di Frasi e le componenti qualitative e quantitative della Prova di Scrittura Spontanea. In generale le due prove non correlano in quasi nessun aspetto, ad eccezione della
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variabile grammatica (r =.337 p<.01). Il risultato ci porta a pensare che la Prova di Riordinamento di Frasi mette in gioco un’abilità specifica legata alla capacità di cogliere nessi grammaticali, ma non altre abilità coinvolte nel processo di scrittura.
Tabella3.
Riordinamento di Frasi
TOL (Tempo di Decisione)
Prova di Scrittura Spontanea di Narrazione (Grammatica)
r =.294 p<.05
r=.333 p<.05
Confronti fra i gruppi Successivamente si è deciso di fare dei confronti tra i risultati dei tre gruppi nelle diverse prove. I risultati più importanti hanno riguardato soprattutto le prove create “ad hoc”. Per quanto riguarda la Prova Riordinamento di Frasi, dall’analisi delle medie dei gruppi è emerso che il gruppo ADHD+DSA ha prestazioni inferiori rispetto agli altri due gruppi. L’ANOVA univariata riporta un effetto principale significativo [F(2,57)=3,616 p<.05 ]. In particolare dai confronti post hoc vi è una differenza significativa (p=.035) tra il gruppo ADHD+DSA e il gruppo CTRL. Questo risultato conferma la debolezza del gruppo ADHD con il DSA in quanto ad una scarsa capacità attentiva si aggiunge una difficoltà scolastica che potrebbe penalizzare la performance anche in questo compito. Figura 1.
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Per quanto riguarda la produzione di idee in un primo confronto abbiamo comparato i tre gruppi nella Prova della Casa. Per quanto riguarda la variabile “n° totale di categorie” l’ANOVA univariata non ha differenze significative tra i gruppi. Anche la variabile “n° totale di idee” riporta il medesimo risultato. Nei limiti in cui possiamo considerare la prova valida, si può concludere che, se il testo dei bambini con problemi è più povero non sembra quindi dovuto ad una mancanza di idee. Figura 2.
Figura 3.
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Abbiamo comparato i tre gruppi nelle diverse variabili della Prova di Scrittura Spontanea. Lâ&#x20AC;&#x2122;ANOVA univariata ha evidenziato che esistono delle differenze significative tra i gruppi per le variabili quantitative quali percentuale errori totali [F(2,57)= 7,57 p<.05 ] e percentuale ripetizioni [F(2,57)= 3,83 p<.05 ] e per le variabili qualitative quali impressione globale [F(2,57)= 3,44 p<.05 ], lessico [F(2,57)= 4,20 p<.05 ], grammatica [F(2,57)= 3,51 p<.05 ] e morfosintassi [F(2,57)= 4,87 p<.05 ]. Dai confronti post hoc tra i gruppi emerge che, per ogni singola variabile sopraelencata, il gruppo ADHD+DSA ha prestazioni significativamente inferiori rispetto agli altri due gruppi, mentre non vi sono differenze tra ADHD e CTRL.
Figura 4.
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Figura 5.
Conclusioni L’intento di questa ricerca è stato quello di apportare un piccolo contributo allo studio dell’ ADHD in relazione alle difficoltà di scrittura. Nel corso degli anni numerose ricerche hanno indagato i vari aspetti di questo disturbo, ma, per varie ragioni, la relazione con le difficoltà di scrittura sembra essere un aspetto ancora poco studiato (Ross et al., 1995; Resta et al., 1994). Nell’ambito relativo al ADHD e alla sua relazione con i DSA le ricerche hanno da una parte privilegiato lo studio delle comorbilità, dall’altro si sono focalizzate su alcune abilità come la lettura, piuttosto che altre come la scrittura. In particolare la scelta di indagare l’espressione scritta, rispetto agli altri possibili aspetti della scrittura, è dovuta al fatto che in questo tipo di attività vengono coinvolte funzioni esecutive quali la pianificazione e la produzione di idee. È proprio in questo tipo di processi che si richiedono al bambino il massimo sforzo cognitivo e attentivo. Lo scopo della ricerca era di indagare il tipo di relazione esistente tra l’ ADHD e le abilità di scrittura in bambini dagli 8 ai 10 anni, ossia da quando il bambino inizia a produrre testi (3° anno scuola primaria), fino a quando (5° anno scuola primaria) dovrebbe avere acquisito le abilità di base. In particolare si è deciso di focalizzarsi su due funzioni esecutive, la pianificazione e la produzione di idee, entrambe coinvolte nell’espressione scritta. Nel processo di scrittura in una prima fase fondamentale si possono individuare tre momenti: la generazione di idee, attraverso il recupero dalla memoria di informa-
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zioni rilevanti per l’esecuzione del compito; l’organizzazione che riguarda la scelta e la disposizione delle idee generate dalla memoria; e il porsi degli obiettivi, ossia quei criteri utili alla valutazione del testo che accompagnano la generazione di idee e che saranno poi utilizzati nella revisione. È proprio nella pianificazione e nella produzione di idee che si richiedono al bambino il massimo sforzo cognitivo e attentivo: ci si aspettava quindi di incontrare in questo tipo di lavoro maggiori difficoltà da parte di bambini con ADHD, aggravate dall’eventuale presenza di difficoltà scolastiche (ADHD+DSA). In un’indagine preliminare si è osservato se le prove considerate correlassero tra loro: in primo luogo la Prova della Casa correla moderatamente con la Prova di Fluenza Categoriale. Sia la prova di Fluenza Categoriale, di tipo orale, sia la Prova della Casa, di natura scritta, richiedono al bambino il recupero dalla memoria di informazioni rilevanti per l’esecuzione del compito; il fatto che le due prove correlino fa supporre che se un bambino ottiene un punteggio elevato nella Prova di Fluenza Categoriale produce una maggiore varietà di idee nella Prova della Casa. In secondo luogo la Prova della Casa sembra non correlare significativamente con il PMA, lasciando supporre che al bambino non è necessario avere un vocabolario ricco, ampio e ricercato per produrre un maggior numero di categorie su un argomento che appartiene alla quotidianità. La valutazione della Prova della Casa prevedeva, infatti, il conteggio del numero di idee prodotte dal bambino e non la qualità espressiva o la padronanza di vocabolario del bambino stesso. D’altro canto una buona padronanza del lessico sembra, invece, aiutare il bambino nel produrre più elementi di una categoria della Prova di Fluenza Categoriale così come si evince da una discreta correlazione tra questa prova neuropsicologica e il PMA. Per quanto riguarda la correlazione tra la Prova di Scrittura Spontanea e la Prova della Casa, le due prove correlano nelle variabili quantitative “numero totale di parole” e “numero totale di frasi” confermando che un bambino che produce molte idee su un determinato argomento scrive testi più lunghi. Per quanto riguarda la Prova di Riordinamento di Frasi si è osservato che questa correla moderatamente con la variabile “Tempo di decisione” della Torre di Londra: questo fa supporre che, se quest’ultimo è elevato, il bambino riordina più correttamente le frasi perché riflette maggiormente. Infatti, la Prova di Riordinamento di Frasi, poiché consisteva in un testo argomentativo di carattere scientifico privo di chiari facilitatori grammaticali per il riordinamento, richiedeva al bambino una notevole capacità riflessiva: quest’ultimo doveva leggere tutte le frasi del protocollo e pianificare la sequenza tenendo conto della organizzazione ottimale richiesta a un testo. Per quanto riguarda la correlazione tra la Prova di Scrittura Spontanea e la Prova di Riordinamento di Frasi, le due prove non correlano in quasi nessun aspetto, ad eccezione della variabile “grammatica”: il risultato ci porta a pensare che la Prova “ad hoc” mette in gioco un’abilità specifica legata alla organizzazione del testo, ma non altre abilità della scrittura. Nella Prova di Riordinamento di Frasi è richiesta al bambino una buona capacità di lettura e di comprensione, oltre che di riordinamento, mentre restano in secondo piano la capacità di scrivere e tutte le variabili valutate nella prova di Scrittura Spontanea.
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I confronti delle prestazioni tra i due gruppi sperimentali (ADHD e ADHD+DSA) e il gruppo di controllo (CTRL) hanno messo in luce alcuni risultati interessanti. Mettendo a confronto i tre gruppi nella Prova Riordinamento di Frasi, è emerso che il gruppo ADHD+DSA ha prestazioni inferiori rispetto agli altri due gruppi. Questo risultato conferma la debolezza del gruppo ADHD con DSA in quanto ad una scarsa capacità attentiva si aggiunge una difficoltà scolastica che potrebbe penalizzare la performance anche in questo compito. Meno evidenti sono invece le differenze nelle prove che misurano aspetti specifici della scrittura. Visti i risultati ottenuti, e poiché solo recentemente gli studiosi se ne sono occupati, è auspicabile che in futuro si approfondisca il rapporto esistente tra le Abilità di Scrittura e il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività con o senza comorbilità con i Disturbi Specifici dell’Apprendimento. L’attività di scrittura, infatti, è uno strumento concettuale che può aiutare gli studenti ad analizzare, interpretare e comunicare concetti complessi, ragionamenti ed idee. Inoltre, migliorare la produzione dei testi scritti fin dai primi anni di scolarizzazione può senza dubbio avere ricadute positive su molte aree dell’apprendimento scolastico; infatti lo studente che scrive bene è decisamente avvantaggiato nella sua carriera scolastica rispetto allo studente che incontra difficoltà nella scrittura. Riassunto Tra le numerose difficoltà scolastiche in cui possono imbattersi gli alunni con ADHD rientra la produzione testuale; questo aspetto, per quanto importante, non ha ricevuto dalla letteratura internazionale l’attenzione che merita. Da questa considerazione nasce l’interesse per l’ADHD in rapporto alla produzione testuale che risulta in questi alunni deficitaria per numero di errori ortografici, coerenza e coesione del testo, produzione di idee e capacità di pianificazione. In particolare, la scelta di indagare l’espressione scritta, rispetto agli altri possibili aspetti della scrittura, è dovuta al fatto che in questo tipo di attività vengono coinvolte funzioni esecutive quali la pianificazione e la produzione di idee. Il lavoro presenta uno studio che ha esplorato in un gruppo di bambini ADHD le abilità di pianificazione (con il test della Torre di Londra) e di fluenza semantica (con un test di generazione di esemplari di categoria) e la loro relazione con la pianificazione e generazione di idee durante l’elaborazione di testi. Parole chiave Scrittura – Fluenza – Pianificazione – ADHD.
Bibliografia Barkley R.A., Du Paul G.J., Mcmurray M.B. (1990), Comprehensive evaluation of attention deficit disorder with and without hyperactivity as defined by research criteria, Journal of Consulting and Clinical Psychology, 58: 775-789. Bereiter C., Scardamalia M. (1987), The psychology of written composition, Hillsdale, Erlbaum [trad. it. Psicologia della composizione scritta, Firenze, La Nuova Italia, 1995]. Bisiacchi P.S. Et Al. (2005), Batteria di Valutazione Neuropsicologica per l’età evolutiva,Trento, Erickson.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 102-116
La comprensione del testo orale nel Disturbo Specifico del Linguaggio: il ruolo del vocabolario recettivo e della comprensione della frase Listening text comprehension in Specific Language Impairment: The role of receptive vocabulary and sentence comprehension Maria Chiara Levorato*, Maja Roch*, Elena Florit*
Summary The aim of the current study was to investigate listening text comprehension in a group of preschool children with expressive SLI and to compare it with a group of typically developing children. Group differences in the specific contribution of receptive vocabulary and sentence comprehension to text comprehension were investigated. Twenty nine children with expressive SLI, aged 4 to 6 years, and 46 typically developing children matched for age and sentence comprehension were presented with 3 language comprehension tasks that evaluated respectively receptive vocabulary, sentence and text comprehension. The results indicated that the two groups, matched for age and sentence comprehension, have similar levels in listening text comprehension. Group differences were found also as far as the contribution of receptive vocabulary and sentence comprehension to listening text comprehension is concerned: while receptive vocabulary provided a specific and similar contribution to text comprehension in both groups, sentence comprehension provided a greater contribution in the group with SLI than in the group with typical development. The results are discussed for their theoretical and practical relevance in relation to the studies of text comprehension in typical an atypical development. Key Words Specific Language Impairment – Listening text comprehension – Receptive vocabulary – Sentence comprehension.
Introduzione Il DSL è una condizione caratterizzata dalla presenza di difficoltà riguardanti l’area del linguaggio in assenza di altri deficit neurologici o di disturbi psichiatrici, di deficit sensoriali o di condizioni ambientali svantaggiate (Van der Lely, Rosen e McClelland, 1988). La natura e le origini del disturbo sono tuttora oggetto di dibattito (Leonard, 1998; Ullman e Pierpont, 2005; Gathercole e Baddeley, 1990), ma trattandosi di un disturbo che si presenta in varie forme e livello di gravità, è possibile *
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova.
LA COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE NEL DSL
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che diversi meccanismi causali siano coinvolti nel suo manifestarsi. Nell’ampia variabilità che caratterizza il Disturbo Specifico del Linguaggio, è possibile individuare dei sottotipi, sulla base delle gravità del disturbo e delle aree del linguaggio colpite. La forma più severa è quella in cui sono compromesse sia la comprensione e la produzione linguistica (Disturbo Specifico del Linguaggio di tipo recettivo - espressivo). Nel Disturbo Specifico del Linguaggio espressivo è compromessa solo la produzione linguistica, a livello prevalentemente fonologico o anche morfosintattico: in presenza di questo disturbo il bambino ha prestazioni molto inferiori alla norma in compiti di produzione linguistica, mentre la comprensione si colloca entro una deviazione standard sotto la norma (Chilosi, Cipriani, Fapore, 2001; Conti-Ramsden e Botting, 1999, Rapin, 1996; Rapin, Allen e Dunn, 1992). Il presente studio ha riguardato la capacità di comprensione di testi in bambini con disturbo espressivo, confrontati con bambini con sviluppo tipico, ed ha analizzato il ruolo che il vocabolario recettivo e la comprensione della frase svolgono nella comprensione del testo. Perché studiare la comprensione del testo, e le capacità sottostanti che la rendono possibile? In effetti, le componenti del linguaggio che generalmente vengono presi in considerazione sono la fonologia, il lessico e la morfosintassi, mentre sono del tutto trascurati gli aspetti della testualità. Questa è una lacuna importante se si considera che la comunicazione umana avviene non tanto attraverso parole o frasi isolate dal contesto comunicativo, ma attraverso testi e discorsi. Lo studio dell’analisi della comprensione del testo è motivato da diversi fattori, fra cui fattori clinici, educativi e di ricerca. La rilevanza clinica ed educativa si riferisce principalmente all’importanza che la comprensione del testo riveste nella comunicazione umana in generale e, nella trasmissione di conoscenze scolastiche, in particolare. La maggior parte del patrimonio di conoscenze che si vengono a formare nel corso della nostra vita proviene da testi, siano essi orali, scritti o audiovisivi. Pertanto, una difficoltà nella comprensione dei testi orali o scritti, un’incapacità di coglierne i significati rilevanti e tenerli in memoria in una forma organizzata che consenta la rievocazione, costituiscono un serio impedimento alla formazione delle conoscenze. Da questa prospettiva, quindi, è fondamentale essere in grado di misurare la comprensione del testo nei bambini affetti da Disturbo Specifico del Linguaggio, sia per programmare un trattamento adeguato, sia per interpretare e modificare un eventuale insuccesso scolastico. D’altra parte, uno degli obiettivi fondamentali della ricerca dedicata alla comprensione del testo nei bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio (Crais e Chapman, 1987; Bishop e Adams, 1992; Bishop e Donlan, 2005), ed anche il più problematico, è quello di chiarire se eventuali difficoltà nella comprensione del testo siano totalmente riconducibili ai deficit linguistici a livello della frase e della parola, o abbiano invece una specificità propria del livello testuale (Bishop, 1997). Se questa ultima è la risposta, si aprono una serie di questioni che richiedono di riflettere sulla natura dei processi sottostanti alla comprensione del testo, e su quali siano le componenti in gioco nell’elaborazione cognitiva di materiale linguistico complesso quale è il testo.
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I lavori condotti nel corso degli ultimi 30 anni sono abbastanza concordi nel ritenere che nel Disturbo Specifico del Linguaggio la comprensione del testo sia piuttosto compromessa (per una rassegna vedi Jacob, Levorato e Roch, 2008). Tuttavia, diverse considerazioni di carattere metodologico suggeriscono di prendere con cautela questa conclusione. In primo luogo questi studi hanno considerato bambini che presentavano uno spettro disomogeneo di disturbi, sia dal punto di vista della gravità, sia da quello della quantità di aree compromesse dal disturbo. In secondo luogo, i risultati ottenuti sono scarsamente generalizzabili a causa delle diverse procedure di appaiamento adottate: i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio sono stati appaiati a bambini con sviluppo tipico a volte per età mentale, o cronologica, altre volte per qualche abilità linguistica, quali il vocabolario recettivo o la capacità di comprendere frasi. Inoltre, la maggior parte degli studi ha analizzato la comprensione di storie attraverso compiti di rievocazione di storie ascoltate oppure presentate per mezzo di figure: in ogni caso la prova di comprensione coinvolgeva anche capacità di espressione, che per definizione sono più o meno compromesse in tutti i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio, oscurando in tal modo le effettive capacità di comprensione, che potrebbero essere state notevolmente sottostimate. Per queste ragioni non è facile trarre conclusioni definitive e delineare un quadro chiaro e completo sulle capacità di comprensione del testo nel Disturbo Specifico del Linguaggio. Il presente studio costituisce un primo tentativo di ovviare ad alcune delle limitazioni ora esposte. Infatti, sono state analizzate le capacità di comprensione del testo in un gruppo di bambini omogenei per tipo di disturbo del linguaggio, ossia DSL espressivi, attraverso la somministrazione di un test che non coinvolgeva capacità espressive, e sono state confrontate con quelle possedute da bambini con sviluppo tipico della stessa età cronologica e la stessa capacità di comprensione di frasi. Inoltre, si è scelto di indagare bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni, un range di età piuttosto limitato che consentirà di esaminare un gruppo sufficientemente omogeneo di bambini dal punto di vista delle esperienze e del livello di Disturbo Specifico del Linguaggio lo sviluppo del linguaggio, ed i deficit che si manifestano, variano nel tempo riguardo alla gravità, alla persistenza e al numero degli aspetti del linguaggio che risultano compromessi (Caselli, Monaco, Trasciani e Vicari, 2008). Lo studio della comprensione del testo presenta delle complessità perché è un processo molto articolato, al quale concorrono diverse abilità e conoscenze componenti. Lo studio del ruolo delle diversi componenti del processo di comprensione, delle quali la letteratura si è occupata diffusamente, ha portato ad identificarne il contributo specifico e unico e a riconoscere le cause che portano alcuni bambini ad avere scarse capacità di comprensione del testo (per una rassegna si veda Cain e Oakhill, 2007). In genere, si distingue tra componenti di basso livello e componenti di alto livello. Queste ultime si riferiscono a processi cognitivi, soprattutto i processi inferenziali, che consentono di integrare i significati testuali tra di loro e con le conoscenze precedenti, allo scopo di costruire una organizzazione del testo e una rappresentazione semantica integrata delle informazioni esplicite e di quelle implicite (Levorato e Nesi, 2001; Cain e Oakhill, 1999; 2001). Tra i processi di basso livello, invece, si annoverano la capacità di riconoscere le parole e il loro significato – che è
LA COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE NEL DSL
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un processo che rinvia alle conoscenze lessicali e all’organizzazione dei significati nel sistema semantico – e la comprensione di indici morfosintattici della frase (Seigneuric, Ehrlich, Oakhill e Yuill, 2000). Il ruolo del vocabolario si è dimostrato cruciale per la comprensione del testo nei bambini con sviluppo tipico (Cunningham, 2005; Nagy e Scott, 2000) ed è ritenuto uno dei più importanti predittori. Viceversa, per il ruolo della comprensione di frasi sulla comprensione del testo, i risultati ottenuti finora sono meno univoci: alcuni studi hanno evidenziato un contributo specifico della comprensione di frasi per la comprensione del testo e hanno dimostrato che le difficoltà nella comprensione del testo sono da mettere in relazione a difficoltà nella comprensione della frase. Altri studi, invece, non hanno rilevato una relazione sistematica, e comunque, se pure la comprensione della farse svolge un ruolo, esso è senz’altro minore rispetto a quello che viene riconosciuto al vocabolario recettivo (Dufva, Niemi e Voeten, 2001; Long, Oppy e Seely, 1997; Cain e Oakhill, 2007). L’interesse di questo approccio multi-componente allo studio della comprensione del testo in uno studio che coinvolge bambini con disturbi del linguaggio è che le eventuali difficoltà in qualche componente – sia essa di alto o di basso livello, sia che coinvolga abilità o conoscenze o processi – hanno ripercussioni sull’esito del processo di comprensione del testo. Dunque, qualora si verifichino delle difficoltà nella comprensione del testo è particolarmente rilevante individuare a quale/i componenti essa possa essere ricondotta. Un’analisi esaustiva di tutte le componenti non è mai possibile: l’oggetto di studio del presente lavoro è stato il ruolo del vocabolario recettivo e della comprensione della frase, due componenti linguistiche di basso livello che per la prima volta, sono state qui analizzate in riferimento alla comprensione del testo orale in bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio in età prescolare. Questi partecipanti sono stati appaiati a bambini con sviluppo tipico aventi un analogo livello di comprensione di frasi. La comprensione della farse è stata scelta come criterio linguistico per l’appaiamento in quanto questo era un criterio molto conservativo: in genere la morfosintassi è l’aspetto più deficitario nel bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio, e dunque se i bambini con DSL avevano sia la stessa età che lo stesso livello di comprensione delle frase, si aveva la certezza che si trattava di bambini che non avevano difficoltà a livello recettivo. Uno studio sulla comprensione del testo nei bambini con DSL espressivo, che quindi non hanno delle difficoltà a livello di comprensione, e sul ruolo svolto da capacità linguistiche di base, permette di chiarire due questioni finora non affrontate. La prima è se anche un livello di comprensione complesso come quello testuale sia preservato in questo tipo di disturbo, oppure se trattandosi di un’abilità complessa alla quale partecipano diverse abilità componenti, si manifesti un certo ritardo, pur in assenza di altri difficoltà nella comprensione. La seconda questione è se il contributo specifico che in presenza di questo disturbo si manifesta da parte della conoscenza delle parole e della comprensione delle frasi, emerga un profilo simile a quello dei bambini con sviluppo tipico oppure si evidenzino delle differenze significative rispetto a quanto accade in bambini con sviluppo tipico. In sintesi, gli scopi del presente studio erano:
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1. Individuare il livello di sviluppo della comprensione del testo nel Disturbo Specifico del Linguaggio espressivo in età precoce, usando uno strumento che non coinvolge abilità espressive. Due sono i possibili esiti di questo confronto. Il primo è che anche usando un compito che richiede solo la comprensione del testo e non una capacità di usare il linguaggio nella sua funzione espressiva, i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio si rivelino inferiori a bambini con sviluppo tipico, come sembra suggerire la letteratura sull’argomento. Questo significherebbe che il testo, essendo un materiale Disturbo Specifico del Linguaggio, indipendenti dalla modalità con cui la comprensione viene valutata, nonostante nelle altre dimensioni dello sviluppo linguistico questi bambini non siano significativamente inferiori ai loro coetanei. Alternativamente, se i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio espressivo si mostrassero analoghi ai loro coetanei per quanto riguarda la loro capacità di comprensione del testo, ciò significherebbe che la dimensione testuale si allinea alle altre dimensioni del linguaggio che non sono compromesse nell’aspetto recettivo. 2. Identificare il ruolo che abilità linguistiche di base, quali il vocabolario recettivo e la comprensione di frasi esercitano sulla capacità di comprendere testi. Anche rispetto a questo scopo era cruciale il confronto tra bambini con DSL e bambini con sviluppo tipico. Questi ultimi sono stati appaiati per età cronologica e per livello di comprensione della frase. La scelta di questo criterio di appaiamento si basa sulla considerazione che generalmente lo sviluppo morfosintattico rappresenta un punto di debolezza nel Disturbo Specifico del Linguaggio e dunque l’appaiamento simultaneo per età cronologica e livello di comprensione della frase costituiva una garanzia che il disturbo riguardasse esclusivamente l’aspetto della produzione linguistica. Dunque, la questione era se si sarebbero rilevate delle differenze di gruppo nella relazione tra capacità linguistiche di base e comprensione del testo. Se i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio sono analoghi in questa relazione ai bambini con sviluppo tipico, allora si dovrebbe trovare lo stesso dato che generalmente emerge nello sviluppo tipico, in cui il contributo fornito dal vocabolario recettivo alla comprensione del testo è più forte rispetto al contributo fornito dalla comprensione di frasi (Cain e Oakhill, 2007). Se viceversa, i bambini con DSL espressivi presentano un profilo atipico anche nella comprensione, oltre alla produzione linguistica, la presente analisi mostrerà quali siano le differenze rilevanti tra sviluppo tipico e Disturbo Specifico del Linguaggio per quanto riguarda il profilo linguistico sottostante alla comprensione del testo. Metodo Partecipanti Hanno partecipato allo studio i bambini seguiti dal servizio di foniatria della USSL di Padova: sono stati invitati a partecipare i bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni, con una diagnosi di disturbo espressivo e capacità di comprensione linguistica entro una deviazio-
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ne standard rispetto alla norma. Ventinove bambini soddisfacevano i requisiti. Tutti erano monolingui di lingua Italiana. L’età media era di 5 anni e 6 mesi (deviazione standard pari a 6 mesi). Nessuno di essi aveva disabilità fisiche o difficoltà di ordine psicologico. Tutte le famiglie interpellate hanno accettato di partecipare allo studio; la provenienza socioculturale era varia, da bassa a medio-alta. I partecipanti con Disturbo Specifico del Linguaggio sono stati appaiati ad un gruppo di bambini con sviluppo tipico della stessa età e di pari livello di comprensione della frase, valutato attraverso il test di Comprensione Linguistica (Rustioni, 1994, vedi la sezione Materiale per i dettagli sul test). Alla prova di valutazione di comprensione di frasi, i bambini con sviluppo tipico hanno riportato un punteggio pari a 47 (DS = 1.5) e le prestazioni medie di questo gruppo non differiscono da quelle del gruppo con Disturbo Specifico del Linguaggio che hanno ottenuto un punteggio medio di 50 (DS = 2.1) [t (54)=.661, p=.541). I bambini del gruppo di controllo frequentavano scuole dell’infanzia del veneto ed erano di provenienza socioeconomica diversificata. La loro età media era di 5 anni e 6 mesi, con una deviazione standard di 7 mesi. L’età di questo gruppo di bambini è uguale a quella del gruppo con Disturbo Specifico del Linguaggio [t (54)=.043, p =.945]. Secondo le indicazioni di Mervis e collaboratori (2004) un valore di p >.50 indica che la procedura di appaiamento è adeguata e dunque i due gruppi di bambini si possono ritenere omogenei sia per età che per capacità di comprendere frasi.
Materiale e Procedura Prova di comprensione del testo orale (TOR 3-8 anni, Levorato e Roch, 2007) Il TOR 3-8 valuta la comprensione del testo in bambini/e dai 3 agli 8 anni; è stato standardizzato su un campione italiano di 1700 bambini e bambine, ed è adatto anche ad essere utilizzato in popolazioni atipiche, come quella dei bambini affetti da Disturbo Specifico del Linguaggio. Consiste in tre forme appropriate a diverse fasce d’età, ciascuna composta da due brevi storie: la Forma A è adatta a bambini/e di età compresa tra 3 anni e 4,5 anni, la Forma B è per bambini/e di età compresa tra 4,6 anni e 5,11 anni, la Forma C per bambini/e di età compresa tra 6 anni e 8 anni. La complessità dei testi proposti aumenta da una Forma all’altra sia in termini di lessico, sia in termini di struttura frasale, sia in termini di conoscenze pregresse richieste per la comprensione, sia, infine, per la natura degli scopi dei protagonisti delle storie che diventano via via più complessi e coinvolgono un numero crescente di azioni e di relazioni tra i personaggi. La lettura delle storie da parte dell’adulto che somministra il test è accompagnata da domande di comprensione a scelta multipla a ciascuna delle quali corrispondono quattro alternative di risposta, ovvero 4 figure che vengono nominate ed indicate una ad una da chi somministra il test. Il bambino deve indicare quale, fra le quattro figure, rappresenta la risposta corretta. Questa procedura consente di rilevare la comprensione del testo attraverso una metodologia che non implica l’uso di abilità espressive. Ogni storia è corredata da dieci domande di comprensione: la metà valuta la comprensione di informazioni contenute in modo esplicito nel testo – domande testuali – e l’altra metà valuta la comprensione di informazioni che non sono esplicitate ma sono ricavabili attraverso processi inferenziali – domande inferenziali. Ciascuna storia è formata da tre paragrafi: la lettura ad alta voce da parte dell’adulto si interrompe alla fine di ciascun paragrafo e a quel punto vengono poste le domande di com-
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prensione. Dunque, le domande poste alla fine di ciascun paragrafo riguardano informazioni più o meno esplicite, fornite o suggerite nel paragrafo immediatamente precedente. Per ogni risposta corretta viene assegnato un punto, il punteggio totale è costituito dalla somma delle risposte corrette. I punteggi grezzi sono stati poi trasformati in punteggi standardizzati, con media 10 e deviazione standard 2. A tutti i bambini partecipanti alla ricerca è stato somministrato il test TOR 3-8 nella forma adatta all’età. Peabody: Picture vocabulary test-revised (adattamento italiano a cura di Stella, Pizzoli e Tressoldi, 2000) Il test è standardizzato su bambini di età compresa tra i 3 anni e i 12 anni e valuta il vocabolario recettivo. La procedura di somministrazione prevede che l’esaminatore pronunci delle parole di decrescente frequenza d’uso e che il soggetto scelga tra quattro disegni in bianco e nero, quello che rappresenta la parola detta dallo sperimentatore. La somministrazione prosegue fino a quando il bambino sbaglia sei item su otto consecutivi. Il punteggio è dato dalla somma di risposte corrette. Prova di comprensione linguistica (Rustioni, 1994) È un test standardizzato su una vasta popolazione di bambini italiani suddiviso in 8 protocolli per diverse fasce di età a partire dai 3 fino agli 8 anni di età. Lo strumento consente di determinare in modo accurato la comprensione di frasi contenenti strutture morfosintattiche di diverso grado di complessità. La somministrazione prevede che il soggetto indichi, tra quattro disegni, quello corrispondente alla frase che viene pronunciata dallo sperimentatore. Il punteggio va da 0 a 100.
Risultati Il primo scopo del lavoro era quello di individuare il livello di comprensione del testo in bambini di età prescolare con diagnosi di Disturbo Specifico del Linguaggio espressivo attraverso un test che non coinvolge il linguaggio espressivo. Il punteggio medio ottenuto da questo gruppo di bambini è risultato adeguato alla loro età, rispetto alla norma. Solo 5 bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio (pari al 17%) hanno riportato un punteggio pari a 8, che corrisponde ad una deviazione standard sotto la media e solo 2 bambini hanno riportato un punteggio pari a 7 o inferiore, che corrisponde a 1,5 deviazioni standard al di sotto della prestazione adeguata all’età, che è considerato dagli autori un livello di prestazione che segnala una difficoltà di comprensione (vedi Levorato e Roch, 2007). Tramite il t test sono state DSL e bambini con sviluppo tipico- ed è emerso che i due gruppi non si sono differenziati nella prestazione al TOR 3-8 [t (54) =.56, p =.672]: i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio hanno riportato un punteggio medio di 10.03 (DS = 1.5) a fronte di un punteggio di 10.31 (DS = 2.1) riportato dai bambini con sviluppo tipico. Poiché i bambini con DSL erano appaiati ai bambini con sviluppo tipico sulla comprensione della frase, si può anche concludere che la loro capacità di comprensione del testo è adeguata al loro livello di comprensione delle frase. Il secondo scopo dell’indagine era di individuare le relazione tra la capacità di comprensione del testo e le abilità linguistiche di base. La tabella 1 riporta le corre-
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lazioni tra i tre compiti, in ciascuno dei due gruppi, che valutano rispettivamente la comprensione della parola, della frase e del testo. Sono state calcolate le correlazioni di Pearson, a una coda, ed è stata applicata la correzione di Bonferroni per confronti multipli: di conseguenza il livello di significatività è pari a 0.05/3, ossia 0.016. Da questa analisi emerge che in entrambe i gruppi la comprensione del testo correla sia con la comprensione della frase che con il vocabolario recettivo. Nei bambini con DSL è assente la correlazione tra vocabolario recettivo e comprensione delle frase, una relazione significativa invece nel gruppo di bambini con sviluppo tipico. Questo dato suggerisce che nei bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio si manifesti un profilo atipico per quanto riguarda le relazioni tra i diversi aspetti che qualificano l’acquisizione del linguaggio. Per analizzare più a fondo questo dato, era necessario individuare lo specifico contributo che il vocabolario recettivo, da un lato, e la comprensione della frase, dall’altro lato, forniscono alla capacità di comprendere un testo, e confrontare questo contributo nei due gruppi di partecipanti. L’analisi condotta, una regressione lineare multivariata, con metodo per passi, consente di stabilire se la prestazione ad una prova è predittiva della prestazione ad un’altra prova. È un’analisi più informativa della semplice analisi correlazionale perché dice in che misura una certa abilità è coinvolta in un’altra abilità, ossia la predice. Nel nostro caso, le abilità di cui si vuole stabilire il peso sulla capacità di comprensione del testo sono il vocabolario recettivo e la comprensione della frase. Dunque, la variabile dipendente dell’analisi della regressione è la prestazione nella prova di comprensione del testo, e i due predittori che entrano nell’analisi in passi separati e con un ordine diverso sono il vocabolario recettivo e la comprensione di frasi. Pertanto, in una prima analisi entra prima il vocabolario recettivo e in seguito la comprensione della frase: in questo modo si evince quanta varianza viene spiegata dalla comprensione della frase, al netto del ruolo svolto dal vocabolario recettivo: in sostanza si individua il contributo unico e specifico della capacità di comprendere frasi, indipendentemente dalla capacità di comprendere parole. In una seconda analisi, invece, l’ordine di entrata dei predittori è invertito per rilevare quanta varianza viene spiegata dal vocabolario recettivo al netto della comprensione della farse. In sintesi, ogni analisi dice qual è il contributo unico e specifico di ciascun predittore, ripulito dall’influenza delle’altro. Questa procedura si rende necessaria perché l’analisi riportata in tabella 1 dimostra che c’è una correlazione tra i due predittori. In entrambe le analisi della regressione, il fattore gruppo entra al terzo passo, per evidenziare se ci siano delle differenze tra i gruppi rispetto alla variabile dipendente, ossia la capacità di comprensione del testo. L’ultimo passo è consistito nell’introdurre l’interazione tra il gruppo e il predittore sotto esame. La domanda di ricerca cui questa analisi vuole rispondere è se ci siano delle differenze tra i due gruppi di partecipanti riguardo al contributo che ciascun predittore fornisce alla comprensione del testo. Poiché le variabili che entrano in ciascun modello della regressione sono le stesse, ossia abilità linguistiche di base – mentre varia solo l’ordine di entrata – i due modelli spiegano lo stesso ammontare di varianza, che è risultato essere pari a 35,3%1. 1
R²=.353 [F (5,72)= 7.3, p<.001
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Poiché ci sono molti altri fattori in gioco che non sono stati considerati nel presente studio, si può concludere che la varianza spiegata, oltre ad essere significativa, è anche cospicua. Di questa varianza, il 15,3%2 è da attribuire al vocabolario recettivo, al netto della comprensione della frase; quest’ultima aggiunge a questa varianza un ulteriore 6,2%3 quando inserita dopo il vocabolario recettivo. Questo vuol dire che vocabolario recettivo spiega più del doppio della varianza rispetto alla comprensione della frase. Questo risultato è in linea con gli studi precedenti sul ruolo delle conoscenze linguistiche di base nella comprensione del testo (Cain, Oakhill e Bryant, 2004). La variabile gruppo non aggiunge ulteriore varianza significativa al modello e questo significa che non ci sono differenze tra i due gruppi di partecipanti riguardo alla loro capacità di comprendere testi. L’analisi del contributo dell’interazione mostra che il vocabolario recettivo pesa sulla comprensione del testo allo stesso modo nei due gruppi: i bambini con DSL e quelli con sviluppo tipico usano alla stessa maniera la loro conoscenza delle parole per comprendere la storia. Viceversa, la capacità di comprensione della frase gioca nei due gruppi di partecipanti un ruolo diverso nell’influenzare la comprensione del testo: essa è più importante nel gruppo dei bambini con DSL rispetto ai bambini con sviluppo tipico4. Una analisi qualitativa ha ulteriormente analizzato questo risultato: le figure 1a e 1b mostrano rispettivamente la relazione esistente nei due gruppi tra vocabolario recettivo e comprensione del testo da un lato e tra comprensione della frase e comprensione del testo dall’altro. I punti indicano la posizione dei singoli soggetti e le linee indicano la direzione di tale relazione per ciascun gruppo di partecipanti. Dalla figura 1a si evince che all’aumento della conoscenza del vocabolario corrisponde un aumento della capacità di comprensione del testo e che tale aumento è analogo nei due gruppi, come evidenziato dal fatto che le due linee che intercettano la relazione sono parallele. La figura 1b mostra un pattern di risultati diverso: nel gruppo dei bambini con sviluppo tipico all’aumentare della comprensione della frase non corrisponde un aumento nella comprensione del testo, come indicato dal fatto che la linea che intercetta la relazione è quasi orizzontale. Diversamente, per i bambini con DSL, dove la linea è obliqua, all’aumentare della comprensione della frase corrisponde un aumento nella comprensione del testo. In altre parole, nel DSL la comprensione della frase entra come processo costituente della comprensione del testo, mentre nello sviluppo tipico non sembra essere questo il caso, come del resto è messo in luce da molta letteratura (per una rassegna si veda Cain e Oakhill, 2007). Discussione Lo studio aveva lo scopo di individuare il livello che viene raggiunto da bambini con DSL nella comprensione del testo e il contributo che ad esso danno il vocabolario recettivo e la comprensione della farse, comparativamente con bambini con 2
R²change=.153 [F (1,70)= 15.5, p<.001 R²change=.062 [F (1,70)= 5.1, p<.01 4 R²change=.079 [F (1,67)= 4.1, p <.05 3
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LA COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE NEL DSL
Figura 1. Relazione tra vocabolario e comprensione del testo.
Figura 2. Relazione tra comprensione di frasi e comprensione del testo.
Tabella 1. Correlazioni tra i tre compiti in ciascuno dei due gruppi: DSL (sopra la diagonale) e sviluppo tipico (Sotto la diagonale).
*p<.02
1.
2.
3.
1. Comprensione del testo
1
.456*
.398*
2. Comprensione di frasi
.293*
1
.026
3. Vocabolario recettivo
.553*
.363*
1
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sviluppo tipico. È emerso che i punti di contatto tra i due gruppi sono più sostanziosi delle differenze. Infatti, i seguenti sono i risultati principali: a) nei bambini con DSL espressivo si ottengono prestazioni nella prova di comprensione del testo adeguate rispetto all’età, e dunque del tutto analoghe a quelle dei bambini con sviluppo tipico; b) in entrambe i gruppi il vocabolario spiega e predice la comprensione del testo, ma solo nei bambini con DSL anche la comprensione delle frasi rappresenta un predittore della comprensione del testo. Tenendo a mente che ci siamo limitate ad analizzare il ruolo di capacità linguistiche di base, quali la comprensione di parole e di frasi, e che naturalmente anche altre componenti che qui non sono state analizzate entrano in gioco nel processo di comprensione del testo, analizziamo in maggior dettaglio il peso dei risultati principali del presente studio. 1. Il livello di comprensione del testo nel DSL Il risultato che i bambini con DSL avrebbero ottenuto prestazioni adeguate all’età non era completamente atteso sulla base della letteratura precedente nella quale sono state riportate frequentemente delle difficoltà ( Jacob et al., 2008). Tuttavia, è facilmente interpretabile alla luce del fatto che hanno partecipato allo studio solo bambini con DSL espressivo e che il test usato per valutare la loro comprensione non coinvolgeva abilità di tipo espressivo. Questo è un aspetto dello sviluppo linguistico che non era stato precedentemente indagato empiricamente: ci si poteva aspettare che i bambini che non hanno difficoltà a livello di comprensione, si sarebbero dimostrati adeguati anche nella comprensione del testo. I risultati riportati nella letteratura precedente dunque sono interpretabili alla luce del metodo utilizzato, che in genere consisteva nell’ottenere dai bambini delle produzioni, o ri-produzioni, di storie viste o ascoltate, oppure del fatto che nel gruppo di partecipanti entravano bambini non selezionati sulla base del disturbo. Le difficoltà di condurre ricerca con popolazioni cliniche giustificano pienamente questo limite metodologico, ma il presente lavoro fornisce una indicazione chiara per indagini future. In sintesi, i bambini con DSL espressivo hanno capacità di comprensione del testo che sopravanzano le loro capacità espressive. In primo luogo, sono in grado di comprendere più di quanto non sembrino aver compreso qualora ci si basi sulla loro capacità di raccontare. Inoltre, rispetto alle loro capacità di comprensione mostrano un profilo del tutto analogo a quello dei bambini con sviluppo tipico, con i quali erano appaiati per comprensione delle frase e ai quali si sono mostrati uguali per comprensione del testo. 2. Il contributo del vocabolario recettivo e della comprensione delle frasi alla comprensione del testo Un’analisi della comprensione del testo sarebbe insufficiente se non tenesse conto, sia pure in modo parziale, dei meccanismi o abilità o conoscenze che rendono possibile un processo di comprensione caratterizzato di una tale complessità. Nei bambini con DSL era particolarmente rilevante individuare il ruolo svolto da capacità linguistiche di base, che contribuiscono e fanno parte del processo di comprensione del testo. In primo luogo, è emerso che nei bambini con DSL come in quelli
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con sviluppo tipico la conoscenza delle parole, l’ampiezza del lessico recettivo, gioca un ruolo maggiore in confronto alla capacità di elaborare correttamente gli indici morfosintattici presenti nelle frasi. Gli studi condotti finora su bambini con sviluppo tipico hanno dimostrato che il vocabolario svolge un ruolo fondamentale e costituisce il più forte predittore della comprensione del testo (Cain, 2007): questo risultato è stato confermato nel presente studio. È stato anche confermato che il ruolo svolto dalla comprensione della frase è marginale nella comprensione del testo nei bambini con sviluppo tipico. Viceversa, nel bambini con DSL tale abilità gioca un ruolo significativo e la comprensione della frase è un predittore della comprensione del testo. Diverse sono le spiegazioni che potrebbero essere avanzate per interpretare questa atipicità del profilo dei bambini con DSL rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Un prima considerazione riguarda il fatto che i bambini erano in trattamento logopedico ed è possibile che questo abbia alterato il loro profilo, considerato che buona parte del lavoro logopedico si concentra sugli aspetti morfosintatticio. Uno studio condotto su bambini con i quali non sia ancora iniziato il trattamento logopedico dovrà valutare la validità di questa considerazione: possiamo aspettarci che anche per loro, come per i bambini con sviluppo tipico, con i quali i bambini con DSL espressivo condividono analoghe capacità di comprensione linguistica, il ruolo delle abilità morfosintattiche sia marginale per la comprensione del testo. Tuttavia, c’ è un’altra considerazione che invece suggerisce che effettivamente in popolazioni con uno sviluppo linguistico atipico la comprensione della frase contribuisca alla comprensione del testo in misura maggiore di quanto non si osservi nei bambini con sviluppo tipico. Infatti, uno studio condotto con bambini con sindrome di Down ha evidenziato un pattern di risultati simile a quello emerso nel presente studio: la comprensione della frase è un predittore della comprensione del testo, e spiega varianza ulteriore rispetto alla conoscenza del vocabolario (Levorato, Roch e Belatrame, 2009). Uno studio che compari bambini con DSL e bambini con sindrome di Down potrebbe gettare luce sul significato di questa analogia: gli studi che comparano queste due popolazioni non mancano (Laws e Bishop, 2003; 2004), ma finora nessuno ha analizzato la comprensione del testo, e dunque non si possono fare predizioni sui possibili risultati. Il presente studio sicuramente non esaurisce il tema complesso come la comprensione del testo in una popolazione clinica, tuttavia, offre spunti interessanti di carattere sia teorico che educativo che potrebbero motivare le ricerche future in questo ambito. Dal punto di vista della rilevanza teorica, osserviamo che per la prima volta che la comprensione del testo, qualora misurata con metodi che non coinvolgono abilità espressive, non necessariamente rappresenta un’area di debolezza per i bambini con DSL espressivi; in secondo luogo, mette in luce una relazione tipica tra il vocabolario e la comprensione del testo e infine, alcune possibili differenze tra i bambini con DSL e con sviluppo tipico nel ruolo giocato dalla comprensione della frase alla comprensione del testo. Accanto a queste implicazioni teoriche, il presente lavoro offre sicuramente qualche spunto di tipo applicativo, a livello clinico ed educativo. In primo luogo, se la comprensione del testo dovesse dimostrarsi anche in lavori futuri un punto di forza per i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio, e quindi adeguata all’età cronologica, il livello dell’elaborazione testuale potrebbe diventare
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una risorsa su cui basare l’insegnamento e il trattamento delle aree linguistiche più compromesse. In secondo luogo, la nuova conoscenza che il presente studio ha consentito di acquisire, ossia che un determinato livello di comprensione del testo può essere sotteso da processi simili a quelli evidenziati nello sviluppo tipico, come il vocabolario recettivo, può fornire indicazioni utili sulle modalità attraverso cui potenziare la comprensione del testo. L’indicazione che emerge a questo proposito è che un miglioramento del vocabolario recettivo può tradursi anche in un miglioramento della capacità di comprendere testi. A conferma di questa indicazione, notiamo che studi condotti su bambini con sviluppo tipico hanno dimostrato che la relazione tra lessico e testo è reciproca, in quanto ciascuno dei due influisce sullo sviluppo dell’altro (Cain, 2007). Se studi successivi dimostrassero che il vocabolario recettivo è rilevante allo stesso modo per lo sviluppo della capacità di comprensione di frasi, questa sarebbe una ulteriore indicazione dell’opportunità di impostare trattamenti che siano orientati alla acquisizione di abilità lessicali, nonché semantico-concettuali: va tenuto presente a questo proposito che sono numerosi gli studi che dimostrano una forte relazione tra sviluppo del lessico e delle morfosintassi (Marchman et al., 2004) e questo sottolinea l’opportunità di approfondire il tema delle relazioni reciproche tra le diverse dimensioni dello sviluppo linguistico. Infatti, il presente studio i suggerisce che a prestazioni analoghe tra i bambini con sviluppo tipico e atipico, corrispondano delle differenze nelle modalità con cui si relazionano le diverse dimensioni. Riassunto Questo studio confronta la capacità di comprensione del testo orale in bambini di età prescolare con Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL) espressivo con quella di bambini con sviluppo tipico, ed analizza il contributo delle capacità linguistiche di base, ossia il vocabolario recettivo e la comprensione della frase, alla comprensione del testo. Hanno partecipato allo studio 29 bambini con DSL di età compresa tra i 4 e i 6 anni, e 46 bambini con sviluppo tipico appaiati per età e per livello di comprensione della frase. I due gruppi hanno mostrato un analogo livello di comprensione del testo; il vocabolario recettivo, misurato con il test PPVT (Stella, Pizzoli e Tressoldi, 1991) sembra di contribuire alla comprensione del testo in modo simile nei due gruppi di partecipanti, mentre la comprensione della frase influenzerebbe la capacità di comprensione del testo in misura maggiore nel gruppo con DSL che nel gruppo con sviluppo tipico. I risultati vengono discussi alla luce della loro rilevanza teorica ed applicativa, in relazione agli studi nella comprensione del testo nel Disturbo Specifico del Linguaggio. Parole chiave Disturbo Specifico del Linguaggio – Comprensione del testo orale – Lessico recettivo – Comprensione di frasi.
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Analisi longitudinale delle capacità spaziali e visuo-costruttive in bambini con disturbo di sviluppo della coordinazione (DSC) Spatial and Visual Abilities in Children with Developmental Coordination Disorder (Sdc). A Longitudinal Study Maria Anna Tallandini*, Lucia Tellini*, Luisa Morassi*
Summary The aim of this study was to investigate visual-spatial and visuo-costructional abilities and motor coordination development in children with Developmental Coordination Disorder (DCD). We hypothesized that children DCD will demonstrate deficit of representation, planning and construction. The participants were 10 school-aged children DCD and 14 NONDCD children. The data were collected twice at the distance of two years. In both cases we tested the children with the Rey-Osterrieth Complex Figure and with a puzzle obtained using the same test (Morassi, Tallandini and Tellini, 2006). In general, the DCD group performed less well than the control group in all tasks. The comparison of the results obtained at time 1 and time 2 showed an improvement along time of children DCD performance in the Rey Complex Figure, but not in the puzzle. This could give support to the hypothesis that DCD children have specific difficulties when they have to decompose and re-compose an image. Key words DCD (developmental coordination disorder) – Spatial analysis – Visual-constructive abilities – Longitudinal study – School-aged children.
Introduzione Questo lavoro intende analizzare lo sviluppo delle abilità di percezione visuospaziale, di visuo-costruzione e di coordinazione motoria in bambini con disturbo di sviluppo della coordinazione – DSC (DSM-IV TR, 2004) attraverso due rilevazioni delle loro prestazioni eseguite a distanza di due anni. Il DSC, denominato in passato “clumsiness” (Taylor, 1979), è stato incluso, a partire dal 1992, nel sistema diagnostico ICD-10, con la denominazione di Disturbo Evolutivo Specifico della Funzione Motoria - SDDMF e nel 1994 nel DSM-IV con la denominazione Developmental Coordination Disorder – DCD (nella versione italiana Disturbo di Sviluppo della Coordinazione – DSC). Il DSC consiste in una compromissione della coordinazione motoria, non spiegabile in termini di ritardo *
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste.
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intellettivo generale o di una specifica patologia neurologica congenita o acquisita. I deficit possono riguardare la coordinazione fine-motoria, quella grosso-motoria o entrambe, le quali risultano significativamente al di sotto del livello atteso in base all’età e al livello intellettivo del bambino. Le difficoltà si possono manifestare nella forma di un’anomalia nell’esecuzione dei movimenti, nel controllo posturale o nelle abilità motorie fini. I bambini con questo disturbo manifestano anche difficoltà nei processi di analisi dell’informazione spaziale, nel controllo del movimento, nella percezione visiva e cinestetica, nella memoria visiva e nel programma motorio (Wilson e McKenzie, 1998; Wilson, 2005). Una delle caratteristiche del DSC riguarda la difficoltà di integrazione visuomotoria (Murray, Cermak e O’Brien, 1990), ritroviamo infatti in questi soggetti, a differenza di quanto succede nei bambini a sviluppo tipico, una stretta interdipendenza tra percezione visiva e integrazione motoria (Parush et al., 1998). I problemi motori di questi bambini sono inoltre attribuiti a deficit nel campo sensoriale, motorio e nell’integrazione senso-motoria, che si traducono in una scarsa precisione nella stima delle dimensioni degli oggetti e in una difficoltà nella loro localizzazione nello spazio (Visser, 2003). I bambini con DSC, inoltre, dimostrano abilità inferiori rispetto ai bambini con sviluppo tipico in compiti che richiedono di tracciare delle linee, colpire con precisione un oggetto ad una certa distanza, produrre movimenti veloci, accurati, mirati, nei test di integrazione visuo-motoria (Maeland, 1992) e nella percezione tattile e visiva (Schoemaker et al., 2001). La presenza di difficoltà di ordine visuo-spaziale e visuo-costruttivo è ampiamente documentata (Wilson e McKenzie, 1998; Parush et al., 1998; Schoemaker et al., 2001; Visser, 2003) così come inferiori capacità nella memoria a breve termine, visuo-spaziale e in quella di lavoro (Alloway, 2007). Pochi sono gli studi che si sono occupati del DSC attraverso indagini longitudinali in modo da rilevare come le diverse abilità si modifichino nel corso dello sviluppo. In generale questi lavori registrano la permanenza delle difficoltà trovate originariamente. Colemann, Piek e Livesey (2001) osservano che bambini di 4-5 anni rivisti a distanza di un anno presentano le stesse difficoltà relative alla percezione dei movimenti, della posizione del corpo e delle sue parti. Inoltre, Losse et al. (1991) hanno riesaminato dopo un periodo di 10 anni, bambini con diagnosi DSC eseguita all’età di 6 anni; il confronto ha evidenziato il fatto che dopo 10 anni, le difficoltà a livello di coordinazione motoria persistono. In letteratura però si ritrovano anche dei lavori che hanno rilevato una variabilità nello sviluppo dei bambini con DSC. Cantell, Smyth e Ahonen (2003), ad esempio, riesaminando all’età di 15 anni, dei bambini diagnosticati a 5 anni, hanno osservato che essi si potevano suddividere in due gruppi: coloro che mantenevano le difficoltà iniziali registrando ancora delle basse performance a livello di equilibrio, di motricità fine e nei compiti visuo-motori e quelli nei quali tali difficoltà erano scomparse. Sulla stessa linea di risultati si pongono Sugden e Chambers (2007) i quali hanno condotto una ricerca longitudinale per verificare l’efficacia di un intervento riabilitativo della durata di due anni. Anch’essi hanno osservato che i profili e le abilità dei bambini con DSC sono migliorati oppure rimasti immutati nel corso del tempo.
ANALISI LONGITUDINALE DELLE CAPACITÀ IN BAMBINI CON DSC
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Il nostro interesse è rivolto ad indagare le modificazioni a lungo termine (2 anni) delle prestazioni deficitarie dei bambini DSC analizzando come le loro competenze di analisi visuo-spaziale, di visuo-costruzione e di coordinazione motoria si modificano nell’arco di due anni. In questo lavoro si ipotizza che essi presentino un incremento dei punteggi del reattivo di Rey sia di copia che di memoria (Cantell, Smyth e Ahonen 2003; Sudgen e Chambers, 2007) e impieghino meno tempo nella risoluzione del puzzle ricavato dalla figura di Rey (Morassi, Tallandini e Tellini, 2006) nel secondo tempo di raccolta dati. Inoltre si ipotizza che i deficit nelle loro prestazioni siano da collegarsi ad una incapacità di analisi visuo-spaziale dell’oggetto target a livello globale (Wilson e McKenzie, 1998; Parush et al., 1998), e quindi che essi, costruiranno la figura sulla base di una parcellizzazione delle componenti piuttosto che attraverso una programmazione globale, diversamente dal gruppo di controllo. Per questo motivo infine essi impiegheranno un tempo più lungo o addirittura non riusciranno a ricomporre la figura di Rey nel caso in cui essa sia proposta sotto forma di puzzle. Metodo Campione Il campione è composto da 24 bambini dagli 8 ai 10 anni (range: 8 anni e 0 mesi –10 anni e 5 mesi; M = 8,79, DS = 0,78) di cui 10 diagnosticati come portatori di DSC dal servizio psicologico territoriale e 14 a sviluppo tipico (gruppo di controllo). Tutti i soggetti reclutati hanno accettato di partecipare alla prima e alla seconda sessione di raccolta dei dati. Procedura Sono state somministrate due versioni del reattivo di Rey, quella tradizionale nei due compiti di copia e di memoria a cui è stata affiancata una versione in cui si è provveduto a costruire un puzzle con la stessa figura di Rey. Il test di Rey nella sua forma originale ha sempre preceduto il compito del puzzle dato che esso ne ripeteva la figura e che, nel caso di alternanza della somministrazione, si sarebbe potuto presentare nei soggetti un diverso livello di apprendimento. I soggetti sono stati incontrati in una stanza silenziosa messa a disposizione del ricercatore. La prima raccolta dati è stata eseguita quando i soggetti avevano un’età compresa fra gli 8 e i 10 anni. A distanza di due anni è stata eseguita una seconda rilevazione con le medesime modalità. Reattivo di Rey Per verificare le abilità di organizzazione visuo-spaziale è stato utilizzato il reattivo di Rey (Rey-Osterrieth Complex Figure – ROCF). Il test consiste nella riproduzione della figura A (Rey, 1941) rappresentante un tracciato geometrico a struttura complessa (Smith e Zahka, 2006). Esso accerta lo sviluppo delle abilità di costruzione visuo-spaziale, di pianificazione e di ritenzione a breve termine (Akshoomoff e Stiles, 1995). L’esaminatore, durante l’esecuzione del compito fornisce al soggetto
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matite di colore diverso, in modo da annotare la procedura utilizzata e la successione degli elementi sia nella copia che nella riproduzione a memoria. Le figure prodotte sono state valutate secondo i criteri indicati da Rey (1941) che giudica la presenza e la qualità della riproduzione delle singole parti della figura (da 0 a 2 punti per ciascun item), e secondo il metodo di Osterrieth (1945), il quale contrappone una produzione strutturale ad una per dettagli. Successivamente, in relazione alla necessità di questo lavoro di analizzare la struttura globale dello stimolo vs i particolari che la compongono, è stato ideato un metodo nel quale i due sistemi di codifica sono stati incrociati. I 18 items individuati da Rey (1941), sono stati raggruppati in due categorie sulla base della codifica Osterrieth (1945): armatura (items dal 2 al 5) e dettagli (item 1 e items dal 6 al 18). Per ciascuna delle due categorie, è stato calcolato il punteggio totale (Rey, 1941). Successivamente, per confrontare le due categorie, in quanto costituite da un numero diverso di items (armatura 4 items vs dettagli 14 items), è stata calcolata la valutazione media degli items di ciascuna categoria divisa per il numero degli items che la compongono). Puzzle della figura di Rey Per indagare la relazione tra le abilità di analisi visuo-spaziale e quelle di coordinazione oculo-manuale è stato ideato un puzzle (Morassi, Tallandini e Tellini, 2006). Lo stimolo è costituito da un cartone pesante sul quale è stata sovraimposta la figura di Rey, nelle dimensioni originali, che è stata quindi suddivisa in 10 parti: il grande rettangolo (item 2, Rey, 1941) a sua volta ripartito in quattro parti seguendo le due diagonali (item 3, Rey, 1941). Le parti adiacenti al rettangolo sono state separate considerando gli altri items individuati da Rey (1941): croce esterna sinistra (item 1), triangolo superiore all’armatura (item 9), triangolo isoscele (item 13), losanga (item 14), croce esterna inferiore (item 17), quadrato esterno inferiore (item 18). Ad ogni soggetto sono stati presentati i pezzi del puzzle in ordine sparso dando la possibilità di osservare il modello durante la ricostruzione. Il tempo massimo di esecuzione concesso è stato di 300 secondi. Risultati Reattivo di Rey Le analisi dei dati del reattivo di Rey sono state condotte sui punteggi ottenuti dalla codifica elaborata per questo lavoro (armatura e dettagli). I punteggi del compito di copia sono stati analizzati tramite una ANOVA a misure ripetute (2 x 2 x 2) con variabile indipendente tra i soggetti il gruppo di appartenenza (DSC e controllo), con variabili indipendenti entro i soggetti le parti della figura (armatura e dettagli) e il momento di raccolta dati (I rilevazione e II rilevazione) e variabile dipendente il punteggio ottenuto. Sono stati evidenziati gli effetti principali delle parti della figura (F (1,22) = 13,923; p < 0,001, del momento di rilevazione (F (1,22) = 49,988; p < 0,000) e del gruppo (F (1,22) = 46,146; p < 0,000), inoltre un’interazione significativa di rilevazione x gruppo (F (1,22) = 18,869; p < 0,000).
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ANALISI LONGITUDINALE DELLE CAPACITÀ IN BAMBINI CON DSC
Un confronto tra i punteggi ottenuti dai due gruppi nelle diverse parti della figura (rilevazione 1 e 2) è stato eseguito mediante t-test per campioni indipendenti.
Tabella 1. Compito di copia. Confronto tra gruppo DSC e gruppo di Controllo all’interno delle rilevazioni 1 e 2. DSC
Controllo
df
t
Sig. (2 code)
Rilevaz. 1
M
DS
M
DS
Armatura
0,84
0,31
1,69
0,38
22
-5,481
0,000
Dettagli
1,09
0,23
1,84
0,16
22
-9,512
0,000
Rilevaz. 2
M
DS
M
DS
Armatura
1,45
0,53
1,89
0,16
10,192
-2,542
0,029
Dettagli
1,6
0,3
1,9
0,07
9,763
-3,204
0,010
Nei punteggi raccolti nella prima rilevazione, l’assunto di omogeneità della varianza (test di Levene) nei due campioni è stato verificato con successo in tutte le parti della figura, mentre nella seconda rilevazione non è stato verificato in nessuna di esse ed i gradi di libertà sono stati dunque opportunamente corretti. Il gruppo DSC ottiene punteggi significativamente inferiori al gruppo di controllo (Tabella 1). Per verificare se ci sia una differenza di prestazione tra i due momenti di raccolta dati, sono stati effettuati dei t-test per campioni appaiati all’interno di ciascuno dei due gruppi. I punteggi ottenuti dal gruppo DSC nella seconda rilevazione risultano aumentati in maniera significativa per tutte le parti della figura (rilevazione 1: armatura M = 0,84, DS = 0,31; rilevazione 2: armatura M = 1,45, DS = 0,53; t(9) = 3,855 – rilevazione 1: dettagli M = 1,09, DS = 0,23;– rilevazione 2, dettagli M = 1,6, DS = 0,3; t(9) = 7,611)); mentre per quanto riguarda il gruppo di controllo il miglioramento della performance non risulta statisticamente significativo (rilevazione 1: armatura M = 1,69, DS = 0,38 - rilevazione 2: armatura M = 1,89, DS = 0,1; t (13) = 1,757) rilevazione 1 dettagli M =1,84, DS = 0,16; 6 – rilevazione 2 dettagli M = 1,9, DS = 0,07; t(13) = 1,632). Nel compito di memoria l’ANOVA a misure ripetute (2 x 2 x 2) con variabile indipendente tra i soggetti il gruppo di appartenenza (DSC e controllo), con variabili indipendenti entro i soggetti le parti della figura (armatura e dettagli) e il momento di raccolta dati (I rilevazione e II rilevazione) e con variabile dipendente il punteggio ottenuto, ha evidenziato gli effetti principali delle parti della figura (F (1,22) = 5,271; p < 0,032), del momento di rilevazione (F (1,22) = 37,463; p < 0,001) e del gruppo (F (1,22) = 25,830; p < 0,001).
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Un confronto tra i punteggi ottenuti dai due gruppi nella valutazione di armatura e dettagli (rilevazione 1 e 2) è stato eseguito mediante dei t-test per campioni indipendenti.
Tabella 2. Compito di memoria. Confronto tra gruppo DSC e gruppo di Controllo all’interno delle rilevazioni 1 e 2. DSC
Controllo
df
t
Sig. (2 code)
Rilevaz. 1
M
DS
M
DS
Armatura
0,38
0,33
1,13
0,57
21,294
-4,135
0,000
Dettagli
0,37
0,27
1,02
0,39
22
-4,515
0,000
Rilevaz. 2
M
DS
M
DS
Armatura
1,08
0,55
1,62
0,58
22
-2,694
0,013
Dettagli
0,92
0,36
1,29
0,37
22
-2,449
0,023
L’assunto di omogeneità della varianza (test di Levene) nei due campioni è stato verificato con successo in tutte le parti della figura eccetto che per l’armatura nella prima rilevazione, dove i gradi di libertà sono stati opportunamente corretti. I t-test hanno evidenziato delle differenze statisticamente significative tra i punteggi ottenuti dai due gruppi (tabella 2), il gruppo DSC infatti ha registrato punteggi inferiori rispetto al gruppo di controllo in entrambi i momenti di raccolta dati sia nella rappresentazione della struttura globale (armatura), sia in quella parcellizzata (dettagli). I t-test per campioni appaiati condotti all’interno di ciascun gruppo hanno rilevato che nel compito di memoria sia il gruppo DSC che quello di controllo hanno una prestazione significativamente migliore nel secondo momento di raccolta dati in entrambe le parti della figura. Il gruppo DSC (rilevazione 1: armatura M =0,38, DS = 0,33 - rilevazione 2: armatura M = 1,08, DS = 0,55, t(9) = 3.055; rilevazione 1 dettagli M = 0,37, DS = 0,27; rilevazione 2 dettagli M = 0,92, DS = 0,36, t(9) = 5,458) infatti ha registrato punteggi inferiori rispetto al gruppo di controllo (rilevazione 1: armatura M = 1,13, DS = 0,57; rilevazione 2: armatura M = 1,62, DS = 0,58, t(13) = 2,485 - rilevazione 1: dettagli M =1,02, DS = 0,39; rilevazione 2: dettagli M =1,29, DS = 0,37, t (13) = 3,190) in entrambi i momenti di raccolta dati sia nella rappresentazione della struttura globale (armatura), sia in quella parcellizzata (dettagli). Puzzle della figura di Rey Tra i bambini DSC, alla rilevazione 1, un solo soggetto su dieci è riuscito a completare il puzzle (ai bambini che non hanno completato il puzzle entro i tempi stabiliti è stato registrato il tempo massimo assegnato per l’esecuzione del compito = 300 sec); anche nel gruppo di controllo sono state osservate alcune difficoltà in quanto
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ANALISI LONGITUDINALE DELLE CAPACITÀ IN BAMBINI CON DSC
quattro bambini (28,6%) su quattordici non hanno completato il puzzle, mentre i restanti dieci bambini (71,4%) hanno portato a termine la consegna entro il tempo concesso. Nella rilevazione 2 tra i bambini DSC tre soggetti (30%) sono riusciti a portare a termine la consegna e nel gruppo di controllo tutti (100%) hanno completato in puzzle entro il tempo massimo, si nota dunque un miglioramento delle prestazioni e conseguentemente una diminuzione del tempo di esecuzione. Al fine di confrontare tra i due gruppi (DSC e Controllo) il numero di soggetti che ha risolto o meno il compito, è stato eseguito il test di Fisher, il quale ha evidenziato che le differenze osservate tra i due campioni nel numero di soggetti che ha eseguito il compito risultano significative sia nella prima (p< 0,004) che nella seconda rilevazione (p < 0,001). Il confronto tra i due gruppi al tempo 1 e 2 (tabella 3) ha rilevato una differenza significativa tra i tempi registrati dai due gruppi. Il tempo impiegato dal gruppo DSC nella ricostruzione del puzzle è risultato significativamente maggiore rispetto al tempo impiegato dal gruppo di controllo (nei risultati relativi alla rilevazione 1 i gradi di libertà sono stati opportunamente corretti per assenza di omogeneità della varianza – test di Levene).
Tabella 3. Puzzle della figura di Rey. Confronto tra gruppo DSC e gruppo di Controllo all’interno delle rilevazioni 1 e 2. DSC Rilevaz. 1 Rilevaz. 2
Controllo
M
DS
M
DS
289,9
31,94
230,43
65,09
M
DS
M
DS
254,7
78,62
128,21
54,52
df
t
Sig. (2 code)
19,96
2,957
0,008
22
4,667
0,000
I t-test per campioni appaiati, non hanno evidenziato una differenza significativa all’interno del gruppo DSC tra i due tempi (t (9) = - 1,709; p =ns); (rilevazione 1: M = 289,9, DS =31,94; rilevazione 2: M = 254,7; DS =78,62; df 9, t (9) -1,709 ns); la differenza è risultata significativa invece per il gruppo di controllo che ha registrato tempi significativamente inferiori nel secondo momento di raccolta dati (rilevazione 1: M =230,43, DS = 65,09; rilevazione 2: M = 1,28,2, DS = 54,52; t (13) = - 6,931; p < 0,005). Discussione Nel presente lavoro, si è voluto indagare lo sviluppo delle abilità di percezione visuo-spaziale, di visuo-costruzione e di coordinazione motoria nei bambini DSC.
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M.A. TALLANDINI - L. TELLINI - L. MORASSI
Il punteggio ottenuto nei 18 items del reattivo di Rey (Rey, 1941) è stato raggruppato seguendo la categorizzazione di Osterrieth (1945) per poter valutare la modalità di realizzazione del test globale vs parcellizzata. Analizzando i punteggi ottenuti nei due momenti di raccolta dati si è visto che il gruppo DSC registra delle differenze significative tra i punteggi delle due performance (Cantell, Smyth e Ahonen, 2003; Sudgen e Chambers, 2007), mentre il gruppo di controllo registra un miglioramento solo nel compito di memoria, presentando già alla prima rilevazione un effetto soffitto nel compito di copia. Gli impacci motori ed i deficit sensoriali dei bambini DSC diminuiscono con lo sviluppo senza tuttavia raggiungere le prestazioni dei bambini normodotati segnalando quindi l’esistenza di un deficit permanente (Cantell, Smyth e Ahonen, 2003; Sugden e Chambers, 2007). Il miglioramento nei soggetti DSC, nei due compiti, ha evidenziato l’assenza di differenze fra il punteggio ottenuto nell’armatura e nei dettagli; non si può dunque affermare che i bambini con DSC a causa delle loro difficoltà di analisi visiva dello stimolo nel test della figura di Rey utilizzino una strategia più frammentaria rispetto al gruppo di controllo nella riproduzione della figura stessa (Schoemaker et al., 2001; Visser, 2003). Questo si è verificato in entrambe le rilevazioni. Indagando le differenze tra i due gruppi, è stato osservato che il gruppo DSC ha ottenuto nei due momenti di raccolta dati punteggi significativamente inferiori rispetto al gruppo di controllo, in entrambi i compiti della figura di Rey. Si è potuto dunque confermare l’ipotesi iniziale che presupponeva maggiori difficoltà di analisi visuo-spaziale e di integrazione motoria (pianificazione del progetto e riproduzione grafica) nei bambini DSC rispetto ad un gruppo di controllo, in accordo con la letteratura sull’argomento (Wilson e McKenzie, 1998; Parush et al., 1998; Schoemaker et al., 2001; Visser, 2003) e che tali difficoltà permangono. Per quanto riguarda il puzzle della figura di Rey, nella prima raccolta dati c’è stata un’alta incidenza di compiti non risolti nel puzzle, in entrambi i gruppi. Nella seconda rilevazione la situazione del gruppo DSC è rimasta pressoché immutata (solo 3 soggetti su 10 sono riusciti a completare il puzzle), mentre tutti i soggetti del gruppo di controllo hanno portato a termine la consegna. Le differenze tra le prestazioni dei due gruppi sono risultate significative in entrambe le rilevazioni; ciò è in accordo con l’ipotesi iniziale che presupponeva una performance inferiore nei bambini con DSC, rispetto al gruppo di controllo, ed è in accordo con le ricerche precedenti che evidenziano difficoltà di analisi dell’informazione spaziale e nel programma motorio nei soggetti con DSC (Wilson e McKenzie, 1998; Parush et al., 1998). Il risultato ottenuto sta ad indicare che i bambini DSC non migliorano nelle abilità visuo-costruttive e di coordinazione motoria. È interessante notare come i bambini DSC abbiano registrato dei miglioramenti significativi solo nel compito relativo alla riproduzione della figura di Rey e molto meno nella ricostruzione del puzzle. Nel puzzle il processo richiesto è duplice: dal momento che viene fornita la figura in pezzi, ed il suo modello di riferimento intero, è necessaria una prima analisi a livello di decomposizione dell’immagine ed in un secondo momento la sua ricostruzione. I deficit manifestati dai soggetti DSC a livello di analisi e riproduzione di un target, dunque, si manifestano in un ritardo evolutivo
ANALISI LONGITUDINALE DELLE CAPACITÀ IN BAMBINI CON DSC
125
anche se le abilità si sviluppano sia pure più lentamente. I risultati ottenuti nel puzzle della figura di Rey sono in accordo con la parte di studi longitudinali su soggetti DSC che ha verificato la persistenza nel tempo dei deficit di questi bambini (Losse et al., 1991; Colemann, Piek e Livesey, 2001). Invece le difficoltà a livello di processamento richiesto nella risoluzione del puzzle sembrano diverse da quelle segnalate dal test di Rey e, forse, indipendenti dalla scarsa coordinazione motoria di questi bambini, esse infatti permangono praticamente identiche nel tempo non segnalando alcun miglioramento comparabile con quello dei bambini con sviluppo tipico. Conclusioni I risultati ottenuti dalla somministrazione del test di Rey permettono di affermare che le difficoltà di percezione visuo-spaziale e visuo-costruttive dei bambini DSC non influiscono sulla loro strategia riproduttiva della figura e che essi registrano un miglioramento nel tempo. Invece nei risultati ottenuti nel puzzle della figura di Rey i bambini DSC praticamente non migliorano la loro prestazione. La difficoltà specifica sembra riferita alla richiesta di un doppio compito: un’analisi di scomposizione dello stimolo e la sua successiva ricostruzione. Gli elementi che producono dei ritardi evolutivi di questi bambini, potrebbero non riguardare dunque la mancata analisi dello stimolo a livello globale e la coordinazione motoria richiesta, come è stato sinora affermato, ma il problema potrebbe essere dovuto ad una difficoltà di processamento nel momento in cui viene richiesta la scomposizione e la conseguente ricomposizione dello stimolo. Riassunto Lo scopo di questo studio è quello di analizzare lo sviluppo delle abilità di percezione visuo-spaziale, di visuo-costruzione e di coordinazione motoria in bambini con disturbo di sviluppo della coordinazione (DSC), verificando la presenza di modificazioni nel corso dello sviluppo con due rilevazioni eseguite a distanza di due anni. Sono stati investigati 10 soggetti diagnosticati DSC di 8-10 anni e 14 soggetti con sviluppo tipico della stessa età. Sono stati applicati il reattivo di Rey nella sua formulazione originale e un puzzle da esso ricavato costruito per questa ricerca (Morassi, Tallandini e Tellini, 2006). I risultati indicano che i bambini DSC nel reattivo di Rey migliorano le loro prestazioni pur non raggiungendo il livello di prestazione del gruppo di controllo; nella costruzione del puzzle invece, nessuno sviluppo è stato osservato nel gruppo DSC, mentre i bambini a sviluppo tipico hanno registrato un potenziamento delle abilità nel tempo. Tali risultati danno sostegno all’ipotesi che le difficoltà dei bambini DSC potrebbero derivare da problemi di processamento in un compito in cui è richiesta la scomposizione e ricomposizione dello stimolo. Parole chiave Disturbo di Sviluppo della Coordinazione – Analisi spaziale – Abilità Visuo-costruttive e Motorie – Studio Longitudinale – Bambini in età scolare.
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M.A. TALLANDINI - L. TELLINI - L. MORASSI
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ANALISI LONGITUDINALE DELLE CAPACITĂ&#x20AC; IN BAMBINI CON DSC
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 128-137
I bambini troppo bravi non mangiano: quando le aspettative ed i bisogni genitoriali attaccano il Sé emergente del figlio When the too smart children refuse food: how the parental expectations and needs can harm the son’s emerging Self Leonardo Sacrato*, Alessandro Pellicciari*, Emilio Franzoni*
Summary Aim: The Authors investigate the conceptualization of a group of patients with the same clinical and psychological patterns, affected by eating disturbances arisen during the age of latency. Methods: Four cases are presented and discussed. Each subject was diagnosed as Food Avoidance Emotional Disorder (FAED). Discussion: The described subjects present some of the typical features of eating disorders of adolescence. Moreover, regressive aspects, obligingness, dichotomyc behaviors and thoughts were noticed. The Authors observed that parental expectations and needs were transmitted to their sons.Conclusions: Through the refusal of food the dochotomyc and fearful thoughts are crystallized. The child cannot comprehend the existence of a false Self built on the Other’s expectations. The Authors believe that FAED can be a precursor of Anorexia nervosa in the affected children, who show a less organized cognitive structure due to their young age. Key words Food avoidance emotional disorder – Eating disorders – False Self – Age of latency – Splitting.
Introduzione Il termine “Disturbi del Comportamento Alimentare” (DCA) indica l’insieme di condizioni cliniche che manifestano un disagio espresso attraverso un rapporto alterato con il cibo e con il proprio corpo, tale da compromettere la qualità della vita e le relazioni sociali della persona che ne è affetta. Fino a non molti anni fa i disturbi della nutrizione o del comportamento alimentare nell’infanzia e nella preadolescenza facevano riferimento quasi esclusivamente a condizioni cliniche circoscritte, rappresentate da condotte classificate all’interno di manuali diagnostici quali DSM-IV (1998) e ICD-10 (1996). Ad esempio, il DSM-IV include tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione dell’Infanzia o della Prima Fanciullezza solo tre condizioni: Pica, Disturbo da Ruminazione e, appunto, il Disturbo della Nutrizione e dell’Alimentazione dell’Infanzia o della Prima Fanciullezza, una categoria che non considera *
U.O. Neuropsichiatria Infantile, Policlinico S. Orsola-Malpighi Università di Bologna.
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l’eterogeneità delle manifestazioni cliniche dei disturbi da alterata condotta alimentare, né delle specifiche implicazioni che queste comportano nella pianificazione del trattamento. Oggigiorno, accanto a queste forme di disagio, troviamo casi di bambini e preadolescenti con alterazioni del comportamento alimentare molto simili a quelli che, fino a poco tempo fa, si osservavano prevalentemente nell’adolescente e nell’adulto, condotte che si manifestano in maniera diversificata a seconda del periodo evolutivo dell’individuo che ne è affetto e che hanno reso necessaria l’introduzione di altre classificazioni diagnostiche. Ci siamo pertanto chiesti come si inquadrino condotte morbose relative alla sfera alimentare all’interno dell’età di latenza e perché si giunga alla stessa risposta sintomatica (l’evitamento del cibo nelle sue varie forme ed espressioni) in soggetti che appartengono a fasce evolutive diverse, e che pertanto differiscono tra loro in struttura di personalità e meccanismi di difesa. Allo stesso modo, sulla base di un’esperienza da noi condotta, ci siamo interrogati su cosa comporti una così elevata concordanza tra manifestazioni sintomatiche e condizioni psicologiche in soggetti diversi tra loro ma accomunati dall’età di presentazione del sintomo. Proveremo ad illustrare la nostra esperienza attraverso alcune esemplificazioni cliniche riguardanti quattro pazienti, femmine, di età compresa tra i 10 anni e 3 mesi e i 10 anni e 9 mesi, collocabili nel periodo evolutivo tra il periodo di latenza e l’ingresso in adolescenza. Casi Clinici 1. P.F. (10 anni e 6 mesi) presenta problemi alimentari, esorditi nell’estate del 2008, ed una riduzione significativa del tono dell’umore che prima appariva gioviale, allegro e sereno. I genitori riferiscono di alcuni episodi di vomito a seguito di situazioni ansiogene e/o stressanti. Nell’ultimo periodo hanno dominato difficoltà alimentari come riduzione e, in alcune circostanze, evitamento del cibo, oltre alla comparsa di forti manifestazioni ansiose e timori generalizzati espressi con pianti prolungati ed episodi di vomito a fronte di situazioni frustranti. La bambina frequenta l’ultimo anno della Scuola Elementare dove consegue ottimi risultati dai quali trae grande soddisfazione e conforto. È inoltre descritta come una bambina che ha sempre cercato di primeggiare nelle varie attività intraprese con il conseguente timore di deludere se stessa e, in particolare, gli altri. Gli impegni quotidiani (scuola, compiti, attività varie) le impongono ritmi sostenuti e stancanti a scapito di momenti da poter dedicare all’attività ludica. Le dinamiche intrafamiliari evidenziano una relazione privilegiata con la figura materna, che si occupa in prima persona delle varie attività ed impegni della figlia, e modalità di gestione delle difficoltà della bambina non sempre coerenti. Entrambi i genitori, per quanto dichiarino di concedere spazio alle iniziative ed alle intenzioni della figlia, lasciano trasparire messaggi che richiedono, più o meno esplicitamente, la necessità di raggiungere prestazioni elevate. Dalla somministrazione dei questionari non emergono aspetti psicopatologici significativi di natura ansioso-depressiva o alimentari, ma si nota negazione delle difficoltà ed un’importante inibizione del Sé e delle proprie emozioni. Dai colloqui clinici si individua la tenden-
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za ad assumere condotte compiacenti, bisogno di riconoscimento e rigidità di pensiero che ostacolano una libera rappresentazione di sé e delle proprie esigenze di bambina. Emergono inoltre aspetti regressivi espressi attraverso il timore della crescita e l’assenza di adeguate difese capaci di proteggerla di fronte ai vissuti interiori fonte di disagio. 2. S.L. (10 anni e 3 mesi) mostra importanti difficoltà alimentari esordite nell’estate del 2008 a seguito della sospensione delle molteplici attività, inclusa quella scolastica, che la bambina quotidianamente svolgeva. Tale interruzione, dopo un primo momento di disorientamento, ha comportato la necessità di trovare alternative dove potersi confrontare con gli altri e potersi dagli altri differenziare. In famiglia è presente un fratello minore, che la bambina definisce “meno bravo di me”, verso il quale impartisce ordini e raccomandazioni per un comportamento corretto. In alcune circostanze il loro rapporto è caratterizzato da forte ambivalenza e competizione. Alcuni tratti di elevato funzionamento comportamentale e cognitivo sono sostenuti dalla coppia genitoriale come elemento degno di attenzione e merito. I genitori appaiono due persone modeste ed umili con un forte bisogno di essere viste ed individuate per caratteristiche e valori molto positivi. Entrambi, nella loro storia personale, descrivono privazioni e rinunce. Da qualche mese sono dominanti una ridotta assunzione di cibo e un forte e continuativo bisogno di muoversi e camminare, associati a forti inibizioni personali, rigidità di pensiero e tono dell’umore depresso. Dalla somministrazione dei questionari non emergono distorsioni cognitive o aspetti psicopatologici significativi relativi alla sfera ansioso-depressiva o alimentare ma si individua la presenza di pensieri ipocondriaci, negazione di fronte alle aree tematiche indagate ed una inibizione nella piena espressione del Sé. I colloqui lasciano trasparire imponenti tematiche riconducibili alla dualità, all’ambivalenza degli atteggiamenti mostrati, passaggi rapidi dalla quiete all’aggressività ed una forte dicotomia del pensiero in funzione del proprio stato clinico e della considerazione di sé. Appare facile il giudizio autoriferito e la polarizzazione degli aspetti di personalità che la bambina definisce “buoni” e “cattivi”, sui quali non riesce ad esercitare un controllo volontario e che lei dice di subire senza riuscire a conciliare o avvicinare fra loro. 3. B.D. (10 anni e 9 mesi) presenta problemi legati alla sfera alimentare, esorditi nel 2006 a seguito di un intervento di appendicectomia, aggravatisi negli ultimi mesi con conseguente riduzione e, in alcuni casi, evitamento del cibo e paura di vomitare. La bambina si mostra da subito compiacente nei modi anche se la reale disponibilità a eseguire e rispettare le consegne date risulta molto ridotta. I comportamenti appaiono contraddittori così come le sue affermazioni e le intenzioni dichiarate. La bambina riferisce in più occasioni la sensazione di “avere come due personalità” che le dicono cosa fare e come comportarsi; in presenza dei genitori, specie la madre, la “voce cattiva” prende il sopravvento, mette a tacere quella “buona” che fino a poco prima diceva di comportarsi bene, mangiare e stare ferma. Il modo di relazionarsi con la madre mostra una grande ambivalenza. Nei confronti del padre le reazioni sono più smorzate lasciando spazio ad una maggiore coerenza di rapporto. La “voce buona” si sente più facilmente, così riporta, “quando sono con i dottori o lo psicologo perché mi capiscono e non mi chiedono niente”. La madre fatica ad entrare in relazione con la figlia, sembra non capirla o non capire le sue
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esigenze. Lo stesso genitore rimane esclusivamente orientato agli aspetti alimentari ed al non soddisfacimento della sua richiesta “mangia” perché questo la fa soffrire, riportando sulla figlia un suo personale bisogno, una richiesta di continuare ad essere brava come fino a non molto tempo prima era stata. La parte malata, “che non soddisfa”, “che delude”, “che fa male alla mamma” continua ad essere rifiutata e non accettata. La bambina, dopo un primo periodo di ricovero, matura una richiesta che riesce a riportare solo agli operatori e non ai genitori; nello stesso periodo si osserva anche una modalità alimentare più corretta che scompare quando è la madre ad inserirsi nella realtà alimentare della figlia. Dalla somministrazione dei questionari non emergono aspetti psicopatologici significativi relativi alla sfera ansioso-depressiva o alimentare ma si evidenzia una tendenza alla negazione delle difficoltà ed una inibizione nella piena espressione di sé. Emergono, inoltre, iniziali distorsioni corporee e un grado di impulso alla magrezza tendenzialmente patologico e vissuti di tristezza ed irritabilità. Aspetti regressivi si esprimono attraverso il timore di minacce o perdita della propria integrità corporea. 4. A.C. (10 anni e 6 mesi) mostra rilevanti problemi legati alla sfera alimentare esorditi improvvisamente nel 2008 ed aggravatisi nel giro di pochi giorni. Le prime difficoltà alimentari hanno coinciso con riduzione ed, in alcune circostanze, evitamento del cibo conseguente alla paura di ingrassare. Il rapporto con la coppia genitoriale, famiglia ricomposta di cui la bambina è figlia, è freddo, distaccato, estremamente razionale. La componente emotiva appare estranea al mondo interno della bambina. I genitori, entrambi medici, appaiono anche loro molto distaccati, gestiscono la situazione e la figlia come fosse un paziente. Il dialogo e lo scambio fra la diade (padre/madre-figlia) risulta freddo, quasi anaffettivo e orientato solo alle preoccupazioni cliniche comunque controllate. Il controllo caratterizza lo stile di relazione di entrambi i genitori. In famiglia è presente una sorella maggiore (figlia del solo padre), in passato anoressica, con la quale la paziente è in aperto conflitto. Gli aspetti psicopatologici espressi dalla paziente appaiono ripercorrere la patologia della sorella in ogni sua tappa. La coppia genitoriale si attende dalla figlia un comportamento corretto ed educato all’interno dell’ambiente ospedaliero e richiede esplicitamente di affrontare il problema come in passato aveva fatto la sorella. Per quest’ultima, negli anni passati, il padre si era prodigato molto. La bambina fin da subito riferisce di sentirsi “divisa in due”; una bambina buona che vuole mangiare, che riconosce giusto il comportamento richiesto dai genitori e che vuole soddisfarli ad ogni loro richiesta. In contrapposizione a ciò si mostra con tutta la sua forza la “bambina cattiva” che rifiuta i genitori, li aggredisce verbalmente e con i comportamenti attraverso i suoi no e i suoi rifiuti. La bambina riproduce il suo stato attraverso alcuni disegni che riproducono due macchie colorate (una bianca e una nera) che non possono entrare in contatto e che, quando si avvicinano l’una all’altra, subentra la sua crisi interiore ed il conflitto che la fa soffrire e non mangiare. Dalla somministrazione dei questionari emergono aspetti psicopatologici significativi di natura depressiva ed alimentare, in particolare legati all’umore depresso ed irritabile, al senso di colpa, all’inadeguatezza personale e alla non accettazione del proprio corpo. Si evidenzia, inoltre, una tendenza alla negazione di alcune difficoltà, rigidità di pensiero ed una inibizione nella piena espressione del Sé.
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L. SACRATO - A. PELLICCIARI - E. FRANZONI
Discussione dei casi Nei quattro casi riportati abbiamo posto diagnosi di Disturbo Emotivo di Rifiuto del Cibo (DERC), i cui criteri meglio si adattavano ai nostri assistiti secondo la classificazione di riferimento. Il DERC è un termine introdotto da Higgs (1989) per indicare un gruppo di bambini con apporto alimentare inadeguato e disturbi della sfera emozionale, che non soddisfacevano i criteri per Anoressia Nervosa. Tale condizione è risultata essere la diagnosi più frequente, con una percentuale del 33% tra i bambini di età compresa tra quattro e dodici anni afferiti presso il nostro Centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Questo dato evidenzia, come già anticipato precedentemente, il forte legame tra l’aspetto relazionale familiare e il disturbo in questione. Il DERC è caratterizzato dai seguenti aspetti (Bryant-Waugh, 2007): • Rifiuto del cibo che non dipende da un primitivo rifiuto affettivo; • Perdita di peso; • Disturbo dell’umore, che non soddisfa i criteri per la diagnosi di Disturbo Affettivo Primitivo; • Assenza di preoccupazione morbosa per il peso e/o la forma fisica del corpo; • Assenza di malattie organiche o psicosi. L’evitamento del cibo viene dunque ad avere una base emozionale (ansia, tristezza, preoccupazioni, ossessività), ma non è dettato da uno specifico motivo, come ad esempio evitare di aumentare di peso o paura di vomitare. L’età d’esordio di queste difficoltà coincide per tutti i soggetti con la fase di latenza, che comunemente si caratterizza per un apparente assopimento degli interessi sessuali in favore di quelli ludico-intellettivi, un progressivo declassarsi delle figure autoritarie familiari e quindi una maggiore capacità di differenziare giudizi e comportamenti al fine di raggiungere un buon adattamento al gruppo (S. Freud, 1905). Secondo la teoria psicoanalitica questo periodo è anche caratterizzato da meccanismi di difesa, quali sublimazione, formazione reattiva, spostamento, negazione della realtà nel fatto e nelle parole, per garantire l’integrazione del Sé (A. Freud, 1936). Verso l’undicesimo anno, all’egocentrismo subentra la consapevolezza dell’identità di Sé nelle diverse azioni, e degli altri come Io totali, dotati anch’essi di un’identità. Ciò, conduce a rapporti sociali più reali e profondi e segna l’inizio della successiva fase di sviluppo: la preadolescenza, caratterizzata da vissuti di ambivalenza e di ritorno all’oggetto parziale, in conseguenza dello “spostamento di libido dalle figure parentali ai coetanei, ai gruppi di comunità […]” (A. Freud, 1965). In tale periodo è possibile incontrare bambini con un corpo infantile che iniziano a sperimentare pulsioni proprie dell’adolescente, un cammino verso la ricerca dell’identità. Secondo Ferrari (1992) il primo cambiamento perturbante, legato alla trasformazione in atto, avviene appunto a livello corporeo, oggetto della mente per eccellenza. Il primo oggetto esterno per il preadolescente è quindi il proprio corpo, che anticipa un’esperienza ancora sconosciuta alla mente: il diventare adulti. Il corpo viene quindi vissuto come inquietante
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“novità e portatore di novità” (Campanile, 2003), ma al tempo stesso è anche l’unico aspetto in grado di essere manipolato, controllato e gestito. In esso si intrecciano aspetti psichici e somatici, i vissuti, le emozioni e gli affetti possono trovare in tale contesto un luogo privilegiato di espressione generando spesso un conflitto. Un’altra caratteristica comune nei quattro casi è la presenza di aspetti regressivi che si esprimono attraverso il timore di perdita della propria identità corporea ed un legame privilegiato con la figura materna. Tali aspetti sembrano dipendere dalla dominanza dei bisogni del genitore su quelli del bambino che non può, così, manifestare appieno la sua reale e soggettiva identità. Quest’ultima condizione sembra costituire un elemento dominante nelle diagnosi di DCA in pazienti molto giovani (Miller, 1980). Da non sottovalutare, quindi, anche le aspettative che il genitore trovava depositate su se stesso dai propri genitori (trasmissione trans-generazionale). Le aspettative, negli anni non soddisfatte, vengono riversate sul figlio e attraverso questo appagate. Tale condizione, però, comporta un impoverimento del bambino poiché si trova ad essere uno strumento del genitore necessario per recuperare gli insuccessi e le situazioni vissute come tali. Dall’analisi dei casi presentati emerge un’apparente contraddizione tra l’età dei pazienti, che si colloca nella fase di latenza, e la marcata somiglianza tra le caratteristiche di personalità dei nostri pazienti e quelle di molti altri affetti da DCA ma di età significativamente superiore. Si osserva, inoltre, una tendenza ad assumere condotte compiacenti come conseguenza delle necessità di soddisfare le presunte esigenze avanzate dagli altri. Possiamo notare come alla medesima modalità di risposta sintomatica si accompagnino comuni tratti di personalità. Tra questi si notano una tendenza ad assumere condotte e posizioni, sia a livello di comportamento che di pensiero, di tipo dicotomico: buono vs cattivo. In realtà possiamo individuare in questa disposizione una polarizzazione di parti del Sé all’interno di una personalità che riesce ad essere comunque sufficientemente adeguata e coerente con la realtà per mantenere e mostrare un apparente, per quanto precario, equilibrio psichico. Queste dicotomia è ben espressa dalle quattro pazienti attraverso la sensazione di essere “divise in due parti” (una buona ed una cattiva) che si alternano nell’influenzarne il comportamento, i pensieri e i sentimenti. La parte “buona” è quella che mangia e che corrisponde alle aspettative genitoriali; la parte “cattiva” è quella che delude e che non soddisfa le richieste e le attese. Questa ambivalenza risulta sfuggire al controllo volontario e razionale del soggetto che, come riporta una paziente, sembra concretizzarsi in due voci, una “cattiva” ed una “buona”, che dicono cosa fare. La difficoltà riferita da tutte le pazienti consiste nel far prevalere la parte “buona” del Sé per proteggersi, e proteggere gli altri, da quella “cattiva”, non rispondente alle aspettative dell’Altro e quindi inaccettabile, sebbene (o forse proprio perché) maggiormente veritiera. Dalle valutazioni diagnostiche e dall’analisi delle dinamiche interne emergono in modo dominante alcuni elementi che possiamo ritrovare pienamente rappresentati nella teoria del Falso Sé di Winnicott (Winnicott, 1951; 1971), che considera il Sé come un’entità primordiale psichico-corporea e relazionale che tende ad unificare i vari particolari dell’esistenza umana che permette a sua volta l’individuazione perso-
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nale. Il Sé trova la sua collocazione naturale nel corpo, ma in alcune circostanze si può assistere ad una sua dissociazione dal corpo, o quest’ultimo dal Sé. Secondo questa accezione, l’eziopatogenesi del falso Sé si colloca nel periodo preverbale e pregenitale, in particolare in un ambiente nel quale le figure di accudimento non hanno recepito né risposto ai gesti spontanei di un vero Sé che si sta radicando nel corpo. I fallimenti materni più comunemente riscontrabili sono riconducibili sia all’incapacità di soddisfare i bisogni del figlio, quando questo è in una situazione di eccitamento, sia a problematiche di interferenza con la sua mancanza di forma e integrazione quando il piccolo è in uno stato di quiescenza (Greenberg e Mitchell, 1983). Entrambe queste due condizioni conducono all’esperienza di annichilimento del Sé, ma nel secondo caso, in particolare, si riscontra la comparsa del Falso Sé che si sviluppa su una base di sottomissione e di contatto passivo con le richieste derivanti dalla realtà esterna. Di fronte a richieste ambientali anomale, avanzate in tale fase evolutiva, il bambino rinuncia ai propri desideri per accettare richieste nocive, plasmandosi sulla natura di queste creando così potenziali aspetti psicopatologici. Il meccanismo più importante nella costruzione del Falso Sé è la sostituzione: la coppia madre impone il suo desiderio sostituendolo a quello del figlio, generando una trasformazione radicale nel soggetto che deve disinvestire dai propri desideri (essendo essi stessi frustrati e negati) per sostituirli con quelli altrui. Si assiste quindi al passaggio da un orientamento interno ad uno esterno, caratterizzato da una pressante desiderabilità sociale, iperinvestimento e sottomissione, grazie ai quali il soggetto impara simultaneamente a negare quei bisogni che caratterizzano normalmente il Vero Sé. Il bambino, totalmente dipendente dalla madre, sviluppa nel contempo una falsa crescita personale fondata sull’obbedienza e sull’accondiscendenza. Tutte queste caratteristiche accomunano le nostre giovani pazienti, che esprimono il loro timore di deludere se stesse e gli altri, ricercando la perfezione nelle diverse sfere della propria vita. Ottengono ottimi risultati scolastici dai quali traggono soddisfazione e conforto, tendono a primeggiare nelle varie attività intraprese con conseguente timore di fallire e di non essere più accettate. Agli occhi altrui, in particolare quelli dei genitori, esse appaiono perfette ed eccellenti in ogni ambito sperimentato: dalla scuola alla vita famigliare, dallo sport alla musica, senza mostrare il minimo tentennamento o disaccordo. I genitori stessi confermano il sovraccarico di impegni quotidiani e ritmi sostenuti a cui sono sottoposte le figlie, a discapito di momenti da poter dedicare all’attività ludica. Tale strutturazione, che implica la rinuncia alla spontaneità, diviene caratteristica apprezzata dall’ambiente circostante in quanto il soggetto appare diligente, educato e rispettoso. La compiacenza, intesa come capacità di sapersi sempre adattare alle richieste ambientali, in particolare quelle provenienti dalle figure genitoriali, a discapito della libera e spontanea espressione di sé, sembra essere la caratteristica predominante nella diagnosi dei nostri soggetti affetti da DCA. Essa si configura come difesa adottata dalle pazienti per essere viste, per trovare una loro collocazione all’interno delle relazioni con gli adulti, ma che col tempo produce danni molto pesanti perchè conduce ad un tradimento degli istinti e delle pulsioni. Secondo il pensiero di Alice Miller (1980), l’anoressia si presta ad essere la continuazione di dinamiche sorte precocemente: il controllo ossessivo delle abitudini
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alimentari e del proprio peso rispecchierebbe un’educazione che mira ad ottenere un figlio che non dia problemi, sia efficiente e ammirato, caratteristiche che scaturiscono con molta probabilità da un falso Sé patologico. Il sintomo diventa quindi un’estrema richiesta di normalità che il soggetto non può concedersi, diventa un modo violento per esprimere all’altro quella parte di sé che il genitore inconsapevolmente ha soffocato. Il sintomo permette inoltre di conservare una coerenza con la propria identità: è l’alternativa che consente di restare perfetti mantenendo comunque l’oggetto d’amore. Il bambino perfetto, definito tale dalla Miller, è colui che alla base, spesso, ha ottime e inconsapevoli capacità di cogliere i bisogni dei genitori e di adattarsi ad essi, negandosi così la possibilità di esprimere la sua vera natura e le sue emozioni più autentiche, quelle che verosimilmente la madre non accetta, e allo stesso tempo di conservare e garantirsi, un amore materno condizionato. Come già osservato da Davies et al. (2006), i quali concettualizzano il disturbo alimentare come un disturbo di relazione, si può osservare la tendenza ad esprimere una forte sofferenza interiore attraverso la volontà di non alimentarsi. Tale scelta, però, non è accompagnata da un’esplicita insoddisfazione per le forme corporee e dalla paura di ingrassare, come invece accade nell’adolescente e, trattandosi di bambine in età puberale, non è nemmeno valutabile la presenza di alterazione del ciclo mestruale o del desiderio di raggiungere un peso ideale. Negli ultimi due casi illustrati si possono cogliere caratteristiche che possono orientare il disturbo verso una diagnosi di Anoressia Nervosa tipica dell’età adolescenziale: paura morbosa di ingrassare e dimorfismo corporeo. Possiamo dunque riconoscere che tra DERC ed Anoressia Nervosa vi sia un comune movimento di fondo evidenziabile nei casi da noi riportati, con tratti e caratteristiche comuni: le dinamiche a tipo falso-Sé, gli aspetti psicologici di perfezionismo, inadeguatezza, paura della maturità, la preoccupazione per il peso e la forma corporea, sebbene queste ultime non assumano ancora il ruolo pervasivo riscontrabile nei disturbi alimentari dell’età adolescenziale. Conclusioni Il nucleo dinamico comune ai casi presentati sembra essere la scissione, una alternanza tra due modi di essere che pare non avere nessuna relazione di continuità. I contenuti impossibili da soggettivare come la pulsione, il godimento del corpo per sé e non per gli altri vengono adattati dalla presenza del falso sé. I soggetti descritti sembrano essere disgiunti da una barriera verticale che non li mette in comunicazione. Tale conflitto emozionale si manifesta attraverso il sintomo alimentare, un sintomo fortemente organizzato al momento della nostra osservazione ma che dobbiamo considerare esordito molto tempo primo della sua manifestazione oggi. Il cibo rappresenta, quindi, per il bambino ancora incapace di discriminare adeguatamente i propri bisogni primari, una modalità più accessibile per esprimere e comunicare le proprie emozioni. Attraverso il rifiuto del cibo il bambino cristallizza la dicotomia ed impedisce al vero-Sé la comprensione di un Sé falso e modellato
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sulle aspettative dell’altro. A nostro avviso, nei pazienti affetti da DERC manca una struttura cognitiva più organizzata che consenta lo strutturarsi di un’Anoressia, ma potrebbe trattarsi di un primo precursore; dai tratti comuni e dalla simile organizzazione di personalità è a nostro avviso possibile – e probabile – uno spostamento sul versante anoressico. È stata descritta in letteratura la possibilità che il DERC sia correlato con la futura insorgenza di un DCA (Casper, 2000), anche se allo stato attuale della ricerca mancano chiare evidenze. La valutazione clinico-diagnostica dei disturbi alimentari nell’infanzia non può quindi prescindere dal prendere in considerazione le caratteristiche del bambino, unitamente a quelle delle figure di attaccamento che possono essere caratterizzate da bisogni mai soddisfatti o da aspetti disfunzionali, all’interno di un quadro relazionale dinamico inserito in uno specifico contesto di vita e lungo il continuum dello sviluppo. Raccomandiamo che il piano terapeutico si focalizzi sull’associazione tra l’alterata condotta alimentare e il significato e le implicazioni emotive che il sintomo assume, trattando tanto la prima quanto le seconde (Nicholls, 2007), considerata l’importanza dell’associazione al disagio emotivo della componente alimentare, che ne complica la prognosi (Higgs, 1989). Suggeriamo dunque l’importanza di un’adeguata e necessaria presa in carico familiare, indagando con i genitori riguardo che tipo di figli sono stati essi stessi e quali figli avrebbero voluto essere, analizzando lo stile educativo da questi ricevuto e a sua volta eventualmente applicato sul bambino che giunge alla nostra osservazione. Sottolineiamo, infine, l’importanza del sintomo che anche in età precoce riporta drammaticamente al centro il bambino per quello che è e non per ciò che vorrebbe essere, divenendo l’unica espressione tollerabile del vero-Sé. Riassunto Introduzione: Gli Autori si interrogano riguardo all’inquadramento di condotte morbose relative alla sfera alimentare all’interno dell’età di latenza e su cosa comporti una elevata concordanza tra manifestazioni sintomatiche e condizioni psicologiche in soggetti diversi tra loro ma accomunati dall’età di presentazione del sintomo. Metodo: Come esemplificazione vengono presentati quattro casi in cui è stata posta diagnosi di Disturbo Emotivo da Rifiuto del Cibo. Discussione: Dall’analisi dei casi presentati emerge un’apparente contraddizione tra l’età dei pazienti, che si colloca nella fase di latenza, e la marcata somiglianza tra le caratteristiche di personalità dei nostri pazienti e quelle di molti altri affetti da DCA ma di età significativamente superiore. I soggetti sono inoltre accomunati dalla presenza di aspetti regressivi, da condotte di compiacenza e posizioni – sia a livello di comportamento che di pensiero – di tipo dicotomico, dalla dominanza dei bisogni del genitore su quelli del bambino e dalla trasmissione trans-generazionale delle aspettative. Conclusioni: Attraverso il rifiuto del cibo il bambino cristallizza la dicotomia ed impedisce al vero-Sé la comprensione di un Sé falso e modellato sulle aspettative dell’altro. Gli Autori ritengono che nella paziente affetta da DERC manchi una struttura cognitiva più organizzata che consenta lo strutturarsi di un’Anoressia, ma sia possibile uno spostamento sul versante anoressico nelle successive fasi evolutive. Parole chiave Disturbo emotivo da rifiuto del cibo – Disturbi del comportamento alimentare – Falso Sé – Età di latenza – Scissione.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 138-153
Anoressia e competizione sociale Anorexia and social competition Teodosio Giacolini*
Summary This paper examines the eating disorder of anorexia from an evolutionary perspective. The dimension of dissociation is highlighted as a characterising feature of anorexia. The agonistic motivational system is described, the dynamics of which constitute both the proximal and distal causes of anorexia. In the end a psychoterapeutic model is considered. Key words Anorexia – Social competition – Dissociation – Agonistic motivational system.
Introduzione I disordini alimentari, tra cui l’anoressia nervosa, sono considerati delle patologie croniche con genesi multifattoriale ad eziologia non nota e molto difficili da trattare. La prevalenza del disturbo è stimata intorno al 0,3% (Zandian et al., 2007), l’età media di esordio tra 14 e 19 anni e la maggior parte delle pazienti è di sesso femminile (95%), nonostante negli ultimi anni siano incrementati i casi di anoressia maschile e quelli ad esordio precoce. Rispetto alla prognosi, le possibilità di remissione sono stimate al di sotto del 50% in follow-up di 10 anni, in circa il 25% delle pazienti non vi è remissione della sintomatologia, e la mortalità rilevata mostra una grande variabilità, fino a stime del 25% (uno dei tassi più elevati di mortalità tra i vari disturbi psichiatrici). L’anoressia rimane ancora oggi una patologia psichiatrica ad eziologia in parte misteriosa. Di conseguenza le terapie messe in campo risentono di un alto grado di empiria ed allo stesso tempo di tentativi di spiegazione teorici, parziali. L’unica concordanza che vi è tra tutti i ricercatori, indipendentemente dall’orientamento teorico, è che non ci sono indicazioni chiare rispetto all’efficacia terapeutica. Questo stato di cose motiva i clinici ad affrontare con particolare interesse i casi che presentano questa forma di psicopatologia. Non solo. L’anoressia è un quadro nosografico caratterizzato da un massiccio stato dissociativo del soggetto verso il riconoscimento del sintomo. Questo ne fa, di conseguenza, un osservatorio particolarmente privilegiato per lo studio degli stati di coscienza. Infine, i comportamenti anoressici sono espressione di una disregolazione alimentare che può manifestarsi in modo più o meno transitorio in numerosi disturbi psichiatrici, dai disturbi dell’umore, ai disturbi *
Dipartimento di Pediatria e di Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.
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d’ansia, ai disturbi di personalità e alle psicosi. Il disturbo alimentare, e l’anoressia in particolare modo, appaiono dunque essere espressioni di funzioni mentali di base, connesse all’evoluzione stessa della mente e del cervello, tanto da apparire frequentemente in vari quadri sindromici. Questo indica, allora, il quesito di quale punto di vista utilizzare per portare avanti lo studio delle patologie alimentari e della anoressia in particolare, cercando di elaborare un modello esplicativo in grado di unificare i dati a disposizione da un punto di vista neurobiologico, di decorso, di efficacia della terapia farmacologica e di prognosi all’interno di un modello unico e coerente. Alla luce di quanto sopra affermato, il vertice evoluzionista si sta rivelando particolarmente ricco di prospettive euristiche nel campo dello studio delle funzioni mentali. Con il termine vertice evoluzionista ci riferiamo a quella particolare influenza che la scoperta dell’Evoluzionismo ha avuto sulle discipline psicologiche e psichiatriche. Questa influenza è consistita, per dirlo in estrema sintesi, nel riconoscere che qualsiasi comportamento o espressione umana, sia fisiologica che patologica, è espressione di un processo di selezione all’interno di una tensione adattativa all’interno dell’albero filogenetico che ha condotto allo stato attuale della nostra specie. È tenendo presente questo punto di vista che è possibile cercare di individuare le cause prossime, proprie della storia del soggetto e quelle remote, appartenenti alla storia della specie, di un comportamento anomalo come quello anoressico. Individuare le cause remote significa affrontare il tema dei sistemi motivazionali, denominati anche istinti, che costituiscono un problema che da sempre è centrale nello studio del comportamento umano, ma contemporaneamente costantemente trattato in modo estremamente fugace. Di conseguenza qualsiasi sforzo di comprensione e cura necessitano che sia tenuta presente, interrogata e ricostruita la dimensione filogenetica, senza la quale la ontogenesi non può essere contestualizzata. In un’ottica evoluzionistica verrà, dunque, affrontato il problema della dissociazione, centrale nel funzionamento anoressico e la dinamica dei sistemi motivazionali ed in modo particolare il sistema motivazionale agonistico, ritenuto centrale nella evoluzione della anoressia. Infine verrà brevemente illustrato un modello di psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico, coniugato con l’ottica evoluzionista dei sistemi motivazionali interpersonali e della mentalizzazione. Coscienza e dissociazione I disturbi alimentari sono da tempo annoverati tra i sintomi presenti negli stati dissociativi. La dissociazione viene definita “sconnessione delle funzioni, solitamente integrate della coscienza, della memoria, della identità o della percezione. Le alterazioni possono essere improvvise o graduali, transitorie o croniche” (p. 557) (American Psychiatric Association, 2000). La dimensione dissociata può essere individuata in un dato osservativo, peculiare sopratutto della anoressia, ovvero la quasi totale mancanza di coscienza della malattia da parte dei pazienti. I soggetti, anche dopo aver riacquistato peso ed aver seguito un percorso di cura, hanno una quasi totale mancanza di consapevolezza di ciò che hanno attraversato. Questo indicherebbe che la funzione
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alimentare, nei soggetti che presentano tale problematica, sia entrata in una funzione regolativa nettamente separata dalla possibilità di divenire cosciente. Interrogarsi sul problema della consapevolezza in ambito psicodinamico è, senza dubbio, un compito arduo. Come è noto S. Freud introdusse il concetto di rimozione (Freud, 1894) per dare ragione dei funzionamenti mentali che non sono sotto il controllo della consapevolezza. Con la definizione di questo funzionamento Freud poneva la pietra angolare della sua teoria psicodinamica, entrando in contrapposizione con le idee da lui stesso condivise fino a quel momento, ovvero il problema della dissociazione evidenziata dalla metodica della ipnosi. P. Janet, contemporaneo di Freud, mantenne, invece, la ipnosi come punto di riferimento per elaborare una teoria generale del funzionamento psichico in cui delineò il concetto di dissociazione come attualmente viene inteso. Il termine dissociazione venne, appunto, introdotto da P. Janet con il concetto “desagregation” tradotto da W. James come “dissociation”. La teoria del filosofo e psichiatra francese proponeva che ogni essere umano per acquisire il senso della propria individualità necessita di un lavoro di sintesi delle molteplici funzioni e strutture di significato che compongono il sé della persona. In una certa percentuale di soggetti, però, sarebbe presente una debolezza mentale congenita che impedisce la sintesi di nuove e particolari esperienze, come quelle traumatiche, che rimangono così isolate nel subconscio, e da lì agiscono in modo patogeno. All’incirca negli stessi anni, come sopra ricordato, anche Freud insieme al collega più anziano J. Breuer lavoravano sulle medesime psicopatologie di cui si interessava P. Janet, le gravi manisfestazioni isteriche. J. Breuer teorizzava (Freud, 1892, 1892-95) che la nuova esperienza traumatica non potesse venire integrata nella coscienza, rimanendo in una sorta di isolamento, a causa della vulnerabilità del soggetto isterico a stati ipnoidi, stati di coscienza alterati, conseguenza della esperienza eccezionale vissuta. Come già ricordato Freud non condivideva entrambe queste impostazioni, elaborando la sua teoria delle neuropsicosi da difesa, in cui l’Io si difende primariamente in modo intenzionale ed attivo dalla ammissione alla coscienza di contenuti esperenziali o ideativi inaccettabili (Freud, 1894), cercando di allontanare le rappresentazioni intollerabili dalla consapevolezza, ovvero rimuovendole. Il risultato di questo sforzo dell’Io è una “scissione” (Freud, 1984) della rappresentazione dalla somma di eccitazione o ammontare affettivo a cui la prima è collegata. L’esito estremo del tentativo dell’Io di “strappare via” la rappresentazione e l’affetto indesiderabili dalla consapevolezza è la “fuga nella psicosi” (Freud, 1894, p. 133). Freud, in questo modo, stava dando un contributo centrale alla formazione della psicologia dinamica, di cui un elemento peculiare era il ritenere le esperienze traumatiche o i contenuti rappresentazionali, di origine immancabilmente sessuale. È il caso di annotare che la impostazione della psicoanalisi evidenzia fin dall’inizio la coesistenza di due contenitori ideativi ed affettivi, uno consapevole e l’altro inconscio, risultante di un primo atto intenzionale (Freud, 1894, p. 122) del soggetto per “difendersi” da qualche contenuto mentale inaccettabile. La sottolineatura fatta con forza da Freud relativamente alla intenzionalità difensiva, ne marcava la sostanziale differenza dalle teorie sia di P. Janet che di J. Breuer, entrambi i quali, pur con teorizzazioni differenti, consideravano i disagi mentali dei pazienti come effetto di funzionamenti cerebrali alterati, o per conseguenze congenite oppure
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per conseguenze traumatiche. Di conseguenza il soggetto era ritenuto totalmente passivo nei confronti dell’incedere dei disturbi mentali. Freud, all’inverso, riteneva il soggetto responsabile primo del proprio stato mentale, conseguenza dell’effetto della propria attività difensiva, che lo aveva condotto, così, ad essere inconsapevole di una parte di se stesso, alienandosi. Questa diversa visuale proposta da Freud riqualificava il paziente, recuperandolo dalla passività di oggetto da curare a cui la medicina lo aveva confinato. Possiamo ritenere che questa nuova prospettiva, in cui il soggetto è curato attraverso il ricondurlo al riconoscimento graduale della attiva ed intenzionale partecipazione alle proprie sorti mentali, risieda parte della eccezionale divulgazione che la psicoanalisi ha avuto ed in parte ancora ha. Le neuroscienze cognitive hanno mostrato che le alterazioni della continuità della coscienza, memoria, identità sono espressione estreme della struttura stessa del funzionamento cerebrale, problematizzando la visione psicodinamica di Freud. Come sopra esposto, il concetto di dissociazione è estraneo epistemologicamente alla psicoanalisi. Una ricercatrice in campo psicoanalitico che, invece, ha proposto di considerare i fenomeni descritti dalla psicoanalisi, a partire dalla rimozione, come stati dissociati della attività psichica è W. Bucci. La sua teoria del Codice multiplo (1997), ancorata ad una vasta letteratura neuroscientifica e di psicologia sperimentale, individua il funzionamento mentale come una attività di elaborazione in parallelo di molteplici livelli: un livello verbale simbolico, un livello non-verbale simbolico ed infine un terzo livello non-verbale non-simbolico. La prima funzione è esplicata dalla attività cosciente di verbalizzazione delle esperienze vissute, la seconda dalla capacità cosciente di rappresentare esperienze a livello simbolico ma non-verbale, come avviene nella pittura o nella musica. La terza funzione è caratterizzata da una elaborazione in parallelo, non conscia, non categoriale ma analogica e continua, di informazioni relative a molteplici funzioni sia sensoriali che motorie. Queste ultime permettono, ad esempio, di giocare a tennis intuendo la traiettoria della palla da rinviare, guidare l’automobile computando i vari parametri che permettono di condurre l’autovettura, e, per noi particolarmente interessante, tutte le elaborazioni connesse con le risposte emozionali. Ogni risposta emozionale è espressione di uno “schema emozionale” (Bucci op. cit., p. 200), costruitosi nelle innumerevoli interazioni sopratutto con i caregiver, analogo ai working model descritti da J. Bowlby (Bowlby, 1968). Questi “schemi emozionali” diventano schemi comportamentali che si attivano automaticamente ed attraverso cui viene data una risposta alla nuova situazione sulla base di quanto precedentemente sperimentato ed acquisito. Gli schemi emozionali sono rappresentazioni prototipiche di interazione apprese sé-altro unitamente a stati affettivi condivisi (Bucci op. cit., p. 189). Questi ultimi “consistono di raggruppamenti di elementi sensoriali, viscerali e motori che sono largamente subsimbolici, e che si realizzano all’interno o al di fuori della consapevolezza” (Bucci op. cit., p. 189). Gli schemi emozionali diventano gli elementi centrali di quella che l’autrice definisce una teoria dell’elaborazione dell’informazione emotiva che guida il soggetto umano nelle interazioni interpersonali e che integra la teoria dell’elaborazione dell’informazione cognitiva. Un aspetto di estremo interesse, messo in risalto dalla Bucci circa il livello di elaborazione subsimbolico ed implicito, rigarda i processi e le rappresentazioni ad
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esso connesse che non essendo connesse ad una esplicita intenzionalità «vengono sperimentate dal soggetto come “al di fuori di sé” esterni al quel dominio del sé in riferimento al quale ci sembra di esercitare un controllo intenzionale… ci sentiamo spesso alla mercè dei nostri processi emotivi o fisici, e non riusciamo a dirigerli intenzionalmente. Questo è il motivo per cui a volte abbiamo bisogno di agenti esterni – alcool, caffè, tranquillanti, sonniferi, antidepressivi – per regolare queste funzioni” (Bucci op. cit., p. 168). Questa dimensione subsimbolica, strutturalmente dissociata dalla dimensione cosciente, può essere ritrovata, aggiungiamo noi, in comportamenti apparentemente irrazionali come quelli dei disturbi alimentari, in cui la gestione degli alimenti è elemento attraverso cui regolare una configurazione emozionale attivata. Vi torneremo in seguito. La teorizzazione della Bucci permette di dare ragione di comportamenti che la moderna neurobiologia indica propri dei sistemi motivazionali od emozionali (Panksepp, 1998). Negli stessi anni in cui W. Bucci elaborava il suo modello di Codice multiplo in ambito di psicologia sperimentale, in un campo affine, quello neuroscientifico, A. Damasio descriveva nella sua opera un modello di funzionamento delle emozioni e della coscienza particolarmente adatto a coniugarsi con la dinamica dei sistemi emozionali interpersonali e dunque con le problematiche psicopatologiche. Un punto centrale della sua teorizzazione, utile al nostro lavoro, è la teoria del marcatore somatico (Damasio, 1994), di cui ricordiamo brevemente alcuni punti specifici. All’inizio erano le emozioni quali pattern di reazioni comportamentali preapprese, connesse a particolari stati di attivazione somatica, viscerale e neuronale. Il meccanismo delle emozioni è universale, ovvero è presente in tutti gli esseri umani e trasversale alle specie. La caratteristica evoluzionistica delle emozioni è che sono pattern di risposte comportamentali selezionate perché funzionali a permettere una risposta veloce ed efficace dell’organismo alle richieste di adattamento che l’ambiente pone. Sono state riconosciute sei emozioni primarie paura, rabbia, disgusto, sorpresa, tristezza, felicità (Damasio, 2003, p. 6). Le emozioni sono caratterizzate non soltanto dall’essere biologicamente preapprese, ma anche dall’essere modulate attraverso l’esperienza e l’apprendimento. Da le emozioni primarie, attraverso il meccanismo dell’apprendimento pavloviano o stimolo/risposta, derivano le emozioni secondarie, caratterizzate dall’essere collegate in modo indelebile con particolari esperienze. Da quel momento in poi il ripresentarsi di uno stimolo analogo a quello esperito, comporterà il suo istantaneo riconoscimento a livello della attivazione emozionale primariamente esperita. Avremo, così, luoghi, cose, persone, situazioni che verranno automaticamente decodificate attraverso il marcatore emozionale ad esso associato. Questo marcatore emozionale è da Damasio etichettato come somatico a causa della base somato/viscerale/comportamentale che forma il determinarsi di una emozione. L’aspetto di particolare interesse della teoria del marcatore somatico è che esso genera una informazione viscero/cinestesica che afferisce alla corteccia somatosensoriale, la quale reinvia le informazioni alla corteccia prefrontale dove esse costituiscono la fonte della attività decisionale/cognitiva che permetterà al soggetto di attuare intenzionalmente il comportamento giudicato più opportuno. Il marcatore somatico è, dunque, un elemento significativo del processo di coscienza. Contemporaneamen-
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te, però, Damasio indica che il marcatore somatico può agire “come se”, bypassando l’attivazione viscero/cinestesica del corpo. Le strutture deputate all’attivazione della risposta emozionale, “i siti di induzione” costituiti dalla amigdala e dalla corteccia prefrontale ventro-mediale (Damasio, 2003, pp. 77-78), elaborando le informazioni sensoriali che giungono da talamo e corteccia sensoriale, inviano direttamente alla corteccia somatosensoriale i pattern di configurazione della risposta corporea emozionale (Damasio, 1994, p.184), la quale reinvierà alla corteccia prefrontale, dove il soggetto prenderà consapevolezza, della configurazione emozionale connessa a quella determinata situazione, senza che vi sia stato la corrispondente attivazione della componente viscero/cinenstesica. È stato così creato quello che Damasio definisce un “simbolo” di uno stato somatico, che influenzerà una presa di decisione sul da farsi. Altro elemento che viene messo in rilievo è che il marcatore somatico può non divenire oggetto della attenzione consapevole. Tutto questo può avvenire senza che nell’ultimo passaggio l’attenzione venga posta sul “simbolo” della attivazione somatica, ovvero sulla percezione dell’emozione attivata, non vi sarà così consapevolezza attraverso il feeling consciamente percepito, ma tale informazione in modo non consapevole determinerà ugualmente una presa di decisione. Scrive Damasio “Quite simply, a signal body state or its surrogate may have been activated but not been made the focus of attention. Without attention, neither will be part of consciousness, although either can be part of a covert action on the mechanisms that govern, without willfull control, our appetitive (approach) or aversive (withdrawal) attitudes toward the world” (op. cit., p. 185). Damasio descrive, dunque, un modello di funzionamento strutturalmente dissociato peculiarmente connesso alla funzione emozionale, in cui la reazione emozionale si esplica senza l’intervento della componente di consapevolezza. In tal modo egli ripropone all’attenzione, con l’efficacia della documentazione scientifica, quanto da tempo già conosciuto, ovvero che le emozioni sono un punto di arrivo della evoluzione, dei pattern pre-appresi di risposta a situazioni stimolo dall’alto valore adattativo. Non solo. Damasio evidenzia un altro punto anch’esso non nuovo ai neurobiologi ed etologi, ma ancora particolarmente ostico ad essere pienamente riconosciuto da chi si occupa di studiare e curare la mente umana: le cosidette emozioni secondarie sono emozioni sociali. Questa affermazione indica una delle pietre miliari della evoluzione del genere umano. Infatti ciò che ha condotto dal modello di comportamento proprio dei rettili, gli antenati filogeneticamente più antichi, a quello dei mammiferi, quindi dei primati ed infine dell’uomo è l’utilizzo di pattern di comportamenti emozionali al servizio delle interazioni sociali (Giacolini, 2007). Le emozioni primarie, paura, rabbia, disgusto, sorpresa, tristezza, felicità (Damasio, 2003, p. 6), presenti anche in organismi evoluzionisticamente più antichi (McLean, 1990), con l’evolversi del sistema limbico sono divenuti dei sistemi di comunicazione complementari, formando l’insieme di questi sistemi motivazionali che regolano la vita di relazione negli uccelli e nei mammiferi (Giacolini, 2007; Liotti,2005). I sistemi emozionali interindividuali esprimono valori biologicamente preprogrammati (Damasio,1994; Edelman 1992; Tononi e Edelman, 2000) attraverso cui assicurano l’adattamento e il perpetuarsi della capacità di vivere in gruppo. Questi valori/emozioni, caratterizzati ognuno da
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specifici marcatori somatici, nella specie umana possono divenire oggetto della attività di coscienza ma anche non entrare nel fuoco dell’attenzione e operare in modo automatico ed implicito. È su quest’ultimo aspetto che i clinici, maggiormente interessati al trattamento della dimensione dissociativa, ne individuano un aspetto causale centrale. Sopratutto O. van der Hart (2006-2008) ha elaborato una “theory of structural dissociation of personality” il cui punto centrale è considerare gli “action systems”, ovvero i sistemi emozionali/motivazionali selezionati nella filogenesi e deputati sopratutto alla regolazione delle interazioni tra conspecifici, organizzati in due grandi categorie, quelli deputati ad avvicinare l’oggetto desiderato e quelli deputati ad allontanarsi da un oggetto minaccioso. Questa teoria dei sistemi emozionali ancorati a due primitive tendenze ancestrali di avvicinamento e allontanamento (Carver, 2006; Carver et al., 2000; Lang et al., 1998; 2009) indica la dissociazione strutturale della personalità, che si può manifestare clinicamente nel momento in cui una esperienza traumatica sopravviene (O. van der Hart, 2008, p. 260), evidenziando linee dissociative tra i sistemi emozionali/motivazionali. Di conseguenza la personalità potrà tendere o a perseguire i propri fini non potendo tenere coscientemente presente le esperienze che hanno determinato emozioni di allarme, o viceversa non potrà che rimanere costantemente in una posizione di difesa ed evitamento avendo l’attenzione esclusivamente alla trascorsa esperienza minacciosa. L’anoressia ben evidenzierebbe nell’evitamento focale del cibo, del tutto privo di una ragionevole spiegazione, un comportamento che indica proprio nel cibo una minaccia, estremamente pericolosa, da evitare. Perché? Nel pragrafo successivo in cui ci occuperemo della Rank theory ed anoressia indicheremo una risposta. Rank theory e anoressia La Rank theory (Stevens e Price, 1997) è una teoria delle relazioni umane che mette al centro della loro comprensione l’assunto che nella filogenesi si siano selezionati sistemi motivazionali deputati alla regolazione della vita in gruppo (Giacolini, 2007). Questi sistemi, propri dei mammiferi e della specie umana, sono il sistema di attaccamento, sistema di accudimento, sistema agonistico, sistema sessuale, sistema cooperativo. La caratteristica di ognuno di questi sistemi motivazionali è che hanno una matrice tramandata nel DNA, che si attualizza attraverso l’esperienza relazionale. Ogni sistema motivazionale è una sorta di algoritmo attraverso cui vengono elaborati i segnali emozionali (Liotti, 2001; Cosmides e Tooby, 2000) espressi da un conspecifico, ed attraverso cui viene espressa una risposta emozionalmente in buona parte predeterminata. Questa risposta è composta di pattern di attivazione del sistema nervoso ed ormonale e da pattern comportamentali, questi ultimi sottoposti a modulazione attraverso l’apprendimento. Fra i sistemi motivazionali sopra descritti, due sembrano particolarmente coinvolti nella anoressia, quello agonistico e secondariamente quello di attaccamento. Il sistema motivazionale agonistico è la denominazione neurobiologica di quello che viene definito da un punto di vista etologico e di psicologia comparata Teo-
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ria della formazione del rango (Stevens e Price, 1997). Questa teoria sostiene che i mammiferi e gli uccelli hanno evoluto parallelamente la capacità di vivere in gruppo attraverso una analoga forma di competizione, regolata ritualmente attraverso cui viene organizzato l’accesso alle risorse alimentari e sessuali degli appartenenti alla medesima specie. In tal modo lo scopo della competizione non è eliminare il contendente ma determinare una organizzazione di gruppo gerarchica, il rango, in cui vi è un dominante che ha la priorità sulle risorse nei confronti di chi risulta sottomesso. Sono stati, così, selezionati nel corso della filogenesi dei comportamenti rituali, che hanno la funzione di segnalare al rivale la rivendicazione di supremazia o il riconoscimento di sottomissione. I segnali appartenenti alla prima categoria sono comportamenti di evidente aggressività e minaccia che innescano nel contendente un analogo comportamento di lotta, oppure, se la competizione viene valutata impari e dunque sopraffacente, il riconoscimento di essere inferiore al conspecifico, dando luogo ad un comportamento definito di sottomissione. Il comportamento di sottomissione ha la funzione di disinnescare la aggressività del contendente e di permettere al rivale sconfitto di continuare a rimanere all’interno del gruppo, in cui, però, egli dovrà dare la precedenza (yelding) al rivale nell’accesso alle fonti di cibo e negli accoppiamenti. Come è noto a seconda delle specie sono presenti caratteristici comportamenti di pacificazione, quali comportarsi come cuccioli della propria specie, mostrare comportamento di offerta sessuale tipico delle femmine ecc. (Eibi-Eibesfeldt, 1989). Ricerche nurobiologiche hanno individuato come nelle più varie specie gli individui di rango inferiore tendano a rimanere ai margini del gruppo ed ad avere uno stato di stress permanentemente attivo (Sapolsky, 1982). L’attivazione costante dell’asse dello stress (HPA), espressione della asimmetria relazionale, indica la necessità di chi è sottomesso ad un continuo monitoraggio del proprio comportamento in relazione a quello dei dominanti, per segnalare costantemente il proprio stato di inferiorità al fine di non incorrere in aggressioni. Questi comportamenti sono stati studiati sopratutto nelle competizioni tra maschi, essendo la competizione per l’acquisizione del rango tipica degli individui di sesso maschile nella maggior parte dei mammiferi ed uccelli. Negli ultimi anni, però, si è andato sempre più incrementando l’interesse per lo studio delle problematiche di rango connesse ai soggetti femminili di varie specie di mammiferi (Holekamp, Smale, Szykman, 1996; Pusey, Williams, Goodall, 1997; Schino, 2001; ØHoland, Gjøstein, Losvar, Kumpula, Smith, Røed, Nieminen e Weladji, 2004; Chapais, Bernard, 1988). Le ricerche indicano che la formazione di un rango sociale avviene anche all’interno degli individui di sesso femminile. La funzione della struttura di rango nelle femmine di mammiferi sembra essere sopratutto quello di garantire un accesso prioritario alle risorse alimentari, strettamente connesso all’acquisizione di maggiori risorse energetiche per l’accoppiamento e l’allevamento della prole (Barton e Whiten, 1993). Questa funzione è particolarmente evidente in situazioni di penuria ambientale di cibo (Barton e Whiten, 1993). Quando il cibo scarseggia le femmine dominanti, dunque di rango superiore, hanno una evidente migliore alimentazione in confronto alle femmine di rango inferiore e dunque una maggiore capacità e frequenza di accoppiamento, di concepimento e di far crescere più rapidamente la propria prole. In queste situazioni la posizione di rango, e quindi
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di accesso alle scarse risorse, determina una severa differenziazione nelle possibilità riproduttive, quasi esclusivamente espresse dalle femmine dominanti. La ricerca evidenzia, dunque, che per le femmine dei mammiferi la dinamica della competizione per il rango sociale non solo è strettamente connessa alla dimensione alimentare ma ha una importanza analoga a quella per il genere maschile. Da un punto di vista neurobiologico ciò implica la presenza di un sistema motivazionale agonistico analogo a quello presente nei maschi (Troop et al., 2003). Studi connessi alla dinamica degli androgneni nelle femmine hanno evidenziato la medesima dinamica che esiste nei maschi, ovvero aumento della aggressività, della dominanza e del desiderio sessuale all’aumento di androgeni (Sherwin, 1988). È stata anche comprovata l’esistenza di analoghi recettori agli androgeni nel cervello delle femmine (Carter, 1992). Ne consegue che anche i soggetti femminili siano vulnerabili allo stress da competizione sociale come i soggetti maschi, vulnerabilità che può essere sia congenita che acquisita per apprendimento per osservazione delle figure primarie (Giacolini, 1997). Questa vulnerabilità implica una automatica tendenza ad una comparazione negativa nei confronti degli altri soggetti femminili ed una altrettanto automatica tendenza ad attivare un comportamento di sottomissione (Connan et al., 2007). Caratteristica del comportamento di sottomissione, come sopra indicato, è quello di rendere manifesto pubblicamente il riconoscimento della propria inferiorità, mostrando esplicitamente di tenersi indietro dalle risorse alimentari rispetto agli altri componenti il gruppo sociale. Nella filogenesi del comportamento di sottomissione, in modo particolare per le femmine, è centrale il controllo della motivazione alimentare, rinviandone la soddisfazione, al fine di non riaccendere una competizione pericolosa. Possiamo ritenere che questi comportamenti, essendo stati selezionati nella filogenesi ed essendosi perciò rivelati efficaci per la sopravvivenza degli individui più deboli all’interno del gruppo, permettendo contemporaneamente al gruppo stesso di usufruire delle risorse costituite dalla affiliazione di quegli stessi individui, ad esempio per scopi difensivi, debbano avere un corrispondente neurofisiologico che ne determina il loro perpetuarsi all’interno dell’individuo. Questa constatazione deriva dalla necessità per il gruppo di avere una relativa stabilità. Relativamente a questo ultimo punto, sopra è stato indicato come gli individui di rango inferiore e quindi in uno stato di sottomissione evidenziano uno stato di stress/ansia costante. Nella anorressia nervosa un dato emergente è la significatività di uno stato di stress indotto da ansia (Van den Eynde et al., 2008), le cui consequenze si vedrebbero nella mancanza di appetito che è tipico della attivazione dell’asse dello stress (Connan et al., 2007). Rispetto quest’ultimo aspetto K. Gross e P. Gilbert (Gross e Gilbert, 2002) mettono in risalto come i disturbi alimentari siano caratterizzati da una emozione specifica, la vergogna strettamente connessa al senso di inferiorità. Nella epistemologia evoluzionistica la vergogna è l’emozione che inibisce l’azione dell’individuo che si autovaluta inferiore, frenando in tal modo l’esposizione del soggetto ad un conflitto fallimentare con un conspecifico valutato più qualificato. In particolare nella anoressia la restrizione del cibo è il modo principale per gestire la vergogna, o più precisamente attraverso cui la vergogna si manifesta attraverso un comportamento non associato ad una emozione. Nella anoressia nervosa il senso di vergogna è velocemente sostituito dalla emozione
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dell’orgoglio (Gross e Gilbert, 2002), nel momento in cui il soggetto raggiunge il proprio obiettivo restrittivo. Questo apparrente paradosso viene spiegato come derivante dal senso di efficacia (vedi Brouce, 1979; White, 1959; Lichtemberg, 1989) di far collimare le proprie aspettative riguardanti la gestione della quantità del cibo con la realizzazione di questo. Il razionale di tale paradosso sarebbe che riuscire a gestire correttamente la propria difesa attraverso la restrizione alimentare genera comunque un senso di efficacia, che determina l’emozione di soddisfazione, così come in ogni religione (Gross e Gilbert, 2002) il credente prova orgoglio nel momento in cui si autovaluta far collimare i propri comportaemnti con quelli attesi dalle prescrizioni. Questa soddisfazione viene interpretata, da una linea di studi di psichiatria evoluzionistica (Guisinger, 2003) alternativa alla precedente, come il riattivarsi, in una certa percentuale di soggetti che si sottopongono ad una restrizione alimentare, di una capacità ancestrale che permetteva alle femmine in presenza di un ambiente particolarmente povero di continuare ad avere un investimento energetico relativamente alle proprie occupazione senza provare lo stimolo della fame. Questa capacità sarebbe stata estremamente funzionale all’adattamento ad ambienti in cui il cibo poteva avere una variabilità molto significativa mentre, all’opposto, la capacità di continuarne la ricerca doveva rimanere ugualmente a livelli ottimali, per sfruttare tutte le opporunità possibili. Psicoterapia e anoressia Vorrei, infine, illustrare il lavoro psicoterapeutico condotto in questi anni con pazienti con diagnosi di anoressia. Non entrerò nello specifico dei singoli casi per i problemi di privacy. Cercherò invece, di evidenziare gli aspetti generalizzabili utilizzando come riferimento quattro casi di anoressia seguiti, i quali hanno permesso di mettere a punto un modello teorico clinico che fino ad oggi si è rivelato efficace. L’assetto clinico di base è quello psicoanalitico, riveduto e profondamente influenzato dalla teoria evoluzionistica dei sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 2005) sopra descritta. I casi trattati, tutte femmine di età compresa tra i tredici ed i diciassette anni, hanno permesso di verificare delle ipotesi inziali che avevano indicato la linea terapeutica dei trattamenti. Una prima ipotesi nasceva dalla constatazione che i sintomi mostrati dalle ragazze, in particolar modo l’estrema magrezza, creano una grande preoccupazione per la loro salute fisica in tutti gli adulti di riferimento, genitori e curanti. Questa preoccupazione può essere interpretata come evidente effetto dell’interazione tra sistema motivazionale di attaccamento delle figlie, espresso dalla situazione di depauperamente fisico, ed il complementare sistema di accudimento dei genitori (Giacolini, 2007). Nella anoressia vi è però un paradosso. I soggetti non ricercano la vicinanza dei caregivers per riceverne protezione, come accade in altre estreme psicopatologie, ma all’inverso rivendicano autonomia assertiva. È quindi possibile riconoscere l’attivazione del sistema di attaccamento dei soggetti anoressici dalla reazione di accudimento preoccupato dei genitori e curanti, mentre in queste ultime è evi-
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dente uno stato dissociato delle loro condotte emozionali ed alimentari. Di fronte a questa situazione l’ipotesi di lavoro che è andata fin dall’inizio delineandosi rintraccia nel sintomo alimentare una richiesta implicita e paradossale di accudimento, rivolta in modo specifico alla figura materna e del tutto dissociata da alcuna consapevolezza. Ma per quale motivo si sarebbe attivata questa richiesta di accudimento proprio in questo momento della loro vita? Questa domanda ha condotto alla seconda ipotesi di lavoro. La loro “intelligenza sociale” (Goleman, 2006) le ha condotte a comprendere implicitamente che la loro identità di figlie-bambine è giunta ad un punto di arrivo, e che una nuova identità di figlia adolescente richiede di essere riconosciuta. Quale è la differenza tra queste due identità, e perchè il loro alternarsi avrebbe dovuto determinare tali problematiche? L’identità di figlia bambina implica la totale garanzia che la propria sopravvivenza all’interno del gruppo di appartenenza è garantito dalle figure genitoriali, che costituiscono un diaframma tra le figlie ed il mondo adulto. La nuova identità, invece, implica l’attivarsi della spinta ad affermarsi nella dimensione della sessualità e della competizione agonistica nel mondo adulto, con le angosce di sconfitta ed esclusione ad esse connesse, al di fuori delle mura della famiglia di appartenenza. È in questo svincolo evolutivo che nelle giovani pazienti si era insediato il sintomo anoressico, come espressione di un comportamento di sottomissione volto a fronteggiare la situazione minacciosa della propria affermazione di sé come soggetto sessualmente ed agonisticamente maturo nella competizione all’interno del mondo adulto. Questo stato di minaccia, risultato del potente attivarsi del sistema motivazionale agonistico, aveva determinato l’automatico valutarsi inferiore nell’agone della nuova competizione sociale, ed il conseguente ed automatico elicitarsi di comportamenti di sottomissione, di cui il ritrarsi dal diritto di poter accedere alle risorse alimentari ne era una evidenza, che sfuggiva totalmente alla loro capacità autoriflessiva consapevole. Quanto sopra esposto ha fatto parte dei contenuti condivisi sia con i soggetti adolescenti che con i loro genitori, all’interno di un modello di lavoro basato sulla capacità di mentalizzazione (Allen, Fonagy, Bateman, 2008; Jurist, Slade, Bergner, 2008) sia degli uni che degli altri. Il lavoro di mentalizzazione, coniugato con la teoria dei sistemi motivazionali e della clinica psicoanalitica, implica il tenere presente anche la componente della comunicazione implicita che viene veicolata attraverso il lavoro sul setting. Quanto viene proposto dai curanti relativamente a chi e come deve essere oggetto di cura psicoterapeutica segnala ai vari soggetti in causa il riconoscimento di loro specifiche valenze all’interno della economia del gruppo di riferimento. Per questo nei casi trattati sono stati proposti al soggetto adolescente e ai suoi familiari il lavoro in setting multipli: un setting in cui lavorare con la coppia madre-figlia, un secondo in cui lavorare con la coppia dei genitori. Infine, in un secondo tempo, un setting individuale per il soggetto adolescente. Tutti e tre i setting vedono la presenza del medesimo psicoterapeuta. Il setting in cui sono presenti la figlia adolescente con la madre alla presenza dello psicoterapeuta è stato istituito con l’ipotesi che esso sia particolarmente adatto a favorire il riconoscimento della implicita segnalazione attuata dal sintomo dissociato della ragazza anoressica, che mettendo in scena un comportamento di sottomissione
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e pacificazione a livello della competizione sociale, contemporaneamente attua un comportamento con forte valenza di segnalazione all’interno dei sistemi motivazionali di attaccamento/accudimeto. Il setting madre-figlia avrebbe dovuto permettere un implicito riconoscimento che il comportamento di fuga dalla minaccia che l’esposizione ai “valori” della maturità sessuale ed agonistica comportavano, potevano ancora trovare un porto sicuro ed esplicitabile in una relazione primaria di accudimento, possibilità riconosciuta dal mondo adulto attraverso la figura del suo rappresentante, il terapeuta. All’interno di questo setting viene condotto un lavoro volto ad esplicitare e rendere consapevoli le madri della segnalazione dissociata che le figlie mettono in atto attraverso il sintomo alimentare. Questa linea di condotta psicoterapeutica ha permesso nel tempo l’evidenziarsi di qualcosa di particolarmente soprendente. Le figlie mostano all’interno del trattamento psicoterapeutico, delle richieste esplicite di accudimento inaspettate e estremamente intense, se confrontate con le condotte tenute verso le proprie madri nei periodi iniziali dei colloqui. Ed è stato particolarmente drammatico vedere ragazze, oramai, adolescenti piangere come bambine e protestare il loro bisogno di vicinanza alle madri, sorprese ed in difficoltà a poter comprendere il motivo di quelle manifestazioni emozionali. A questo punto era possibile poter lavorare in modo più esplicito con le madri sia nella coppia con la figlia sia all’interno della coppia coniugale e/o genitoriale, che costituiva il secondo setting parallelo, per evidenziare ed affrontare il problema di come il sintomo delle loro figlie tendesse a reiterarsi tanto più esse non erano in grado di coglierne la segnalazione, senza dubbio anacronistica, di richiesta di accudimento e protezione. Accudimento e protezione che richiedevano di essere continuamente coniugati tra esigenze infantili e bisogno di condivisione e sostegno delle nuove sfide adolescenziali. Ed era proprio in queste ultime che la coppia dei genitori, e le madri in particolare, mostrano particolare difficoltà empatica e dunque capacità di mentalizzazione. L’assetto di interventi espliciti con le ragazze è, contemporaneamente, volto non solo a renderle consapevoli del proprio sintomo, scopo abbastanza arduo da avvicinare visto il livello di dissociazione strutturale in atto, ma anche e soprattutto a mantenere presente nella loro memoria di lavoro gli appuntamenti evolutivi, a partire dall’impegno accademico e quello sessuale, i quali avevano innescato quella reazione di paura agonistica, del tutto implicita, che le aveva spinte al comportamento anoressico quale richiesta di accudimento e protezione. Questa strategia psicoterapeutica mira a far sì che la fuga nel sistema di attaccamento-accudimento non elimini l’attenzione dall’esperienza in ambiti in cui è il sistema motivazionale agonistico ad essere attivato. In questo modo le ragazze possono continuare a sperimentare le loro risorse relazionali e cognitive adeguate alla loro età, e questo contribuisce a modulare la propria iniziale reazione di fuga. Dopo circa uno-due anni di trattamento, con sedute frequenti, due-tre settimanali per la coppia madre-figlia, uno-due per la coppia dei genitori, il sintomo alimentare in tutte e quattro si è risolto, la ripresa di una vita relazionale ed accademica altrettanto, mostrando a loro stesse le loro adeguate, ed in due casi, particolarmente elevate capacità cognitive. Al tempo stesso la loro capacità di consapevolezza della sintomatologia patita, che le aveva condotte ad essere ricoverate tutte e quattro per svariati
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mesi in una situazione di estremo allarme per la loro integrità fisica, era quasi inesistente. Andare ad avvicinare esplicitamente tali aree comportava immancabilmente in loro tensione ed opposizione. Non solo. La loro tendenza a cercare la persona della madre in modo anacronistico tendeva a permanere, anche se non più all’interno del disturbo alimentare. Conclusioni Al termine di questo lavoro è necessaria una sintesi. Il modello di funzionamento mentale esposto indica che il sintomo alimentare è espressione di un funzionamento estremo di pattern emozionali come sono descritti all’interno del funzionamento dei sistemi motivazionali deputati alla regolazione delle interazioni sociali. Nello specifico, il disturbo alimentare è la conseguenza difensiva del sistema motivazionale agonistico, la cui attivazione determina nel soggetto una attività di comparazione sociale (Troop et al., 2003), da cui deriva un giudizio di inferiorità. Questa autovalutazione viene percepita dal soggetto come uno stato di minaccia, per risolvere il quale si attiva un comportamento di fuga, ma, essendo questo impossibile, compaiono comportamenti di sottomissione volti alla pacificazione. Da quanto detto deriva che ridurre l’introito alimentare può essere ritenuto sia espressione di stress del soggetto che si riconosce in uno stato di inferiorità e minaccia, sia, contemporaneamente, costituire un segnale comunicativo di sottomissione e pacificazione. Non solo. Il sintomo alimentare è al tempo stesso, proprio per l’autovalutazione di inferiorità che espone il soggetto ad una percezione estrema di minaccia, una segnalazione, dissociata dalla consapevolezza, di richiesta di attaccamento protettivo agli adulti di riferimento, attraverso il manifestare attivamente il proprio stato di bisogno e di denutrizione. Ricordiamo, come sopra già detto, che in varie specie animali uno dei segnali di pacificazione è mostrare al contendente un comportamento analogo a quello di un cucciolo, in cui l’aggressività dell’avversario viene bloccata attraverso una segnalazione di attaccamento. In questa prospettiva il disturbo anoressico viene considerato come espressione contemporanea di due sistemi motivazionali, quello agonistico e, secondariamente, quello di attaccamento. L’attivazione di questo secondo sistema motivazionale, conseguenza del ritiro protettivo espresso dalla restrizione alimentare, acquista una importanza strategica nella psicoterapia degli stati anoressici. La dimensione fondamentalmente sottocorticale dei sistemi motivazionali attivati nella anoressia, agonistico e di attaccamento, in una dimensione dissociata che ne mostra il loro operare implicito ed automatico, fa della psicoterapia di questa patologia un’area di intervento di estremo interesse. Riassunto L’articolo studia la anoressia attraverso un punto di vista evoluzionistico. Viene quindi evidenziata la dimensione della dissociazione, quale aspetto caratteristico della anoressia e funzionalmente connessa alla dinamica dei sistemi motivazionali/emozionali interpersonali. Tra i sistemi motivazionali interpersonali il sistema motivazionale agonistico rappresenta l’elemento causale prossimo e remoto del disturbo alimentare
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anoressico, manifestazione estrema del cosidetto comportamento di sottomissione. Infine è descritto un modello di psicoterapia psicodinamica sperimentato in casi di anoressia in adolescenza. Parole chiave Anoressia – Competizione sociale – Dissociazione – Sistema motivazionale agonistico.
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Il lutto come fattore di rischio per i disturbi psichiatrici in età evolutiva The mourning as a factor of risk for the psychiatric disorder in developmental age Rosella Ricci*
Summary The purpose of this study is to investigate if the mourning is a factor of risk for the psychiatric disorder in developmental age. We have analyzed a sample of 30 children, 2 to 13 years old, that have experienced the death of a parent. The research describes what disorder can develop in the children after the death of a parent; it examines the relation between mourning, phases of developmental and time spent from the sorrowful event; finally, it defines the quality of the psychiatric trouble in relation of the quality of the grief and to the deceased parent. The results of our study demonstrate that the mourning produces a pronounced psychological suffering: 28 children on 30 present a psychiatric disorder, according to the DSM IV-TR criteria, due to a missed or difficult elaboration of the grief. Key words Death of a parent – Psychiatric disorder in developmental age.
Introduzione Negli ultimi quindici anni le ricerche più importanti sul lutto infantile e sulle sue possibili conseguenze negative sullo sviluppo psichico dei bambini sono state compiute negli Stati Uniti d’America. La Social Security Administration ha stimato che, nel 2000, negli USA il 3.5% dei bambini e degli adolescenti al di sotto dei diciotto anni, circa 2,5 milioni, ha subito la morte di un genitore (in Italia non disponiamo di un’indagine demografica che fornisca dati altrettanto precisi). Il lutto di un genitore è considerata dalla comunità psichiatrica uno tra gli eventi più traumatici che possano avvenire nella vita di un bambino, in ragion del fatto che un bambino su cinque in seguito al lutto è predisposto a sviluppare disturbi psicopatologici (Dowdney, 2000). Diversi studi clinici hanno dimostrato che la morte di un genitore predispone i bambini a numerose conseguenze negative, che includono lutto “complicato” (depressione, ansia, disturbi somatici e disturbo post-traumatico da stress), diminuzione * Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva, Sapienza Università di Roma.
IL LUTTO COME FATTORE DI RISCHIO PER I DISTURBI PSICHIATRICI
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del rendimento scolastico, riduzione dell’autostima e del senso del controllo (Cohen e Mannarino, 2004; Haine et al., 2008; Lutzke et al., 1997; Tremblay e Israel, 1998; Wolchik et al., 2008). Il legame causale tra lutto e sequele psicopatologiche risiede nel personale percorso di elaborazione della perdita subita. Durante questo processo molte variabili interne ed esterne ai bambini possono predisporli a manifestare disturbi psichiatrici. Variabili interne quali: – il periodo evolutivo e l’età del bambino alla quale avviene la morte del genitore; – il carattere e la personalità del bambino; – le sue capacità cognitive. Variabili esterne quali: – la modalità della morte della persona amata (per malattia, per incidente, per suicidio, ecc); – la conoscenza che il bambino ha della morte; – la presenza del bambino durante il decesso del genitore o il modo in cui ne è stato informato; – le risorse affettive e comunicative della famiglia e quindi il supporto dell’ambiente che circonda il bambino, in primis del genitore sopravvissuto; – il tipo di relazione e la qualità e l’intensità del legame che il bambino aveva stabilito con il genitore defunto prima della sua morte; – le possibilità economiche di continuare la vita abituale di ogni giorno. Diversi autori (Haine, 2008; Kwok et al., 2005; Lieberman, 2007; Lutzke, 1997; Sandler, 2001; Wolchik, 2006, 2008) hanno documentato l’importanza di entrambi questi gruppi di fattori nel percorso di elaborazione e di accettazione della perdita di un genitore, essi giocano un ruolo fondamentale nella costruzione della specifica risposta del bambino e nello sviluppo della sua personalità. La ricerca psichiatrica, focalizzata a spiegare la variabilità nell’adattamento dei bambini dopo la morte del genitore, ha dimostrato che un minor numero di eventi stressanti negativi successivi al lutto (quali difficoltà finanziarie, cambiamenti nelle abitudini quotidiane, cambio di casa, riduzione dei contatti con amici e conoscenti) e una relazione positiva tra il bambino e il genitore in vita, sono associati a minori problemi di adattamento e a una minore probabilità di sviluppare disturbi psicopatologici (Ravies et al., 1999; Sandler et al., 1988; Thompson et al., 1998; Wolchik et al., 2006). Per quanto concerne il rapporto tra genitore in vita e figlio, la letteratura ha identificato numerosi fattori che possono complicare l’elaborazione del lutto nel bambino: 1) esclusione del bambino da ogni aspetto riguardante la malattia del genitore con allontanamento da casa: in questo modo si priva il bambino di un graduale processo di accettazione della perdita; 2) mancata partecipazione del bambino al funerale del genitore: ciò significa privare il bambino di un momento di saluto e separazione dal caregiver, momento importante per l’accettazione della sua morte; 3) mancata spiegazione al bambino della morte del genitore o comunicazione falsa e edulcorata della notizia: il risultato di questo comportamento è di alimentare nel bambino dubbi, confusione e angosce;
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4) mancanza di sostegno del genitore sopravvissuto e sottovalutazione della sofferenza del bambino; 5) mancata condivisione del dolore tra genitore in vita e figlio: ciò porta il bambino a non esprimere il suo vissuto emotivo circa il lutto subito. Da un’analisi della letteratura recente, emerge che le reazioni dei bambini alla morte di un genitore comprendono una vastità di sintomi a breve e lungo termine: – Negazione. – Confusione. – Rabbia. – Sensi di colpa. – Paure. – Perdita d’interesse per le attività quotidiane. – Chiusura e isolamento rispetto ai coetanei. – Disturbi del sonno. – Disturbi dell’alimentazione. – Disturbi psicosomatici. – Comportamenti regressivi. – Difficoltà di apprendimento. La comunità psichiatrica ritiene che la reazione al lutto perda la sua caratteristica di normalità e assuma quella di patologia quando, a distanza di circa un anno dall’evento luttuoso, il bambino non riesce a ritornare a modelli di comportamento funzionali precedenti la morte del genitore e i sintomi psicopatologici, che manifesta, permangono e s’intensificano (Dowdney, 2000). I disturbi psichiatrici che sono stati correlati al lutto (Cerel et al., 2006; Cohen e Mannarino, 2004; Geiss et al., 1998; Kaminer et al., 2005; Lutzke et al., 1997; McClatchey e Vonk, 2005; Stoppelbein et al., 2006) sono: • il Disturbo d’Ansia di Separazione; • il Disturbo Post-Traumatico da Stress; • il Disturbo Depressivo Maggiore; • il Disturbo Distimico. I dati clinici circa le conseguenze psicopatologiche del lutto che segue alla morte di un genitore nel bambino, derivano da studi catamnestici di adulti con disturbi psichiatrici, in particolare affetti da disturbo depressivo maggiore (tra cui Kirwin et al., 2005; Russell, 1999; Saler e Skolnik, 1992; Tyrka et al., 2008) e di bambini in trattamento psichiatrico (tra cui Cohen e Mannarino, 2004; Melhem et al., 2007; Pillay e Descoins, 2006; Tsuchiya et al., 2005). Tutti i casi sono stati valutati retrospettivamente per determinare la presenza del lutto di un genitore durante l’infanzia. Il punto di partenza di queste ricerche è stato la patologia del paziente e successivamente i ricercatori hanno cercato di individuare quali siano stati gli eventi precedenti con significato causale, avanzando l’ipotesi che la perdita di una persona amata possa rappresentare un fattore patogeno. Altri studi clinici (Kranzler et al., 1990; McClatchey e Vonk, 2005; Sanchez et al., 1994; Stoppelbein e Greening, 2000; Weller et al., 1991) hanno paragonato campioni di bambini che hanno subito la perdita di un genitore con gruppi di controllo
IL LUTTO COME FATTORE DI RISCHIO PER I DISTURBI PSICHIATRICI
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costituiti da bambini con depressione e da bambini senza psicopatologia, per valutare nei bambini con lutto la presenza di sintomi depressivi e d’ansia o l’insorgenza del disturbo post-traumatico da stress rispetto ai controlli. Partendo dall’assunto che la perdita di un genitore possa determinare processi di lutto di esito patologico nel bambino, così come può avvenire nell’adulto, la nostra ricerca si è basata su un presupposto diverso. Abbiamo studiato i bambini che hanno subito la morte di un genitore per valutare la possibile presenza di disturbi psichiatrici. Si è identificato un evento dell’infanzia potenzialmente patogeno, chiaramente definito, e si sono studiati gli effetti sullo sviluppo psicologico e sulla personalità dei bambini. Ricerca Obiettivi 1) indagare se il lutto sia un fattore di rischio per i disturbi psichiatrici in età evolutiva; 2) descrivere quali disturbi possono svilupparsi nei bambini in seguito alla perdita di un genitore; 3) descrivere il rapporto tra lutto, fasi di sviluppo e tempo trascorso dall’evento luttuoso; 4) descrivere la qualità del disturbo psichiatrico in rapporto alla qualità del lutto e alla figura genitoriale deceduta. Soggetti Il campione clinico della nostra ricerca è composto da 30 bambini (22 maschi e 8 femmine), di età compresa tra i 2 e i 13 anni, che hanno subito il lutto di un genitore e che sono stati segnalati presso il nostro Servizio di Neuropsicologia dell’età evolutiva, nel corso di cinque anni (2004-2008), per la presenza di diversi sintomi e disturbi manifestatesi dopo l’evento luttuoso. In base all’età dei soggetti al momento della valutazione clinica, il campione è stato suddiviso in due fasce d’età: y 2 – 7,11 anni (n=12). y 8 – 12,11 anni (n=18). Tutti i bambini sono normodotati sul piano cognitivo. In anamnesi non emerge nessuna sintomatologia clinica rilevante precedente l’evento luttuoso. Metodi Le ricerche cliniche presenti in letteratura sul lutto infantile hanno utilizzato come strumenti diagnostici due tipi di questionari standardizzati: – i questionari che indagano i “life events” (ICG-R, GLESC, PDEL); – i questionari che indagano i sintomi del disturbo depressivo e dei disturbi d’ansia (R-CMAS, CDI, CPTDS-RI). La novità del nostro studio riguarda l’approccio metodologico utilizzato. Ritenendo che una valutazione multiarticolata permetta una scrupolosa osser-
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vazione per cogliere i nodi clinici cruciali connessi con il lutto in età evolutiva, ogni bambino del nostro campione clinico è stato sottoposto a una valutazione psicodiagnostica multidimensionale: 1) colloquio clinico con il genitore in vita, con lo scopo di: • valutare la motivazione che ha indotto il genitore a chiedere una consultazione clinica; • analizzare l’anamnesi del bambino: fasi dello sviluppo biologico e dello sviluppo psicologico; • ottenere informazioni circa le circostanze e la modalità dell’evento luttuoso; 2) analisi della sintomatologia clinica del bambino, attraverso: • colloquio clinico con il bambino (nei soggetti di età inferiore ai 6 anni); • K-SADS (nei soggetti di età superiore ai 6 anni); • sedute di gioco (con tutti i soggetti); • somministrazione di test tematico-proiettivi (TAT/CAT); • somministrazione di test grafico-proiettivi (DdF). Grazie ai dati ottenuti dalla valutazione psicodiagnostica, è stata formulata una diagnosi nosografica del disturbo manifestato dai singoli soggetti, sulla base dei criteri diagnostici del DSM VI-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’infanzia e dell’adolescenza). Risultati 1. Sintomatologia clinica La sintomatologia clinica dei bambini del nostro campione è estremamente varia. I sintomi si raggruppano in cluster sintomatologici complessi. Pertanto, per confrontare la fenomenologia clinica, abbiamo preso in considerazione i sintomi più frequenti e suddiviso il campione totale in due fasce d’età: 2-7,11 anni (n=12) e 8-12,11 anni (n=18). Grafico 1. Sintomatologia clinica.
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Dal confronto dei due sottogruppi del campione (Grafico 1) il dato interessante che emerge è che nei bambini piccoli sono marcatamente più frequenti l’ansia di separazione e la frustrabilità, mentre nei bambini più grandi aumenta l’aggressività e la rabbia, la tristezza e l’isolamento. L’oppositorietà e le paure sono presenti nelle due fasce d’età con la stessa frequenza. 2. Disturbi psichiatrici diagnosticati nel campione clinico Il 93.3% dei soggetti, pari a 28 su 30, presenta un disturbo psichiatrico diagnosticabile secondo i criteri del DSM IV-TR (Tabella 1): 1) Il 26.6% dei soggetti presenta un Disturbo Misto Ansioso-Depressivo. 2) Il 20% dei soggetti presenta un Disturbo Depressivo. 3) Il 16.7% dei soggetti presenta Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). 4) Il 16.7% dei soggetti presenta un Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP). 5) Il 13.3% dei soggetti presenta un Disturbo D’ansia di Separazione. 6) Il 6.7% dei soggetti non presenta psicopatologia. Rispetto al campione totale dei soggetti si evidenzia una distribuzione della psicopatologia che si organizza tra Disturbo Depressivo e Disturbo Ansioso. L’aspetto nuovo e interessante è la comparsa del DOP, entità clinica che fino ad oggi la letteratura non aveva rilevato. Probabilmente la diversità dei risultati è imputabile alla multidimensionalità dei metodi utilizzati per la diagnosi. In letteratura, infatti, sono utilizzati questionari specifici, mirati a indagare particolari disturbi (il Disturbo Depressivo, il Disturbo d’Ansia e il Disturbo Post-Traumatico da Stress). Nel nostro caso l’utilizzo di un’intervista psichiatrica e un’attenta valutazione psicodiagnostica hanno permesso una maggiore attenzione a tutta la gamma dei disturbi dell’età evolutiva. 3. Disturbi psichiatrici ed età dei soggetti In rapporto all’età dei soggetti l’elemento interessante che emerge è che nella fascia 2-7,11 anni i disturbi sono organizzati tra il Disturbo d’Ansia e il DOP, nella fascia 8-12,11 anni scompare il Disturbo d’Ansia di Separazione, compare il Disturbo Depressivo e aumenta il Disturbo Misto Ansioso-Depressivo (Tabella 1). Pertanto, con l’aumentare dell’età dei soggetti diminuiscono i vissuti d’ansia e predominano quelli depressivi. 4. Comorbilità ed età dei soggetti Il 50% dei bambini del campione presenta una comorbilità con il disturbo principale (Tabella 2). La distribuzione per fasce d’età è omogenea: – i soggetti di età compresa tra i 2-7,11 anni presentano una comorbilità del 23.3%; – i soggetti di età compresa tra gli 8-12,11 anni presentano una comorbilità del 26.7%. Il dato interessante e nuovo rispetto alla letteratura è il Disturbo del Controllo degli Sfinteri e il Disturbo Ossessivo-Compulsivo come comorbilità con la diagnosi principale. Gli altri dati sono compatibili con ciò che emerge dalla letteratura clinica sul lutto infantile.
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Per quanto concerne le due fasce d’età considerate, la Tabella 2 mostra che con l’aumentare dell’età dei soggetti compare come comorbilità il Disturbo OssessivoCompulsivo, diminuiscono il Disturbo del Controllo degli Sfinteri e il Disturbo d’Apprendimento.
Tabella 1. ETÀ DEI SOGGETTI DISTURBO PSICHIATRICO
2-7,11 ANNI (N=12)
NO PSICOPATOLOGIA
8-12,11 ANNI (N=18)
6.7%
DIST. DEPRESSIVO
6.7% 20%
DIST. D’ANSIA DI SEPARAZIONE
13.3%
DIST. MISTO ANSIOSO-DEPRESSIVO
6.7%
TOTALE
20% 13.3%
20%
26.7%
DIST. OPPOSITIVO-PROVOCATORIO
6.7%
10%
16.7%
PTSD
6.7%
10%
16.7%
40%
60%
100%
TOTALE
Tabella 2. ETÀ DEI SOGGETTI COMORBILITÀ
TOTALE
2-7,11 ANNI (N=7)
8-12,11 ANNI (N=8)
DIST. DEL CONTROLLO DEGLI SFINTERI
10%
6.7%
16.7%
DIST. DI APPRENDIMENTO
10%
3.3%
13.3%
10%
10%
3.3%
6.7%
3.3%
3.3%
26.7%
50%
DIST. OSSESSIVO-COMPULSIVO DIST. DELLA NUTRIZIONE
3.3%
TRICOTILLOMANIA TOTALE
23.3%
5. Disturbo psichiatrico e distanza dal lutto In rapporto alla distanza dal lutto è interessante notare come a una distanza di 0-2 anni prevalgano i Disturbi d’Ansia e il Disturbo Misto Ansioso-Depressivo, mentre con l’aumentare del tempo trascorso dall’evento traumatico, 3-8 anni, aumenta marcatamente il Disturbo Depressivo, diminuiscono i Disturbi d’Ansia e il Disturbo Misto. Il DOP presenta la stessa frequenza sia a distanza di 0-2 anni sia a distanza di 3-8 anni dal lutto (Grafico 2).
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Grafico 2. Distanza dal lutto.
6. Rapporto tra la qualità del lutto e i disturbi psichiatrici Dopo aver analizzato il nostro campione clinico in base alle fasce d’età e alla distanza dal lutto, abbiamo ritenuto interessante capire il rapporto tra la causa che ha determinato la morte del genitore e il tipo di sofferenza psichiatrica riportata dai bambini. La Tabella 3 mostra due dati nuovi e importanti rispetto alla letteratura sul lutto infantile: 1) una sofferenza traumatica (PTSD) ha un rischio di evidenziarsi in tutti i tipi di lutto. In letteratura questo tipo di diagnosi emerge solo in bambini che hanno subito la perdita del genitore per morte violenta; 2) nei bambini che hanno perso il genitore per morte violenta il Disturbo Misto Ansioso-Depressivo presenta una percentuale doppia rispetto al PTSD e il PTSD ha la stessa frequenza del Disturbo Depressivo. Questo risultato indica che il bambino registra la morte violenta del genitore come un decesso improvviso. Tabella 3. LUNGA MALATTIA (N=14)
MALATTIA IMPROVVISA (N=8)
NO PSICOPATOLOGIA
3.3%
3.3%
DIST. DEPRESSIVO
6.7%
6.7%
DIST. ANSIA DI SEPARAZIONE
10%
3.3%
DIST. MISTO ANSIOSO-DEPRESSIVO
10%
3.3%
DIST. OPPOSITIVO-PROVOCATORIO
10%
6.7%
PTSD
6.7%
3.3%
6.7%
16.7%
TOTALE
46.7%
26.7%
26.7%
100%
DISTURBO PSICHIATRICO
MORTE VIOLENTA (N=8)
TOTALE
6.7% 6.7%
20% 13.3%
13.3%
26.6% 16.7%
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Tabella 4. DISTURBO PSICHIATRICO NO PSICOPATOLOGIA
PADRE (N=17)
MADRE (N=13)
TOTALE
3.3%
3.3%
6.7%
DIST. DEPRESSIVO
10%
10%
20%
DIST. D’ ANSIA DI SEPARAZIONE
3.3%
10%
13.3%
DIST. MISTO ANSIOSO-DEPRESSIVO
20%
6.7%
26.7%
DIST. OPPOSITIVO-PROVOCATORIO
10%
6.7%
16.7%
PTSD
10%
6.7%
16.7%
56.6%
43.4%
100%
TOTALE
7. Qualità dei disturbi psichiatrici in rapporto al sesso della figura genitoriale deceduta Rispetto al sesso dei soggetti (22 maschi e 8 femmine) non è stato possibile confrontare la diagnosi clinica a causa della differenza numerica dei due sottogruppi del campione. Abbiamo, tuttavia, considerato importante analizzare il tipo di disturbo psichiatrico espresso dai bambini in rapporto alla figura genitoriale deceduta. La Tabella 4 mostra che la percentuale di soggetti segnalati per una valutazione clinica ha circa la stessa frequenza rispetto a entrambe le figure genitoriali decedute. I dati rilevanti che emergono sono tre: 1) nei bambini che hanno perso la madre prevale il Disturbo d’Ansia di Separazione; 2) nei soggetti che hanno perso il padre prevale il Disturbo Misto Ansioso-Depressivo; 3) il Disturbo Depressivo è manifestato dai bambini con la stessa frequenza sia in caso di lutto materno sia in caso di lutto paterno. Conclusioni Lutto e diagnosi clinica Dalla ricerca svolta emerge che il lutto genera nel bambino una marcata sofferenza psichica che impedisce una normale elaborazione dell’evento traumatico e porta a conseguenze sul piano psicopatologico. È stata, infatti, verificata l’ipotesi iniziale del lutto come fattore patogenetico: 28 bambini su 30 presentano un disturbo psichiatrico correlabile a una mancata o difficile elaborazione del lutto. I disturbi più frequenti sono quelli dell’area ansioso-depressiva, così come riportato nella letteratura psichiatrica. Tuttavia, grazie alla metodologia utilizzata nella valutazione del campione, dal nostro studio sono emersi dei risultati nuovi.
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Il primo dato importante è la presenza del DOP come disturbo psichiatrico possibile tra i bambini con lutto. Il secondo risultato da sottolineare è la comparsa del disturbo del controllo degli sfinteri e del disturbo ossessivo-compulsivo come possibili comorbilità con la diagnosi principale. Diagnosi clinica ed età Per quanto riguarda il rapporto tra lutto e fasi di sviluppo si è evidenziata una tipologia differente di disturbi nelle due fasce di età considerate: 2-7,11 anni e 8-12,11 anni. Nei bambini piccoli prevalgono i disturbi d’ansia mentre con l’aumentare dell’età subentrano i disturbi depressivi e compare come comorbilità il disturbo ossessivo-compulsivo. Diagnosi clinica e distanza dal lutto Abbiamo, inoltre, dimostrato che anche rispetto alla distanza dal lutto si ha un cambiamento nei disturbi manifestati. Mentre a una distanza inferiore ai 2 anni sono più frequenti i disturbi d’ansia e il disturbo misto ansioso-depressivo, con il trascorrere del tempo dall’evento traumatico aumenta marcatamente il disturbo depressivo. Il DOP presenta la stessa frequenza sia a distanza di 0-2 anni sia a distanza di 3-8 anni dal lutto. Qualità della morte La ricerca ha documentato che il PTSD, che la letteratura clinica associa esclusivamente alla morte violenta del genitore, emerge anche tra i bambini che hanno perso il caregiver dopo una lunga malattia e una malattia improvvisa. Questo indica che in tutti i casi la morte di un genitore rappresenta di per sé un evento traumatico: lo stress genera ricordi intrusivi che mantengono viva l’esperienza del lutto e interferiscono con la sua elaborazione. Un ulteriore dato interessante è che i bambini che hanno perso il genitore per morte violenta sono più a rischio per un disturbo depressivo o misto ansioso-depressivo piuttosto che per un PTSD. Questo risultato è dovuto al fatto che spesso la morte violenta è dovuta al suicidio del genitore e il bambino non ne viene messo a conoscenza, pertanto la registra come un decesso improvviso. Figura genitoriale deceduta Per quanto concerne il rapporto tra diagnosi clinica e sesso del genitore deceduto, in caso di lutto materno prevale il disturbo d’ansia di separazione, in caso di lutto paterno prevale il disturbo misto ansioso-depressivo. Il disturbo depressivo è manifestato con la stessa frequenza in entrambi i casi. In sintesi, il lutto rappresenta un fattore di rischio per i disturbi psichiatrici in età evolutiva a breve e a lungo termine. Nei bambini di età inferiore agli 8 anni e a poca distanza dal lutto prevalgono sentimenti di ansia e di rabbia, con l’aumentare dell’età e del tempo trascorso dall’evento traumatico, con l’aumentare, quindi, della capacità di comprensione della morte, permangono i sentimenti di rabbia ma aumentano marcatamente i sentimenti di tristezza e solitudine con la comparsa di un disturbo depressivo. Pertanto, crediamo indispensabile saper riconoscere la sofferenza psichica dei bambini con lutto, per poter mettere in atto misure preventive.
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Consideriamo importante compiere ulteriori studi con campioni clinici numericamente superiori, mantenendo, come procedura diagnostica, una metodica multisistemica che tenga conto delle varie aree di rischio dello sviluppo dei bambini con lutto e della gamma di disturbi psichiatrici che possono manifestare. Inoltre, riteniamo interessante compiere una ricerca che esamini l’esperienza e l’elaborazione del lutto dei genitori in rapporto a quella dei propri figli, al fine di indagare l’effetto dei comportamenti del caregiver in vita sull’elaborazione del lutto da parte del bambino e sul suo vissuto di abbandono e solitudine. Riassunto Lo scopo della ricerca è indagare se il lutto sia un fattore di rischio per i disturbi psichiatrici in età evolutiva. Abbiamo analizzato un campione di 30 bambini, di età compresa tra i 2 e i 13 anni, che hanno subito la perdita di un genitore. Lo studio descrive quali disordini possono svilupparsi nei bambini in seguito alla perdita di un genitore; esamina il rapporto tra lutto, fasi di sviluppo e tempo trascorso dall’evento luttuoso; infine, definisce la qualità del disturbo psichiatrico in rapporto alla qualità del lutto e alla figura genitoriale deceduta. I risultati della ricerca dimostrano che il lutto genera nel bambino una marcata sofferenza psichica: 28 bambini su 30 del nostro campione clinico presentano un disturbo psichiatrico, secondo i criteri del DSM-IV, dovuto a una mancata o difficile elaborazione del lutto. Parole chiave Morte di un genitore – Disturbi psichiatrici in età evolutiva.
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IL LUTTO COME FATTORE DI RISCHIO PER I DISTURBI PSICHIATRICI
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R. RICCI
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 167-177
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Nuove anoressie. Una lettura psicodinamica del fenomeno “Pro-Ana” New Anorexia. A Psychodynamic interpretation of “Pro-Ana” phenomenon Giorgia V. Margherita*, Ivana Nuzzo**
Summary This work proposes in psychodynamic perspective the Pro-Anorexia internet phenomenon. Nowadays the number of sites, blogs, forums, promoting an anorexic life style is increasing, ignoring the elements of suffering and trouble connected to a number of psychopathologic symptoms and features. In the meanwhile the studies on this theme still appear few, bereaving the operators of information that could be useful in a clinical circle. The psychodynamics models, which help in the comprehension of anorexia describing a particular phantasmatic organization either in a gender perspective, or by centring the focus on the adolescent phase, guide our reflection on how much the expression of such a phenomenon is the result of a need of “mirroring” and sharing which risk, if not accepted, to reinforce pathological aspects of already frail identities. Our aim is to question ourselves, through a descriptive research realized by procedure of “content analysis as inquiry”, on possible functions that such virtual groups begin to assume with specific relational dynamics. We have considered ten blogs Pro-Ana drawn up by adolescent girls between sixteen and twenty-one utilizing as analysis – unities the global text written by the authoresses, inquired through schedule of analysis. The relevant thematic areas translated in categories of meaning are: the self representation, in the virtual expression of a corporal – self, of needs and defensive modalities; the representation of the disease (inquired through the expression of the daily conducts and the relation with food); the representation of the relationships in the peculiar connotation set by the use of internet. At the end, our work confirms what emerges in the frame of anorexia from the elements of reflection of psychopathology in a psychoanalytical key (setup of personality, quality of interpersonal relationships, organization of defences) pointing out new modalities of representation of Self and relationships that the virtual space shapes. Key words Eating disorder – Group function – Identity/Self – Pro-Anorexia – Adolescence psychodynamic.
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Ricercatrice di Psicologia Dinamica, Docente di Psicodinamica dei gruppi, Dipartimento Scienze Relazionali, Università Federico II – Napoli. ** Dipartimento Scienze Relazionali, Università Federico II – Napoli.
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Introduzione Si affaccia oggi sulla scena contemporanea una nuova declinazione sociale dell’anoressia, il fenomeno Pro-Anoressia, o più comunemente Pro-Ana: forum, siti, gruppi virtuali,che promuovono una filosofia che si oppone alla visione dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) come condizione di sofferenza e disagio; una visione disarticolata dalla condizione sintomatologica, che mira a proclamare l’anoressia come stile di vita alternativo, come vincolo per la realizzazione dell’obiettivo antibiologico di liberazione, totale, dalla dipendenza (Giovannini, 2004). Come è noto i DCA1 rappresentano un problema grave e diffuso soprattutto tra le adolescenti e le giovani donne. Sulla base degli studi di prevalenza si possono prevedere, nei paesi industrializzati (Hoek, 2002), compresa l’Italia (Cuzzolaro, 2002, 2004), su mille giovani donne tra i 12 e i 25 anni, tre-cinque casi di anoressia nervosa, dieci-quindici di bulimia nervosa e quaranta-settanta di disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati. L’assenza di uniformità di criteri diagnostici, la multifattorialità nella genesi dei disturbi, le potenzialità evolutive differenti, la percentuale di esiti negativi spingono ad interrogarsi sulla possibilità di progettare interventi terapeutici che siano in grado di integrare livelli (corporeo/mentale) e contesti (familiari, sociali, culturali) nel rispetto delle differenze individuali. Il bisogno di navigare in rete nei siti Pro-Ana da parte di soggetti che soffrono di DCA può associarsi allo sviluppo di identità gruppali, di carattere anoressico/bulimico, configurando un possibile fattore di rischio socioculturale che può rinforzare i già esistenti fattori predisponenti (individuali, familiari), precipitanti (modificazioni puberali, separazioni e perdite, alterazioni dell’omeostasi familiare), perpetuanti (guadagni secondari) e iatrogeni (Cuzzolaro, 2002). I siti Pro-Ana nascono negli Stati Uniti intorno al 1998/99 ed arrivano in Italia all’incirca nel 2002/03. Se in America attualmente se ne contano almeno tre milioni, in Italia una ricerca dell’Eurispes (2008) ha censito 262 blog Pro-Anoressia o Pro Bulimia, le cui autrici hanno in media 17 anni, con non poche eccezioni di ragazze più giovani, di 12-13 anni. Il primo sviluppo dei siti Web Pro-Anoressia si è registrato con la realizzazione di blog, diari on-line personali. Il fenomeno si è poi strutturato attraverso i forum, e i social network, come Facebook, Myspace, Twitter. Una caratteristica peculiare, e tecnica, dei siti Web Pro-Anoressia, è l’impossibilità di monitorarne la nascita e l’evoluzio1
Il campo nosografico della psicopatologia dell’alimentazione è diviso attualmente fra anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati (detti anche atipici o parziali o subliminali). Per l’anoressia nervosa l’Icd-10 individua come criteri diagnostici la perdita di peso autoindotta, la percezione di sé come troppo grassa/grasso con una paura intrusiva di ingrassare che induce ad autoimporsi una soglia di peso molto bassa, un esteso disturbo endocrino che coinvolge l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Il Dsm IV evidenzia il rifiuto di mantenere il peso corporeo al livello minimo normale per l’età e la statura, l’intensa paura di ingrassare e l’amenorrea.
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ne, a causa della velocità con cui vengono chiusi e ricreati, rendendo inoltre inefficace quell’azione repressiva incoraggiata in diversi paesi2. Il settore sanitario internazionale è in allarme: per la National Eating Disorders Association (NEDA) i siti internet Pro-Anoressia incoraggiano ingiustamente soggetti deboli, non in in grado di cercare aiuto e per la National Association of Anorexia Nervosa and Associated Disorders (ANAD) essi rappresentano veicoli di rischiosi metodi di perdita di peso e di incremento della frequenza dei DCA. Gli studi ancora esigui sul fenomeno (Wilson et al., 2006), esaminando la conoscenza e l’utilizzo di questi siti da parte di adolescenti con diagnosi di disturbi alimentari e dei loro genitori, evidenziano come la quasi totalità dei soggetti che frequentano tali siti ammetta di aver appreso da essi nuove tecniche per perdere peso. In Italia Giovannini (2004, 2006) rileva come, tra i soggetti analizzati, il 19% dei pazienti sia a conoscenza dell’esistenza dei siti Web Pro-Anoressia, nessun genitore li conosca o li frequenti, solo il 24% degli operatori sia a conoscenza della loro esistenza. Date queste premesse, una prima analisi del fenomeno Pro-Ana, a carattere esplorativo, appare uno strumento utile in contesti clinici, al fine di migliorare i percorsi terapeutici ed i servizi, e in contesti non clinici, nell’individuazione dei fattori di rischio psicosociale e di promozione della salute. Obiettivo del lavoro “Ana is not a disease, it’s a lifestyle”, “Essere magri e non mangiare sono simbolo di vera forza di volontà e autocontrollo”, “Essere magre è più importante di essere sane”. Sono questi alcuni dei principi che centinaia di ragazze celebrano nelle pagine dei siti Pro-Ana. Sullo sfondo di colori appariscenti e di immagini di modelle scheletriche, redigono diari sull’evoluzione del disturbo alimentare, sottolineando ogni particolare finalizzato al raggiungimento dell’emaciazione: le calorie assimilate, gli sforzi fisici, il rigetto del cibo. Si parla dunque di anoressia come stile di vita, di obiettivi di autocontrollo, di estrema magrezza. È a partire da questi temi che, in una ricerca descrittiva, intendiamo esplorare l’espressione del fenomeno Pro-Ana, interrogandoci sulle possibili funzioni che esso assume per le adolescenti. In particolare, ci domandiamo quale rappresentazione di Sé, del disturbo, degli altri, delle relazioni interpersonali le adolescenti propongano negli scenari virtuali, vere e proprie “gruppalità” caratterizzate da norme e regole proprie. Quanto emerge lo leggiamo alla luce del quadro dell’anoressia tracciato dai cardini della psicopatologia in chiave psicoanalitica, cercando di prestare particolare attenzione alle peculiari dinamiche relazionali che il fenomeno configura.
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In Francia, di recente, si è deliberato che i gestori di siti Pro-Ana, e più in generale coloro che promuovono i disturbi alimentari, devono essere puniti con una multa fino a trentamila euro e due anni di carcere.
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Soggetti e metodi La nostra ricerca utilizza la procedura dell’analisi del contenuto come “inchiesta”3, prendendo in esame dieci blog Pro-Ana4. Abbiamo scelto di utilizzare il blog come testo in quanto esso si propone come forma di scrittura del Sé attraverso cui ciascuno, quotidianamente, può costruire ed esprimere la propria identità, dunque come ambiente psico-tecnologico ad alta valenza identitaria, dimensione di identità narrativa e narrata che risponde a diversi obiettivi: sfogarsi narrandosi, sfogarsi “svuotandosi”, condividere i propri pensieri, ricevere consigli (Di Fraia, 2007). L’unità di analisi è il testo globale redatto dall’autore del blog, indagato attraverso una scheda d’analisi che comprende anzitutto caratteristiche socio-demografiche (età, sesso, istruzione, lavoro) e caratteristiche del blog (titolo, destinatari, obiettivi dichiarati, numero di visitatori). Le autrici, tutte di sesso femminile, hanno tra i sedici e i ventuno anni e frequentano, nella gran parte dei casi, la scuola superiore. I titoli dei blog esplicitano di rado il riferimento all’esperienza Pro-Ana. Tuttavia, sono indicati come destinatari tipo coloro che condividono tale esperienza, laddove gli obiettivi dichiarati riguardano la possibilità di offrire e ricevere aiuto nel comune obiettivo di magrezza e di esprimersi liberamente. Il numero medio di visite è di 6.500 per ciascun blog. Come aree di analisi che traducono specifiche categorie di significati, la scheda indaga: • rappresentazione di Sé (Sé corporeo, idealizzazione/svalutazione, bisogni e difese); • rappresentazione del disturbo (condotte quotidiane, relazione con il cibo); • rappresentazione delle relazioni (configurazioni familiari, relazione con Ana, relazione tra pari). Discussione dei dati Proponiamo in questa sede una riflessione sui temi emersi in termini descrittivi declinandola attraverso le aree di analisi utilizzate e le categorie di significato da esse tradotte. 3 L’analisi del contenuto come “inchiesta” (Rositi, 1970; Losito, 2002) costituisce una strategia di ricerca che si colloca all’interno della più ampia analisi del contenuto, metodologia di scomposizione e classificazione orientata all’analisi di ipotesi relative ad eventi comunicativi. Nell’analisi del contenuto come inchiesta il contenuto preso in considerazione non è soltanto linguistico, ma anche extra-linguistico: il testo viene preso in esame nella sua globalità ed “interrogato” attraverso una scheda d’analisi progettata e costruita, del tutto simile, quanto a struttura, ad un questionario articolato in più aree problematiche (Losito, 2002). Lo scopo non è quello di analizzare al contempo significanti e significati, ma direttamente e soltanto significati, e più specificamente il significato globale del testo (Rositi, 1970). 4 Abbiamo preso in esame blog Pro-Ana e non blog Pro-Bulimia, o Pro-mia, poiché questi ultimi sembrano più difficili da reperire. I blog Pro-Ana analizzati sono: ilregnodiana.blogspot.com; anorexicstar.splinder.com; bimbamekkanica.splinder.com; liberadentro.splinder.com; perfectiongirl.splinder.com; piumettad.splinder.com; proanapersempre.blogspot.com; psycokill3r.splinder. com; thinspodoll.splinder.com; anfeananonmangia.splinder.com.
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Rappresentazione di Sé. Il Sé corporeo che “prende corpo” nei blog assume i caratteri di un corpo deformato (“Mi sono guardata allo specchio e ho visto una cosa enorme: ME!”, “Sono tornata a 53 chili. Sono una cicciona”), oggetto persecutorio (“Ancora quegli 8kg… se ne stanno ancora lì… a ridere di me”, “è come se il mio corpo si ribellasse […] vediamo chi vincerà, se io o il lardo!”), di un corpo che, attraverso uno sforzo costante, deve divenire ideale, sottile, etereo, perfetto (“Parola d’ordine: PERFEZIONE! Voglio essere sottile, eterea, perfetta!”, “Sono sicura che quando sarò 45 chili mi guarderò allo specchio e sentirò una grande soddisfazione,un fremito di gioia, solo cosi potrò essere finalmente felice”). Il corpo diviene quindi oggetto estraneo a sé, fonte di angoscia e luogo di attacchi distruttivi, ma anche e soprattutto un non-corpo, un corpo che viene abbandonato sulla soglia dello schermo, consentendo l’anonimato e, per questa via, l’espressione di aspetti di sé mai rivelati. In realtà il corpo non scompare, non si smaterializza, piuttosto assume nuovi contorni e significati: “la virtualizzazione del corpo non è una disincarnazione, ma piuttosto una reinvenzione, una reincarnazione, una moltiplicazione, una vettorializzazione, un’eterogenesi dell’umano” (Lèvy, 1997, p. 19). Quel corpo invisibile, occultato, negato, testimonia che il Sé, quale prima organizzazione psichica della corporeità, si è incontrato-scontrato con le trasformazioni psicofisiche adolescenziali vissute come mostruose “deformazioni”, incomprensibili alterazioni del corpo infantile e dell’immagine di sé a lungo costruita. I vissuti di inadeguatezza e rifiuto del corpo sessuato (Brusset, 1979; Laufer, 1984), i sentimenti di odio e di vergogna per se stessi, finiscono così per declinarsi in una incessante autocritica svalutativa nell’impossibile coincidenza con l’ideale narcisistico che l’immagine speculare produce e che internet riflette e restituisce in forma frammentata. Le alterazioni dei rapporti delle giovani anoressiche con il proprio corpo sono descritte in letteratura in relazione a modalità profondamente regressive del rapporto oggettuale ( J. e S. Kestemberg e Decobert, 1972) con l’attivazione massiva di un’immagine di madre fusionale tra desideri di fusione ed angosce di annichilimento. Infatti, in adolescenza il conflitto si riattiva così intensamente da produrre una regressione a livelli pre-genitali e pre-oggettuali che si inscrivono nel narcisismo primario. All’organizzazione narcisistica di personalità corrisponde un livello arcaico di difese quali la scissione dell’Io e dell’oggetto. In termini difensivi nei blog l’accento cade sulla negazione dei bisogni, sulle strategie multiple di controllo, sulla dipendenza o, più opportunamente, sulla controdipendenza (“CONTROLLO, CONTROLLO E ANCORA CONTROLLO”, “Io sono più forte. Autocontrollo, tutto”, “Il cibo occupa il 90% dei miei pensieri quotidiani, passo le mie giornate a organizzare cosa mangiare”, “Decido io, la fame non esiste”). A salvaguardia dei confini dell’identità, dell’equilibrio narcisistico, si inscrivono dunque particolari dinamiche difensive, sotto il segno della dipendenza, come il potente controinvestimento della realtà esterna ( Jeammet, 1992; 2006) di cui la dimensione virtuale rappresenta una peculiare espressione5. I naturali bisogni del corpo, ora controllati, ora distorti, possono configurarsi come l’ espressione di un Sé deficitario 5 Esula da questa sede la riflessione sugli IAD (Internet Addiction Disorders, dipendenze dall’uso delle rete), che vengono oggi a configurare nuove entità nosografiche (Cantelmi et al., 2000).
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dai confini indeterminati che, a partire dalle prime esperienze, ha appreso a sintonizzarsi esclusivamente sui bisogni dell’oggetto disconoscendo i propri (Bruch, 1988). Rappresentazione del disturbo. Nei blog il disturbo, che diviene stile di vita, si declina negli sforzi finalizzati al raggiungimento del corpo idealizzato desiderato, esposti con cura e minuzia di particolari: un’alimentazione forzatamente limitata, con pranzi e cene saltate; giorni di assoluto digiuno; gomme e sigarette come risposta alla fame; episodi di vomito autoindotto; ferrea attività fisica; utilizzo di lassativi (“colazione: --- pranzo: Red bull (sugar free) cena: ---”, “colazione: tazzina di caffè (2kcal) pranzo: 1 mela (90 kcal) spuntino: 1 pacchetto di crackers (150kcal) cena: yogurt alla vaniglia (112kcal)”, “oggi: 100 addominali, 100 dorsali, 40 scale + mezzoretta di corsa al freddo, che si brucia di più […] + 35 scale (ne avrei fatte 40, ma poi è arrivata mia madre e ho dovuto smettere…) + 35 minuti di corsa”, “prendo 8 lassativi, ho avuto coliche tremende, sono andata in bagno sei volte e ho trovato un po’ di pace”). Anche diete e rituali sembrano utilizzati per mantenere un controllo di se stesse e degli altri, con l’illusione di una delirante autonomizzazione dalla dipendenza ed il ribaltamento della passività in attività (Cotrufo, 2005). La relazione con il cibo è descritta come complessa e connotata da profonda ambivalenza: il cibo odiato, che fa pentire, star male, sentire in colpa (“Basta cibo. Basta mangiare. Basta con tutta quella roba schifosa che mi fa solo star male e sentire in colpa, debole”, “cibo…odio quel cibo che ti fa solo diventare grassa…mio eterno nemico…”) è sempre al centro dei pensieri delle autrici, che ne parlano cos tantemente, ne contano le calorie, ne analizzano le dimensioni. Al livello di equazione simbolica (Segal, 1957) il cibo è percepito dall’anoressica realmente come la madre piuttosto che come rappresentante delle sue cure, nell’alternarsi del rifiuto e dell’accettazione del cibo sembra configurarsi l’espressione della lotta interiore tra il desiderio di essere autonomi ed indipendenti e la paura di non essere amati. Dunque si può parlare di rifiuto del cibo così come di rifiuto dell’Altro, come messo in luce dagli studi lacaniani (Recalcati, 1997, 2002; Cosenza, 2008), che mostrano l’alterazione del legame sociale in cui all’esperienza soggettiva del desiderio come apertura all’Altro si oppone l’esperienza del “godimento narcisistico” del vuoto, caratteristica delle patologie del comportamento alimentare, che si espande ad una più generale metamorfosi del soggetto moderno. Rappresentazione delle relazioni. Un importante aspetto su cui riflettere è la rappresentazione delle configurazioni familiari che emerge nei blog. Esse sembrano caratterizzate da aspetti come l’indifferenza ed il controllo: i genitori sono descritti come freddi, distanti, indifferenti, incapaci di scorgere l’ombra del disturbo (“È un anno ormai che vado avanti e i miei genitori non si accorgono di niente”, “vi sembrerò cattiva ma voglio che i miei mi vedano scomparire, che vedano le mie occhiaie, che non riesco più a reggermi sulle gambe, devono capire che non possono distruggermi la vita con le loro urla, con la loro freddezza e insensibilità”) o, ancora, come persone controllate e controllanti, che esibiscono, in linea con gli studi di Selvini Palazzoli (1963), una immagine di se stesse ideale ed invidiabile e nascondono una tensione sotterranea ed
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una tendenza all’irritabilità (“i miei genitori… mi controllano… e devo sempre mangiare sennò si lamentano o si incazzano… e mi fanno mangiare con la forza”). Emerge anche l’esistenza di una coppia genitoriale in cui il padre sembra assente o incorporato nella figura materna, in un universo confusivo (Argentieri, Rossi, 1999) che non lascia spazio all’alterità, una costellazione familiare tipica con la madre che fornisce risposte esclusivamente alimentari ed i padri “non padri”. Ciò sembrerebbe rimandare a fantasie inconsce connesse ad un incompleto processo di separazione dalla madre che ben si chiariscono in una prospettiva attenta al genere: per la futura anoressica, infatti, diventare donna come la propria madre e, al contempo, separarsi e distinguersi da lei significa andare incontro ad una continua oscillazione tra nostalgie di fusione e spinte all’individuazione (Nunziante Cesàro, 1996). La prospettiva clinica sottolinea da sempre il ruolo delle interazioni familiari nella complessa e multideterminata eziologia dei disturbi alimentari in particolare in un’ottica sistemico-relazionale (Selvini Palazzoli, 1963; Onnis, 2004), in termini patologici, ma anche valorizzando il sistema familiare in chiave di possibile risorsa (Treasure, 2006). La ricerca si sta muovendo oggi anche nell’ambito del paradigma dell’attaccamento di Bowlby, con l’obiettivo di cogliere i processi attraverso i quali specifici pattern disfunzionali di regolazione emotiva e del comportamento sono associati a determinate esperienze di caregiving e a modelli di attaccamento (Ammaniti, Mancone, Vismara, 2001; Attili, Di Pentima, Magnani, 2004; Ringer, Crittenden, 2007; Barone, Guiducci, 2008; Zavattini, Delogu, Tortolani, 2008; Zavattini, 2008) coniugando l’attenzione all’intrapsichico ed all’interpersonale. L’aspetto che ci colpisce maggiormente in termini di interazioni è una relazione inedita, quella con Ana, acronimo di Anoressia, che sembra connotare aspetti complessi, che vanno dalla ricerca dell’Ideale dell’Io alla sottomissione fideistica, al ricongiungimento fusionale. Ana appare uno stigma, un obiettivo, uno stile di vita, ed assume anche le sembianze di una musa, una dea, una persona cara che aiuta, sostiene, protegge, richiedendo in cambio sacrificio e devozione: è definita perfezione ed è descritta come dea da pregare, come colei che perdona, colei di cui si può essere degne laddove le si offrano le proprie, sacrificali, condotte quotidiane6. 6 Questa
la preghiera che compare in molti blog: “Cara Ana, ti offro l’anima il cuore e il corpo. Ti prego: dammi la saggezza, la fede, il peso di una piuma. Ti imploro: aiutami a fluttuare leggera, a dimagrire fino all’osso, a detestare il cibo, a odiare la mia immagine riflessa nello specchio. Ti dono la mia vita. Io sarò per sempre la tua fedele discepola. Finché morte non ci separi”. In altri blog la dimensione sacrale si declina in un vero e proprio Credo Pro-Ana: “Credo nel CONTROLLO, unica forza ordinatrice del caos che altrimenti sarebbe la mia vita; credo che fino a quando sarò grasso resterò l’essere più disgustoso e inutile a questo mondo e non meriterò il tempo e l’attenzione di nessuno; credo negli sforzi, nei doveri e nelle autoimposizioni come assolute ed infrangibili leggi per determinare il mio comportamento quotidiano; credo nella PERFEZIONE, mia unica meta verso la quale rivolgere tutti i miei sforzi; credo nella bilancia come unico indicatore di successi e fallimenti; credo nell’Ana, mia unica filosofia e religione; credo nell’inferno, perché questo mondo me lo ha mostrato”.
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La fragilità del Sé che non riesce a costruire un’identità adeguata sembra trasformarsi qui in falsi ideali con cui congiungersi in una rassicurante fusione (“Io voglio Ana e so che lei è dentro di me. Adesso la sento. Eccola”, “Quando Ana è con me mi sento forte, leggera, meno lontana dai miei obiettivi”, “So che lei è il male ma io non vedo vie d’uscita, sto solo cercando di essere felice e Ana è l’unica che può aiutarmi”). La fantasia di ripristinare l’onnipotenza narcisistica, di riesperire stati di fusione con l’oggetto, nel tentativo di colmare lo scarto fra l’Io e l’ideale dell’Io, fra l’Io così com’è e l’Io come vorrebbe essere è infatti resa possibile dal processo psichico dell’idealizzazione (Chasseguet Smirgel, 1975; Nunziante Cesàro, 1996). Solo l’unirsi ad Ana, completamente, sembra essere rassicurante: unirsi al proprio ideale ed essere per se stessi il proprio ideale. Ma lo scarto è incolmabile, la perfezione irraggiungibile. Altro elemento rilevante dell’analisi dei blog riguarda la relazione tra coloro che compartecipano all’esperienza Pro-Ana, un gruppo specifico, un “popolo specializzato” (Marinelli, 2004) dove si dispiegano relazioni apparentemente connotate da elementi di sostegno reciproco e condivisione (“ragazze coraggio… noi più dimagriamo più amore riceviamo… quindi… solo una cosa: forza!”, “facciamoci forza insieme… vi prego..ho un disperato bisogno d’aiuto”, “Almeno grazie a voi posso parlare e non tenermi tutto dentro, so che mi capite, che non sono sola!”). Tali relazioni sembrano caratterizzate da una dimensione di omogeneità-indifferenziazione: quella stessa omogeneità che oggi mostra di essere una condizione terapeutica nel lavoro con l’anoressia, in cui si utilizza il piccolo gruppo terapeutico monosintomatico, luogo somato-psichico, spazio protetto condiviso dove l’incontro con l’Altro non è sentito come disgregante o minaccioso, come invece spesso avviene nel setting terapeutico duale caratterizzato da interruzioni premature o terapie interminabili. Quindi, mentre il confronto duale può essere sentito come anoressizzante e claustrofobico dalla parte più fragile della personalità, possono diventare più tollerabili dimensioni relazionali condivise, forse più facilmente immesse in una rete di significazioni e nella dimensione trasformativa delle procedure e dei rituali costruiti dal gruppo (Marinelli, 2000; Curi Novelli, 2004). L’omogeneità nel piccolo gruppo terapeutico monosintomatico a conduzione analitica, rende possibile il superamento della diffidenza iniziale e della solitudine angosciante e alienante. Anche nelle gruppalità virtuali condividere una stessa problematica può infatti favorire la riduzione dell’angoscia persecutoria e di frammentazione caratteristica della presenza dell’estraneo e consentire, attraverso il rispecchiamento, l’espressione di emozioni, di pensieri irrappresentabili. Nel piccolo gruppo monosintomatico, però, l’adulto-terapeuta è garante del contenitore e dell’incontro con il diverso e con la realtà, ed al clima di unione rassicurante consentito dalla condizione monosintomatica fa seguito un momento di recupero delle differenze individuali, quando l’identificazione speculare basata sulla comunanza viene abbandonata in favore di una identificazione analogica in cui l’Altro ha il potere di evocare in sé una parte di identità che è stata rimossa, organizzando una distinzione tra la propria e l’altrui identità. Diversa appare la condizione di omogeneità ricercata nei blog, che esprime il desiderio di una relazione controllabile e poco differenziata.
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Conclusioni In conclusione, il lavoro ci sembra confermare quanto emerge nel quadro dell’anoressia dagli elementi di riflessione di psicopatologia in chiave psicoanalitica (assetto di personalità, qualità delle relazioni interpersonali, organizzazione delle difese) rilevando anche nuove modalità di rappresentazione di Sé e delle relazioni che lo spazio virtuale configura. L’interrogativo centrale, che rimane naturalmente aperto, si può sintetizzare nella questione relativa alla funzione che tale spazio assume nella condizione anoressica. Si può intravedere una possibilità di contattare l’esterno, l’estraneo, l’alterità? O, all’opposto, l’Altro mancante ripropone l’esperienza del vuoto o di un doppio simmetrico indifferenziato, immagine di Sé confusa e scissa? C’è da dire che nei blog presi in esame l’Altro, che non è il simile, non ha parola, è censurato e a volte rischiosamente, collusivamente, censurante. Pensiamo, ad esempio, a come la società stessa reagisce al fenomeno Pro-Ana censurandone le pagine virtuali. Forse un ritiro, forse una risposta allarmistica, che comunque non permette di cogliere nel fenomeno quegli aspetti utili ad indagare le configurazioni attuali della patologia nella loro declinazione sociale, di cui la dimensione della cura non può non tener conto se intende comprendere la complessità dei fattori in gioco. Il fenomeno Pro-Ana ci è apparso dunque in tutta la complessità e l’ambivalenza di un legame con l’Altro che nel virtuale è assente/presente andando a coniugare le due diverse anime dell’anoressia: “il desiderio del niente come spinta mortifera ed il rifiuto dell’Altro come estrema forma di appello” (Recalcati, 2007). Lo stesso spazio virtuale in cui il corporeo ed il mentale si declinano con leggi proprie può rappresentare un’allucinazione condivisa che si esprime in un linguaggio di appartenenza rigidamente controllante (il “credo”, la preghiera ad Ana) ma può anche essere uno scenario dove provare a mettere in scena primitive forme di legame, uno spazio tra l’interno e l’esterno nel quale collocare emozioni, percezioni, visioni, elementi protomentali (Bion, 1948; 1962) attraverso la barriera-schermo protettiva che lascia spazio a piccole tracce di senso, di significato, tracce di sé. Riassunto Il presente lavoro propone una lettura in chiave psicodinamica del fenomeno virtuale Pro-Anoressia. È oggi in crescente aumento il numero di siti, blog, forum, che promuovono uno “stile di vita anoressico” negando gli elementi di sofferenza e disagio connessi ad una costellazione di sintomi o di tratti psicopatologici. Gli studi sul tema appaiono tuttavia ancora esigui, privando gli operatori di conoscenze che potrebbero rilevarsi utili in ambito clinico. I modelli psicodinamici, che aiutano nella comprensione dell’anoressia, sia in una prospettiva di genere, sia evolutiva centrando il focus sulla fase adolescenziale, guidano la nostra riflessione su quanto l’espressione di un tale fenomeno sia frutto di un bisogno di “rispecchiamento” e condivisione che rischia, se non accolto, di rinforzare aspetti patologici di identità già fragili. Il nostro obiettivo è interrogarsi, attraverso una ricerca descrittiva, attuata con la procedura di analisi del contenuto come
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G.V. MARGHERITA - I. NUZZO
inchiesta, sulle possibili funzioni che tali “gruppalità virtuali” vanno assumendo con specifiche dinamiche relazionali. In tal senso sono stati presi in considerazione dieci blog Pro-Ana redatti da ragazze adolescenti tra i sedici e i ventuno anni, utilizzando come unità di analisi il testo globale composto dalle autrici, indagato attraverso una scheda di analisi. Le aree tematiche rilevanti tradotte in categorie di significato sono: la rappresentazione di Sé, nell’espressione virtuale di un Sé corporeo, di bisogni e modalità difensive; la rappresentazione del disturbo, indagata attraverso l’espressione delle condotte quotidiane e del rapporto con il cibo; la rappresentazione delle relazioni nelle peculiari connotazioni conferite dall’uso di internet. In conclusione, il lavoro conferma quanto emerge nel quadro dell’anoressia dagli elementi di riflessione di psicopatologia in chiave psicoanalitica (assetto di personalità, qualità delle relazioni interpersonali, organizzazione delle difese) rilevando anche nuove modalità di rappresentazione di Sé e delle relazioni che lo spazio virtuale configura. Parole chiave Disturbo del Comportamento Alimentare – Funzione del gruppo – Identità/ Sé – Pro-Anoressia – Psicodinamica dell’adolescenza.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 178-189
Disturbi dell’alimentazione e disagio del corpo in adolescenti con diabete mellito di tipo 1: uno studio psicometrico Eating disorders and body image uneasiness in youth affected with type 1 diabetes mellitus Valentina Cardi*, Cristina Colombini*, Consiglia Nacci*, Blegina Shashaj**, Nicoletta Sulli**, Massimo Cuzzolaro* ***
Summary This study intend to consider the prevalence of eating disorders, body image and depressing symptoms among subjects suffering from type 1 diabetes mellitus, as regards to a group of subjects without diabetes. The experimental sample is composed by 75 diabetic youth, 43 males and 32 females, between 14 and 25 years old; the standard sample is composed by 202 subjects, 100 males and 102 females, with the same distribution as to age, sex and body index. This research has not found statistical significant difference between the experimental and the standard group as regard average score in the utilized tests (Eating Attitudes Test, EAT-26 e Body Uneasiness Test BUT), as to per cent of subjects high scorers and as regard to the per cent of the diagnosed case like eating disorders and body image according to DSM-IV-TR. In the examined sample, the type 1 diabetes should not seems to represent a significant factor associated to the eating disorders and body image. Key words Eating disorders – Body image – Type 1 diabetes mellitus and psychoeducational interventions.
Diabete di tipo 1 e disturbi alimentari. Considerazioni preliminari Il diabete mellito di tipo 1 (T1DM) esordisce, in genere, nel corso dell’adolescenza e rappresenta la forma principale di diabete diagnosticata nei bambini al di sotto dei dieci anni di età, come rilevato nel 2007 dall’ISPAD (International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes). Gli adolescenti con diabete, confrontati con coetanei non affetti da diabete o con altre malattie croniche, presentano un rischio triplo di sviluppare disturbi psichiatrici, con un valore di prevalenza pari al 33% (Silverstein et al., 2005). In particolare, il T1DM sembra costituire un terreno fertile per lo sviluppo di disturbi dell’alimentazione (DA). * Università Sapienza Roma - Azienda Policlinico Umberto I. Dipartimento di Fisiopatologia Medica, BMI 13 Unità Anoressie Bulimie Obesità. ** Centro Regionale di Riferimento di Diabetologia Pediatrica. *** ICR Villa delle Querce.
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La comorbilità tra diabete mellito di tipo 1 e disturbi del comportamento alimentare è una vexata quaestio, molto dibattuta negli ultimi decenni. Peraltro, i risultati riportati in letteratura appaiono spesso discordanti e poco sistematizzati (Turner et al., 2005). L’alta incidenza delle due condizioni cliniche sembrerebbe giustificarne la cooccorrenza casuale, ma numerosi dati sostengono l’ipotesi di una sovraespressione dei disturbi alimentari nei pazienti diabetici. D’altra parte, le limitazioni quantitative e qualitative dirette al controllo metabolico, facilitano cicli disfunzionali dieta-abbuffate (Colton et al., 2004), abitudini alimentari disordinate (Christensen et al., 2007) e, in non pochi casi, assunzione notturna di cibo e bevande (night eating syndrome, Morse et al., 2006). I disturbi alimentari associati all’esordio e al decorso del T1DM (Smart et al., 2009), comprendono sia casi full syndrome di anoressia nervosa e bulimia nervosa sia disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati o sottosoglia (partial syndrome) (Rodin et al., 2004; Iapusco et al., 2004). Secondo alcune ricerche, un terzo delle ragazze adolescenti con diabete di tipo 1 soffre di un DA subliminale o di vere e proprie forme conclamate di anoressia e bulimia nervosa (Colton et al., 2004 e 2007; Winer, 2008), con un rischio pari al doppio rispetto alle ragazze coetanee non diabetiche ( Jones et al., 2000). Uno studio longitudinale (Fairburn et al., 2005) ha trovato che il 25% circa delle giovani donne affette da diabete di tipo 1 presenta fattori di rischio per la comparsa di disturbi alimentari con un tasso elevato di comorbilità, complicanze e mortalità. Il sospetto di un’associazione T1DM-DA è autorizzato se si rileva (Peveler et al., 2005; Kaufman, 2006; Markovitz, 2008; Helgeson et al., 2009; Monzali et al., 2009; Goebel-Fabbri, 2009): – scarsa adesione a uno o più aspetti del regime dietetico e variazioni ingiustificate dello stile alimentare: dieta troppo rigida, eccessiva attenzione alle calorie e al tipo di alimenti consumati, rifiuto improvviso di alimenti precedentemente graditi, bisogno di mangiare da soli e in modo diverso dal resto della famiglia; – ridotto controllo metabolico evidenziato da alti livelli di Hb A1c, sintomi ricorrenti d’iperglicemia, episodi di chetoacidosi, ipoglicemia e ritardo nello sviluppo puberale. Il comportamento binge eating (abbuffata compulsiva), in particolare, si associa a un significativo peggioramento del controllo metabolico (Winer, 2008); – lunghe permanenze in bagno; – instabilità del peso corporeo con oscillazioni rilevanti; – insoddisfazione profonda per le proprie forme corporee; – scarsa autostima. Al contrario, un concetto di sé positivo è, ovviamente, un potente fattore di protezione (effetto buffer, Daneman et al., 2004); – sintomi depressivi e d’ansia. Tali sintomi sembrano più frequenti nei soggetti affetti da diabete rispetto alla popolazione esente e risultano correlati significativamente a un peggior controllo glicemico, a un deterioramento funzionale e a una scarsa compliance dietetica (Hermanns et al., 2006; Scheff et al., 2007; Sridhar et al., 2007).
180
V. CARDI - C. COLOMBINI - C. NACCI ET AL.
Numerose ricerche indicano che l’omissione e/o il sotto-dosaggio insulinico sono le più frequenti pratiche adottate per contrastare l’incremento ponderale determinato dalla terapia diabetica e dalle trasgressioni alla dieta, compreso il binge eating (Chase et al., 2004; Peveler et al., 2005; Beveridge, 2006; Battaglia, 2005; Arcangeli et al., 2007). Queste condotte sono utilizzate in adolescenza più che in età adulta (Chiarelli et al., 2004; Davis et al., 2005; Balfe et al., 2007; Sridhar, 2007). I comportamenti alimentari disfunzionali rappresentano a volte fenomeni lievi e transitori; altre volte, invece, si cristallizzano in disturbi gravi e di lunga durata. Secondo una ricerca di Colton e altri (2007), la presenza di importanti sintomi depressivi rappresenta un fattore di rischio per la cronicizzazione dei disturbi alimentari in adolescenza. L’insoddisfazione per l’immagine del corpo è un fenomeno strettamente collegato ai disturbi dell’alimentazione. Secondo Monzali e altri (2009) compare spesso dopo la diagnosi di diabete. La diagnosi di T1DM, peraltro, cade di solito un po’ prima dello sviluppo puberale, tempo di grande vulnerabilità per i problemi connessi all’immagine fisica di sé. La magrezza che precede il riconoscimento diagnostico (il diabete di tipo 1 era chiamato nei vecchi testi di medicina diabete magro) e l’aumento di peso successivo all’inizio della terapia insulinica, sono i due fattori principali che contribuiscono a richiamare un’attenzione preoccupata sul peso e sulle forme del corpo (Rydall et al., 2004; Kaufman et al., 2006). Ricordiamo un dato ovvio: la diagnosi di una condizione medica cronica in età evolutiva è un evento di grande rilievo (Colton et al., 2004). Il diabete, quando assume un’importanza centrale nella vita del soggetto e della sua famiglia ed è valutato in termini intensamente negativi, risulta correlato a vari indicatori psicologici di distress (ansia, rabbia, sintomi depressivi, scarsa auto-efficacia) e, sul piano medico, a un insufficiente controllo metabolico (Lawson et al., 2007; Novak et al., 2007; Helgeson et al., 2009). Alla cattiva gestione di un diabete concorrono molti fattori, tra i quali alcune specifiche variabili di personalità (Davis et al., 2005). In particolare, il perfezionismo risulta associato ad ansia e preoccupazione per il peso e tratti di personalità borderline, a condotte a rischio, come l’omissione/manomissione dell’insulina (PollockBarziv et al., 2005; Bardone-Cone, 2007). Soggetti diabetici con diagnosi di disturbo alimentare, inoltre, hanno riportato punteggi più elevati nella scala harm avoidance (evitamento di stimoli avversi) e punteggi più bassi nella scala self-directedness (capacità di autogoverno) del Temperament and Character Inventory, TCI (Cloninger et al., 1998), rispetto a soggetti esenti da tale comorbilità (Grylli et al., 2005). La famiglia svolge un ruolo essenziale (Benninghoven et al., 2007). La mancanza di un supporto socio-familiare valido risulta significativamente correlato alla manomissione della terapia insulinica (Chase et al., 2004). Stress e dinamiche familiari disfunzionali influiscono negativamente sulla compliance al regime diabetico (Al-Haidar, 2006; Sridhar, 2007) e l’assenza di un supporto familiare efficace, nella fase di individuazione e differenziazione dalle figure genitoriali, è associata a difficoltà di natura fisica e psicosociale (Beveridge et al., 2006). Per contro, un contenimento affettivo efficace in famiglia e un’elaborazione con-
DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE E DISAGIO DEL CORPO IN ADOLESCENTI
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divisa dell’esperienza di malattia predicono livelli inferiori di HbA1c (Rodin et al., 2004). I problemi psicologico-psichiatrici e le complicanze mediche conseguenti alla comorbilità T1DM-DA, rendono quanto mai opportuna l’individuazione precoce dei casi a maggior rischio (Turner et al., 2005). Il supporto deve essere di tipo interdisciplinare/multiprofessionale, in modo da affrontare gli aspetti fisici, nutrizionali, psicologici e di mantenimento (Smart et al., 2009). È necessario l’intervento coordinato di più figure professionali. In particolare, è necessario che il centro diabetologico e il centro di salute mentale di riferimento, collaborino insieme per costruire una strategia di cura efficace. Il coinvolgimento dei familiari, valutato caso per caso, è diretto a fornire spiegazioni e insegnamenti, a elaborare le reazioni emotive, a promuovere il sostegno del giovane paziente. Il supporto psicologico è orientato ad affrontare il disagio che segue la diagnosi e accompagna il disturbo: ansie, paure, bassa motivazione al cambiamento e ambivalenza tra il desiderio di star meglio e quello di mantenere i sintomi e i loro vantaggi. Gli interventi psicoeducativi (Kelly et al., 2005; Murphy, 2006; Van Walleghem et al., 20; Court et al., 2008) sono rivolti a raggiungere sia benefici psicologici che miglioramenti del controllo metabolico, agendo su varie linee: – sviluppare relazioni efficaci tra l’adolescente e il centro diabetico di riferimento; – educare alla gestione della dieta, dell’attività fisica, dei controlli glicemici e della terapia insulinica; – discutere i cambiamenti fisiologici della pubertà e i loro effetti sulla dose di insulina; – informare in modo chiaro, ma non terroristico, sulle complicanze derivanti dalla scorretta gestione del diabete; – incoraggiare la fiducia e il senso di autoefficacia; – promuovere il coinvolgimento attivo della famiglia; – suggerire un trattamento psicoterapeutico e/o farmacologico quando necessario. In conclusione, secondo varie ricerche ( Jones et al., 2000; Colton et al., 2004; Goebel-Fabbri, 2009), i soggetti affetti da diabete di tipo 1 avrebbero probabilità superiori alla media di sviluppare disturbi della condotta alimentare, dell’immagine del corpo e sintomi depressivi (Rydall et al., 2004; Kichler, 2008; Hermanns, 2006; Court et al., 2008). Il dato suggerisce l’opportunità di un’attenta valutazione clinica, multidimensionale, diretta alla identificazione precoce dei soggetti a rischio (Murphy et al., 2006; Cannata et al., 2009). Lo studio che segue si propone di valutare: • i punteggi riportati da un campione di giovani diabetici a test che valutano il comportamento alimentare, l’immagine del corpo e la presenza di sintomi depressivi; • le differenze rispetto ai punteggi riportati da un gruppo di controllo, confrontabile per età, sesso e indice di massa corporea, di soggetti non diabetici ed esenti da disturbi dell’alimentazione.
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Due le ipotesi da verificare. Ci aspettiamo che i punteggi riportati ai test siano più elevati nei soggetti con diabete di tipo 1, rispetto al gruppo di controllo. Ci aspettiamo, inoltre, che nel primo gruppo siano più numerosi i soggetti high scorers, con punteggi cioè superiori ai cutoff e indicativi di una probabile presenza di sintomi. Metodo Campione. Il campione sperimentale è costituito da 75 soggetti diabetici, afferenti al centro antidiabetico della Clinica Pediatrica dell’Università Sapienza di Roma. Il campione conta 43 maschi e 32 femmine di età compresa tra i 14 e i 25 anni di età. Il gruppo di controllo è costituito da 202 soggetti non diabetici ed esenti da disturbi dell’alimentazione, 100 maschi e 102 femmine estratti dai database utilizzati per la validazione italiana dell’EAT-26 e del BUT (Cuzzolaro e Petrilli, 1987; Garner e Garfinkel, 1979). La scelta dei soggetti del gruppo di controllo è stata fatta in base all’età e all’indice di massa corporea in modo che i due gruppi, clinico e di controllo, non presentassero differenze significative rispetto a queste due variabili. Strumenti. Peso e altezza sono stati misurati con bilancia meccanica a colonna e altimetro. Ai 75 soggetti diabetici sono stati somministrati tre questionari self-report in occasione di una regolare visita ambulatoriale presso la clinica pediatrica, previo consenso informato dei soggetti in esame e, per i minori, dei genitori (nessuno ha rifiutato): – EAT-26, Eating Attitude Test (forma ridotta: 26 item), che valuta il comportamento alimentare e i suoi disturbi (Cuzzolaro e Petrilli, 1987; Garner e Garfinkel, 1979). Dall’EAT-26 si ricava un punteggio totale che, se supera il valore 20 (cutoff ), è indicativo di probabili disturbi delle condotte alimentari; – BUT, Body Uneasiness Test, che valuta il disagio per le forme e il peso corporeo (Cuzzolaro et al., 1999; 2000; 2006). Il BUT fornisce un punteggio complessivo di gravità (GSI) e i punteggi di cinque sottoscale: 1. WP. Fobia dell’aumento di peso (paura di essere o diventare grassi); 2. BIC. Preoccupazioni eccessive per il proprio aspetto fisico; 3. A. Evitamento (comportamenti di evitamento collegati all’immagine del corpo); 4. CSM. Controllo compulsivo (rituali di controllo dell’aspetto fisico); 5. D. Depersonalizzazione (vissuti di distacco ed estraneità rispetto al proprio corpo). – BDI, Beck Depression Inventory, che esplora la presenza e l’intensità di sintomi depressivi (Beck et al., 1961). Un punto di cutoff clinicamente significativo è 15/16: punteggi > 15 indicano la probabile presenza di sintomi depressivi. Più in dettaglio: sintomi depressivi sono probabilmente assenti se il punteggio è < 10; sono lievi se è fra 10 e 19; medi se è fra 20 e 29; gravi se il punteggio è > 30.
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Analisi statistiche. Sui dati ottenuti sono state compiute le seguenti analisi statistiche: – controllo della normalità della distribuzione attraverso il test di KolmogorovSmirnov; – test di significatività t di Student per dati non appaiati; – test del chi quadrato. Le elaborazioni sono state svolte mediante il software JMP ver. 6.0.3 per Macintosh (SAS Institute, 2006). Risultati All’interno del gruppo clinico (v. Tabella 1), non si riscontrano differenze significative tra l’età media dei maschi (18,76 anni) e quella delle femmine (19 anni). I maschi risultano più alti rispetto alle femmine (M = m. 1.75 vs. F= m. 1,62) e presentano un peso maggiore (M = kg. 70,42 vs. F = kg. 61,69). Le ragazze hanno un indice di massa corporea più elevato (BMI 23,35± 2,44) rispetto a quello dei maschi (BMI 22,71±2,60), ma la differenza non è significativa. I casi di sovrappeso sono 8 (18,6%) tra i maschi e 6 (18,75%) tra le femmine; nessun caso di obesità. Confrontando le risposte ai test nei due sessi, le donne hanno ottenuto sempre punteggi medi significativamente più elevati rispetto alla popolazione maschile. Confrontando il gruppo clinico con quello di controllo, in accordo con i criteri di costruzione del secondo, non esistono differenze statisticamente significative, né rispetto all’età, né all’indice di massa corporea (v. Tabella 2). Quanto ai test, i punteggi medi riportati all’EAT-26, dai campioni clinici maschile e femminile, non risultano significativamente diversi rispetto a quelli riportati dai coetanei non diabetici dello stesso sesso, età e BMI. Nel gruppo clinico maschile, un soggetto (2,22%) ha riportato un punteggio superiore al cut-off 20 (high-scorer), rispetto a 3 nel gruppo di controllo (3%). Nel gruppo clinico femminile, 4 soggetti (12,5%) sono risultati high scorers rispetto a 12 (11,76%) nel gruppo di controllo. Neanche le differenze tra le percentuali di high scorers del campione sperimentale e del gruppo di controllo, sono statisticamente significative. Passando al BUT, i punteggi medi ottenuti all’indice complessivo di gravità e alle cinque sottoscale dai soggetti appartenenti al campione clinico, non differiscono in modo statisticamente significativo da quelli ottenuti dal gruppo di controllo. I giovani affetti da diabete mellito di tipo 1 non sembrano presentare, quindi, livelli d’insoddisfazione corporea significativamente diversi rispetto ai coetanei non affetti.
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Tabella 1. Campione clinico. Differenze fra i sessi. M (43)
OW OB ns *
F (32)
P
Età M±DS
18,76 ± 3,02
19,0 ± 3,09
Ns
Peso M±DS
70,42 ± 10,20
61,69 ±8,57
*
Altezza M±DS
1,75 ± 0,06
1,62 ± 0,06
*
BMI M±DS
22,71 ± 2,60
23,35 ± 2,44
Ns
n. OW (BMI fra 25 e 29,9)
8 (18,6%)
6 (18,75%)
Ns
n. OB (BMI ≥ 30)
0
0
Ns
BDI
6,49 ± 5,46
9,47 ± 6,18
*
BDI High Scorers (>15)
3 (6,67%)
6 (18,75%)
*
EAT-26 tot M±DS
4,80 ± 4,82
9,19 ± 11,25
*
EAT26 High Scorers (>20)
1 [NW] (2,22%)
4 [2 OW] (12,5%)
*
BUT-A GSI M±DS
0,50 ± 0,44
1,21 ± 0,91
*
BUT-A WP M±DS
0,74 ± 0,71
1,84 ± 1,09
*
BUT-A BIC M±DS
0,54 ± 0,57
1,41± 1,31
*
BUT-A A M±DS
0,16 ± 0,35
0,33 ± 0,67
*
BUT-A CSM M±DS
0,77 ± 0,67
1,43 ± 1,11
*
BUT-A D M±DS
0,20 ± 0,28
0,65 ± 0,93
*
sovrappeso (overweight) obesità differenza statisticamente non significativa p < 0,05
Tabella 2. Campione clinico (M e F) vs. controlli (Mc e Fc). M (43)
Mc (100)
p
F (32)
Fc (102)
P
Età M±DS
18,76 ± 3,02
19,23 ± 3,51
ns
19,0 ± 3,09
19,14 ± 2,48
Ns
BMI M±DS
22,71 ± 2,60
23,87 ± 2,91
ns
23,35 ± 2,44
22,41 ± 3,36
Ns
EAT26 tot M±DS
4,80 ± 4,82
4,53 ± 4,35
ns
9,19 ± 11,25
10,81 ± 8,74
Ns
EAT26 HS (>20)
1 (2,22%)
3 (3%)
ns
4 (12,5%)
12 (11,76%)
Ns
BUT-A GSI M±DS
0,50 ± 0,44
0,45 ± 0,52
ns
1,21 ± 0,91
1,32 ± 0,91
Ns
BUTA WP M±DS
0,74 ± 0,71
0,70 ± 0,65
ns
1,84 ± 1,09
1,92 ± 1,21
Ns
BUT-A BIC M±DS
0,54 ± 0,57
0,48 ± 0,59
ns
1,41± 1,31
1,62 ± 1,19
Ns
BUT-A A M±DS
0,16 ± 0,35
0,13 ± 0,38
ns
0,33 ± 0,67
0,56 ± 0,85
Ns
BUT-A CSM M±DS
0,77 ± 0,67
0,63 ± 0,55
ns
1,43 ± 1,11
1,61 ± 1,01
Ns
BUT-A D M±DS
0,20 ± 0,28
0,14 ± 0,45
ns
0,65 ± 0,93
0,84 ± 1,12
Ns
ns *
differenza statisticamente non significativa p < 0,05
DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE E DISAGIO DEL CORPO IN ADOLESCENTI
185
Discussione Nessuna delle due ipotesi affrontate in questa ricerca è stata verificata. I punteggi riportati al test EAT-26 non sono risultati più elevati nei soggetti con diabete rispetto al gruppo di controllo. Né sono risultati più numerosi i soggetti EAT-high-scorers, con punteggi cioè superiori ai cutoff, indicativi di una probabile presenza di disturbi del comportamento alimentare. L’ipotesi di una elevata comorbilità tra diabete mellito di tipo 1 e disturbi del comportamento alimentare, non sembra, quindi, confortata dai risultati di questa indagine psicometrica. Analogamente, i punteggi ottenuti al BUT non sono risultati più elevati nei soggetti con diabete rispetto al gruppo di controllo. Il dato contrasta, almeno sul piano psicometrico, con l’ipotesi di un maggior disagio del corpo negli adolescenti e nei giovani adulti affetti da diabete mellito di tipo 1. Infine, i punteggi ottenuti al BDI confermano la possibile presenza di sintomi depressivi in alcuni pazienti diabetici (Hermanns et al., 2006; Scheff et al., 2007; Sridhar et al., 2007). I dati ottenuti concordano, quindi, solo in parte con i risultati di una interessante metanalisi (Mannucci et al., 2005). Quel lavoro segnalava, infatti, l’assenza di differenze significative tra gruppo-diabete e gruppo-controllo per l’anoressia nervosa, ma trova che il diabete mellito di tipo 1 è associato, nel sesso femminile, a una prevalenza significativamente più elevata di bulimia nervosa. Il nostro studio offre un contributo di tipo psicometrico a un tema ancora poco affrontato nel contesto clinico italiano e può rappresentare uno spunto preliminare per lo sviluppo di nuove ipotesi e ricerche. I limiti principali sono due: l’esiguità del campione in esame e il carattere esclusivamente psicometrico dell’indagine. La mancanze di una verifica diagnostica clinica non ha permesso di individuare sia i falsi positivi sia, soprattutto, i falsi negativi ai test: è nota la tendenza, nei giovani affetti da diabete, a dissimulare comportamenti alimentari disturbati, in particolare abbuffate compulsive (binge eating). Possibili ipotesi da sottoporre a verifica in future ricerche: • il diabete di tipo 1 non rappresenta un fattore di rischio elevato per l’insorgenza di sintomi depressivi e/o disturbi dell’alimentazione e/o disturbi dell’immagine del corpo; • il diabete di tipo 1 rappresenta un fattore di rischio elevato per l’insorgenza di sintomi psicopatologici ma solo in età successive a quella esplorata in questo studio; • il diabete di tipo 1 rappresenterebbe un fattore di rischio elevato per l’insorgenza di sintomi depressivi, disturbi dell’alimentazione e dell’immagine del corpo, ma nel campione in esame (e nell’unità di cura dal quale proviene) agiscono fattori di protezione efficaci; • uno screening affidato soltanto a questionari di autovalutazione, pur affidabili e collaudati, è un metodo debole e fallace d’individuazione di sintomi clinicamente significativi di depressione, disturbi dell’alimentazione e dell’immagine del corpo in soggetti giovani affetti da diabete di tipo 1. Quando l’indagine
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psicologica si svolge nello stesso setting della cura diabetologica, inoltre, è possibile che il ricorso a risposte falsamente negative aumenti in un quadro complessivo di rappresentazione di sé meno negativa, volta anche a nascondere la scarsa compliance alle cure. Riassunto Lo studio si propone di valutare la prevalenza di disturbi della condotta alimentare, dell’immagine corporea e di sintomi depressivi in una popolazione di soggetti affetti da diabete mellito di tipo 1, rispetto a un gruppo di soggetti non diabetici. Il campione sperimentale è costituito da 75 ragazzi diabetici, 43 maschi e 32 femmine, di età compresa tra i 14 e i 25 anni; il gruppo di controllo è composto da 202 soggetti, 100 maschi e 102 femmine, aventi la stessa distribuzione rispetto ad età, genere e indice di massa corporea. La ricerca non ha trovato differenze statisticamente significative tra il gruppo sperimentale e quello di controllo rispetto ai punteggi medi ai test utilizzati (Eating Attitudes Test, EAT-26 e Body Uneasiness Test BUT), alle percentuali di soggetti high scorers e alle percentuali di casi diagnosticabili come disturbi dell’alimentazione e dell’immagine corporea secondo il DSM-IV-TR. Nel campione studiato, il diabete di tipo 1 non sembrerebbe rappresentare un fattore significativamente associato a disturbi del comportamento alimentare e dell’immagine corporea. Parole chiave Disturbi dell’alimentazione – immagine corporea – diabete mellito di tipo 1 e interventi psicoeducativi.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 190-210
Assaggiare il diabete: pazienti con diabete giovanile in trattamento analitico e psicoterapico A “close up” of diabetes: patients with Juvenile Type 1 diabetes mellitus in analysis and in psychotherapy Franco D’Alberton*, Stefania Dicasi**, Chiara Rosso***
Summary Considering the literature on young diabetic patients the Authors reflect on three psychotherapic and analytical cases. Although there are differences in the clinical material of the patients, for example the gender and age when diabetes occurs, it is possible to find a common thread in the evolution of the therapy. The patients work towards the acceptance of their disease to find a mental representation of trauma-diabetes. According to the touching poem by D.Luziani, when young people become diabetic, it’s as if a landslide occurs, changing their natural course of life that will never be smooth and solid like a skating rink. Through their therapeutic work the Authors are training patients to bereconciled to their fate, so that after the landslide a new landscape can take shape. In the case of Laura, her dream about “honey and bees” symbolizes a valuable transformation that is taking place. It is a liberating experience for Marc when he is able to share the secret of his disease with others. For the young Diana, at the end of her therapy her diabetes takes on the form and colour of a rainbow. Key words Type 1 diabetes mellitus – Chronic disease – Psychotherapy – Psychoanalysis – Body mind relationship.
Skating (una città del Nord,tanti anni fa) Io e te, ambedue così nemiche del freddo, della neve, dai tuoi paesi dolci marinari finire lì nel Parco dell’Ospedale dei Bambini, come in una cartolina natalizia! Io sopra il ghiaccio tu sulla mia vita che s’incrinava. Odiammo quello sport convalescenza strana d’una più strana malattia durabile, ci dissero, quanto la stessa vita. Benevola * Psicologo Psicoterapeuta, Psicoanalista SPI, Dipartimento Salute della donna, del bambino, dell’adolescente, Azienda Ospedaliera-Universitaria di Bologna S. Orsola-Malpighi, Bologna. ** Psicologo Psicoterapeuta, Psicoanalista SPI, Firenze. *** Medico Psichiatra, Psicoanalista SPI, Bologna.
ASSAGGIARE IL DIABETE
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se solo l’avessimo curata con amore e attenzione: come un bambino piccolo perenne io e te da tenerselo dentro. Io te il guardiano: i bambini guariti erano a scuola. Più che a volteggiare con maestria mi allenavi a un destino. Non fu per questo che non imparammo A sorridere tu, mai più, senza quella spera di ghiaccio nello sguardo Né a pattinare, io? Dedy Luziani Introduzione Dedy Luziani Luti (1997) non imparò a pattinare ma diventò neuropsichiatra infantile. Curò il suo diabete, il suo “bambino piccolo perenne”, tutta la vita riuscendo a riparare la ferita che l’irrompere della malattia aveva determinato nella relazione con se stessa e con il suo corpo. Fu la presenza di una madre sensibile e attenta, la costituzione robusta, un Io sufficientemente forte o la sua personale creatività che le consentirono di superare la dimensione emotiva traumatica connessa al comparire della malattia? Questo articolo nasce dall’incontro di ciascuno di noi Autori con giovani pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1. La sofferenza dei pazienti e dei loro familiari è diventata parte di noi e ci ha spinti ad approfondire lo studio del diabete e delle sue implicazioni psicologiche con particolare riguardo alla letteratura psicoanalitica e alle esperienze dei colleghi. Le considerazioni di carattere teorico si intrecciano al materiale clinico derivato dal trattamento di tre pazienti: una giovane adulta che vive in analisi la sua prima gravidanza, un adolescente ed una bambina in età di latenza. Il miele e le api: il caso di Laura Laura ha un diabete giovanile di tipo 1 che le viene diagnosticato all’età di quindici anni. Nell’anno che precede la diagnosi, dopo essersi ammalata di morbillo, cambia spesso umore. Ha sempre sete, ma beve di nascosto. Mangia disordinatamente e perde peso; le mestruazioni scompaiono. A scuola il rendimento è in flessione. I genitori attribuiscono all’adolescenza questi cambiamenti mentre Laura diviene sempre più angosciata e teme di morire. Ricoverata d’urgenza, stupisce i medici per la facilità con la quale si rassegna alla diagnosi e si adatta alla terapia, diventando una paziente modello, la mascotte dell’Unità diabetologica. Subisce due interventi agli occhi poiché rischia la cecità. I genitori si tengono in disparte, abbattuti da quella che considerano una “disgrazia” che li ha colpiti. Verso i 18 anni compare un altro momento di crisi: le condotte bulimiche prendono il sopravvento e Laura non segue più adeguatamente la terapia per il diabete. Come è tipico in
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queste giovani pazienti, impara presto a porre rimedio alle abbuffate manipolando l’assunzione di insulina fino a rischiare il coma. Abbandona gli studi e poi un lavoro part-time, passando il tempo chiusa in casa a mangiare, vomitare e “pasticciare con l’insulina”. Intraprende una psicoterapia per un paio d’anni al termine dei quali, dietro il consiglio del suo psicoterapeuta, arriva per la prima volta alla mia osservazione. Inizia quindi un’analisi a quattro sedute settimanali che durerà sette anni. Riporto le battute iniziali: P.: “Il Dottor … Le avrà detto qual è il mio problema…”. A.: “Preferisco che sia Lei stessa a parlarmene, comunque… so che c’è un problema col diabete…”. P.: “No, non ci sono problemi col diabete. Io ho un grosso problema con il cibo!”.
Come in questo colloquio, che si è aperto con un agito dell’analista, nei primi tempi restiamo in una sorta di contrapposizione: io ho troppo in testa il diabete, lei lo ignora. Io sono angosciata per la sua vita, lei è preoccupata per il suo peso. In uno dei primi sogni Laura si vede in un’astronave assieme ai familiari. Tutti indossano strane tute spaziali e appaiono senza braccia, ma la cosa non le desta meraviglia: “Forse siamo dei marziani”. Dopo le vacanze di Natale (l’analisi è iniziata in ottobre) la situazione precipita al punto che, in aprile, decido di chiederle i nomi e i numeri di telefono dei medici che l’hanno in cura. Me li porta la seduta seguente e vado di persona a incontrare i medici che scopro non avere da mesi sue notizie. I genitori sono completamente latitanti. Questo mio intervento segna la ripresa dei rapporti con l’ospedale e uno dei numerosi tentativi di Laura di recuperare un’accettabile gestione del diabete. Dopo circa tre anni di analisi, caratterizzati da alti e bassi sul piano dell’umore come da alterne vicende nella relazione con me e nella cura della malattia, Laura porta un sogno che le mette molta ansia. P.: “Siamo in montagna, c’è la neve, siamo vestiti da sci. La mamma parla con mia cugina più piccola, le spiega qualcosa che io so già. Dico che dobbiamo andare, gli altri già pronti ci aspettano sulla pista. Qualcuno però ci avverte che c’è – è stranissimo! – del miele lì intorno e in effetti si vede già qualche ape: è pericoloso, il miele le attira. C’è un senso di grande pericolo in arrivo”.
Senza soluzione di continuità racconta un secondo sogno. Lavoriamo insieme su questo, poi torna a chiedersi: “Ma le api? Chissà…”. A.: “Le api pungono, fanno pensare alle punture… ma non c’è una forma di diabete che si chiama mellito?”. P.: “Ma certo! È proprio il mio! Come ho fatto a non pensarci… eppure è una cosa che so, l’ho anche letta. Pensi che questa forma di diabete era già nota agli antichi, ai greci. L’hanno chiamato mellito perché i medici non avevano gli strumenti di ora, così hanno proprio, mi scusi se lo dico, hanno proprio assaggiato la pipì dei malati che era dolciastra”.
Mi sembra che la seduta sia ben rappresentativa del cambiamento che si è prodotto nella relazione da quel primo colloquio, quando ci siamo fronteggiate lei col problema del cibo, io col problema del diabete. Infatti quando mi racconta il primo sogno a me non viene in mente
ASSAGGIARE IL DIABETE
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granché, mi colpisce la stravaganza: il miele, le api. Anche io penso: “Chissà?”. Le vado dietro, la seguo nel secondo sogno; poi associo le api con le punture, dunque con le iniezioni e arrivo al diabete mellito molto stupita di non averci pensato subito. Ma appunto, il diabete adesso è meno intrusivo, sta diventando come un ospite al quale si è data la chiave di casa: va e viene, non bisogna occuparsene continuamente. La distanza dall’oggetto-diabete trova una diversa regolazione attraverso modalità diverse dal dosaggio dell’ insulina. A questa distanza sembra che il dato di realtà sia più pensabile e rappresentabile di prima: la paziente può sognarlo, l’analista può dimenticarlo. Il sogno del miele e delle api, insieme con la seduta che ne è seguita, ha rappresentato un giro di boa. In un certo senso, solo quando la realtà è entrata nel mondo del sogno è stato possibile lasciarla sullo sfondo per occuparsi degli oggetti interni della paziente e della sua relazione con essi per come si esprimevano nel sintomo e si animavano nel transfert. Sono stati anni intensi e burrascosi nei quali non sono mancate gravi ricadute. Tuttavia la situazione è complessivamente migliorata in quanto è diventato più facile collegare queste ricadute con le vicende dell’analisi e della relazione con l’analista. Sempre più chiaramente Laura è diventata consapevole della sua grande paura di entrare in rapporto con l’altro e di stabilire nuovi legami abbandonando l’attaccamento agli oggetti d’amore infantili. In una seduta prossima alle vacanze estive, Laura accarezza, come ormai dice da tempo, l’idea di “fare un bambino”. Un’idea che però ha ancora il carattere di una fantasia piuttosto che di un progetto. Del resto, lei e il fidanzato vivono ciascuno per conto proprio perché Laura non si sente pronta alla convivenza. La invito a considerare che la sua idea di “fare un bambino” viene prima dell’idea di cominciare una vita di coppia. E, poiché le api sono entrate nel lessico dell’analisi, le dico che sta cercando di utilizzare il fidanzato come un fuco. Laura ride divertita. Le dico che forse non tollera di stare con la pancia (la testa) vuota per tutto il tempo delle vacanze. Ricorda allora una cosa buffa: la sera prima era smaniosa, agitata, con una gran voglia di cioccolata e il fidanzato le ha detto: “saltelli di qua e di là come un canguro!”. Commenta: “Faccio ancora fatica a tenere vuoto il mio marsupio!”. Verso la fine dell’analisi, rimane incinta. È una gravidanza pianificata in modo paziente e responsabile: si sottopone a una lunga serie di esami e di terapie fino al “consenso” del ginecologo. Non appena lei e il compagno “provano”, Laura resta subito incinta: “Questa volta, dopo che ho tanto lottato con lui, il corpo mi è stato amico”. Tuttavia Laura fa ancora fatica a tenere aperto uno spazio nel quale l’altro è atteso e pensato e non subito incorporato in modo da annullare magicamente la distanza, la solitudine, l’assenza. Forse il contatto con un oggetto concreto e maligno – quale per tanto tempo è stato il diabete nella sua percezione – le ha reso di nuovo difficile rinunciare al contatto con un oggetto concreto interamente buono e totalmente suo come la buona cioccolata che mangia, la buona analista che non parte mai, il buon bambino che sta sempre nella pancia.
La letteratura psicoanalitica Luigi Solano (2000, 2001), che in Italia si è occupato approfonditamente del tema del diabete, propone un’ottima sintesi della letteratura e sottolinea sia una pos-
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sibile influenza di fattori psicosociali sull’insorgenza sia uno stretto parallelismo fra le oscillazioni della glicemia e le vicissitudini relazionali. Recenti studi collegano i disturbi psicosomatici a fattori interni di regolazione che sarebbero all’origine di uno sfasamento dell’equilibrio fisiologico/affettivo. I disturbi somatici appaiono come disturbi nella relazione con un oggetto regolatore, interno o esterno. Questa ipotesi, esplicitata compiutamente da Grame J. Taylor (1987), è in linea con il pensiero di molti Autori appartenenti alle correnti più varie: dall’indirizzo relazionale a quello della psicologia del Sé, includendo gli studiosi dell’Infant research e delle teorie sull’attaccamento. Fonagy e Moran (1991, 1993, 1994) si sono a più riprese occupati di giovani pazienti diabetici in analisi e hanno individuato a loro volta configurazioni caratteristiche nel trattamento di bambini e adolescenti con forme di diabete instabile: 1) La regolazione della distanza fra la rappresentazione mentale del Sé e dell’oggetto (inteso come persona significativa). 2) L’utilizzo inconscio del diabete da parte del bambino al fine di manipolare un aspetto della propria situazione reale che sia fonte di dispiacere. 3) La presenza di angosce irrazionali radicate nel significato personale inconscio di alcuni aspetti del regime diabetico che spinge a non aderire al trattamento. Riguardo ai primi due punti, è suggestiva l’ipotesi che riconduce l’origine dello squilibrio glicemico alla dinamica della relazione affettiva con l’oggetto primario nei termini di una regolazione della distanza intesa come “dolcezza” del rapporto (De Toffoli, 2001). Del resto, la maggior parte dei lavori correla il diabete giovanile a una particolare modalità di regolazione affettiva con l’oggetto primario caratterizzata dal mismatching fra bisogno e soddisfacimento. Riguardo al terzo punto e alla non aderenza al trattamento, emerge, dalle osservazioni di Fonagy e di Moran, una sorta di profilo del paziente diabetico modellato sull’instabilità, sulla tendenza a mettersi a rischio, sul terrore di una relazione di dipendenza con l’altro che pure sembra intensamente desiderata e cercata, fino a un trionfante senso di “poter fare a meno” delle cure così come dei rapporti. Chi ha esperienza di trattamento con diabetici di tipo 1 non può che essere d’accordo: i pazienti mostrano una forte tendenza a far da sé, ad assumere totalmente il controllo della regolazione glicemica, a rifiutare la relazione con il medico. Tuttavia, a noi sembra essenziale avere ben presente il risvolto traumatico: domandarsi cioè se lo stile cognitivo, affettivo, relazionale e comportamentale del paziente non sia correlabile in termini di effetto piuttosto che di causa. In altre parole: il profilo del paziente è all’origine della malattia oppure è la conseguenza dell’essersi ammalato? Questa è la domanda che sta al fondo del presente contributo. È di Sverre Varvin l’osservazione che un trauma severo “non si limita a incidere sulle esperienze successive ma anche, après coup, sulle relazioni oggettuali precoci. I legami affettivi primari possono essere ridefiniti in questo contesto, ricreando una esperienza infantile di angoscia di morte e causando una perdita di fiducia negli altri. I traumi gravi sembrano incidere après coup sul livello procedurale legato al modo di essere con gli altri, ossia sull’organizzazione fondamentale dell’esperienza relazionale” (Varvin, 1999, 807).
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Se è vero che la storia si riscrive continuamente alla luce del presente, la profonda e pervasiva infelicità di oggi, la disperazione, la solitudine che subito si chiude attorno all’ammalato assieme alla consapevolezza della propria diversità, proiettano un cono d’ombra sul passato. Al paziente sembrerà, in un certo senso, di essere stato ammalato da sempre e che quella ricordata come una perduta età dell’oro fosse solo un’illusione. In questo quadro l’aiuto del terapeuta consiste nell’andare in cerca di remoti primi germi confermando l’impressione che “malato ora – e malato per sempre – dunque malato da sempre”? Oppure consiste nel contrastare questa tendenza aiutando il paziente a recuperare quello che è andato bene e quello che gli ha dato forza di vivere? Una malattia difficile da pensare Cramer, Feihl e Palacio Espasa (1979) sulla scorta dei dati raccolti dall’osservazione e dal trattamento psicoanalitico, hanno fornito prove cliniche dell’interferenza fra la malattia diabetica e il pensiero del bambino mostrando come risulti ostacolata la percezione della malattia e la rappresentazione delle emozioni che ne derivano. Questi Autori sostengono che il diabete sia una malattia difficile da pensare e da rappresentare: “non si possono usare modelli meccanici o idraulici, non si può individuare una origine semplice o una relazione univoca di causa effetto. La localizzazione anatomica rimane al di là di una percezione immediata. Non ci sono vissuti dolorosi. È una malattia disseminata sottilmente in tutto il corpo, le cui conseguenze sono indirette (le complicanze, lo zucchero nelle urine). L’eziologia resta oscura. La regolazione, soprattutto nel diabete giovanile, è spesso imprevedibile” (Cramer et al. ibid, 60). Ci chiediamo però se la malattia in sé, ogni malattia, non sia sempre e comunque difficile da pensare, così come è difficile da pensare la morte della quale ogni malattia è foriera in quanto segno della “vita che si incrina” (Luziani). A partire dallo storico lavoro di Anna Freud e Thesi Bergman Bambini malati, la psicoanalisi si è occupata del problema della malattia organica, del suo impatto sulla persona, dell’effetto prodotto dalle cure mediche e dall’ospedalizzazione. Tuttavia “spesso gli analisti, affascinati dal lavoro dell’apparato psichico, pur consapevoli che il paziente è sempre un corpo-parlante ovvero una parola incarnata, lasciano in ombra l’aspetto somatico mentre la medicina ufficiale è totalmente sbilanciata… a favore di un corpo sordo e muto… descritto e codificato” (Maccari, 2006, 10). “Troppo spesso i nostri resoconti clinici e le nostre teorie sono formulati in modo da lasciare l’impressione che il corpo non abbia voce nel processo psicoanalitico, come se la psiche fosse davvero sospesa nell’aria” (De Toffoli, 2001, 470). Del resto, sarebbe importante ricordare che non tutto è riconducibile alla figura della castrazione e che ci può essere un terrore legato alla morte non perché la morte “rappresenta” la perdita di una parte di sé ma perché la morte “significa” la perdita della vita. È un difetto della psicoanalisi interessarsi all’equivalente simbolico della morte piuttosto che al suo significato letterale, come Emanuele Bonasia ha messo in luce (Bonasia, 2000). Forse dovremmo abbandonare, seguendo l’invito di Mauro Manica (2007), il “mito illuministico e assieme romantico di un lutto perfetto” e rico-
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noscere che ci possono essere una disperazione e un lutto non elaborabili, una ferita che non si chiude, qualcosa che si è rotto per sempre, qualcosa che nella poesia di Dedy Luziani è ben rappresentato nella “spera di ghiaccio”, nello sguardo della madre che non sa più sorridere senza incrinarsi. “Come ascoltare allora le ragioni del corpo?”1. Tra segreto e vergogna, il caso di Marc Marc, primogenito di una famiglia numerosa, è un giovane universitario di bell’aspetto. All’inizio della sua adolescenza gli viene diagnosticato un diabete mellito di tipo I. L’esordio e lo sviluppo del diabete si collocano nel contesto di un clima famigliare improntato a divieti e a non detti. Di lontane origini orientali appartiene ad una famiglia molto abbiente, emigrata in Italia all’inizio del secolo scorso. Nel corso della sua infanzia, uno zio al quale era molto legato si toglie la vita in seguito a uno scandalo economico. Marc non è messo chiaramente al corrente dei fatti che tuttavia deduce dai mutati umori e comportamenti della sua famiglia associati a una vergogna tangibile. Il messaggio che coglie è il seguente: “Non si deve parlare ad estranei dell’accaduto”. Qualche anno più tardi, in seguito alla diagnosi del diabete, i suoi genitori esercitano pressioni più o meno esplicite affinché la notizia “Rimanga in famiglia per il suo bene”. Egli cresce nascondendo il suo problema. Nella famiglia di Marc il diabete potrebbe essere considerato un fatto “intergenerazionale” poiché compare nella bisnonna e nella madre di Marc. D’altra parte, la vergogna che spinge Marc a tener nascosto il diabete sembra essere l’espressione conscia di una sotterranea corrente “transgenerazionale” che veicola aspetti inconsci e non simbolizzabili da una generazione all’altra. Sia che si tratti del diabete che del dramma dello zio, vi è qualcosa che “non si può dire”. Marc approda a me tramite un collega al quale si sono rivolti i genitori, preoccupati per la recente insorgenza nel figlio di fobie concernenti l’uso dei mezzi di trasporto, treno e aereo in particolare. Abituato a viaggiare, adesso teme perfino di stare a casa da solo. Ci accordiamo per una psicoterapia analitica. Marc ha modi gradevoli e colpisce per la sua cortesia. Viene volentieri, benché per un lungo periodo si presenti con molto ritardo alla sua ora. Se da un lato è sensibile al mio giudizio e interpreta il ruolo del paziente modello, dall’altro, con la rinuncia a quasi metà della seduta, sembra organizzarsi per ridurre i tempi di pensabilità. Nel resto della seduta il clima è improntato ad una certa suspense e drammaticità, al pari di una pièce teatrale. Marc infatti cura attentamente la regia tentando di catturare la mia attenzione o di impressionarmi con eventi a forte coloritura emotiva che sono accaduti nella vita quotidiana. Gran parte delle sedute vertono sulla relazione con la madre oltre che con i numerosi cugini e amici che frequentano la casa. Egli appare totalmente permeabile alle loro 1 Si domanda Gilberto Maccari, e noi con lui, nella prefazione al libro Il corpo nella stanza d’analisi (2006, 10-11).
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richieste alle quali non sa mettere limiti, ponendosi a completa disposizione degli altri, per poi sentirsi invaso ed esausto a fine giornata. Emerge nel contempo un disconoscimento delle proprie esigenze corporee: si sottopone a turn over massacranti studiando di giorno e uscendo tutte le sere fino a tardi. Marc fa riflettere sulle osservazioni di Luigi Solano (2000) e della McDougall (1989) riguardo allo spazio riservato all’attività di pensiero nei pazienti che convivono con una patologia cronica e alla regolazione della distanza fra la rappresentazione mentale del Sé e dell’oggetto. Mi interrogo anche sull’uso dell’oggetto e sulle sue implicazioni relative alla simbolizzazione. Quale uso dell’oggetto può fare Marc alle prese con una malattia diabetica oscurata dalla dimensione del segreto? Quali connessioni emergono tra l’assetto difensivo fobico che paralizza lo slancio di Marc alle soglie dell’età adulta e il vincolo del diabete rinforzato dal segreto, alla guisa di un rinnovato cordone ombelicale con la madre? A proposito della funzione simbolizzante dell’oggetto, R. Roussillon2 considera l’oggetto non solo come il supporto delle proiezioni del soggetto ma come un oggetto di per sé, dotato di precise caratteristiche, per cui la sua risposta al soggetto è determinante per lo sviluppo di quest’ultimo. Questo Autore parte da Winnicott (1971) quando, in Gioco e Realtà, evidenzia come la dimensione dell’alterità si fondi sulla risposta dell’oggetto alla distruttività del soggetto e sulla sua capacità di resistere agli attacchi. Le qualità dell’oggetto e il suo uso sono aspetti interconnessi e costituiscono la premessa indispensabile per accedere alla simbolizzazione e quindi alla pensabilità. È chiaro che le qualità che siamo in grado di usare negli oggetti che incontriamo rievocano il nostro rapporto con l’oggetto primario: la sua maggiore o minore disponibilità di allora ha influenzato e continua a influenzare il processo di simbolizzazione. Il filtro del diabete permea l’identità di Marc: lui non ha il diabete piuttosto è il diabete. Marc si vive come un componente essenziale per la sopravvivenza psichica della madre e questa dinamica si ripete con parenti e amici per i quali egli si offre come un oggetto riparativo/rianimatore disponibile a 360 gradi. Trionfano le fantasie narcisistiche onnipotenti e autogenerative che tuttavia lasciano sempre più intravedere la sottostante fragilità della persona. Col procedere del trattamento il paziente sembra divenire parzialmente consapevole di “contro-reagire” alla malattia. P.: “Il difetto che ho è che quando parlo con qualcuno devo sempre elencare tutte le cose che ho fatto, nel senso che faccio più di loro, per mostrare che sono più forte e mi stanco meno. È come se volessi dimostrare che ho più resistenza”. 2
R. Roussillon (1999) in Agonie, clivage et symbolisation dedica un capitolo alla funzione simbolizzante dell’oggetto e a proposito della Relazione d’Oggetto e dell’Uso dell’Oggetto li vede come due processi che intrattengono un rapporto di complementarietà dialettica. Sono intrecciati e interdipendenti: non si può parlare dell’uno senza pensare all’altro. Entrambi si orientano verso la funzione della simbolizzazione. Mentre la Relazione d’Oggetto ci confronta con l’alterità dell’Oggetto e con ciò che è altro da noi e non malleabile, l’Uso dell’Oggetto è connesso con la simbolizzazione.
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A.: “Mi ha fatto capire che nella sua famiglia è bandita la debolezza e la vulnerabilità (dico riallacciandomi a quando la madre lo sgrida se dorme fino a tardi alla mattina o se solo si allunga sul letto il pomeriggio). P.: “Quando mi fermo, mi viene una terribile spossatezza”.
Nel corso della cura di Marc intuisco una scissione del corpo dalla mente oltre che un vissuto di “coprioprietà” (Seiffge-Krenke, 1997) del suo corpo con la madre. Il corpo viene trascurato e quasi “maltrattato” sull’onda della grandiosità e onnipotenza. Quando gli faccio notare che sembra non curarsi di sé, commenta: “Tanto non succede nulla” (“Tanto ci pensa la mamma o l’analista”, immagino io). Così come avviene nel rapporto con la madre, nel transfert Marc è come se “delegasse” a me la cura e il controllo del proprio corpo inducendo una mia permanente preoccupazione di base mentre saggia la mia tenuta. Sappiamo che a seconda del momento di insorgenza del diabete si innesca una sorta di regressione alla situazione di fusione primaria con la madre: intaccandosi il processo di differenziazione e separazione tra madre e bambino si può alimentare la fantasia di un “corpo solo” (McDougall, 1987, 40). McDougall riporta il caso di un paziente che è confuso rispetto a “chi” possieda il suo corpo: se lui stesso o la madre. Un “corpo solo” quindi ma anche una “mente unica” nel caso di Marc la cui madre è continuamente aggiornata non solo circa i minimi avvenimenti che punteggiano la vita del figlio ma anche sui suoi movimenti emotivi nelle relazioni di amicizia o sentimentali. Marc ha relazioni brevissime, subito soffocate dall’atteggiamento monopolizzante della madre che in qualche modo “adotta” la fidanzata di turno. Le ex-fidanzate continuano allora a circolare in casa perché “legatissime” alla madre. Reciprocamente la madre pare informare meticolosamente il figlio di ciò che la riguarda confidandole aspetti intimi di sé che non riesce a tener riservati. Del resto il marito è sempre assente per lavoro e Marc è investito come “l’uomo di casa”. Mi sembra possibile collegare al motivo della “pensabilità” il ritardo con cui egli si presenta alla seduta. Immagino che Marc esprima la persistenza di un certo legame con la madre suggellato dal segreto del diabete e realizzi un compromesso che ripropone la scissione, qualcosa del tipo: “Consacro metà della seduta a mia madre e quindi non vi partecipo, l’altra metà la prendo per me”. Penso che anche la parte dell’ora che utilizza abbia il sapore di “buttare fumo negli occhi all’analista”, senza occuparsi veramente di sé. Quando riesco a interpretare questi suoi sentimenti negativi parlando del ritardo, la terapia ha una svolta. Marc occupa pienamente lo spazio della seduta. Si “riappropria” del diabete cominciando a parlarne con alcuni amici e cugini più stretti. In seguito a un periodo di crisi in casa dove temporaneamente è venuta ad abitare la nonna malata e poco accomodante, egli mi dice: P.: “Ho parlato con mia mamma del fatto che avere a casa la nonna è un problema.Lei ha detto che non mi devo comportare come un nipote egoista e che non l’aiuto abbastanza. Io invece faccio il possibile ma lei non me lo riconosce. Ho l’impressione che la mamma stia male perché prima le dicevo tutto di me e adesso ho molto ridotto”.
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Dopo mesi di trattamento scompaiono le fobie ed egli riprende cautamente a viaggiare. Ha nuovi amici e una nuova ragazza con la quale intreccia un rapporto significativo: ma si guarda bene dal portarla in famiglia. Questa rivoluzione preoccupa la madre che vede declinare il controllo sul figlio mentre parallelamente si palesa una crisi coniugale a lungo sopita. Marc viene puntuale alle sedute dove il clima è cambiato, lascia sullo sfondo le questioni di parenti e amici mentre parla di sé con maggiore profondità. Si consolida il suo senso di identità arricchito dall’affiorare di sentimenti negativi che ora è in grado di tollerare. Lacerandosi l’involucro di segretezza che ha avvolto la sua malattia, si apre uno spazio alla simbolizzazione e all’uso dell’oggetto. Finalmente Marc ha un diabete del quale si può prendere cura.
Le ragioni del corpo Le “ragioni del corpo” sollevano un interrogativo fondamentale con un paziente affetto da una malattia seria, specie se cronica. Dobbiamo considerare, come abbiamo già rilevato a proposito di Marc, quanto il paziente abbia una malattia oppure quanto sia un ammalato. Come terapeuti dovremmo poter oscillare tra questi due versanti assecondando l’ oscillazione nei pazienti. Oscillare fra libertà di oggettivare e capacità di impersonare: poter dire ho questo ma anche sono questo. Bisognerebbe potere sentirsi solidali con il paziente al quale “è toccata una disgrazia”, disgrazia che tuttavia si può curare e almeno in parte alleviare e in altri momenti pensare alla “disgrazia” come espressione della storia della persona del paziente dandole un senso e restituirla a lui come qualcosa di unicamente suo. Il paziente spesso si è rivolto al terapeuta per altre ragioni, per altri dolori, e tuttavia la sua malattia – la sua condizione psicofisica – lo accompagna per entrare nella stanza con lui. Ignorarla è impossibile. Se la si ascolta poco si rischia di colludere con il paziente nel diniego, nella scissione, nella paura, nella disperazione, nella vergogna; si rischia di trascurare pensieri e affetti che egli confessa malvolentieri anche a se stesso, come per esempio il forte senso di aver subito un’ingiustizia e di essere escluso dal mondo dei sani. Se invece la si ascolta troppo si corre il rischio di vedere solo quella, incoraggiando il paziente a rifugiarsi in essa. La malattia può divenire l’unica espressione della propria identità, l’unica voce del proprio mondo. A questo ultimo proposito Clifford Yorke (1980, 189) osserva come alcuni pazienti utilizzino le loro problematiche fisiche e le iperinvestano fino a farle diventare “un attaccapanni fisico al quale appoggiare un intero guardaroba psicopatologico”. “I medici antichi scopersero che le urine dei diabetici contenevano zucchero perché le assaggiarono”, dice un giorno Laura: l’analista comprende quello che la paziente si aspetta da lei. Quando Laura si è ammalata la madre è rimasta male e le ha voltato le spalle. Ora l’analista deve assaggiare la sua pipì, deve cioè sentire il suo corpo attraverso il proprio. Deve assaggiare il diabete se lo vuole conoscere. Moran (1984, 1987) ha studiato il diabete mellito nei bambini. È dell’opinione che non solamente l’equilibrio psicologico influenzi in maniera importante la qualità
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del controllo diabetico ma che anche la stabilità dell’equilibrio del diabete abbia una profonda influenza sulle possibilità di un adeguato adattamento psicologico. Egli descrive il profondo impatto che il diabete e il suo trattamento possono avere sui diversi aspetti della personalità del bambino. Secondo questo Autore, una serie di fattori sono suscettibili di essere deformati dai problemi psicologici in rapporto col trattamento della malattia. Elenca i diversi tipi di difese, il loro equilibrio, la strutturazione del Super Io e le relazioni d’oggetto. Le restrizioni e il dolore implicati nel trattamento si esprimono attraverso significati psichici che, raccolti nel lavoro analitico come avviene nel caso di Diana, conducono ad una elaborazione fantasmatica. Diana o il diabete disegnato Incontro Diana per la prima volta quando lei ha sei anni e ha il diabete da uno. Da quando è esordito il diabete ella soffre di una sintomatologia ossessiva: le accade di bere molto e di andare spesso in bagno. Si lamenta perché le mutandine sono sempre bagnate. Dopo circa sei mesi di malattia, inizia a dire di avere delle “bricioline” nelle parti intime, non vuole più mettersi le mutandine di cotone; le toglie quando arriva a casa oppure si infila un costume da bagno. È una bambina esile, con un sorriso di facciata, parla pochissimo quasi al limite del mutismo. Esprime la sua opposizione quando è sulla soglia della stanza di consultazione avvinghiandosi alle gambe della mamma, senza piangere e continuando a sorridere. Dopo un po’, riesce a entrare e appare tranquilla anche se non dice una parola e comunica attraverso il disegno. Anche Diana, come Laura, esprime la sua condizione attraverso la metafora del miele e delle api (disegno 1). Un altro disegno del periodo iniziale raffigura una casa che manca di simmetria, quasi fosse un blocco di dolore vivo, compatto, “murato”. La porta di entrata come una bocca e le finestre come occhi che sembrano riguardare solo metà della casa (disegno 2). Nel grumo di sofferenza fisica, conglomerato di sensazioni primitive, che la raffigurazione della casa sembra esprimere, appaiono entrambi gli elementi che determinano l’esperienza del trauma. Da un lato l’aspetto economico con il suo sovraccarico di tensioni che travolgono l’Io e lo espongono a una situazione di impotenza e di angoscia (Freud, 1925), dall’altro l’aspetto relazionale nella misura in cui la mancanza di simmetria sembra esprimere un insuccesso dell’oggetto a dare significato alle conseguenze della malattia. Ferenczi (1932) e Balint (1969) sottolineano come il trauma si verifichi quando il bambino non riceve accoglienza e comprensione dall’adulto. L’adulto, che non riesce a sopportare il dolore evocato dalle richieste del bambino, tace o mette in atto un diniego che inibisce lo sviluppo del pensiero. Il bambino non è aiutato a formarsi una rappresentazione coerente di quanto gli accade né – tanto meno – a sviluppare una narrazione interna autentica e significativa. Nel caso di Diana la sofferenza dei genitori è stata troppo intensa. Il breve periodo di osservazione che la bambina ha con me è seguito da un lungo intervallo nel quale i genitori attendono che la situazione migliori spontaneamente con la crescita, secondo il consiglio ricevuto da esperti. Ma a distanza di un anno e mezzo le cose non sono migliorate affatto.
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Ora Diana ha 7 anni e 5 mesi; ha sempre il timore delle “bricioline”, pretende che il papà e la mamma le lavino i genitali che lei non vuol neppure toccare. Il controllo glicemico non va bene, Diana urla e si oppone tutte le volte che deve fare le iniezioni. Questa volta, l’atteggiamento nei miei confronti da parte di Diana e della mamma è di maggior collaborazione tanto che avviamo un nuovo periodo di osservazione. La casa raffigurata nel primo disegno, nel corso di un anno e mezzo, è diventata una casa con due stanze (disegno 3). È un oggetto combinato che ha subito una sorta di mutilazione. Non vi sono persone bensì sedie antropomorfe che fanno pensare a una presenza che non c’è più; sono forme stilizzate che sembrano esprimere un vuoto, un sentimento di menomazione, forse il vissuto della malattia sperimentata come qualcosa di impensabile e di raffigurabile solo in questo modo. Mi dice: “Ho disegnato una casa del mio paese: qui è dove mangiamo, c’è il tavolo e le sedie”. In seguito Diana disegna un bambino e un elefante con una sorta di endo proboscide più grande del bambino, raffigurato a braccia aperte, che sembra esserne il possessore e che trasmette in questo modo la sua impotenza e il suo desiderio di essere preso in braccio (disegno 4). Il contenuto del disegno 4 rafforza l’ipotesi che le manifestazioni ossessive si inquadrino in una espressione nevrotica nella quale il trauma dell’esordio della malattia cade nel culmine della fase fallica narcisistica (Edgcumbe e Burgner, 1975) ostacolando l’entrata nella dimensione edipica e successivamente nella latenza. Qualcuno potrebbe chiedersi se l’esordio del diabete non si inserisca in una vulnerabilità narcisistica precedente, ove l’emergere dell’angoscia di castrazione non vada colta “come uno stato affettivo evoluto di cui l’essere umano dispone per dare retrospettivamente forma di pensiero a stati angosciosi arcaici, altrimenti impensabili” (Russo, 2007, 36). Ma si potrebbe analogamente pensare che proprio il comparire della malattia costituisca il nocciolo dell’esperienza traumatica. Suonano a proposito le parole di Ferenczi (1917, 263) secondo il quale “un trauma del genere può rendere nevrotico anche un bambino nient’affatto predisposto alla nevrosi”. Conclusa la fase di osservazione, avvio una terapia. A quasi 8 anni, Diana è ancora una bambina molto silenziosa. Non dice una parola per intere sedute ed esplora il materiale di gioco con scarso interesse, interesse che continua invece a manifestare per il disegno. Disegna per quasi tutta l’ora della prima seduta (disegno 5). Il disegno 5 riassume un insieme di sfide: alle leggi della prospettiva, della simmetria e della riflessione ottica, dell’equilibrio. Disegna un ponte e un fiume. Il fiume rispecchia quello che sta in cielo ma vi sono anche pesci e alghe. I molteplici punti di osservazione danno l’avvio a prospettive diverse che sembrano adombrare la presenza di un io osservante frammentato. Vi è una partizione orizzontale fra cielo e acqua e una partizione verticale fra le sponde del fiume. Un cagnolino sembra azzardarsi ad attraversare il ponte. Potrebbe rappresentare il passaggio tra un prima e un dopo quando ai cambiamenti relativi all’immagine di sé e al vissuto corporeo si aggiunga la perdita della relazione con una mamma in grado di dare senso e vicinanza. Sembra che Diana colga nelle sedute con me l’opportunità di esprimersi attraverso il disegno sperimentando l’attaccamento ad un oggetto (l’analista, la continuità delle sedute) che le consente di padroneggiare la percezione traumatica.
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A due mesi e mezzo dall’inizio, Diana comincia a disegnare uno stagno con dei fiori e un grande sole (disegno 6). Ho l’impressione che i fogli che Diana trova in seduta rappresentino per lei una possibilità di ri-trovare uno spazio per una creazione condivisa, nella quale raffigurare attraverso tracce visive ed elementi sensoriali il rapporto precoce con l’oggetto e il momento traumatico della rottura della relazione con esso. Mi chiedo se la bambina non tenti di ripristinare un mitico tempo felice fusionale, una sorta di età dell’oro negante la realtà del trauma e della malattia. Di fronte al silenzio che accompagna il suo disegnare mi ritrovo a vagare con la mente in una dimensione quasi onirica. Finisce il disegno 6 aggiungendo la scritta “Non c’è nessuno?”. Aggiunge: “È il sole che dice così”. È come se si rivolgesse a me con questo disegno privo di prospettiva e di simmetria con il quale sembra stia cercando di dar forma a qualcosa di materno indifferenziato da lei e non sufficientemente utilizzabile. Le chiedo chi manchi e mi dice che, fuori dal disegno, ci sono un’anatra e un cigno che forse hanno paura di andare nello stagno perché non sanno quanto sia profondo, “Se si tocchi o no”. Le propongo di disegnarli e disegna un grande cigno con una piccola bimba cigno che lo segue, dei fiori, delle farfalle e un’ape che prende il nettare da un fiore (disegno 7). Penso alla rappresentazione di una relazione fra una figura adulta centrale, imponente e una più piccola che la segue. Diana accoglie senza problemi il mio riferimento al fatto che forse a volte si chiede quanto sia sicuro venire qui, quanto possa fidarsi di me. Dopo circa un altro mese inizia a disegnare in silenzio delle foglie (disegno 8) mentre io continuo a non sentire ostile o faticoso il suo silenzio. Ho l’impressione che lei si senta libera e che ci sia una vicinanza fra noi che le consenta di attendere fiduciosa il prender forma della “storia” che ci racconteremo oggi o del sogno che sogneremo. Quando ha finito di disegnare le chiedo se ha voglia di giocare a “far parlare le foglie” e lei mi risponde che esse dicono: “Aiuto!”. Diana le indica con i nomi di Stella e Pallina attribuendo loro la sua età: 8 anni. È il vento che le ha portate via, loro chiedono aiuto a due uccelli che le salvano; un uccellino prende le foglie e le mette nel suo nido. Dopo un lungo periodo di silenzio in cui perfeziona il disegno, le dico: “A volte può succedere che i bambini si sentano come delle foglie”. La risposta è un “Sì” deciso. Disegna allora un albero tronco e nudo che mi dà un’impressione di tristezza, con la sua eccessiva potatura. Le chiedo se le foglie erano di quell’albero e mi risponde: “Sì, ma erano per terra”. La mia impressione è che il movimento delle foglie rappresenti una spirale ascendente più che una caduta depressiva. Vi è un refolo vivificante che anima le foglie con l’aiuto di un uccellino che le porta nel suo nido. Il transfert qui esprimerebbe il desiderio di un giro di valzer vitalizzante. Passato qualche mese, i paesaggi interni si articolano e si arricchiscono mentre le fantasie edipiche cominciano a emergere con una certa intensità. A circa un mese di distanza dalle prime vacanze estive e a poco più di un anno dall’inizio della terapia, la mamma, accompagnandola all’entrata, chiede quanto andranno avanti le sedute, perché Diana “è molto migliorata”. Solo con Diana, le chiedo cosa voleva dire la mamma. Mi risponde che è migliorata “nel parlare”. Provo a chiederle cosa le impediva di parlare, se c’era qualcosa che le faceva paura e mi risponde che era “parlare”. Le propongo di fare un disegno sulla paura di parlare e disegna
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la mamma che parla con un’amica e lei che guarda e sta zitta (disegno 9). Mi chiedo se la paura sia quella di parlare o quella di non essere ascoltata e se il disegno esprima un modo possibile di stare vicini: con la testa, lasciando fuori tutto ciò che è legato al corpo. Dopo un po’ mi confessa che ha spesso paura di dire qualcosa di sbagliato e inizia a scrivere la storia di Sci e Scià (disegno 10): “Sci e Scià sono due piccoli maialini. Un giorno l’allevatrice di animali si era dimenticata di chiudere la porta del porcile e allora fuggirono e si fecero una casa nelle rocce. Sci e Scià andavano molto d’accordo. Sci era una femmina ed era più magra, invece Scià era un maschio ed era più grosso. Un bel giorno di sole Sci era incinta e li chiamarono a, e, i, o, u”.
Mi colpisce il fatto che la realizzazione di una fantasia di concepimento dia origine alle vocali, elementi costitutivi delle parole. Le dico allora che forse le parole assomigliano a degli animaletti o a dei bambini che hanno voglia di essere liberi, di andare per conto loro, di sposarsi e avere bambini. Con un suo leggero annuire finisce la seduta. Nel corso della terapia, che continueremo anche dopo l’estate, emergeranno tante altre parole con la loro funzione generativa ad accompagnare Diana nel cammino verso la simbolizzazione e la rappresentazione. Prima di accedere pienamente al linguaggio verbale Diana è partita dal disegno, co-costruendo in analisi quelle storie che ai Botella sembrano gettare un ponte verso la raffigurabilità: “Nella comunicazione fra bambino e adulto, la fiaba forma un ponte vero e proprio che guida l’intensità del vissuto fugace, instabile, del bambino, difficilmente rappresentabile in una relazione con i suoi oggetti reali, verso l’universo delle rappresentazioni stabili e raffigurabili di un racconto” (Botella, 2001, 33).
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Conclusioni “Questo diabete per me è una frana. Mi sembra che sia un cammino obbligato per la mia sopravvivenza: mi hanno spiegato che è una grave malattia silenziosa, piena di buche da sorpassare: che ne sarà di me quando sarò anziano?”3. Il diabete profana l’integrità corporea scompaginando l’assetto abituale e la continuità dell’esperienza. È difficile non angosciarsi a morte; non perdere la voglia di vivere, non sentirsi fragilissimi, non vergognarsi dell’handicap, non arrabbiarsi ingaggiando una battaglia contro tutti, non dire infine, pur mantenendo una segreta dipendenza: “Chi se ne importa, faccio da solo!”. Il diabete è un intruso al quale si deve fare posto nel corpo e nella mente. Un ospite che probabilmente non se ne va più crea problemi diversi dall’ospite di passaggio. Bisogna mettersi nell’ottica della convivenza, l’estraneo in qualche modo deve diventare di casa. Proprio la durata temporale che all’inizio istituisce una fattore traumatico: “d’ora in poi, per sempre” – ci ricordano i pazienti – può venire in aiuto come fattore terapeutico. Come cambia il senso del tempo in relazione ad una malattia che non passa? Che specie di ferita temporale si produce? Come si cicatrizza? È possibile che il malato possa intravedere, come la Cassandra di Christa Wolf (1996) “una sottile striscia di futuro”? Se ripensiamo alla poesia di Dedy Luziani, il tempo della terapia ha certamente costituito per noi l’occasione per “allenare a un destino” i pazienti, apprendendo con loro come addomesticare la malattia. 3 La
frase è di un paziente diabetico (Tabasso et al., 2004).
ASSAGGIARE IL DIABETE
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Persone giovani e immature si ammalano di diabete mellito: una frana arriva a interrompere il naturale slancio verso la vita che mai più tornerà a distendersi liscia e compatta come una pista di pattinaggio. Del resto dopo una frana il paesaggio non è più come prima. A volte però, dopo la frana, la vita riprende e un nuovo paesaggio si disegna sui detriti. Per Laura, il sogno del “miele e le api” si trasforma in una fiaba: il senso, disvelandosi, diventa tollerabile e digeribile. Per Marc, l’uscita dal segreto ha il significato di un “coup de thèâtre” liberatorio. Per la piccola Diana infine, la malattia diabetica prende le forme del disegno e dei colori dell’arcobaleno che le consentono di esprimerla in una forma narrativa condivisa. Riassunto Gli Autori, a partire della letteratura relativa a pazienti con diabete giovanile, riflettono su tre casi in trattamento psicoterapico e psicoanalitico. Al di là delle differenze riscontrate nel materiale proposto per sesso ed età di insorgenza della malattia diabetica, è possibile evidenziare un filo comune nel percorso dei tre pazienti verso la rappresentabilità del trauma-diabete. Quando persone giovani si ammalano di diabete mellito, una frana arriva ad interrompere il naturale slancio verso la vita che mai più tornerà a distendersi liscia e compatta come una pista di pattinaggio, secondo un’immagine evocata dalla commovente poesia di Dedy Luziani Luti in apertura dell’articolo. Nel corso della terapia gli autori “allenano a un destino” i loro pazienti in modo che dopo la frana la vita possa riprendere mentre un nuovo paesaggio si delinea. Per Laura il sogno del “miele e le api” acquista valenza trasformativa. Per Marc l’uscita dal segreto ha il significato di un coup de théâtre liberatorio. Per la piccola Diana infine, la malattia diabetica prende le forme del disegno e i colori dell’arcobaleno. Parole chiave Diabete mellito – Malattia cronica – Psicoterapia – Psicoanalisi – Relazione mente-corpo.
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Tre anni di lavoro con i bambini di scuola materna del territorio della provincia di Bergamo: tra area protettiva e area del rischio – 1200 bambini dai 4 ai 5 anni Three years working with kindergarten children from Bergamo province: protective and risk factors – 1200 children from 4 to 5 years old Gianluca Bolchi*, Mauro Ragazzi**, Caterina Brembilla*, Caterina Vezzoli***, Chiara Bellebono***
Summary We are going to present the outcomes of a prevention study of developmental risk on a population of 1200 kindergarten children from 4 to 5 years old. It represents a collaboration between kindergarten teachers and infant psychiatric service in the province of Bergamo, Italy. We kept using a well tested observational battery of the little child, during the last 3 years. The risk prevalence between children was found very high across the three years (beyond 20%), but nevertheless the efficacy of educational work in order to prevent the risk was confirmed. Key words Prevention – Developmental risk – Kindergarten – Observational battery.
Introduzione Il bambino sembra avere un interesse innato per il mondo dei significati condivisi, fin dalle prime azioni reciproche, i gesti e successivamente le azioni simboliche (il perno, il gioco, il disegno, il linguaggio). I bambini usano le funzioni simboliche disponibili per dare significati ad esperienze, azioni, pensieri, sogni che altrimenti non avrebbero un nome davanti all’altro. Così le prassie, il disegno rappresentativo, il gioco gradualmente a seconda della loro emergenza nell’arco del tempo agiscono da organizzatori dello sviluppo e del senso di sé. Questo vuol dire che a seconda dell’età di un bambino una funzione simbolica emergente, per esempio il disegno a quattro anni o raccontare a cinque, e il piacere collegato, non vengono investiti a caso, ma sono frutto di una negoziazione tra interno e esterno, tra nuove potenzialità di sviluppo e sostegno dell’ambiente. *
Neuropsichiatra infantile. Psicologo. *** Terapista della riabilitazione. **
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Con la comparsa del linguaggio a partire dal secondo anno di vita le funzioni emergenti, capaci cioè di organizzare lo sviluppo, vanno a intrecciarsi sempre più con i significati condivisi con l’altro (prestissimo nella comprensione del linguaggio) e la possibilità di socializzarli. Dai tre ai quattro anni la capacità di fornire un’organizzazione narrativa alle esperienze emotive costituisce una acquisizione evolutiva fondamentale: il bambino non solo può rappresentare le esperienze passate e le aspettative future in modo coerente, ma può esprimerle con il linguaggio e condividerle con gli altri. La dimensione del tempo, nella narrazione, si fa variante significativa quale ordinatrice del sé esperienziale, a condizione che vi sia l’altro ad accoglierla. È la funzione regolatrice propria della relazione con un contesto, un ambiente, in grado di rimandare al bambino una continuità del sé e quindi anche una continuità emotiva. Il senso di continuità è facilitato da una cornice di riferimento, uno spazio di esperienza ed anche uno spazio mentale della relazione: la funzione dell’adulto, ad esempio nel contesto educativo, si declina anche nella possibilità di pensare il bambino, quel bambino, nei movimenti evolutivi soggettivi e sociali collocati nella temporalità. La disponibilità emotiva delle figure di accudimento significative negli scambi simbolici-affettivi con il bambino sembra essere il fattore che maggiormente promuove e sostiene la crescita; è nel contesto di una buona cornice relazionale che il bambino può fare esperienza dei propri stati emotivi legati alla possibilità di comunicare bisogni, intenzioni, curiosità quali elementi costitutivi di apprendimenti ed esplorazioni. Le competenze evolutive, la capacità autoregolativa e la possibilità del bambino di apprendere – attraverso rimaneggiamenti, trasformazioni, riorganizzazione ed incorporazione di modelli operativi – sono sostenute e favorite dal clima relazionale che caratterizza l’ambiente dell’esperienza. La ricerca che proponiamo si pone in quello spartiacque tra la fine dei 3 anni e la fine dei 5 anni in cui si intrecciano competenze emotive, come il controllo dell’oggetto e la separazione, e competenze esplorative e rappresentative, come il gioco e il disegno, ed infine competenze linguistiche sempre più forti. Per intenderci usiamo termini come “organizzazione”, “integrazione”, “periodi critici dello sviluppo”, “competenze emergenti” a seconda del punto di vista che vogliamo assumere rispetto all’emergere di un nuovo equilibrio. Qui ci interessa l’aspetto positivo dell’organizzazione dello sviluppo tramite funzioni simboliche e immaginative, e soprattutto la loro socializzazione, per la quale l’uso del linguaggio rappresenta lo strumento principale (Vigotskji, 1934; Bruner, 1983). Così, se a 2 anni la competenza emergente è l’oggetto - azione simbolica (il perno di Vigotskji), se ai 3 anni è la comprensione, la prassia e il gioco (Luria, 1971), ai 4-5 anni ci troviamo in un territorio in cui le competenze emergenti fluttuano tra le sponde del gioco e della rappresentazione già consolidata, e le strutture linguistiche e grammaticali in costruzione. I bambini giocano mentre ascoltano, raccontano mentre giocano, giocano a raccontare. È chiaro che creare un’azione non è la stessa cosa di pensare, di parlare, di narrare, di sognare. Per dirla con Vigotskji la relazione tra queste “non è una cosa, ma un processo, un continuo va e vieni tra pensiero e parola e azione” (1934). E per di più queste
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relazioni non sono neppure consapevoli, tant’è che il bambino gioca semplicemente perché desidera e sente il bisogno di farlo. I bambini non usano perciò a caso le loro capacità simboliche per immaginare, comunicare su un pensiero, su un sogno, su un’azione, ma le usano in un rapporto dinamico tra sviluppo e ambiente recettivo. Proprio per questa caratteristica naturale e dinamica le funzioni emergenti si prestano ad un lavoro ecologico nell’ambiente di vita del bambino, nello spazio educativo tra adulto e bambino. Al tempo stesso però sono le funzioni più fragili, esposte a influenze interne o esterne importanti (psicologiche, etno-culturali, gruppali, educative). Nel nostro lavoro abbiamo ritenuto proprio le competenze emergenti, e non le competenze consolidate, i principali indicatori di un’area di “rischio” nel bambino piccolo di possibili sviluppi disarmonici, ma anche il principale terreno per un lavoro educativo nella scuola materna. Queste considerazioni sono state alla base di un percorso di formazione che negli ultimi quattro anni abbiamo proposto ai docenti della scuola dell’infanzia del territorio della provincia bergamasca. La pretesa non è quella di fare della filosofia dello sviluppo, ma di operare pragmaticamente sul rischio e le risorse emergenti che nella quotidianità incontrano educatori e clinici. Questo in un territorio complesso, in trasformazione, con in più un rilevante fenomeno di immigrazione di bambini stranieri in forte discontinuità culturale educativa e linguistica con i paesi d’origine. Metodo e contesto di lavoro Negli ultimi quattro anni scolastici, grazie alla collaborazione tra UONPIA e 5 Direzioni Didattiche del territorio, è stato possibile formare un gruppo stabile di insegnanti di materna all’osservazione del bambino con l’utilizzo della Batteria già descritta da Penge e poi utilizzata in varie scuole dell’infanzia per la validazione (Penge, 1996). Abbiamo utilizzato il contesto ecologico senza selezione alcuna tra i bambini, raccogliendo il maggior numero possibile di bimbi per classe e il maggior numero di classi complete. Questo ci ha fornito un contesto ricco di fattori spuri, ma una costante centrale: la griglia osservativa e l’insegnante di classe che la utilizza. Con la metodica della formazione sul campo i docenti hanno potuto valutare circa 255 bambini nel 2006, 518 nel 2007 e 429 nel 2008 a tappeto nelle proprie classi. La batteria utilizzata è una griglia osservativa che esplora le competenze emergenti nel bambino piccolo. Il metodo è stato quello dell’osservazione individuale anno per anno dei bambini di 4 e 5 anni, e quello longitudinale seguendo due sottogruppi di bambini (264 in tutto) nel passaggio dai 4 ai 5 anni fino al 2009. Il progetto è stato articolato ogni anno in diverse sottofasi per 2 sottogruppi di insegnanti di 2ª e 3ª materna:
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• Formazione: 4 mezze giornate di formazione rivolte a ciascun sottogruppo sull’uso delle metodiche osservative con i bambini piccoli. Una giornata iniziale è stata condotta in collaborazione con la dott.ssa Roberta Penge del Dipartimento Universitario nel 2006, le successive da neuropsichiatri, psicologi e terapisti della riabilitazione dei 2 Poli Territoriali di NPIA coinvolti. • Somministrazione delle prove: le insegnanti formate hanno proceduto alla osservazione dei loro bambini con l’uso delle prove individuali. • Analisi dei risultati: gli esiti delle prove sono stati elaborati presso l’Università di Roma inizialmente, successivamente la Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale di Treviglio ha proseguito il lavoro formativo ed è stato proposto alle scuole materne un software in grado di elaborare i profili dei bambini. • Discussione: 4 incontri di verifica finale e restituzione a ciascun sottogruppo del lavoro fatto, curando in particolare gli effetti operativi per la programmazione quotidiana delle osservazioni sui bambini. Strumento e obiettivi preventivi La batteria osservativa è costituita da un complesso di 8 prove ecologiche che hanno mostrato un potere predittivo sulle competenze scolastiche in II e IV elementare (Penge et al., 1996). Di fatto le prove riguardano l’area linguistica del pensiero (comprensione verbale, racconto orale, racconto visivo e metalinguaggio), e l’area prassica (problem-solving, disegno di una casetta e prassie semplici). La griglia consente di individuare fragilità e talenti del bambino nella sua individualità ed ha dimostrato una capacità di occuparsi delle competenze emergenti in zona prossimale. Tocca aree di sviluppo evidentemente ampie (soprattutto nel racconto e nel disegno), invece che “funzioni molecolari”, e proprio per questo può essere facilmente traducibile in proposte operative, in un contesto di lavoro dove le variabili neuropsicologiche si intrecciano fortemente con quelle educative, relazionali, gruppali. Esiste ormai un largo consenso sul fatto che i disturbi “developmental” e persino i disturbi psicopatologici più tardivi hanno una parte delle loro radici in disarmonie precoci, in situazioni di disagio emergente non strutturato nel periodo di massima accelerazione dello sviluppo simbolico e rappresentazionale. Il peso epidemiologico dei disturbi neuropsicologici in età scolare da una parte, e delle difficoltà di integrazione cognitivo-emotiva dall’altra, ci inducono a pensare che un lavoro preventivo debba partire proprio dove e quando il “disagio” neuropsicologico non si è ancora legato funzionalmente ad altre aree di funzionamento della personalità. Il nostro tentativo è quello di integrare aspetti diversi, distinti in neuropsicologici/ emotivo-psicologici/istituzionali (Levi, 1981; 1996) su un terreno, quello dell’educazione, sicuramente incerto, multidimensionale, composito, ma non privo di bussole di orientamento (pensiamo al filone che da 20 anni ha segnato il lavoro di Bruner per esempio). Ci sembra poi di straordinaria importanza che la griglia consenta all’insegnante di “avere in mente” il bambino in quanto individuo.
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Risultati Studio A. Sulla popolazione generale (dal 2006 al 2008) – Si tratta di una valutazione epidemiologica del rischio evolutivo: è uno studio che in 3 anni (2006-2008) ha osservato 1202 bambini (1/4 della popolazione scolastica 4-5 anni del territorio). – Abbiamo definito “rischio” la caduta tra –1ds e –2 ds in almeno 3 prove (omogenee o miste). Abbiamo invece definito “talento” l’avere almeno 3 prove tra +1ds e +2 ds. – Definiamo “deficit” la caduta sotto –2ds in almeno 3 prove. Riportiamo di seguito la “fotografia” dei risultati su tre anni scolastici.
Grafico 1.
c onfr onto s u tr e anni s c olas tic i 4 anni 94%
100%
77% 72,30%
80%
a.s.2005/2006
60%
a.s.2006/2007
40% 20% 0%
25,70% 0% 2%0,00%
deficit
7%
11%
rischio
a.s.2007/2008 10%
non a rischio
2%
talento
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Grafico 2. confronto su tre a nni scola stici 5 a nni 91%
100%
74%71,00%
80%
a.s.2005/2006
60%
a.s.2006/2007 40% 20%
1% 2% 2,00%
a.s.2007/2008
19,00% 8% 11%
13% 8,00%
0% deficit
rischio
non a rischio
talento
Il tratto evidente di questa popolazione di bambini nei 3 anni di scuola è l’aumento progressivo del rischio sia per i bambini di 4 anni che passano dal 7% del 2006 addirittura al 25,7% del 2008, sia per i bambini di 5 anni che arrivano al 19% nel 2008. È chiaro dai risultati che ciò che abbiamo definito “rischio” sembra essere più una fragilità o forse una tendenza al disequilibrio dello sviluppo infantile, che varia sensibilmente in funzione dei fattori multipli psico-sociali, ambientali, culturali e probabilmente di un affinamento dell’osservazione. Altrimenti sarebbe impossibile spiegare l’esplosione esponenziale della percentuale di bambini a rischio tra il 2006 e il 2008, sia orizzontalmente sulla stessa età, sia verticalmente da un’età all’altra (vedi Grafici). Nel 2008 poi il rischio ha avuto un vero picco sia a 4 che a 5 anni, mentre i talenti si sono sensibilmente ridotti. Studio B. Su una popolazione ristretta in follow-up dai 4 ai 5 anni (dal 2007 al 2009) Dal 2007 al 2009 sono stati fatti 2 follow-up dai 4 ai 5 anni: il primo di 170 bambini, il secondo di 94 bambini. Le insegnanti di questi bambini, osservati a 4 e 5 anni, sono quelle che nei tre anni hanno proseguito la formazione. L’idea è quella di valutare nel tempo come si trasforma il rischio, distribuito variamente per tipologie, valutando gli stessi bambini a 4 e poi a 5 anni, e considerando il peso da un anno all’altro della programmazione educativa. Quest’ultima veniva discussa a metà anno in incontri comuni tra UONPIA e docenti/psicopedagogisti delle Scuole dell’infanzia coinvolte.
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TRE ANNI DI LAVORO CON I BAMBINI DI SCUOLA MATERNA
• TOTALE BAMBINI CONFRONTATI AS 2006/07-2007/08 = 170 anno 2007 23 bb/170 a rischio = 13,5% anno 2008 25 bb/170 a rischio = 14,7% (10 permangono a rischio a 5 anni; più 15 nuovi bambini a rischio a 5 anni). Grafico 3. followup 2007/2008 30,00% 25,00% 20,00% 15,00% 10,00% 5,00% 0,00%
13,50%
14,70%
a.s 2007 4 anni
a.s 2008 5 anni
rischio
• TOTALE BAMBINI CONFRONTATI AS 2007/08-2008/09=94 anno 2008 24 bb/94 a rischio = 25,5% anno 2009 10 bb/94 a rischio = 10,6% (7 permangono a rischio a 5 anni; solo 3 nuovi bambini a rischio).
Grafico 4.
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Entrando nei particolari dei follow-up: cosa succede a 5 anni? 1) Bambini che escono dal rischio passando dai 4 ai 5 anni (13 bb/23 nel 2008; 17 bb/24 nel 2009) di questi 30 bambini ben 16 sono stranieri, risulterebbe quindi facile pensare ad un’evoluzione positiva legata all’effetto scolarizzazione e inserimento: purtroppo è una variabile che non abbiamo potuto monitorare in modo corretto (nascita, permanenza in Italia, inizio scolarità). Per quanto riguarda i bambini italiani si tratta generalmente di bambini con profili di rischio “pesanti” a 4 anni con tre prove anche miste (linguistiche- prassiche) sotto la 1°ds. 2) Bambini che rimangono a rischio passando dai 4 ai 5 anni (10 bb/23 nel 2008; 7 bb/24 nel 2009) di questi, 9 su 17 avevano a 4 anni la comprensione bassa, e questo metterebbe in luce la centralità della comprensione linguistica come competenza emergente a 4 anni. Gli altri 8 su 17 sono stranieri: il perché rispetto agli altri non abbiano recuperato non dipende dal profilo di partenza, ovvero se si confronta questi stranieri con quelli che sono usciti dal rischio, i profili a 4 anni sono simili. 3) Bambini che diventano a rischio a 5 anni (15 nel 2008; 3 nel 2009) i 15 bambini che costituiscono il nuovo rischio 2008 erano per lo più bambini che avevano già delle fragilità, quasi tutti (9/15) avevano nell’anno precedente 3 prove basse, gli altri ne avevano almeno una o tutte in bilico. I 3 bambini a rischio nel 2009 avevano tutti, a 4 anni, profili misti ai limiti inferiori (è importante notare che, al contrario del follow-up precedente, il numero di nuovi bambini a rischio a 5 anni è significativamente ridotto). Considerazioni complessive 1. La progressiva costruzione nel tempo di questo campione di bambini, così come la parallela selezione degli insegnanti, lo definiscono più un campione di popolazione che un campione normativo, e individua aree di fragilità dalle quali i bambini sembrano entrare o uscire in maniera fluida e non cristallizzata. Si tratterebbe di uno stato dinamico in cui si può oscillare, come si diceva nell’introduzione, tra maggiore o minore disequilibrio, maggiore o minore integrazione. Questo largo numero di bambini, riunito in gruppi di lavoro come sono le classi di scuola materna, sembra esposto a fattori di integrazione e di non-integrazione che variano di peso di anno in anno e possono essere individuali, gruppali o istituzionali. Le insegnanti del territorio coinvolto hanno raggiunto una discreta autonomia insieme ai pedagogisti sul piano della sintesi e della riflessione sui dati della batteria osservativa. Questa stabilizzazione della competenza delle insegnanti e il confronto
TRE ANNI DI LAVORO CON I BAMBINI DI SCUOLA MATERNA
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su tre anni di risultati, ha consentito di confermare che la batteria di osservazione è affidabile e rispecchia il funzionamento dei bambini, descrivendo punti di forza e fragilità. Accanto ai punti di forza è da sottolineare come il rischio e la fragilità in alcune competenze emergenti sia un dato crescente, sul quale si possono saldare disarmonie successive e veri disturbi neuropsicologici o psicopatologici. L’osservazione dei bambini nei tre anni dimostra l’enorme consistenza dell’area del rischio nella popolazione totale, sia ai 5 anni (fino al 19% nel 2008, Grafico 2), sia ai 4 anni (fino al 25,7% nel 2008, Grafico 1). 2. Se consideriamo invece i bambini seguiti per 2 anni in follow-up (continuità di bambini e continuità di insegnanti formate) vediamo che la situazione del rischio si riduce sensibilmente a 5 anni, anziché aumentare come nella popolazione totale, e oscilla tra il 14,7% nel 2008 e il 10,6% nel 2009 (Grafici 3 e 4). Questo dato se confrontato con il primo, mette in evidenza a nostro avviso quanto la funzione educativa adulta sia un fattore di protezione centrale, infatti: • sono le insegnanti del followup quelle che hanno mantenuto un’osservazione stabile nel tempo con la batteria e una programmazione collegata; • il gruppo di insegnanti della popolazione generale era per lo più alla prima formazione con noi; • parallelamente la popolazione immigrata è andata gradualmente aumentando. Inoltre, a confermare l’ipotesi, nel corso dell’ultimo follow-up 2008/09 c’è stato un importante abbattimento del rischio, che passa dal 25,5% al 10,6%, e ciò per un sostanziale contenimento del numero di nuovi bambini a rischio a 5 anni (ridotti a 1/3 rispetto al biennio 2007-2008: 3 su 94 contro 15 su 170), cioè di quei bambini che nel passaggio dai 4 ai 5 anni anziché andare verso un’evoluzione disarmonica tra le competenze emergenti, sono andati verso una migliore organizzazione-integrazione del sé. Tutto ciò rilancia l’importanza dell’istituzione come risorsa, considerata l’evoluzione in miglioramento di questi bambini nei due anni di follow-up. Parallelamente la formazione sul campo del gruppo di insegnanti, farebbe pensare che il lavoro formativo dia più frutti se è sostenuto nel tempo, se non è episodico e se rimane in continuità di tempo e di luogo. Questo in chiara opposizione con le crescenti discontinuità alle quali è sottoposta l’infanzia negli ultimi 10-15 anni in Italia. Riassunto Presentiamo i risultati di un lavoro preventivo del funzionamento a rischio su 1.200 bambini di scuola dell’infanzia dai 4 ai 5 anni di età. Il lavoro è frutto di una collaborazione di tre anni tra docenti di scuola materna e servizio territoriale di Npi nella provincia di Bergamo. Abbiamo proseguito dal 2006 nell’utilizzo di una batteria ecologica di osservazione dei bambini piccoli, somministrata dalle insegnanti. Questo ci ha consentito di osservare l’elevata incidenza dei funzionamenti a rischio in questa fascia di età (anche oltre il 20% dei bambini), ma anche l’efficacia degli interventi educativi mirati alla classe nel ridurre il rischio stesso.
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G. BOLCHI - M. RAGAZZI - C. BREMBILLA ET AL.
Parole chiave Prevenzione – Rischio evolutivo – Scuola dell’infanzia – Batteria osservativa.
Bibliografia Bruner J. (1983), Saper Fare, Saper Pensare, Sapere Dire. Le prime abilità del bambino, Roma, Armando. Bruner J. (1996), La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli. Levi G. (1981), Epidemiologia e programmazione dei servizi in neuropsichiatria infantile, Neuropsichiatria infantile, 235: 223-237. Levi G., Penge R. (1996), Il rischio psicopatologico in età evolutiva: problemi emergenti, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 63: 55-67. Luria A.R. (1971), Linguaggio e sviluppo dei processi mentali nel bambino, Firenze, Giunti, 1975. Penge R. Et Al. (1996), Uno screening longitudinale per la prevenzione dei DSA, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 63: 615-624. Sogos C., Piperno F., Di Biasi S. (2009), Dall’età prescolare all’adolescenza: la distribuzione dei life events in un campione rappresentativo della popolazione italiana, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 76: 467-474. Vigotskji L.S. (1934), Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti, 1966.
Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 221-234
221
Il disagio degli adolescenti. Il malessere espresso dagli studenti negli sportelli di ascolto Adolescents uneasiness. Discomfort/difficulties expressed by students at school support centers Ugo Uguzzoni*, Sabrina Gelosini**
Summary Aim. The study originated as part of a research project conducted by the University of Modena, with the Province of Modena and the School Districts. The project involved various levels of data collection and several aims and areas of investigation. One such area was concerned with data collection on difficulties perceived by adolescents enrolled in secondary schools, with the aim of drawing up a framework of the typologies of this distress and of the areas in which it was perceived. Methods. The data on uneasiness were collected by means of a selfadministered questionnaire completed by a large sample of students (773), almost all of whom were enrolled in the high schools of Modena and the Province of Modena in the 2008/2009 academic year (26 schools out of a total of 32). The questionnaire explored 8 main typologies of uneasiness, evaluating both the existence and intensity (using Likert Scale questions), with respect to 14 areas. Results and Discussion. The collected data pointed out, in a wide spectrum of situations of personal uneasiness, in school problems, in parents’ relations and with one’s own emotions, the most widespread typology of uneasiness.These uneasiness typologies were put together by the adolescents not so much to remarkable or severe behaviours or manifestations, but rather to emotional and relational personal and inner states, assessed important because of the quality of family relations and learning. As regards the use of listening services we noticed a significant availability towards the request of help, as showed by the high number (n. 1.484) of access to the listening services, operating inside schools, in the 2008/2009 academic year. Key words Adolescente – Uneasines – Discomfort – Difficulties.
Introduzione Il disagio1 adolescenziale è un fenomeno multidimensionale, che vissuto dell’adolescente concorrono molteplici fattori tra cui il clima familiare, quello scolastico e *
Professore associato di Psicologia Clinica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. ** Titolare di borsa di studio e ricerca Psicologia Clinica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. 1 Il termine disagio è stato utilizzato estendendo il significato con cui è utilizzato nel ICF. In questa classificazione non sono compresi i fattori personali, ma viene comunque riconosciuto (vedi
222
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
l’ambiente socioculturale. Queste dimensioni non hanno mai confini netti e rigidamente demarcati ma, al contrario, si intersecano e influenzano continuamente le spinte evolutive, che caratterizzano questa fase dello sviluppo dell’individuo (Amerio et al., 1990). Nonostante le manifestazioni di disagio siano in letteratura ormai unanimamente considerate parte integrante del processo di emancipazione dalla famiglia d’origine verso l’individuazione e costruzione della propria identità (Comitato Nazionale di Bioetica, 1990) è importante non sottovalutarne la natura di richiesta d’aiuto e di bisogno di sostegno psicologico e sociale che esprimono. La frammentazione e la netta specializzazione degli ambiti offerti dall’organizzazione sociale alla socializzazione (scuola, circoli sportivi, associazioni di volontariato, ecc.) producono sempre più, nei giovani, nelle famiglie e tra gli insegnanti la consapevolezza di una mancanza, se non di una vera e propria assenza, di una rappresentazione sufficientemente condivisa della condizione adolescenziale. Questa assenza riguarda un linguaggio ed una modalità di comunicazione che permetta ai vari soggetti coinvolti nel dialogo (adolescenti e adulti) di riconoscersi nelle rappresentazioni che vengono proposte o poste dalle situazioni di disagio che si creano. Non si può prescindere, trattando di disagio, dall’essere consapevoli dell’importanza delle manifestazioni di tali problematiche a livelli di umore e di pensiero, che sono per l’appunto l’oggetto di indagine della presente ricerca. Obiettivo della ricerca A differenza dei quadri sintomatologici descritti nei manuali di psichiatria e di psicopatologia, la nozione di disagio investe stati emotivi (e, soprattutto, la percezione della propria situazione personale) che non necessariamente coinvolgono aree di sofferenza psicopatologica. La percezione della propria situazione personale certamente si radica nella soggettività, ma dipende, soprattutto nella sua rappresentazione e nella lettura, dal patrimonio condiviso di conoscenze e di modi di leggere la realtà. La presente ricerca si è mossa a partire dal riconoscimento di due limiti intrinseci alla nozione stessa di disagio: il primo è stato ben espresso da Von Glasersfeld (Glasersfeld in Steier, 1991) ovvero il fatto che “ciascun soggetto non ha altra alternativa che costruire ciò che conosce sulla base della propria esperienza”; il secondo riguarda l’esigenza di un continuo confronto con quanto emerge nelle situazioni di vita concrete. Sovente le discussioni con gli adolescenti naufragano in un’incalzante rievocazione di singoli episodi entro i quali, adolescenti ed adulti, si rincorrono, spesso si oppongono o, nel migliore dei casi, cercano di districarsi con la dolorosa consapevolezza di non essere riusciti a capirsi. Una situazione differente, ma che tangenzialmente ripropone la stessa difficoltà, la rilevano i professionisti che si prendono figura 5.1 pag. 23 del ICF, 2001) il loro contributo nell’influire sui vari interventi sulla disabilità. Il termine indicherà nel nostro lavoro stati di inquietudine e di turbamento, che vengono avvertiti come sensazioni soggettive.
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
223
cura dei disagi degli adolescenti (Offer et al., 1989). A volte, infatti, ci si confronta con definizioni e modalità di rappresentazione dei disagi adolescenziali che appaiono superate a livello sia fenomenologico che comportamentale. Nonostante la letteratura sia ricca di contributi sul disagio negli adolescenti, allo stato attuale si rileva la carenza di ricerche che rilevino in modo analitico le modalità di manifestazione e di espressione di queste da parte degli adolescenti. Alcune recenti ricerche hanno mostrato che gli adolescenti mostrano una specifica necessità di consulenza per problemi psicosociali (Kumar, Prinja, Lakshmi, 2008) come nel caso del conflitto tra pari, che può costituire un’importante fonte di stress tale da avere effetti negativi e condizionare la stessa salute fisica (Brendgen, Vitaro, 2008). Tra le figure professionali emergenti nel campo dell’ascolto e della consulenza psicologica, una ricerca nel Regno Unito (Farrand, Parker, Lee, 2007) ha evidenziato che il “form tutor” si pone come la figura di riferimento cui gli adolescenti si rivolgono per far fronte a molte difficoltà inerenti non solo la scuola, gli amici e la famiglia (range 53-65%), ma anche problemi emotivi (range 49-61%)2. Questa funzione di ascolto e di prima presa in carico rileva, pertanto, un ambito specifico di intervento e di ricerca mirata a sostenere l’interfaccia tra adolescenti, istituzione scolastica, servizi sociali e sanitari (Farrand, Parker, Lee, 2007). Gli studenti adolescenti possono mostrare diverse resistenze a richiedere aiuto ai Servizi di Salute Mentale per problemi psichici a ragione di molti fattori (tra cui soprattutto la paura di mancanza di riservatezza, la paura dello stigma sociale di malato mentale e le opinioni che altri si possono fare del loro bisogno), per cui esprimono una netta preferenza per il counseling d’appoggio all’interno della scuola, il c.d. servizio di sportello di ascolto (Boyd et al., 2007). In letteratura la maggior parte delle ricerche finora realizzate si sono focalizzate per lo più sul disagio inteso come rischio per successivi problemi di salute mentale (Husky et al., 2009) e sugli strumenti per poter identificare questa tipologia di problemi all’interno delle scuole (Nemeroff et al., 2008), sul fenomeno del bullismo (Kepenekci, Cinkir, 2006; Luukkonen et al., 2010), l’uso e l’abuso di sostanze (Stevens, McGeehan, Kelleher, 2010; Luukkonen et al., 2010), l’attuazione di comportamenti a rischio (Spizzichino, 2005). Ci si è in tal modo sempre più focalizzati sulle modalità acute con cui il malessere può prendere forma e venire agito, andando ad indagarne gli atteggiamenti, i comportamenti e le tendenze maggiormente disadattive. Le informazioni in tal modo acquisite sono senz’altro importanti, ma sono visibilmente incomplete, per cui si rischia di trasmettere immagini riduttive del disagio giovanile. Per scongiurare questo rischio è senz’altro opportuno approfondire in parallelo la situazione di base che caratterizza la condizione degli adolescenti. Infatti i cambiamenti nei rapporti sociali, nei comportamenti, nell’ambiente di vita, producono analoghi cambiamenti nella rappresentazione di Sé e degli altri nonché modificazioni nella percezione dei bisogni e dei modi di soddisfacimento che ne derivano. L’obiettivo della ricerca di cui vengono qui presentati i risultati è stato quello di raccogliere, su un ampio campione di adolescenti, dati soggettivi (ovvero, di tipo au2
Articolo sopra citato.
224
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
todescrittivo) circa le forme di disagio percepito, e gli atteggiamenti assunti/espressi a partire dal momento in cui ne hanno avuto consapevolezza. Ci si è orientati pertanto verso quell’area del disagio personale, che non rientra tra i disturbi, ma che costituisce un elemento significativo della situazione di vita dell’adolescente. Si è limitato, inoltre, il campo d’indagine alla realtà scolastica ritenendola quella maggiormente idonea, per la complessità delle relazioni che si sviluppano al proprio interno, a fornire una visione più vicina alla realtà attuale dei giovani adolescenti. Soggetti e metodi Alla realizzazione del progetto di ricerca hanno partecipato n° 26 Istituti Scolastici di grado superiore di Modena e Provincia nel corso dell’a.s. 2008/2009. La ricerca è stata preceduta da una fase sperimentale avvenuta negli ultimi 2 mesi del precedente a.s. (2007/2008), per la messa a punto dello strumento di rilevazione del disagio percepito dagli adolescenti. La raccolta delle valutazioni soggettive del disagio è avvenuta mediante la consegna di una scheda-questionario agli studenti in occasione del primo loro accesso ad uno degli sportelli di ascolto – gestiti da psicologi – presenti all’interno degli Istituti Superiori. La compilazione era affidata ai singoli studenti (auto compilazione), con possibilità di richiedere eventualmente informazioni aggiuntive allo psicologo che l’aveva consegnata e l’avrebbe successivamente ritirata. Il campione preso in considerazione nella presente ricerca corrisponde, quindi, all’intera popolazione degli studenti che si sono risvolti almeno una volta agli sportelli d’ascolto, ovvero 773 studenti di età compresa fra 14 a 19 anni. Il numero complessivo di accessi al servizio di consulenza scolastica nei 26 Istituti superiori della Pronvincia di Modena nell’a.s. 2008/2009 è stato di 1.484, in quanto mediamente gli studenti hanno effettuato due accessi. Gli sportelli di ascolto rappresentano un punto di osservazione privilegiato in quanto il servizio offerto si pone all’interno di un contesto frequentato quotidianamente, quale è quello scolastico, ed è quindi facilmente accessibile. La richiesta di aiuto da parte degli studenti esprime un’intenzionalità consapevole di fare emergere il malessere, che rende la richiesta stessa non condizionata da dati derivati da desideri di protagonismo o da altre finalità. Lo strumento utilizzato consisteva in una scheda-questionario, per la rilevazione, comprendente domande sia aperte che chiuse (tra queste ultime, alcune prevedevano risposte in forma dicotomica sì/no, altre una valutazione a scala di Likert), intese ad indagare diverse problematiche, diverse tipologie di manifestazione delle stesse e le relative intensità con cui queste si manifestano. Nello specifico, si è previsto di rilevare il disagio adolescenziale relativamente ad 8 tipologie: disagio con i genitori, i coetanei, l’altro sesso, gli insegnanti (o altri adulti di riferimento), il proprio corpo, le proprie emozioni; presenza di problemi scolastici; uso di sostanze psicotrope.
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
225
È stato altresì richiesto agli studenti di precisare in quale o quali tra i 14 ambiti possibili di manifestazione del disagio veniva da loro percepito il disagio stesso, ovvero: familiare, relazionale/comunicativo, emozionale, dell’umore, di identità personale, di immagine di sé, relazionale affettivo, di apprendimento scolastico, comportamentale, di pensiero (cognitivo), della dipendenza da cibo, da alcool, da droghe e nella vita sessuale. Nella scheda-questionario erano indicate per ogni domanda le opzioni di risposta, ovvero categoriale (si/no) o a scala di Likert, in tal caso per valutare l’intensità del fenomeno percepito (1 = “pochissimo”, 2 = “poco”, 3 = “abbastanza”, 4 = “molto”, 5 = “moltissimo”). Nella scheda-questionario erano anche incluse alcune domande circa la durata del disagio percepito e le forme di coping adottate prima dell’accesso agli sportelli di ascolto. Le risposte previste erano tutte di tipo categoriale. I dati raccolti tramite le schede-questionario sono stati successivamente sottoposti ad analisi statistica dagli estensori dell’articolo. Fase pilota della ricerca La realizzazione della ricerca è stata preceduta da una mappatura delle attività di ascolto e di consulenza presenti all’interno degli Istituti Superiori di Modena e Provincia, allo scopo di rilevare la situazione attuale. Questa fase preliminare, che ha riguardato l’attività di informazione e di sensibilizzazione, è stata effettuata mediante incontri con i Dirigenti scolastici ed i docenti referenti per l’educazione alla salute degli Istituti coinvolti. Durante questi incontri sono stati esplicitati, discussi e concordati gli obiettivi della ricerca. Parallelamente sono state effettuate alcune interviste agli psicologi operanti presso gli sportelli di ascolto delle scuole che hanno partecipato alla ricerca. Tali incontri individuali con questi “testimoni privilegiati” hanno avuto il duplice scopo di conoscere in via informale la realtà del disagio adolescenziale presente in ciascun Istituto e, nel contempo, di illustrare agli operatori lo strumento di rilevazione predisposto per la raccolta dei dati. Successivamente sono state distribuite e raccolte le schede-questionario agli utenti degli sportelli di assolto e sono state eseguite le analisi statistiche dei dati rilevati. Dopo l’elaborazione dei dati ha avuto luogo la presentazione dei risultati complessivi ai docenti referenti e agli psicologi che hanno collaborato al progetto nel corso di una giornata specificamente dedicata a tale obiettivo. Analisi statistica I risultati sono stati espressi prioritariamente in forma descrittiva (con percentuale, media e deviazione standard). Per l’analisi delle correlazioni sono state utilizzate le procedure SPSS per il calcolo del coefficiente di Spearman data la natura nonparametrica dei dati analizzati3. 3 Tutte le elaborazioni effettuate sono state eseguite con il programma SPSS per Windows versione 16.0.
226
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
Risultati 1. Caratteristiche anagrafiche del campione Le richieste di aiuto psicologico sono risultate venire soprattutto da adolescenti di genere femminile (65,8%), in prevalenza di nazionalità italiana (85,3%), in maggior misura di età compresa tra i 14 ed i 16 anni (55%) rispetto alla fascia d’età 17-20 anni (31,3%) (cfr. Tabella 1). Il numero di nuove richieste di accesso (n = 773) è sostanzialmente compatibile con quello rilevato dagli Uffici Scolastici negli anni precedenti. Nell’a.s. 2008-9 erano stati rilevati 47 nuovi accessi, per un totale di 868 contatti (per una media individuale di quasi due contatti). Il numero complessivo di nuove richieste di accesso era stato più basso, in quanto era al momento attivo un numero inferiore di sportelli di ascolto, passato in pochi anni da 18 a 26 nell’a.a. 2009-10. L’aumento del numero degli sportelli di ascolto attivati negli istituti superiori è risultato abbinato a un parallelo incremento del numero degli accessi, che evidenzia sia il gradimento da parte degli adolescenti che l’utilità di questa forma di supporto psicologico. Tabella 1. Caratteristiche anagrafiche del campione. GENERE N
%
MASCHILE
238
30,8
FEMMINILE
509
65,8
N.P.
26
3,4
Totale
773
100,0 NAZIONALITÀ
N
%
ITALIANA
659
85,3
STRANIERA
110
14,2
N.P. Totale
4
,5
773
100,0 ETÀ
N
%
14-16 ANNI
425
55,0
17-20 ANNI
242
31,3
N.P.
106
13,7
Totale
773
100,0
227
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
2. Tipologie e intensità del disagio percepito In relazione alle 8 tipologie di disagio percepito, le rispettive frequenze e intensità possono essere così sintetizzate (Tabella 2): – problemi scolastici: frequenza 50,3% (N. 389), intensità 3,19 ± 1,45; – rapporto con i genitori: 48,4% (N =374), 3,75 ± 1,35; – rapporto con le proprie emozioni:43,3% (N = 335); 3,01 ±, 1,35; – il rapporto con i coetanei: 41,0% (N =317), 3,18 ±1,35; – il rapporto con l’altro sesso: 38,7% (N=299): 3,08 ±1,45; – il rapporto con gli insegnanti o con altri adulti di riferimento: 36,1% (N = 279), 2,80 ±1,42; – il rapporto con il proprio corpo: 29,9% (N =231), 2,61 ±, 1,61; – l’uso di sostanze: 25,7% (N=199), 1,42 ± 0,92. Da questi dati si può rilevare che, nonostante i problemi scolastici siano globalmente presenti in percentuale più elevata (50,3%) rispetto al problema nel rapporto con i genitori (48,4%), l’intensità percepita del disagio è maggiore nel rapporto con i familiari rispetto ai problemi scolastici e al rapporto con i coetanei. Inoltre, l’intensità del disagio relativo al rapporto con le proprie emozioni è comparabile con quella avvertita nei rapporti con l’altro sesso, e sostanzialmente anche al rapporto con gli insegnanti o con altri adulti di riferimento e al rapporto con il proprio corpo. Infine, l’intensità del disagio riferito all’uso di sostanze appare essere di livello molto basso, sensibilmente inferiore a quello delle altre tipologie.
Tabella 2. Tipologie e intensità del disagio percepito. N (%) PROBLEMI SCOLASTICI
Media e deviazione standard
389 (50.3)
3,19 ± 1,451
374 (48.4)
3,75± 1,346
335 (43.3)
3,01± 1,351
317 (41.0)
3,18± 1,349
PROBLEMA NEL RAPPORTO CON L’ALTRO SESSO
299 (38.7)
3,08± 1,455
PROBLEMA NEI RAPPORTI CON INSEGNANTI O ADULTI DI RIFERIMENTO
279 (36.1)
2,80± 1,425
PROBLEMA NEI RAPPORTI CON IL PROPRIO CORPO
231 (29.9)
2,61± 1,609
PROBLEMI DI USO DI SOSTANZE PSICOTROPE
199 (25.7)
1,42± ,917
PROBLEMI NEL RAPPORTO CON GENITORI PROBLEMI DI CONTROLLO EMOZIONALE PROBLEMA NEI RAPPORTI CON COETANEI
228
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
3. Ambiti e intensità del disagio percepito Nella Tabella 3 sono riportate le frequenze sul totale di 773 studenti delle forme di disagio relativi agli ambiti nei quali si manifesta, oltre ai valori (media e SD) dell’intensità con la quale tali forme vengono percepite. L’intensità del disagio viene percepita come molto elevata o elevata negli ambiti delle relazioni con i familiari, delle relazioni comunicative, delle relazioni affettive, dell’identità personale e del Sé, delle emozioni, del tono dell’umore, come mediamente elevata negli ambiti dell’apprendimento scolastico, dei comportamenti e dei processi cognitivi, e come poco elevato negli ambiti delle dipendenze da cibo, alcool, sostanze stupefacenti e del disagio a livello sessuale. Tabella 3. Ambiti e intensità del disagio percepito. N (%)
MEDIA E DEVIAZIONE STANDARD
DISAGIO MANIFESTATO A LIVELLO FAMILIARE
369 (47.7)
3,66± 1,328
DISAGIO A LIVELLO RELAZIONALE-COMUNICATIVO
375 (48,5)
3,41± 1,343
DISAGIO MANIFESTATO A LIVELLO EMOZIONALE
405 (52,3)
3,21± 1,238
DISAGIO MANIFESTATO A LIVELLO DELL’UMORE
407 (52,7)
3,01± 1,238
PROBLEMI NEL PROCESSO DI IDENTITA’ PERSONALE (SODDISFAZIONE)
340 (43,9)
3,33± 1,106
PROBLEMI A LIVELLO DI IMMAGINE DI Sé
318 (41,1)
3,18± 1,223
DISAGIO A LIVELLO RELAZIONALE- AFFETTIVO
325 (42,0)
3,36± 1,101
DISAGIO NELL’APPRENDIMENTO SCOLASTICO
336 (43,5)
2,77± 1,389
DISAGIO A LIVELLO COMPORTAMENTALE
326 (42,1)
2,80± 1,295
DISAGIO A LIVELLO DI PENSIERO (COGNITIVO)
212 (27,5)
2,72± 1,612
DISAGIO A LIVELLO DI DIPENDENZA DA CIBO
207 (26,8)
1,46± 1,122
DISAGIO A LIVELLO DI DIPENDENZA DA ALCOL
190 (24,6)
1,28± 0,737
DISAGIO A LIVELLO DI DIPENDENZA DA DROGHE
198 (25,6)
1,30± 0,767
DISAGIO MANIFESTATO A LIVELLO SESSUALE
156 (20,2)
1,61± 1,069
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
229
4. Correlazioni fra le intensità del disagio percepito in rapporto a tipologie e ambiti Nella Tabella 4 sono riportati i coefficienti di correlazione (r di Spearman) e le loro significatività (corrette secondo la formula di Bonferroni per i confronti multipli) fra le intensità del disagio percepito in rapporto alle 8 tipologie e ai 14 ambiti. Dalla semplice ispezione dei dati emergono alcune indicazioni rilevanti: a) tutte le correlazioni significative risultano di segno positivo, ciò attesta l’attendibilità complessiva delle valutazioni espresse dagli adolescenti a proposito delle singole tipologie e dei singoli ambiti del disagio percepito; b) l’intensità del disagio percepito negli ambiti relativi a manifestazioni di disagio di natura maggiormente intrapsichica (emozioni, umore, immagine di sé) risulta correlato significativamente a tipologie di disagio maggiormente “private”, se non specificatamente soggettive (come i rapporti con genitori, vissuti emozionali, problemi della sfera sessuale e del rapporto con il proprio corpo); c) il disagio conseguente a problemi di dipendenza da alcool e sostanze stupefacenti è chiaramente avvertito come specifico (con correlazioni molto elevate tra intensità stimata in relazione all’ambito e alla omologa tipologia di disagio), con limitate proiezioni su altri ambiti e tipologie di disagio; d) le problematiche relative al disagio scolastico sono circoscritte alle sue manifestazioni e al rapporto con gli insegnanti. Questo pattern di relazioni evidenzia tre possibili tipologie ed ambiti di relazioni tra disagio percepito e manifestazioni (uno relativo alla vita “interna” ed emozionale, un secondo relativo al contesto di apprendimento ed alle sue figure, un terzo relativo a dipendenze da alcool e sostanze stupefacenti), la cui articolazione merita di essere indagata più a fondo e contestualmente, superando le classiche (e riduttive) indicazioni emerse dalle ricerche indirizzate solo su singoli aspetti del disagio adolescenziale, quali il bullismo, problemi relazionali, abuso di droghe alcool, cibo. 5. Modalità di coping del disagio percepito Riguardo alla durata e alle modalità di coping, da parte degli adolescenti, dei disagi rilevati, dai dati emerge che la decisione di affrontare il problema chiedendo aiuto ad uno specialista avviene dopo un periodo di riflessione e non immediatamente al presentarsi della difficoltà. Gli adolescenti si rivolgono allo psicologo soprattutto quando il disagio si presenta da alcuni mesi (40,9%) o alcune settimane (28,3%) rispetto a quando si presenta da alcuni giorni (6,3%). Prima di richiedere l’aiuto ad un professionista, gli adolescenti discutono dei loro problemi in famiglia (22,8%), con amici appartenenti alla scuola che frequentano (27,3%), con amici extrascolastici (24,6%) con insegnanti (11,5%) e/o con altri operatori (1,8%); più di un quinto, però, non ne discute con nessuno (22,8%). Il 42,7% degli adolescenti, prima di parlare del proprio disagio allo psicologo, non ha messo in atto tentativi di soluzione da solo, mentre il 23% ha provato a farlo. La richiesta di aiuto da parte dei ragazzi generalmente avviene spontaneamente (51%) o su indicazione degli insegnanti (17,1%), in minor misura su indicazione di amici (3,2%) o della famiglia (4,5%). Nell’eventualità in cui l’adolescente abbia avuto colloqui precedenti (17,6%), que-
230
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
Tabella 4. Coefficienti di correlazione di Spearman (con correzione di Bonferroni) tra gli indici di intensità relativi alle 8 tipologie e ai 14 ambiti del disagio percepito.
Liv. Familiare
Liv. Rel/com.
Liv. Emoz
Liv. Umore
Liv. Identità pers
Liv. Immagine sé
Liv. Relaz/aff Liv. Apprend. scolastico Liv.comport.le.
Liv. di pensiero
Liv. dipend. cibo
Liv. dipend. alcol
Liv. dipend droghe
Liv. sessuale
Spearrman’s r
Probl. Scol
Probl. Gen
Probl. Emoz
Probl. Coet
Probl. Sess
Probl. Ins
Probl. Rapp corpo
Probl. Uso sostanze
Correlation Coefficient
,209
,769*
,138
-,111
,043
,090
,183
-,059
N
276
338
267
240
233
225
218
191
Correlation Coefficient
,082
,174
,122
,114
,161
,157
,272
-,161
N
260
266
260
256
248
236
208
188
Correlation Coefficient
,040
,253
,477*
,083
,357*
,081
,253
,012
N
269
295
306
256
277
232
218
191
Correlation Coefficient
,194
,340*
,618*
,045
,198
,262
,331*
,155
N
279
304
294
250
263
232
224
190
Correlation Coefficient
-,059
,253
,230
,016
,223
-,078
,052
-,145
N
259
269
273
236
239
220
215
190 -,123
Correlation Coefficient
,072
,155
,266
,159
,299
,061
,391*
N
260
250
250
233
222
214
220
189
Correlation Coefficient
-,308
,215
,184
,098
,126
-,276
-,022
-,170
N
234
247
259
241
260
213
212
191
Correlation Coefficient
,621*
,155
,132
,009
,113
,508*
,241
,261
N
295
261
243
223
218
226
203
190
Correlation Coefficient
,453*
,151
,314*
,142
,061
,542*
,408*
,279
N
270
256
243
229
229
233
211
193
Correlation Coefficient
,480*
,179
,215*
,091
,237*
,429*
,532*
,053
N
202
198
203
196
195
197
195
187
Correlation Coefficient
,000
,257
,257
-,110
-,053
-,018
,307*
-,103
N
199
205
204
189
192
186
205
186
Correlation Coefficient
,193
-,034
,028
-,137
-,064
,260
-,013
,784
N
189
188
187
185
186
186
186
187
Correlation Coefficient
,209
-,060
-,002
-,084
-,068
,267
-,085
,908*
N
192
191
189
190
190
192
188
191
Correlation Coefficient
,072
,104
,262
-,057
,453*
,159
,379*
,214
N
147
150
151
148
155
144
149
142
* In grassetto le correlazioni significative dopo correzione di Bonferroni’ (p= .0004).
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
231
sti sono avvenuti nella maggior parte dei casi con lo stesso operatore (15,4%), con altri operatori pubblici (1,7%) e/o con altri operatori privati (1,0%). Quando un adolescente richiede aiuto nella maggior parte dei casi (32,3%) sente che il proprio problema viene modificato e riformulato in termini di maggior consapevolezza (34,2%), attivazioni di comportamenti diversi (26,9%) e miglior vissuto emozionale (23%). Per affrontare il malessere un solo colloquio sembra non essere sufficiente per il 45,8% degli adolescenti. In alcuni casi, il colloquio può dare modo di fare un invio (8,7%), che avviene verso i servizi sanitari (7,0%), verso i servizi sociali (1,0%) o verso i servizi aggregativi (0,1%). Le motivazioni per le quali si è proceduto ad un invio riguardano, in ordine decrescente: gravi problemi familiari/relazionali, la necessità di un supporto psicologico più approfondito, problemi di depressione/ansia, disturbi alimentari, gravi problemi scolastici, lutto, abuso di sostanze, autolesionismo o problemi sessuali. Elaborando i dati parziali dell’anno scolastico precedente, si rileva che il disagio adolescenziale è risultato essere in aumento rispetto al periodo considerato. Conclusioni La caratterizzazione qui eseguita in base alla tipologia e all’ambito di manifestazione del disagio degli adolescenti, permette di formulare alcune ipotesi interpretative non solo complementari, ma anche coerenti circa le caratteristiche del disagio percepito dagli adolescenti. Anzitutto, la ricerca eseguita ha individuato come tipologie prevalenti di disagio i vissuti emotivi e gli stati d’animo collocabili prevalentemente all’interno delle relazioni più dirette e quotidiane nelle quali gli adolescenti si trovano coinvolti; ovvero le relazioni familiari, la percezione del Sé e le relazioni con i coetanei. Il focus attentivo appare, quindi, orientato verso il proprio mondo interno e privato. Questo orientamento generale contrasta sensibilmente con la generica, ma molto diffusa opinione che gli adolescenti, in quanto sovraesposti alle suggestioni dei mass-media, siano tendenzialmente ambivalenti o in conflitto prevalentemente con l’ambiente esterno. Coerenti con questa interpretazione appaiono i risultati relativi agli ambiti nei quali viene avvertito maggiormente il disagio, ovvero nell’umore, nell’immagine di Sé e nell’identità personale. Questi ambiti sono coinvolti nella modulazione del contatto emotivo con il Sé e gli Altri significativi e nell’utilizzo delle proprie risorse comunicative con gli adulti e i coetanei con i pari. In secondo luogo, in termini assoluti risultano poco frequenti i vissuti problematici relativi al rapporto con il proprio corpo (29,9%) e all’uso di sostanze psicotrope (25,7%). È possibile che questi due tipi di vissuto siano risultati sottostimati nel nostro campione rispetto alla reale diffusione nella popolazione complessiva degli adolescenti. Infatti, essi si riferiscono a manifestazioni di sofferenza appartenenti all’area dei disturbi veri e propri più che all’area del disagio: la natura a volte acuta ed
232
U. UGUZZONI - S. GELOSINI
invasiva di tali disturbi ovviamente richiede referenti professionali e contesti terapeutici diversi da quelli offerti dagli sportelli di ascolto all’interno delle scuole. Tuttavia, anche se fosse l’intera fascia di popolazione adolescenziale che si rivolge agli sportelli a percepire tipologie di disagio meno eclatanti di quelle della fascia di popolazione adolescenziale che si rivolge ad altre strutture, non per questo le indicazioni ottenute dovrebbero essere considerate di minore interesse, in quanto consentono comunque una comprensione più completa (se non oggettiva) delle problematiche adolescenziali. Deve quindi essere considerato un dato importante il fatto che anche l’intensità con cui viene avvertito il disagio (cfr. pag. 227) sia elevata allorché viene investita la comunicazione interpersonale, mentre risulta media o bassa per le tematiche relative al corpo e all’abuso di sostanze. In terzo luogo, l’intensità della percezione delle tipologie di disagio di natura intrapsichica (relativi, cioè, ad emozioni, umore, immagine di sé) risultano significativamente correlate all’intensità con cui vengono percepiti gli ambiti di disagio (come i rapporti con genitori, i vissuti emozionali, i problemi della sfera sessuale e del rapporto con il proprio corpo). Questo risultato, oltre a confermare l’attendibilità dei dati raccolti, è coerente con la rilevanza delle tematiche relative all’identità e al rapporto con gli “oggetti psichici”, con le quali gli adolescenti si trovano più direttamente ed emotivamente coinvolti: l’immagine di sé, i genitori ed i coetanei. Anche il disagio scolastico risulta maggiormente avvertito se riferito a se stessi, piuttosto che percepito nella relazione con gli insegnati e con i compagni. Gli adolescenti esaminati appaiono orientati ad affrontare i disagi interni con una tensione negativa particolare riguardo alla componente relazionale e agli strumenti comunicativi necessari a gestire i rapporti nei quali si trovano coinvolti. È utile rammentare, a tale proposito, come la letteratura specialistica (Erikson,1980; Beebe et al., 2005; Mancini, 2001) indichi che i disagi di questa natura, in assenza di un ascolto adeguato da parte degli adulti di riferimento, possono rimanere sommersi e latenti per poi esitare in stati interni di sofferenza che si ripropongono nel successivo sviluppo della persona. Questi aspetti del disagio sono spesso archiviati nel cassetto delle cosiddette problematiche tipiche dell’adolescente. Appare plausibile che una maggiore attenzione degli operatori potrebbe evitare o almeno ridurre il loro esplodere in situazioni marcate e strutturate di sofferenza. Per quanto riguarda, infine, la funzione specifica degli sportelli di ascolto e della figura del form tutor, va sottolineato come siano risultati adeguati ed efficaci nel facilitare la rilevazione e la comunicazione di queste forme di disagio “sommerso” ed interno, che difficilmente condurrebbero gli adolescenti a rivolgersi ad altri tipi di servizi esterni, pubblici o privati. Tali servizi, in quanto ambientati all’esterno della scuola, sarebbero inevitabilmente connotati in senso sanitario, potenzialmente stigmatizzante. Appare quindi evidente il rischio di non stimare adeguatamente il bisogno di aiuto dell’adolescente semplicemente perché si prendono in considerazione solo i dati di accesso a servizi esterni alla scuola. Riassunto Obiettivo. La ricerca è stata svolta nell’ambito di una collaborazione tra l’Università di Modena, la Provincia di Modena ed i Distretti Scolastici della Provincia
IL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI
233
stessa. Una delle linee di collaborazione aveva come obiettivo la rilevazione del disagio percepito dagli adolescenti iscritti alle scuole secondarie, al fine di elaborare un quadro delle tipologie del loro disagio e degli ambiti di manifestazione dello stesso. Metodi. La rilevazione del disagio è stata condotta tramite questionario autocompilato da un vasto campione di studenti (n = 773), frequentanti quasi tutti gli Istituti Superiori di Modena e Provincia nell’a.s. 2008/2009 (n° 26 Istituti dei 32 totali). Il questionario ha esplorato 8 tipologie principali di disagio, misurandone la presenza e l’intensità (tramite domande a scala di Likert) rispetto a 14 ambiti di manifestazione dello stesso. Risultati e Discussione. I dati raccolti hanno evidenziato, in un ampio spettro di situazioni di disagio personale, nei problemi scolastici, nei rapporti con i genitori e con le proprie emozioni, le tipologie di disagio maggiormente diffuse. Queste tipologie di disagio sono state associate dagli adolescenti non tanto a comportamenti o manifestazioni eclatanti o acute, ma piuttosto a stati emozionali e relazionali personali ed interni, valutati come importanti per la qualità delle relazioni familiari e dell’apprendimento. Rispetto all’utilizzo degli sportelli d’ascolto, si è rilevato una disponibilità significativa verso la richiesta di aiuto, come indicato dall’elevato numero (n = 1.484) di accessi ai servizi di ascolto, attivi all’interno degli Istituti scolastici, nel corso dell’a.s. 2008/2009. Parole chiave Disagio – Adolescenti – Malessere – Difficoltà.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2011), vol. 78: 235-236
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Istruzioni per gli Autori
La rivista pubblica ricerche originali, casi clinici di particolare interesse da un punto di vista diagnostico o terapeutico, contributi teorici nel campo della Psicopatologia e della Neuropsicologia dello Sviluppo. La rivista è anche interessata a ricerche di epidemiologia e di prevenzione nell’ambito della Salute Mentale dell’età evolutiva e della Riabilitazione, dalla prima infanzia all’adolescenza. Ogni articolo sarà rivisto da almeno due revisori anonimi. La rivista si impegna a rispondere agli autori entro 90 giorni dal ricevimento del manoscritto. I manoscritti vanno inviati al direttore della rivista Prof. Gabriel Levi, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Redazione, Via dei Sabelli, 108, 00185 Roma. Gli articoli devono essere inviati in tre copie (un originale e due fotocopie) allegando anche la versione dell’articolo (in Word per Windows o Word per Macintosh) in CD-Rom o dischetto. Una copia dell’articolo deve essere inviata via email alla redazione: psichiatra.infanziadole@email.it. L’autore è responsabile che la versione su carta e la versione su supporto elettronico siano uguali. La lunghezza degli articoli inviati dovrebbe essere contenuta in 20 pagine dattiloscritte e, in ogni caso, non deve superare le 24 pagine dattiloscritte. Il formato della pagina del testo deve essere di 30 righe, 60 battute per riga (1800 caratteri, inclusi gli spazi bianchi), con interlinea doppia su foglio A4. Gli articoli dovranno essere così presentati: due pagine di titolo, la prima contenente i nomi per esteso degli autori, la loro affiliazione, l’indirizzo completo con numero di telefono, di fax, email, dell’autore a cui va inviata la corrispondenza; la seconda contenente solo il titolo dell’articolo, in italiano e in inglese. Le pagine devono essere numerate, eccetto la prima di titolo, nel seguente ordine: a) riassunto in italiano e in inglese (250 - 300 parole), b) parole chiave (in italiano e in inglese, fino ad un massimo di cinque), c) testo, d) tavole, e) figure, f ) descrizione delle tavole/figure, g) note, h) bibliografia, i) appendice. Ognuna di queste sezioni deve iniziare su una pagina nuova. Il testo deve essere suddiviso in sezioni: introduzione, obiettivo del lavoro, soggetti e metodi, discussione dei dati e conclusioni. Le tavole, le figure devono avere titoli brevi e descrittivi e devono essere numerate consecutivamente in numeri arabi e richiamate nel testo. La relativa legenda deve essere scritta su un foglio a parte contenente le legende di tutte le tavole/figure. Le figure devono essere pronte per la riproduzione fotografica con i dettagli leggibili chiaramente. In particolare i disegni dovranno essere allegati in originale oppure in file con formato .jpeg o .tiff. La loro collocazione nel testo deve essere indicata dalla frase inserisci qui tavola/figura. Abbreviazioni: devono essere evitate il più possibile; quando necessaria l’abbreviazione deve essere preceduta dalla formulazione per intero la prima volta che la denominazione viene citata nel testo, le volte seguenti può essere sostituita dall’abbreviazione. Ad esempio: Disturbi Generalizzati dello Sviluppo (DGS). I riferimenti bibliografici nel testo devono indicare soltanto il cognome degli autori e l’anno di pubblicazione posto tra parentesi,ad esempio: Rutter (2006); Leslie e Frith (1993); oppure il cognome degli autori tra parentesi seguito da una virgola e dall’anno di pubblicazione, ad esempio: (Goodyer,
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ISTRUZIONI PER GLI AUTORI
2001; Main, Kaplan, Kassidy, 1989). Se gli autori sono più di tre si riporta il cognome del primo autore seguito dall’abbreviazione et al., ad esempio: Wolkmar et al. ( 2004). Nel caso che vi siano due articoli dello stesso autore con lo stesso anno di pubblicazione questi vanno indicati con le lettere dell’alfabeto in minuscolo a seguire: (Achenbach, 1994a, 1994b). Le citazioni testuali vanno poste tra “virgolette inglesi” e va indicato sempre il numero di pagina (in forma abbreviata: p./pp.). Bibliografia: comprende esclusivamente le voci bibliografiche citate nel testo. Le voci bibliografiche devono essere elencate secondo l’ordine alfabetico degli autori e debbono contenere cognome e iniziale del nome dell’autore (in Maiuscoletto); anno di pubblicazione dell’articolo o del libro, posto tra parentesi. Quando comprende un articolo si riporterà: titolo del lavoro; nome, o abbreviazione internazionale, in corsivo della rivista in cui l’articolo è stato pubblicato; il numero del volume (o fascicolo) della rivista, seguito dopo il segno di due punti dalla pagina iniziale e terminale dell’articolo. Esempi: Bollea G. (1967), Strutturazione oligofrenica e strutturazione psicotica, Infanzia anormale, 52: 601613. Fonagy P., Target M. (1997), Attachment and reflective function: their role in self-organization, Development and Psychopathology, 9, 4:601-613. Osofsky J.D., Kronenberg M., Hammer J.H, Lederman J.C., Katz L., Adams S., Et Al. (2007), The development and evaluation of the intervention model for the Florida Infant Mental Health Pilot Program, Infant Mental Health Journal, 28, 3:259-280. Quando comprende un libro si riporterà: titolo del libro in corsivo, città, casa editrice, anno dell’edizione italiana per i libri tradotti. Esempi: Cicchetti D., Cohen J. (2006), Developmental Psychopathology, Vol. 1, Theory and Methods, 2nd Ed., New York, Wiley. Gabbard G.O. (2000), Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina Editore. Quando comprende un capitolo di un libro gli esempi sono i seguenti: Costello E.J., Angold A. (2000), Developmental epidemiology: a framework for developmental psychopathology, in A. Samerof, M. Lewis, S. Miller (Eds), Handbook of Developmental Psychopathology, New York, Plenum Press. Emde R.N., Bingham R.D., Harmon R.J. (1993), Classificazione e processi diagnostici nell’infanzia, in C.H. Zeanah, Manuale di salute mentale infantile, Milano, Masson, 1996. Gli autori dell’articolo riceveranno le prime bozze per la correzione degli errori. In questa fase non sono ammessi cambiamenti dell’articolo che non siano correzioni di errori tipografici. Le bozze corrette dovranno essere restituite alla redazione della rivista dagli autori entro dieci giorni dal loro invio. L’editore si riserva il diritto di modificare il manoscritto per renderlo conforme allo stile della rivista. Le tavole e le figure pubblicate, eccetto le prime cinque, sono a carico degli autori e saranno addebitate al costo. Gli autori che desiderano estratti dei loro articoli possono richiederli all’editore, che invierà loro il prospetto dei costi. Gli autori degli articoli sono responsabili in proprio del rispetto della legge sulla privacy. I manoscritti non corrispondenti alle regole indicate saranno restituiti al mittente. © Copyright Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.
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