Arskey Magazine 2

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Numero 2 maggio/giugno/luglio | Anno 1 | 2011 | Periodico trimestrale â‚Ź.5,00

arskey

Vincenzo Agnetti Goshka Macuga Rirkrit Tiravanija Larry Clark Robert Mapplethorpe William Kentridge Mimmo Paladino Michelangelo Pistoletto

Conversazione con Olav Velthuis sul rapporto tra arte ed economia Intervista Salvatore Settis Incontri teorici # 1. Antonello Tolve - Eugenio Viola Intervista a Umberto Croppi Intervista a Carla Tomasi, presidente dell’A.R.I. Rapporto Nomisma 2011 Aste del 2011




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arskey : n°2 maggio | giugno | luglio 2011

arskey Numero 2 maggio/giugno/luglio| Anno 1 | 2011 | Periodico trimestrale Edizioni ArsValue S.r.l Piazza Porta Torino 13 - 14100 Asti Amministratore Unico: Pierluigi Salvatore Arskey Italia. Direttore responsabile Elisa Delle Noci. Copyright 2011 per edizioni ArsValue. Tutti i diritti riservati. Spedizione in abbonamento postale - art. 2 comma 20/B Legge 662/96 Distribuito su abbonamento, trova i punti di distribuzione su www.teknemedia.net Stampa: Arti Grafiche Boccia S.p.a, Via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84131 Salerno Registrazione: Tribunale di Asti N. 1 del 18.01.2011 Direttore Responsabile: Elisa Delle Noci Vicedirettore: Pierluigi Salvatore Direttore commerciale: Pierluigi Salvatore Responsabile organizzativo: Fabio Molteni Segreteria di Redazione: Giuseppe Ponissa Servizio Abbonamenti e Distribuzione: Cristian Mondino mail: direzione@teknemedia.net Redazione: Arskey via Ticino 19, 10036 Settimo Torinese (TO) mail: redazione@teknemedia.net Tel. 011.5794749 Uffici amministrativi: ArsValue S.r.l. Via Talamoni 3, 20052 Monza Tel. 039.2315043| Fax. 039.3901364 mail: amministrazione@arskey.it

Abbonamento singolo per 4 numeri / 18 euro Abbonamento XL per le sedi 10 copie per 4 numeri / 120 euro mail: direzione@teknemedia.net | www.teknemedia.net

ARSKEY è quotidianamente on line su www.teknemedia.net Per inviare comunicati stampa e materiale: redazione@teknemedia.net | www.teknemedia.net | www.arskey.it Per inviare cartelle stampa e cataloghi: Arskey/Elisa Delle Noci, via Ticino 19, 10o36 Settimo Torinese (TO)

In copertina: Michael Fliri, “from the forbidden zone”, 2009 performance Courtsey Galleria Raffaella Cortese, Milano Courtesy foto Ivo Corrà (sul prossimo numero)


EdITORIALE

SCAMbI dI RUOLI NEL PARAdIGMA dELLA MOdERNITà Gli individui attualmente hanno maggior bisogno di conoscere la storia per comprendere la natura del proprio presente, piuttosto che fare ipotesi sul futuro con l'intento di inventarlo secondo un'immagine ideale. L'avvenire non è più idealizzabile, i suoi contorni indefiniti sfuggono all'analisi e ciò che in passato poteva essere superato con l'energia vitale e la fiducia, oggi ristagna in un atteggiamento di rassegnazione che fossilizza e cristallizza l'intraprendenza. Questo disagio viene percepito ed espresso anche da un esteso gruppo di artisti i quali non tentano di formulare ipotesi sul futuro, determinandone a volte la realizzazione dello stesso, ma si concentrano sul presente nel tentativo di comprendere i meccanismi e gli equilibri relazionali che ne delineano i confini. Atteggiamento critico e analitico di tale genere lo ritroviamo in artisti di cui Olav Velthuis ci parlerà in queste pagine il cui obbiettivo è dimostrare che l'arte può essere uno strumento per comprendere l'economia attuale. E così come avviene oggi in Italia, in assenza di opposizione, sono i giornalisti che devono intervenire e per quanto possibile condurre l'opinione pubblica, snaturando la natura stessa del giornalismo, ricoprendo spesso un ruolo politico che non gli è proprio, anche per gli artisti della categoria descritta da Velthuis c'è uno snaturamento. In tal caso voluto e non necessario. Tali tipologie di artisti scelgono di svelare al fruitore dell'opera qual è il meccanismo che si cela dietro al lavoro smascherando a volte, non senza incorrere in rischi, collezionisti speculatori e altre meschinaggini velate dal principio estetico del trucco e del mascheramento. Come il giornalista l'artista procede accompagnando il fruitore con atteggiamento formativo e di demistificazione. D'altronde ormai diviene impossibile scindere l'aspetto economico dall'“aura” dell'opera di un artista e del suo contenitore privilegiato. E a conferma di tale affermazione basta riflettere sull'ostinato ostracismo nei confronti dell'ingerenza dei privati nei musei, operazione che clandestinamente (anche se nel rispetto della legge) ormai da tempo viene condotta, che cosa è dunque cambiato? Come mai si spendono tante parole su questo argomento solo ora? La massa abitualmente distratta da frivoli e stuzzichevoli passatempi ha smesso di sognare e al risveglio si è accorta che le cose stavano cambiando e che forse non si poteva più inserire la retromarcia? Certamente non c'è altro da fare se non legittimare, creando un paravento elegante che hanno definito: dialogo operativo con i privati che investono in cultura. Le leggi oggi sono fatte non tanto per determinare un nuovo sistema di approccio ma per convalidare gli atteggiamenti già in uso. Sospetto però che di dialogo non si possa trattare in ogni contesto, in alcuni casi si tratta di un monologo. Tenendo conto che un privato può negare l'erogazione del finanziamento a un museo, non sentendosi coinvolto nell'operazione organizzativa o nella gestione amministrativa, va da sé che il dialogo passa in secondo ordine visto che il museo si trova a dover affrontare un taglio orizzontale e selvaggio dei finanziamenti pubblici. Non mi sembra che al museo venga data un'alternativa. E questo viene chiamato investimento intelligente e controllato. Non ritenendo le strutture museali all'altezza di verificare con lungimiranza i profitti risultanti da una operazione di questo genere, i privati sostengono di dover intervenire per apportare competenze, sottintendendo che di queste il museo è carente. Non considerandomi conservatrice né progressista a ogni costo, contro chi proclama di dover inserire la sesta marcia mi pongo come osservatrice e discuto l'ipocrisia che chiama dialogo un ricatto al museo messo all'angolo, in questo contesto non può che venirmi in mente la vicenda Marchionne. Tutti ci auguriamo che le competenze che apporteranno i privati nelle strutture istituzionali siano veramente fattive, e che queste competenze vangano filtrate dal dipartimento referente. Ma il nostro compito qui non è quello di dare un giudizio definitivo, in quanto ogni fatto va analizzato da più punti di vista, ma di dare voce agli esperti nel tentativo di offrirvi una visone quanto più completa e libera possibile sui temi attuali di maggior interesse. Leggerete l'opinione di Salvatore Settis di Umberto Croppi o di Carla Tomasi e molti altri che vi daranno una visione soggettiva dei fatti, che in questi mesi hanno infervorato gli animi anche più sonnacchiosi. Voci contrastanti che si incontrano in una tribuna per confrontarsi. Nell'augurarvi una buona lettura mi sento di aggiungere che in tempi oscuri come quelli che stiamo vivendo l'unica energia di cui abbiamo bisogno non è quella nucleare, ma quella culturale per ridare credito alla nostra nazione e ai nostri artisti a cui daremo molto spazio nei prossimi mesi sul nostro portale www.teknemedia.net. Vi ricordiamo che per rimanere aggiornati sui principali eventi che vedono protagonista l'arte contemporanea potrete seguire gli aggiornamenti quotidiani del sopracitato sito. Elisa Delle Noci


SOMMARIO

Modern & conteMporary art pg 18 Sei villaggi differenti. Vincenzo Agnetti “politico” di Giorgio Verzotti pg 24 Goshka Macuga, contesti e costanti. Mnemosyne, il Living Museum, il modernismo di Annalisa Pellino pg 30 Rirkrit Tiravanija: un’arte di “meno olio e più coraggio” di Stella Kasian pg 34 rubrica i PRECURSORI #5 | DI LARRY CLARK E DEI SUOI SEGUACI di Luca Panaro pg 36 Mapplethorpe. Il collezionismo made in USA sposa la causa della fotografia di Sara Panetti pg 40 54° Biennale di Venezia: A Venezia si accendono i riflettori su un mondo di arte contemporanea di Francesca Berardi pg 42 Art&Green | Urban Culture, Urban Agriculture di Claudia Zanfi

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al Museo

pg 46

William Kentridge & Milano | Sounds from the black box di Aurora Tamigio QUATTRO. Olivo Barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Walter Niedermayr di Fulvio Chimento La collezionista Christian Stein | alimentare la vita con l'energia rigenerante degli artisti di Giulio Cattaneo Da Uno a Molti, 1956-1974 e Cittadellarte. Pistoletto al MAXXI verso una nuova civitas di Matteo Antonaci Omaggio a Mimmo Paladino, sublime interprete della condizione dell’uomo contemporaneo di Francesca Caputo

critic pg 64

Elogio della creatività. Segni di un atteggiamento romanticoncettuale di Antonello Tolve pg 70 150 anni di storia della critica d'arte italiana di Fulvio Cimento pg 72 Conversazione con Olav Velthuis sul rapporto tra arte ed economia di Francesca Caputo

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pg 76 Incontri teorici # 1. Antonello Tolve - Eugenio Viola di Antonello Tolve

econoMia dell’arte pg 82 Intervista: Il punto di vista di Salvatore Settis sull'attualità di Letizia Guadagno pg 84 Intervista a Umberto Croppi, ex Assessore alla Cultura di Roma. Tra speranze deluse e progetti futuri di Letizia Guadagno pg 86 Intervista a Carla Tomasi, presidente dell’A.R.I., l’Associazione Restauratori d’Italia di Viviana Pozzoli pg 90 Beni culturali: cercasi un Cavour per un nuovo Risorgimento di Nicola Maggi pg 92 Le Aste italiane di febbraio, marzo e aprile 2011: Il mercato italiano dell'arte moderna e contemporanea di Giuseppe Ponissa pg 93 Aste all'estero: Modern & Contemporary: riprende l'entusiasmo di Alessandro Guerrini pg 94 Egitto e Turchia: ponti moderati tra Occidente e Medio Oriente di Marianna De Padova pg 96 Rapporto Nomisma 2011: mercato italiano verso la stabilità di Nicola Maggi pg 98 a cura di ArsValue.com Aste in cifre 22

libri | recensioni

pg 105


modern & contemporary art William Kentridge , “Breathe, Dissolve, Return/Breathe: Breathe, Dissolve, Return (Breathe”), 2008, video still from installation

Vincenzo agnetti “politico” |la storia e il genius loci Goshka Macuga, . | Gavin brown's enterprise “Fear eats the soul”. rirkrit tiravanija. | rubrica i precursori#5 di larry clark e dei suoi seguaci | Getty trust&lacMa: 'partners' per Mapplethorpe. il collezionismo made in usa sposa la causa della fotografia. | 54° biennale di Venezia: a Venezia si accendono i riflettori su un mondo di arte contemporanea | art&Green: urban culture, urban agriculture | William Kentridge&sounds from the black box. | Quattro. olivo barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Walter niedermayr. | la collezionista christian stein. alimentare la vita con l'energia rigenerante degli artisti. | al museo Michelangelo pistoletto. da uno a Molti, 1956-1974 e cittadellarte. pistoletto al MaXXi verso una nuova civitas. | omaggio a Mimmo paladino, sublime interprete della condizione dell’uomo contemporaneo.

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arskey/Art | Vincenzo Agnetti

VINCENzO AGNETTI

SEI VILLAGGI dIffERENTI. AGNETTI “POLITICO” di Giorgio Verzotti

Culture is the refleCtion of our power and the penetration of your intelligenCe Vincenzo Agnetti che legge Macchina Drogata foto Ugo Mulas

Vincenzo Agnetti si è dedicato a una pratica di analisi del linguaggio verbale e visivo che lo ha avvicinato alle tendenze concettuali, e tale rimane la sua collocazione nell’opinione della critica, nonostante le prese di distanza dell’artista da quell’ambito di riflessione, secondo lui troppo sterilmente tautologico. Considerare ancor oggi Agnetti un concettuale va bene, non si va troppo lontano dal suo intento, purché si chiarisca almeno una differenza fondativa fra l’artista italiano e i suoi contemporanei, specie anglosassoni, e che determina, teoricamente, la posizione del soggetto nei discorsi costruiti, o meglio “decostruiti” dalle indagini concettuali. Per i conceptualists il soggetto è eliso, è un incidente

del linguaggio, una pura eventualità, come indicano le filosofie che fanno loro da riferimento, dislocate fra Vienna e Parigi, dal primo Wittgenstein a Derrida passando per Barthes. Agnetti non considera tanto questi riferimenti, le sue letture comprendono il circolo di Vienna ma soprattutto McLuhan e la sociologia: così il “sospetto” da lui gettato sul linguaggio non si ferma al proprio specifico ma spazia, supera i limiti determinati dalla disciplina (semiologia, in primis, molto di moda all’epoca) e comprende un oggetto di indagine più ampio: non tanto il linguaggio in sé, per quanto sia questo l’oggetto focalizzato nelle opere, ma il “circondario”, per usare un termine agnettiano, vale a dire il

contesto, e in particolare le strutture che, costruendo un certo linguaggio e veicolandolo, con ciò fondano e legittimano un potere. Agnetti guarda all’universo della comunicazione mass-mediale e alla funzione alienante che tale pervasiva rete informazionale già allora esplicava (fine anni Sessanta): vale la pena sottolineare subito che diversi altri artisti in Italia in quegli anni facevano altrettanto, ma prendendo direzioni diverse da quelle praticate da Agnetti. C’erano gli artisti impegnati nei movimenti “rivoluzionari”, che non si soffermavano sull’analisi del linguaggio, disciplina considerata puro e inutile formalismo, ininfluente agli scopi militanti che si proponevano (del resto semiologia, psicanalisi, strutturali-


arskey/Art | Project room. Pieter Hugo

Vincenzo Agnetti, “Dopo le grandi manovre. Bricolage�, 1980 Fotografia e scrittura a china, cm 53 x 79 Milano, collezione Salvatore Licitra

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arskey/Art | Vincenzo Agnetti

Vincenzo Agnetti, “Elisabetta d'Inghilterra�, 1976 sei tele emulsionate e dipinte, cm 61 x 51 Milano, Archivio Vincenzo Agnetti (particolare)


arskey/Art | Vincenzo Agnetti

smo e quant’altro venivano rifiutate in quanto scienze borghesi, si vedano gli articoli che in quegli anni Settanta fioccavano su una rivista come Quaderni Piacentini, organo dell’ortodossia marxista più asfissiante, l’equivalente “extraparlamentare” delle condanne zdanoviane di Togliatti emanate vent’anni prima contro l’Arte Astratta). Altrimenti, il dissenso da parte degli artisti si manifestava creando tendenze difficili da gestire sul piano del mercato, ma sappiamo quanto fiato corto queste istanze hanno avuto nel sistema dell’arte occidentale. Le tendenze concettuali in genere solo in modo molto mediato toccavano problematiche politiche, o riconducibili a quella sfera. In nessun caso il lavoro artistico veniva elaborato con l’acume che spingeva Agnetti a essere quasi profetico e a esserlo proprio in senso politico. Nelle sue conferenze, che considerava opere alla stessa stregua dei quadri o delle performances, usava distinguere fra comunicazione e informazione, e definiva quest’ultima la sfera d’azione, autoritaria, verticale, contrapponendola alla sfera d’azione della prima, che va intesa come lo spazio democratico, orizzontale, delle relazioni umane. Ricordiamo che in quegli anni si esprimeva con questa chiarezza solo Pasolini, quando definiva antidemocratica la cultura di massa in sé, in quanto eterodiretta e calata dall’alto, e scatenava infatti le mille reazioni negative che ricordiamo. Agnetti addirittura sosteneva che la difficoltà della proposizioni verbali incise sulle sue “bacheliti”, i cosiddetti Assiomi, era voluta e artatamente prodotta così da spingere l’osservatore a diffidare di quel linguaggio così criptico, e per estensione di tutti i linguaggi specialistici, che determinano esclusione. Il soggetto che Agnetti presuppone come interlocutore non è dunque eliso, se mai alienato, e comunque ben presente, magari inconsapevolmente, nella realtà storica. Il soggetto è una determinazione storica che deve essere ricondotta alla coscienza di sé e della sua genealogia: possa ognuno essere il proprio storico, faceva dire Godard ai suoi attori (in “Tout va bien”, sempre di quegli anni). Lo dice anche Agnetti, quando introduce il concetto “dimenticato a memoria” attribuito ai suoi libri. L’artista spiega questo

apparente paradosso nella sua dichiarazione ormai famosa: “La cultura è l’apprendimento del dimenticare. Esattamente come quando si mangia. Manipolato più o meno bene il cibo ci dà il suo sapore, ma presto dimentichiamo il sapore in favore dell’energia ingerita. In un certo senso dimentichiamo a memoria i sapori, le intossicazioni e i piaceri del mangiare per portare avanti con più libertà le nostre gambe, le nostre braccia, la nostra testa… Così avviene anche per la cultura. E, la sintesi di questa mia segnalazione sono appunto i ‘Libri dimenticati a memoria’”. La cultura viene introiettata (il testo viene fisicamente tagliato via dalle pagine del libro) e fa parte da quel momento della nostra personalità, mentre ci determina e connatura come prodotti storici. La cultura che assimiliamo e il linguaggio con cui la esprimiamo conformano il nostro modo di pensare, ci condizionano, e in un certo senso ci identificano come appartenenti a una data civiltà, una data epoca, in una data dimensione geopolitica. L’opera di Agnetti non vuole essere sovrastorica, ma al contrario si colloca, per quanto riguarda il suo significato più ampio, in un contesto molto preciso, e inoltre l’opera stessa si pone come dispositivo di disvelamento del contesto stesso, di ciò a cui esso rimanda. “Corfine” è un’opera emblematica in questo senso, una vera e propria cornice che circonda il vuoto, un confine, e chiara è la frase che la commenta: il circondario altera il circondato… Il potere che altera tale circondario, al cui interno opera il soggetto, è spesso affrontato esplicitamente nell’opera di Agnetti, in opere che, pur nella loro apertura semantica, risultavano chiare nel loro intento grazie alle tracce di lettura che l’artista stesso offriva, con le dichiarazioni, le conferenze, o anche con l’inglobare nel corpo dell’opera veri testi esplicativi, o “istruzioni per la lettura”. Nelle opere stesse spesso ricorre l’immagine dell’artista, fotografato in bianco e nero, con abiti scuri e sobri: la sua presenza vale come icona dell’uomo-massa, il ricettore dei messaggi che il potere veicola, e che è supposto registrare passivamente. Nelle due famose “Autotelefonate”, questo soggetto reificato appoggia

alle orecchie due cornette del telefono, ma non sta comunicando, sta ricevendo indicazioni. Da un lato dice sì, accetta, dall’altro dice di no, rifiuta, ma nel secondo caso si copre il viso con le mani e piega la testa sul piano del tavolo, vinto. In entrambe le opere, l’ultima immagine della sequenza fotografica ci mostra le due cornette accostate, come a comunicare fra loro: il medium è il messaggio, il soggetto è assoggettato (ricordiamo Foucault…) e la comunicazione avviene anche senza di lui, essendo lui stesso superfluo nella pratica di legittimazione autoriferita del potere. Nell’opera “Elisabetta d’Inghilterra”, molto poco nota in Italia fino alla mostra del MART del 2008 perché rimasta per lunghi anni a New York, un’opera pensata come sequenza di sei foto virate in rosso, accompagnata al momento della mostra da una performance vocale, una scrittura a mano commenta ogni immagine. Ogni scritta allude al rapporto fra potere politico e cultura, prendendo il teatro elisabettiano come sfondo, come esempio storico trasceso in metafora. Sotto il ritratto della sovrana, la scritta-chiave, una delle folgoranti proposizioni di Agnetti: “Culture is the reflection of our power and the penetration of your intelligence”. L’ultima immagine della sequenza rivela la possibile conseguenza della rottura di un simile rapporto “collaborativo” fra establishment e intellettuali, mostrandoci un vetro infranto da un proiettile. “XIV-XX Secolo” e “Tutta la storia dell’arte è in questi tre lavori” sono invece opere molto note, che in modo diverso pongono la questione della mercificazione dell’opera d’arte, e della riposta che gli artisti danno a questa situazione. Nel primo lavoro, i quattro affreschi anonimi antichi riportano ciascuno, dipinta, una delle parole della sequenza “Pensa Prendi Pesa Usa”, che valgono come la sovrapposizione di un modello di sapere sulle spoglie di uno antico, trasformate in “merci culturali”. La supremazia del pensiero razionale nella civiltà occidentale diventa utilitarismo, e si indirizza alla reificazione delle produzioni culturali, al loro uso, in una trasvalutazione di ogni atto del pensiero in “prodotto” che non risparmia l’arte e la cultura del passato. In “Tutta la storia dell’arte”, lo “stile” - 19 -


arskey/Art | Vincenzo Agnetti

Vincenzo Agnetti, “Autoritratto�, 1971 feltro dipinto, cm 80 x 120 Milano, Archivio Vincenzo Agnetti


arskey/Art | Vincenzo Agnetti

Vincenzo Agnetti, “Autotelefonata (yes)”, 1972 pannello con 5 fotografie e scrittura a china 40,2 x 126,5 cm Lurago Marinone (Como), collezione Emilio e Luisa Marinoni

Vincenzo Agnetti, “Autotelefonata (no)”, 1972 pannello con 5 fotografie e scrittura a china 40 x 150 cm Milano, collezione Gianni Manzo

contemporaneo, che viene dopo l’arcaico e il classico, e che in quanto stile emblematizza un’epoca, esso è “numerato”. La numerazione che Agnetti chiama in causa, segnandola in quei pochi tratti contrassegnati da cifre, ha una duplice natura. Da un lato essa attesta la moltiplicazione dell’opera d’arte nella produzione dei multipli, quindi lo spirito democratico degli artisti contemporanei che contrastano la logica elitaria del pezzo unico; ma dall’altra a essere tematizzata è anche la produzione in serie dell’opera e la sua reificazione, il suo statuto di merce, il destino comune, la trasvalutazione di cui sopra. Ricordiamo infine l’opera del 1970 che prende il titolo di “Profezia”. Essa è costituita da due elementi, da collocare fianco a fianco: a destra l’unico olio su tela mai realizzato dall’Agnetti maturo, di grandi dimensioni (200x100 cm, una misura anch’essa inusitata per l’artista), che illustra semplicemente una grafico, composto di poche linee di diverso colore. L’ascissa e l’ordinata in nero, una linea verticale grigia e tre linee diagonali blu, rossa e gialla. A sinistra, parte integrante dell’opera, un testo in sette punti, intitolato esplicitamente “Istruzioni per l’uso del quadro”. Come va dunque

usata quest’opera? Il testo ce lo descrive nella sua formulazione e lo decodifica esplicitando il significato dei segni impiegati, altrimenti misteriosi. Le scritte “Muro della libertà” nella parte inferiore del quadro, e “Muro del benessere” in quella superiore indicano la dimensione esistenziale che abbiamo abbandonato, “dai tempi delle caverne”, la libertà dello stato di natura, e quella a cui storicamente, necessariamente, andiamo incontro, la contemporaneità dove il benessere viene fondato come valore ultimo. Le tre linee colorate, corrispondono ai tre sistemi politici dominanti nel mondo degli anni Settanta: il regime occidentale, cioè il capitalismo monopolistico incarnato nel sistema statunitense, il capitalismo di stato del blocco sovietico o socialismo reale che dir si voglia, e il sistema cinese, che allora sembrava a molti una valida alternativa alla sclerosi burocratica dei Soviet. Agnetti però già da allora li chiamava capitalismi tutti e tre, regimi dove sono le regole economiche a dettare legge: le tre linee si incontrano e uniscono, curvandosi, mentre procedono verso il futuro, cioè verso la realizzazione del Muro del benessere. Ogni linea è accompagnata da un “grande

Si”, dal simbolo stesso dell’accettazione di quel primato, o della resa a esso: “Yes”, “Da”, e l’ideogramma cinese, ciascuno delineato nel colore corrispondente alla linea cui fa riferimento. L’unificazione avviene “con violenza e diplomazia”, vale a dire con i diversi e complementari strumenti della politica. Una terza linea, grigia, cresce indisturbata verticalmente e assorbe alla fine le altre tre, la linea della scienza. Motivata dalla logica del profitto, la scienza si identificherà con la politica tout court, e lo scopo che si prefiggerà, il benessere (il profitto) sarà in grado di trascendere e comprendere “superandola” ogni visione del mondo alternativa. Unica logica a motore di questo futuro allora ancora lontano, quella del “fare per superare”, vale a dire la maledizione del progresso, proprio come lo definiva Benjamin nella potente raffigurazione dell’Angelo alle prese con le rovine della storia. Correva l’anno 1970, abbiamo detto: ci sono stati artisti (politicamente) più lucidi e più coerentemente impegnati di Vincenzo Agnetti, eppure chi più di lui è stato tanto (politicamente) profetico? - 21 -


arskey/Art | Goshka Macuga

LA STORIA E IL GENIUS LOCI

GOShKA MACUGA, CONTESTI E COSTANTI. MNEMOSyNE, IL LIVING MUSEUM, IL MOdERNISMO di Annalisa Pellino Classe 1967, formatasi tra Varsavia, sua città natale, e Londra, finalista del Turner Prize nel 2008, Goshka Macuga è fra gli artisti più interessanti emersi negli anni Novanta. È stata definita una 'meta-artista' e una 'ricercatrice indipendente'. Cresciuta in un paese dell’ex blocco sovietico, Macuga ha sviluppato una passione per l’accumulo di informazioni, oggetti e materiali, quasi naturale in un paese dove proibizionismo culturale e scarsità di beni di consumo andavano a braccetto e dove non ci si poteva sottrarre alla presenza di uno stato controllore e inibitore di ogni interesse considerato culturalmente 'esotico'. L’atteggiamento di Macuga, sostanzialmente analitico e strutturalista, la porta a evitare i percorsi lineari e la pretesa di offrire rappresentazioni omogenee della realtà, ma a muoversi piuttosto “in una sorta di equivalenza spazio-temporale, all’interno di un campo in cui la contiguità sincronica interagisce con la successione diacronica” (Menna).

Goshka Macuga, contesti e costanti. Mnemosyne, il Living Museum, il modernismo. La storia e il genius loci. Classe 1967, formatasi tra Varsavia, sua città natale, e Londra, finalista del Turner Prize nel 2008, Goshka Macuga è fra gli artisti più interessanti emersi negli anni Novanta. È stata definita una 'meta-artista' e una 'ricercatrice indipendente'. Cresciuta in un paese dell’ex blocco sovietico, Macuga ha sviluppato una passione per l’accumulo di informazioni, oggetti e materiali, quasi naturale in un paese dove proibizionismo culturale e scarsità di beni di consumo andavano a braccetto e dove non ci si poteva sottrarre alla presenza di uno stato controllore e inibitore di ogni interesse considerato culturalmente 'esotico'. L’atteggiamento di Macuga, sostanzialmente analitico e strutturalista, la porta a evitare i percorsi lineari e la pretesa di offrire rappresentazioni omogenee della realtà, ma a muoversi piuttosto “in una sorta di equivalenza spazio-temporale, all’interno di un campo in cui la contiguità sincronica interagisce con la successione diacronica” (Menna). Non è un caso infatti che in uno dei sui lavori più recenti, presentato alla Kunsthalle di Basilea “I am become Death”, 2009, Macuga si

sia ispirata, fra gli altri, a una figura di intellettuale come quella di Aby Warburg, considerato da un certo punto di vista il fondatore della storia moderna dell’arte, e che, proprio a Basilea aveva seguito le lezioni di Carl Justi. Sembra che l’artista abbia introiettato a tal punto la lezione di Warburg da farne quasi un metodo di lavoro oltre che un occasionale pretesto di ricerca, giustamente affascinata dai criteri con cui lo studioso amburghese collezionava libri e immagini e ancor più dall’ormai mitico “Atlante Mnemosyne”, o “Atlante della memoria”, la madre delle nove muse patrone delle arti. Il metodo-atlante messo a punto da Warburg (anche se l’idea gli era stata suggerita dal suo assistente e storico dell’arte austriaco Fritz Saxl), il quale diede vita tra l’altro all’ormai mitica biblioteca omonima, consiste nel far emergere i nessi di continuità della cultura tramite le immagini, inscindibili dal loro contenuto e background e attraverso le quali le idee riescono a sopravvivere. L’idea che sta alla base di Mnemosyne è quella di accostare le immagini per trarne collegamenti, diacronici e sincronici, risalendo al loro sottofondo culturale, proprio perché portatrici di quelle che Warburg definì

Pathosformeln, ovvero forme archetipiche che si stratificano e si sedimentano, per poi riaffiorare e ritornare con tutta la loro carica significante in contesti e tempi differenti e inaspettati della storia dell’arte. In modo analogo Macuga sembra concentrarsi su quelle costanti dell’arte, che informano l’opera fisica, ma allo stesso tempo la prescindono e vanno oltre, trasversalmente, nel tempo e nello spazio. Ma ciò che sembra aver colpito maggiormente l’interesse dell’artista polacca è stato il viaggio compiuto da Warburg nel 1896 tra gli indiani Hopi Navajo e l’attenzione dedicata dallo storico dell’arte a una danza propiziatoria dal carattere demoniaco imperniata sul simbolismo del serpente, un rituale che gli offre l’evidenza del cosiddetto Nachleben der Antike, ovvero della sopravvivenza dell’antichità, di civiltà arcaiche e pagane e di culture immaginifiche nel tempo presente. Così, se lo studioso individua una serie di analogie con i riti dionisiaci dell’antica Grecia, sempre legati alla simbologia del serpente, allo stesso modo l’artista collega le fotografie documentarie dell’esperienza di Warburg a quelle comprate su eBay da un ex veterano del Vietnam. In entrambi i casi, Macuga non si è limitata a reperire il materiale che le


arskey/Art | Intervista George Osodi

Goshka Macuga, “War Memorial Proposal”, 2009 Petrified wood, photographic print on acrylic, 75 x 85 x 37 cm Courtesy the artist and Kate MacGarry, London, Photo: Anna Arca

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arskey/Art | Goshka Macuga

MaCuga seMbra ConCentrarsi su quelle Costanti dell’arte, Che inforMano l’opera fisiCa, Ma allo stesso teMpo la presCindono e vanno oltre, trasversalMente, nel teMpo e nello spazio

occorreva per l’esposizione, ma ha compiuto un vero e proprio viaggio di ricerca, rispettivamente in Arizona e in Nevada, incuriosita in modo particolare dalla decisione dell’ex soldato di mettere in vendita le proprie foto che, come documenti di una storia personale ma anche collettiva e in virtù di questo doppio statuto, sono diventate il pretesto per realizzare una sorta di memoriale, a metà tra scultura e stampa fotografica. A rendere ancora più articolato e complesso il lavoro presentato a Basilea, è l’intreccio di una serie di storie diverse, con tutto il loro carico di mitologie e riferimenti non sempre immediati. A cominciare dallo stesso titolo, che invece ci porta in New Mexico, dove nel 1945 a seguito di un test nucleare il fisico Robert Oppenheimer, a capo della direzione scientifica del “Manhattan Project” (dal nome della sede segreta del programma scientifico che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche), recita un verso del poema sanscrito “Bhagavad Gita”: “Se nel cielo divampasse simultaneamente la luce di cento soli, sarebbe come lo splendore

dell'Onnipotente. Sono diventato Morte, il distruttore dei mondi”, ergo “I Am Become Death”. Mentre il “Manhattan Project” procedeva con i suoi esperimenti, sempre a New York nel 1942, il MoMA inaugurava una mostra dal carattere spiccatamente propagandistico e a sfondo patriottico. Il titolo della mostra, finalizzata a promuovere la forza militare degli Stati Uniti, era “Road To Victory: A Procession of Photographs of the Nation at War” e puntava attraverso una serie di gigantografie, scelte da Edward Steichen e commentate dal poeta Carl Sandburg, a incentivare l’immedesimazione degli americani per promuovere l’idea che ogni singolo elemento della nazione, dalle donne ai bambini, dagli operai ai contadini, fosse indispensabile alla vittoria del paese. L’esposizione risulta particolarmente significativa anche per altre ragioni. Innanzitutto perché la fotografia aerea, che oggi con Google sembra una cosa abbastanza scontata, allora fu un fatto davvero innovativo, soprattutto perché di guerra e presentata in una mostra, senza considerare poi che la precisione richiesta

alle immagini aeree portò a una nuova concezione fotografica, dando un impulso particolare alle nuove correnti dell’arte. Ma l’evento sembra incontrare l’interesse di Goshka Macuga soprattutto per questioni squisitamente museografiche: Herbert Bayer (già direttore del Bauhaus nei settori stampa e pubblicità) curò l’allestimento ricorrendo a un design sperimentale ed eliminando le pareti per lasciare lo spazio aperto a varie installazioni, puntando quindi molto più sull’impatto emotivo che non su quello tradizionalmente didascalico. Sempre legato a interessi museografici è il riferimento alla famigerata mostra a ostacoli di Richard Morris tenutasi alla Tate Gallery nel 1971 e chiusa nel giro di pochi giorni a causa dei numerosi infortuni. L’evento in questione è “Bodyspacemotionthings” che, concepito come una sorta di parco giochi, fu ripetuto nel 2009 sempre alla Tate: “bollettino medico 23 feriti”, ma Macuga è riuscita a far ricreare quattro degli oggetti-ostacolo di Morris, per la mostra a Basilea. Ci si chiederà ovviamente il perché di


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Goshka Macuga, "I Am Become Death", 2008 C-Print Courtesy die Kunstlerin/ the artist & Kate McGarry, London; Andrew Kreps, New York; Galerie Rudiger Schottle, Munchen/ Munich

questi riferimenti apparentemente così distanti fra loro. A noi pare di trovare un sottile filo rosso che tiene il tutto in un concetto come quello di sacrificio. Dagli studi di Warburg (1896) era emerso come il sacrificio cruento, legato al simbolismo del serpente, sia caratteristico tanto della religiosità occidentale quanto di quella orientale, dove l’immaginario che ruota attorno a questo animale era caratterizzato da elementi quali tentazione, sofferenza (Laocoonte) e distruzione, ma anche di riferimenti alle arti mediche (Asclepio), alla rigenerazione e alla continuità del tempo e della vita. Il veterano del Vietnam (1861-1975) in una delle fotografie comprate da Macuga tiene in mano un serpente, assumendo un atteggiamento curiosamente affine a quello degli indiani Hopi. “Road to Victory” (1942) celebra per immagini la possibilità della vittoria solo previo il sacrificio delle risorse umane della nazione intera, mentre “Bodyspacemotionthings” (1971) sembra proporre quasi una visione dell’arte stessa come rito e sacrificio, o come vero e proprio strumento per ferire il mondo e lasciarvi un segno

indelebile. Ovviamente la nostra è solo un’ipotesi di risposta, scelta fra le tante possibili a cui un lavoro così aperto, erratico, stratificato e complesso si presta e che offre diversi spunti all’approfondimento: vedi il rapporto tra il concetto di proprietà fisica e intellettuale dell’opera, o ancora tra l’accessibilità e i limiti/vincoli a cui questa si sottopone. Macuga infatti, dopo una prima fase di documentazione, mette alla prova i frutti delle sue ricerche, con quella che potremmo quasi definire una curatela d’artista. A partire da uno spazio e/o un’occasione che le viene offerta e, a seguito di un processo di scavo quasi archeologico nella sua storia, alla riscoperta del genius loci, l’artista tira fuori storie frammentarie ricucite in modo del tutto personale e dalle quali emerge ogni volta un disegno narrativo nient’affatto lineare. Si imbatte in documenti, fatti, immagini e soprattutto in opere altrui, che diventano oggetto di prestiti e peregrinazioni significanti. Una costante del suo lavoro consiste del resto nell’incorporare opere altrui in progetti d’ampio respiro, chiedendo

alle cose di mettersi in viaggio per andare a raccontare la propria storia, quella degli autori e dei loro contesti di origine, attraverso la loro stessa fisicità, attraverso l’evidenza della loro materialità. È con questo modo di procedere che Macuga si presenta alla Biennale di Berlino, usando pezzi di design altrui “Haus der Frau”, 2008, alla Galleria Martano di Torino, dove dialoga con l’opera di Pinot Gallizio (2010) e, ancora, nel più noto progetto realizzato alla Whitechapel Gallery di Londra in occasione del Polska Year “The nature of the Beast”, 2009, l’anno dedicato alla cultura polacca in Gran Bretagna. In quest’occasione l’oggetto cardine del progetto è stato nientemeno che l’arazzo ispirato a Guernica, commissionato nel 1955 da Nelson Rockefeller e realizzato con la collaborazione dello stesso Picasso nel famoso Dürrbach Atelier di Parigi. Ciò che questa volta sembra aver attirato l’attenzione della Macuga sono stati due eventi, il cui significato potremmo considerare di carattere uguale e contrario. Il primo è che, il dipinto “Guernica”, era già stato espo-


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i suoi vagabondaggi d’arChivio, sono seMpre viaggi nel passato, operazioni di sCavo, di disCerniMento, un risalire la China, Ma rigorosaMente e MetodologiCaMente disContinuo sto nel 1939 alla Whitechapel Gallery , come simbolo politico per raccogliere fondi a sostegno della Repubblica Spagnola e per scoraggiare la diffusione di movimenti e atteggiamenti fascisti. Il secondo è che l’arazzo, il quale intanto è stato affittato alla sede newyorchese dell’Onu perché rappresentasse un monito contro la guerra e da allora è appeso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2003 è stato coperto da una tenda blu in occasione del discorso di Colin Powell sull’opportunità di attaccare l’Iraq. L’attacco che ne seguì e di cui conosciamo il triste epilogo fu chiamato “Shock and Awe”, (colpisci e stupisci) una tecnica militare nota anche come “dominio rapido”, che pur teorizzando la necessità di minimizzare il numero di vittime e i danni collaterali, punta a neutralizzare comunicazioni e infrastrutture, paralizzando i flussi di informazioni e di beni di prima necessità come acqua e cibo. Ciò che ritorna, dalla prima all’ultima esposizione di “Guernica” al grande pubblico, che si tratti di dipinto o di arazzo, è l’impatto devastante che ogni conflitto inevitabilmente ha sulla società civile, come se il forte monito di Guernica-opera d’arte, non fosse riuscito negli anni a prevalere su quello di Guernica-simbolo della bestialità dell’uomo. E intanto si fa strada la riflessione amara sull’uso propagandistico che troppo spesso impacchetta l’arte facendole perdere il suo valore originario, anch’esso sempre contestuale e storico. È evidente che non si tratta, come spesso accade, di mera citazione, ma di un riannodare i fili di discorsi passati, ritessere la trama della memo-

ria, riaddensare il sottofondo corposo della cultura, artistica e non, perché attraverso il prelievo, Macuga riapre discorsi già fatti da altri continuandoli e sviluppandoli. Sottraendo le opere al limbo del piacere collezionistico e privato, le sottopone a incontri inediti e fecondi, facendole rivivere non tanto in forme, quanto in contesti nuovi e sempre aperti, quelli della partecipazione del pubblico e dell’attualizzazione. Non a caso il progetto prevede la possibilità di utilizzare la tavola rotonda, che fa parte dell’opera insieme con l’arazzo, la documentazione e il busto di Colin Powell, come punto di incontro e spazio di discussione, per chiunque voglia usufruirne e ne faccia richiesta. Una seconda versione dell’opera tra l’altro è stata acquisita dalla Cassa di Risparmio di Torino per le collezioni del Castello di Rivoli, mentre “Plus Ultra”, con cui l’artista si è presentata alla Biennale di Venezia del 2009 fa parte della collezione Re Rebaudengo, attualmente esposta nella mostra da cui prende il nome presso il MACRO Testaccio di Roma. L’attenzione che Macuga mostra di avere per il contesto, che è fonte costante di ispirazione, è tale che nel 2003, a seguito di una riflessione sulla storia dell’exhibition design, ripropone, con un vero e proprio rifacimento del “Kabinett der Abstrakten” (1927) di El Lissitzky, frutto della collaborazione tra il costruttivista russo e il suo ospite Alexander Dorner, allora direttore del Landesmuseum di Hannover, il quale gli aveva concesso come casa il piano superiore del museo. L’ambiente di El Lissitzky, il cui progetto era stato preferito a quello di Theo van Doesburg, fu concepito in

modo da trasformarsi e cambiare identità a seconda delle opere in esso contenute, scelta congrua anche con la natura di questo tipo di arte, la cui caratteristica principale era, secondo il direttore del museo, l’abbandono dell’idea di spazio reale. Come Dorner, che aveva scelto la via del pragmatismo per una reintegrazione della storia dell’arte, dell’estetica e del museo nella vita reale, Macuga riflette sul ruolo, sul valore e la giustificazione dell’opera d’arte storica nel contesto della vita moderna. Critico nei confronti di quegli artisti asociali, convinti che per mantenere una propria purezza di linguaggio interiore bisognasse appartarsi dalla società, ne “Il superamento dell’arte”, Dorner individua quelle forze che consentono di liberare l’arte dall’isolamento, lasciando che siano assorbite dalla vita. Ad esempio la dissoluzione delle distanze temporali per mezzo dello spazio museale, così come l’idea che l’arte storica dovesse essere esposta e messa in relazione/dialogo con la vita moderna, o ancora la visione antiromantica e antieroica dell’artista, la cui esperienza, se vista come qualcosa di eccezionale diventa automaticamente incomprensibile. L’idea che sta alla base del Living Museum ideato da Dorner è proprio quella di mettere insieme passato e presente, non imponendo l’uno sull’altro o stabilendo una relazione di causa-effetto, ma mostrandone le relazioni e gli scambi reciproci: coniugando la forma delle opere con quella dell’ambiente, usandole come tracce di processi più ampi e mettendole in relazione con la realtà presente, in uno, cercandone le corrispondenze. Del resto Dorner rifiutò la separazione


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Goshka Macuga, "Plus Ultra", 2009 Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

tra i musei d’arte antica e quelli d’arte moderna proprio perché riteneva che questo impedisse di coglierne la continuità. Nelle sue mani il museo diventa un vero e proprio strumento di comunicazione: le atmosphere rooms del Living Museum, a differenza delle period rooms (che invece mostrano uno specifico stile in una varietà di manifestazioni) sono ambienti intuitivi capaci di restituire il mood di ogni fase storica, offrono la visione generale di un periodo per una “comprensione moderna del passato”, perché solo una visione storica globale consente di vedere un’opera non solo come frutto di abilità tecnica. Macuga accoglie quindi in pieno anche la lezione di Dorner perché capisce che è determinante per la nostra ricezione dell’opera il modo in cui questa è stata recepita dai suoi contemporanei. Del resto in passato l’artista polacca aveva già collaborato su paradigmi collezionistici come quello della

“Wunderkammer” o su esempi di casa - museo come quella di Sir John Soane “Picture Room”, 2003, dove Soane viveva e costantemente si occupava di riarrangiare la collezione, combattendo così a suo modo contro le impietose cristallizzazioni del tempo. Da quanto detto emerge chiaramente il carattere multiforme dell’opera di Goshka Macuga, l’estrema varietà dei temi, delle personalità e dei problemi toccati seguendo anche solo superficialmente le sue documentazioni creative. Capiterà ad esempio di imbattersi in argomenti di primo acchito privi di connessione reciproca: il modernismo e le credenze popolari per fare un esempio, come nei progetti presentati nel 2006 alla 27ma Biennale di San Paolo “Mula sem Cabeça” e a quella di Liverpool “The Sleep of Ulro”. L’interesse per il modernismo e in particolare per il gruppo Unit One emerge altresì nell’o-

pera “Objects in Relation” (2007): fondato nel 1933 da Paul Nash e da una serie di artisti con influenze costruttiviste e surrealiste, seguiti dal critico Herbert Read. Anche in questo caso Macuga ha spulciato nell‘archivio della Tate Modern per restituire una visione intuitiva e soggettiva dei materiali, dei documenti e persino della corrispondenza personale di artisti come Henry Moore e Barbara Hepworth, che hanno impresso una decisa direzione modernista all’arte inglese degli anni Trenta. La tendenza all’appropriazione dei ruoli di curatore e collezionista, così come la profusione di attività e riferimenti variegati fa di Macuga una catalizzatrice di incontri, di eventi e di discorsi sull’arte. I suoi vagabondaggi d’archivio, sono sempre viaggi nel passato, operazioni di scavo, di discernimento, un risalire la china, ma rigorosamente e metodologicamente discontinuo.


arskey/Art | Rirkrit Tiravanija

GAVIN bROWN'S ENTERPRISE “fEAR EATS ThE SOUL”

RIRKRIT TIRAVANIjA: UN’ARTE dI “MENO OLIO E PIù CORAGGIO” di Stella Kasian Da oltre vent'anni Tiravanija porta avanti la sua propaganda artistica a suon di zuppe calde. Da New York a Beijing, da Amsterdam a Tokyo un’estetica del quotidiano che sazia stomaci e animi.

Rirkrit Tiravanija, “Fear Eats The Soul”, Gavin Brown's enterprise, NY, March 5- April 16 2011 Courtesy of the artist and Gavin Brown's enterprise

Il primo pasto caldo venne servito a tavola nell’ambito di una mostra collettiva allestita alla, oggi non più esistente, Scott Hanson Gallery di New York nel 1989. Da quel momento di piatti al curry Rirkrit Tiravanija ne ha offerti molti altri, sorridente e ospitale come un buon padrone di casa sa essere. Nei lavori di questo “happy Thai guy” il privato tende a scomparire, e le formalità a disperdersi. Le origini thailandesi dell’artista favoriscono certamente una visione della società in cui ogni relazione umana è concepita come familiare, in cui la condivisone dei beni, materiali e spirituali, è la norma. Il cibo stesso, scelto come protagonista della ricerca artistica, è da sempre mezzo di socializzazione da una parte, ma altresì attributo specifico e distintivo di ogni cultura. La personale recentemente inaugurata alla Gavin Brown’s Enterprise di New York prende il titolo da un film del 1974 diretto da Rainer Werner Fassbinder, “Ali - Fear Eats The Soul”. La paura che divora l’anima altro non è che la paura del diverso. Nella sua carriera il regista tedesco ha puntato lo sguardo e il dito sull’invalicabilità delle barriere sociali costruite sul pregiudizio.

Poco sembra cambiato negli ultimi trent’anni, eppure Tiravanija è ottimista. “Questa Società ha i Giorni Contati” inneggia l’artista sulle magliette offerte in omaggio ai visitatori della galleria. La ricetta vincente è una scodella di chicken tortilla soup da assaporare insieme qui e ora, come in futuro altrove. Un menù da riproporre ad amici vecchi e nuovi, per nutrirsi e crescere delle esperienze altrui. Già nel 1999 l’artista, nato nel 1961 a Buenos Aires ma residente negli Stati Uniti, riprodusse all’interno della galleria newyorkese una copia del suo appartamento sito nell’East Village. Per mesi sconosciuti si avvicendarono dormendo, mangiando, consumando rapporti sessuali all’interno delle mura “domestiche”. Apparentemente nulla di nuovo. L’idea che l’arte non sia un oggetto, tangibile e duraturo, ma piuttosto un processo ha radici ben salde. Negli anni Cinquanta Allan Kaprow conia il termine “Happening” per descrivere una nuova forma artistica in cui la partecipazione e l’interazione del pubblico sono la condizione necessaria per la performance stessa. Il pubblico cessa di essere mero spettatore di un’opera entrando attivamente

a farne parte, creandola di fatto. Il confine arte-vita è superato senza possibilità di ritorno; i sacri luoghi dell’arte profanati. I progetti di Tiravanija riproducono in parte le strategie critiche delle performance anni Sessanta e Settanta, nella mancanza di regole e nell’imprevedibilità dell’evento. Ma l’artista contemporaneo vuole andare oltre e superare definitivamente l’ostacolo della “vetrina” in cui movimenti come Fluxus, a suo avviso, alla fine incapparono. Non c’è interesse alcuno a fissare l’effimero trascorrere del momento creativo, perché questo è contingente e irripetibile, proprio come un incontro fra persone pensanti e interagenti. Poco importa che gli utensili da cucina utilizzati durante i banchetti allestiti dall’artista finiscano all’asta. Per Tiravanija un’opera d’arte è una “forma sociale (…) che gioca ruoli critici e riflessivi”, in grado di intessere relazioni umane positive. Nicolas Bourriaud, padre dell’Estetica relazionale, afferma che i criteri per valutare un’opera d’arte in progress e “partecipante” non possono essere estetici, ma piuttosto politici ed etici. Già Louis Althusser aveva sottolineato come la cultura non rifletta la società, ma piuttosto la produca. - 28 -


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Rirkrit Tiravanija, “untitled (he promised)” 2002 Courtesy of the artist and Gavin Brown's enterprise

Per tutte le immagini: Rirkrit Tiravanija, “untitled” 1999 (Tomorrow Can Shut Up and Go Away) Courtesy of the artist and Gavin Brown's enterprise

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Rirkrit Tiravanija, “untitled” 2011 (558 broome st, the future is chrome), 2011, glazed ceramic with palladium luster. Courtesy of the artist and Gavin Brown's enterprise

Fattore imprescindibile per generare cultura è la conoscenza. Tiravanija sa bene come combinare referenze storico-artistiche e modelli ideologici. Nel 2002 per gli spazi della Secession di Vienna concepisce “He promised”, riproduzione dell’abitazione dell’architetto Rudolph Schindler, originariamente costruita a Los Angeles nel 1922. Ogni elemento della copia è realizzato in ferro cromato lucido mentre il pavimento è fatto di specchi perché i visitatori smarriscano, nell’infinito rifrangersi delle strutture, anche il solo ricordo di una casa comunemente intesa e finiscano per riconoscere nell’installazione una tribuna per il dialogo. Il fac-simile è infatti rigorosamente aperto al pubblico che prende parte a proiezioni di film, concerti e dibattiti in programma per tutta la durata della mostra. La visione di un’architettura aperta, in cui interno ed esterno si completano reciprocamente come parti di un tutto, si sposa perfettamente con l’idea di un’arte fatta di azione e confronto. Due anni più tardi alla Portikus di Francoforte Tiravanija organizza un weekend di workshop per sperimentare le pratiche di Gordon Matta Clark, fondatore del ristorante gestito da soli artisti FOOD, nel cuore di Soho. Proprio lì, dal 1971 al 1973, il cibo fu il pretesto per stimolanti incontri culturali nella Manhattan più pulsante di quegli anni. “In the Belly of the Anarchitect”, che riprende ironicamente il titolo dell’opera di Peter Greenaway del 1987 (titolo originale del film “In the Belly of an Archictect”), si pone sulla scia di una tradizione dove arte, politica e quotidiano si tengono per mano. Tiravanija mostra il suo rispetto verso un’architettura che, in tempi diversi e secondo metodologie diverse, ha cercato di scappare dai confini convenzionali di ambienti chiusi e predefiniti alla ricerca di un perduto contatto fra uomo e ambiente circostante. Uno sguardo al passato e uno al presente. Le collaborazioni dell’artista sono innumerevoli.

Rirkrit Tiravanija, “untitled” 2011 (558 broome st, the future is chrome), 2011, glazed ceramic with palladium luster. Courtesy of the artist and Gavin Brown's enterprise

Nel 2003 Tiravanija è uno degli ideatori del progetto “Utopia Station” per la 50° edizione della Biennale di Venezia. Una lunga piattaforma su cui si aprono una serie di spazi espositivi. 150 artisti, fra cui Martha Rosler, Dominique Gonzalez-Foerster e Philippe Parreno, sono invitati a realizzare posters, sculture, dipinti legati al concetto di utopia. Una stazione ferroviaria immaginaria dove aspettare la prossima idea in partenza. “Utopia Station” ha rappresentato di fatto una sorta di succursale temporanea di “The Land”, sperimentale comunità auto sostenibile fondata nel 1998 nel villaggio di Sanpatong, vicino Chiang Mai in Thailandia. Un laboratorio di arte e vita le cui parole d’ordine sono collaborazione e integrazione. Co-curatore del progetto veneziano, insieme a Molly Nesbit, è Hans Ulrich Obrist. Ricordiamo che proprio Obrist nel 1991, ancora studente, organizzò una mostra nella cucina della sua abitazione invitando fra gli altri Christian Boltanski e Peter Fischli & David Weiss. Non è casuale questo esordio né tantomeno la più recente collaborazione con l’artista thailandese. Il curatore svizzero, accanito sostenitore dell’importanza della parola nell’arte, della necessità di aprire una via di comunicazione fra dentro e fuori, fra locale e globale, dichiara: “una mostra deve mettere in discussione la routine, riempire gli spazi di necessità e di urgenze, di opzioni (…) deve essere un viaggio senza una meta prestabilita, un percorso che si delinea strada facendo assieme al pubblico”. Tiravanija crede nell’arte, come strumento per uno scarto decisivo nell’approccio umano. La degenerazione del sistema capitalistico in cui viviamo porta, secondo l’artista, a una manipolazione e a un’omologazione dell’individuo. La risposta alla regressione sociale e culturale è la riscoperta delle diversità. Riprendendo e analizzando le teorie relazionali di Bourriaud, Claire Bishop

nel saggio “Antagonismo ed Estetica relazionale”, pubblicato la prima volta sull’“October” nel 2004, sottolinea come l’antagonismo non sia una minaccia alla democrazia, ma piuttosto elemento funzionale per bilanciare la tensione fra ideale immaginario e gestione pragmatica della società. È la presenza dell’“altro” che rende l’identità di ognuno precaria e vulnerabile. Il trucco è saper guardare a questa instabilità non come a un limite bensì come a un arricchimento. Siamo lontani dal considerare Tiravanija il santo benefattore dell’arte. La Bishop così continua: “Nonostante la retorica di un’apertura senza confini e di un’emancipazione dello spettatore, la struttura dell’opera di Tiravanija circoscrive il risultato in anticipo e riduce il suo scopo al piacere di un ristretto gruppo di persone che si identifica con i tipici frequentatori di gallerie d’arte”. La critica colpisce nel segno perché è indubbio che la rivoluzione di questo applaudito e discusso fenomeno dell’arte, come in fondo quella di tutti i movimenti “sovversivi” del passato dal Dadaismo alla Body Art, si muova all’interno di un circuito prestabilito, stretto intorno a coloro che entrano con coscienza nel dibattito aperto. Tiravanija non scende in campo per sconfiggere il problema di una nuova povertà che non fa nemmeno più distinzione fra Sud e Nord del mondo, per sanare un divario economico sempre più abissale. La sua battaglia rimane pur sempre una battaglia culturale. L’utopia di Rirkrit Tiravanija non è altro che uno spazio di ritrovo umano, dove le parole risuonino forti e chiare, vigorose e coraggiose, capaci di scalfire altri muri: “… Siamo tutti diversi, frutto di differenti situazioni, differenti battaglie, e dobbiamo rispettare queste diversità, dare loro spazio e voce, dare l’opportunità a ognuno di esprimere la propria opinione e il proprio essere, e dovremmo ascoltare e ascoltare bene”.



arskey/Art | Precursori #5

RUbRICA I PRECURSORI #5

dI LARRy CLARK E dEI SUOI SEGUACI di Luca Panaro Prosegue la rubrica periodica di Luca Panaro dedicata ai protagonisti dell'arte contemporanea che hanno anticipato le ricerche più attuali. Negli anni precedenti è stata riletta l'opera di Franco Vaccari e Bruno Munari, Luigi Ghirri e Gianni Colombo. In questo numero è invece il lavoro fotografico dello statunitense Larry Clark a essere esaminato come anticipatore della contemporaneità, per avere aperto la strada alla dilagante spettacolarizzazione del privato che ha contraddistinto le generazioni successive di artisti.

Larry Clark, “Untitled”, 1971 Courtesy Le Case D'Arte

Intorno agli anni Settanta, in concomitanza con il crescente interesse per il mezzo fotografico, alcuni artisti produssero le prime opere che videro nella spettacolarizzazione del privato una nuova strada di ricerca. L’accorgimento di cui stiamo parlando consiste nell’utilizzo della fotografia come strumento in grado di spettacolarizzare la realtà, coinvolgendo aspiranti 'grande fratello', curiosi di osservare 24 su 24 la vita altrui, oppure di esporre la propria allo sguardo indiscreto di sconosciuti. Una formula utilizzata in quegli anni con una certa frequenza, ma che ha trovato un massiccio consenso e una più esplicita applicazione negli autori degli ultimi decenni. Fra i primi artisti in grado di restituire la realtà in modo genuino mediante la fotografia, senza che questa venga alterata da azioni comportamentali dell'autore, è quella che possiamo riscontrare nelle immagini del fotografo statunitense Larry Clark (Tulsa 1943), regista di “Kids” e dei più recenti film “Ken Park” e “Wassup Rockers”, caposcuola ideale di una serie di autori che negli anni Novanta hanno utilizzato la fotografia come una sorta di diario per immagini, mostrando tutta la cruda e

a volte imbarazzante realtà delle scene rappresentate. Le fotografie della celebre serie “Tulsa” sono realizzate da Clark tra il 1968 e il 1971, nella cittadina dell’Oklahoma teatro della sua giovinezza. Le immagini raccontano storie di adolescenti alle prese con droga, sesso, alcool e Aids; qui l’autore si muove senza finzioni documentando una realtà che ben conosce e che sembra non voler tradire. Queste immagini hanno ispirato un’intera generazione di registi internazionali, come Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, che a loro volta hanno portato sugli schermi una nuova cultura underground, che forse partiva proprio da Tulsa. Larry Clark, con l’autenticità del suo sguardo, ci mostra fotografie molto intime e franche, che indagano sul mondo dei giovani con una particolare attenzione al faticoso e problematico passaggio sociale dall'adolescenza all’età adulta. Non si tratta di 'esposizioni' performative, come in quegli anni facevano gli artisti vicini alla Body o Narrative Art, ma di autentiche documentazioni della realtà, capaci di funzionare, diremmo noi oggi, come un Reality Show, nel momento in cui queste storie sono rese pubbliche e quindi

trasformate in spettacolo. Questa voglia di realtà ha negli anni successivi colpito vari autori, fotografi pronti a puntare l'obiettivo sulla propria quotidianità, fatta di ambienti domestici, trasgressioni o semplici attimi di vita sociale. In queste fotografie lo spettacolo mostrato è quello della vita, in tutta la sua brutale realtà. Gli eccessi dell'amore o del sesso, ma anche scene di una disarmante domestica intimità, si alternano così nelle immagini di importanti autori compagni di viaggio di Larry Clark. Come Nan Goldin (Washington DC, 1953) per esempio; l'artista qualche decennio fa presentò una proiezione di centinaia di diapositive intitolata “The Ballad of Sexual Dependency”. Pubblicato poi come libro nel 1986, “The Ballad” è il racconto della dirompente e talora distruttiva potenza dei legami che uniscono gli esseri umani. Sulla stessa lunghezza d'onda sono le immagini realizzate negli anni Novanta da artisti più giovani, come il tedesco Wolfgang Tillmans (Remscheid, 1968), nelle cui fotografie amici e coetanei sono colti nella quotidianità delle loro case, o ripresi in effusioni erotiche, o ancora negli ambienti della loro vita collettiva, nei locali notturni e nelle strade delle


arskey/Art | Precursori #5

Larry Clark, “Billy Mann”, 1963 Courtesy Le Case D'Arte

grandi metropoli occidentali. Ancora una volta è la realtà a trasformarsi in spettacolo. Le persone ritratte nelle fotografie di Goldin e Tillmans, così come i protagonisti dei Reality televisivi, sono consapevoli di avere di fronte una macchina fotografica e quindi di fare parte di uno spettacolo. È la stessa cosa che accade in famiglia quando si decide di fare una fotografia, si è consapevoli di prendere parte a uno spettacolo che vivrà poi fra le pagine dell'album dei ricordi. Anziché osservare un evento dall’esterno, così come fa il fotoreporter, questi artisti documentano la scena dall’interno, a stretto contatto con le persone che decidono di riprendere. Anche due fotografi provenienti dal mondo della moda come Juergen Teller (Erlangen, 1964) e Terry Richardson (New York, 1965), si sono sempre dichiarati estimatori della fotografia di Clark; questi autori hanno il merito di avere diffuso fra le pagine delle più importanti riviste patinate, uno stile diretto e aperto, una sorta di dialogo intimo tra la modella e il fotografo. La vita quotidiana è al centro anche di alcuni lavori di Richard Billingham (Birmingham, 1970). L’artista inglese, usando sia il mezzo video che quello fotografico, ha seguito per sette anni la difficile vita condotta dai suoi genitori; i continui litigi durante la cena, tra la madre violenta e il padre alcolizzato, che sembrano subire impassibili lo scorrere degli eventi. Le sue immagini sono

uno spettacolo interpretato da una famiglia operaia, in cui Billingham agisce tanto da spettatore estraneo (nel ruolo di artista) quanto da attore fortemente coinvolto (come membro di quella stessa famiglia). Più vicino alla musica punk, alla cultura grafica dei murales, in altre parole a tutto ciò che può essere definito Street Life, è il californiano Ed Templeton (Orange County, 1972). L’artista indaga la situazione sociale in cui vivono giovani skateboarder, le loro problematiche nelle relazioni con le famiglie e con gli altri compagni. L’attenzione di Templeton si focalizza sull’esistenza di chi come lui pratica questo sport, avendo con i suoi giovani colleghi un canale preferenziale di comunicazione, che gli permette di carpire quello che nessun grande reporter sarebbe in grado di estorcere con una 'istantanea' intrusione. Fra i giovani eredi di Larry Clark forse però il più promettente è Ryan McGinley (New Jersey, 1977) nelle cui opere fotografiche notiamo un passo in avanti rispetto alla ricerca degli altri artisti della sua generazione. Mentre le immagini dei suoi coetanei, che similmente rappresentano giovani alla scoperta della vita, continuano a essere severe, poco luminose e a volte drammatiche, come quelle realizzate da altri autori nei decenni precedenti, le fotografie di McGinley testimoniano invece una straordinaria vitalità. Allo stile on the road affianca una lucida volontà di raccogliere la bizzarra vita

metropolitana, evidenziando quei particolari che la rendono unica, quegli attimi che si vivono una volta sola e per questo sono degni di essere conservati. Il suo scopo è di rappresentare la nostra epoca con lo sguardo partecipe di chi l’ha vissuta in prima persona e intensamente. Lo smarrimento dei suoi amici, ripreso negli eccessi che caratterizzano una manciata di vite disordinate, diviene a noi famigliare poiché rappresenta un'epoca che stiamo vivendo, dove la gioia di gruppo rimane l’unico antidoto alla solitudine. Nonostante il mondo sia ormai pieno di suoi seguaci più o meno dichiarati, la ricerca di Clark non ha perso forza, anzi, continua a scandalizzare con le immagini di una gioventù perduta, priva di qualsiasi punto di riferimento. Si è chiusa lo scorso gennaio al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris una sua importante mostra retrospettiva, “Kiss the past hello”, la cui visione è stata vietata ai minori di diciotto anni. Come hanno riportato i quotidiani francesi, si è ritenuto che le immagini a sfondo sessuale e quelle che facevano riferimento all'uso di droga, potessero turbare la quiete degli adolescenti. Quarant'anni dopo “Tulsa”, i tabù della società contemporanea non sono cambiati, ora però Larry Clark non è più solo, sono tanti gli artisti ad avere seguito il suo insegnamento, esplorando ogni giorno quei territori visivi che soltanto la fotografia può trasformare in spettacolo.


arskey/Art | Robert Mapplethorpe

GETTy TRUST&LACMA: 'PARTNERS' PER MAPPLEThORPE

IL COLLEzIONISMO MAdE IN USA SPOSA LA CAUSA dELLA fOTOGRAfIA di Sara Panetti

Robert Mapplethorpe “Untitled (Sam- I Love You and Need You - Hurry Home-)”, 1974 Altered Polaroid Promised gift of the Robert Mapplethorpe Foundation © Robert Mapplethorpe Foundation.

Lunedì 7 febbraio 2011 si è celebrato il sodalizio tra due grandi colossi del collezionismo made in USA: il County Museum of Art di Los Angeles e il J. Paul Getty Trust. Con la stretta collaborazione della Robert Mapplethorpe Foundation, le due istituzioni si sono associate per acquisire più di 2mila fotografie dell’artista con l’intento di creare il più grande archivio di uno dei maggiori esponenti della fotografia del secolo scorso. Se si pensa all’opera di Mapplethorpe e alla calda polemica che si è trascinata dietro di sé sin dai suoi esordi si può cogliere facilmente il significato che un’operazione come questa viene ad assumere nel mondo delle arti figurative; proprio l’artista che osò associare in un binomio che poi divenne la sua cifra stilista, classicità ed erotismo, colui che lottò più di altri per garantire alla fotografia un posto di tutto rispetto nel podio olimpico delle cosiddette arti maggiori, vede ora crearsi un sodalizio ufficiale tra due istituzioni quali il LACMA e il Getty Trust per creare uno spazio di tutto rispetto per

la giovane musa. Los Angeles diviene così la 'residenza' ufficiale dell’artista raccogliendo non solo le opere più rappresentative del suo percorso stilistico, ma anche una ricca sezione di materiale vario d’archivio: lettere, negativi, polaroid e pezzi unici in grado di offrirne brillanti istantanee di una vita e di una carriera all’insegna del genio e della sregolatezza. Nato nel 1946 a Long Island da una famiglia cattolica medio borghese, studia pittura e scultura al Pratt Institute di Brooklyn. In ambito pittorico si muove tra collage e assemblage, ispirandosi alle cromie di Warhol, fino a quando scopre la sezione grafica di stampa e fotografia del Metropolitan di New York e si avvicina al medium prima da collezionista e poi da fotografo. I primi scatti degli anni Settanta riportano l’immediatezza della Polaroid bloccando in istantanee quasi familiari autoritratti e ritratti di amici artisti, iniziando a svelare i dietro le quinte del mondo omosessuale con una libertà di sguardo inedita e di grande impatto. L’erotismo e l’omosessualità,

colonne portanti della poetica di Mapplethorpe, si avvicinano, negli anni Ottanta, a una ricerca della forma pura che trova in una classicità quasi canoviana l’habitus più idoneo per rappresentare i nudi più spinti con un livello tecnico impareggiabile. Dalle polaroids a colori, passa a una sperimentazione continua del mezzo e del supporto che lo porta alla scelta drastica del bianco e nero come emblema di un rigore stilistico volto alla realizzazione dell’immagine pura, della forma assoluta, decontestualizzata e sciolta idealmente dalla realtà: operazione che solo il medium fotografico è in grado di compiere e in questo decisamente al di sopra della pittura. I corpi nudi, bloccati in una gestualità all’estremo dell’erotismo sono solo un pretesto da cui prescindere per il raggiungimento della forma autentica, della bellezza vera, in tutte le sue possibilità. Una fotografia plastica quella di Mapplethorpe che propone una visione del mondo di grande schiettezza e semplicità, mettendo a nudo le icone moderne con un procedimento


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Robert Mapplethorpe “Self Portrait”, c. 1970 Black and white photo with mixed-media collage . Promised gift of the Robert Mapplethorpe Foundation. © Robert Mapplethorpe Foundation

inverso, se vogliamo, rispetto a Warhol che ne ha declinato i volti all’infinito serigrafandoli con gli stessi accostamenti cromatici stridenti delle lattine di salsa di pomodoro da supermercato; Mapplethorpe gli ha tolto il colore, li ha immobilizzati nelle pose più disarmanti, rendendoli vulnerabili e, al tempo stesso, forti di una bellezza autentica, antica e paradossalmente classica. L'artista, oggi celebrato come uno dei più importanti del XX secolo, muore a New York nel 1989 per complicazioni dovute all'infezione da virus HIV. Questa collaborazione segna senza dubbio una svolta nella politica museale odierna mettendo in luce l’importanza di una concreta interazione tra istituzioni 'culturali' in un’epoca di grande crisi economica; il LACMA e il Getty stanno, infatti, progettando una serie di monografiche per mostrare e pubblicare il lavoro svolto avviando una cooperazione per mostre, prestiti e scambi accademici. Se si pensa all’entità delle due istituzioni si può comprendere la risonanza che una tale partnership può ottenere a livello nazionale e internazionale. Con i suoi 5.600 m2 e i più di 100mila 'oggetti' d’arte conservati al suo interno, il LACMA è oggi il più grande museo degli Stati Uniti occidentali. Indipendente dal 1961, conserva nei suoi sette padiglioni che ricoprono nel complesso una superficie di più di 20 ettari nel bel mezzo di Los Angeles, una raccolta d’arte enciclopedica che spazia dalle culture protostoriche alla

Robert Mapplethorpe “Self Portrait”, 1980 Gelatin silver print Jointly acquired by LACMA and The J. Paul Getty Trust. Partial gift of The Robert Mapplethorpe Foundation; partial purchase with funds from The David Geffen Foundation and The J. Paul Getty Trust. © Robert Mapplethorpe Foundation

contemporaneità di grido: dall’arte precolombiana all’estremo Oriente, da Diego Rivera a Damien Hirst. L’acquisto da parte del LACMA è stato reso possibile da una donazione della David Geffen Foundation; queste le parole del curatore: “Sono estrema-

mente felice di sostenere l'acquisizione di opere d'arte e documenti di uno dei più significativi artisti del ventesimo secolo in grado di dare alla città di Los Angeles la statura di uno dei più importanti centri per la fotografia nel mondo”. Per il Getty una


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simile acquisizione s’inserisce, invece, nella volontà di privilegiare il taglio dell’istituzione monografico accogliendo un altro 'grande' delle arti figurative d’avanguardia del secondo Novecento, all’interno delle sue collezioni. Nato come piccolo Museo di antichità nel 1954 per volontà di un ricco petroliere, J. Paul Getty, è oggi tra le più ricche istituzioni d’arte al mondo. Per mezzo dei suoi quattro organi vitali Getty Museum, Getty Research Institute, Getty Conservation Institute, e Getty Foundation, il Getty Trust si propone una civilizzazione a vasto raggio della società attraverso l’arte. Per dirla alla David Bomford, sarebbe bello pensare ad un “unico grande museo di Los Angeles” che potesse diventare il simbolo di una grande “macchina della cultura” che si proponesse come un dialogo aperto con il mondo che rappresenta e in cui è rappresentata. Noto ai più per la celebre ricostruzione della Villa dei Papiri e, pur privilegiando indubbiamente l’arte rinascimentale, il Getty Museum sposa oggi la causa della fotografia schierandosi a favore del suo definitivo riconoscimento all’interno dell’habitat museale. È ormai noto che, dal 1839 a oggi, la fotografia si sia mascherata più volte da 'pittura' per tentare il suo ingresso nel mondo delle arti figurative utilizzando gli espedienti più disparati, dal fotomontaggio alla doppia esposizione, dalla fotoincisione alla gomma bicromata, pur portandosi sempre appresso il pesante fardello di continuare a essere, nonostante tutto, un ottimo ed esatto strumento di documentazione. Solo con l’avvento della Straight Photography, nella seconda metà del Novecento, il medium fotografico iniziò ad affermare la propria indipendenza manifestandosi nella propria identità e non nascondendo l’obiettivo sotto le false vesti di un 'pennello tec-

Robert Mapplethorpe “Calla Lily”, 1988 Gelatin silver print Jointly acquired by LACMA and The J. Paul Getty Trust. Partial gift of The Robert Mapplethorpe Foundation; partial purchase with funds from The David Geffen Foundation and The J. Paul Getty Trust. © Robert Mapplethorpe Foundation

nologico'. Aprendosi poi con le avanguardie alle più inaspettate contaminazioni ecco che anche la fotografia cambia nome, forse per compiere la definitiva metamorfosi da bruco in farfalla, o forse semplicemente per levarsi di dosso l’antico retaggio di “documento”, stanca di essere la povera ancella di una divinità più grande. Ecco che arrivano le shadografie, i rayogrammi, la vortografia, il fotomontaggio, la cronofotografia, il collage, e tutte quelle nuove forme di 'estensione tecnologica dell’individualità' che allontanando l’aulicità dell’oggetto unico dai musei e introducendo la poetica della duplicazione, del raddoppiamento, della copia, del ready-made, innalzano la fotografia al pari di tutte le forme di espressione artistica, a costituire quel linguaggio simbolico condiviso che va sotto l’etichetta di arte contemporanea. È dunque alla luce di Robert Mapplethorpe tutta una serie di considerazioni “Untitled”, c. 1971 che si può sostenere l’importanCylindrical cage with dice, glove, and rabbits' feet Promised gift of the Robert Mapplethorpe Foundation za che viene ad assumere nel presente e, guardando ad un © Robert Mapplethorpe Foundation

futuro prossimo, un’iniziativa quale quella di queste due istituzioni americane per la definitiva ufficializzazione dell’autodeterminazione dell’immagine fotografica all’interno del contesto museale. È Thomas Gaehtgens, direttore del Getty Research Institute ad affermare: “A causa della loro profondità e ampiezza, tali materiali saranno utilizzati non solo come risorsa primaria per gli studi su Mapplethorpe, ma come un enorme 'data base' per la ricerca su una vasta gamma di argomenti, tra cui il crescente riconoscimento della fotografia come forma d'arte e i mutamenti nel mercato dell'arte nella seconda metà del XX secolo”. Non potrebbe forse essere, quest’associazione tra il LACMa e il Getty, un nuovo modo per le arti figurative di far giocare la globalizzazione imperante a proprio favore interpretandola, anziché come una mera e sterile unificazione degli stili di vita e dei simboli culturali, come un modo per creare una potente rete fra le ultime nicchie del mondo culturale, al fine di salvaguardare quel poco di 'bellezza' che ancora è rimasta in circolazione?


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arskey/Art | 54° Biennale di Venezia

54° bIENNALE dI VENEzIA

A VENEzIA SI ACCENdONO I RIfLETTORI SU UN MONdO dI ARTE CONTEMPORANEA di francesca berardi

Katharina Fritsch, “6. Stilleben”, 2011 Photo Composition for Venice Art Biennale 2011 ©VG BILD-KUNST, Bonn

“Mentre l’ultima Esposizione Internazionale d’Arte “Fare Mondi”, ha messo in luce la creatività costruttiva, ILLUMInazioni si concentrerà sulla 'luce' generata dall’incontro con l’arte, sull’esperienza illuminante, sulle epifanie derivanti dalla comunicazione reciproca e dalla comprensione intellettuale”. È con queste parole che Bice Curiger, direttrice della 54esima edizione della Biennale di Venezia, sintetizza il significato del titolo che ha scelto per la prestigiosa manifestazione, che tra il 4 giugno e il 27 novembre 2011 porterà nel capoluogo veneto migliaia di visitatori. Presa coscienza della Biennale come 'macchina auto-dinamica', avente un’impostazione definita, il compito che si assume la Curiger è di lavorare dall’interno, per assicurare che la

Biennale continui, come auspica il Presidente Pietro Baratta a essere una “macchina del vento, che a ogni edizione porta una ventata di aria nuova e fresca”. Curatrice della Kunsthaus di Zurigo dal 1993 e cofondatrice di Parkett, la rivista pubblicata tra Svizzera e Stati Uniti dalla metà degli anni Ottanta, Bice Curiger intende così insistere su due grandi tematiche, la 'luce' e le 'nazioni', che nella varietà e complessità dei loro significati, alimentano la riflessione sull’arte, sul suo pubblico e sulla società in epoca contemporanea. La luce è anzitutto l’anima dell’opera di Jacopo Tintoretto, pittore veneziano che la Curiger ha voluto richiamare tra i protagonisti della sua Biennale per sottolineare l’importanza della riflessione dell’arte contemporanea

sulla storia. Un’evoluzione da considerarsi come un flusso di energia continuo e non come una successione di nomi e soluzioni estetiche, abbattendo la convinzione che l’energia spigionata da un quadro cinquecentesco non possa conciliarsi con le forme espressive più contemporanee, e anzi dimostrando che sia in grado di innescare meccanismi di rafforzamento reciproco. 'Luce' è anche il pensiero emanato dalle opere, che sempre di più necessitano di trovare nuovi e diversi punti di contatto con il pubblico, per continuare a comunicare qualcosa al mondo. Un mondo in cui la tendenza ad abbattere i confini tra stati si scontra con la lotta per la difesa delle identità nazionali, dove l’imposizione di un sistema globalizzato in continua e incontrollabile espansione porta a un


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Monica Bonvicini, “Light Me Black”, 2009 147 fluorescent lights, white metal fixtures, steel structure, electrical cables, 2 breakers, steel chains approx. 160 x 550 x 140 cm, height variable Installation view: Galerie Max Hetzler, Berlin, Monica Bonvicini, Bet Your Sweet Life, 2010 Photo credits: def image

rinnovato interesse per dimensioni e culture locali. È così che ILLUMInazioni pone l’accento anche sulle nazioni, alla faccia di chi considera anacronistica l’organizzazione della Biennale in Padiglioni. La storia in divenire, le dinamiche e gli equilibri (precari) del mondo contemporaneo, si riflettono piuttosto nel numero delle nazioni partecipanti alla kermesse: quasi novanta, contro le settantasette del 2009. Si contano infatti nuove presenze, come India, Andorra, Haiti e Bangladesh, e significativi ritorni, come l’Iraq, assente dal 1976. L’attualità, gli stravolgimenti in corso, si riconoscono poi sulla rinuncia di Libano e Bahrain per le emergenze di politica interna che si trovano ad affrontare, o dalla presenza, messa in discussione e poi confermata, dell’Egitto, il cui padiglione ospiterà le opere di Ahmed Basiony, giovane martire delle rivoluzione,

ucciso al Cairo lo scorso gennaio. Ottantadue artisti, di cui trentadue giovani nati dopo il 1975 e trentadue donne, saranno così protagonisti di una delle più prestigiose vetrine sull’arte contemporanea mondiale. Perché la Biennale, secondo le stesse parole di Pietro Baratta, “non detta le linee al mondo, ma riceve dal mondo informazioni”, è una piattaforma dove si incontrano le nuove idee, un punto di arrivo e di partenza per le ricerche contemporanee in campo artistico. In questo senso gioca un ruolo importante l’intenzione, condivisa con la Curiger, di favorire il pubblico nell’assumere uno sguardo vivo e partecipato. Con decine di artisti in mostra e un percorso espositivo lungo e articolato, si incorre sempre nel rischio che la Biennale appaia come una successione di opere, una dietro l’altra, un catalogo di

oggetti confinati nei padiglioni da vedere uno dopo l’altro. La curatrice svizzera ha quindi cercato di mettere in discussione il punto di vista dello spettatore, giocando sul rapporto tra arte, spazio e sguardo. Nasce così l’idea dei parapadiglioni, quattro spazi espositivi creati da Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong e Oscar Tuazon per ospitare lavori di altri artisti. Per favorire il coinvolgimento del pubblico e della città, sono stati poi organizzati oltre 40 eventi collaterali alla Biennale dislocati per la città, e avviati progetti come Biennale Sessions e Meeting Arts, rivolti a studenti e appassionati che vogliono approfondire i temi della manifestazione e dell’arte contemporanea prendendo parte a seminari e incontri con artisti, curatori, filosofi e teologi. - 39 -


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ART&GREEN

URbAN CULTURE, URbAN AGRICULTURE di Claudia zanfi

Altelier le Balto, “Temporary Gardens” Courtesy the artists

Riconosciuto come uno dei fondatori del nuovo corso artistico e tra i più influenti pensatori per le giovani generazioni, Joseph Beuys affermò che “l’arte deve essere in grado di modificare il mondo in un luogo migliore”.1 A trent’anni dalla famosa azione di Beuys a Kassel - con il progetto di imboscamento di oltre 7.000 querce nella città - molte cose sono cambiate e molto è stato seminato da quel primo gesto rivoluzionario, che ha desiderato creare un luogo di contatto tra natura, cultura, società. Questi concetti possono trovare punti in comune con il pensiero del paesaggista francese Gilles Clément e in particolare con il tema di Terzo paesaggio. “Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di una attività umana subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Questo insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della

luce. Si situa ai margini. Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio diffuso per la diversità. Per natura, il Terzo paesaggio costituisce un territorio per le molte specie che non trovano spazio altrove. Terzo paesaggio rinvia a Terzo stato: uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere.”2 Tra i primi teorici italiani che negli anni Settanta hanno sottolineato la necessità di ripensare allo spazio urbano come uno spazio per possibili utilizzi agricoli alternativi, Andrea Branzi nella sua opera “Agronica”3 afferma che: “Scoprire l'agricoltura come universo di tecnologie naturali complesse, come sistema di trasformazione ambientale in grado di fornire serie diversificate di prodotti commestibili, capace di adattarsi a programmazioni reversibili, alimentata da energie genetiche deboli, stagionali, eco-compatibili. Una agricoltura in

grado di fornire un modello autoregolato di produzione industriale basata su energie naturali governabili; dunque una agricoltura che non rappresenta più il mondo delle tecnologie pre-industriali, ma che al contrario occupa uno spazio nuovo di estrema sofisticazione gestionale e produttiva”. Per un mondo complesso come il nostro, impegnato a sopravvivere a se stesso garantendosi un alto livello di flessibilità, la città contemporanea deve iniziare una lunga stagione di sperimentazione e di riformismo. Ecco dunque l'idea di una città trasformata in libera disponibilità di componenti costruttive mobili, disperse in un parco agricolo semi-urbanizzato. Da queste riflessioni di Andrea Branzi si sviluppa il concetto di “Oasi Verde Garibaldi”, commissionato all’interno del più ampio progetto “GREEN ISLAND”. Già da tempo impegnato nella teorizzazione di spazi giardino per le città, piccoli angoli di


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pausa e di incontro, oasi urbane, Branzi propone un giardino pensile (o ‘oasi verde’) da realizzare sotto la pensilina nord della Stazione Garibaldi Zona Isola Milano. Nell’idea dell’autore le due quote del giardino della Stazione, tra loro leggermente sfalsate e separate, saranno visibili dall’esterno come un ‘sandwich’ luminoso, leggero e traforato. Le essenze da inserire in questo contesto così particolare (esposto direttamente a nord, solo parzialmente illuminato dal sole e protetto dalla pioggia) sono scelte tra quelle più adeguate e collaudate da tradizioni locali nei cortili delle case di ringhiera, come i nespoli, la magnolia, il bambù, l’edera e altri cespugli. A questo giardino si aggiungono sedute e tavoli cablati, per favorirne un uso non esclusivamente decorativo. Così Andrea Branzi pensa al primo giardino italiano da realizzarsi all’interno di una stazione ferroviaria, luogo di transito, ma anche di incontro e di condivisione. Il disegno progettuale “Oasi Verde Garibaldi” vuole dimostrare quanto la componente vegetale, utilizzata come materiale da costruzione tanto per il progetto architettonico che per quello urbano, costituisca di fatto un elemento chiave per la trasformazione su basi ecologiche della città contemporanea. La natura nell’epoca postindustriale è una natura secondaria, di seconda mano, post-culturale (e poststorica, il ‘dopo storia’ nei testi di Pasolini degli anni Settanta). Rovine (lotti vuoti, zone residuali e di scarto prodotte dalla società post-industria-

le) che ci appaiono come fotografie e a cui associamo una potenzialità poetica, afferma Catherine David, introducendo il lavoro di Lois Weinberger a Documenta X.4 Tra gli autori che nell’ultimo decennio hanno saputo trasformare il rapporto ‘arte&giardino’ il duo Atelier le Balto lavora principalmente sulla ridefinizione e il miglioramento dello spazio pubblico nell’ambiente urbano, con una particolare attenzione alla biodiversità e alle piante pre-esistenti nei luoghi in cui operano. I loro ‘temporary gardens’ sono solitamente degli interventi minimali e creano un’estetica sviluppata dall’osservazione dello spazio, le condizioni circostanti e gli elementi già presenti nel luogo. Si potrebbero definire creatori di giardini, o ‘giardinisti’ (giardinieri+artisti, come afferma il botanico Jean-Claude Nicolas Forestier). Atelier Le Balto è stato spesso invitato da istituzioni e musei a realizzare veri e propri giardini, al confine tra arte, architettura del paesaggio e giardinaggio: tra i più noti l’installazione “Wild Garden” per il Palais de Tokyo di Parigi e “Garden KW 01” per il Kunst Werke di Berlino. Nella loro filosofia il giardino è un luogo che va vissuto percorrendolo, è qualcosa da attraversare: questo vuol dire che una volta che lo si attraversa, si sarà trasformati e si vedranno le cose in modo diverso. In alcuni dei loro progetti il percorso ha luogo anche tra giardini diversi, da giardino a giardino. Questi percorsi permettono una riscoperta della città, con il proposito di spostare le persone dalla strada, al di

là di un muro, dietro un edificio, fin dentro un cortile. Dopo essere stati in un giardino, i visitatori riescono a guardare diversamente l’ambiente che li circonda. Iniziato nel 2002, “GREEN ISLAND” è un laboratorio attivo tra comunità e territorio. È il primo progetto artistico dedicato al verde e alla sostenibilità per le vie del quartiere Isola a Milano. Si sviluppa tra le piccole botteghe artigiane che hanno iniziato la propria attività sull’asse di via Pepe (retro della stazione ferroviaria di Porta Garibaldi), di fianco a quelle già esistenti e agli storici laboratori di fabbri, falegnami, liutai. Il progetto è di fatto precorritore di tendenze e pratiche artistiche diffuse negli anni successivi: utilizzo trasversale di vari linguaggi, installazioni urbane, copertura di staccionate o muri con poster d’autore, ecc… Esperti in agronomia, sociologia e architettura del paesaggio, ma anche fotografi, designer e artisti partecipano alla riflessione e alla realizzazione di progetti dedicati a una nuova idea di sostenibilità urbana. Per l’edizione 2010 è stato invitato l’artista olandese Ton Matton, già presente alla Biennale di Architettura di Venezia del 2008. Il progetto “The Urban Orchard” (Il Frutteto Urbano) consiste nella realizzazione di un nuovo concept di frutteto temporaneo appositamente per l’atrio della Stazione Garibaldi. L’installazione, che sarà realizzata per la prima volta a Milano durante la settimana del Fuori Salone, consiste in dozzine di alberi da frutto impiantati in vasi mobili e colo-

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Ton Matton, “The Garibaldi Gardeners” Courtesy Studio Matton; aMAZElab

Ton Matton, “Il Frutteto Urbano”, Courtesy Studio Matton; aMAZElab

la Città ConteMporanea deve iniziare una lunga stagione di speriMentazione e di riforMisMo

“GREEN ISLAND”, bookcover, Damiani Editore 2008 Courtesy aMAZElab

Andrea Branzi, “Agronica - Domus Academy” Courtesy l'autore

Andrea Branzi, “Oasi Verde Garibaldi” Courtesy Studio Branzi; aMAZElab


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rati disegnati da Matton stesso, nutriti con un apposito sistema di autoalimentazione eco-sostenibile progettato dal designer. Si crea così una sorta di zona verde ‘indoor’, un piccolo bosco, un frutteto urbano che alimenta realmente (i frutti potranno essere raccolti dai passeggeri) e metaforicamente l’idea della Stazione come un’agorà, come spazio di condivisione, di incontro, di scambio e di ‘alimentazione’ culturale. Attraverso soluzioni minime, l’autore interviene nel paesaggio urbano preesistente e all’interno di una stazione ferroviaria, creando spazi e situazioni nuove, ma allo stesso tempo integrate nel contesto in cui vengono a dialogare. Contrario alle convenzioni e alle categorizzazioni che tendono a separare arte-designsocietà, Matton pratica una sorta di ‘utopia quotidiana’ rivolta a una maggiore consapevolezza delle possibilità di auto-produzione e di auto-alimentazione. Alla fine degli anni Novanta recupera una vecchia scuola elementare abbandonata, nella campagna a nord di Berlino. Qui realizza una sorta di città autonoma il Werkstatt Wendorf, centro di ricerca, studio di progettazione, abitazione, luogo di sperimentazione, residenza per artisti e designer, fattoria. Questo luogo semi-autartico e indipendente, rappresenta per Matton la necessità di coniugare uno stile di vita più equilibrato in rapporto con la natura e le necessità imposte dalla città contem-

poranea. Tra i vari artisti e le tante realtà di collettivi, intellettuali e attivisti che hanno scelto di riportare un pezzo di campagna in città e di concettualizzare il rapporto arte e giardino, la coppia di artiste norvegesi Ingrid Book e Carina Hedén. Il loro lavoro consiste in uno spazio in cui le pratiche sociali - generalmente considerate separate da altre pratiche più ‘istituzionali’ quali arte, urbanismo, architettura del paesaggio, agricoltura, economia - vengono considerate componenti essenziali per un più ampio discorso di networking. “Military Landscape”, commissionato dalla Kunsthall di Bergen, è un progetto sulla inaccessibilità dei luoghi, la necessità di ‘vedere di più e capire di più’, di uscire da forme di rappresentazione statiche per una nuova lettura della città e dello spazio pubblico. Il loro lavoro porta a riunire una moltitudine di voci e di visioni da sociologi, biologi, architetti, scrittori, agricoltori, alle ONG su tematiche quali l’agricoltura urbana e le politiche sulla proprietà della terra. In “The Field / O Campo”, realizzato per la Biennale di San Paolo, le autrici trasformano una fattoria in progetto artistico, partendo dall’idea di un archivio dedicato alle pratiche dell’agricoltura. Attraverso un’attenta raccolta di documentazione fotografica le autrici evidenziano la necessità del concetto di ‘archivio’ come elemento per la ricostruzione dell’identità di un luogo, dell’apparte-

Altelier le Balto, “Light Garden” Courtesy the artists

nenza, dell’uso dello spazio pubblico e di quello privato. La modalità in cui Ingrid Book e Carina Hedén si avvicinano a questi temi dimostra che il concetto di ‘luogo’ rappresenta non soltanto una realtà privata o geopolitica, bensì un costrutto artistico e visuale. Perciò la loro azione e la raccolta fotografica di luoghi, oltre a costituire una riformulazione sull’identità, è soprattutto un atto politico. Nel ciclo di incontri “Urban Utopias”, organizzati da Ute Meta Bauer nel dipartimento di Visual Arts al MIT di Boston, la questione aperta resta la seguente: “Può la nostra società realizzare delle 'utopie temporanee'? Può il giardino del futuro essere un giardino urbano di sussistenza?” Domande importanti che necessitano riflessioni urgenti.

1- AA.VV, Joseph Beuys, “Difesa della Natura”, Silvana Editoriale, Milano 2007 2- Gilles Cléments, “Manifesto del Terzo Paesaggio”, Quodlibet, Macerata 2004 3- Andrea Branzi, in “Branzi, Bartolini, Lani. Eindhoven, un modello di urbanizzazione debole”, estratto da ARCH’IT 19 Febbraio 2002 4- Catherine David, in “Green Island. Piazze, Isole e Verde Urbano”, (Damiani Editore, Bologna 2008), volume che documenta i primi cinque anni del progetto. Il libro è suddiviso in tre sezioni: una raccolta di testi teorici di alcune tra le voci più rappresentative sull’argomento: Andrea Branzi, Catherine David, Manuel Gausa, Gilles Cléments, Critical Gardens, Tom Trevor e altri. Una selezione di realtà internazionali che operano in vario modo alla salvaguardia del verde temporaneo. La terza sezione è dedicata al progetto collettivo di via Pepe Zona Isola Milano.

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AL MUSEO

arskey/al Museo| Palazzo Reale-Milano

AL MUSEO SALA dELLE OTTO COLONNE 19 MARzO

WILLIAM KENTRIdGE & MILANO SOUNdS fROM ThE bLACK bOX di Aurora Tamigio

Nell’anno internazionale dell’Africa, la dedica di Milano a uno dei più grandi artisti del continente passa da alcune delle sedi più prestigiose della città. Teatri, musei, gallerie: aprire a Kentridge le porte delle istituzioni della città vuol dire non solo riaffermare il ruolo culturale dell’Africa nel mondo ma anche attribuire un riconoscimento tutt’altro che scontato ad una delle personalità più influenti del panorama artistico mondiale. Nel ricco panorama di eventi che l’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano ha organizzato per William Kentridge (nel palinsesto anche il Teatro Verdi, la Scala, la Triennale, la Galleria Lia Rumna) Palazzo Reale si riserva di presentare dal 16 marzo al 3 aprile 2011, la grande mostra “William Kentridge &Milano”, a cura di Francesca Pasini, con l’esposizione “Breathe”, “Dissolve”, “Return” e la performance-concerto “Sounds from the Black Box”. Nella Sala delle Otto Colonne di Palazzo Reale, il 19 marzo 2011 l'inedita performance-concerto ha visto i musicisti Idith Meshulam e Vincenzo Pasquariello accompagnare con musiche di Philip Miller le proiezioni di otto film storici di Kentridge, “Journey to the Moon”, “Memo”, “Medicine Chest”, “Hotel”, “Stereoscope”, “Rhino (from Black Box)” e, tratti dai “Carnets d’Egypte”, “Plagues” e “Isis Tragedie”. Il filo conduttore per gli otto film è, su dichiarazione di Kentridge, il Sudafrica che, anche laddove non è immediatamente riconoscibile rappresenta uno sfondo inscindibile dal contenuto del racconto, non solo per implicazioni politiche spesso ricercate dalla critica fino all’esagerazione, ma anche per costituirne spesso il carattere di originalità. Persino in un film tendente al fantastico come “Journey to the Moon”, citazionistico e onirico, il Sudafrica è in qualche modo protagonista. Poco più

di 7 minuti di animazione, realizzati mediante 40 disegni a carboncino su carta, di cui 20 provengono dai precedenti “Seven Fragments for Georges Méliès”. “Un razzo a forma di proiettile si schianta su una faccia rotonda. Quando vidi per la prima volta il film di Méliès, all’inizio di questo progetto, mi accorsi che conoscevo già quest’immagine molti anni prima di aver sentito parlare del regista”. Kentridge fa suo l’immaginario del cineasta francese attivo tra fine Ottocento e inizio Novecento e sostituisce il razzo spaziale e il telescopio con la caffettiera e una tazzina ma soprattutto alla luna di Méliès di fine età coloniale preferisce il paesaggio dei dintorni di Johannesburg, di Germiston per la precisione. Quello che è davvero sensazionale è la scioltezza con cui Kentridge mescola i piani del disegno e della recitazione con espedienti di manipolazione dell’immagine come il ralenti e l’accelerazione oppure con il cosidetto live cinema realizzato pienamente nella ripresa delle formiche, che sostituiscono nella rappresentazione dei pianeti le soubrettes di Méliès. L’ambientazione sudafricana è davvero più che uno sfondo in “Stereoscope”, proiettato per la prima volta al MoMA di New York il 13 aprile 1999. Lo stesso autore del resto ha definito il film “Un ritratto di Johannesburg, come il resto della mia opera”. Composto di 65 disegni a carboncino e pastello su carta, è il più 'grafico' dei film di Kentridge. Compare qui Soho Eckstein, alter ego artistico di Kentridge. Concepito in origine come una marionetta sullo stile di George Grosz, è su di lui che si sperimenta la riflessione sull’umano e forse una delle più belle sequenze dell’artista sudafricano, ovvero quella che vede Soho aprirsi in due in una falla e perdere acqua fino a riempire lo schermo di blu. In “Stereoscope” si potrebbe in effetti parlare più che di

un fil rouge di un fil bleu. L’accorgimento stilistico di interrompere il bianco e nero del carboncino con il pastello blu attira l’attenzione dello spettatore su alcuni nodi del racconto, come i cavi dell’elettricità o del telegrafo, punti pulsanti della città. Qualcuno ha ridotto “Stereoscope” ad un messaggio politico, soprattutto per il ricordo di Majakovskij in più di un punto, ma se è vero che emerge qui, più che negli altri film di Kentridge il contesto delle rivolte sociali e cittadine, con il procedere della narrazione queste perdono il loro valore di denuncia in favore di una virata claustrofobica, umanizzata, dove il protagonista più che la città è il personaggio alter ego, Soho. Se da un punto di vista artistico to the Moon” e “Journey “Stereoscope” sono più colti e stilisticamente corretti, picchi di originalità e creatività estrema si raggiungono in “Memo” e “Medicine Chest”, rispettivamente del 1994 e del 2001. “Memo” fu realizzato in tre giorni in collaborazione con gli amici artisti Deborah Bell e Robert Hodgins. I disegni in stile flip-book, le scenografie elementari con disegni minimalisti, che su stessa dichiarazione di Kentridge si ispirano ai dipinti di Hodgins, e la lunga esercitazione mimica soprattutto sul gesto di asciugarsi la fronte, dilatato a rallentatore fino a durare 45 secondi, fanno di questo film un prodotto surreale, che cita addirittura il bagaglio delle avanguardie degli anni Venti nell’orologio e nello stesso tema di tenere a sé la memoria che nonostante tutto fugge lasciando spazio solo al tempo che passa. “Medicine Chest” è un’installazione schermo-specifica, ovvero una di quelle proiezioni che usa uno schermo trovato, un écran trovè. Qui lo schermo è l’armadietto dei farmaci, che fa da autoritratto-specchio, e diffonde i molteplici messaggi pubblicitari e le


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William Kentridge , “Breathe, Dissolve, Return/Dissolve’: Breathe, Dissolve, Return (Dissolve)”, 2008, video still from installation

indicazioni trovate sui medicinali (For external use only) insieme a notizie trovate sui giornali nella settimana in cui Kentridge realizzava il film (“Shopping mall’s bloody sunday”). Non può sfuggire il riferimento a Chardin e Morandi per le nature morte. Gli ultimi due film di Kentridge sono stati accompagnati da una sua performance inedita, tratta dal ciclo dei 12 film dei “Carnets d’Egypte”. L’artista sudafricano ha scelto di interpretare dal vivo due film, “Plagues” e “Isis Tragedie”. Di fronte ad un leggio, con uno strumento a fiato che ricorda vagamente l’ormai celebre vuvuzela sudafricana, Kentridge ha accompagnato testi e musiche di Philip Miller ispirate dall’antica civiltà egizia e dalla Iside di Jean-Baptiste Lully. Il suono della voce dell’artista, trasformato in una frase atonale si raccorda con frammenti della musica di Lully. La riflessione sul suono torna anche nella realizzazione di una ‘musica’ mediante lo stropiccio di alcuni fogli, oppure della sovrapposizione di più sé che tornano replicati sullo schermo in

diverse pose e in atto di suonare strumenti diversi cui l’artista risponde sempre dal vivo con un’ulteriore performance sonora e recitativa. William Kentridge è attivo fin dalla metà degli anni Settanta. La sua arte registra le contraddizioni, le incertezze, la brutalità, l’imperfezione e la bellezza di un’Africa che cambia. Affronta i temi dell’impegno e della politica, ma riflette soprattutto sull’uomo, sulle sue contraddizioni, sulla bellezza. Oltre a farsi interprete dei tempi, Kentridge rende conto di un’intera cultura visiva che muta, mediante l’utilizzo di tecniche più disparate, dal carboncino su carta, al video, dalle marionette fino al live cinema. La sua attività si divide tra cinema e teatro eppure ciò che da sempre dà l’input alla sua arte è il disegno, la più tradizionale e antica delle tecniche. Kentridge ricerca un minimalismo di immagini che riporta ad un primitivismo tutto africano: le figure tracciate sono istantanee, graffiate sul foglio mediante un’immediatezza che non concede ripensamenti e si affida all’improvvisazione. A questo scopo,

pur con l’avanzare della tecnica digitale e del ritocco, l’intervento dell’autore sui suoi film una volta montati è minimo e si limita a manipolazioni narrative come l’accelerazione o il ralenti. Per una sera la sala delle Otto Colonne di Palazzo Reale, proprio come auspicato della curatrice Francesca Pasini, si è trasformata in una sorta di teatro privato, che ha ricostruito in piccolo i grandi spettacoli in questi giorni nei teatri di Milano e che ha reso conto di quella che la stessa curatrice della mostra ha chiamato “La grande tastiera linguistica di Kentridge”. Qui i tasti neri del disegno, della scultura e della pittura sono indispensabili quanto quelli bianchi di musica, cinema e teatro per la realizzazione della sinfonia dell’arte di William Kentridge. Sudafricano di Johannesburg, classe 1955, una collezione di personali in tutto il mondo, dal MoMA di New York alla Biennale di Venezia. Scenografo, regista, performer, ha curato le scene e la regia del “Flauto Magico” di Mozart e messo in scena il “Naso” di Shostakovich. - 45 -


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fONdAzIONE CASSA dI RISPARMIO dI MOdENA

QUATTRO. OLIVO bARbIERI, VITTORE fOSSATI, GUIdO GUIdI, WALTER NIEdERMAyR

AL MUSEO

di fulvio Chimento

Vittore Fossati Dalla serie “Belle Arti”, 1993-1998 Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

All'ex Ospedale Sant'Agostino di Modena è possibile visitare la mostra dal titolo “Quattro”, ultimo sforzo della Cassa di Risparmio di Modena e del curatore Filippo Maggia. I protagonisti dell'esposizione sono Olivo Barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi e Walter Niedermayr: ognuno racconta attraverso le immagini gli sviluppi della fotografia e della realtà italiana dalla fine degli anni Settanta a oggi. Prosegue in questo modo la ricognizione da parte della Fondazione Fotografia sulle principali tematiche legate all'immagine contemporanea, in un'indagine che garantisce alla città di Modena un ruolo di spicco nel panorama nazionale delle arti. In mostra sono presenti oltre settanta immagini, tra cui spiccano anche prestiti d'eccezione scelti dagli stessi fotografi. L'evento è accompagnato da un ricco catalogo bilingue a cura di Claudia Fini e Francesca Lazzarini, edito da Skira, che raccoglie le opere entrate in questa occasione nella collezione della Fondazione Fotografia. Per il numero e la rappresentatività degli scatti, la sezione riservata a Walter

Niedermayr (Bolzano, 1952) all’interno della mostra può essere considerata una personale, destinata, infatti, a transitare anche al di fuori del territorio nazionale, nell’ambito della programmazione di importanti musei europei: venti opere di grande formato affiancate da una selezione di video realizzati dallo stesso artista. L'interazione tra l'uomo e l'ambiente impervio della montagna è il tema centrale di gran parte della produzione del fotografo, al momento uno dei più quotati a livello nazionale insieme a Barbieri. Il turismo di massa ha creato conseguenze devastanti sul paesaggio montano, sia in termini di presenza che di costruzione di infrastrutture. All’apparenza spettacolari, gli scatti seriali creano nell’osservatore una sorta di disorientamento sollevando interrogativi legati alla percezione visiva dello spazio, oltre che agli effetti dell’azione umana sulla natura. Alcuni scatti presenti all'ex Ospedale Sant'Agostino di Modena hanno di fatto segnato la storia della fotografia italiana. Come per esempio i lavori su porto Marghera e su una cava nei

pressi del Monte Grappa realizzati da Guido Guidi, nato a Cesena nel 1941, vero e proprio cardine della fotografia italiana contemporanea, uno dei primi a immortalare il paesaggio marginale della provincia e le grandi aree industriali. In questo filone si inseriscono anche le immagini tratte dal lavoro "Rimini-Nord" e quelle scattate nel 1989 a Gibellina in Sicilia, in cui lo sguardo del fotografo cesenate è paragonabile a quello di un archeologo, che, come in uno scavo stratigrafico, riesce a far convivere nell'immagine i segni del passato e quelli del presente. Olivo Barbieri, che nella città emiliana è di casa (nasce a Carpi nel 1954), è presente in mostra con due serie di opere realizzate all'inizio della propria carriera: "Flippers" (1977) e alcuni altri scatti di poco successivi, eseguiti in Italia e in Francia con lo scopo di indagare le realtà periferiche, aspetto che diverrà, con le dovute rivisitazioni, il suo marchio di fabbrica. La serie "Flippers", presentata alla Galleria Civica nel 1978 con un testo critico di Franco Vaccari, segna il debutto di Barbieri nel mondo dell'ar-


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gli sviluppi della fotografia e della realtà italiana dalla fine degli anni settanta a oggi Guido Guidi “17771 Gibellina 2XI 89”, 1989 Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

Olivo Barbieri “La Source”, Francia, 1982 Fondazione Cassa di Risparmio di Moden

te che conta. I flippers, uno dei simboli della cultura pop occidentale degli anni Cinquanta-Sessanta, sono da lui smembrati e privati della propria funzione originaria, presentandosi come frammento dell'immaginario collettivo di un'epoca. Vittore Fossati, nato ad Alessandria, presenta in mostra la sua famosissima serie "Viaggio in Italia", citando uno dei capolavori cinematografici di Roberto Rossellini, girato nel 1954, proprio nello stesso anno di nascita del fotografo piemontese. Viene riproposta la sua celebre fotografia del 1981, "Oviglio, Alessandria", nella quale un arcobaleno domina un paesaggio di campagna e contribuisce a creare lo schema prospettico della scena. Motivi ricorrenti della sua produzione sono rintracciabili nell'acqua

dei fiumi, che scava la terra lasciando i segni del suo passaggio, nei cieli azzurri sempre diversi allo sguardo, o ancora nei rami degli alberi: elementi naturali in grado di creare autonomamente dei piani prospettici. La fotografia, rispetto ad altre forme artistiche, ha il privilegio di poter restituire la realtà senza la mediazione di filtri. Le mostre organizzate dalla Fondazione non hanno mai una finalità prettamente estetica, il curatore Filippo Maggia si ripropone di indagare i mutamenti sociali che si riflettono nelle immagini. In Italia, il periodo storico dal 1975 al 1990, ampiamente documentato in mostra, è stato segnato da una trasformazione dolorosa per la società e per il paesaggio, definitivamente trasformato dai gran-

Walter Niedermayr “Yazd”, Iran 37/2005 Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

di complessi industriali, e, in maniera ancora maggiore, da un abusivismo edilizio senza regole e controllo. Sono gli anni in cui si afferma una sottocultura pop di serie B, in cui muore l’idea di rinascita legata agli anni SessantaSettanta (da questo punto di vista la serie "Flippers" di Barbieri è una premonizione), e in cui la società dei consumi vince la propria battaglia attraverso la definitiva affermazione della tv commerciale; sono gli anni in cui vengono gettate le basi che daranno vita all'individualismo sfrenato dei nostri giorni. Aspetti, questi, che costituiscono una ‘sottotraccia’, presenti anche nelle opere di Barbieri, Guidi, Niedermayr e Fossati. In questo consiste una delle peculiarità comunicative della fotografia contemporanea.


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MUSEO CANTONALE d’ARTE dI LUGANO

LA COLLEzIONISTA ChRISTIAN STEIN ALIMENTARE LA VITA CON L'ENERGIA RIGENERANTE dEGLI ARTISTI

AL MUSEO

di Giulio Cattaneo

Christian Stein

“Credevo di morire e ho cercato qualcosa che mi parlasse della continuazione della vita e del futuro… l’Avanguardia artistica era quello che mi proiettava nel futuro: a questa mi rivolsi con tutte le mie forze”. È in questo momento di immensa fragilità, come racconta Margherita Stein, alias Christian Stein, in alcune note autobiografiche inedite e raccolte nel suo archivio, che decise nel 1966 di aprire la sua prima galleria in via Teofilo Rossi a Torino, sede che chiuderà nel 1972 quando si trasferirà nella centralissima piazza San Carlo, così da sottolineare l’aspetto più da casa-museo che di vera e propria galleria d’arte.

Stein si sposterà nel 1985 a Milano, in via Lazzaretto e successivamente in via Amedei, questi spazi diventeranno veri e propri laboratori di scambio culturale, centri vocati alla diffusione dell’avanguardia italiana, andando a definire l’immensa figura che diventò Stein per il mondo dell’arte italiana. Parte da queste premesse l’esposizione “Collezione Christian Stein. Una storia dell’arte italiana”, realizzata dal Museo Cantonale d’Arte di Lugano in coproduzione con l'IVAM, Institut Valencià d’Art Modern di Valencia, che ha già ospitato parte del percorso espositivo nei suoi spazi museali. In mostra sono presenti circa cento

opere, selezionate tra le oltre novecento che compongono la collezione Stein, e che raramente sono state esposte prima o, al contrario, sono state cedute ai migliori musei del mondo, e che concorrono unitariamente a ripercorrerne l’evoluzione, mitica narrazione di un momento irripetibile della storia culturale europea, vera e unica pagina della storia dell’arte italiana e del movimento dell’Arte Povera. Se a Valencia gli spazi museali tipici del white box avevano concesso la possibilità di un ordinamento monografico e cronologico delle opere selezionate, andando a creare un vero e


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Luciano Fabro, “Italia d’oro”, 1971 bronzo dorato. 92 x 45 cm Collezione privata

Mario Merz Da sinistra a destra: “From Continent to Continent”, 1993, “Senza titolo”, 1982, “Igloo con albero”, 1968-1969 IVAM, Valencia, 2010

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AL MUSEO

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Fausto Melotti, “Contrappunto VIII”, 1971 inox, 60 x 240 x 26 cm Collezione privata

proprio museo dell’arte italiana del primo dopoguerra; l’esposizione svizzera si caratterizza invece per una scelta più 'intimistica', dettata anche dagli spazi espositivi, più vicina all’idea di casa-galleria tipica delle situazioni create della stessa Stein nelle sue case-gallerie. Le opere sono perciò raccolte per assonanze cognitive, partendo da piccoli spunti, da idee, emozioni, che i curatori, Jean Louis Maubant, scomparso prematuramente lo scorso settembre, Francisco Jarauta (IVAM Valencia) e Bettina Della Casa (Museo Cantonale di Lugano), hanno voluto stimolare nel pubblico. Un percorso libero, che riaccende il duplice binario con cui Christian Stein portava avanti il suo lavoro, mescolando la vita privata a quella da gallerista, in una continua condivisione tra spazi privati e spazi della galleria. La mostra si apre con un’incredibile successione di concetti spaziali di Lucio Fontana, tagli su tela monocroma rispettivamente verde, rossa e bianca datati tra il 1962 e il 1968, anno della scomparsa dell’artista, e con un potente lavoro del 1947-1948, “Battaglia”, in cui la terracotta è modellata secondo sviluppi barocchi tipici del periodo delle porcellane, riportando alla mente la furiosa battaglia di Anghiari. Completano e arricchiscono la prima sala due superfici di Castellani, una del 1971 in blu e una bianca del 1982, ma in collezione troviamo anche una precoce superficie grigia del 1961 che, piena di vibrante

Giulio Paolini, “Saffo”, 1981 due fotografie montate tra due sagome di plexiglas, supporto e base di plexiglas, fotografie e sagome con supporto 76 x160 x20 cm base 60 x 160 x 40 cm. misure complessive 136 x 160 x 40 cm Collezione privata

fascino cromatico, esibisce già con successo la griglia strutturale intro ed estroflessa dando un ordine ritmico intrinseco alla tela di difficile definizione; due installazioni musicali di Fausto Melotti, “Parole”, del 1980 e “Ifigenia”, del 1978, sottili teatrini sospesi nel tempo; la “Ruota”, del 1964, in equilibrio precario, nell’attimo stesso del suo farsi, di Luciano Fabro e da contraltare tre grandi e austeri 'Cementi armati' di Giuseppe Uncini, tra cui il particolare “Cementarmato n. 12” del 1961, in cui la definizione spaziale orizzontale è sottolineata dai tondini di ferro che si liberano dalla materia, e lo strutturato “Cementarmato lamiera” del 1959, in cui il cemento è racchiuso in un blocco unitario che sporge grazie all’utilizzo della lamiera. Una prima sala che vale la visita a tutta la collezione, con pezzi molto importanti per la poetica di ogni singolo autore chiamato in causa. “La galleria mi andava bene perché funzionava in un certo qual modo”, racconta la Stein, “per cui non ero costretta a imprimere a essa una spinta centrifuga, ma piuttosto centripeta. In altre parole esponevo delle opere che via via andavo gelosamente collezionando. La piccola collezione di Fontana e Manzoni si accrebbe subito con le opere di Lo Savio, […] di Kounellis, e gli acquisti li feci a ogni mostra, per cui basta guardare il curriculum della galleria e si avrà un’idea delle mie scelte”. Ottima in questo senso la ricostruzione, effettuata grazie alla documentazione degli archivi

della galleria e riportata nella sezione degli apparati del ricco catalogo redatto per la mostra, che ripercorre cronologicamente tutta la storia espositiva della galleria, dalla sua apertura nel 1966, sino alla chiusura, nel 1996, della sede torinese di piazza San Carlo, anno che coincise con il ritiro a vita privata di Stein, mentre la galleria milanese, nella sede di Corso Monforte 23, continua tuttora la sua attività sotto l’egida di Gianfranco Benedetti, suo collaboratore dal 1985, portando avanti la concezione eticoprofessionale della Stein e rinunciando ad aderire alle oscillazioni volubili del mercato e delle mode ma intessendo una stretta e diretta relazione con gli artisti e la loro storia creativa. L’elenco delle mostre organizzate dalla Stein riflette poi una precisa idea nei confronti dei suoi artisti preferiti, Merz, Paolini ma anche Boetti, di cui acquista l’intera esposizione organizzata nel 1967 e che è riportata in mostra, a conclusione del percorso, come un piccolo gioiello da scoprire e custodire; seguono anche Salvo, Zorio, Parmiggiani, Penone, non sottovalutando comunque la portata innovatrice dell’arte americana (ospita e acquista le opere di Judd, Oldenburg e Warhol), rimanendo però sempre legata al gruppo dei poveristi italiani. Non possiamo non sottolineare la sua collaborazione newyorkese con la galleria di Barbara Gladstone, in quegli anni legata ad artisti come Nauman, Flavin, LeWitt, Turrell, Long, Wiener oltre ai già citati Judd e Oldenburg.


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Gino De Dominicis, “Figura con stelle”, 1995 tempera su tavoletta di legno 51 x 37,5 cm Collezione privata

L’esperienza americana, dal 1989 al 1992, le permise di dare maggior respiro e ampliare la sua cerchia di artisti, creando un interessante interscambio culturale; mentre a New York, nella SteinGladstone Gallery, esponevano con successo Fabro, Paolini, Merz, Zorio, a Milano giungevano Gilbert & George (1989), Claes Oldenburg (1990), Günther Förg (1991). Come sottolineava Maubant, “la collezione è eccezionale anche per il modo - poetico, potremmo dire - in cui si è costituita. Margherita Stein, senza disinteressarsi dei dibattiti politicoestetici degli anni Settanta, molto vivaci e ricchi a Torino, si è fidata solo di questa sorta di impegno viscerale personale. 'Una grazia', diceva lei, un amore per l’arte fatto di intuizione, di spontaneità, di senso del bello”. La mostra riesce così agevolmente, il grande lavoro curatoriale è assimilabile alla Stein stessa nella creazione della sua collezione e del suo programma espositivo, che come abbiamo visto corrono praticamente sullo stesso binario, a presentare e a portare alla luce non solo un pezzo fondamentale della storia dell’arte contemporanea italiana ma anche a farci apprezzare il gusto dell’epoca e capire come il peso emozionale di un’opera, il valore spirituale di un artista, riesca a trasformare un gallerista in un vero e proprio collezionista, preoccupato di conservare l’arte per le generazioni future. È la stessa Stein a sottolineare in un’intervista a Bruno Corra nel 1991 come “cedere le opere che amo

Jannis Kounellis, “Senza titolo”, 1969 struttura in ferro, bilancine, metaldeide 190 x 164 x 10 cm Collezione Margherita Stein Proprietà Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea – CRT in comodato presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino Photo Paolo Pellion di Persano, Torino

sia sempre una lacerazione”, preferendo spesso trattenerle per se, in attesa di donarle a qualche museo che le possa avvicinare al giusto pubblico, alcune delle opere provengono infatti dal Castello di Rivoli e dalla GAM di Torino a cui sono state date in comodato d’uso. Proseguendo il percorso espositivo della mostra, si sviluppano maggiormente quelle analogie cognitive che i curatori hanno voluto mettere in luce, avvicinandoci al gusto stesso della Stein e alla dinamicità della sua collezione. Nel corridoio del secondo piano la serie numerica di Fibonacci con testa di renna, “Senza titolo”, del 1982 di Merz, è messa in dialogo con “Rapsodie inepte”, del 1969 di Calzolari, attento ai passaggi di stato della materia e alla precarietà del senso dell’essere delle cose, e con l’installazione “Il panorama fin verso oltremare”, del 1996 di Anselmo, in cui la leggerezza dell’oltremare si confronta con l’immobilità della pietra, sviluppando così l’interesse dell’artista verso le azioni di avvicinamento e di comunicazione tra realtà di segno opposto. Seguono una serie di piccole stanze, dove le opere sono in stretta relazione tra loro; i due busti neoclassici di Paolini, “Mimesi”, del 1976, dialogano apertamente con la “Donna che indica”, del 1982, superficie specchiante di Pistoletto, e con l’immenso “Piede”, del 1968 di Fabro, dove il marmo colaticcio fuoriesce perdendo matericità dalla seta. Ancora Fabro, in un’altra saletta, con “Italia d’oro” del 1971, appesa a testa

Michelangelo Pistoletto, “Art International”, 1968 carta velina dipinta su acciaio inox lucidato a specchio, 230 x 120 cm Collezione privata

in giù, apre una riflessione sul confine, sulla geopolitica, in cui si inserisce l’intenso igloo nero di Merz, “From continent to continent”, del 1993 e un’altra superficie specchiante di Pistoletto, “Art International”, del 1968, che apre il dialogo al mondo dell’arte, dove il ragazzo dipinto è ritratto mentre sfoglia una rivista d’arte. L’indagine sulle modalità di strutturazione e trattamento della superficie pittorica dopo il periodo informale, partendo dall’annullamento di Manzoni, presente in mostra con diversi Achrome, si sviluppa presentando accostati in un’unica sala la “superficie n. 12” di Uncini, la precoce e vibrante “superficie grigia” del 1961 di Castellani, con la sperimentazione di Kounellis in “Senza titolo”, 1968, dove appaiono i primissimi sacchi di juta che vengono, in questo caso, solamente appoggiati alla tela bianca e alle ricerche più concettuali di Paolini, presente con l’opera “Senza titolo” del 1961, in cui una tela volutamente lasciata bianca, con un tiralinee poggiato sopra, è impacchettata e sigillata da una pellicola trasparente. “Penso che ho fatto un lavoro, con gioia (grandissima), con rabbia (talvolta), con appassionato studio, con un contatto umano e di mente con gli artisti che mi ha immensamente arricchita… Un’altra cosa desidero si sappia: ho conservato sempre la mia libertà e indipendenza”. Margherita Stein.


arskey/al Museo| MAXXI

MIChELANGELO PISTOLETTO

dA UNO A MOLTI, 1956-1974 E CITTAdELLARTE. PISTOLETTO AL MAXXI VERSO UNA NUOVA CIVITAS

AL MUSEO

di Matteo Antonaci

Michelangelo Pistoletto, “Venere degli stracci”, 1967. Marmo, stracci. 190x250x140 cm Cittadellarte – Fondazione Pistoletto Foto: Paolo Pellion di Persano

É un doppio percorso espositivo quello che il MAXXI, dal 4 Marzo al 15 Agosto, dedica a Michelangelo Pistoletto. Nate in collaborazione con il Philadelphia Museum of Art e curate da Carlos Basualdo, le due mostre “Da uno a Molti”, 1956-1974 e “Cittadellarte”, come suggerisce Anna Mattirolo, direttrice di MAXXI Arte, hanno l’ambizione di analizzare il lavoro dell’artista secondo l’unico filo conduttore che è esplicitamente indicato dal titolo. “Da uno a Molti”, appunto, ossia dall’artista allo spettatore, dall’opera alla società, per arrivare a “Cittadellarte”, il progetto avviato nel 1994, attraverso il quale Pistoletto porta avanti l’idea di un’arte capace di avere un forte valore sociale. Il simbolo dell’infinito (cantato da Gianna Nannini, coinvolta in “Cittadellarte”) è il logo di questo nuovo progetto, che unisce diversi segmenti della vita sociale. Dalla comunicazione, alla politica, dalla moda, all’alimentazione, per una civitas che possa fungere da Terzo Paradiso, sintesi della vita terreste e del suo riflesso nel paradiso immaginario, isola in cui ricreare civiltà, attraverso la libertà e la responsabi-

lità che l’arte contemporanea ha insegnato. Parole, apparentemente retoriche, che, nonostante tutto, Pistoletto riesce a utilizzare con minuziosa attenzione, attraverso quella teatralità che permea buona parte della sua opera e la capacità di creare brand ed economie - com’è tipico di tanta produzione artistica contemporanea ma, al contempo, di renderla oggetto intellegibile e ammirabile da tutta la società - cosa che la produzione artistica contemporanea riesce a fare sempre meno -. Eppure la dicotomia artista/società non è semplicemente risolta nell’intervento sociale del creativo, ma si manifesta in un movimento che è prima di tutto storico. Ed è proprio questo il nucleo tematico che si nasconde sullo sfondo dei percorsi espositivi presentati al MAXXI. Utilizzando perfettamente tutte le potenzialità della struttura museale creata da Zaha Hadid (come non si era riusciti a fare nella mostra dedicata a De Dominicis), caratterizzata dalla mancanza di spazi definitivamente chiusi, il curatore Carlos Basualdo pone radicale attenzione al rapporto tra le opere e lo spazio dislocandole

come su una linea temporale disordinata e discontinua in cui lo spettatore è libero di creare il proprio percorso. Allora, ecco che da un lato appare il tempo dell’artista, la linea cronologica che lega le sue opere, la sua evoluzione estetica e poetica, qui suddivisa in sezioni continue, mai delimitate o nettamente separate l’una dall’altra (dalle prime opere a olio ai primi Quadri Specchianti, dai Plexiglass a I Comizi, dagli Oggetti in Meno agli Stracci fino all’archivio di azioni e performance de Lo Zoo); dall’altro lato, invece, la riflessione sul tempo portata avanti nelle opere (in modo particolare nei Quadri Specchianti) diviene ulteriore specchio della storia italiana. Il rapporto artista/spettatore/società si estende nel tempo su un’asse cronologico che taglia, divide, spezza l’intera mostra, come in frammenti di universo che ogni spettatore è libero di interpretare soggettivamente. Già nei primi autoritratti “Autoritratto seduto, Gold Self Portrait” Pistoletto analizza il concetto di tempo cercando di eluderlo e di affermare un’idea di presente continuo. Utilizzando vernici da barca e distendendole a tal punto da creare


arskey/al Museo| MAXXI

Michelangelo Pistoletto, “Tavolino con disco e giornale”, 1964 fotografia e pittura su plexiglas trasparente, 35 x 60 x 60 cm. (Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, Biella) © Michelangelo Pistoletto. Foto Paolo Pellion di Persano

Michelangelo Pistoletto, Cittadellarte. “Love Difference - Mar Mediterraneo”, 2003-2005 Specchio e legno, cm 738 x 320 x 50 Fondazione Pistoletto, Biella Foto: P. Terzi

superfici riflettenti, l’artista inizia a cogliere il proprio riflesso, la propria immagine. Da questa stessa riflessione nascono i successivi Quadri Specchianti attraverso i quali Pistoletto rende esplicita l'analisi del rapporto spazio reale/spazio artistico, artista/spettatore. Qui la figura dello spettatore diviene parte integrante dell’opera, lo stesso spazio reale entra in essa come entrerebbe in una fotografia. Pistoletto collabora con il fotografo Paolo Bressano, ritrae amici e familiari spogliandoli di qualsiasi caratteristica personale, poi lascia ingrandire le immagini dall’amico collaboratore, le tratteggia su carta velina e le dipinge a mano in maniera dettagliata. Così, l’immagine dipinta nello specchio si immobilizza nel tempo e incontra continuamente il presente. “É la storia che viene di volta in volta

Michelangelo Pistoletto, “Autoritratto oro” 1960 olio, acrilico, oro su tela. 200 x 150 cm Collezione dell’artista Foto: Paolo Pellion di Persano

fissata in momenti che divengono memoria, la quale memoria si ripresenterà continuamente nel futuro dinanzi alle persone che guarderanno le mie opere, ma anche dinanzi agli avvenimenti che accadranno dopo di noi. Nei quadri specchianti sono contenute le persone che ancora non sono nate, nello specchio verranno a riflettersi coloro che nasceranno. Tutti siamo già stati e saremo nello specchio”, afferma Pistoletto durante la conferenza stampa di presentazione della mostra. La storia, dunque, si riflette nell’immagine che lo specchio dà del mondo come fotografia eterna, simbolo di una totalità che si dà nell’articolazione dello sguardo, nella frammentazione del soggetto che trova la sua unità nell’oggetto specchio. Un oggetto capace di divenire medium della storia, archivio e pro-

duttore di sue immagini, come mostrano perfettamente I Comizi, serie di quadri specchianti, creati tra il 1965 e il 1966 e interamente incentrati su temi politici. Lo specchio è una porta, una soglia verso nuove prospettive, verso il progresso, verso le possibilità del futuro nelle quali ci troviamo improvvisamente immersi. Ma, allo stesso tempo, specchiando ciò che abbiamo alle nostre spalle, lo specchio ci mostra il nostro passato e diviene il punto di congiunzione di due estremi, di due forze che si protraggono attraverso vettori opposti. E mentre le potenzialità del futuro si proiettano nell’infinità luminosa della superficie specchiante, il passato (prossimo e remoto), immobilizzato nell’immagine dipinta (più tardi Pistoletto utilizzerà la silografia) si impone al nostro sguardo.


arskey/al Museo| Palazzo Reale

MIMMO PALAdINO

OMAGGIO A MIMMO PALAdINO, SUbLIME INTERPRETE dELLA CONdIzIONE dELL’UOMO CONTEMPORANEO

AL MUSEO

di francesca Caputo

Mimmo Paladino al lavoro; © Peppe Avallone

La riflessione artistica di Mimmo Paladino è da sempre volta a scandagliare il linguaggio dell’arte. Da autentico e innovativo sperimentatore, cerca incessantemente dimensioni inedite. Un modus operandi che spinge questo grande Maestro del contemporaneo a percorrere itinerari linguistici sorprendenti: dal disegno alla pittura, dall’incisione alla scultura e al mosaico, dalla fotografia all’immagine filmica; diversi medium espressivi con cui rappresenta il suo immaginario primordiale e magico. Un artista poliedrico che, affrontando con disinvoltura mezzi, materiali e tecniche eterogenee, rende la sua opera priva di confini netti e definiti. Questo universo è celebrato a Milano nella mostra antologica a cura di Flavio Arensi, “Mimmo Paladino” a Palazzo Reale, che raccoglie oltre cinquanta opere scelte dallo stesso artista campano. Sono dipinti, sculture e installazioni di forte impatto emotivo presentate in un percorso non tanto cronologico ma volto a evidenziare, per suggestioni, le tappe fondamenta-

li ed evolutive del complesso linguaggio palladiniano, alternando lavori storicizzati degli anni Settanta a quelli odierni. Molte delle opere esposte, presenti in importanti collezioni europee e americane, non erano visibili in Italia da molti anni, altre sono inedite al grande pubblico, come i cinque lavori provenienti dalla collezione privata di Ciro Paone, fondatore della storica sartoria napoletana Kiton apprezzata in tutto il mondo - e tra i maggiori sostenitori dell’artista. Il percorso espositivo mette in scena un viaggio ideale che racconta 'per frammenti' i momenti cardine della vicenda artistica di Paladino, entro un progetto d’allestimento sobrio e minimale, a cura degli architetti Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni. Opere fondamentali come “Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro”, del 1977, considerato il dipinto precursore della Transavanguardia, teorizzata dal critico Achille Bonito Oliva, che con la sezione “Aperto 80” della Biennale di Venezia del 1980, segnò l’atto di nascita del movimento. Il rivoluzionario

dipinto presenta una realtà per frammenti, “[…] fu la prima opera ad andare oltre l’avanguardia aprendo la strada a una nuova filosofia della pittura in Italia […] si tratta di un artista nel suo studio, circondato da composizioni avanguardiste […] Il quadro che l’artista si è ritirato a dipingere non è nel quadro, ma è il quadro stesso. […] È una dichiarazione di indipendenza”; così descrive l’opera uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, Arthur C. Danto. Un lavoro che, fin nel titolo appare un manifesto programmatico di quel ritorno alla metodologia e alle modalità espressive della pittura, che caratterizzò tutti gli anni Ottanta e di cui Paladino è stato uno dei massimi esponenti. Per lo storico dell’arte Germano Celant essa rappresenta “Un coinvolgere la pittura per accoglierla nel territorio aperto dei linguaggi e renderla partecipe di un rituale artistico che credeva nell’energia”. L’eclettica ricerca artistica di Paladino è documentata nelle installazioni e nelle tele di grandi dimensioni dove


arskey/al Museo| Palazzo Reale l’artista rivolge lo sguardo alla cultura cristiana e alla mitologia classicoellenistica, all’antico Egitto e al mondo etrusco, africano, all'arte primitiva e alle Avanguardie del Novecento, a cui si unisce nel 1982 una componente animistica assimilata durante i numerosi viaggi in Brasile. Le sue opere manifestano una forte appartenenza al mondo mediterraneo, ai suoi poemi epici e alle sue leggende popolari dalla cultura araba, attraverso la Sicilia, all’arte italica - rilette con la sua personalissima cifra stilistica contemporanea. Non sono riferimenti diretti e assoluti con i modelli della Storia e delle tradizioni passate, poiché la sua modernità risiede proprio nella sua capacità di concretizzare un passato lontano, il sogno, l’inconscio e l’immaginario fantastico in uno spazio senza tempo che racchiude in sé il mito e il sacro. Con i suoi segni e forme, con il suo linguaggio di frammenti - immaginati, creati o trovati -

l’artista costruisce significati universali, una coscienza collettiva con cui sintetizza, la poesia, il desiderio di elevarsi e l’anelito di libertà, le tensioni e le angosce dell’uomo di oggi, le stesse a ben guardare che hanno segnato le generazioni di ieri. Come afferma Germano Celant, per Paladino, le idee “[…] Non riguardano solo tipi e categorie, ma riprese di valori, le cui radici affondano nel collettivo storico e culturale. In questo senso il pensare un’arte filosofica, in senso contemporaneo, non è ridurre il fare visivo a un prodotto di lettura puramente concettuale, né vincolarlo a una logica formale assoluta e primaria, ma considerare la ricerca legata a una saggezza immaginaria, vitale e ambientale, immettendo in essa le qualità del soggetto. Paladino si impegna quindi in una lotta contro l’idealismo e il formalismo, per recuperare un soggettivismo che diventa essenziale per non porre l’arte fuori dalla

Mimmo Paladino, “Senza titolo”, 2006 22 elementi in alluminio, dimensioni variabili

vita, ma all’interno di essa”. I diversi passaggi tematici e stilistici dell’artista sono illustrati anche nella presenza in mostra delle tele in cui introduce elementi tridimensionali, plastici, di forme modellate e oggetti di recupero che suggeriscono l’assimilazione della lezione dei Combine painting di Robert Rauschenberg e dei maestri della Pop Art, ammirati da Paladino alla Biennale di Venezia nel 1964. Una suggestione che per l’artista allora sedicenne ebbe un’importanza capitale nella volontà di ripercorrere l’idea di utilizzare materiali e oggetti nel dipingere. Interventi plastici che poi trovano piena autonomia nelle sculture e nella grandi installazioni, dove scansioni astratte convivono con elementi plastici figurativi, come nei grandi scudi in terracotta esposti nel cortile interno di Palazzo Reale. Tra le opere di maggior impatto suggestivo ed emotivo spicca l’installazione dei Dormienti, il grande ciclo

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AL MUSEO

arskey/al Museo| Palazzo Reale

Mimmo Paladino, “Senza titolo”, 1999

nato per gli ambienti sotterranei del Roundhouse di Londra nell’autunno del 1999 (nell’ambito del South London Gallery Project) con gli interventi sonori di Brian Eno. Ogni successiva serie trova la sua originalità nel confronto con il luogo dell'esposizione. Quella di Palazzo Reale è costituita da trentadue sculture di terracotta rannicchiate a terra in posizione fetale, coperte da tegole e frammenti di vaso, immerse nella semi oscurità e avvolte dalla composizione eco-acustica – generata dalla manipolazione elettroacustica di ambienti sonori naturali, come grilli, voli di uccelli notturni, i rumori della foresta, registrati sul campo – del giovane musicista, compositore e sound designer David Monacchi, che Paladino ha coinvolto per questa collaborazione artistica. Colpisce la carica drammaturgica, la delicatezza sottile e inquieta di queste sagome umane immerse nella profondità dei sogni e dell’inconscio, sono “[...] riconoscibili come una metafora della condizione dell'uomo nel nostro tempo", ha dichiarato l’artista. Paladino non è estraneo alle contaminazioni con altri linguaggi, all’inclinazione a relazionarsi con la musica, la letteratura, lo spazio architettonico e il teatro. Nel suo percorso artistico, più volte si è confrontato con i luoghi pubblici, la città e gli spazi aperti mostrando una rara sensibilità nel connotare significativamente lo spazio urbano e una straordinaria atti-

tudine nell’instaurare un dialogo profondo con il pubblico delle strade, poco avvezzo ai linguaggi dell’arte contemporanea. Emblematica, in questo senso, la “Montagna di Sale”, installata per la prima volta nel 1995 in Piazza del Plebiscito a Napoli come opera climax dei suoi lavori esposti in contemporanea alle Scuderie di Palazzo Reale e al Museo Pignatelli. Un brano di quest’esposizione, “Vasca”, è ormai entrata a far parte della collezione di arte contemporanea al Museo di Capodimonte. “La Montagna di Sale”, rappresentò a Napoli il primo episodio di quella felice intuizione di Eduardo Cicelyn, che ha reso la Piazza un teatro dell’arte contemporanea internazionale. In proposito Arthur C. Danto, ha scritto: “[…] devo proclamare l’eminenza di Mimmo Paladino tra le fila dell’arte contemporanea, qualità particolarmente vera per le installazioni all’aperto. Non c’è niente che regga il confronto con l’imponente Montagna di Sale che l’artista ha eretto in Piazza del Plebiscito a Napoli, disseminata di cavalli arcaici; il mondo dell’arte dell’ultimo quarto di secolo non ha nulla di paragonabile. C’è qualcosa di magicamente alchemico nella visione di questi cavalli arcaici che si dibattono su una piramide di sale”. L’installazione aveva le sue radici in un’opera ispirata dalla visione delle vecchie saline siciliane e realizzata dall’artista nel 1990 a Gibellina

(Trapani) per le Orestiadi, come allestimento scenico-teatrale per la “Sposa di Messina” di Friedrich Schiller. Cinque anni dopo quest’idea fu rielaborata per creare “La Montagna di Sale” in Piazza del Plebiscito – lavoro simbolo del rinascimento partenopeo – un’installazione monumentale, alta venti metri con un diametro di trenta. Dalla candida struttura piramidale di sale emergevano o si inabissavano gli inserti scultorei: arti, busti e le teste nere dei cavalli. “La gente l’ha accolta con entusiasmo riconoscendo nelle forme qualcosa di antico che le apparteneva. La mia volontà era quella di portare in un luogo pubblico un’immagine forte e, allo stesso tempo, evocativa”, ha dichiarato l’artista. L’opera viveva completamente entro lo spazio architettonico, amalgamandosi con grande misura ed equilibrio e un fortissimo impatto scenografico entro le quinte dell’imponente piazza neoclassica, utilizzata dai Borboni per le parate militari. Una visione rimasta indelebile nella memoria collettiva non solo dei napoletani, proprio per il forte legame che seppe instaurare con lo spazio e con la gente. Racconta Paladino, che quando venne esposta a Napoli, il successo fu immediato, la gente ne rimase particolarmente colpita, ebbe un eco di popolarità unica: “Fu una cosa curiosa. L’arte contemporanea, che non era mai uscita dalle gallerie e dai musei, quantomeno non


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era arrivata in modo tanto dirompente a occupare una piazza per lungo tempo, se non nella modalità quasi sacrale con cui spesso si fa, divenne un elemento popolare, e così reperì anche il senso della sua ideazione”. Durante l’esposizione della montagna di sale, come spesso accade a Napoli, naturale palcoscenico teatrale della quotidianità, ci fu una fortissima interazione da parte dei cittadini, “[…] dagli scugnizzi che si arrampicavano, a chi recuperò il sale per il valore scaramantico che ha nella Smorfia, addirittura si giocarono i numeri a lotto, per altro vincendo, insomma fu una specie di riappropriazione dell’opera da parte della comunità”, ricorda l’artista. E infine, dopo il concerto di capodanno fu fatta esplodere con i fuochi d’artificio, ma ha dichiarato Paladino “[…] ritengo giusto sia sparita e sparisca di nuovo per riemergere chissà quando e dove, poiché fu e resterà un’epifania, fatta di materiali deperibili, un’apparizione misteriosa, una sorpresa”. Infatti “La Montagna di sale” è riapparsa a Milano, in una versione ridotta nelle dimensioni, davanti a Palazzo Reale. Secondo il progetto originario, avrebbe dovuto essere sistemata tra il monumento a Vittorio Emanuele II e la facciata gotica della Cattedrale, ma ha dovuto contrattare il proprio spazio con altre manifestazioni già in calendario e ragioni di forza maggiore non

lo hanno permesso. Tuttavia l’attuale collocazione non rende giustizia alla monumentalità scenografica dell’installazione che appare senza respiro, compressa tra le architetture della Piazzetta Reale. Prescindendo da questa scelta controversa, dalle parole dell’artista emerge la volontà di legare quest’opera al valore della transitorietà, che dal profondo Sud della Sicilia, passa a Napoli, per approdare a Milano. Ha dichiarato: “[…] c’è questo filo sottile che dal Sud sale verso il Nord, tant’è vero che per il sale si è voluto specificatamente dalla Sicilia”. Il sale dunque si carica di forti valenze simboliche, popolari, apotropaiche, estetico-filosofiche e non ultime politico-sociali. L’omaggio di Milano a Paladino - che considera una seconda patria, essendosi trasferito alla fine degli anni Settanta - si estende anche nell’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II, in cui è esposto “Cacciatore di stelle”, un aeroplano a grandezza naturale della Piaggio Aero, la cui livrea è stata dipinta dall’artista. Tutta l’opera di Mimmo Paladino è capace di catalizzare lo sguardo dello spettatore, di coinvolgerlo visceralmente nella magia che evoca. Con il suo nomadismo linguistico, la persistenza di simboli e frammenti iconografici, le immagini essenziali costruite con un vocabolario personalissimo,

dà voce all’avventura dell’uomo nel mondo, alle memorie culturali, alle radici che costituiscono la nostra identità, facendo emergere valori etici e spirituali senza tempo. I suoi personaggi spesso mostrano un’inquietudine originaria, un disagio esistenziale come fossero “scorie di una subumanità preda di un'improvvisa catastrofe”, per usare le parole di Gillo Dorfles, perché Paladino è attratto dalla grandiosità tormentata della storia umana. Con raffinata sensibilità e atteggiamento analitico utilizza segni e simboli appartenenti a una visionarietà archetipica, ancestrale, di cui è contrario a fornire chiavi di letture univoche. Sovrappone e fa dialogare tradizione e avanguardia in un nuovo linguaggio, perché la visione dell’oggi non può prescindere dal confronto e da un continuo rimando tra passato e presente. Questa è l’intensità del suo messaggio e la sua modernità. La costante presenza della Storia nella sua narrazione - sia essa delle civiltà passate o un libero dialogo con la storia dell'arte, dalla figurazione destrutturata di Picasso, alla liricità di segno alla Klee, al gesto astratto-espressionista di Kandinskij, per fare solo alcuni esempi - non è mai una citazione, un rimando letterario, ma l’uso del passato in quanto patrimonio soggettivo dell’umanità.

Mimmo Paladino, “La Montagna di Sale” Milano, Piazzetta Reale, 2011, © Lorenzo Palmieri



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Michelangelo Pistoletto, Biennale 66, 1966, carta velina dipinta su acciaio inox lucidato a specchio, 4 pannelli, dimensioni complessive 230 x 480 cm. (Collezione Sonnabend) © Michelangelo Pistoletto. Foto: Graydon Wood (Attualmente in mostra al MAXXI. Leggi la recensione a pag. 54)

Critica l'odierno panorama artistico. elogio della creatività. segni di un atteggiamento romanticoncettuale. | unità d’italia 150 anni di storia della critica d'arte italiana. | imaginary economics. conversazione con olav Velthuis sul rapporto tra arte ed economia. | a che serve la critica? incontri teorici#1. antonello tolve - eugenio Viola. |

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L’OdIERNO PANORAMA ARTISTICO

ELOGIO dELLA CREATIVITà. SEGNI dI UN ATTEGGIAMENTO ROMANTICONCETTUALE di Antonello Tolve

Bianco-Valente, “Costellazione di me (Constellation of me)”, 2010, Charcoal on Wall, installation view at v.m.21 artecontemporanea Gallery, Roma

Tra le esperienze più vivaci dell'odierno panorama artistico c'è un aspetto che, assieme a quello ubiquitario, sembra prendere piede fino a prevalere e primeggiare per farsi segmento di sottile ribellione nei confronti di un paesaggio politico ed economico (nonché socio-antropologico) quantomai insalubre e venereo. Si tratta di un particolare contegno linguistico che aleggia nell'aria come scelta poetica, come appassionata neoideologia laterale e necessariamente trasversale o, ancora, come formula stilistica paraconcettuale che mira a scampare dal maelström di una (molte volte vuota) Dematerialization of the Art Object1 ormai priva, appunto, di reale pratica critica (Kosuth) - volta ad assecondare soltanto i flussi del mercato internazionale delle arti. Per creare una necessaria rupture dalla traumatica carovana concettuale e da un'ambigua uniformità linguistica

(riscontrabile un po' ovunque), l'artista accoglie, difatti, tutta una serie di sollecitazioni sopite - e mai del tutto abbandonate - presentando una galassia estetica che, se da una parte si riappropria trasversalmente del reale (e della storia) per criticarlo e modificarlo dall'interno, dall'altra si mostra impregnata di sentimenti, di eterocosmi efficaci a creare daccapo un vero e proprio “mondo a sé stante”, per dirla con Abrams, “indipendente dal mondo nel quale siamo nati, il cui fine non è quello di istruire o dilettare ma semplicemente quello di esistere”2, di porsi nuovamente all'interno di un dibattito contemporaneo o quantomeno di evidenziare il proprio distacco (emotivo, giustamente intuitivo?) da una situazione planetaria incerta, economicamente confusa e, appunto, politicamente sfuggente. L'artista sembra votato, così, a recuperare un particolare atteggiamento

emotivo per fare i conti con una immaginazione impetuosa e passionale che, ponendosi sotto la stella fulgente del romanticismo, celebra e rende flagrante una nuova stagione empatica [εμπαθεια (empateia), a sua volta composta da en-, dentro, e pathos, sofferenza o sentimento] di natura pungentemente sentimentale, dove sentimento (sentire, percepire con i sensi) vuol dire fare i conti, oggi, con i grandi problemi dell'uomo contemporaneo invischiato all'interno di un giardino planetario in cui la singolarità cerca l'incontro, l'intento comune, la morbida affinità tra le storie. Assorbita appieno - direttamente o indirettamente, volutamente o anche involontariamente - l'ideologia del manierista (teorizzata da Achille Bonito Oliva), di una coscienza obliqua, di una consapevolezza che sente l'esigenza di distorcere il linguaggio, di una percezione offuscata della sto-


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ria, di una sensibilità che perde il centro e lavora sulla periferia, di un crollo definitivo dei racconti e delle ideologie3, l'artista non solo riscopre una nuda dormiente bellezza4 delle cose, ma mira a riconsiderare il mondo della vita attraverso una nuova rivoluzione di natura intimamente romantica. Una rivolta silenziosa che, da un lato - con sottigliezza - non disturba affatto la convenzione e la norma del mercato, dall'altro pone luce, inevitabilmente, su animi operativi che analizzano lo stato delle cose tramite strategie estetiche deliberatamente aperte, ancora una volta, a elaborare il sogno, la diversità e l'ospitalità, l'intreccio, l'eterogeneità e il multiculturalismo5 per farsi, via via, rinascita dell'esperienziale, emblema creativo (che conquista l'immaginazione, il simbolo e la natura), critica emotiva di un cosmopolitismo devitalizzato dai signori delle finanze e dagli stati generali della fantapolitica (vuota di valori?) planetaria. Si assiste insomma, a una vera e propria revanche des émotions (Catherine Grenier). E non solo nella realizzazione di opere “pour un public à la recherche de sensations”6, ma anche nella ricerca, mai paga, di artisti che fanno proprio dell'empatia della relazione estetica, della compartecipazione e della imperante metodologia plurale - il primum movens della creazione stessa. All'algida e, a volte, frigida imbracatura estetica e riflessiva di alcune manovre puramente concettuali - in cui ci sono, del resto, recenti trovate di grande respiro (è il caso di Jota Castro - o di Etienne Chambaud) -, l'artista privilegia, adesso, una critica intuitiva, una riflessione aperta a forme e formule fantastiche, mitiche o rituali (si pensi agli splendidi scenari proposti da Salvatore Arancio), che deviano il corso del raziocinio per generare vivaci eterotopie in cui rifugiarsi e da cui scagliare, con intelligenza, critiche e riflessioni pungenti. Il ritorno all'identità, il multiculturalismo e la mondializzazione, la diversità, lo sguardo sul proprio corpo - il corpo diviene spesso il paese più straziato su cui (Franko B), dentro cui (Orlan) e, di certo, attraverso cui verificare il problema dell'essere singolare plurale (Jean-Luc Nancy) -, il sociale e le sue problematiche attuali, l'antropologico e il politico, diventano, così, in molti casi, terreno riflessivo per installazioni e progetti che si ispessiscono e si radicalizzano all'interno di un panorama che, attraverso forme metodologiche di natura coesistensiva, compartecipativa, compenetrativa e interattiva, prendono corpo e voce.

Sguardo nuovo sul nuovo che avanza e inghiotte voracemente il presente dell'arte e della vita, l'opera si fa sintomo di fastidio silenzioso, di ribellione trasversale, di resistenza intuitiva, ma anche, e naturalmente, spazio d'accoglienza e di ospitalità. Solo nel mondo7, l'artista fa del pathos e dell'empatia8 - Empathy can change the world è, ad esempio, l'opera-manifesto prodotta da Barbara Kruger nel 1991, o, ancora Empathy è il progetto proposto da Mariangela Levita per aprire, nel 2009, la nuova stagione della Project Room del MADRE9 - i nuovi pilastri di una riflessione - di una civiltà (Rifkin)10 - che apre le porte dell'arte all'incontro, al dialogo, alla condivisione e alla cooperazione (positiva), alla condizione della pluralità. Facendo proprie alcune prospettive critiche e aprendo l'opera alle grandi problematiche culturali della civiltà planetaria l'artista è capace di ascoltare nuovamente i sussurri del mitico e del poetico, del fantastico e dell’immaginario, di quel caro immaginar di leopardiana memoria in cui la ragione deraglia dai sentieri prestabiliti - d’un terrorismo della ragione ha avvisato Dorfles11 - per privilegiare, ex novo, i territori felici dell’onirico, dello sgrammaticato, dell’antirinascimentale suggerirebbe Eugenio Battisti, del simbolico e del paradossale (nel senso greco di parà ten doxan = contrario dalla ragione)12. Nei confronti della chiara legge razionalistica e nei confronti di un mercato planetario dell'arte che si pone come linea esclusiva di un percorso finanche prestabilito l'artista contrappone un mondo magico, una conoscenza emozionale o, per dirla con Pierre Klossowski, un pensiero espresso in forma patetica che rinnega ogni rigidità costruita, per gettarsi (senza riserve) al di là di ogni fondamento. L'artista torna a meditare nuovamente sui bisogni del mondo, su situazioni drammatiche che investono il luogo in cui si consuma la vita, su circostanze critiche, su comunicazioni occulte e ingannevoli, su una profonda “émergence du sensible et du subjonctif dans la vie publique, qui transforme les codes sociaux et les comportements individuels”13. Calibrato sul binario romantico è, dunque, colui che apre la strada a una nuova sensibilità estetica e costruisce mondi in grado di generare interazioni tra la storia individuale e quella collettiva per recuperare uno spazio necessariamente interpersonale in cui realtà reale (Gatto) e caro immaginar (Leopardi), per dirla con due poeti, tornano a intrecciare i propri fili per rivelare, attraverso l'arte, una volontà

che non vuole conoscere le apparenze ma la semplice e pura realtà del mondo, non la sua superficie, ma la sua essenza intima14. L'anima romantica è presente, ora, in tutta una serie di schemi riflessivi che pur seguendo il binario neoconcettuale e postduchampiano delle tendenze più attuali (tendenze a volte anche perniciosamente conformistiche), si fa tensione strategica e vivace ginnastica all'interno di una palestra intuitiva che recupera la riflessione emotiva e passionale per segnare una rivincita nei confronti del concettualismo internazionale. Difatti, pur mantenendo intatto, molte volte, il procedimento critico - irrinunciabile per molti artisti pensatori del contemporaneo - in cui “imagination and insight”, ha evidenziato Sir Maurice Bowra nel 1950, “are in fact inseparable and form for all practical purposes a single faculty”15. L'artista assume, così, un atteggiamento romanticoncettuale. Da un lato procede lungo strategie creative di natura strettamente concettuali o, per dirla con Filiberto Menna, analitiche16, dall'altro si riappropria di un panorama romantico appunto, che riscalda l'analisi concettuale per evidenziare un rinnovato interesse nei confronti di problematiche legate non solo alle labbra sfilacciate della mondializzazione, ma anche a quello che è un nuovo e decisamente singolare progetto dell'arte di fronte al sociale, al politico, all'etico. Seguendo questa traiettoria, progetto moderno (Filiberto Menna) e territorio postmoderno - in primis la Transavanguardia (Achille Bonito Oliva) e la sua fluidità attuale -, si incontrano, a me pare, all'interno di una parabola linguistica che recupera, da una parte la progettualità e il suo destino attuale, il desiderio irrinunciabile di modificare il mondo a partire dall'arte (in stile con l'avanguardia), dall'altra la quanto mai necessaria trasversalità linguistica, il nomadismo, l'obliquità tipica dello scenario postmoderno. Ragione e passione si incontrano, in questo modo, sotto il segno di una evoluzione neoromantica in cui l'artista, in linea con l'atteggiamento romantico di estrazione storica, si pone ancora una volta come “un uomo (è l'immagine consegnata da Argan) in polemica con la società, che vorrebbe ricondurre alla solidarietà e al comune impegno progressivo tutti i popoli e tutti gli uomini”17. Impossibile da definire (Valéry), anche il nuovo moto romantico che investe le generazioni artistiche d'oggi, è spazio di una rinnovata coscienza e conoscenza intellettuale (Arcangeli)18. Collocandosi a una distanza di sicurezza non precisata - quella dell'inte-


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Piero Mottola, “Modello di relazione cromatico emozionale a 15 parametri”, 2000, Courtesy dell'Artista

Giuseppe Stampone, “Saluti dall'Aquila (cartolina)”, 2011, mixed media, installazione neodimensionale con interazione multipla Courtesy Prometeo Gallery di Ida Pisani, Milano

Francesco Carone, “Totem”, 2010, wooden boxes, cm 200 x 80 x 100 e Calchi, 2010, watercolor on paper, cm 190 x 140 x 3, photo Serge Domingie, Collezione Privata, Courtesy SpazioA, Pistoia.

Valerio Rocco Orlando, “Lover's Discourse”, 2010, video installazione a 2 canali, 9’20’’, installation view, Momenta Art, New York, Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Salerno


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quel Caro iMMaginar di leopardiana MeMoria in Cui la ragione deraglia dai sentieri prestabiliti Fabrizio Cotognini, “La Metamorfosi”, 2010, part of book of sand Borges, cm 18 x 25, mixed media on paper, Courtesy Prometeo Gallery di Ida Pisani, Milano.

Salvatore Arancio, “Luffâh”, 2011, patinated polyurethane resin, cm 35 x 9 x 9, unique, photo by Giorgio Benni, Courtesy Federica Schiavo Gallery, Roma

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riorità - l'artista fa ritorno, in maniera disincantata (naturalmente), a un trasporto romantico - che è anche, e soprattutto, un atteggiamento nuovo di fronte alle cose della vita - che se da una parte presuppone il ritorno del reale in quanto realtà reale, dall'altra elogia il fantastico, il mitico e il rituale. Proprio mentre l'ideologia del traditore19 teorizzata da Achille Bonito Oliva, si fa specchio quantomai profetico e le minori maniere20 toccano il culmine del pronostico temporale che si addossa sul presente, l'artista sente il bisogno di recuperare una sorta di metodo interiore (Schopenhauer) che è, nel contempo, intuitivo e riflessivo, discorsivo ed espressivo, rappresentativo e meditativo. Ma sente anche una spinta interiore che volge verso i nodi cruciali della pluralità e della partecipazione, del gruppo che conserva il respiro individuale, dell'essere, in altre parole, singolare plurale (Nancy). Lungo questo asse estetico, lavorano,

ad esempio, alcuni artisti come Bianco-Valente, Piero Mottola, Giuseppe Stampone e Valerio Rocco Orlando che, da latitudini differenti, propongono schemi costitutivi legati al dialogo, all'interazione, alla compartecipazione e a quella che uno scienziato delle galassie, John D. Barrow, ha definito multiverso per indicare le differenti regioni che si gonfiano tutte a velocità diverse, ma anche per evidenziare la pluralità dell'essere o quello che, personalmente, definirei il corpo polifonico della quotidianità. Mentre altri artisti, e penso particolarmente - in Italia - a Francesco Carone, a Salvatore Arancio o a Fabrizio Cotognini, sfumano la storia tra originario e originale, rielaborano il tempo e l'archivio della memoria per costruire discorsi di stampo antropologico e antroposferico, antroposofico, sottrattivo e geonaturale. Discorsi che ripercuotono la translation du domaine social vers l'espace personnel21 e viceversa.

Si tratta, insomma, di un atteggiamento che l'artista assume nei confronti di un malessere collettivo sentito - di un crollo degli ideali davvero violento -, intravisto e lasciato come sospeso. Accogliendo all'interno del proprio discorso un prefisso di estrazione fantastica, sublime (a volte soltanto all'apparenza altre, invece, realmente), patetico o linguisticamente relazionale, l'artista si pone come cavaliere di un nuovo mondo in cui la perdita del centro trasforma la singolarità in necessaria formula dialogica, in costruzione di linguaggio che si fa azione, eventuale trasformazione, precisa reazione e necessaria relazione con gli esseri e con le cose della vita. All'azzeramento del passato e del futuro teso a produrre un pulsante e incessante presente che mira a una “estemporaneità emotiva senza responsabilità”22 (in cui è possibile percepire le angosce di un collasso critico di dimensioni catastrofiche e globali), l'artista propone una medita-

Mariangela Levita, “Empathy”, 2009, dimensioni variabili Courtesy Museo MADRE, Napoli.


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zione emotiva decisamente responsabile, una vita activa (Hannah Arendt)23 che mostra la riappropriazione di una cittadinanza non passivizzata e confinata nel recinto angusto di una privatezza separata da ogni virtù pubblica24. Cavaliere indomito e impavido, l'artista prende per la coda il tempo e la storia per farsi portavoce di una visione emotiva del mondo, di un ethos narrativo che vuole spingersi oltre le regole prestabilite dalla ragione per recuperare una necessaria polemica con la società, con una società dei consumi, dei miracoli e dei traumi della comunicazione (Perniola) che devitalizza il pensiero critico e l'indispensabile prefisso teorico25. Facendo propri alcuni postulati romantici, l'artista evidenzia un carattere programmatico (Ansatzcharakter) che mira a fuorviare dai conformismi formali di stile concettuale per dar vita a uno scenario in cui l'emotività di fronte alle cose, il sogno e la passione si pongono come armi di procedimenti estetici e di una meravigliosa libertà creativa che, pur mantenendo intatto - e pur evitando un scacco mortale al mercato dell'arte che significherebbe soltanto mettere sotto scacco la propria carriera artistica - propongono un movimento stilistico interiore che corrisponde, forse, a una à une remise en cause interne de la modernité, ou ploutôt - è la domanda ardente che si pone Grenier - de la doxe moderniste26. Al di là del punto di domanda, quel che conta è che la nuova poetica romantica (volta a permeare alcuni brani creativi attuali), non va ricercata esclusivamente nella novità formale o in un nuovo che avanza senza sosta e con sin troppa (esagerata) ansia novistica, ma piuttosto in un atteggiamento che l'artista assume di fronte alle problematiche irrisolte dell’arte e della vita comune. A quelle problematiche che, dalla fine del XX secolo ai primi passi nel terzo millennio, si pongono ancora come ferite aperte, catastrofi in atto, domande irrisolte per un intuito che si fa, nuova (e indispensabile, forse) riflessione estetica. 1- Cfr. L. R. Lippard, edited and annotated by, Six Years: The Dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972, Praeger Published, New York 1973: “Art intended as pure experience doesn't exist until someone experiences it, defying ownership, reproduction, sameness. Intangible art could break down the artificial imposition of “culture” and at the same time provide a broader audience for a tangible, object art”. 2- Cfr. M. H. Abrams, The Mirror and the Lamp. Theory and the Critical Tradition, Oxford University Press, New York 1953; trad. it., Lo specchio e la lampada. La teoria romantica e la tradizione critica, il Mulino, Bologna 1976, p. 56. 3- A. Bonito Oliva, L'ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, Feltrinelli, Milano 1976. (“Traditore è colui che pensa di tradire, di modificare una realtà inaccettabile. Il Manierismo vive sotto il segno dell'inadempimento, cosciente delle difficoltà che incontra la cultura a trasformare il mondo”).

4- P. B. Shelley, Defence on Poetry, in Shelley's Literary and Philosophical Criticism, edited by J. Shawcross, Frowde, London 1909, p. 155. 5- Cfr. almeno F. Jameson, Posmodernism, or, The Cultural Logico f Late Capitalism, Duke University Press, Durham 1991; trad. it., Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, ora anche, tradotto da S. Chiodi, Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007 e J. Habermas, Ch. Taylor, Kampf um Anerkennung im Demokratischen Rechtsstaat, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1996; trad. it., Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998. 6- C.Grenier, La revanche des émotions. Essais sur l'art contemporain, Seuil, Paris 2008, p. 8. 7- «Oggi il discorso è più problematico anche perché gli artisti procedono in fila indiana, in maniera solitaria e personale. Non si può più intravedere un blocco, un nucleo o una sorta di movimento omogeneo» (A. Tolve, La critica d'arte totale, dialogo inedito con A. Bonito Oliva). 8- Cfr. C. Grenier, La revanche des émotions, cit., e particolarmente l'Introduction. Pathos et empathie e, a seguire, i capitoli La connaissance pathétique e Empathie et résilience, pp. 7-41. 9- Cfr. A. Tolve, Transiti d’arte al MADRE (una riflessione sulla Project Room), in “teknemedia.net”, 1 2 / 0 1 / 2 0 1 1 , http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html?mI d=8277 (linkato il 16/03/2011, ore 10.51). 10- J. Rifkin, The Empathic Civilization: The Race to Global Consciousness in a World in Crisis, Jeremy P. Tarcher, New York 2009; trad. it., La civiltà dell'empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Mondadori, Milano 2009. 11- Cfr. G. Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano 1986 (ora anche, con il sottotitolo Arte e vita tra logico e mitico, Skira, Milano 2009). 12- A. Tolve, Gillo Dorfles. Arte e critica d'arte nel secondo Novecento, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 125ss. 13- C. Grenier, La revanche des émotions, cit., p. 11. 14- Cfr. A. De Paz, La rivoluzione romantica. Poetiche, estetiche, ideologie, Liguori Editore, Napoli 1984. 15- M. Bowra, The Romantic Imagination, Oxford Paperbacks, London 1950, p. 7. 16- Cfr. F. Menna, La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975. 17- G. C. Argan, 1970, L'arte moderna. Dall'Illuminismo all'età contemporanea 1770-1970, Sansoni, Firenze 1997, pp. 23-24. 18- F. Arcangeli, Dal Romanticismo all'Informale. Dallo «spazio romantico» al primo Novecento, Einaudi, Torino 1977, pp. 10-11. 19- Cfr. A. Bonito Oliva, L'ideologia del traditore, cit. 20- Cfr. A. Bonito Oliva, Minori maniere. Dal Cinquecento alla Transavanguardia, Feltrinelli, Milano 1985. 21- C. Grenier, La revanche des émotions, cit., p. 23. 22- C. Brandi, La fine dell’avanguardia, in «L’Immagine», n. 14-15, 1950 (pp. 361-433). Riedito in Id., La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, Edizioni della Meridiana, Milano 1952 e poi in Id., Scritti sull’arte contemporanea, vol. II, Einaudi, Torino 1979, p. 74 e p. 101. (Ora, con il titolo originario, a cura e con un saggio introduttivo di P. D'Angelo, Quodlibet, Macerata 2008). 23- Cfr. H. Arendt, Vita Activa. The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago 1958. 24- Cfr. la Prefazione di P. Battista in H. Arendt, trad. it., Vita Activa. La condizione umana, RCS, Milano 2011, pp. 5-7. 25- Cfr. A. Tolve, La ginestra o il fiore della critica d'arte, in Lavori in corso. Giovani critici in dialogo con Angelo Trimarco, prefaz. di A. Bonito Oliva, introd. di S. Zuliani, Plectica, Salerno 2011. 26- C. Grenier, La revanche des émotions, cit., p. 8.

l'artista privilegia, una CritiCa intuitiva, una riflessione aperta a forMe e forMule fantastiChe, MitiChe o rituali, Che deviano il Corso del razioCinio per generare vivaCi eterotopie in Cui rifugiarsi e da Cui sCagliare, Con intelligenza, CritiChe e riflessioni pungenti


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UNITà d’ITALIA

150 ANNI dI STORIA dELLA CRITICA d'ARTE ITALIANA di fulvio Cimento

Giulio Carlo Argan

Julius Schlosser (1866-1938), insigne rappresentante della critica d’arte viennese, sostenne che la morte di Giambattista Tiepolo (Madrid 1770) segnò la fine del primato italiano nell’arte e di conseguenza anche nella critica, considerando dunque Francesco Milizia, autore delle "Vite dei più celebri architetti" (1768), l'ultimo erede di quella cultura critica che aveva avuto in Vasari e Bellori i suoi fondatori. Questa interpretazione ha goduto di grande fortuna al di fuori dei nostri confini, favorita dalla necessità di dimostrare il primato della Scuola di Vienna sulla critica italiana di fine Ottocento. Proprio per questo lo Schlosser omette di citare la “Storia della pittura italiana”, scritta nel 1864 da Giovan Battista Cavalcaselle (18201897), pittore dotato di formidabile memoria visiva, che dedicò la vita a viaggiare e a riprodurre le opere osservate, inserendovi a margine fulminee e illuminanti note stilistiche che resero il suo lavoro critico uno dei più importanti dell’Ottocento, nonostante alcune lacune storiografiche. Più rigoroso nell'approccio fu Adolfo Venturi (1856-1941), i cui studi privilegiarono l’analisi filologica dell’arte intesa come storia delle forme e dello stile. Prevedendo la necessità di divulgare le sue ricerche specializzate, ha avuto il merito di fondare la prima vera ‘Scuola’ critica italiana, formatasi sulle pagine di alcune delle riviste da lui dirette, in particolare L’Archivio (1888), che eguagliò per importanza i grandi periodici stranieri, e L’Arte

Federico Zeri

(1898), che rappresentò per anni la testata di settore di maggior prestigio in Italia. Il nome di Venturi è però legato soprattutto alla “Storia dell’arte italiana”: 25 tomi scritti tra il 1901 e il 1940, straordinaria summa che delinea un panorama unitario delle varie discipline artistiche dalla tarda antichità alla fine del Cinquecento, nell’intento di dotare di un corredo culturale adeguato una nazione come l’Italia, che aspirava a inserirsi tra le grandi d'Europa. Tra gli allievi di Venturi si ricorda Pietro Toesca (1877-1962) per il suo contributo dato agli studi in ambito medioevale che hanno portato al recupero critico di intere aree geografiche trascurate dalla storiografia artistica. La sua opera più celebre è la “Storia dell’arte italiana: il Trecento”, pubblicata nel 1951. Lontano dalla figura di critico ‘militante’, che si sarebbe affermata di lì a poco, fu uno studioso rigoroso che affrontò le opere sotto il profilo prettamente stilistico e storico culturale. Se i critici presentati fino a ora possono essere considerati dei pionieri, tra i veri ‘padri costituenti’ del moderno pensiero artistico italiano si colloca Lionello Venturi (1885-1961), che trascese la separazione tra storia dell’arte e critica d'arte nella sintesi ‘storia della critica d’arte’. Con lui si afferma il concetto di creazione artistica soggettiva, ovvero del gusto artistico quale modello riconducibile all'estetica crociana. Durante il suo esilio negli Stati Uniti dovuto ai forti contrasti con il fascismo (la maggior parte dei critici

italiani ebbero problemi seri con il Regime), scrisse “History of Art Criticism” (1939) e nel 1944 organizzò a New York una mostra monografica su Amedeo Modigliani. Al suo rientro in patria si batté per lo svecchiamento della cultura, facendo conoscere artisti stranieri ancora poco noti: nel 1953 presso la Galleria Nazionale di Roma curò la prima mostra italiana dedicata a Picasso e, grande sostenitore della pittura astratta, ebbe il merito di introdurre in Italia il mito di Jackson Pollock. Roberto Longhi (1890-1970) scrisse su L’Arte, al pari di Venturi, ma nel 1914 si avvicinò a La Voce. In questa fase il suo ideale estetico era già delineato: “l’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione di essa”. Pubblicò saggi fondamentali su Caravaggio e Piero della Francesca, pittore quasi sconosciuto nei primi decenni del Novecento e, amante del dinamismo plastico della scultura boccioniana, prese le distanze sia dal metafisico De Chirico che dall’innovativo movimento dei ‘valori plastici’. Nel 1934 fondò la rivista Officina ferrarese, in cui il suo linguaggio ecfrastico, basato sulla piena rispondenza tra vocabolo ed espressione visiva, raggiunse la perfezione. Nel 1949 si trasferì a Bologna, dove strinse un forte legame con Giorgio Morandi, da lui considerato “il più grande tra i pittori moderni”. Con Cesare Brandi (19061988) e Giulio Carlo Argan (1907-1992) si delinea invece la figura del critico ‘militante’, colui che considera l’arte come esperienza diretta della realtà in


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argan Considera l’arte CoMe esperienza diretta della realtà in grado di inCidere sulle CosCienze grado di incidere sulle coscienze: “l’arte è il solo lavoro puro che si compie nella realtà senza usarle violenza” (Argan). I due fondarono a Roma nel 1939 l’Istituto Centrale per il Restauro, spinti dal convincimento che preservare le opere equivalga a mantenere in vita le tracce del passato. Ai loro sforzi si deve l’affermazione del moderno concetto di ‘bene culturale’, secondo cui ogni manufatto artistico merita un adeguato impegno conservativo. Famosa è la definizione dell’‘occhio arganiano’ data da Calvesi e riferita alla capacità di Argan di penetrare il pensiero profondo all’origine dell’opera, che si riflette nella sua prosa, in grado di esprimere con semplicità concetti complessi (“Sandro Botticelli è nato sette anni prima di Leonardo eppure tutti considerano Botticelli un pittore del Quattrocento e Leonardo un pittore del Cinquecento”). Degna di rilievo è anche la figura di Ludovico Ragghianti (1910-1987), che ebbe il merito di considerare in modo autonomo il linguaggio dell’arte visiva, distinguendolo dal linguaggio discorsivo che utilizza termini verbali, con la conseguenza di estendere l’indagine critica anche ad altri settori in cui l’immagine è fortemente rappresentativa, come la fotografia, il cinema e la danza. A questi grandi del Novecento bisogna aggiungere Giuliano Briganti, Angiola Maria Romanini, Gillo Dorfles, Maurizio Calvesi, Emilio Villa, Fabrizio D'Amico, Claudio Spadoni, Giovanni Previtali e Federico Zeri (1921-1998), un ‘eretico’ della scuola longhiana che offrì un importante contributo sugli studi legati al Cinquecento romano. Memorabile un testo come “Pittura e Controriforma” in cui Zeri fornisce quegli input che saranno poi sviluppati da alcuni suoi allievi, tra cui Antonio Pinelli in “La bella maniera” (2003). Zeri si discosta dalla rigidità estetica longhiana e utilizza un linguaggio in

grado di catturare sia il lettore più rigoroso che quello meno specializzato, con una scrittura estremamente chiara e puntuale. Tra i critici che si sono affermati alla metà degli anni Sessanta evidenziamo la figura di Germano Celant, che ha avuto il merito di teorizzare l’Arte Povera, basata su una riduzione dei segni in archetipi. Tra i maggiori rappresentanti di questo filone troviamo alcuni dei più noti artisti italiani contemporanei: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio. Nelle loro opere, la materia naturale o gli scarti d’industria richiamano le strutture originarie del linguaggio in antitesi con i mezzi tradizionali dell'arte; le installazioni ambientali diventano pertanto il culmine del loro momento performativo. A 150 anni dall'unificazione, la città di Torino, centro di diffusione internazionale dell'arte concettuale italiana, rende omaggio a questa corrente con una mostra dal titolo “Arte Povera in Italia". Nei primi anni Ottanta si segnala un altro fenomeno artistico di rilevanza internazionale: la Transavanguardia, teorizzata da Achille Bonito Oliva nel libro “Il sogno nell’arte”, che ne costituisce il manifesto ideologico. Tra gli artisti coinvolti vi furono Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, presenti alla sezione “Aperto ‘80” alla Biennale di Venezia del 1980. Scrive Bonito Oliva: “L’arte della transavanguardia lascia viaggiare il linguaggio fuori da qualsiasi interrogazione, circa la sua provenienza o direzione, secondo derive di piacere che ristabiliscono il primato dell’intensità dell’opera su quello della tecnica”. Chiaro l’intento del critico salernitano di superare le ‘turbolenze’ generate dalle avanguardie e dall’ondata concettuale, che aveva

invaso l’arte italiana a partire dalla metà degli anni Sessanta, in favore di un ritorno entusiastico alla forma pittorica contemporanea. La generazione di critici italiani che si assumerà la responsabilità di documentare e studiare l’arte del XXI secolo dovrà avventurarsi in un territorio di ricerca assai più vasto di quello dei suoi predecessori. La globalizzazione che trasforma ‘il mondo in Mc Mondo’, come afferma Benjamin Barber, richiederà nuovi canoni interpretativi e nuove metodologie d’analisi. Se è vero, come sostiene il critico statunitense Arthur Danto, che viviamo in un’epoca post-storica, è probabile che i nostri critici (o postcritici) riusciranno a ritagliarsi uno spazio importante, abituati per impostazione a comprendere l’universale: come l’arte italiana, nella sua vastità, è analizzabile tramite lo studio delle scuole regionali, così nel mondo globalizzato sarà importante individuare chiavi interpretative oggettive. Paradossalmente i 150 anni dell’Unità d’Italia coincidono con uno dei periodi più bui per la sua cultura, sotto scacco da parte delle istituzioni che dovrebbero rappresentarla e da attacchi che minano l'identità nazionale, costruita tenacemente anche grazie al contributo della critica d’arte. Assistiamo a una fase di estrema difficoltà che non viene percepita con l'adeguata preoccupazione da parte dell'opinione pubblica. Specchio di questa situazione sono le macerie di Pompei e la nomina, quantomeno discutibile, di Vittorio Sgarbi, critico d'assalto prestato al mondo della politica e dello show business, alla direzione del Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2011. Chissà cosa penserebbero a riguardo Lionello Venturi, Federico Zeri o Giulio Carlo Argan, riuniti in uno studiolo metafisico per critici illustri.

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IMAGINARy ECONOMICS

CONVERSAzIONE CON OLAV VELThUIS SUL RAPPORTO TRA ARTE Ed ECONOMIA di francesca Caputo

Fiona Hall, "Leaf Litter", 2001 Courtesy Fiona Hall e Roslyn Oxley 9 Gallery

La giovane casa editrice Johan & Levi ha inaugurato nel 2009 la collana Arte/Economia, curata dal prof. Pier Luigi Sacco. La seconda pubblicazione della serie, propone il saggio “Imaginary economics. Quando l'arte sfida il capitalismo” di Olav Velthuis (uscito nel 2005 per i tipi del Nai di Amsterdam). Il saggio, ricco di intuizioni e prospettive, offre al lettore un’interessante panoramica di molte delle diverse posizioni e approcci che l’arte contemporanea ha espresso nel suo rapportarsi con i temi dell’economia, ricostruendo anche il contesto storico in cui sono maturate. Fornendo in breve le basi culturali e gli antecedenti concettuali - da Warhol a Duchamp, da Beuys a Klein, da Broodthaers a Manzoni - che hanno portato alla nascita dell’attuale imaginary economics e mettendo in evidenza come oggigiorno sia completamente decaduta la scissione tra mondo dell’arte e mondo dell’economia. Nel suo lavoro Velthuis ha considerato l’arte contemporanea quale fonte di conoscenza sull’economia, non tanto dal punto di vista della quotazione

delle opere o del funzionamento del mercato dell’arte, ma da una prospettiva inedita. Ha esaminato i medium visivi e poetici usati dagli artisti contemporanei per riflettere su numerose questioni economiche o per esplorare, definire e criticare - anche per mezzo della parodia - il senso dei concetti, dei processi e dei fenomeni dell’economia. In questo senso, spiega Velthuis: “Quest’arte si pone come alternativa alla dottrina, alle informazioni e alle idee sull’economia che ci vengono propinate dai giornalisti e dai cosiddetti esperti provenienti dagli ambiti della finanza o dell’università”. Dunque un vero e proprio possibile paradigma alternativo a quello istituzionale della scienza economica. Non a caso Velthuis chiarisce che il suo scopo non è quello di identificare nuove tendenze artistiche. Poiché con il termine imaginary economics: “Viene qui messa in discussione l’idea comunemente accettata che la comprensione di queste materie sia esclusivo appannaggio degli economisti: chiunque voglia saperne di più su come funziona il sistema economico

dovrebbe ricorrere all’arte contemporanea”. All’interno dell’“Imaginary economics”, Velthuis ha individuato tre differenti vie con cui l’arte contemporanea si relaziona con i temi dell’economia: quella critica, quella affermativa (con due diverse declinazioni, l’economicizzazione dell’arte e la culturalizzazione dell’economia) e quella ludica. L’aspetto veramente interessante di questo saggio consiste in un approccio nuovo alle contraddizioni che attraversano il mondo dell'arte contemporanea, tra libertà e profitto, creatività e mercato. Dal punto di vista di Velthuis, le diverse posizioni assunte dagli artisti riguardo il sistema economico offrono un salutare cambio di prospettiva, aiutandoci a guardare i fatti della vita, le sfere dell’esistenza, con altri occhi, contribuendo a fornire nuovi strumenti per capire il mondo e quindi un’alternativa consapevole al pensiero dominante. Francesca Caputo: Nel suo saggio “Imaginary economics. Quando l’arte sfida il capitalismo” ha considerato l’arte contemporanea come fonte di


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Ray Beldner, "This is definitely not a pipe" Courtesy Ray Beldner e CtharineClark gallery, San Francisco

conoscenza per l’economia. Cosa intende per imaginary economics? E cosa l’ha spinta a indagare l’arte da questo punto di vista? Olav Velthuis: Il motivo per cui mi sono interessato a questo corpus dell’arte orientato economicamente è perché ho un retroterra culturale in storia dell’arte e in economia - ho conseguito un master in entrambe le discipline presso l’Università di Amsterdam. Poi, a un certo punto, verso la fine del 1990 ho conosciuto tramite un amico - l’artista americano JSG Boggs, che disegna delle banconote e le spende in transazioni reali, nella vita quotidiana. Nonostante avessi studiato economia monetaria, non ero mai stato consapevole di quanto il nostro denaro sia basato sulla fiducia. Quando, per la stesura di

alcuni articoli, ho iniziato a fare ricerche sul tema, ho scoperto che esiste una ricca tradizione di artisti moderni che, come Boggs, esplorano il funzionamento dei mercati, dello scambio delle merci, valutandone i processi e ogni altro genere di argomenti economici. Utilizzo il termine imaginary economics, per definire il lavoro di questi artisti, perché dal mio punto di vista sono produttori di conoscenza economica. Implicitamente - questi artisti (ed io) - stanno mettendo in discussione il monopolio che gli economisti hanno sempre avuto nella comprensione della vita economica. F.C: A suo parere, perché la critica ha sempre espresso opinioni contrastanti sui lavori di Marcel Duchamp (soprattutto sui suoi documenti finanziari) e Andy Warhol?

O.V: Coinvolgersi con i problemi economici - come hanno fatto artisti del calibro di Duchamp e Warhol - equivale naturalmente a entrare in un campo minato. Nel XX secolo, l’ideologia ufficiale del mondo dell’arte ha sempre mirato a una separazione categorica di arte ed economia. Così, quando questi artisti hanno deciso di rompere questo tabu - ad esempio disegnando assegni o documenti finanziari come ha fatto Duchamp oppure producendo copie bidimensionali di lattine di zuppa Campbell nel caso di Warhol ciò ha generato grande confusione. Mentre alcuni critici e storici dell’arte hanno interpretato il loro lavoro come una critica progressista ed efficace allo scambio di merci; altri li hanno visti come conservatori e complici dei processi capitalistici… come ciarlata-


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ni, per dirla in maniera cruda. Dal mio punto di vista è l’ambiguità stessa del loro impegno con l’economia ad affascinarmi. F.C: Dal suo scritto emergono sostanzialmente tre indirizzi di imaginary economics. Parliamo del primo, quello critico. Perché ritiene che alcuni artisti degli anni Sessanta-Settanta valutavano negativamente il connubio tra arte ed economia? Che ipotesi portarono alla luce e cosa intendevano smascherare? O.V: È difficile parlarne in termini così generali. Da un lato, negli anni Sessanta ci furono movimenti come Fluxus, che si impegnarono con i fenomeni economici in modo molto giocoso, non tanto in modo critico. D’altra parte questo è anche il periodo del sorgere di una controcultura, che metteva in discussione tutti i tipi di establishment, compresa l’istituzione del capitalismo. Basti pensare all’enorme rivolta contro l’edizione del 1968 della Biennale di Venezia, che è stata considerata dagli studenti e dagli altri manifestanti come un’istituzione che promuoveva la mercificazione dell’arte, come parte di un mondo dell’arte che era - secondo il movimento di protesta - il dominio dei padroni del capitalismo. Artisti come Hans Haacke hanno tematizzato questi concetti nel loro lavoro. Haacke, ad esempio, nei primi anni Settanta denunciò la condotta truffaldina di Shapolsky, agente immobiliare di New York. Fotografò gli edifici di proprietà di Shapolsky, corredando quelle immagini con un lavoro di scrittura giornalistica con cui fornì dettagliate esposizioni delle pratiche usuraie che lì erano di norma. Dopo le pressioni di Shapolsky, le foto furono rimosse dal Guggenheim, dove erano esposte in una mostra ospitata dallo stesso Museo. F.C: Da quale sostrato intellettuale nasce l’impegno critico in chiave politico-economico di molti artisti degli anni Sessanta e Settanta? Come mai proprio in quest’epoca si diffuse una critica strutturale all’economia capitalistica? O.V: Sicuramente l’imaginary economics di questo periodo storico dovrebbe essere vista nella prospettiva di una critica molto più ampia della sinistra, del capitalismo e delle industrie culturali. Si pensi ad esempio alla popolarità che in quel periodo ebbero i testi teorici degli esponenti della Scuola di Francoforte, come Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse. “L’uomo a una dimensione” (1964), tra i più popolari testi di Marcuse, trattava proprio degli effetti negativi che il capitalismo avrebbe sulla nostra facoltà creativa. Molti paesi hanno avuto i propri equivalenti locali o i portavoce di queste correnti intellettuali.

F.C: In che modo si differenziano gli artisti dell’attuale forma critica di imaginary economics da quella del decennio Sessanta-Settanta? Perché utilizzano il mercato in chiave provocatoria contro il mondo dell’arte? Il loro messaggio non rischia di mancare di coerenza? O.V: La differenza principale è piuttosto che in questo periodo, l’attuale forma critica di imaginary economics non è portata a vedere il mercato come un oggetto di critica ma piuttosto come uno strumento di critica. Questi artisti hanno utilizzato il tramonto dell’ideologia a loro vantaggio: per loro il mercato può essere (ab) usato per comunicare un messaggio che non è tanto il mercato stesso ma altri problemi culturali e sociali, come il carattere elitario del mondo dell’arte. Sto pensando ad artisti come Christopher Büchel e Sal Randolph. Büchel ha venduto su eBay al miglior offerente il suo invito a partecipare all’edizione di Manifesta del 2002 a Francoforte. Randolph lo ha comprato e successivamente ha invitato tutti gli artisti interessati a partecipare. No, per me non c’è mancanza di coerenza. Questi artisti non sono interessati tanto ai grandi temi, come il capitalismo, ma sono più concentrati sui micro problemi. Li vedo piuttosto pragmatici, in fondo anche un po’ opportunisti, nel senso buono del termine. F.C: Passando al secondo indirizzo, quello dell’imaginary economics affermativa, perché ritiene che gli artisti degli anni Ottanta credevano che il mondo dell’arte si stesse commercializzando? Cosa si prefiggevano questi artisti? O.V: Nel 1980, artisti come Jeff Koons, Haim Steinbach e Ashley Bickerton, sembravano voler cancellare i confini tra il mondo dell’arte e quello dell’economia, utilizzando esplicitamente oggetti di consumo, tecniche di visualizzazione e presentazione di merci al di fuori del contesto dell’economia di mercato. Come avviene per ogni genere d’arte è ovviamente difficile sapere ciò che l’artista intende esattamente esprimere nei suoi lavori, ma trovo difficile interpretare queste opere in modo diverso da un’accezione affermativa dell’economia. Ben si espresse su questa forma di imaginary economics lo storico dell’arte americano Hal Foster, quando la definì “l’arte della ragione cinica”. F.C: La commodity sculpture, la pittura postmoderna, l’arte neo-geo rappresentano questa forma affermativa di imaginary economics. Questi artisti, pur facendo esplicito riferimento nelle loro opere, all’arte concettuale, minimale, ai ready made di Duchamp, ai beni di consumo della Pop Art, sono totalmente privi dell’intento critico, di

umorismo o parodia giocosa del mercato dell’arte. A cosa si deve questo mutamento di prospettiva? Da cosa nasce l’esigenza di questi artisti di affermarsi come delle super star? O.V: Questo cambiamento non è poi così sorprendente se si pensa che il 1980 è il decennio di Reagan e della Thatcher, della costituzione del neoliberismo e del crescente potere dei mercati finanziari. Sono i giorni delle scalate aziendali, quando le società venivano comprate e rivendute in maniera aggressiva al fine di accumulare rapidamente denaro. Questo è anche il periodo degli Yuppie. In altre parole diventare ricchi ed esibire tale ricchezza divenne un modo per guadagnare legittimità. In questo senso l’imaginary economics affermativa può essere vista come un ritratto dello Zeitgeist [spirito del tempo NdR] degli anni Ottanta. Inoltre questo è il periodo della forte espansione del mercato dell’arte e dell’afflusso al suo interno di ingenti somme di nuovi capitali provenienti da Wall Street e anche dagli industriali giapponesi. Tutto ciò ha causato il fenomeno delle super star tra gli artisti. F.C: All’interno del secondo indirizzo, in alcune operazioni artistiche degli anni Novanta, emerge una variante dell’imaginary economics affermativa degli anni Ottanta. Perché si parte dal presupposto della culturalizzazione dell’economia? E in che modo questi artisti esaminano le trasformazioni culturali ed economiche del loro tempo? O.V: In questo caso gli artisti rispondono ad una recente riconfigurazione dell’economia, quella che io chiamo culturalizzazione dell’economia. Costoro indicano nel loro lavoro come la nostra economia postmoderna ruoti attorno all’imprenditorialità creativa, al design, al lifestyle, a sofisticate tecniche di marketing che riescono a sedurre i clienti facendo appello ad una vasta gamma di valori culturali. In breve il mondo dell’arte e quello della vita economica sono sempre più congruenti, non perché il mondo dell’arte è sempre più simile all’economia ma, al contrario, è l’economia a diventare sempre più culturale. F.C: Su quali considerazioni si fonda l’alleanza strategica tra artisti e aziende iniziata negli anni Novanta? O.V: L’alleanza si basa, da un lato, sull’esigenza di molti artisti di cercare un nuovo pubblico al di fuori del mondo dell’arte tradizionale. Questi artisti fanno parte di un corpo di lavoro più ampio, la scultura sociale, in cui gli artisti cercano di collocarsi all’interno della società. Mentre da parte delle imprese questo interesse può essere spiegato dalla ricerca di nuove fonti d’innovazione. Si può vedere chiaramente nelle società internet della fine


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Atelier Van Lieshout, "AVL Money", 2000 Courtesy Atelier Van Lieshout, design Floor Rouben

degli anni Novanta, che hanno cercato di creare culture aperte e informali al fine di stimolare la creatività rispetto ai propri datori di lavoro. F.C: Quale modello emerge e quali domande solleva il terzo indirizzo dell’imaginary economics, che rappresenta l’economia come un gioco? O.V: Questo tipo di imaginary economics in realtà mette in discussione tutti i generi di dicotomia su cui si basa il nostro pensiero sull’arte e sull’economia: mercato contro dono, prodotto contro bene culturale, il prezzo contro il valore. Per me il loro lavoro dimostra che ciò che accade nel mondo dell’arte e dell’economia non può essere inteso attraverso queste categorie binarie. F.C: Perché lei reputa che la forma di imaginary economics che rappresenta l’economia come un gioco, sia quella più efficace? O.V: Non so se sia la più efficace, ma penso che sia la più convincente, poiché mette in evidenza la complessità della vita economica e artistica. Ciò che trovo interessante di questo tipo di imaginary economics è il suo carattere giocoso e di leggerezza vivificante. Mette in discussione il carattere sacrosanto dell’arte e l’imponente carattere egemonico delle istituzioni economiche, come le banche. F.C: Cosa differenzia e cosa accomuna l’odierna economia del gioco da

Yves Klein, Marcel Broodthaers, Piero Manzoni, Pieter Engels e dagli altri artisti che negli anni Settanta utilizzarono in arte le armi dell’humor power e del ludus underground? O.V: Non credo ci siano differenze sostanziali. Sia oggi che negli anni Sessanta-Settanta, questi artisti erano esperti nel creare confusione, evitando la possibilità di un’interpretazione mono-dimensionale del loro lavoro. Ho pensato che forse il modo in cui prende forma il loro lavoro potrebbe essere diverso: ciò che trovo impressionante al giorno d’oggi è il numero di artisti che hanno istituito le loro finte società che imitano la vita degli affari economici e colpiscono con l’ironia tutti i rituali, gli eccessi di retorica e i simboli dell’economia capitalista. Ma già nel 1960 ci sono stati artisti, come Engels, che hanno fatto lo stesso. Engels ha fondato la sua impresa d’arte, la EPO [Engels Product Organization NdR], che, per esempio, danneggiava la tua auto su richiesta (e naturalmente veniva pagato per questo, pagato molto se tu volevi ottenere un bel danneggiamento). F.C: Nel suo saggio ha individuato tre forme di imaginary economics. In conclusione, qual è a suo parere il loro reale interesse e la loro influenza sul pubblico? O.V: Mi rendo conto che la maggior parte dei lavori artistici che argomen-

to nel mio libro o, in generale, tutte le opere d’arte che chiamerei imaginary economics, sono difficilmente note al largo pubblico. Nel caso di Duchamp o di Klein, la loro imaginary economics potrebbe essere anche meno conosciuta della loro intera opera. Solo alcuni addetti ai lavori conoscono gli assegni e le obbligazioni di Duchamp, perché viene ricordato principalmente per i suoi ready made. Cosicché non ho affatto l’illusione che le persone potrebbero cambiare la loro opinione sulla vita economica a causa dell’imaginary economics. Allo stesso tempo ho notato che una volta che le persone entrano a conoscenza di questo tipo d’arte, immediatamente ne capiscono il senso e sanno apprezzarla realmente. Ciò succede ancora maggiormente dopo la crisi finanziaria avvenuta nell’ultimo paio d’anni, che ha discreditato l’economia 'ufficiale' o 'tradizionale'. Olav Velthuis è Assistant Professor presso la Facoltà di Sociologia e Antropologia dell’Università di Amsterdam e i suoi articoli sono apparsi su autorevoli pubblicazioni tra cui Artforum e Financial Times. Oltre a Imaginary Economics ha pubblicato “Talking Prices. Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art” (Princeton University Press, 2005), premiato nel 2006 dall’American Sociological Association come miglior volume di sociologia economica. Ha collaborato per vari anni al quotidiano olandese de Volkskrant. - 73 -


arskey/Critica | 1- Incontro teorico con Eugenio Viola

A ChE SERVE LA CRITICA?

INCONTRI TEORICI # 1. ANTONELLO TOLVE - EUGENIO VIOLA di Antonello Tolve

Antonello Tolve

Antonello Tolve: Partirei da una delle questioni più scottanti del panorama attuale. E cioè dal passaggio, a volte sempre più incisivo, da una mostra vista come saggio visivo e costruzione di discorso teorico a una mostra che si pone come semplicistico spettacolo e come pura kermesse mediatica. Eugenio Viola: In Italia e in Europa abbiamo avuto una generazione di critici che hanno intrecciato indissolubilmente esercizio teorico e scrittura espositiva: Restany, Celant o Bonito Oliva hanno messo insieme veri e propri movimenti, ma penso anche a grandi curatori come Szeemann, Rosenthal, Hoet. Oggi la situazione è un po’ diversa, il trend dominante è quello di un generale affievolimento dell’istanza critica a favore di una ipertrofia curatoriale, quasi pantagruelica, che col tempo ha messo in discussione anche il ruolo ‘monolitico’ del curatore. “La dittatura dello spettatore”, sotto il cui segno Bonami ha inaugurato la Biennale di Venezia del 2003, è in questo senso esemplare di una tendenza. È un fenomeno indubbio e da più parti lamentato, Trimarco docet, rimpiazzato da una strategia meno impegnata e più 'trendy', a

opera di una generazione formata da curatori rampanti, attenta più alle mode del momento che ai contenuti. È questa un’attitudine oggi alquanto diffusa. D'altronde, quella che mi piace definire una visione 'apocalittica' della critica, da Baudrillard a Virilio, da Bauman a Michaud, ha tracciato una linea continua scandita dalla sequenza, quasi luttuosa, avanguardia-postmoderno-fine dell'arte. Io non sarei tuttavia così catastrofico. Ho la fortuna di vedere ancora mostre caratterizzate da una scrittura espositiva che si pone come ipotesi critico-progettuale alternativa, affronta le inquietudini del contemporaneo in maniera coraggiosa e dialettica. Ti sembrerò inoltre probabilmente provocatorio, ma il trend attuale, legato principalmente alla spettacolarizzazione e a quella che tu chiami 'kermesse mediatica', è un’attitudine che non condanno in toto: la spettacolarizzazione, le mostre 'cassetta', servono, permettono di avvicinare un pubblico più eterogeneo e ampio, oltre il microcosmo spesso troppo autoreferenziale del sistema dell’arte. A.T: Tu, personalmente, quale criterio utilizzi per l'organizzazione di una mostra? E.V: Per quanto mi riguarda, pur sentendomi essenzialmente un curatore, ritengo imprescindibile la funzione critica, considero entrambe complementari e non necessariamente inconciliabili. Per questo motivo cerco di lavorare contemperando le duplici istanze della 'verbalizzazione' e della 'visualizzazione', per ricordare due termini cari ad Ammann, cercando di tenere uniti, per quanto possibile, profilo teorico e scrittura espositiva. Dipende comunque dalle specificità legate a ogni singolo progetto. Ogni

volta è diverso. Considero le mostre una sorta di saggio visivo, la visualizzazione di un discorso, soprattutto quando si tratta di mostre tematiche che per essere adeguatamente affrontate necessitano di approfondire un tema, come nel caso della famigerata “Arte e Omosessualità” (2007), dove, oltre la spettacolarizzazione mediatica e la conseguente strumentalizzazione, ho imbastito un percorso per immagini coerente, che attraverso cortocircuiti e passaggi fondamentali rintracciava un filo rosso, una serie di emergenze tematiche omoerotiche nel 'corpo' dell’arte. Il progetto individuava, oltre le convenzionali identità di genere, un filone all’interno di un comune modo di sentire, di esprimere stati d’animo, attitudini, emozioni, senza alcuna pretesa di esaustività o di definire i canoni di uno 'specifico omosessuale' nell’arte. La stessa attitudine diresse una mostra accattivante e all’apparenza leggera, come quella di David LaChapelle: “V.I.P. - Very Important Portraits” (2006), curata con Adriana Rispoli negli spazi del Museo di Capodimonte e nata come link contemporaneo alla mostra su “Tiziano e il Ritratto di Corte da Raffaello ai Carracci”. L’idea era provocatoria e ironica, giocata sul parallelo tra il genio italiano del Cinquecento e il fotografo americano: entrambi artisti rampanti, alla moda e di successo. Ragionando sul passaggio dall’unicità del ritratto dipinto alla serialità di quello fotografico, la nostra riflessione si concentrava sulle differenti committenze: pontefici, aristocratici e imperatori ritratti da Tiziano nell’età della Rinascenza che diventavano in un certo senso, se si considera il mutato potere di attrazione mediatica, gli antecedenti dei 'vip'


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Eugenio Viola, ORLAN, Raphael Cuir, foto di A. Benestante, Courtesy Museo Madre, Napoli


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il sisteMa dell’arte è sClerotizzato, si nutre in Maniera pantagrueliCa degli effetti della globalizzazione appartenenti al mondo dello starsystem, come quelli immortalati dall’obiettivo di David LaChapelle. Due occasioni, a mero titolo esemplificativo, del mio modus operandi. A.T: La tua linea curatoriale è varia. Tuttavia privilegi un discorso legato al corpo e alle sue declinazioni attuali. La tua storia - e la tua formazione - è legata a ORLAN e, via via, a uno studio sul Post Human e sull'Art Biotech. E.V: Questi percorsi inquieti hanno segnato i miei esordi. ORLAN è stata il mio viatico attraverso questi cammini impervi, intrapresi sotto la benedizione del nostro maestro, Angelo Trimarco. Santa ORLAN è stata l’oggetto della mia tesi di laurea, prima che io diventassi, come lei stessa ama definirmi, il suo 'specialista'. A oggi ho curato 5 sue mostre, inclusa la sua più grande retrospettiva al Musée d’Art Moderne de Saint-Etienne Métropole in Francia, portata poi l’anno dopo alla Kunsthalle di Tallinn in Estonia e la relativa monografia “Le Récit”, ed.Charta. Le ricerche su di lei hanno poi costituito lo starting point della mia tesi di dottorato, che ricostruisce appunto la parabola teorica che dal Post Human giunge alla vertigine dell’Art Biotech. Un rapporto di lungo corso quindi, con le fenomenologie estetiche legate al corpo. Un percorso di ricerca teorica e pratica curatoriale: ho avuto anche la fortuna di poter organizzare, al MADRE, fino a oggi per due edizioni, “Corpus. Arte in Azione”, un ciclo di performance site-specific, realizzato in collaborazione col Napoli Teatro Festival. La prima edizione caratterizzata da una certa fascinazione per il cosiddetto 'corpo estremo' che ha visto protagonisti Ron Athey, Andrea Cusumano, il serbo Gabrijel Savic Ra, Kira O’Reilly, Milica Tomic e la napoletana Angela Barretta, esperienze radicali cui si accompagnavano una serie di tangenze che uniscono l’interesse performativo alla musica, con artisti come Jamie Shovlin e i Lustfaust e Tobias Bernstrup. La seconda e per ora ultima edizione era invece incentrata sul 'femminino' e sulla pratica, ancora una volta radica-

le e politica, di un agguerrito gruppo di artiste sudamericane: Tania Bruguera, Teresa Margolles, Regina Josè Galindo e Maria Josè Arjona, accompagnate a due napoletani, MaraM, e Sebastiano Deva, regista del contestato “Mystica”, realizzato in collaborazione con la croata Xena Zupanic. A.T: Ragionerei a questo punto, prima di passare ad altro, sul concetto di velocità - Virilio di recente ha parlato di un 'futurisme de l'instant' - che è diventato, oggi, nodo, grumo ma anche problematica dello stato dell'arte, della critica e della curatela. E.V: Il sistema dell’arte è sclerotizzato, si nutre in maniera pantagruelica degli effetti della globalizzazione. Tu citi Virilio, che a tale proposito parla del 'Grande Panico', generato dalla digitalizzazione dei media e dalla conseguente virtualizzazione del mondo, oramai sempre più caratterizzato dall’ibridazione fra stili e culture e dalla rapidità delle trasformazioni sociali ed economiche in atto. Giustamente M.C.Taylor identifica nella complessità l’aspetto che caratterizza, più di ogni altro, il nostro tempo. Viviamo una società iper-estetizzata che rischia di an-estetizzarci, un'orgia visiva che acceca, dove “l’accelerazione della realtà contemporanea […] rimette in questione ogni rappresentazione”, rileva ancora Virilio nell’icastico “L’arte dell’accecamento”, enfatizzando il “turnover di un’arte in permanente transito”. A.T: Come dovrebbe comportarsi, secondo te, un curatore accorto di fronte a un discorso che legge il curatore, appunto, come una figura ambigua e molte volte impreparata? E.V: Nell’affrontare in maniera seria, rigorosa e consapevole, oltre le singole strategie, l’esigenza espositiva. Soprattutto quando si lavora con artisti emergenti la responsabilità è grande. In un ambiente che ai più sembra votato al disimpegno avverto la necessità di dissentire, di enucleare delle emergenze che indagano, in maniera anche provocatoria, le lacerazioni e le inquietudini della contemporaneità.

Cerco di portare avanti un lavoro quanto più etico possibile, anche se scomodo, ma soprattutto sincero e radicale. Credo che l’arte debba essere scomoda, debba necessariamente fornire letture alternative. Credo sia oggi la sua unica ragion d’essere. Se è vero, come dice Michaud, che “l’arte è diventata ormai l’etere della vita ed è passata allo stato gassoso”, una teoria e una pratica curatoriale eticamente responsabile devono ribaltare polemicamente questa prospettiva e rimettere in questione, oltre il caos mediatico imperante dell’informazione globale, il ruolo impegnato dell’arte e dell’artista. A.T: Anche l'artista è ritornato a coprire il ruolo di curatore. Da quale discorso nasce secondo te questa nuova esigenza? E.V: È una tendenza che nasce dall’eclettismo e dalla sclerotizzazione del sistema dell’arte, che per molti aspetti è in profonda crisi. È un fenomeno in ascesa, che fa molto trendy in certi ambienti, ma non prendere queste mie parole come una condanna. Abbiamo anche il caso di ex artisti che oggi sono affermati curatori, Francesco Bonami è esemplare. È una soluzione che non mi dispiace, ho visto mostre interessanti curate da artisti, da Jota Castro a Carlos Garaicoa, da Rirkrit Tiravanija a Jeff Koons, il cui battesimo curatoriale è stata la mostra “Skin Fruit”, ospitata negli spazi del New Museum a New York. Una selezione dalla collezione di Dakis Joannou che in parte rientrava nelle 'kermesse mediatiche' cui tu facevi riferimento prima. Sotto l’aspetto teorico la mostra si poneva come sfiatato prosieguo della ben più fortunata “Post Human” curata da un altro personaggio trasversale, Jeffrey Deitch, la cui parabola (curatore-gallerista-direttore di museo) ben restituisce questa fluidità di genere e ruoli che caratterizza oggi il sistema dell’arte, ma che tuttavia forniva stimoli visivi interessanti, una mostra sicuramente trendy, accattivante, complessivamente piacevole. A.T: Le fiere - appuntamenti irrinun-


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ciabili - sono, del presente dell'arte, assieme alle biennali e alle aste, l'ultima grande frontiera dell'arte o meglio, dello spettacolo dell'arte, per dirla con Donald Thompson. Si parla finanche di esaurimento da fiera e di grande circo errante dell'arte. E.V: Gli appuntamenti dove il 'popolo dell’arte', spesso presenzialista per l’urgenza di rimanere costantemente updated, si sono moltiplicati a dismisura in ogni angolo del pianeta, e sono una diretta conseguenza della sclerotizzazione cui alludevo prima, al permanente transito. Lo stesso sistema delle mostre si è sclerotizzato e le politiche museali si sono a loro volta adeguate, concentrandosi nella produzione di mostre temporanee piuttosto che in acquisizioni. Quando necessita, si arriva a ridurre la superficie della collezione permanenti per dare più spazio alle mostre temporanee, ma anche questo è un trend che capisco, cerca di intercettare attraverso la politica dell’evento, un pubblico sempre più ampio e diversificato. A.T: Sorvolerei sui gravi problemi del MADRE e ti chiederei quale è stato il programma che, assieme ad Adriana

Rispoli, hai realizzato nei tuoi anni curtoriali della Project Room. E.V: Siamo ancora i curatori della Project Room del MADRE, anche se, per i noti problemi, siamo al momento tra color che son sospesi… Oltre la sopracitata esperienza di “Corpus. Arte in Azione”, la nostra attività si è concentrata sul progetto “Transit” un network in progress realizzato con alcune città del bacino mediorientale, tutte 'eccentriche', nel senso etimologico del termine, alle grandi capitali del sistema dell’arte. In ognuno di questi luoghi abbiamo lavorato con curatori indipendenti o istituzioni che ci hanno proposto un giovane artista da esporre, attraverso bi-personali, con un artista napoletano nella Project Room del MADRE. Entrambi presentavano progetti site-specific, realizzati a seguito di un breve periodo di residenza che ognuno degli artisti, il nostro e il loro, svolgeva nella città dell’altro: l’artista straniero a Napoli, il nostro nella città del partner di volta in volta individuato. I rispettivi lavori riflettevano questa esperienza: lo sguardo dell’uno sulla realtà di provenienza dell’altro. Ogni mostra si svol-

geva in due tempi: quando chiudeva al MADRE si spostava nel paese di provenienza dell’artista straniero invitato. Abbiamo nel marzo del 2009 il Cairo, poi è stata la volta di Istanbul: “Transit 2” ha inaugurato nel luglio del 2009 a Napoli per poi riaprire a settembre negli spazi di PiST/// come evento collaterale dell’XI Biennale di Istanbul; analogamente “Transit 3” dopo aver chiuso i battenti al Madre nel mese di novembre del 2009 si è spostata, a dicembre del 2009, negli spazi del CCA di Tel Aviv. La quarta e a oggi ultima tappa, inaugurata a maggio 2010, ha visto la collaborazione con lo State Museum for Contemporary Art di Salonicco, e si è faticosamente spostata, lo scorso dicembre, a Salonicco, dove nel frattempo si è anche conclusa. L'obiettivo di “Transit” era quello di riattivare metaforicamente le antiche rotte marittime, riflettendo allo stesso tempo sulla posizione, sul sostrato antropologico e sul ruolo centrale di Napoli all’interno del Mediterraneo. Un modo per rileggere attraverso il presente e il linguaggio metaforico dell’arte le complessità e le stratificazioni di questi luoghi che,

Moio&Sivelli, “Naked Lunch”, performer E. Oreto, foto di A. Benestante Courtesy degli artisti e Museo Madre, Napoli


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una teoria e una pratiCa Curatoriale etiCaMente responsabile devono ribaltare poleMiCaMente questa prospettiva e riMettere in questione, oltre il Caos MediatiCo iMperante dell’inforMazione globale, il ruolo iMpegnato dell’arte e dell’artista da sempre, integrano nel proprio tessuto nuovi conflitti, contraddizioni e dinamiche. Gli artisti napoletani coinvolti sono Domenico Antonio Mancini, Danilo Correale, Raffaella Crispino ed Eugenio Tibaldi, e ognuno di loro, e lo dico con soddisfazione, ha tratto dei vantaggi, in termini di carriera, da questa esperienza. A “Transit” abbiamo alternato un ciclo di mostre più brevi, con interventi site specific realizzati da giovani artisti napoletani alle prime esperienze espositive. È stata questa un’operazione atta a dare una visibilità temporanea, appunto uno “Spot”, da qui il nome di questa serie di mostre, alla creatività locale, trasversale e ancora sommersa, non ancora o solo embrionalmente inserita nel cosiddetto sistema dell’arte. Giuseppe Stellato, Roberto Amoroso, Donatella Di Cicco, Moio&Sivelli gli artisti invitati. L’intera programmazione è stata accompagnata da un intervento urbano di Mariangela Levita: “Empathy,” nato come un brand d’artista, concepito per accompagnare e visualizzare il frame concettuale della Project Room, basato per l’appunto sulla de-territorializzazione, il dislocamento, il transito. Un’opera modulare composta da 6 elementi che abitava le strade della città sotto forma di manifesto. Un segno che voleva caratterizzare l’area urbana aprendo metaforicamente le attività della Project Room alla città.

A.T: Spostiamoci sul versante artistico. In Italia ci sono artisti di ogni natura. Mi interrogavo, di recente, sulla possibilità di un'arte autenticamente italiana, legata a un eventuale genius loci italicus, per intenderci. Personalmente penso che alcune venature strettamente italiane siano ancora fortemente presenti in alcune manovre estetiche. Dal canto tuo pensi sia possibile rintracciare questa appartenenza? E.V: Oltre alcune innegabili specificità, emergenze tematiche, 'umori' se preferisci, che puoi rintracciare in Italia come in qualsiasi altro paese, il linguaggio degli artisti si è molto globalizzato. Non necessariamente da alcune caratteristiche specifiche si può risalire direttamente all’espressione di un generico genius loci o supposto Volksgeist. Non rintraccio nessuna particolare tendenza che serva a rimarcare una specificità. Esito questo, a mio avviso, di un processo lungo e complesso, radicato nelle profonde trasformazioni che hanno investito il sistema dell’arte nell’epoca della globalizzazione, del post-storia, in cui l’esperienza estetica, oltre le mere distinzioni di locale e globale, diviene spazio di costruzione e di decostruzione della vita e del mondo. Recentemente ho fatto parte di diverse giurie nazionali, legate a mostre a premi o generazionali e ho riscontrato, ancora una volta, una grande ete-

rogeneità di espressioni e linguaggi. Credo che l’ultima operazione riuscita in questo senso, atta a richiamare le ragioni del genius loci, sia stata quella della Transavanguardia in Italia a opera di Achille Bonito Oliva e dei Neue Wilden in Germania. Etichette successivamente rifiutate anche dai protagonisti stessi di questi movimenti, ed è emblematico. A.T: Chiuderei con una curiosità. In base ai tuoi gusti, nel panorama attuale delle arti, in Italia, ci sono giovani leve sulle quali pensi si possa scommettere? E.V: Molti. Impossibile citarli tutti. Il problema in Italia non è la qualità degli artisti ma è di carattere più generale: un maggiore sostegno sotto il punto di vista statale e pubblico all’arte contemporanea in Italia è ormai un’urgenza impellente, analogamente a quanto già accade in altre realtà europee, e alludo ad esempio al sistema delle kunsthalle teutonico, ai plateau francesi, al protezionismo spagnolo e britannico. Questo darebbe maggiori possibilità ai nostri artisti e maggiore potere contrattuale agli addetti ai lavori, bilanciando alcune carenze endemiche del nostro sistema dell’arte. Non è un caso che i nostri artisti più affermati, di ogni generazione, trovino in genere il loro riconoscimento in Italia soltanto dopo essere espatriati.


20.5.11

aste/ economia/ politica

20.8.11

economia dell’arte il punto di vista di salvatore settis sull'attualità. | intervista a umberto croppi, ex assessore alla cultura di roma. tra speranze deluse e progetti futuri. | intervista a carla tomasi, presidente dell’a.r.i., l’associazione restauratori d’italia. | beni culturali: cercasi un cavour per un nuovo risorgimento. | le aste italiane di febbraio, marzo e aprile 2011: il mercato italiano dell'arte moderna e contemporanea |aste all'estero: Modern & contemporary: riprende l'entusiasmo| rivoluzione dei Gelsomini: egitto e turchia: ponti moderati tra occidente e Medio oriente. | rapporto nomisma 2011 :mercato italiano verso la stabilità. | a cura di arsValue.com aste in cifre

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arskey/Politiche Culturali| Intervista a Salvatore Settis

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IntervIsta:

Il punto dI vIsta dI salvatore settIs sull'attualItà

Professore di archeologia greca e romana per diversi anni alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Direttore della Normale dal 1999 al 2010. Autore di numerosi saggi tra cui "Italia S.p.a. L'assalto al patrimonio culturale", "Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile" e il recente “Artisti e committenti tra Quattro e Cinquecento”. Voce tra le più attente e autorevoli, Salvatore Settis è da anni in aperto contrasto con la politica di tagli indiscriminati promossa dal governo Berlusconi nei confronti dell'università e del nostro patrimonio culturale. Letizia Guadagno: Il neo ministro Galan ha recentemente affermato: “Bisogna investire, non servono più soldi ma capacità di spendere. Quando si ha capacità, i soldi si trovano”. È d'accordo con questa affermazione del neo ministro? Salvatore Settis: La capacità di spendere presuppone che ci siano i soldi. È difficile spendere se la cassa è vuota. Penso che bisogna ricordarsi che il bilancio del

di Letizia Guadagno

In un paese dove c'è un'evasIone fIscale dI 120 mIlIardI dI euro l'anno, credo che sIa IncredIbIle che per dare un mInImo aIuto alla cultura tuttI debbano esser tassatI, e tuttI In modo uguale

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Ministero per i Beni e le Attività Culturali, è stato dimezzato da questo governo nel giugno 2008. L'allora ministro Bondi aveva appena dichiarato che i fondi erano pochi, che nemmeno due settimane dopo il bilancio fu dimezzato. È chiaro che bisogna sapere spendere ma i fondi attuali sono inferiori a quanto occorrerebbe per coprire le necessità minime del Ministero. Spero che il nuovo Ministro si impegni a spendere bene ma prima ancora che riesca a ottenere nuovi fondi. Se è vero che i soldi ci sono, li trovi! L.G: Dopo infinite critiche, il Ministro Tremonti ha recuperato, in extremis, dei fondi per la cultura, introducendo la tassa di un centesimo sul costo della benzina. Trova giusta questa misura? S.S: Trovo molto giusto che lo Stato abbia recuperato dei fondi per la cultura, anche se fossero solo 100 euro sarei contento. Il fatto che però abbia tassato di un centesimo la benzina è un segno negativo. Il messaggio è: se volete più fondi per la cultura pagherete tutti, dall'imprenditore all'operaio. È assurdo che lo Stato non trovi fondi se non tassando il cittadino. In un paese dove c'è un'evasione fiscale di 120miliardi di euro l'anno, credo che sia incredibile che per dare un minimo aiuto alla cultura tutti debbano esser tassati, e tutti in modo uguale. È un cattivissimo segno che mette in luce un meccanismo sbagliato. L.G: Sovrintendenze allo sbando, crolli drammatici come quello verificatosi a Pompei, il Ponte di Rialto che si sgretola... L'elenco delle emergenze potrebbe essere lunghissimo. Galan ha affermato che in Italia serve un “Piano Roosevelt per la cultura”. Secondo lei da dove cominciare? E soprattutto come procedere? S.S: Inutile tirare in ballo Roosevelt e utilizzare formule a effetto. Questa è una battuta che non capisco. Lui dovrebbe fare un Piano Galan. E il piano per l'Italia dovrebbe cominciare con il rispetto dell'articolo 9 della Costituzione ovvero “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La tutela viene esercitata dallo Stato attraverso le Soprintendenze. Da 25 anni, però, le amministrazioni statali non fanno più assunzioni nelle Soprintendenze. Mi piacerebbe che si cominciasse con il riconoscere l’assoluta esigenza di nuovo personale nelle Soprintendenze, tanto più che


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Salvatore Settis

ci sono migliaia di laureati, anche altamente qualificati, in attesa di prima occupazione. Nuovi fondi e nuove assunzioni sulla base del merito: queste le due misure essenziali per dare attuazione all’art. 9 della Costituzione, oggi svilito e offeso da chi ci governa. Il resto sono chiacchiere. L.G: La maglia nerissima è però la ricostruzione dell'Aquila. A due anni dal sisma i piani di recupero del centro storico sono ancora bloccati. Le Soprintendenze abruzzesi non riescono a vigilare sui lavori. Secondo le stime servirebbero 3miliardi e mezzo di euro per la ricostruzione del patrimonio culturale pubblico e privato. Sinora sono arrivati solo 17,8milioni del Mibac, 58,3 della Protezione civile e 87milioni da donazioni varie... S.S: L'Aquila è un caso evidente in cui si vede come sia diversa l'Italia di oggi rispetto a quella di alcuni anni fa. Quando ci fu il terremoto in Umbria nel 1997 a nessuno venne in mente di abbandonare i centri storici. Con questa nuova formuletta della “new town” il centro dell'Aquila è stato abbandonato e questo è un altro fallimento di questo governo che ha fatto una scelta tanto cinica e insensata. C'è stata inizialmente un'operazione abile di comunicazione spostando lì il G8 e chiedendo ai paesi che vi prendevano parte dei contributi. Poi però i paesi che hanno realmente donato qualcosa sono stati solo tre mentre lo Stato ha dovuto affrontare doppie spese: quelle già effettuate in Sardegna e quelle per l'allestimento del G8 all'Aquila. Se i soldi fossero stati investiti per l'Aquila, un pezzo del suo centro storico oggi sicuramente sarebbe ricostruito. L'Aquila purtroppo è il risultato di una politica fallimentare da parte di un governo che sta trasformando questa città in un'altra Pompei. L.G: Sponsorizzazioni. Sempre più spesso lo Stato si rivolge ai privati per fare fronte a restauri impegnativi. Della Valle è sceso in campo per il Colosseo. I lavori non sono ancora iniziati ma le polemiche sì. Come coniugare l'intervento dei privati, in alcuni casi fondamentale, con l'esigenza di non svilire l'immagine del bene in questione? S.S: Secondo me i privati quando agiscono in modo disinteressato sono ben accetti, anzi debbono essere ricercati in modo accanito. Ma per ottenere contributi disinteressati dai privati, come è negli Stati Uniti, occorre concedere loro visibili vantaggi fiscali in cambio dei versamenti in favore di ricerca, università, teatri, musei. Nel nostro sistema fiscale non si prevede nulla di simile. Anzi tutti i nostri governi, di destra e di sinistra, rifiutano di prendere in considerazione misure simili, perché in un Paese con il record mondiale di evasione fiscale concedere sgravi fiscali sembra impossibile. Durante il II Governo Prodi, Rutelli e Padoa Schioppa fecero eseguire in merito uno studio, che si concluse con un nulla di fatto. Ulteriore conferma che bisogna agire, e con urgenza, per limitare l’evasione fiscale recuperandone almeno una parte. Secondo un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore nell'aprile del 2010, l'evasione in Italia ammonta a 100miliardi di euro l’anno. Una cifra che rispetto allo scorso anno anno è cresciuta ulteriormente del 20% e che complessivamente corrisponde al 60% dell'intero gettito Irpef. L.G: Tagli all'istruzione, con scuole inferiori, superiori e università in situazioni di gravissima emergenza. È

ma per ottenere contrIbutI dIsInteressatI daI prIvatI, come è neglI statI unItI, occorre concedere loro vIsIbIlI vantaggI fIscalI In cambIo deI versamentI In favore dI rIcerca, unIversItà, teatrI, museI

una conseguenza della crisi o siamo davanti a un vero e proprio piano di smantellamento di un sistema creativo, formativo e informativo da parte del governo? S.S: Si invoca tanto la crisi, ma l'Italia potrebbe uscire facilmente dalla crisi se solo riuscisse a recuperare un 10% dell'evasione fiscale. Questo problema invece non si affronta e anche l'opposizione ha la colpa di non parlarne. Quasi come se ci fosse un articolo apocrifo della Costituzione, in base al quale il governo debba tollerare, o addirittura incoraggiare l'evasione. Quanto alla diminuzione di risorse per l'università, non mi piace pensare a una specie di cospirazione. Però alcune riflessioni si possono fare. La crisi è un fenomeno che tocca anche gli altri paesi. Nonostante questo, la Germania ha deciso di investire 10miliardi di euro in nuove iniziative per la ricerca e l’università nei prossimi anni. Stesso discorso per la Francia che nei prossimi cinque anni ha previsto un investimento di 21miliardi di euro in questi stessi settori. Gli altri paesi per reagire alla crisi investono in ricerca e università. In Italia, al contrario, si taglia. Obama ha detto che per uscire dalla crisi è necessario come prima cosa investire di più in ricerca. E in questi anni, i finanziamenti statali negli Stati Uniti in alcuni settori, come in quello biomedico, sono raddoppiati e, talvolta, triplicati. L'Italia è un paese sempre più provinciale che si sta rassegnando a diventare un fanalino di coda. Un paese che sta andando nella direzione contraria a quella dei Paesi con cui dice di voler competere, e che così facendo condanna se stesso. L.G: Disagio giovanile sempre più forte, sempre più evidente. Un consiglio... S.S: Io viaggio molto per lavoro e vedo ovunque giovani italiani che non trovano lavoro in Italia ma che lo trovano altrove. Questo grazie alla nostra Università che ha formato benissimo i nostri studenti, da un punto di vista umanistico ma non soltanto. Voglio citare alcuni esempi, il Dipartimento di Storia della Scienza Antica presso l'Università di Berlino aveva emesso un bando per sei ricercatori. Ben quattro di queste posizioni sono andate a degli italiani. Due anni fa, il CNRS, il CNR francese, aveva bandito un concorso per venti ricercatori: otto posti sono stati vinti da italiani. Bisogna che chi vuole fare ricerca oggi tenga duro e trovi lavoro altrove. Sperando che presto l'Italia si svegli perché il momento arriverà, deve arrivare, perché altrimenti il paese muore. A quel punto mi auguro che i migliori ricercatori italiani che erano stati costretti, dolorosamente, a emigrare, ritornino. L.G: Una domanda personale: si parla di un suo possibile rientro al Mibac alla guida di una “task force” per il paesaggio. Ci conferma questa possibilità? S.S: Non ne so assolutamente nulla. Non ho mai incontrato il nuovo ministro né ho mai parlato con lui.

FESTIVAl DI FAENZA: In occasione del Festival di Faenza, Angela Vettese ha intervistato Salvatore Settis sulla difesa del patrimonio culturale italiano, in un percorso tra le epoche che dall’età d’oro della committenza conduce fino a oggi.


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arskey/Politiche Culturali| Intervista a Umberto Croppi

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opInIonI:

IntervIsta a umberto croppI, ex assessore alla cultura dI roma. tra speranze deluse e progettI futurI di Letizia Guadagno

Quando alemanno sI è trovato sotto attacco per lo scandalo dI parentopolI è cambIato tutto Letizia Guadagno: Sono passate diverse settimane dalla sua uscita da Assessore alla Cultura di Roma. Nei momenti caldi, dando prova di grande signorilità non ha rilasciato nessuna dichiarazione. Cosa è successo realmente? Umberto Croppi: Bisogna partire dall'inizio, ovvero dal 2005, quando di ritorno a Roma dopo un soggiorno a Firenze di sei anni durante il quale avevo diretto la casa editrice Vallecchi, mi sono riavvicinato alla vita politica incuriosito dalle novità di Fini e ho ripreso a frequentare dei vecchi amici. Ho cominciato così a collaborare con Alemanno per la Fondazione Nuova Italia e nel 2008 ho accettato di curare la comunicazione della sua campagna elettorale. L'ho fatto con grandissimo impegno e credo che il mio apporto sia stato determinante per il suo successo. È stata una campagna giocata in positivo, basata sull'idea che si poteva rompere con i vecchi modi di lavorare, che ha alla fine conquistato la fiducia anche dell'elettorato di sinistra. A elezioni concluse, mi sono ritrovato nella squadra di governo e il sindaco mi ha assegnato il ruolo di

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Assessore alla Cultura. Il mio inserimento nella Giunta Capitolina aveva confermato la volontà di Alemanno di aprirsi al nuovo, di non adoperare lo spoil system e io ho interpretato questo ruolo alla luce del sole. Sono riuscito a fare in modo che l'attenzione finanziaria verso la cultura non venisse meno e il mio lavoro è stato apprezzato. Quando Alemanno si è trovato sotto attacco per lo scandalo di Parentopoli è cambiato tutto. Parentopoli rappresentava un fallimento, era la prova che tutto era andato avanti con gli stessi vecchi metodi. Per rispondere a questa crisi, Alemanno elaborò con me una strategia di risposta ovvero una pacchetto di delibere per la moralizzazione e la corretta gestione delle aziende municipalizzate. Questa prevedeva anche un rimpasto della Giunta con nuovi tecnici. Il paradosso è stato che, nella fase conclusiva, Alemanno si è fatto travolgere, ottenendo risultati opposti. Non è stato capace di gestire la crisi e si è fatto azzerare la sua autonomia. L'unica giustificazione che ha dato Alemanno sulla mia uscita, dopo aver riconosciuto la bontà del mio lavoro, è stata una questione di numeri, di rapporti di forza in consiglio comunale. Alemanno si è consegnato così alle fazioni ottenendo risultati opposti agli obiettivi di trasparenza e moralizzazione che stavamo perseguendo. L'esperimento Alemanno nato con voglia di rinnovamento è dunque finito. Oggi c'è una Giunta che risponde solo alle logiche del Partito PDL, che in città, tra l'altro, è un partito minoritario. Abbiamo un'amministrazione attenta a mantenere equilibri di maggioranza che dimostra di non avere alcuna visione sulla città. Un esempio, in questo senso, sono i recenti Stati Generali dove sono stati presentati dei progetti tutti scollegati tra loro. Non c'è nulla di strategico in questi piani solo una gestione legata alla quotidianità. L.G: C'è stato molto rammarico per la sua uscita. Il suo lavoro e la sua serietà sono stati apprezzati anche dagli 'avversari' politici. Che cosa succede ora? Sappiamo che vorrebbe continuare a impegnarsi a favore della crescita culturale della città. U.C: Quando sono stato costretto a lasciare, Alemanno mi ha offerto degli incarichi compensativi ma io non ho accettato. Non ho voluto compromette-


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Umberto Croppi re la potenzialità di nuovi progetti con posizioni personali. A Roma vi è una forza civica che da anni non si conosceva e tante persone si sono manifestate disponibili a un progetto legato a un buon governo. Quello che voglio creare, dunque, è una rete civica che non sarà una lista ma un vero movimento civico basato sull'idea del vivere collettivo, organizzato sulle esigenze di una città. Una rete con un baricentro culturale ma non solo perché a Roma la cultura coincide con l'economia, l'imprenditorialità, le relazioni sociali. Per raggiungere questo obiettivo voglio costituire un'associazione culturale che si chiamerà “Una città”. L'associazione che terrà in piedi la rete, svolgerà non solo un'azione di raccordo tra operatori privati ed enti locali ma anche un'azione di controllo proprio sulle attività degli enti. Ci sono, infatti, una serie di progetti che io ho seguito come Assessore alla Cultura come il Macro, la Fiera di Arte Contemporanea di Roma, che richiedono una forza che vigili e tuteli. L'approccio culturale della maggioranza di cui ho fatto parte non è, infatti, così positivo. Utilizzando la rete di “Una città” vorrei, inoltre, svolgere un'azione di sostegno per alcune iniziative. L.G: Cosa pensa sia necessario fare per un rilancio della cultura in Italia? U.C: Andrebbe rivista la scala delle priorità. Nella scala delle priorità ci sono alcuni settori, delle voci di spesa collocate ai primi posti. Per esempio tutte le amministrazioni pubbliche dicono che la spesa sociale non si tocca. Qualcuno però dovrebbe spiegarmi perché la spesa sociale non comprende le biblioteche. La cultura, insieme alla formazione e alla ricerca che sono i settori che generano sviluppo, dovrebbero andare in testa alle priorità. Sarebbe poi necessario fare un lavoro di ridefinizione delle competenze. Purtroppo la classe dirigente politica ancora intende la cultura come svago. C'è confusione in termini normativi. Il nostro Ministero che si chiama Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha legato la tutela alla produzione culturale. Sarebbe invece più giusto che la produzione culturale fosse affidata al Ministero dello Sviluppo. Questo ministero si occupa di potenziare lo sviluppo di vari settori, perché non investirlo anche del potenziamento del settore culturale? Oppure si potrebbe ipotizzare la creazione di un organismo interministeriale gestito congiuntamente dal Ministero dello Sviluppo, della Ricerca e della Cultura. Questo ultimo, infine, si dovrebbe occupare solo di tutela e conservazione. L.G: Come ex Assessore alla Cultura, può ricordare ai nostri lettori quanto può rendere la cultura in Italia se sfruttata come si deve? U.C: La cultura è il principale fattore di sviluppo. In primo luogo, determina una crescita complessiva della società in termini di qualità della vita, fiducia, ottimismo. E tutte le società avanzate, oltre il PIL, misurano la qualità della vita, il cosiddetto PIL della felicità. In secondo luogo, parlando dell'aspetto strettamente economico, offre lavoro a moltissime persone. Penso ai settori dell'audiovisivo, all'editoria, al teatro... C'è, inoltre, lo sfruttamento del patrimonio storico artistico. Ognuno di questi settori ha un impatto straordinario sull'economia nazionale. L'Italia investe in cultura ogni anno 1,8miliardi di euro, contro i 5,1miliardi di euro di Spagna e Gran Bretagna, gli 8 della Germania e gli 8,4 della Francia. A fronte di questo investimento, la cultura in Italia contribuisce al PIL con 38,7miliardi di euro, evidenziando quindi un moltiplicatore d'investimento pari al 21,3, il più alto in Europa. Se l'Italia investisse una cifra pari alla media europea, ovvero 6,65miliardi di euro, avremmo un contributo al PIL di 140miliardi di euro con un moltiplicatore del 102. Quando si fanno presenti questi dati, persone come Tremonti dichiarano che non ci sono

l'ItalIa Investe In cultura ognI anno 1,8 mIlIardI dI euro, contro I 5,1 mIlIardI dI euro dI spagna e gran bretagna, glI 8 della germanIa e glI 8,4 della francIa

soldi in cassa. Ma questo non è vero perché se si esaminassero alcune azioni culturali ci si renderebbe subito conto che c'è un rientro diretto di Iva e Irpef che non viene mai calcolato. Per ogni euro investito con il FUS ne rientrano 13 sotto forma di imposte. È dunque evidente che meno lo Stato investe e meno soldi rientrano. Poi c'è il discorso, altrettanto importante, dell'indotto. Ci sono, infine, altri misuratori come l'aumento delle stime catastali. La nascita del MAXXI al Flaminio, per esempio, ha comportato un aumento delle stime catastali del patrimonio edilizio situato in quella zona. E questi sono soldi che entrano immediatamente. L.G: Una domanda necessaria. Lei pensa che la qualità della nostra democrazia sia in pericolo o che lo sia la democrazia stessa? U.C: Sì, penso che sussista questo pericolo. Purtroppo il nostro sistema di rappresentanza si è rivelato inadeguato a dare conto delle novità e, a questo si è aggiunta una modifica radicale dei soggetti di mediazione. Sino agli anni Settanta, il nostro sistema di rappresentanza era basato su gruppi sociali, blocchi d'interessi molto semplici e strutturati. Successivamente si sono verificati dei cambiamenti di natura economica, si sono imposti nuovi mezzi di comunicazione, un insieme di elementi che hanno modificato i meccanismi di mediazione. Da un punto di vista sociale, oggi le vecchie categorie non esistono più, prima per esempio esistevano gli operai, gli impiegati.... Oggi ognuno di noi risponde a diverse sollecitazioni e appartiene a cento gruppi diversi. Questo diverso scenario ha fatto saltare la tenuta dei vecchi partiti. C'è stato dunque un problema di fondo a cui nessuno è riuscito a dare una risposta. Su questa base di transizione, di necessità di nuovo si è innestato un 'fenomeno', che con le sue aziende e i suoi interessi, è riuscito a dominare la scena politica. Questo fenomeno, dunque, è il frutto di una situazione. Un risultato dovuto al fatto che nessuno è stato capace di dare una risposta alla necessità di rappresentanza. La politica si è così spostata su gruppi sociali non più rappresentativi: attualmente le forme di rappresentanza politica che abbiamo non rappresentano, infatti, più nessuno, tendono solo all'autoconservazione. I gruppi sociali come ricercatori, creativi che tengono in piedi l'economia e la struttura sociale si sono sempre più estraniati dalla politica. In Italia il fenomeno del non voto, infatti, riguarda principalmente i più motivati, persone che sono consapevoli di non essere rappresentati. L'antipolitica di oggi non è rifiuto della politica ma rifiuto dei politici. Oggi ci troviamo nella fase morbosa, epigonale che crea dei rischi veri alla nostra democrazia. E la recente compravendita di voti in sede parlamentare è un esempio di degenerazione. Non è un problema di ordine morale ma politico. L.G: Che cosa farebbe se le proponessero di diventare ministro della cultura, quali battaglie porterebbe avanti? U.C: Per prima cosa, cambierei il nome al Ministero: lo chiamerei solo Ministero della Cultura e non più Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Poi, mi farei promotore di una diversa articolazione amministrativa del comparto della cultura che non può prescindere dallo sviluppo, dalla formazione e dalla ricerca. Abbiamo invitato l'attuale Assessore alla Cultura a rispondere alle questioni sollevate da Umberto Croppi. Ci ha assicurato che risponderà sul prossimo numero di Arskey.

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arskey/Politiche Culturali| Restauro del Colosseo

restauro del colosseo:

IntervIsta a carla tomasI, presIdente dell’a.r.I., l’assocIazIone restauratorI d’ItalIa

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di Viviana Pozzoli Viviana Pozzoli: Quello della tutela e conservazione del patrimonio culturale è uno dei temi più scottanti dell’attualità culturale del nostro Paese, riaffiorato prepotentemente alle cronache dopo i gravi avvenimenti di Pompei. Questi ultimi, tuttavia, Carla Tomasi possono essere considerati solo la drammatica punta dell’iceberg. L’Italia sembra avere infatti, in generale, molto poco rispetto del suo patrimonio culturale. Come siamo arrivati, oggi, a questo stato di cose? Può essere considerato, almeno in parte, legato all’uscita di scena di soggetti istituzionali che nei decenni passati avevano promosso la cultura della tutela, come le Soprintendenze e gli Istituti Superiori del Restauro? Carla Tomasi: Quando Cesare Brandi nel 1939 fondò l’Istituto Centrale del Restauro, realizzò un sistema complesso ed efficace che, partendo dal concetto di tutela del Bene Culturale, approdasse alla sua effettiva concretizzazione. Per attuare un’efficace tutela si devono eseguire una serie di operazioni corrette sia dal punto di vista teorico che pratico, in un quadro di manutenzione programmata. I luoghi ideali per attuare tutto questo sono le Soprintendenze territoriali che avrebbero bisogno di un costruttivo regime ordinario, piuttosto che di destabilizzanti situazioni straordinarie, con il coinvolgimento di professionisti e imprese altamente qualificati in grado di recepire le indicazioni dei progetti e realizzarle al meglio. Modificando anche solo una parte di questo percorso virtuoso che inizia dalla conoscenza del bene, da un’analisi attenta delle cause di degrado, passando quindi attraverso uno specifico progetto di intervento, e poi alla sua realizzazione - sempre nell’ottica di un’elevata qualità in tutte queste fasi - si possono creare danni irreparabili non sempre visibili nell’immediato, ma che si manifestano nel tempo con la perdita di parti del bene stesso o addirittura con cedimenti strutturali. L’insegnamento negli Istituti di

la logIca che sI sta facendo strada è Quella dettata daglI organIsmI In emergenza, che spesso deQualIfIcano monumentI ImportantI come Il colosseo, spIngendolI forzatamente nella classIfIcazIone dI "monumentI non decoratI" destInandolI così all’ImprendItorIa meno QualIfIcata

alta formazione è proprio questo; non solo una tecnica esecutiva accorta, ma la capacità di comprendere e mettere a sistema l’intero processo conservativo. Si tratta quindi di un’attività professionale complessa, un modello integrato di pensiero e opera, multidisciplinare, che è divenuto un esempio per il mondo, ma che sembra avere proprio nel nostro Paese una pericolosa deriva verso metodi più sbrigativi con imprese e operatori non qualificati. V.P: Quanto incidono i commissariamenti in questo stato di cose? C.T: In questi ultimi anni il depotenziamento degli organi periferici ministeriali, le Soprintendenze, già gravemente penalizzate dall’introduzione delle Direzioni Generali, è andato di pari passo con l'istituzione di commissari straordinari di nomina politica, che hanno affidato consulenze, incarichi e appalti senza trasparenza, in base a meccanismi discrezionali e a regimi derogatori. La Protezione Civile è un’istituzione benemerita creata per fronteggiare disastri, catastrofi, assistere popolazioni colpite da gravi emergenze, attraverso l’opera meritevole dei volontari ma anche con mezzi e professionalità straordinarie. Utilizzare lo strumento della Protezione Civile per qualsiasi avvenimento ordinario, commemorazione, o semplicemente per la pioggia, con il fine di gestire i finanziamenti sui beni culturali, è una deviazione dagli intenti primari della Protezione Civile che non rende giustizia né alla struttura stessa né ai beni culturali. V.P: Quello del restauro è, senza dubbio, uno dei problemi centrali. Come ha già accennato, in questo campo si sta assistendo sempre di più al coinvolgimento di figure e imprese poco qualificate, a scapito dei professionisti del settore. Il caso del Colosseo in cui i lavori sui prospetti destinati ai restauratori saranno meno di un decimo del totale - è solo l’ultimo di questi episodi, sempre più diffusi su tutto il territorio nazionale. Dopo il superfinanziamento di 25milioni di euro offerto dall’imprenditore Diego Della Valle, che tanto ha acceso l’attenzione dei media, cosa accadrà, nel silenzio, al nostro monumento simbolo? C.T: Le dichiarazioni pubbliche fino a oggi confermano l’intenzione di assegnare i lavori a imprese di restauro non specialistiche, ovvero imprese edili, che non prevedono la presenza dei restauratori. Se la


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stazione appaltante costringerà tali imprese ad assumere collaboratori restauratori nell’estremo tentativo di rassicurare il mondo creerà una situazione paradossale e cioè sulla stessa porzione si contenderanno le operazioni muratori e restauratori, mentre una imprenditoria specializzata, in grado di dare le maggiori garanzie perché istituita specificamente per operare sulle superfici, resterà esclusa dai lavori, creando un evidente danno per il monumento e per le imprese specializzate. Portando un esempio concreto, nel caso della pulitura di una superficie lapidea, è necessario differenziare il metodo di pulitura oppure i tempi di applicazione del medesimo metodo da zona a zona, a seconda dello stato di conservazione di quella parte o dello spessore dello strato da rimuovere. In alcune parti può essere necessario intervenire con un preconsolidamento della superficie per non perdere frammenti degradati ma originali. Più in generale la logica che si sta pericolosamente facendo strada è quella frequentemente dettata dagli organismi in emergenza, che spesso dequalificano monumenti importantissimi come il Colosseo, spingendoli forzatamente nella classificazione di "monumenti non decorati" in quanto privi di decorazioni, destinandoli così all’imprenditoria meno qualificata. V.P: La drammaticità del problema sta nel fatto che sia intrinsecamente di natura culturale, e che mini alla base il concetto di interesse pubblico. Esiste davvero, oggi, una cultura della tutela in Italia? C.T: Tornando al caso di Pompei, città antica di 2000 anni e con 66 ettari di estensione, necessiterebbe di restauri e manutenzione costante da affidare a mani esperte. Avrebbe bisogno di molti restauratori, assiduamente occupati nel curare le preziose opere e prevenirne i danni. A fronte di un’impresa di tale impegno la Soprintendenza ha in organico solo tre restauratori, mentre i custodi sono oltre cinquecento. Questi numeri già rendono la misura di quanto il restauro e la manutenzione siano lontane dalle priorità di chi opera le scelte politiche nel nostro Paese e quanto miopi logiche, anche sindacali, abbiano nuociuto alla soluzione dei reali problemi della cura del patrimonio nazionale. Come è noto, nel nostro Paese il bilancio dello Stato riserva poco più dello 0,2 per cento delle risorse alla cultura, e di queste solo una minima parte vengono

come è noto, nel nostro paese Il bIlancIo dello stato rIserva poco pIù dello 0,2 per cento delle rIsorse alla cultura

utilizzate per la manutenzione e i restauri del patrimonio artistico e archeologico. Gli elementi culturali e le metodologie da porre in essere ci sarebbero, si assiste al contrario a un allontanamento dei professionisti. Anche i restauratori interni alle amministrazioni sono stati penalizzati con uno svilimento dei contenuti dei profili professionali rispetto alle declaratorie di legge, relegandoli a ruoli secondari. V.P: Quali sono le responsabilità delle classi dirigenti? C.T: In generale la classe politica non dimostra la dovuta attenzione alla reale valorizzazione dei nostri tesori attraverso programmi articolati volti a sviluppare un turismo qualificato che ripagherebbe, nel tempo, gli sforzi profusi. Un esempio è la stagione lirica all’Arena di Verona che riscuote enorme successo per la qualità degli spettacoli, la loro rotazione e l’incredibile unica suggestione del luogo, utilizzando forse fin troppo il monumento. In particolare i Ministri che si sono succeduti negli ultimi anni al Ministero per i Beni e le Attività Culturali non hanno realizzato un effettivo potenziamento della struttura, per contro, hanno lasciato un’eredità discutibile, come la creazione delle direzioni regionali e il relativo depotenziamento delle Soprintendenze, e le società ALES Spa (arte, lavoro e servizi) e ARCUS Spa (Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo). Queste società sono state create teoricamente a sostegno di azioni di finanziamento di politiche nel settore degli investimenti a favore del patrimonio e delle attività culturali, ma in pratica di tali iniziative non si colgono i risultati, mentre è palpabile un generale decadimento del Ministero stesso. V.P: Parliamo del braccio di ferro con il Ministero per il bando di qualificazione professionale. Dopo un lungo iter durato ben otto anni, il percorso per la stesura di un elenco di restauratori e collaboratori di beni culturali in possesso di qualifica è attualmente sospeso. Quanto crede che sarebbe importante arrivare allo scioglimento di tale nodo? C.T: Il bando di qualificazione professionale è attuativo del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche e integrazioni, meglio noto come il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. L’art. 182 del Codice riguarda il “Conseguimento della qualifica di Restauratore di beni culturali” e - 85 -


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disciplina la possibilità stessa per i professionisti del settore di eseguire interventi di manutenzione e restauro sui beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici che il comma 6 dell’art. 29 del medesimo disposto legislativo riserva ai soli soggetti in possesso della predetta qualifica. La realizzazione dell’elenco presso il Ministero dei restauratori di beni culturali e dei collaboratori restauratori, i tecnici del restauro, costituirebbe quindi un momento fondamentale per lo sviluppo del settore e per una reale verifica del direttore tecnico e dell'organico delle società attestate in categoria OS21. La mancata individuazione certa della qualifica di restauratore di beni culturali sta consentendo, di fatto, a operatori non qualificati di operare sul mercato a discapito di chi possiede tale requisito professionale, e il ritardo dell’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti necessari all’individuazione dei soggetti con qualifica di restauratore reca nocumento all’interesse della salvaguardia del patrimonio tutelato. Le forze che si oppongono alla realizzazione dell’iter legislativo agiscono consapevolmente nell’interesse degli operatori e delle imprese non qualificati, generalmente afferenti a ditte edili. V.P: Non è un segreto che il settore del restauro viva un momento di grande difficoltà: un paradosso, evidentemente, per un paese come l’Italia. Quali sono le vere cause di questa crisi? C.T: I beni culturali non sono mai stati un settore particolarmente favorito dai finanziamenti pubblici, ma in questo periodo risultano decisamente in coda nelle priorità delle istituzioni e dello stesso Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli effetti della pesante crisi economica risultano amplificati nel nostro settore, che da tempo soffre di una drastica contrazione della quantità e dell'entità delle commesse pubbliche, e invece di una ripartizione percentuale dei tagli nella spesa pubblica si assiste a un azzeramento degli interventi pubblici, in attesa del coinvolgimento degli sponsor privati. La mancanza di risorse non permette una pianificazione costruttiva delle attività conservative e tale difficoltà va a sommarsi alla attuale disorganizzazione e mortificazione degli organismi preposti, ovvero le Soprintendenze. È l’intero sistema che si sta disgregando, trascinando con sé il concetto stesso di tutela e con esso le imprese di restauro qualificate. La crisi è infatti alimentata anche da problemi di cui abbiamo

la crIsI è alImentata anche da problemI , come glI InteressI dI lobby che non lascIano Il gIusto spazIo aI professIonIstI del settore, a dIscapIto peraltro del patrImonIo

già discusso, come gli interessi di lobby che non lasciano il giusto spazio ai professionisti del settore, a discapito peraltro del patrimonio. V.P: Parliamo dell’alta formazione. L’Italia ha da sempre rappresentato un’eccellenza a livello internazionale nel settore della conservazione e del restauro, ma da tempo si assiste a una preoccupante tendenza all’emarginazione di questi saperi e alla dequalificazione professionale, che porta inevitabilmente verso una lenta perdita di tale leadership. Quanto è importante investire nella formazione? C.T: La formazione è il futuro delle nazioni, e per quanto riguarda la conservazione e il restauro si assiste a uno strano fenomeno. Se da una parte esiste un percorso virtuoso, che ha portato all’emanazione di un decreto ministeriale, (D.M. N° 87/2009) fortemente innovativo anche in ambito europeo, con precise definizioni dei percorsi formativi e delle caratteristiche del corpo docente, in effetti ci troviamo in uno stallo operativo nell’attuazione del decreto, con il risultato che gli istituti già esistenti si trovano in difficoltà organizzative dopo un fermo di quattro anni, non è possibile attivare istituti formatori autorizzati, comprese le Università, mentre sono stati istituiti corsi presso le Accademie, ma non si sa bene chi ne controlli l’effettiva coincidenza con i provvedimenti di legge. È come se si pensassero le cose in maniera corretta e poi si trovasse il modo di ostacolare la loro realizzazione. Infatti sullo sfondo di questo panorama ambiguo viene paradossalmente permesso, nella pratica, che lo status del restauratore, che nella fase nascente della cultura di tutela moderna è stato una ricchezza, venga visto come un ostacolo, una sgradevole interferenza con il pieno e totale controllo del ciclo del restauro avocato da altre figure professionali e da un’imprenditoria con interessi dilaganti. V.P: Qual è la situazione a livello europeo? C.T: Anche in Europa il problema è sentito e nel 1991 è stata fondata E.C.C.O. (European Confederation of Conservator-Restorer’s Organization) di cui l’A.R.I. è tra i soci fondatori, e che raccoglie 19 associazioni con lo scopo di uniformare i livelli formativi e professionali. Rendere uniforme la qualifica e la formazione dei restauratori in Europa è necessario per ottemperare alla Direttiva Bolkenstain sulla libera circolazione professionale omogenea e per uniformare gli E.Q.F. (European Qualifications Framework), cioè i


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livelli qualitativi delle professioni non riconosciute ovvero prive di Albo professionale. Le qualifiche di restauratore di beni culturali e di collaboratore restauratore italiane corrispondono a quelle delle linee guida emanate da E.C.C.O. e che stanno per essere stigmatizzate da una precisa Direttiva Europea. Ulteriori ritardi sulla qualificazione avranno ripercussioni sulle possibilità introdotte dalla direttiva europea sulla libera circolazione delle professioni e dei lavoratori (EQF) perdendo le opportunità di salvaguardia del mercato che essa offre. Ancora una volta la normativa italiana era guardata come un esempio, ma il ritardo della sua effettiva attuazione sta vanificando questo primato. Ci sono paesi che stanno soccombendo sotto una deregulation legale come la Spagna, dove la composizione federalista non permette di creare condizioni di riconoscimento adeguato della professione a livello nazionale, o altri come la Francia, che in un anno è riuscita ad approdare a un’apposita verifica dell’idoneità dei loro restauratori di beni culturali, permettendo loro di adeguare le carenze formative; la Germania sta elaborando un testo complesso simile al nostro dove la formazione accademica è requisito necessario e fondamentale anche per il riconoscimento dell’attività di impresa. Ci sono stati più attenti alle politiche europee, come i nuovi membri dell’est-europeo, che hanno compreso come una corretta qualificazione è la giusta via da percorrere. Basti guardare quali stati, nel sito europeo del mercato interno (internal market), hanno già avviato la procedura di inquadramento del conservator-restorer (restauratore di beni culturali). La situazione europea, insomma, è variegata, ma caratterizzata da una tendenza alla crescita sul piano culturale, recependo proprio le esperienze della cultura del restauro italiana. Il paradosso è proprio questo, si sta gettando alle ortiche quanto viene considerato ottimale a livello internazionale. V.P: Circa il 14% del PIL italiano proviene dalla cultura e dal turismo (una percentuale inferiore alla media europea). Possibile che le nostre classi dirigenti siano così poco lungimiranti da non riuscire a cogliere nel restauro non solo un’irrinunciabile occasione di conoscenza e ricchezza culturale, ma anche una preziosa fonte di valore economico per i settori della formazione e dell’industria creativa e per l’economia italiana in generale?

è necessarIo rIlancIare Il mInIstero per I benI e le attIvItà culturalI e I suoI organI perIferIcI con un serIo programma dI conservazIone, valorIzzazIone e fruIzIone sostenIbIle

C.T: In effetti un’organica attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio, coniugata a una corretta comunicazione, in coordinamento con gli enti locali, renderebbero i beni culturali un importantissimo volano nella ripresa economica grazie alla possibilità di attivare importanti sinergie con altri settori dell'economia. Bisogna inoltre sottolineare che a differenza di altre attività economiche per le quali esiste una forte competizione, il valore economico dei nostri beni culturali è ancorato al territorio, sarebbe quindi una fonte certa e inalienabile di beneficio, con una diffusione capillare. V.P: Crede che sia possibile innescare una generale inversione di tendenza in questo panorama così desolante? Cosa si dovrebbe fare prima di tutto? C.T: È necessario che in tutti i settori sia data una vera e concreta importanza alla qualità e alla professionalità, uscendo dagli steccati di lobby e interessi diversi da quelli della pubblica utilità. È anche necessaria una seria programmazione economica che tenga conto delle reali possibilità della nazione, della richiesta di qualità che proviene dal turismo, del ruolo che l’Italia ha avuto fino a poco tempo fa nel mondo come portatore di cultura. È necessario rilanciare il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e i suoi organi periferici con un serio programma di conservazione, valorizzazione e fruizione sostenibile per rendere concreto lo sviluppo dei “giacimenti culturali” e dell’importanza che il nostro Paese ricopre in questo settore. 1-Imprese categoria OS2 - Superfici decorate di beni immobili del patrimonio culturale e beni culturali mobili di interesse storico, artistico, archeologico ed etnoantropologico. Riguarda l'intervento diretto di restauro, l'esecuzione della manutenzione ordinaria e straordinaria di: superfici decorate di beni immobili del patrimonio culturale, manufatti lapidei, dipinti murali, dipinti su tela, dipinti su tavola o su altri supporti materici, stucchi, mosaici, intonaci dipinti e non dipinti, manufatti polimaterici, manufatti in legno policromi e non policromi, manufatti in osso, in avorio, in cera, manufatti ceramici e vitrei, manufatti in metallo e leghe, materiali e manufatti in fibre naturali e artificiali, manufatti in pelle e cuoio, strumenti musicali, strumentazione e strumenti scientifici e tecnici. Al contrario, Imprese categoria OG2 - restauro e manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela ai sensi delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali. Riguarda lo svolgimento di un insieme coordinato di lavorazioni specialistiche necessarie a recuperare, conservare, consolidare, trasformare, ripristinare, ristrutturare, sottoporre a manutenzione gli immobili di interesse storico soggetti a tutela a norma delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali. Riguarda altresì la realizzazione negli immobili di impianti elettromeccanici, elettrici, telefonici, e finiture di qualsiasi tipo nonché di eventuali opere connesse complementari e accessorie.

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arskey/Politiche Culturali| Agevolazioni fiscali per le imprese

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agevolazIonI fIscalI per le Imprese che Investono In cultura:

benI culturalI: cercasI un cavour per un nuovo rIsorgImento

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Sarà che quest’anno ricorrono i 150 anni dell’unità italiana. Sarà che, a forza di tagli, i fondi pubblici per la cultura sono ridotti all’osso. Ma proprio da Torino arrivano segnali di un movimento che, se letto con un certo ottimismo, potrebbe essere interpretato come una prima scintilla per un futuro Risorgimento del sistema italiano dei Beni Culturali. Un movimento bipartisan, che vede coinvolto tanto il pubblico quanto il privato, ma che ancora ha il sapore del moto indipendentista più che quello di un’azione strutturata, sistemica. Ad aprire le danze è stata Giovanna Catteneo Incisa, presidente della Fondazione Torino Musei, che il 24 gennaio scorso, con una tavola rotonda dal titolo “Una scialuppa chiamata cultura. O no?”, ha chiamato a raccolta una serie di imprenditori per trovare nuovi fondi con cui mantenere in vita i musei civici torinesi che gestisce dal 2002 (Gam, Palazzo Madama, Mao, Rocca e Borgo Medievale). Una gestione che necessita, ogni anno, tra gli 8 e i 9 milioni di euro finanziati, principalmente, dal Comune e dalla Regione, con il contributo della Fondazione CRT e della Compagnia di San Paolo, oltre che di alcuni, pochi, sponsor privati. Ed è proprio per riuscire a intercettare nuovi sponsor che il progetto della Cattaneo è partito. Un obiettivo non semplice da raggiungere, spiega la presidente della Fondazione, in quanto “il privato preferisce investire in eventi che danno visibilità e quindi più nelle mostre, meglio se eclatanti, che nei musei”. E questo vale nel 63,3% dei casi contro il 27,6%. I musei, però, spiega la presidente, sono il cuore della città, il motivo per cui oggi Torino è a tutti gli effetti una meta turistica e hanno una forte ricaduta anche su tutto l’indotto (ristoranti, alberghi ecc.). “In questa prima tavola rotonda – ha spiegato ancora la Cattaneo – ci siamo rivolti principalmente a imprese non piemontesi a cui ci siamo presentati per quello che siamo e abbiamo illustrato i nostri progetti. Quello che vorremmo è trovare nuovi sponsor stabili. Il privato potrà decidere se destinare il suo finanziamento a un singolo museo o all’intera rete gestita dalla nostra Fondazione”. Quasi un’adozione a distanza, dunque, quella proposta dalla Fondazione Torino Musei che chiede, a ogni futuro sponsor che entrerà a far parte del 'club dei sostenitori della Fondazione', un contributo minimo annuo tra i 10 mila e i 30 mila euro. Questo, a fronte di progetti credibili, ovviamente, anche se, per il momento, lo statuto non prevede il coinvolgimento diretto dei privati nella governance della Fondazione. Ma questo, chiarisce la Cattaneo, “non vuol dire che in futuro non possa essere previsto, se ciò può agevolare finanziamenti importanti”. Una scialuppa, quella varata dalla Fondazione Torino Musei che, a neanche un mese

di Nicola Maggi

"Il prIvato preferIsce InvestIre In eventI che danno vIsIbIlItà e QuIndI pIù nelle mostre, meglIo se eclatantI, che neI museI”

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di distanza (21 febbraio, ndr), rischia già di non aver vita facile proprio a causa della Fondazione CRT – tra i 'soci' privati della Torino Musei - che ha lanciato un suo progetto da 80 milioni di euro per fare delle ex OGR (Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie) una cittadella della cultura. E questo al grido di 'Basta Assistenzialismo'. “Se il mantra del momento è che non ci sono più soldi, noi invertiamo la tendenza – ha dichiarato Angelo Maglietta, segretario generale della Fondazione CRT, al quotidiano La Stampa –. Interrompiamo la logica dell’assistenzialismo e trasformiamo la produzione intellettuale in motore economico”. Un progetto certo meritevole ma che rischia di togliere fondi ad altre realtà importanti della città, come il Castello di Rivoli e la stessa Fondazione Torino Musei. Timore eccessivo? Vedremo. Ma una cosa è certa: il caso torinese ci mette in guardia su un rischio che, in un momento di scarsità di risorse come quello che stiamo vivendo, potrebbe alla lunga risultare letale per il sistema pubblico dei Beni Culturali. Quella che serve alla cultura italiana, infatti, non è una competizione tra pubblico e privato, bensì una collaborazione concreta in cui si mettano in rete le competenze di entrambe le parti giungendo, al più presto, ad una policy condivisa. Resta indubbio, però, che sta al settore pubblico affrontare la sfida più difficile. Come ha messo in evidenza Federico Lalatta Costerbosa, Partner & Managing Director del Boston Consulting Group, in occasione del suo intervento sul summit “Arte e Cultura” organizzato dal Gruppo Sole24Ore a Milano lo scorso 2 dicembre, perché il settore culturale possa essere una risorsa concreta per lo sviluppo e la crescita economica del nostro paese è necessario che cambi mentalità. “Pur nel rispetto della sua struttura – ha spiegato Lalatta – è necessario un grado maggiore di sensibilità economica. Le nostre istituzioni culturali sono molto spesso gestite da tecnici del settore e questo fa sì che siano orientate più alla tutela che alla valorizzazione del nostro patrimonio. È un problema di gestione, manca una visione manageriale”. “Cambiare le regole del gioco è difficilissimo - ha proseguito – perché è difficile superare la diffidenza che questo settore ha nei confronti di una gestione di tipo manageriale dei beni culturali, dell’idea che anche la cultura sia un prodotto da 'vendere'”. E in questo il caso Resca la dice lunga. Nonostante la sua unicità, ha aggiunto il Partner & Managing Director del Boston Consulting Group, “il patrimonio culturale italiano non può garantire una rendita di posizione infinita. È necessario intervenire sul fronte della valorizzazione”. E per far questo le


arskey/Politiche Culturali | Agevolazioni fiscali per le imprese nostre istituzioni culturali devono assolutamente lavorare su cinque fronti: governance (ossia le regole, i ruoli e gli obiettivi), managerialità, animazione dell’offerta, promozione integrata e sostenibilità economica (si legga: riduzione della dipendenza dai fondi pubblici). Cinque sfide in cui l’apporto di know how e di risorse dal mondo dell’impresa risulta fondamentale. Da un’indagine statistica condotta nel 2010 dal Centro Studi G. Imperatori dell’Associazione Civita - in collaborazione con Astrea, The Round Table e Unicab - emerge, d’altronde, che i due elementi considerati fondamentali dalla imprese italiane per assumere la decisione di investire in cultura sono l’accuratezza nella gestione dell’evento o del progetto e la sua qualità. Ma anche la garanzia di una collaborazione nel tempo con l’organizzatore dello stesso. È un po’ quello che sta cercando di fare, anche se in piccolo, la Fondazione Torino Musei, e quello che ha fatto, e bene, la Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze che, creata nel 2006, è oggi un esempio pionieristico di successo, di cooperazione tra pubblico e privato. Attraverso l’Associazione Partners di Palazzo Strozzi, infatti, la Fondazione ha coinvolto i privati nella propria governance riuscendo così a raggiungere un ottimo livello di autonomia economica: solo il 28% del suo budget viene dalle casse pubbliche, mentre il 33% da sponsorship ed elargizioni e il 40% da ricavi commerciali. A dimostrazione che, se guidata con le giuste politiche gestionali, un’istituzione culturale pubblica può diventare appetibile per l’investitore privato che, anche in Italia, è ben consapevole del valore della cultura per il rafforzamento del proprio brand. Gli esempi non mancano, in primis quello di Diego Della Valle. Il patron della Tod’s, il 21 gennaio scorso, ha firmato, infatti, con Roberto Cecchi, Commissario delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, e Anna Maria Moretti, Soprintendente speciale per i beni archeologici di Roma, l’intesa con cui finanzierà integralmente il restauro del Colosseo (25 mln di euro), lanciando, nel contempo, l’idea di una cordata di imprenditori per il recupero dell’area archeologica di Pompei. Un impegno, quello di Della Valle, che nasce non tanto da una valutazione del ritorno di immagine che questa operazione può garantire alla sua impresa, quanto del peso che ha l’immagine del nostro Paese sul valore del marchio made in Italy: un paese che crolla non dà certo l’idea della qualità. Accanto a Della Valle possiamo ricordare, poi, il caso di Laura Biagiotti, che ha finanziato il restauro del sipario del teatro La Fenice di Venezia e della scalinata di Michelangelo in Campidoglio a Roma. O quello di David Packard, figlio del fondatore del colosso informativo Hewlett-Packard, che, attraverso la sua Fondazione Packard Humanities Institute (nata nel 1987) sta finanziando il recupero dell’area archeologica di Ercolano. Senza guardare, come spesso facciamo, agli esempi stranieri, anche nel nostro Paese la lista delle imprese italiane che investono in cultura è lunga. Come emerge dalla già citata indagine dal Centro Studi di Civita, infatti, il 47,6% delle imprese italiane (circa 114 mila) dichiara di aver investito in cultura almeno una volta nell’ultimo triennio e quasi il 23% afferma di averlo fatto in progetti ed eventi direttamente in proprio. Il tutto per un flusso costante annuo di fondi destinati alla cultura che oscilla tra i 2.500 e i 3.000 milioni di euro. Fin qui, le buone notizie. Come ogni medaglia, però, anche quelle del rapporto tra privati e cultura ha il suo rovescio: dopo l’investimento, infatti, il 15,8% delle aziende che investono in ambito culturale dichiara che non intende più farlo e, di queste, l’86% abbandona alla prima esperienza. Anche chi dice di voler proseguire in questo campo ammette che ridurrà l’investimento (il 52,8%) già del 50% dopo la prima volta e di oltre il 95% nei primi due anni. Eppure il 67% delle imprese intervistate considera l’investimento in cultura efficace in termini di visibilità del marchio, di creazione di contatti diretti e di relazioni, di reputation e immagine aziendale. Un aspetto di grande

guIdata con le gIuste polItIche gestIonalI, un’IstItuzIone culturale pubblIca può dIventare appetIbIle per l’InvestItore prIvato

importanza perché mette in evidenza uno stato di difficoltà da parte delle imprese che solitamente investono in cultura. Difficoltà che si è accentuata con la recente crisi economico-finanziaria internazionale. Basti pensare che il 31,5% delle imprese più fedeli ha fatto l’ultimo investimento nel 2008. E questo nonostante il 43% delle aziende indichi nell’opportunità di proseguire la collaborazione nel tempo un comportamento ideale. Una situazione, quella fotografata dall’indagine condotta dal Centro Studi di Civita, confermata anche dall’Ufficio Studi del Mibac che ha registrato, nel 2009, un calo delle elargizioni da parte delle imprese pari al 14,7% rispetto al 2008. Se il calo degli ultimi anni è certo imputabile anche alla crisi che ha investito l’economia internazionale, e quindi ad una situazione congiunturale, l’elemento che deve realmente preoccupare è l’alto tasso di abbandono dell’investimento rilevato da Civita. Perché il sistema italiano dei Beni Culturali non perda la grande opportunità che viene dal settore privato è dunque sempre più necessario contrastare questo fenomeno. Per far questo, è necessario che anche il Governo centrale faccia la sua parte, abbattendo i tanti ostacoli alle elargizioni liberali: l’esistenza di un tetto massimo per la defiscalizzazione delle donazioni; la difficoltà di vincolare le donazioni a un progetto specifico; le difficoltà burocratiche e la mancanza di informazione in materia. Ma questo non può bastare. Come fa notare Pier Antonio Valentino dell’Università La Sapienza di Roma in un articolo sul mecenatismo in Italia, pubblicato nella newsletter del Mibac, infatti, “la fiscalità a sostegno delle erogazioni liberali favorisce le società ma queste, potendo utilizzare anche un altro strumento premiale, i contratti di sponsorizzazione, fanno maggior ricorso a quest’ultimo. Il contratto di sponsorizzazione è così usale per le imprese che, quando qualche anno fa l’Associazione Civita chiese ai suoi soci quale cambiamento avrebbero apportato alla legislazione fiscale per aumentare la loro 'disponibilità a donare', la stragrande maggioranza rispose: abolire l’IVA dalle sponsorizzazioni. Con l’abolizione dell’imposta sul valore aggiunto scomparirebbero le differenze tra sponsorizzazioni ed erogazioni liberali”. “Lo scarso utilizzo da parte delle imprese delle agevolazioni previste per le erogazioni liberali, l’ammontare delle somme a deduzione presentate nel 2009 rappresenta solo il 21,1% del massimale previsto dall’Erario – prosegue Valentino - dipende in gran parte, perciò, dall’uso diffuso del contratto di sponsorizzazione”. “Per promuovere i contributi delle imprese alla cultura – afferma ancora - potrebbe essere più conveniente semplificare le procedure, ma soprattutto unificare le due agevolazioni”. Oltre che sul fronte delle imprese, però, sarebbe necessario lavorare anche su quello dei singoli individui. “Una politica di crescita delle donazioni più mirata sugli individui – conclude infatti Valentino – potrebbe allargare la platea dei nuovi mecenati, come numero e come apporti finanziari. L’esperienza dei paesi ad alto mecenatismo conferma e dà forza a questa ipotesi”. Se guardiamo al Nord America e al Regno Unito, ad esempio, le strategie di fund rising applicate dai musei di questi paesi puntano, principalmente, alla “creazione di un legame molto forte tra museo e comunità locale o nazionale e al coinvolgimento dei donatori nella vita e nelle attività del museo”. Le best practice a cui ispirarsi per risolvere il problema economico del sistema italiano dei Beni Culturali non mancano, dunque, e anche le indicazioni sulla direzione da seguire sembrano essere chiare. Ora serve qualcuno che metta in atto una riforma della governance nazionale in materia di Beni Culturali, creando le condizioni perché la tanto invocata collaborazione tra pubblico e privato diventi prassi concreta e stabile. Un nuovo Cavour che sia in grado di guidare l’Italia della cultura verso un nuovo risorgimento. - 89 -


arskey/Politiche Culturali| Le Agevolazioni aste italiane fiscali di febbraio, per le imprese marzo e aprile

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le aste ItalIane dI febbraIo, marzo e aprIle 2011:

Il mercato ItalIano dell’arte moderna e contemporanea

L’inizio del nuovo anno non ha certo messo la parola fine alla crisi, ha altresì visto alcune vendite interessanti, dimostrando una volta di più che quando i pezzi presentati sono interessanti il collezionista non resta a guardare. A febbraio, presso Pananti a Firenze, il top lot è risultata una tempera su cartone di Felice Carena (24,7x59,7 cm) del 1956 circa, che ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1956 e che, in asta, ha raggiunto i 15mila euro. A inizio marzo si è svolta a Brescia l’asta della Capitolium Art. Tra i lotti svetta “Muro romano con impronte di pneumatici”, un decollage su cartone (60x67 cm) del 1955 di Rotella, pubblicato su “Rotella decollages 1954-1964” e battuto a 40mila euro. Sempre a inizio mese ha battuto anche Fabiani Arte di Montecatini Terme, quattro sessioni che hanno visto la presenza di numerosi lotti. A spiccare è stato un pochoir e tecnica mista su cartoncino (54,2x89,6 cm) del 1980 di Boetti venduto a 9mila e 500 euro. A metà marzo si sono svolte le tre sessioni di Sant’Agostino a Torino. Risaltano i 54mila euro della grande tela estroflessa (150x116 cm) dei primi anni Settanta di Bonalumi; mentre “Dama” di Baj, acrilici e collage su tavola (90x70 cm) del 1969, ha totalizzato 40mila euro. Un olio su tela sabbiata (50x40 cm) del 1957 di Gentilini, esposto a Torino nel 1988 e nel 1955 e a Mantova nel 1992, ha ottenuto 35mila euro; una cifra inferiore a quelle delle migliori aggiudicazioni degli anni passati, ma in linea con il top lot dell’anno scorso, registrato a 33mila euro con un’opera di tecnica identica, dello stesso periodo (1960) ma di dimensioni superiori (81,5x65 cm). La seconda parte del mese ha visto le sessioni della Meeting Art. A Vercelli “De garden”, olio su tela (46x65 cm) del 1956, di Appel, passato da Londra presso Christie’s nel 1996, è stato aggiudicato a 70mila euro. Da segnalare anche i 51mila euro della “Clessidra grigia e viola” di Tozzi, un olio su tela (67x54 cm) del 1968 già esposto alla Galleria Leonardiana di Alassio e Galleria Carini di Milano; si tratta di un buon risultato in assoluto (il top lot dell’artista del 2009 ha raggiunto i 54mila euro), vista anche la base di partenza a 40mila euro. La sera del 24 è stato il turno della Galleria Pace di Milano, dove segnaliamo “Gli amanti”, olio su tela (80x60 cm) del 1969 di Brindisi a 6mila e 500 euro. Lo stesso giorno, nel pomeriggio sempre a Milano, si è svolta, presso Porro & C, la vendita che ha visto protagonisti pezzi della collezione di Claudia Gian Ferrari. In rilievo un’opera di Sironi della seconda metà degli anni

di Giuseppe Ponissa

dalla collezIone dI claudIa gIan ferrarI. In rIlIevo un’opera dI sIronI della seconda metà deglI annI trenta, venduta a 150 mIla euro

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Trenta, un cemento olio e tempera su carta riportata su tela vendutoa a 150mila euro; opera esposta, tra l’altro, a Palazzo Reale di Milano nel 2007 e a Palazzo Valle di Catania nel 2009. Ritroviamo Sironi a quota 80mila euro, il doppio della base d’asta, con un bassorilievo in gesso dipinto (60x112x5,5 cm), esposto nel 2004 sia alla Pinacoteca Nazionale di Bologna sia al Palazzo della Triennale di Milano. Sulla stessa cifra si è attestato un olio su tavola (103,5x71,3 cm) di Cagnaccio di San Pietro, esposto nel 1991 e nel 2009 presso la Galleria Gian Ferrari a Milano e nel 2001 presso Palazzo Martinengo a Brescia. Il 12 aprile la sede milanese di Sotheby’s ha esitato anch’essa opere provenienti dalla collezione di Caludia Gian Ferrari. Il miglior risultato è stato ancora ottenuto da Sironi con un olio su carta applicata su cartone (31,2x43 cm) esposto a Verona tra il 1982 e il 1983: presentato con una stima massima di 80mila euro, ha totalizzato 126mila e 750 euro. Cifre inferiori ma rialzi interessanti sia per l’olio su tela (64,5x90,5 cm) del 1957 di Manè-Katz (esposto nel 1962 presso la Galleria Gian Ferrari) che con una stima iniziale di 1520mila euro si è spinto fino a 94mila e 350 euro, sia per la stampa cibachrome (177x117,5 cm) del 1992 di Cindy Sherman (esposta a Manchester, Milano e Roma) che ha raggiunto 82mila e 350 euro a fronte di una valutazione tra gli 8mila e i 12mila euro. Lo stesso giorno dell’asta di Sotheby’s, a Genova, la casa d’asta Boetto, effettuava la propria vendita all’incanto. Un notevole risultato è stato ottenuto da un acrilico su tela (100x100 cm) degli anni Settanta di Antonio Dias, che è andato ben oltre la stima massima di 12mila e 500 euro, raggiungendo i 95mila euro di aggiudicazione. Buona battuta anche per “Rosso”, una tempera vinilica su tela estroflessa (60,5x70 cm) del 1968 di Bonalumi, che attestatosi a 68mila euro ha superato di 17mila euro la stima massima. Da ricordare anche i 64mila euro ottenuti da una tempera su cartone (50x35 cm) eseguita tra il 1915 e il 1920 da Balla. Infine citiamo i 6mila euro con cui è stato portato a casa un acrilico su cartone (67x47 cm) di Scanavino durante l’asta serale della Galleria Rosenberg svoltasi il 15 di aprile. N.B. i prezzi di aggiudicazione citati non sono comprensivi dei diritti d’asta, tranne quelli riguardanti Sotheby’s


arskey/Politiche Culturali | Aste Agevolazioni all'esterofiscali per le imprese

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aste all'estero:

modern & contemporary: rIprende l'entusIasmo

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Il trend si era già profilato nel febbraio scorso a Londra, dove le aste di modern & contemporary art avevano manifestato rassicuranti segnali di ripresa, registrando modestissimi tassi di invenduto e fatturati in decisa crescita. Un cauto ottimismo aveva pervaso - a marzo - anche il Tefaf di Maastricht, in occasione del quale i 45 espositori di arte del Novecento e del dopoguerra avevano dichiarato una sostanziale soddisfazione e, in diversi casi, anche il perfezionamento di importanti trattative (fra cui quella di un Mirò del 1945 ceduto da Landau Fine Art a oltre 5milioni di euro). A colpire i facoltosi visitatori e i prestigiosi galleristi accorsi nel comune olandese sono stati - oltre i 7mila oggetti esposti - anche i dati del Tefaf Report, l'autorevole studio sull'andamento del mercato dell'arte globale, commissionato ogni anno dall'ente organizzatore della fiera all'esperta Clare McAndrew. Gli esiti della ricerca hanno delineato infatti una svolta epocale dello scenario mondiale nel quale la Cina è balzata al secondo posto della graduatoria dei paesi per volume d'affari, soppiantando la Gran Bretagna e rimanendo alle spalle solo degli Stati Uniti, dominatori incontrastati del mercato con una market share del 34%. A dir poco sorprendenti i tassi di crescita del paese orientale che ha registrato un +530% dal 2004 al 2010 e un +100% nel solo biennio 2009 - 2010. Le aste primaverili di New York - da sempre considerate il termometro del mercato internazionale di alta fascia - hanno confermato il buon momento dell’arte contemporanea indicando a esperti, analisti e semplici appassionati i nomi degli autori su cui puntare e scommettere nei prossimi mesi. La sessione d’asta ha visto ancora una volta contrapposte le due major della vendite all’incanto sfidarsi a colpi di martelletto. Vittoriosa ne è uscita Christie’s che è riuscita ad aggiudicare opere per un valore complessivo di oltre 300milioni di dollari, ben 163 di più dell’anno precedente. Sotheby’s si è dovuta accontentare di poco più di 128milioni, peggiorando di 62milioni i risultati ottenuti nel 2010. Ma entriamo nel dettaglio. A spuntare le aggiudicazioni più alte sono stati i soliti grandi nomi: da Warhol a Rothko, da Bacon alla Sherman, passando per Twombly e Basquiat. Re Mida del mercato si è confermato Andy Warhol, rappresentato - in entrambe le vendite all’incanto - da numerose opere fra cui alcune di primaria importanza come la “Sixteen Jackies”, venduta a più di 20milioni di dollari da Sotheby’s (stime 20 - 30milioni) o il “Selfportrait”, aggiudicato a più di 38milioni di dollari da Christie’s a fronte di stime pubblicate in catalogo comprese fra i 20 e i 30milioni. Di Mark Rothko, Christie’s ha presentato un imponen-

di Alessandro Guerrini

vIttorIosa ne è uscIta chrIstIe’s che è rIuscIta ad aggIudIcare opere per un valore complessIvo dI oltre 300mIlIonI dI dollarI, ben 163 dI pIù dell’anno precedente. sotheby’s sI è dovuta accontentare dI poco pIù dI 128mIlIonI

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te olio su tela, “Untitled no.17”, che - partendo da un stima di 18 - 22milioni di dollari - è riuscito ad accendere una vivace competizione conclusasi a quota 33milioni. Francis Bacon, presente nel catalogo di Christie’s con due opere, ha deluso al primo passaggio (chiuso a 9milioni, ovvero uno meno della stima minima) ma ha saputo catalizzare l’attenzione, una ventina di lotti dopo, con “Three studies for self portrait”, aggiudicato a oltre 25milioni di dollari. A sorprendere è stata anche l’opera “Untitled” di Cindy Sherman che, presentata con una stima minima di 1,5milioni di dollari, è salita fino a quasi 4milioni raddoppiando, di fatto, la stima massima. Cy Twombly, uno fra gli autori di punta della scuderia di Gagosian ha superato i 15milioni con una propria opera icona, stimata 10 -15milioni mentre Jean Michel Basquiat ha eguagliato con “Job Analisis” la stima massima di catalogo, fissata dagli specialisti della casa d’asta a quota 3,5milioni di dollari e ha sfiorato quota 6milioni con l’opera “Eroica I”. Fra gli sconfitti della vendita va segnalato invece Jeff Koons presente nel catalogo di Sotheby’s con una prova d’artista della sua celebre “Pink Panther” stimata 20 - 30milioni di dollari e ceduta a 'soli' 16. L’arte italiana è stata rappresentata a New York dai tre più famosi autori nostrani del dopoguerra: Lucio Fontana, Alberto Burri e Alighiero Boetti. Del primo, Sotheby’s ha offerto un superbo “Concetto Spaziale” con 12 tagli su fondo bianco che ha trovato un nuovo acquirente a poco più di 6milioni. Tale aggiudicazione conferma che le opere del maestro dello spazialismo sono sempre più spesso oggetto di un collezionismo internazionale tanto raffinato quanto facoltoso. Il medesimo ragionamento vale anche per Alberto Burri una cui “combustione plastica” - da Christie - è stato contesa da più bidder fino alla ragguardevole cifra di quasi 2milioni di dollari (stime 500mila 700mila dollari). Sorte analoga è stata riservata ad una “Mappa” di Alighiero Boetti che - partendo da una forbice di valutazione di 1,2 - 1,8milioni - ha cambiato proprietario a oltre 2,3. Se l’entusiasmo sembra dunque aver preso nuovamente piede nella piazza più importante del mondo, le prossime aste nazionali daranno chiare indicazioni sullo stato di salute del segmento medio del mercato che nei mesi scorsi è stato fortemente penalizzato da una domanda sempre più esigente e attenta alla qualità. A tali indicazioni si andranno ad aggiungere nelle prossime settimane anche quelle provenienti da due dei principali appuntamenti dell’art system: la Biennale di Venezia e Art Basel. Che il grand tour del collezionista abbia inizio! - 91 -


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arskey/Politiche Culturali| Rivoluzione dei Gelsomini

rIvoluzIone deI gelsomInI:

egItto e turchIa: pontI moderatI tra occIdente e medIo orIente

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Algeria, Egitto, Libia, Siria, Yemen: come un domino, il vento della rivoluzione popolare, che porta con sé l’inebriante profumo di gelsomino, ha invaso la scacchiera del Medio Oriente, i cui equilibri in questi giorni vanno a riposizionarsi. Un riposizionamento a volte relativamente pacifico, altre che ripropone il consunto conflitto d’interessi Occidentale - tra aiuto alla popolazione locale e approvvigionamento alle locali fonti energetiche -, ma che nella Rivoluzione dei Gelsomini, trova soprattutto una nuova concezione culturale, che ha nell’arte un suo alter ego dialogante. Non a caso, seppur con una certa ‘premonizione’ l’arte e la politica sono alla base delle scelte artistiche proposte alla 12ma Biennale Internazionale di Istanbul, curata da Adriano Pedrosa e Jens Hoffmann, il prossimo settembre. Scelta che, appunto, in qualche modo aveva preannunciato il grande ed epocale sommovimento politico che l’aera a sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente in genere, sta oggi affrontando. L’esposizione artistica di Istanbul va così a posizionarsi in un quadro più ampio, che vede la Turchia come paese di riferimento. Infatti, sebbene la democrazia turca abbia ancora molto da lavorare in merito ai diritti umani - con tutte le sfaccettature che questa definizione comporta -, la Turchia rimane comunque un

di Marianna de Padova

Il processo democratIco è un’evoluzIone delIcata, che ha bIsogno deI suoI tempI e temI, che non possono essere dettatI da forze esterne al nucleo centrale

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interlocutore di primaria importanza. Ponte non solo geografico tra Asia ed Europa, negli ultimi anni il governo di Erdoğan ha guardato a Occidente, come modello di sviluppo economico e democratico, senza però dimenticare i suoi vicini mediorientali. Ma soprattutto, senza dimenticare l’Islam, notoriamente religione nazionale. Nonostante i numerosi dissidi interni, l’Islam è infatti un potente catalizzatore, in cui gli interessi (non solo religiosi) dei fedeli sono messi al primo posto. O così dovrebbe essere, perché le condizioni del popolo islamico, in molti paesi mediorientali, è critica. Assenza di libertà, ma anche tantissima povertà e incuria, come ben dimostrano le fotografie del 2006 dell’egiziano Moataz Nasr, recentemente esposte a San Giminiano. L’artista stesso motiva la scelta di queste fotografie con la volontà di mostrare quanto il Cairo sia stata una città abbandonata, senza nessuno che se ne prendesse cura. Ma il Cairo non è una città che sorprende solo per l’abbandono, l’incredibile traffico e conseguente inquinamento, è anche una metropoli culturalmente molto viva (proposta come city break al pari di Istanbul): la galleria Mashrabia, diretta dall'italiana Stefania Angarano, espone giovani talenti e pittori affermati come Adel El Siwi e


arskey/Politiche Culturali | Rivoluzione dei Gelsomini

Ahmed Askalany (entrambi reduci dalla Biennale di Venezia), o i meno conosciuti Hani Rashid e Essam Maarouf. “Il Cairo è in decisa crescita come centro d'arte contemporanea, un po’ negletto ma con una produzione forte e molto varia - dice Stefania Angarano su Il Corriere della Sera del 24 aprile 2010 . Tutti parlano di Dubai, ma quella è una vetrina scintillante a cinque stelle dove nessuno fa arte ma solo business. Oggi, nel mondo arabo, prima ancora del Libano è l'Egitto a avere la leadership. È ora che anche gli occidentali lo capiscano”. Dichiarazioni che evidenziano una realtà molto complessa, oltre che critica, visibile a tutti, dai semplici turisti, ai decisionisti politici. Proprio i politici occidentali sono stati discussi deus ex machina del popolo islamico mediorientale, che sotto la minaccia di Al Qaeda, sono scesi a compromessi con l’importanza dell’esportazione della democrazia, tollerando e facendo affari con personaggi ambigui, come il moderato Mubarak (o meglio, il molto discusso Gheddafi, che in questi giorni impegna l’Occidente in uno dei noti conflitti d’interesse). Dopo l’11 settembre, gli analisti internazionali sembravano tutti concordi nell’affermare che bisognava fare molta attenzione ai popoli islamici, perché molto influenzabili dalla propria religione e quindi potenziali, e predestinati, vittime dell’estremismo. Sicché, per l’impaurito Occidente, la povertà popolare governata da regimi stabili sotto moderati rais, pareva un necessario compromesso (rivelatosi comunque miope negli accordi sulle migrazioni). Insomma ancora una volta il grande e liberale Occidente, abbassava gli occhi di fronte l’oppressione, per mantenere il bene più grande: lo status quo come vero baluardo alla difesa dell’Occidente stesso. Una scelta che sembrava obbligata anche agli occhi della storia: i processi di affrancamento dall’egemonia religiosa non possono essere imposti dall’esterno: l’Afghanistan insegna. Ma anche la stessa storia occidentale dimostra come il processo democratico sia un’evoluzione delicata, che ha bisogno dei suoi tempi e temi, che non possono essere dettati da forze esterne al nucleo centrale. Ma si possono cogliere gli imprevisti della storia. E infatti nei Paesi della Rivoluzione del Gelsomino, l’imprevisto storico arriva, soprattutto in un’era dominata da un nuovo strumento, in fondo ancora ben poco

la generazIone della rIvoluzIone deI gelsomInI, passerà alla storIa per essere stata la prIma ad avvalersI ‘concretamente’ della potenza dI Internet

compreso nel suo intimo potenziale: internet, e i social net. Gli stessi analisti internazionali, che temevano una deriva fondamentalista delle aeree moderate del mondo islamico mediorientale, oggi stupiti e meravigliati indicano facebook e twitter come i veri strumenti aggregatori e organizzatori di una rivolta che è stata voluta dai giovani. Quei giovani che tramite internet e tutti i suoi rivoluzionari strumenti, hanno permesso una riflessione seria e attenta sulle reali differenze planetarie. Per avere un’idea del fenomeno basti pensare che in Egitto la popolazione dei giovani sotto i 25 anni è del 52%, su una cittadinanza totale di circa 70milioni. La generazione della Rivoluzione dei Gelsomini, passerà alla storia per essere stata la prima ad avvalersi ‘concretamente’ della potenza d’internet, stupendo e meravigliando potenti e analisti, dimostrando che nel mondo islamico le rivoluzioni laiche sono possibili. Anche perché, è il caso di ricordarlo, la storia dell’Iran sta proprio a dimostrare il fallimento delle rivoluzioni religiose. Chiaramente i gelsomini possono ancora appassirsi all’ombra di una maligna interpretazione del Corano, ma per i soliti analisti è molto più probabile che in Egitto, nonostante alcuni sporadici scontri di piazza con i militari, prevarrà la forte tradizione moderata, e verosimilmente guarderà al modello turco. Modello non solo democratico, ma anche di sviluppo, che secondo altri analisti nel 2050 porrebbe la Turchia come decima economia mondiale. Si profila dunque una sorta di ‘gemellaggio’ culturale e politico tra Egitto e Turchia, che porterebbe i due Paesi a confermarsi come roccaforti dell’Islam moderato, e le cui posizioni geografiche li porrebbero come naturali dialogatori con le altre anime islamiche. E la prossima Biennale Internazionale di Istanbul sembra essere il luogo ideale per questo storico compito.

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arskey/Politiche Culturali| Rapporto Nomisma 2011

. .

rapporto nomIsma 2011:

mercato ItalIano verso la stabIlItà

Sul mercato italiano dell’arte moderna e contemporanea sembra essere tornato il sereno. Dopo il crollo del volume d'affari del 60,6% registrato nel 2009 sul 2008, infatti, le stime pubblicate dall’Osservatorio sul Mercato dei Beni Artistici di Nomisma nel suo rapporto 2011 parlano di un + 2,7 per il 2010 rispetto al 2009. Una leggera ripresa dopo lo shock che ha investito anche il mercato dell’arte a seguito della crisi economico-finanziaria internazionale. E per il 2011 è attesa, dalla maggioranza degli operatori di settore, una fase di stabilità. Intanto, trainato dalle Italian Sales dell’autunno scorso, il mercato internazionale torna a consolidarsi e le prime Evening Sales di quest’anno a Londra e New York registrano risultati ai livelli del primo semestre 2008. Il mercato italiano dopo la crisi - Anche se in Italia il mercato dei beni artistici, con un volume di affari che si aggira attorno al miliardo di euro, è da considerarsi marginale rispetto ad altri, non è rimasto indenne dalle dinamiche economiche dell’ultimo biennio. Quello uscito dal sisma finanziario che ha scosso le piazze internazionali è infatti un mercato dal profilo in buona parte ridisegnato. Cambiamenti, quelli intervenuti dal 2008 a oggi, che mettono in evidenza alcune peculiarità tutte italiane. Dal Rapporto Nomisma 2011 emerge come il nostro sia un mercato in cui predomina il piccolo collezionismo: il 77,4% degli acquisti in arte fatti da gennaio a giugno 2010 (dato ultimo disponibile) rientra nella fascia tra i 3mila e i 20mila euro. Ma anche quella italiana è una piazza dove il sommerso rappresenta una quota molto ampia degli scambi in arte e dove il mercato ufficiale stenta ad attirare nuovi collezionisti, mentre quelli 'storici' hanno ridotto le loro acquisizioni. Oltre a questo, Nomisma pone l’accento anche su un certo ritardo degli operatori italiani di settore nell’affrontare la crisi, in particolare sul fronte dei prezzi. Se, in linea di massima, anche l’Italia si è adeguata ai trend che hanno caratterizzato le scelte strategiche del mercato mondiale dell’arte, andando verso una selezione più attenta degli artisti e delle opere, un abbassamento delle stime d’asta e una riclassificazione dei collezionisti per fasce di spesa, la piazza italiana è stata caratterizzata da una maggiore price resistance, in particolare per quanto riguarda le opere di arte moderna. Questo atteggiamento ha determinato una dinamica divergente tra i segmenti moderna e contemporanea. Se nel primo semestre del 2010 il Nomisma Italian Modern Art Price (NIM) ha registrato una continua

di Nicola Maggi

dal rapporto nomIsma 2011 emerge come Il nostro sIa un mercato In cuI predomIna Il pIccolo collezIonIsmo

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flessione che mantiene lontana la ripresa, a differenza di quanto sta accadendo sulle principali piazze mondiali, il Nomisma Italian Contemporary Art Price (NIC) è tornato, invece, ai livelli pre-crisi (2006). Un trend, quest’ultimo, in linea con quanto sta avvenendo a livello internazionale. Dati che fanno prevedere una sostanziale tenuta del mercato italiano dell’arte contemporanea - che si riporta ai livelli del primo semestre 2009, anno record - contro una maggior incertezza per il futuro dell’arte moderna. Stessa situazione per quanto riguarda la liquidità: pur rimanendo su livelli simili (circa 60%), le quote di invenduto nel segmento arte moderna sembrano destinate a non diminuire a differenza di quelle del contemporaneo. In entrambi i campi, comunque, la forte flessione dell’indicatore di liquidità registrata a partire del secondo semestre 2006 (molto prima, quindi, della crisi) è lungi dall’essere recuperata. Le Case d’Asta guadagnano terreno sulle Gallerie Dai dati Nomisma sull’arte moderna e contemporanea relativi al primo semestre 2010 (ultimo disponibile) sembra che le case d’asta abbiano retto alla crisi meglio delle gallerie. Come risulta evidente dalle serie storiche, infatti, se fino al boom del primo semestre 2008 e il successivo crollo i dati sulle vendite in asta e in galleria viaggiano di pari passo, a partire dal primo semestre 2009 si assiste a una lieve ripresa seguita da una leggera flessione per quanto riguarda le gallerie, mentre le case d’asta fanno registrare un calo sostenuto fino al secondo semestre, sempre del 2009, controbilanciato da un brusca ripresa nei primi sei mesi del 2010. Un andamento divergente che potrebbe essere il risultato di differenziate exit strategy messe in atto dagli operatori per contrastare la crisi: più reattiva quella delle case d’asta, ritardata quella delle gallerie. Al di là di questo, comunque, una cosa è certa, la crisi dell’ultimo biennio ha influito sensibilmente sulla spartizione del mercato. Se, infatti, le gallerie continuano a predominare, coprendo il 52% del mercato, nel primo semestre 2010 hanno perso per strada l’1,7% delle quote relative, a fronte di un incremento del 2,1% da parte delle case d’asta che oggi rappresentano il 42% della torta. Il 2010 all’asta - Il 2010 è stato un anno positivo per le aste italiane e i bilanci delle principali case che operano nel nostro paese sono tornati a sorridere. Un trend positivo annunciato già dai risultati delle aste del primo semestre dello scorso anno, quando Sotheby’s, Christie’s e Farsetti hanno totalizzato


arskey/Politiche Culturali | Rapporto Nomisma 2011

27milioni di euro, tornando i livelli di fine 2008. Ma passiamo rapidamente in rassegna i principali risultati. Nel derby dell’andata (primavera 2010) Sotheby’s straccia Christie’s realizzando il triplo dell’incasso (14,4mln di euro contro 5,6) e trascinando il recupero delle aste italiane mentre la seconda rimane ben lontana dai risultati del 2008. Anche il ritorno (autunnoinverno 2010) se lo aggiudica Sotheby’s seppur con uno scarto minore: 8,5mln a 6,5. Per le due case anglosassoni il 2010 è stato un successo: Sotheby’s ha totalizzato un fatturato di 23mln di euro (+8,5mln sul 2009) mentre Christie’s a realizzato 11,5mln (+1,2 mln). Ottima la performance di Farsetti. Dopo un incasso primaverile sostanzialmente in linea con il 2008, la casa d’aste di Prato, grazie a un’oculata price strategy, ha realizzato a fine novembre un fatturato di 5mln di euro e il 70% di venduto. Ma il 2010 è stata una buona annata anche per Porro&C, Blindarte, Pandolfini e Meeting Art. Come sarà il 2011 per il mercato italiano - I galleristi, intervistati da Nomisma, sembrano essere tutti concordi. Dopo la leggera flessione del 2010 il barometro del mercato italiano sembra segnare stabilità. Una fiducia nel futuro che trova d’accordo anche i responsabili di dipartimenti di arte moderna e contemporanea di alcune delle principali case d’asta italiane. “Il bilancio economico del 2010 è stato decisamente positivo - dichiara Jacopo Antolini di Pandolfini - e questo è il presupposto con cui guardare all'immediato futuro con legittimo ottimismo, senza tuttavia trascurare che la scena resta e gli attori cambiano. Tra i desiderata, quindi, ci sono indubbiamente il superamento del clima di volubilità del mercato e la conferma di una generale tendenza alla stabilizzazione. In questo senso le sessioni primaverili saranno le cartine di tornasole da cui ricavare delle indicazioni più attendibili”. Di tenore analogo le dichiarazioni di Marco Laurini della casa d’aste Meeting Art: “In termini di fatturato, il 2010 si è concluso con un buon margine in positivo rispetto al 2009. Per l’anno in corso le aspettative sono buone. Ci auguriamo, quantomeno, di poter avere gli stessi risultati del 2010”. Intanto le Italian Sales trainano la ripresa internazionale - Mentre il mercato italiano sta ritrovando, lentamente, una sua stabilità, è l’arte italiana a trainare il mercato internazionale di moderna e contemporanea fuori dalla crisi. Fatta eccezione per alcuni record d’asta - tra i quali ricordiamo quello di “Nude, Green Leaves and Bust”, tela di Pablo Picasso battuta da Christie’s New York per 95milioni di dollari il 5 aprile

è l’arte ItalIana a traInare Il mercato InternazIonale dI moderna e contemporanea fuorI dalla crIsI

2010 - il primo semestre 2010, per le aste newyorkesi e londinesi, è caratterizzato da risultati decisamente al di sotto delle aspettative con molti artisti noti rimasti invenduti. Situazione non troppo diversa per il secondo semestre. Il mercato apre, ancora una volta, all’insegna dell’incertezza. A Londra, al di là di una serie di nuovi record, i risultati delle due case d’asta sono divergenti. Se Christie’s ha superato le stime del 20% totalizzando 22,3milioni di euro; Sotheby’s ha riscosso 15,1mln di euro: il 40% in meno rispetto alle aspettative. Si devono attendere le Italian Sales d’autunno per intravedere i segni di una ripresa. Gli appuntamenti da Sotheby’s e Christie’s con l’arte italiana, dopo il crollo del 2009, fanno registrare un trend decisamente positivo, tornando ai livelli record del 2006 e superando del 30% i risultati delle edizioni precedenti: 78% di venduto per Christie’s che ha totalizzato 21,2mln di euro e 88% per Sotheby’s (19,6mln). Gran protagonista: Marino Marini con “Cavaliere”, battuto per 5mln di euro, ben tre volte la stima. La parola passa, a questo punto, a New York che conferma che il consolidamento del mercato dopo la crisi ha avuto inizio. Le aste in programma da Sotheby’s, Christie’s e Phillips de Pury a novembre realizzano, complessivamente, 462mln di euro, comprese le commissioni. Cifra vicina ai risultati del 2007 e doppia rispetto al 2009. Un consolidamento confermato anche dai primi risultati 2011. La Evening Sale (ES) del 15 febbraio da Sotheby’s Londra ha totalizzato quasi 53mln di euro (91,5% in lotti e 95,5% in valore) al di sopra delle stima più alta, il secondo risultato di sempre tra le aste di febbraio della casa londinese e il migliore da luglio 2008. Risultato analogo per Christie’s Londra, che nella ES del 16 febbraio ha totalizzato oltre 73mln di euro (92% per lotti e 98% in valore), un risultato ben al disopra delle aspettative e il miglior totale dal giugno 2008. La ES londinese da Phillips de Pury (17 febbraio) si è chiusa, invece, con 83% dei lotti venduti e l’84% in valore per un totale di 8,7mln dollari. E anche il primo appuntamento newyorkese di Sotheby’s è andato bene: oltre 9,4mln di dollari - vicino alla stima più alta - con il 78,4% dei lotti venduti e il 88,7% in valore. Per Phillips de Pury, invece, l’appuntamento del 7 marzo a New York si chiuso con un totale pari a 4,7mln di dollari (80% per lotti e 84% in valore).

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arskey/economia | Aste in Cifre

A CURA dI ARSVALUE.COM

ASTE IN CIfRE

Artista

Titolo e anno

Tecnica e dimensioni

Base d'asta / stima

Aggiudicazione

Casa d'aste / data

Afro

Vaso di fiori, (1939)

Olio su cartone - cm. 50x35

40.000

40.000

Meeting Art (VC) - 03/04/2011

Alviani Getulio

Progetto per opera, 1978

Carte ed alluminio - cm. 14x14

4.500

4.500

Galleria Rosenberg (MI) 15/04/2011

Appel Karel

De garden, 1958

Olio su tela - cm. 46x65

70.000

70.000

Meeting Art (VC) - 02/04/2011

Arman

Pigmento su tre violini - cm. Hommage a Yves Klein, 1992 66x32x22 cad.

20.000 - 22.500

40.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Aubertin Bernard

Pochettes d'allumettes brulees sur aluminium, 2008

Pacchetti di fiammiferi brucia3.500 ti su alluminio - cm. 50x50

3.500

Galleria Rosenberg (MI) 15/04/2011

Aubertin Bernard

Dessin de feu sur aluminium, 2007

Fiammiferi bruciati su alluminio - cm. 50x50

3.500

4.400

Galleria Rosenberg (MI) 15/04/2011

Baj Enrico

Bambino, 1955

Olio e collage su masonite cm. 39,2x38,4

4.000 - 5.000

4.200

Galleria Pace (MI) 24/03/2011

Baj Enrico

Dama, 1969

Acrilici e collage su tavola cm. 90x70

40.000

40.000

Sant'Agostino (TO)14/03/2011

Balla Giacomo

Futurballa "Onda musicale patriottica", 1915-20

Tempera su cartone - cm. 50x35

65.000 - 72.000

64.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Balla Giacomo

Senza titolo, 1919

Tempera su cartone - cm. 25x35

5.000

27.000

Meeting Art (VC) - 22/01/2011

Balla Giacomo

Senza titolo, 1920

Tempera su cartone - cm. 33x43,5

10.000

61.000

Meeting Art (VC) - 29/01/2011

Bertini Gianni

Fleches d'Achille, 1961

Tecnica mista e collage su tela di juta - cm. 110x100

6.000

6.000

Capitolium Art (BS) 02/03/2011

Boccioni Umberto

Studio per i "Volumi Orizzontali" (la madre), 1912

Matita su carta applicata su tavola - cm. 21x16,5

25.000 - 35.000

60.750*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Boetti Alighiero

Le cose nascono dalla necessitĂ e dal caso, 1988

Arazzo - cm. 33,5x35,5

25.000 - 27.500

30.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Boetti Alighiero

Ordine e disordine, 1980

Pochoir e tecnica mista su cartoncino - 54,2x89,6

13.500 - 14.500

9.500

Fabiani Arte (PT) 04/03/2011

Bonalumi Agostino

Rosso, 1968

Tempera vinilica su tela estroflessa - cm. 60,5x70

46.000 - 51.000

68.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Bonalumi Agostino

Verde, 1991

Tela estroflessa e acrilico cm. 92x73

25.000

25.000

Meeting Art (VC) - 19/03/2011

Bonalumi Agostino

Bianco, primi anni '70

Tela estroflessa - cm. 150x116

40.000

54.000

Sant'Agostino (TO)- 13-1415/03/2011

Brindisi Remo

Gli amanti, 1969

Olio su tela - cm. 80x60

6.500 - 9.500

6.500

Galleria Pace (MI) 24/03/2011

Cagnaccio di San Pietro

Ritratto della signora Wighi, 1930-36

Olio su tavola - cm. 103,5x71,3

60.000 - 90.000

80.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Carena Felice

Natura morta, 1964

Olio su tela - cm. 35x39,8

8.000 - 10.000

7.500

Galleria Pananti (FI) 19/02/2011

Carena Felice

Natura morta, 1956 c.a.

Olio su tavola - cm. 24,7x59,9

10.000 - 15.000

15.000

Galleria Pananti (FI) 19/02/2011

Chia Sandro

Teste affezionate

Olio su tela - cm. 64x74

20.000

25.000

Sant'Agostino (TO)14/03/2011

Crippa Roberto

Spirali, 1953

Olio su tela - cm. 140x100

25.000

30.000

Meeting Art (VC) - 19/03/2011

Cucchi Enzo

Senza titolo, 1985

Scultura in ferro ossidato composta da due elementi - cm. 298x85 5.000

33.000

Meeting Art (VC) - 22/01/2011

Dadamaino

Volume, 1960

Idropittura su tela sagomata cm. 60x50 29.000 - 32.000

29.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

De Maria Nicola

Sera, 2001-2002

Olio su tela e tavola - cm. 49x23

25.000

25.000

Meeting Art (VC) - 22/01/2011

De Pisis Filippo

Vaso con fiori, 1931

Olio su tela - cm. 60x38

25.000 - 30.000

34.000

Porro (MI) - 24/03/2011

De Pisis Filippo

Vaso di fiori, Villa Favorita, 1949

Olio su tela - cm. 70x50

40.000 - 50.000

54.000

Porro (MI) - 24/03/2011


arskey/economia | Aste in Cifre

* prezzo comprensivo di diritti d’asta

Artista

Titolo e anno

Tecnica e dimensioni

Base d'asta / stima

Aggiudicazion e

Casa d'aste / data

Dias Antonio

Evergreen monument, anni '70

Acrilico su tela - cm. 100x100

11.000 - 12.500

95.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Dorazio Piero

Pilota 29

Olio su tela - cm. 33x24

35.000 - 38.500

38.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Fontana Lucio

Ballerine, 1939

Gesso colorato nero e oro - cm. 54x64,5x4

40.000 - 60.000

60.750*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Gentilini Franco

Architettura in terra di Puglia, 1980

Olio su cartone sabbiato e intelato - cm. 35x50

17.000 - 19.000

17.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Gentilini Franco

Ragazza che si pettina, 1957

Olio su tela sabbiata - cm. 50x40

30.000

35.000

Sant'Agostino (TO)14/03/2011

Hartung Hans

P1974-25, 1974

Acrilici e pastelli su cartoncino applicato su pannello cm. 52,5x75

30.000

30.000

Meeting Art (VC) - 06/01/2011

Licata Riccardo

Senza titolo

Olio su tela - cm. 60x81

2.000 - 2.300

3.900

Fabiani Arte (PT) - 05/03/2011

Longaretti Trento

Figure di Juif, 2001

Olio su tela - cm. 50x40

5.000

5.000

Capitolim Art (BS) - 26/03/2011

Lupertz Markus

Seerose dithyramisch (wasserlillien), 1970

Olio su tela - cm. 280x190

25.000 - 30.000

66.750*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Martini Arturo

Fanciulla col passero, 1922-23

Fusione in bronzo - cm. 77x40x24

25.000 - 30.000

32.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Martini Arturo

La zingara, 1933-34

Gres - cm. 204x50x50

50.000 - 60.000

58.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Music Anton Zoran

Nel paesaggio il vuoto, 1960

Olio su tela - cm. 50x65

28.000 - 31.000

27.500

Boetto (GE) - 12/04/2011

Nigro Mario

Ritratto a un rettangolo rosso, 1989

Olio su tela - cm. 50x50

2.500

2.600

Capitolim Art (BS) - 26/03/2011

Ontani Luigi

L'elefantino del marchesino, 2000-2007

Ceramica policroma - cm. 146x55,5x23,5

18.000 - 25.000

43.950*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Ontani Luigi

Il poeta arturomartini, 2007

Marmi policromi e dipinti - cm. 55x45x31,5

25.000 - 35.000

46.350*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Oppi Ubaldo

Paesaggio cadorino, 1924

Olio su tela - cm. 74x55,5

30.000 - 40.000

29.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Paladino Mimmo

Un quadro per Milano, 1988

Olio, colla e sabbia su garze sovrapposte - cm. 166,5x115

15.000 - 20.000

46.350*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Perilli Achille

La fine della dimensione, 2006

Tecnica mista su tela - cm. 70x50

6.000 - 6.800

4.800

Fabiani Arte (PT) - 04/03/2011

Pirandello Fausto

Natura morta con scatola di cioccolatini, 1940 c.a.

Olio su tavola - cm. 45x55

20.000 - 25.000

38.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Rotella Mimmo

Muro romano con impronte di pneumatici, 1955

Decollage su cartone - cm. 60x67

45.000

40.000

Capitolium Art (BS) 02/03/2011

Sanfilippo Antonio

Senza titolo, 1958

Olio su tela - cm. 55x40

25.000 - 27.500

26.000

Boetto (GE) - 12/04/2011

Scanavino Emilio

Senza titolo

Acrilico su cartone - cm. 67x47

5.500

6.000

Galleria Rosenberg (MI) 15/04/2011

Sherman Cindy

Untitled n. 257, 1992

Stampa Cibachrome - cm. 177x117,5

8.000 - 12.000

82.350*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Sironi Mario

Composizione

Bassorilievo in gesso dipinto - cm. 60x112x5,5

30.000 - 40.000

80.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Sironi Mario

Neoclassico (figura classica), 1936-38

Cementite, olio e tempera su carta riportata su tela cm. 146,6x106

150.000 - 180.000

150.000

Porro (MI) - 24/03/2011

Sironi Mario

Periferia, fine anni '20

Olio su carta applicata su cartone - cm. 31,2x43

60.000 - 80.000

126.750*

Sotheby's (MI) - 12/04/2011

Stefanoni Tino

500° di A. Palladio - San Giorgio, Venezia, 2008

Acrilico su tela - cm. 32x42

5.500 - 6.000

4.200

Fabiani Arte (PT) - 03/03/2011

Tabusso Francesco

Atelier di via Salvecchio. Il pittore e la modella

Olio su tela - cm. 190x160

20.000

22.000

Sant'Agostino (TO)14/03/2011

Tozzi Mario

La clessidra grigia e viola, 1968

Olio su tela - cm. 67x54

40.000

51.000

Meeting Art (VC) - 27/03/2011

Veronesi Luigi

Composizione B3, 1972

Olio su tela - cm. 50,5x60,5

3.900

4.400

Capitolim Art (BS) - 26/03/2011

Wildt Adolfo

La madre, 1921

Marmo - cm. 27x27x11

40.000 - 50.000

59.000

Porro (MI) - 24/03/2011


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“MENTE E bELLEzzA”, ALLEMANdI, TORINO di Fabrizio Fulio Bragoni “A lungo la nostra specie ha considerato la creatività e l'innovazione un accessorio, pur praticandole e dipendendo da esse per ogni presente e ogni futuro. Una dipendenza tacita, che dovrebbe divenire consapevole e riconosciuta nel momento in cui le nostre possibilità di presente e di futuro appaiono evidentemente legate alla capacità che avremo di usare in modo creativo e innovativo la conoscenza nella nostra esperienza di vita e di lavoro (Ugo Morelli, “Mente e Bellezza”, Allemandi, Torino 2010, p.118). Si potrebbe sintetizzare così, con la frase d'apertura di un capitolo che, non a caso, dà il titolo al volume, uno dei motivi più evidenti del denso “Mente e Bellezza – Arte, creatività e innovazione” di Ugo Morelli, edito da Allemandi con la collaborazione di Susa Culture Project. Professore di Psicologia del lavoro e dell'organizzazione all'Università di Bergamo e di Psicologia della creatività e dell'innovazione all'interno del master “Landascape, Art and Culture Management” della Trentino School of

Management, Morelli prende l'avvio da interrogativi quali “Che cosa ci incanta di fronte a un paesaggio?”, “Perché ci commuoviamo ascoltando una sinfonia?”, “Perché ci sentiamo attratti e impauriti dall'atto della creazione?” e “Di cosa parliamo quando parliamo di arte ed esperienza estetica?”, per formulare una teoria della ‘creatività’ che eccede la semplice sfera dell'arte. Alla base dei momenti della ‘creazione artistica’, della ‘nascita delle ipotesi scientifiche’, dell'’innamoramento’, dell'’amore’, della ‘genesi del sacro’ e della ‘progettualità politica’, c'è - questo il fulcro della documentatissima teoria di Morelli, piena di riferimenti a numerose, autorevoli fonti storiche, storicoartistiche, filosofiche, psicologiche, biologiche e neurologiche, riunite e ordinate secondo i canoni dell'approccio neo-disciplinare - una comune ‘tensione rinviante’ (rinviante al liminale, al margine di noi stessi), ‘specificamente’ umana (nel senso aristotelico della ‘differenza specifica’), in virtù della quale noi uomini ci confrontiamo con ‘la trascendenza e il terrore’ (p. 33), sottraendoci all'immediata identità con noi stessi, sospendendo il compito infinito della ricerca del senso (sense making) e aprendoci all'intuizione che genera

‘la creazione dell'inedito’. Più importante del meccanismo creativo in sé risulta il carattere evolutivo (e non innato, astorico e immutabile) della capacità autopoietica, simbolica e produttiva dell'uomo: in quanto esito di una selezione naturale - e volendo tenere fermo il principio ‘economico’ individuato, fin da Darwin, alla base del lavoro della natura -, questa facoltà non può che essere riconosciuta, a posteriori, come risposta a una precisa e stretta esigenza del genere umano. Così, connessa come risulta a questa insopprimibile esigenza, la creazione riguadagna quell'importanza e quell'essenzialità che - almeno dal tracollo del paradigma romantico e delle sue varie propaggini culturali - troppo spesso le sono state negate, e lo fa su basi solidamente scientifiche, senza ricorso al piano metafisico. Molto interessanti, oltre ai primi capitoli, che espongono i capisaldi della teoria, i brani relativi al rapporto tra conformismo, conservazione e innovazione, quelli relativi alle consonanze tra la mente del creatore e quella del fruitore, e quelli nei quali l'autore analizza i processi in grado di favorire o ostacolare la genesi e lo sviluppo della creatività.

2000 E OLTRE. LE TENdENzE dELLA CONTEMPORANEITà IN UN NUOVO VOLUME SKIRA di Antonello Tolve Arte, critica d'arte, teoria dell'arte. E poi, ancora, estetica, antropologia, psicoanalisi, geografia (emotiva). Attorno a questi luoghi metodologici di ampio raggio trasversale, si è giocata una partita – partita che continua a giocarsi con sempre maggiore insistenza sui piani della diversità, del multiculturalismo, della mondializzazione e della socializzazione della soggettività – sul tavoliere della creatività e della vita quotidiana quantomai instabile, contingente e transitorio. Il Novecento, l'ultimo secolo del secondo millennio è territorio di felice apertura ad un nuovo che avanza senza sosta. A teorie estetiche – la non finita adorniana, i Passages parigini di Benjamin, le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, La condizione postmoderna di Lyotard e, via via, Le parole e le cose di Foucault, Il disagio della postmodernità di Bauman, La bomba informatica di Virilio, The Artworld di Danto e i nonluoghi di Augè ne sono esempi luminosi – e a movimenti tellurici. A ideologie e crolli ideologici. A incontri e

scontri esemplari [famigerato quello tra Argan (accompagnato gli arganauti) e una famiglia di critici legati, questi, alla Nuova figurazione (Sanguineti, Vivaldi, Tadini, Crispolti e Del Guercio) o, ancora, quello dell'Impatto percettivo, durante il quale Crispolti, invitato a partecipare alla mostra amalfitana, augura a tutti (con un bigliettino tagliente) soltanto un buon impatto! Ma anche a costruzione di movimenti (d'avanguardia e di neoavanguardia), a sfilate di opere – la Mozzarella in carrozza di De Dominicis è formidabile – davvero vivaci o ad una critica d'arte militante straordinariamente presente. Proprio a questo secolo irriducibile, difficile da settorializzare e analizzare, Valerio Terraroli (coordinatore dell'opera) ha dedicato un progetto – L'arte del XX secolo – dal respiro plurale che transita e zooma, con elasticità, tra le maglie impervie dell'arte e della critica per costruire un racconto intermittente efficace a mostrare Protagonisti, movimenti e tematiche dell'arte dal 1900 ad oggi. Dopo un primo volume dedicato alle avanguardie storiche 1909_1919 seguito a ruota, con scansione annuale, da La cultura artistica fra le due guerre 1925_1945 (volume 2), La nascita dell'arte contemporanea 1946_1968

(volume 3) e Neoavanguardie, postmoderno e arte globale 1969_1999 (volume 4), è la volta, ora di un quinto spazio di riflessione dedicato a quelle ultimissime tendenze che hanno sfilato – e sfilano, con impeto – nel presente dell'arte. “Tendenze della contemporaneità. 2000 e oltre” (pagine 432, euro 60), questo il titolo dell'ultimo volume pubblicato da Skira. Ultimo volume di un viaggio nell'arte del XX secolo che, grazie ai contributi critici e teorici di Lea Vergine, Nicolas Bourriaud, Angela Vettese, Klaus Honnef, Gabriella Belli, Luca Molinari, Paco Barragán, Walter Guadagnini, Marco Scotini, Filippo Maggia, Domenico Quaranta e lo stesso Valerio Terraroli, attraversa non solo le Nuove geografie mutanti dell'arte (Vergine), le Nuove poetiche dell'identità (Vettese) o i territori dell'installazione, del video e dell'arte d'azione in un periodo che Bourriaud ha visto, nell'epoca postmediale, decisamente precario, ma anche i luoghi cruciali dell'esposizione – Neonodernità, neobiennalismo, neofierismo (Barragán) –, del Mercato dell'arte e delle nuove forme di collezionismo (Guadagnini) che sono, oggi, i paesi più scottanti e inquieti del dibattito sul (e nel) sistema dell'arte contemporanea.


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MUSEI Fiesole PALAZZO COMUNALE ISOLE DEL PENSIERO. BÖCKLIN, DE CHIRICO, NUNZIANTE fino al 19 giugno 2011 di Sandra Salvato

Antonio Nunziante, “L'alba vinceva l'ora del mattino” “Se percepiamo più facilmente l'idea nell'opera d'arte che nella contemplazione diretta della natura e della realtà, ciò si deve al fatto che l'artista, il quale non si fissa che nell'idea e non volge più l'occhio alla realtà, riproduce anche nell'opera d'arte l'idea pura, distaccata dalla realtà e libera da tutte le contingenze che potrebbero turbarla”. Non è solo Shopenhauer, quanto più in generale l’indagine filosofica come capacità di costruire nuovi itinerari liberi dalla finitezza prestata dalla realtà visibile delle cose, ad essere il timone in questa nuova veleggiata verso la pittura. Nobile e riconoscibile espressione dell’arte che a volte riesce persino come comune denominatore di tre magnifici interpreti simili eppure diversi. La mostra intitolata “Isole del pensiero. Böcklin, de Chirico, Nunziante”, che si è inaugurata sabato 16 aprile a Fiesole, nella Sala del Basolato del Palazzo Comunale in occasione del centodecimo anniversario della morte del pittore svizzero avvenuta proprio in Fiesole, porta in evidenza ciò che evidente non è, e cioè che infrangere le rotte di una dilagata tendenza a fare arte contemporanea inaccessibile e capziosa, significante solo per chi la genera, è un atto di coraggio, è voler a tutti i costi restituire bellezza alle forme. Classicheggianti. Perché è nell’immediatezza di una poetica semplice e rassicurante che l’osservatore può imparare qualcosa del linguaggio pittorico. Si spinge anche più in là il critico d’arte nonché curatore della mostra Giovanni Faccenda, “noi italiani – lanciando una provocazione - siamo conosciuti nel mondo per le opere di

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Cimabue, Giotto, Masaccio, Tiziano, Caravaggio, non per i bambini appesi di Cattelan o per altre cose che dimostrano solo di abbassare la soglia del valore, in modo che tutti possano considerarsi artisti”. Scavalcati i supermercati dell’arte vanno quindi cercate quelle zone in cui il talento determina ancora stupore, si dà spazio alla critica, si apre al confronto senza timore di uscire fuori dal recinto dell’autoreferenzialità. A chi entra, la Sala del Basolato, inaugurata due anni fa ma consacrata ufficialmente all’arte con questa esposizione, si presenta come un approdo, un lembo – o limbo? – di terra – dove far convergere tre diversi intelletti, farli dialogare in un’eterna visione d’insieme. E siccome sono isole a formare un arcipelago, anche l’allestimento si sviluppa intorno a questo silente equilibrio, alzando, proprio nel mezzo della sala, una parete, metafora di un’ulteriore sponda. Il corpus di opere, venti del Maestro, quattro di Arnold Böcklin, cinque di Giorgio de Chirico, oltre a numerosi bozzetti e studi (grafite e pastelli su carta, olii su tela), è un complesso di sentimenti, la composizione di diversi esiti emotivi rispetto alla percezione delle cose. Colpisce il virtuosismo, la parentela che si forma tra tecnica – seduce l’impianto cromatico e l’uso della prospettiva nell’artista di origine napoletana - e visionarietà. Si tratta cioè di trascendere la realtà sensibile per crearne una in cui tutto è possibile, dove il limite è determinato dalla capacità individuale di allargare i confini della propria bella immaginazione. Tale realtà si popolerà allora di esistenze enigmatiche, di architetture fantastiche, di logiche smontate e ricombinate secondo il proprio “vedere”. Faccenda voleva dimostrare che esiste un continuum tra Böcklin e la contemporaneità. Di più. Desiderava mettere insieme l’ultimo Böcklin (quello della malattia e degli ultimi anni a Villa Bellagio a Fiesole), il primo de Chirico (più bokliniano che metafisico) e il secondo Nunziante (nella sua più alta stagione creativa), tre differenti maturità artistiche per dimostrarne la profonda concatenazione. E nonostante ci sia materia su cui riflettere – ad esempio sul fatto che la bellezza torni ad essere illuminata con il recupero di un’etica professionale, di un senso estetico, oppure sull’importanza delle ultime opere del pittore svizzero, considerate a torto minori perché meno conosciute – quello che ha catalizzato fin dall’inizio l’attenzione dei media è stata l’Isola dei morti, opera notissima e pure assente in questa mostra che punta ad altro. Hans Holenweg, mas-

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simo studioso di Böcklin, ha rivelato una serie di scoop, dal titolo del dipinto che sarebbe stato assegnato dallo stesso autore – contrariamente a quanto sostenuto fino ad oggi –, alla vera fonte di ispirazione, il Castello di Alfonso d’Aragona ad Ischia, non più il Cimitero degli Inglesi di Firenze come ipotizzato. La potenza suggestiva della visione bokliniana condiziona anche il respiro creativo di Nunziante che la inscena nuovamente, sostituendo se stesso alla figura bianca, un io “plurale” in cui ciascuno può immedesimarsi. In “Laggiù tutto è possibile” il pittore è parte della visione e ha già trasformato la solitudine originale in contemplazione di un luogo ideale, di struggente bellezza. Preso nota, dunque, dell’ingombro che rappresenta un autore come Böcklin per le future generazioni di pittori, fa il suo ingresso un dubbio, e se cioè quanto asserito da Giovanni Faccenda in sede di presentazione dell’evento risponda più ad un sentire personale che non ad una realtà inconfutabile: può il celebratissimo artista svizzero “dare emotivamente molto di più di quanto non potranno mai neanche lontanamente offrire tutti gli impressionisti”, i vari Van Gogh, Monet e compagnia? Perché tutto è possibile. Intanto, ormai grande fra i grandi, Nunziante promette di tornare ad affascinare con “Opere recenti”, presso il Chiostro del Bramante a Roma dal 1° luglio e in nuovi confronti al Palazzo Ducale di Genova. S’intitolerà “Il Viaggio” - quello della mente, utopico - la mostra che vedrà quaranta suoi capolavori insieme ad altrettanti Van Gogh, dodici Kandinskij e dodici Hopper.

Prato CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA LUIGI PECCI MICHAEL FLIRI 0O°°°OO°0OO°O0 chiusa il 30 aprile 2011 di Rita Salis

Michael Fliri, “getting too old to die young”, 2008. Video installazione Courtesy Galleria Raffaella Cortese courtesy foto: Tizza Covi

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La project room del Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci ospita dal 12 marzo e fino al 30 aprile 2011 l'ultima opera dell'artista Michael Fliri, classe 1978, dal titolo “0O°°°oo°0Oo°O0”. Come nelle opere precedenti di quest'artista, considerato uno fra i talenti più promettenti della scena artistica nostrana, ci si trova davanti al contrasto tra natura e artificio e allo studio della condizione umana. La natura è così fortemente presente nelle sue opere probabilmente anche per la stretta relazione con il suo luogo di nascita, sulle montagne dell'Alto Adige, Tubre un paese di mille abitanti circa, ma quella rappresentata nelle sue opere non è una natura idilliaca, spesso nei suoi video usa anche gli animali, che diventano metafore e simboli per la rappresentazione di certe caratteristiche proprie dell'uomo e della società. Un altro aspetto centrale nella sua ricerca è proprio l'analisi sull'uomo, realizzata sia attraverso uno studio sul corpo, sul movimento e sui limiti e gli sforzi che esso può compiere, sia su alcuni aspetti più prettamente di ambito sociale. Il corpo dell'artista impone la sua presenza sulla scena in molte occasioni, e questo presuppone anche un'attenta preparazione fisica per la realizzazione finale. Altri motivi, che sono presenti in molti suoi lavori, ma non in quest'ultimo, sono l'utilizzo del gioco, dello spiazzamento e dell'ironia talvolta amara, con cui analizza l'uomo, spesso travestito, come nel video “Der Schneemann”, dove diventa un pupazzo di neve che compie determinati movimenti in uno spazio neutro. Nell'opera ora in mostra a Prato, ci si trova immersi in un ambiente subacqueo dove tutto è invertito, una botola collega questo mondo ovattato con l'esterno, dove il personaggio per un momento sembra voler andare, ma solo per un momento, preferendo forse a quel mondo la calma e l'immobilità di quest'altro. Colpisce subito quindi il contrasto tra queste due differenti realtà e ci si immergere accompagnati dal suono delle bolle della bombola d'ossigeno nell'osservazione dei gesti dell'uomo, lenti e fluidi, sono gesti minimi e studiati derivanti dalla quotidianità: salire una scala, camminare, aprire una porta, spostare un oggetto, aprire una botola. E lentamente così si compone una storia, seppur minima. Per la sua ambientazione in una piscina e per l'inserimento di oggetti della quotidianità per narrare un episodio, il video mi ha subito ricordato la famosa installazione di Studio Azzurro del 1983 “Il nuotatore” (va troppo spesso ad Heidelberg), come nell'opera del


più giovane artista, il personaggio compie dei movimenti e un notevole sforzo fisico, ma Fliri fa un passo in più, non solo si prepara fisicamente ed entra a far parte della propria opera d'arte, ma la micro-narrazione diventa in lui molto più coinvolgente e sentita, se gli oggetti di Studio Azzurro portavano ad uno spiazzamento del visitatore, gli oggetti usati nel video portano verso un coinvolgimento emotivo molto più forte che contribuisce a stringere una relazione empatica con lo spettatore nella costruzione della storia. Un video dunque in cui l'artista ci invita a lasciarci suggestionare e a creare il nostro racconto.

Roma PALAZZODELLEESPOSIZIONI 100 CAPOLAVORI DALLO STÄDEL MUSEUM DI FRANCOFORTE. IMPRESSIONISMO, ESPRESSIONISMO, AVANGUARDIA fino al 17 luglio 2011 di Marianna Dell’Aquila In occasione della grande ristrutturazione che lo vedrà riaperto solo nel febbraio 2012 in una veste completamente rinnovata, lo Städel Museum di Francoforte espone a Roma, per la prima volta in assoluto all’estero, una parte della sua straordinaria collezione, 100 capolavori del-

Pablo Picasso, "Ritratto di Fernande Olivier" l’arte europea dell’Ottocento e Novecento tra Impressionismo, Espressionismo e Avanguardie. Un evento eccezionale che proseguirà fino al 17 luglio al Palazzo delle Esposizioni e che, finalmente, porta nella Capitale una delle collezioni d’arte più affascinati e suggestive al mondo. Donata all’inizio dell’800 alla città di Francoforte dal banchiere e collezionista tedesco Johann Friedrich Städel, dal quale la Fondazione prende il nome, oggi la collezione rappresenta una delle più grandi raccolte d’arte antica e moderna al mondo. La collezione ha continuato a crescere nei secoli anche grazie alle numerose donazioni da parte dei cittadini che, in questo modo, hanno contribuito a renderla una Fondazione unica nel suo genere. Una storia affascinante quella dello Städel Museum culminata nel 1937 quando, per volontà del Reich, la Fondazione rischiò di scomparire insieme alle sue opere. Di queste infatti molte furono sequestrate, distrutte e altre svendute per acquistare opere antiche e arazzi. Distrutto dai bombardamenti nella Seconda Guerra Mondiale, il Museo è stato ricostruito negli anni Sessanta. Una rinascita culminata nel 1967 con l’acquisto di “Ritratto di Ferndande Olivier”, il capolavoro che Pablo

Picasso aveva realizzato nel 1909. L’opera doveva rappresentare una sorta di rivincita sulla perdita del “Ritratto del Dr. Gachet” di Van Gogh del 1980, il quadro che lo Städel aveva acquistato nel 1916 grazie ad un finanziamento del mercante Viktor Mossinger per segnare il passaggio della collezione al nuovo secolo. L’opera però fu persa durante il Nazismo e non è mai più stata riconsegnata alla Fondazione tedesca. Curata da Felix Kramer, “100 capolavori dello Städel Museum di Francoforte” si suddivide in sette sale . Ad aprire la prima sala dedicata al Classicismo tedesco d’inizio Ottocento e in generale tutta l’esposizione, un’opera particolarmente emblematica, “Goethe nella campagna romana” di Johann Heinrich Tischbein. Il quadro, che viene considerato il più legato alla storia dello scrittore tedesco, è anche considerato un simbolo assoluto degli esordi dello Städel Museum e del movimento dei Nazareni, ovvero di quegli artisti tedeschi che, ribellandosi alla rigidità dell’Accademia, si trasferirono in Italia per studiare le forme classiche e la natura. L’Italia e in particolare Roma sono presenti anche ne “La quercia millenaria” di Carl Friedrich Lessing, in “Cascate di Tivoli” di Carl Philipp Fohr e “Eruzione del Vesuvio nel dicembre del 1820” di Johann Christian Dahl. Queste, insieme ad altre opere come “Fantasia araba” di Eugène Delacroix danno un quadro d’insieme di quali fossero in tutta Europa le direzioni artistiche del Romanticismo. La seconda sala è invece dedicata alla pittura Realista di metà Ottocento nata da quella riflessione sul Romanticismo che prese principalmente due direzioni, quella classicista e italianizzante di Camille Corot di cui sono esposti “Ritratto di ragazza italiana”, “Paesaggio d’estate” e “Veduta di Marino (di mattina)”, e quella più realista di Gustave Courbet di cui si può vedere “L’onda”, “Veduta di Francoforte con il vecchio ponte di Sachsenhausen” e “Strada di paese in inverno”. Domina, dalla parte centrale della sala, la pittura plein air del grande “Frutteto” di Charles F. Daubigny che introduce alla pittura di fine secolo rappresentata da “Strada di montagna” di Paul Cezanne, “Sull’amaca” di Hans Thoma e “Alla finestra” di Fritz von Uhde. Chiude il percorso il capolavoro giovanile di Vincent Van Gogh “Casa di campagna presso Nuen” del 1885, l’opera che, insieme ai due quadri di Courbet, segnò all’inizio del Novecento l’avvio del Museo Städel sulla strada che altri importanti musei e gallerie d’arte di Berlino avevano intrapreso poco prima, cioè quella della raccolta e dell’acquisto di opere contemporanee provenienti da altri paesi europei, in particolare quelle francesi. La terza sala è forse una delle più belle di tutta la mostra. Qui infatti sono esposte ben diciassette opere di alcuni dei protagonisti assoluti del Simbolismo europeo, come “In osteria” di Edvard Munch e “Pietà” di Gustave Moreau. Tra le opere più interessanti che aprono il percorso in sala c’è sicuramente “Villa sul mare” di Arnold Bocklin a cui seguono “Fanciulla con maschere (Comunione)” di James Ensor, “Sansone e Dalila” di Max Liebermann e “Cristo e la Samaritana” di Odilon Redon. A dominare la sala dal fondo “Ritratto di donna su un tetto di Roma” di Max

Klinger. Con la quarta sala si entra nel pieno dell’Impressionismo, punto di svolta delle Avanguardie artistiche, ma anche nel percorso espositivo della collezione dello Städel. Senza voler trascurare le prime due opere, l’attenzione viene inevitabilmente attratta da una sequenza di ben tre quadri di Pierre Auguste Renoir, “Donna con granchio”, “Dopo la colazione” e “Coco”, mentre al centro della sala domina la scultura in bronzo di Auguste Rodin, “Eva”. L’arte di Claude Monet è testimoniata invece dai due capolavori “Case sulle rive dello Zaan” e “La colazione”, mentre “La grande ballerina” di Edgar Degas è l’opera che dà l’immagine a tutta la mostra. Con la quinta sala si entra nel vivo dell’arte tedesca e dell’Espressionismo. “Cristo negli Inferi”, “Il corteggiamento” e “Eva” di Emil Nolde aprono il percorso, ma vengono subito seguite dai cinque capolavori di Ernst Ludwig Kirchner: “Suonatore di organetto al chiaro di Luna”, “Donna sdraiata con tunica bianca”, “Cacciatore di gabbiani”, “In slitta sulla neve” e lo scenario industriale di “Porto di Ponente a Francoforte sul Meno”. “Fiori di ceramica” di Henri Matisse è seguito da “Serata d’autunno sul Lago Leba”, “L’orante”, “Torre rossa in un parco” e “Devozione alla stelle” tutte di Karl Schmidt-Rottluff. Esaminando bene la storia dell’acquisto di questi quadri, avvenuto sotto la direzione museale di Georg Swarzenski che poco prima si era fatto promotore dell’acquisto di opere francesi, emerge un nuovo interesse per l’arte tedesca contemporanea, in particolare per l’Espressionismo, forse un po’ troppo a scapito di altri movimenti artistici che stavano nascendo in quegli anni. La sesta sala raccoglie dieci opere di Max Beckmann, l’artista tedesco che fino al 1937, anno in cui fu costretto dai nazisti a lasciare la Germania, era stato anche uno dei professori più rinomati della Scuola Städel. Si tratta dunque di un riconoscimento ad una delle figure più rappresentative della storia dello Fondazione, ma soprattutto un omaggio ad uno degli artisti più emblematici di quel periodo perché la sua pittura racchiude in sé, in modo molto evidente, le influenze e le riflessioni sull’arte a cavallo tra le due Guerre Mondiali. Tra tutte le opere in esposizione dallo scenario ispirato a Francoforte, colpisce soprattutto il “Doppio ritratto di donne”, l’opera del 1923, in cui l’artista ritrae, all’insaputa di entrambe, sia la moglie (figura a destra) sia l’amante (figura a sinistra). Il quadro fu donato allo Städel dall’artista stesso, ma per molto tempo rimase chiuso nei depositi. Con la settima e ultima sala si conclude il percorso dei 100 capolavori dello Städel a Roma. Le opere esposte dimostrano innanzitutto che dopo la caduta del Nazismo ci fu da parte della Fondazione di Francoforte una nuova apertura verso l’arte europea e in particolare quella francese. Diciotto opere d’arte tra le quali emergono “Aquis Submersus” e “Natura all’aurora” di Max Ernst, “La famiglia dell’artista” di Otto Dix e “L’agnello” e “Veduta sulla terra fertile” di Paul Klee. Ma a dominare su tutte soprattutto il “Ritratto di Fernande Olivier”, il capolavoro cubista di Pablo Picasso che segnò la rinascita del Museo, ma soprattutto che lo aprì definitivamente al nuovo secolo. In linea con altri importanti musei d’Italia, come il Mart di Trento, il Palazzo delle Esposizioni di Roma

vuole confermare con questa mostra la sua vocazione modernistica e internazionale, ospitando per la prima volta fuori dalla Germania, una delle collezioni artistiche più affascinanti al mondo. Un evento destinato molto probabilmente a movimentare il panorama dei grandi eventi artistici, visto che da tempo la Capitale non ospitava una collezione straniera di questa portata. Si tratta infatti di una delle mostre di respiro internazionale più belle degli ultimi anni non solo per la qualità delle opere, ma anche e soprattutto per la direzione artistica. La mostra, come tutte quelle del Palazzo delle Esposizioni, è corredata di eventi per bambini, rassegne cinematografiche, dj-set e incontri per adulti che, a partire dal 29 aprile, ospiteranno ogni ultimo venerdì del mese fino a luglio, una serie di incontri di approfondimento sulle opere esposte.

Roma PALAZZO INCONTRO TIZIANO TERZANI - CLIC! 30 ANNI D’ASIA. LA MOSTRA fino al 29 Maggio 2011 di Letizia Guadagno “Queste foto potrebbero sembrare semplicemente delle foto sull'Asia. Ma in realtà sono il percorso di una vita in Asia. Ed è anche un percorso su come vivere, su come andare a vedere di persona le cose che interessano. È il percorso di mio padre che vuole andare a vedere la guerra in Vietnam, e poi il progetto di “ingegneria sociale” avviato in Cina e poi la modernità che si tinge di tristezza del Giappone, e ancora la magia del Tibet e del Mustang...” Così Folco Terzani, figlio del giornalista e scrittore Tiziano Terzani, presenta la mostra fotografica “Tiziano Terzani. Clic! Trenta anni d'Asia. La mostra” in corso a Palazzo Incontro a Roma. Un evento espositivo, curato dallo stesso Folco, che ci racconta in cento foto quasi tutte in bianco e nero l'Asia di Terzani, quel continente che scelse come patria e di cui descrisse, dagli anni Settanta sino quasi agli anni Novanta, i tanti eventi politici, sociali, economici e gli infiniti “volti”, cogliendone magia, orrore, tristezza... Organizzata in contemporanea con la prossima uscita del film “La Fine è il mio inizio”, basato sull'omonimo libro scritto da Tiziano Terzani, la mostra si apre con le immagini del Vietnam, sua prima destinazione da inviato, e racconta lo sconcerto di

Tiziano Terzani, L'amji, o astrologo-erborista, medico tradizionale del re e della popolazione del Mustgang, nella sua casa a Lo Mantang, la capitale del regno


quella guerra moderna in un paese antico, ma anche la vittoria dei vietnamiti che sfilano sorridenti sui carri armati. Segue la sezione “1980. La Cina!”, paese in quegli anni attraversato da profondi cambiamenti politici e sociali che Terzani documenta con foto di nuovi edifici, di uomini che marciano, di funzionari del Partito Comunista. E accanto a questi scatti, mercati brulicanti di vita, ritratti di commercianti e bambini... Un insieme di immagini di quella Cina nuova che doveva dar vita ad una società più giusta ed umana, un paese che Terzani amò con passione ma che lo deluse e, dopo quattro anni, lo espulse a causa di alcune critiche espresse contro il regime politico di Deng Xiaoping. Si cambia completamente scenario con il Giappone della metà degli anni Ottanta, una nazione moderna, ordinata, impostata, ma allo stesso tempo terribilmente triste come testimoniano le foto di impiegati nei loro uffici, di pendolari nei loro treni, di cuochi nei loro ristoranti. Una parentesi durata cinque anni durante la quale Terzani arriva a dubitare dei vantaggi del progresso che regala benessere ma anche un po' di disperazione. D'altra parte non è proprio il Giappone, oggi piegato dallo tsunami e dal terremoto e piagato dalle radiazioni nucleari, il paese dei tanti suicidi e degli “otaku”, quei ragazzi depressi che stanno sempre a casa? E il percorso della mostra va avanti con l'India, un paese raccontato attraverso il Gange, i santi mendicanti, le sue strade povere e polverose... Prosegue con la Cambogia, teatro di una cruentissima guerra che riempì il paese di cadaveri... E continua con l'Unione Sovietica dove l'inviato assiste alla caduta del Marxismo, documentata dalle statue dei leader comunisti ridotte in frammenti. Ma è il Mustang, la vera sorpresa della mostra.“I posti al mondo in cui la 'civiltà' con tutti i suoi prodotti non è ancora arrivata sono ormai pochi. Uno di questi avevo sentito dire, era il Mustang,” scriveva Terzani che visitò questo eden nel 1992. E di questo angolo dimenticato del Nepal, forse il mitico regno di Shambhala, Terzani ci presenta il re che vive in un castello fatto di pietre e di fango e i cui tesori sono pecore e cavalli, l'Amji ovvero il medico-mago, i visi intensi dei bimbi, i suoi paesaggi incontaminati... Ma la mostra non è solo una galleria di fotografie: gli scatti sono accompagnati, infatti, da didascalie che altro non sono che le riflessioni dello stesso Tiziano Terzani. Pensieri che rivelano il suo entusiasmo, la sua curiosità, le sue speranze e talvolta la sua delusione. E in questo mosaico costruito da parole e immagini ritroviamo lo spirito appassionato che animò questo grande personaggio, scomparso nel 2004, che non si limitò a modellare il nostro immaginario sull'Asia ma che da corrispondente di guerra per Der Spiegel seppe trasformarsi in un vero e proprio maitre à penser. Una sorta di guru che con il passare degli anni, sempre più distaccato dagli accadimenti del mondo, riuscì a sottolineare la necessità della non violenza, l'importanza di aprirsi al viaggio dentro e fuori di noi, i guasti del capitalismo e del consumismo, l'invito a vivere una vita vera, piena. Un invito con cui si chiude il percorso della mostra. “Ai giovani che mi chiedono 'Ma io che faccio?' rispondo 'Guarda!' Il mondo è pieno di cose da esplorare. Il mondo che mi sono trovato io davanti in Vietnam, in Cambogia, in Cina, in

India non c'è più. Ma c'è un altro mondo lì, per chi lo vuole scoprire. Ci vuole coraggio, determinazione, fantasia ma le possibilità ci sono. Io questa vita me la sono inventata e mica cento anni fa, ieri l'altro. Ognuno lo può fare. Ci vuole solo coraggio e determinazione e un senso di sé che non sia quello piccino della carriera e dei soldi, che sia il senso che sei parte di questa cosa meravigliosa che è tutta qui, intorno a noi. Allora capito? È fattibile per tutti. Fare una vita, una vita vera, una vita in cui sei tu. Una vita in cui ti riconosci.”

Venezia Peggy Guggenheim Collections I VORTICISTI: ARTISTI RIBELLI A LONDRA E NEW YORK, 1914-1918 chiusa il 15 Maggio 2011 di Enrica Pighin Alla Collezione Peggy

Guggenheim a Venezia, dal 29 Gennaio al 15 Maggio 2011 è in corso la mostra Vorticisti- Artisti ribelli a Londra e New York, 1914-1918: l’evento è organizzato dal Nasher Museum of Art della Duke University, Durnham, NC,USA e dalla Tate Britain, oltre che dalla collezione Guggenheim, ed è curato da Mark Antliff e da Vivien Greene. Il progetto si concentra su cinque anni e raccoglie le opere di tre mostre dei vorticisti, quella della Doré Gallery di Londra del 1915, quella al Penguin Club di New York del 1917 e quella al Camera Club di Londra del 1917, dove vennero esposte le prime fotografie astratte: 100 opere tra cui dipinti, sculture, disegni, foto e soprattutto stampe e xilografie. Questa mostra è il risultato di ricerche accurate che si protraggono dal 2007, che sono servite a raccogliere materiale, molto eterogeneo, di artisti vorticisti, tra cui lo stesso fondatore Wyndham Lewis, David Bomberg, Edward Wadsworth, William Roberts, il francese Henri Gaudier Brzeska, morto durante la guerra nelle trincee, lo scultore Jacob Epstein e figure femminili come Jessica Dismorr. Una parte della mostra è dedicata alle due edizioni della rivista Blast, che contiene documenti, stampe e testimonianze della Prima Guerra Mondiale in corso proprio in quegli anni. Nei primi anni del 1900, nel periodo immediatamente precedente allo scoppio della prima Guerra Mondiale, si avverte prepotentemente in una buona fetta di Europa un nuovo clima di innovazione, di spinta al cambiamento e di furore. Si inneggia alla macchina, alla tecnologia e alla velocità, e l’arte e la letteratura vengono profondamente influenzate da questo nuovo spirito guerrigliero che rifiuta il passato e auspica a un forte intervento sul presente. Questo è l’intento del Futurismo, come si evince soprattutto dal Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti del 1909: esaltazione della grandezza dell’uomo e del

progresso scientifico, netta negazione danza africana, dei Maori, dell'incondei retaggi del passato e una buona taminata Oceania. Nella sua apparendose di aggressività. Tutti elementi te asprezza, il Vorticismo cela l’intenche porteranno inevitabilmente all’e- to di liberare energia, raggiungendo saltazione della guerra e in questo gli obbiettivi prefissi con strategie contesto, ad abbracciare il primo con- meno aggressive. flitto mondiale con vera motivazione. Precisamente in Inghilterra nasce nel primo decennio del 1900 una corrente artistica poco conosciuta che può inserirsi in questo spirito, ovvero l’avanguardia dei Vorticisti, gli artisti Catania ribelli che costituirono un movimento FONDAZIONE BRODBECK ARTE a livello internazionale, interessando CONTEMPORANEA soprattutto la Gran Bretagna e gli ADALBERTO ABBATE Stati Uniti. Il termine Vorticismo TUTTO DA RIFARE venne infatti coniato dallo scrittore chiusa il 26 Marzo 2011 americano Ezra Pound e dall’inglese di Cristina Costanzo Wyndham Lewis, fondatore del Manifesto Vorticista e della rivista A Catania continua lo Blast, un vero e proprio omaggio alla scambio tra due importanti realtà corrente, un’esplosione, un forte artistiche siciliane: si tratta della colpo di vento che si ispirava al futuri- Fondazione Brodbeck, costituita da sta Umberto Boccioni e alla sua affer- Paolo Brodbeck all’interno di un commazione che l’arte derivasse da un plesso postindustriale nel cuore di vortice di emozioni e da una scarica Catania allo scopo di “trasformare elettrica fulminante. Il Vorticismo, l’intera cittadella in un polo di riferiche ebbe una breve durata, fino a mento per l’arte contemporanea” e dopo il primo conflitto mondiale, uti- del S.A.C.S., lo Sportello per l’Arte lizza la forma figurativa del vortice Contemporanea della Sicilia, creato per esprimere gli stessi valori del dal Museo Riso, che proprio in questi Futurismo, cioè il dinamismo, la forza giorni inaugura una sede distaccata a e il movimento: nasce come risposta Milano. Dopo le mostre personali di provocatoria ad un’arte inglese trop- Alessandro Piangiamore, Filippo La po legata alla tradizione e ad un certo Vaccara e Federico Lupo è Adalberto sentimentalismo, e muove i primi Abbate l’artista invitato ad esporre passi verso un astrattismo parallelo negli spazi della Galleria S.A.C.S. alle altre avanguardie non figurative presso la Fondazione Brodbeck. che si sviluppano in Europa, come L’artista, nato a Palermo nel 1975, ha Kandinskij e il suo “Cavaliere raccolto i consensi della critica grazie Azzurro”, o il Cubismo e i suoi prota- a una ricerca dissacratoria che gonisti. La corrente dei Vorticisti abbraccia diversi media concentransembra quasi essere il risultato di un dosi su un’analisi della realtà priva di dialogo tra queste diverse esperienze mistificazioni. A partire da europee, poiché riesce a combinare la “Erziehungs-Entwicklungsprozess”, bidimensionalità della tela al movi- mostra personale tenutasi nel 2007 mento e alla dinamicità futurista, ma presso la Galleria Francesco anche la scomposizione delle forme e Pantaleone di Palermo, Adalberto l’analisi tipiche del Cubismo, più una Abbate si è affermato a livello naziobuona dose di spiritualità tipica di nale partecipando a mostre rilevanti Kandinskij, come l’indagine sul tra- come la recente “La scultura italiana scorrere del tempo e sulla lotta tra del XXI secolo”, curata da Marco bene o male che oggi la nobile disci- Meneguzzo alla Fondazione plina della semiotica ha portato alla Pomodoro a Milano. In occasione luce. La corrente del Vorticismo non della mostra “Tutto da rifare”, con solo racchiude i principali elementi continuità rispetto alla ricerca condelle avanguardie europee a cui è affi- dotta attraverso il progetto “Rivolta” ne, ma riesce nello stesso tempo a ed opere come “Palermo says”, sorta distaccarsene e ad autodeterminarsi di mappatura del disagio e dell’urgencome un movimento assolutamente za di comunicazione avvertita dalla originale, da cui, nonostante le forme città, Abbate torna a riflettere alla dure e forti, scaturisce una vera ener- Fondazione Brodbeck sulla società gia da questi vortici, da queste spire attraverso una selezione di opere parvivide e coloratissime che paiono ticolarmente significative - foto, sculinsiemi di palazzi che si avvitano in ture ed installazioni – capaci di spinun qualche violento tornado, sciami gere alla riflessione. Come nota di triangoli retti, grovigli di spigoli. Il Alessandra Ferlito nel testo critico Vorticismo si differenzia dal costrutti- che accompagna la mostra “anche vismo specifico dei Cubisti, e in gene- questo nuovo progetto si rivolge cinirale dall’ottimismo esagerato nei con- camente alle coscienze assopite, parfronti della macchina dei Futuristi, in quanto, anche grazie alle esperienze belliche degli artisti che ne facevano parte, come il pittore e scultore di origine polacca David Bomberg, si carica di un’esperienza che rivela gli sviluppi c o n t ro p ro d u c e n t i dello sviluppo tecnologico tanto decantato. Mira ad una rivoluzione formale, ad un rigore geometriAdalberto Abbate, “Un buon esempio di ignoranza, della serie co, anche ad un certo Tutto da rifare”, 2011, primitivismo che accetta modificata, ricorda aspetti magiCourtesy Francesco Pantaleone Arte Contemporanea ci e spirituali della

fONdAzIONI


tendo dalla disamina di un quotidiano sempre più avvilente. Il resoconto post-bellico di Adalberto Abbate è pieno di memorie e rimandi; riporta delusioni, sconfitte e perdite con toni che, tuttavia, si adeguano a una riflessione (sulla storia e sull’arte) sempre più asciutta e ad un linguaggio ancora più sagace e sottile”. La provocazione e l’ironia, ma anche la desolazione e la solitudine caratterizzano opere come “La delusione, cose e persone” e “L’incorruttibile” nelle quali fanno incursione l’attualità e la politica ed emerge l’anelito della società contemporanea verso una rivolta che non è possibile censurare nonostante la tendenza diffusa a rifugiarsi nella propria individualità. Gli strumenti di questa rivolta sempre più necessaria ed urgente sono posti all’attenzione di chi visita la mostra e collocati al centro di uno spazio che ospita prevalentemente i colori del bianco e del nero interrotti dal rosso di “Un buon esempio di ignoranza”, ready-made di una società da distruggere ma anche da ricostruire. Secondo Laura Barreca il lavoro di Abbate “è il risultato di un’indagine antropologica, elaborata sulle evidenze come sugli aspetti meno visibili del sociale. Ed è questo uno degli aspetti che più colpiscono della sua ricerca: la consapevolezza di raccogliere e di selezionare, per poi ricostruire”. Abbate dunque indaga la realtà, con le sue utopie e le sue sconfitte, e ne mette a nudo l’ipocrisia e le incongruenze. “Unheimlich” mostra come ancora sia attuale la tragedia che già nel 1948 Roberto Rossellini prendeva in esame attraverso la figura di un ragazzino, Edmund, che giocava tra le rovine di una città annientata dalla guerra nel film “Germania, anno zero”. La corona di fiori intitolata da Abbate “Epicedio” sembra fare da contraltare al Fourth Plinth di Trafalgar Square a Londra, il plinto di una delle più importanti piazze londinesi rimasto vuoto e sul quale, prima dell’avvento del concorso destinato ad artisti contemporanei, non si elevava nessuna statua quasi a simboleggiare che la società contemporanea non è più capace di offrire alla scultura qualcosa da celebrare, né eroi né sogni. Come sottolineato da Alessandra Ferlito “silenziosi e sospesi, i soggetti delle foto, come le sculture e le installazioni di questo progetto, animano uno scenario ovattato, attraversato e abbandonato; sono superstiti di un passato che non si può più assecondare, testimoni di un paesaggio tutto da ricostruire”. Ciascuna delle opere di Adalberto Abbate racchiude così la capacità dell’artista di rappresentare la storia attuale come momento sospeso tra la rivolta sopita e le manifestazioni di indifferenza, ed è proprio a partire da questa tensione e da queste macerie che è “tutto da rifare”.

Milano HANGAR BICOCCA TERRE VULNERABILI A GROWING EXHIBITION fino al 29 maggio 2011 di Chiara Carolei “A growing exhibition”, così vuole definirsi “Terre vulnerabili”, il progetto espositivo a lungo termine ideato da Chiara Bertola con Andrea Lissoni per i mastodontici spazi dell’Hangar Bicocca. Se non fosse per l’aspetto “vulnerabile” , lo stesso progetto curatoriale sarebbe da definirsi mastodontico. Trenta artisti internazionali che arti-

colano il proprio lavoro come un fare germinativo, senza quella riverenza statica del traguardo-mostra, ma con l’ambizione di mettere la propria opera nelle mani (creative e distruttive) del tempo che passa. Gli ingredienti, di per sé, sono già visti, ma l’unicità di una ricetta non sta certo (non solo) negli ingredienti scelti. Artisti internazionali, uno spazio d’eccellenza (amato, odiato, criticato, ma comunque d’eccellenza), opere site specific (o “theme specific”), interazione tra le opere, condivisione di un progetto, definizione di un filo con-

Carlos Garaicoa “The Dark Room”, 2010-2011, installazione, giornali, inchiostro, legno, metallo duttore. Una volta mischiati gli ingredienti, l’impasto è una sostanza in divenire, che smuove l’interesse dello spettatore non tanto per un gusto eccezionalmente insolito, quanto per la sana curiosità di scoprire la ricetta fino in fondo. Solo un paio di mesi fa il New York Times nominava l’Hangar Bicocca come uno dei buoni motivi per cui visitare Milano (scelta insieme ad altri 40 luoghi nel mondo per le mete del 2011). Questo non dovrebbe né montare la testa ai milanesi, né trasformare ogni iniziativa della Fondazione in un successo a priori. Ma invitare a una riflessione, sì. Che cosa fa sì che uno spazio espositivo venga considerato un luogo di interesse oggi, ovvero un luogo dove lo spettatore trova corrispondenze significanti? Il fatto che le cose accadano, e che questi accadimenti siano riferiti al mondo sociale, politico, culturale e più semplicemente sensibile allo spettatore. “Terre vulnerabili” è un progetto in cui le cose accadono davvero, in cui il tempo espositivo prova ad avvicinarsi al tempo della vita, portando le opere, gli artisti e gli spettatori sulla stessa dimensione temporale. L’alternarsi e il sovrapporsi degli artisti chiamati a partecipare è suddiviso in quattro mostre che seguono l’alternanza delle fasi lunari: il cambiamento è quello imposto dalla natura, dallo scorrere del tempo e dalle sue fasi di germinazione. Molte delle opere pensate dagli artisti cambiano nel corso del tempo, alcune in senso distruttivo (i vasi di ghiaccio di Elisabetta Di Maggio), altre in senso costruttivo (il labirinto di Yona Friedman). “Terre vulnerabili” è una mostra da andare a visitare e alla quale tornare, non solo perché scandita da quattro interventi complessivi con altrettante inaugurazioni, ma perché è solo tornando che lo spettatore ritrova quella familiarità col tempo che lo fa avvicinare alle opere. Tornare significa scoprire che le opere sono cambiate, alcune sono come germinate sviluppando sé stesse, evolvendosi, altre sono solo apparentemente scomparse dietro a nuove creazioni. Ecco quindi che il visitatore riconosce in questi cambiamenti il passaggio del tempo, lo stesso che scandisce quello della propria vita e che porta con sé mutamenti. L’opera non è un dato fisso, è un’ipotesi in evoluzione, una presenza viva che

entra in connessione con le altre opere e con chi vive lo spazio. Ed è proprio nello spazio della vulnerabilità che si apre la possibilità di un modo di concepire il fare arte in maniera partecipativa, in cui gli artisti condividono uno spazio non per caso ma per intenti, in cui un “Labirinto” di cartone (Yona Friedman) pur nella sua struttura tanto temporanea da lavori in corso, si trasforma in un’architettura possente e di riparo per opere che si sentono fragili di fronte alla forza vertiginosa dell’Hangar, o che semplicemente hanno bisogno di spazi più intimi. In questo silenzio Margherita Morgantin trova la giusta dimensione per la sua opera “29-122009”, un disegno allo stesso tempo intimo e mediatico tratto da una foto pubblicata dal Manifesto in occasione della “strage di Capodanno” a Gaza. La lunga “passeggiata” di Adele Prosdocimini percorre (e quindi fa percorrere) lo spazio dell’Hangar con una visione privilegiata delle Torri di Anselm Kiefer. Come il lungo sentiero dorato del Mago di Oz, lo spettatore segue il percorso delle “mattonelle” in feltro, sulle quali l’artista ha ricamato brevi frasi tratte dalle riflessioni fatte dagli artisti intervenuti al progetto sul tema della vulnerabilità. Ma ciò che inizialmente era un “discorso” fitto e continuativo, col tempo si è trasformato aggiungendo delle pause, delle “mattonelle” mute che segnano la verità del nostro tempo di riflessione. E così il “raffronto” con le Torri viene messo da parte, e l’artista ci dimostra che è possibile intervenire in uno spa-

dello spazio. Gli interventi dei singoli artisti conservano in maniera molto forte l’identità del singolo, ma la sfida dell’Hangar e dei curatori viene vinta passando attraverso una condivisione delle esperienze a priori che invece di costringere a interventi collettivi, magari forzati, spinge sulle peculiarità del singolo, su quelle stesse vulnerabilità che qui non devono nascondersi ma mostrarsi lasciando che anche il tempo possa mutarle e arricchirle. Il tempo richiesto al visitatore è quello che corrisponde alla propria disponibilità di entrare in contatto con le opere, e ancor prima con quello “spirito” di partecipazione e germinazione continuativa che “Terre Vulnerabili” ha richiesto agli artisti partecipanti e che chiede a chiunque entri all’Hangar. Un progetto il cui merito è soprattutto quello di riuscire a rimettere in comunicazione tra loro i protagonisti della “macchina espositiva”, dimostrando che l’arte è ancora una vera possibilità di comunicazione, e che la comunicazione non è solo l’invio di un messaggio muto ad un pubblico sordo e sconosciuto.

Torino FONDAZIONE MERZ KARA WALKER - A NEGRESS OF NOTEWORTHY TALENT fino al 3 luglio 2011 di Andrea Rodi Kara Walker non è soltanto “una negra dotata di un talento degno di nota”, come suggerisce provocato-

Kara Walker “The Nigger Huck Finn Pursues Happiness Beyond the Narrow Constraints of your Overdetermined Thesis on Freedom - Drawn and Quartered by Mister Kara Walkerberry, with Condolences to The Authors”, 2010 silhouette di carta ritagliata a parete | cut paper on wall zio così vasto e così fortemente dominato dalle opere di Kiefer dando ai visitatori una possibilità differente. C’è invece chi la verticalità la sfida ad armi pari: Ludovica Carbotta in “Scala Reale” costruisce una scala rendendo visibili i propri movimenti nello stesso atto di salire. La forma è il risultato di un’esperienza, che sebbene intima crea un contatto con la spinta verso l’alto che lo spettatore riceve entrando negli spazi dell’Hangar. Massimo Bartolini stravolge l’utilità di un oggetto appendendo un trabattello al soffitto dello spazio espositivo. Quello che da lontano può sembrare una struttura dimenticata in fase di allestimento, ad una visione più ravvicinata si trasforma in un’entità straniante che contribuisce a conferire una visione differente

riamente il titolo della mostra che la Fondazione Merz ospita fino al 3 luglio. È una creatrice di narrazioni evocative, violente e al tempo stesso ironiche, che si dispiegano, nere come ombre, sulle pareti bianche, generando una nuova mitologia in cui ognuno di noi può rispecchiarsi.Di primo acchito, non si può fare a meno di cogliere l’esigenza di rivalsa razziale che fa da sottofondo all’intera mostra, deflagrando improvvisamente nella prima magnifica opera e perpetrandosi senza perdite d’intensità lungo tutto il resto dell’allestimento. Appena messo piede negli spazi della Fondazione Merz, lo sguardo viene rapito da una lunga serie di silhouette nere, ombre che sembrano uscite dal racconto della caverna platonica, ognuna delle quali è il capitolo di una


storia, una macchia di uno storyboard in cui le battute, le parole, sono totalmente superflue. Le figure “disegnate e squartate da Mister Kara Walkerberry, con le condoglianze agli autori” – così recita la parte finale del titolo dell’opera, tanto lungo quanto dotato di un’ironia tagliente – non hanno bisogno di spiegazioni, come le sequenze disegnate su di un’urna greca. Kara Walker (Stockton, California, 1969) in “The Nigger Huck Finn” (2010), ricostruisce parte della mitologia americana creata da Mark Twain seguendo il proprio gusto d’artista, le proprie esigenze e le proprie spinte emotive, che sono quelle di una razza che ha subito troppe angherie e soprusi per non desiderare una qualche forma di rivalsa. Tra tutte le figure spicca quella di un bambino africano, nudo, libero, in piedi sulla schiena di un bianco ubriaco che vomita nel proprio cappello a cilindro. Il bambino tiene in mano un bastone con un chiodo conficcato in punta, non lo vediamo colpire il bianco in volto, ma sappiamo che lo farà, desideriamo che lo faccia. Ciò accade perché le silhouette di carta o di metallo, i dipinti e gli acquerelli di Kara Walker non parlano solo della dolorosa storia degli schiavi africani nell’America razzista, ma di un sentimento di rivalsa più ampio e generalizzato, in cui tutti possiamo ritrovarci; un sentimento connaturato all’essere umano stesso. Come ha suggerito la scrittrice Barbara Walker – che, nonostante l’omonimia, non è legata da alcuna forma di parentela con l’artista – durante il suo toccante discorso di presentazione della mostra, non bisogna approcciarsi al lavoro della Walker come a una espressione creativa esclusiva dell’artista. Certo, si dirà, le intense acqueforti che compongono la serie “An Unpeopled Land in Uncharted Waters” (2010), per quanto nell’aspetto siano apparentemente diverse dalle silhouette e dai crudi disegni quasi fumettistici, ripropongono comunque gli stessi temi – il rapimento, gli schiavi, il sesso, la violenza – e sono quindi distintamente marcati dalla personalità e dalla spiritualità dell’artista afroamericana, ma come tutti i capolavori letterari, pittorici o musicali, siamo noi spettatori, con le nostre storie, a ritrovarci e rispecchiarci nelle ombre affisse alle pareti e nella violenza dei filmati. Ognuno di noi ha subito dei soprusi, di qualsiasi grado e genere essi siano stati, e queste opere sono un racconto mitologico capace di toccare nell’intimo lo spettatore risvegliando proprio quei ricordi caldi che tutti portiamo dentro, suggerendoci che c’è una soluzione, che come il bambino nero di Kara, un giorno, saliremo in piedi sulla schiena degli oppressori e colpiremo.

Milano FONDAZIONE ARNALDO POMODORO PERINO & VELE. LUOGHI COMUNI fino al 17 luglio 2011 di Sibilla Zandonini Vorrei intendere questa operazione come un segnale di buon auspicio, mi spiego: nell'anno dei festeggiamenti per i centocinquanta anni d'Italia, in cui tutti si affannano a mostrare le grandi cose fatte nel Rinascimento facendo finta che il risultato di quei momenti sia ottimo, ritengo che l'antologica di Perino&Vele sia una stoccata vincente. Emiliano Perino, New York - 1973, e Luca Vele, Rotondi – 1975, sono

artisti di fama internazionale, un buon prodotto di questi anni d'Italia unita, eppure non sono uno specchietto per allodole: il loro lavoro si basa sulla denuncia sociale e politica a tutto tondo. Verrebbe quasi da pensare che sia una scelta coraggiosa, ad

Perino & Vele, da “Porton Down”, 2006, oggi, presentare una mostra così impegnata e critica, per questo spero sia di buon auspicio, la prima di una lunga serie. Il percorso immaginato dal curatore Lorenzo Respi è pressante: le monumentali costruzioni in cartapesta del duo costringono alla scomodità lo spettatore. La sensazione è spesso di oppressione, come se le sculture schiacciassero le personali verità, costringendo all'andare oltre. Andare oltre i “Luoghi comuni”, appunto, titolo della mostra preso in prestito dal libro di Pino Corrias del 2006 nel quale il giornalista descriveva dieci luoghi che hanno segnato cambiamenti forti nella storia sociale del paese. Ma “Luoghi comuni” è anche il titolo dell'opera che accoglie il visitatore, pensata proprio per questa esposizione: tre pali in ferro zincato sovraccarichi di indicazioni stradali che indicano dodici luoghi: dalla villa di Arcore ad Ustica, dalla scuola Diaz di Genova ai capimafia di Corleone. Per identificare queste pagine tristi della nostra storia bisogna fermarsi e leggere i mozziconi di scritte, le lettere che sbucano sul bassorilievo della cartapesta disturbate da x nere, simbolo di pericolo “irritante nocivo”, e da intimati Alt. Pagine di storia sovrapposte come post-it abusivi, difficili da decifrare, fuori posto, ne sono state fastidiosamente nascoste le verità, ma inevitabilmente hanno determinato il nostro paese. I rimandi continui, i giochi di parole ed i riferimenti celati sono un tratto distintivo delle opere di Perino&Vele come nell'ironia (nera) di Goodbye del 2007: uno striscione di benvenuto allo straniero, la scritta Welcome to Italy però è trivellata di colpi di arma da fuoco. La sua attualità probabilmente è intramontabile, senza dover pensare per forza alle vicende strazianti che animano Lampedusa oggi. La loro bravura nello svelare la capacità degli oggetti comuni, come un divano o una culla, di svelare strutture e schemi sociali di cui, ancora oggi, siamo partecipi; che il divano si intitola “Vendesi monolocale Salotto Cucina Bagno con vista panoramica lire 4,5 milioni” (1998) e la culla si chiama “Statura 190, capelli biondi, occhi azzurri, professione ingegnere” (1998). Strappano un sorriso, ma lasciano l'amaro in bocca. E così per ogni scultura presente: ognuna ha un riferimento specifico, chiaro e pungente, una chiave di lettura accessibile, si parte sempre da un'immagine spesso innocua, innocente e riconoscibile, ma che attraverso pochi indizi mostra la sua potenza espressiva. Come “Dick” (2004) a prima vista un simpatico cammello accucciato, davanti a lui però una specie di betoniera spruzza in continuazione pezzi

di carta andando così a modificare nel tempo la sagoma dell'animale. Il meccanismo permette all'azione artistica il ripetersi incessantemente impossibilitando lo spettatore ad una visuale ravvicinata, in quanto finirebbe per sporcarsi, e rendendo lo spazio impossibile da abitare perché rumoroso e sporco. Il meccanismo imperterrito dell'esportazione della democrazia attraverso la guerra non è forse un volersi sovrapporre barbaramente su qualcosa senza interrogarsi su cosa sia? E forse noi, spettatori attraverso l'occhio dei media, non siamo a debita distanza infastiditi dalle statistiche dei morti? A concludere la mostra la serie “Porton Down” realizzata tra il 2005 e il 2006. “Porton Down” è una struttura di ricerca militare top secret inglese che si occupa dello studio della guerra chimica e biologica, conducendo esperimenti su animali e persone. Se la sagoma del maialino crivellato dai colpi coperto da un lenzuolo è esplicita, estremamente suggestiva è la saracinesca del laboratorio che si alza di pochi centimetri per ricadere pesantemente su se stessa producendo un suono che ricorda uno sparo. E in quella cartapesta, i cui colori derivano direttamente dalle pagine del giornale triturate, ritrovo uno dei segreti che rendono le opere di Perino&Vele così archetipiche. La lavorazione “a trapunta” con cui ricoprono ogni oggetto come a dire: qui sotto è nascosto qualcosa, puoi scoprirlo, se vuoi; e la pesantezza espressa da una materia così leggera in principio. Che le sculture siano pesanti o sembrino tali poco importa, questa fisicità esasperata ne svela però la loro falsità, sono riproduzioni della realtà, ma il messaggio che portano è reale. È il loro essere esplicitamente arte che trasforma il messaggio in sostanza che resiste nel tempo. Ecco perché una mostra così, nell'epoca dei luoghi comuni, dell'apparenza e del ostentazione, è un modello da seguire, un passo nella direzione giusta per riappropriarsi dei significati e combattere i luoghi comuni.

GALLERIE Milano BRANDNEWGALLERY FOLKERT DE JONG | FENDRY EKEL chiusa il 30 Aprile 2011 di Giulio Cattaneo Terzo centro per la neonata Brand New Gallery; dopo le convincenti mostre dedicate all’arte

astratta di Anton Henning ed ai riflessivi ritratti di Raffi Kalenderian, Fabrizio Affronti e Chiara Badinella ci sorprendono ancora portando a Milano il talento di Folkert de Jong (1972, Egmond aan Zee) e di Fendry Ekel (1971, Jakarta), entrambi vivono e lavorano ad Amsterdam. Non fatichiamo ad affermare che questa doppia personale, ma come vedremo la mostra può anche essere concepita e letta come un unicum, risulta, in questo momento, tra le più riuscite e stimolanti del panorama delle gallerie milanesi. L’esposizione parte e si sviluppa da due tematiche care ad entrambi gli artisti, che da sempre collaborano nell’ideazione e nella realizzazione del loro lavoro: la Storia e la memoria collettiva. Se de Jong considera il dato storico come base di partenza per costruire scene immaginarie ed assurde, dove il grottesco diviene il centro propulsore dell’azione; Ekel s’interessa al lato oscuro dell’ambizione umana scavando nella memoria collettiva alla ricerca del confine dove etica ed estetica si fondono. Apre il percorso la grande installazione “The iceman Cometh” di Folkert de Jong, esposta per la prima volta nella sua versione completa, una sorta di parata carnevalesca con reduci di guerra che strizzano l’occhiolino ai mutilati di Grosz e ai pupazzoni di McCarthy. Citando l’omonima pièce teatrale di Eugene O’Neill del 1939, l’artista mette in piedi una dissacrante sfilata post-bellica in cui la pazzia umana è significativamente espressa dalla gioia dei militari e collima con l’utilizzo della colorazione azzurra dello styrofoam, prodotto dell’industria petrolchimica solitamente utilizzato come isolante. L’origine del materiale stesso apre a differenti e sottili interpretazioni; lo styrofoam era infatti presente nelle medesime industrie che producevano lo Zyclone B, gas utilizzato nei campi di concentramento, l’Agent Orang e il Napalm per il conflitto in Vietnam. “Rievocando scene e personaggi storici” racconta de Jong in un’intervista a Marco Tagliafierro, curatore della mostra, “cerco di analizzare la verità oltre i fatti. È molto importante per me, per riuscire a capire come siamo diventati ciò che siamo”. Nella stessa sala con l’opera “Srebrenican Horse”, l’indagine di Ekel ci porta nella Bosnia del 1995, nella città di Srebrenica, teatro del più grande e sanguinoso genocidio avvenuto in Europa dopo la II guerra mondiale. Il freddo e geometrico cavallo, realizzato con olio e acrilico su tela, collega la sua icona al gioco degli scacchi, dove

Folkert De Jong, Fendry Ekel


la tattica, la strategia intrinseca nella difesa e nell’attacco, diventano le basi del successo, in un conflitto che passa dai pedoni, bianco e nero, ai giocatori, ma che per Ekel è tutto incentrato tra l’artista e il suo pubblico. Interessante anche l’interscambio che si crea nella seconda saletta dove Ekel, con “Currency”, ci propone la riproduzione pittorica del medaglione del premio Nobel con la raffigurazione di Alfred Bernhard Nobel, a cui si deve l’istituzione del premio stesso ma anche l’invenzione, nel 1867 della dinamite. Seriamente preoccupato dei possibili sviluppi bellici che la sua invenzione poteva avere, Nobel istituì il premio proprio per stimolare la ricerca nei campi del sapere che illuminano e aiutano l'Uomo a vivere degnamente. Figura complessa, tormentata, che riporta alla luce l’indagine sul lato oscuro dell’ambizione umana tanto caro all’artista. Di contraltare troviamo Lola, impersonificata da Marlene Dietrich nel film “L’angelo azzurro”, che ci invita ad accomodarci nel salotto dell’istallazione “Peckhamian mimic” della serie “Third commandment”. Ispirato dalle fotografie dell’attrice e a quelle realizzate da Leni Riefenstahl, de Jong riprende come titolo dell’opera un termine biologico utilizzato per descrivere il fenomeno del “mimetismo aggressivo”, tipico dei predatori che si mimetizzano per catturare le prede. Sotto le sembianze di un angelo, Lola ci invita fatalmente a prendere parte al salotto buono, inconsapevoli della trappola tesa, del pericolo in atto. Aleggia infatti una svastica definita tramite i bordi delle quattro poltrone. Un inganno sotteso, nascosto, che si rivela allo spettatore solo dopo una lunga analisi; impossibile a chi si accomoda avventatamente. I rimandi nell’opera di de Jong verso la storia dell’arte e le tecniche artistiche come la scultura sono continui e pressoché presenti in tutte le sue opere. La serie “The pratice”, di cui in mostra sono presenti tre elementi, si ispira liberamente alle ballerine studiate e ritratte più volte da Degas. Le danzatrici appaiono però con la pelle nera, inquinate da una colata di petrolio, che, come abbiamo precedentemente visto richiama il materiale di cui sono realizzate, lo styrofoam, andando ad annullare la leggerezza tipica della visione impressionista di Degas. De Jong poggia poi le proprie danzatrici su semplici pallet, elementi utilizzati per il trasposto delle merci, così da indagare, ma anche irridere, la storia delle opere d’arte anche attraverso la loro mercificazione, il loro mercato. Dialogo serrato in questo caso con l’opera di Ekel “American Mirror”, che oltre a diventare lo specchio di riferimento per le ballerine durante la danza, nonostante sia uno specchio non riflettente, dipinto, indaga oltre al concetto di vanità anche al sogno del vuoto dell’american way of life. Sull’America, in particolare sulla controversa figura di Lincoln, è ancora apertissimo il dibattito sulle sue posizioni circa la schiavitù e le sue scelte autoritarie durante la guerra di secessione, si occupa anche de Jong con il busto/scultura “Blue Lincoln” e con “Pink Crook” Ekel invece si avvicina alla storia dell’arte con la serie di autoritratti Fifer, in cui il pifferaio di Manet prende le sembianze di Pinocchio piuttosto che di uno scheletro (“portrait of old Pinocchio without the nois”, come scrive direttamente sulla tela). Interessanti anche i disegni di Folkert e presentati in chiusura della mostra. “The civil war, Spring dance e Royal

blood”, realizzati con pastelli ad olio su carta, riflettono apertamente sul tema della guerra, dello scontro, riprendendo stilemi e tematiche tipiche della sua poetica. Re, regine, chiudono idealmente il cerchio aperto da Ekel con il cavallo degli scacchi mentre ancora una volta appaiono in un turbine di segni e movimenti sia le ballerine che i cannoni piuttosto che l’esercito con la sua danza macabra.

Milano GALLERIA DEP ART DADAMAINO MOVIMENTO DELLE COSE chiusa il 30 April 2011 di Marianna De Padova Il concetto spaziale dell’artista milanese è forte ed intenso. Protagonista è il Movimento delle Cose, più volte proposto e rappresentato con la tecnica del mordente su poliestere. Che gli addetti ai lavori riconoscono come inchiostro su foglio acetato, carta da lucido: quelli che un tempo gli studenti di architettura usavano per i loro progetti, per i loro studi dei volumi, e dello spazio. Non stupisce quindi, trovare questi media come base per concetti volumetrici e spaziali, accanto a tele ‘bucate’ che a Fontana devono la curiosità ‘dell’oltre tela’, che conducono al ni-ente (come dice Donà, citato in catalogo dal curatore Zanchetta). Astratti concetti spaziali, ma definiti e tali da circoscrivere uno spazio, che risulta concepito come fluido concetto ritmico –a tratti anche sincopato-, capace di scandire la superficie, definendo una tridimensionalità in cui i volumi trovano locazione mobile e morbida. Dadamaino, forte della pazienza del senza tempo, della non fretta, ma strettamente alleata alla razionalizzazione, con il mezzo grafico concretizza così piccoli segmenti, piccoli segni, che smembrano l’immagine, la realtà, diluendola in un movimento che diventa unico protagonista. Un movimento che coincide con la creazione dell’artista e la propria idea rappresentativa. L’immagine scomposta che ne deriva ci ricorda una danza, o meglio: ricorda i fluidi movimenti degli studi di Boccioni. Come in quegli studi e lavori la linea non ha una fine, né tanto meno un inizio, e tutto genera movimenti e volumi, vuoti e pieni, luci ed ombre, così i Movimenti delle Cose di Dadamaino sembrano creare vibrazioni spaziali frazionate. L’insegnamento futurista qui sembra essere superato dalla volontà d’indagare l’essenza stessa del movimento. Dove l’azione, o l’oggetto astratto che si muove, sono solo una banale opportunità per riferire dell’attimo, in cui il soggetto si scioglie nel movimento, per riportare - e riferire - l’eco del movimento cristallizzato in un segno grafico che ha la potenza spaziale dell’attimo eterno.

Milano

Dadamaino

STUDIO GIANGALEAZZO VISCONTI AARON YOUNG fino al 22 Luglio 2011 di Valentina Mariani

perato e nobilitato attraverso l’immersione in puro oro zecchino, secondo un procedimento non troppo diverso da quello delineato da Robert Rauschenberg (bastino come esempio i celebri Gluts), che del resto emerge come indiscutibile punto di partenza anche per i pannelli, se si pensa ad “Automobile tire print” del 1951. In questo secondo caso, però, l’artista si rapporta al modello con un carattere più spiccatamente originale. Quella che compie, poi, è certo una subli-

Due sono i possibili approcci attraverso cui lo spettatore può accostarsi alle opere di Aaron Young (1972, San Francisco; vive a New York). Due approcci distinti o consequenziali. Il primo è un processo cognitivo ingenuo (nel senso di libero e spontaneo), cioè una diretta presa visione delle opere appese alle pareti (9 sono quelle esposte nelle ampie sale dello S t u d i o Giangaleazzo Visconti), senza intermediari esplicativi o critici. Il risultato sarà che si avrà l’impressione di trovarsi davanti a pannelli puramente astratti, in cui linee spesse e sinuose, connotate da colori forti, fluoAaron Young, “Tumbleweed“ 2009, rescenti, corrono lungo il supporto alla rinfusa, dando vita a qualcosa che ricorda molto da mazione, ma scevra di ogni intento di vicino, anche se in forma nuova e idealizzazione; Aaron Young sembra dilatata, gli schizzi di colore di più che altro voler intrappolare, come Jackson Pollock. La seconda via, in un’istantanea, l’urbanità, con tutto invece, implica una conoscenza ciò che ha di effimero e di momentaapprofondita del modus operandi del- neo, così come essa è, mettendone in l’artista e quindi una precisa metabo- luce tutta la forza dirompente, attralizzazione del sostrato concettuale verso la sua energia generatrice. celato al di sotto dello strato di nero che copre il legno e l’alluminio, mate- Milano riali di supporto per la stesura del col- GALLERIA PACK ore. Questa distinzione di metodo può ANDREI MOLODKIN - SINCERE apparire banale, ma si rivela tutt’altro fino al 28 Maggio 2011 che tale nel caso di Young. Conoscere di Costanza Rinaldi Mentre fuori Milano è infatti il lavoro che conduce al risultato finale è assolutamente essenziale assediata dal caos che invade la città per interpretare correttamente la sua durante il Salone del Mobile, in un opera. I grandi pannelli, accostati per formare dittici o trittici, sono il frutto di complicate performance organizzate e guidate da Young. L’artista raduna motociclisti e skateboarders nelle piazze e dispone sulla strada le grandi lastre di alluminio o tavole di legno, opportunamente ricoperte di Andrei Molodkin colori acrilici, a loro volta interamente nascosti da uno strato di colore nero. Guidati dai comandi di Young, i cortile in Foro Bonaparte impera l’orriders sgommano sulla superficie, las- dine di Andrei Molodkin. Dopo il succiando così emergere le scie di colore. cesso ottenuto grazie alla parteciIn seguito, l’artista decide in che pazione al padiglione russo della scormodo ricomporre e assemblare i pan- sa Biennale di Venezia, l’artista russo nelli. E se il risultato è, come si dice- torna in Italia ed è la Galleria Pack ad va, apparentemente astratto, senza ospitarlo per la seconda volta con una dubbio lontano da qualsiasi intento di mostra personale. Con la mostra figurativismo, la conoscenza del “SINCERE”, Andrei Molodkin si processo rivela come il lavoro di dimostra essere nuovamente un Young sia indissolubilmente legato artista complesso, che indaga la realtà alla realtà e non a una realtà generica, e che rimane profondamente legato a ma ben identificabile. La sua atten- una dimensione poetica politico-ideozione, infatti, si concentra su partico- logica. Dopo aver affermato che la lari tipologie sociali, quali appunto cultura è un vuoto che deve essere sono i riders o gli skateboarders, riempito, Molodkin per questa nuova ritenuti, secondo uno stereotipo, dei personale lavora su una serie di granribelli. L’energia distruttiva della loro di tele nelle quali sono raffigurate azione, carica di movimento fino al alcune parole - SIN, YES WE CAN, pericolo, viene trasformata in potenza AMEN - metodicamente realizzate creatrice, capace di generare un’opera con penne biro e alcune dalle semartistica. Una nuova interpretazione bianze tridimensionali, come a voler dell’action painting, che conduce alla invadere l’intero spazio bianco della sublimazione del dato meramente tela. Con un metodo decisamente permaterico; sublimazione che si sonale nel trattare la scrittura come esprime anche nella rielaborazione oggetto visivo, Andrei Molodkin la scultorea dei due cancelli che si pos- scandisce in termini metaforici e sono vedere esposti in questa mostra. trasforma l’inchiostro in sangue, così Si tratta di materiale di scarto recu- come rende il petrolio rappresen-


tazione della linfa vitale. L’artista russo in questo modo assume caratteristiche uniche, personali, con un linguaggio che racconta delle ricerche che vertono sul rapporto uomo-tecnologia e rendono la sua produzione tra le più singolari nel panorama internazionale. L’opera di Molodkin nasce dall’uso di diversi materiali come il petrolio, l’inchiostro o il sangue, diventando mezzi di espressione di un’unica ossessione: l’economia come entità della costruzione simbolica della culturale occidentale. Attraverso sistemi idraulici che innescano la circolazione del petrolio, Andrei Molodkin, architetto di formazione, diventa scultore, creando delle vere e proprie sculture liquide. Nell’opera “Fuck you” (in mostra) grandi lettere in resina acrilica si riempiono e svuotano in un circuito continuo caratterizzato da un forte impatto ideologico. Sculture di tubi di neon e disegni preparatori per grandi installazioni chiudono la mostra. Di nuovo, in questa personale l’evoluzione stilistica del giovane artista russo è andata oltre, raggiungendo concettualismi nuovi, pur mantenendo aperto il dialogo con lo spettatore grazie al forte impatto emozionale suscitato dalle sue opere.

Milano GALLERIA SANTO FICARA SUL RILIEVO ciusa il 26 April 2011 di Giulio Cattaneo

Agostino Bonalumi Ruota intorno al concetto di “rilevo” la mostra curata da Marco Meneguzzo e ospitata negli spazi milanesi della galleria Santo Ficara. Bonalumi, Mainolfi e Nunzio sono chiamati, con lavori realizzati appositamente per l’occasione ma che perfettamente si inseriscono nel loro percorso artistico “storico”, a dialogare ed affrontare il poco frequentato tema del rilievo nell’arte contemporanea. Un percorso che si inserisce perfettamente all’interno dell’indagine che la Galleria Santo Ficara conduce sull’arte italiana da anni, presentando una visione critica, più che cronologica o generazionale dei tre artisti presi in esame, che parte dall’analisi tecnica del loro fare artistico. Bonalumi sviluppa la sua ricerca a partire dal tentativo di superamento dell’informale nell’ambito della monocromia al fianco di Castellani e Manzoni con una mostra nel 1958 alla Galleria Pater di Milano, da cui prederà vita il gruppo di “Azimuth”, e fondando, nel 1961 alla Galleria Kasper di Losanna, il gruppo “Nuova scuola europea”. Nei suoi “quadri-oggetto”, come molto spesso vengono definiti dalla critica, la classica bidimensionalità della tela si articola in rilievi tridimensionali, attraverso

interventi di estroflessione, con libere configurazioni essenzialmente geometriche e modulari, ma anche con particolari elaborazioni curve. Le sue opere sono titolate semplicemente tramite il nome del colore protagonista unico della tela, sottolineando l’aspetto monocromo dell’intervento artistico, in netto contrasto con le pulsioni gestuali dell’informale. Se nei rossi, due in mostra, la luce partecipa sottolineando maggiormente le strutturazioni impresse alla tela dalle strutture create dall’artista, nel nero, colore che maggiormente assorbe la luce, l’opera è quasi bloccata al suo interno, se non per i due punti luce creati dall’estroflessione verticale. “Il problema della luce incidente, come sottolineato nel saggio di Meneguzzo, che è il vero elemento che definisce il rilievo, ed è costante e irrinunciabile da quando esiste questa tipologia, li accomuna ma, di fatto, si pensa a Bonalumi come a un pittore, nonostante certe incursioni tridimensionali e la sua continua uscita dalla bidimensionalità della tela, mentre si pensa a Mainolfi e a Nunzio come a due scultori, sebbene per entrambi il problema della superficie – dal punto di vista narrativo per Mainolfi, più materico per Nunzio – appaia sempre più pressante”. La luce quindi come collante dei tre artisti, come parte fondamentale del movimento creato con la lavorazione artistica applicata dai singoli autori nelle loro opere. I cretti creati da Mainofi partono sicuramente dalle ricerche di Burri ma si sviluppano partendo da una poetica tutta legata alla tradizione italiana delle sculture in terracotta, che ripresa con abilità da Arturo Martini, è stata capace di rinnovarsi continuamente durante gli anni. Dopo gli studi artistici a Napoli, Mainolfi è attratto dalla vibrante situazione artistica torinese, ed è qui che trasferitosi nel 1973, sviluppa la sua poetica, indagando inizialmente il proprio corpo ed il gesto ed approdando poi alla creazione di sculture in terracotta. Le superfici presentate in mostra si compongono seguendo le tracce di rottura della terracotta che le compone. Cretti composti, quasi morbidi in confronto a quelli più massici di Burri. Sono mappe viste dall’alto, in cui compaiono pulsanti inserti rossi, “Dune rosse”, o al contrario da cui la terracotta fuoriesce in singole espressioni circolari, “Prima dune mare”, dal fondo verde acqua. Più cupo “Terra bruciata”, dove la composizione geometrica dei cretti è più regolare e controllata, con superfici più grandi e ben definite e dove la luce funge da collante equilibratore della scena, non creando particolari giochi vibranti all’interno della composizione. Sfida più apertamente la materia Nunzio, che lavorando con il piombo realizza dei rilevi scultorei leggerissimi, vibranti, superando la pesantezza intrinseca nel materiale scelto. Allievo di Scialoja all’Accademia di Roma, Nunzio emerge negli anni Ottanta nel gruppo di giovani artisti che si erano installati nell’ex pastificio Cerere, dando vita alla provvisoria “scuola di San Lorenzo”. Dalle prime esperienze con l’uso del gesso, Nunzio passa velocemente a strutture in piombo e in legno combusto che si pongono come sculture in cui l’essenzialità di piani verticali si sposa alla nuda, silenziosa vita della materia che si esprime in rughe sottili, tagli, profili. Il pulito trattamento della superficie dei due rilievi in mostra, quasi minimale, permette alla luce di vibrare, creando interessanti giochi di luce che concorrono ad alleggerire il quadro. La struttura si

modula secondo direttrici curve o strutture più geometriche, andando a definire piani concavi interrotti da direttrici in rilevo che vanno a strutturare la composizione. Nel legno combusto è invece evidente tutta la potenza della materia e del violento processo di combustione che porta alla luce le sue caratteristiche al legno. Il legno viene portato a combustione solo nel suo strato superficiale, creando su quest’ultimo una superficie di pigmento nero carbone, effetto dell’azione del fuoco. Tutta l’opera di Nunzio si costituisce per opposizioni, dove come abbiamo già visto per gli altri artisti, la luce diviene elemento fondativo dell’opera. Se il piombo riflette una luce concentrata sulla superficie della materia che acquista, in tal modo, un aspetto raggelato, ottenendo un risultato di luminosità fredda, che trasforma la lastra grigio metallo in luce; il nero delle combustioni, al contrario, cattura la luce e la rilascia lentamente. Dal buio affiora il suo opposto. In questo caso la luce esalta i dettagli della lavorazione della materia, la struttura compositiva del legno. L’utilizzo della combustione nel legno porta all’evocazione del suo contrario: il fossile.

talmente ermetiche e segrete, figlie di un linguaggio coerente a se stesso da oltre cinquant’anni, da travalicare le banali letture spazio-temporali; folgorato in gioventù dai tagli e dagli strappi di Fontana, Pomodoro trasforma l’indagine “dell’oltre lo spazio”, in forgia bilaterale della materia. Partendo dalla forma liscia e compatta, che in Brancusi riconosce le strutture geometriche, ne mette in discussione l’integrità, provocando fratture, squarci, disfacimenti, ferite aperte. Le sue sculture danno la sensazione del vissuto ma non raccontato, piuttosto dello svelato, offrono un accesso esclusivo verso memorie intime ma universali, e “la materia, dal canto suo, è resa come porosa, aperta a un significato globale, ondeggiante, inafferrabile”. Indagini sulla rotondità come caratteristica evi-

ESTERO Parigi TORNABUONI ART E AMBASCIATA D’ITALIA A PARIGI ARNALDO POMODORO fino all’11 Giugno 2011 di Sandra Gesualdi “A Parigi torna, sempre piena di promesse, l’opera di Arnaldo Pomodoro”. Oltre quaranta lavori che percorrono tutta la carriera dello scultore, in una antologia ed esplorazione del multiforme linguaggio che lo caratterizza, dal 1960 ad oggi. La Galleria Tornabuoni Art, nella sede parigina in avenue Matignon, celebra il grande scultore italiano, con un’antologica “all’insegna poetica del viandante”, e pone un ponte di continuità tra le precedenti esposizioni dedicate a Fontana, Boetti e Ceroli. Ideata e progettata da Michele Casamonti, che si occupa della galleria francese, la mostra ha la cura critica di Bruno Corà, e ribadisce la forte attenzione della Tornabuoni verso quell’arte del XX e XXI secolo che ha lasciato un segno indelebile e universale. L’esposizione si inserisce nel programma del 150° anniversario dell’Unità d’Italia e per questo l’Ambasciata Italiana ha messo a disposizione il proprio cortile d’onore per ospitare la gigante “Lancia di luce II”; presenti in galleria alcune opere inedite tra le quali spicca Continuum, il bassorilievo di oltre 5 metri e le sculture giganti destinate alla dimensione pubblica, come l’Arco (2007) o il Grande Marco Polo ( 1998-2008), ammirabili tramite modelli in scala. Scultore dal multiforme ingegno, Pomodoro inizia negli anni ’50 col progettare monili virtuosi e sculture di piccolo taglio per poi approdare alle opere monumentali che dialogano con lo spazio e che trasudano di volumetrie. Sperimenta materiali nobili o semplici con lo stesso rigore compositivo, l’oro e l’argento per i monili, il ferro, il legno, il cemento fino al rapporto prediletto col bronzo, la lega che si fa tripudio di metalli e che lo scultore domina e plasma affondando la propria genialità in tracce nette. Le sculture di Pomodoro sono narrazioni

Arnaldo Pomodoro, “Sfera” 1990 dente della sfera, ma anche di quelle fisionomie geometriche simbolo di civiltà passate come la colonna, o l’arco, la stele e il papiro, lo conducono a trasformare il materiale che lavora in un processo “metamorfico di drammatica decostruzione della forma” con attacchi creativi e personali capaci di scalfirne poderosamente l’integrità. D’altra parte, una scultura così concepita racchiude in sé anche il movimento “come dinamica dell’instabile”, un movimento interno, probabile causa delle deflagrazioni che compromettono la perfezione della materia. Osservando le sfere, dalla “Sfera n.1” del 1963, fino alle decine di riproduzioni e versioni successive in diverse scale, appare chiaro come queste siamo dimore segrete di microcosmi infiniti e articolati di cui Pomodoro decide di offrircene uno spaccato attraverso gli squarci; non sono sfere, così come i dischi o le colonne, vuote, ma sfere, dischi e colonne a volumi densi e imbottiti dei meccanismi che le fanno funzionare; ne possiamo indagare l’interno e decifrare i segni attraverso i labirinti scolpiti da rilievi e altorilievi, decidere di non fermarci all’involucro liscio del bronzo ma addentrarci tra dentelli, incastri, congegni, punte e incavi destinati a descrivere segni che viaggiano nel tempo e nei misteri dell’umano sentire; “ciò infatti che muove a una sincera emozione lo studioso è constatare come la tensione che tutt’ora spinge l’azione di Pomodoro sia delle più vigorose e come i motivi problematici delle sue opere affrontino l’interrogazione su aspetti cruciali, come appunto l’esistenza, il tempo, la via da percorrere, la primordialità, i segni dell’uomo e i conflitti della storia, l’architettura, ma anche le forze della natura e del profondo” (Bruno Corà). A Parigi una riflessione a tutto campo su questo protagonista indiscusso e attivo dell’arte contemporanea.


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