Arskey Magazine 4

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Numero 4 novembre/dicembre| Anno 1 | 2011 | Periodico trimestrale €.5,00

arskey Vettor Pisani Maurizio Cattelan Gino De Dominicis Thomas Houseago Aleksandr Rodčenko Mario Sironi Leonard Freed Antonio Nunziante Da Van Gogh e Gauguin

L’ultima mostra di Maurizio Cattelan? Al Solomon R. Guggenheim Museum di New York A che serve la critica? Incontri teorici # 2. Arabella Natalini Arte Povera, un'occasione di discussione Intervista ad Alberto Garlandini, presidente ICOM Italia Sondaggio. Un'indagine volta alla scoperta delle realtà museali italiane Intervista a Roberto Grossi, presidente di Federculture Intervista ad Annette Hofmann. Lisson Gallery Intervista a Claudia Dwek, vicepresidente di Sotheby’s Europa Aste. Mercato Italiano e Internazionale Fiere: Frieze - FIAC - Artissima V&A Museum di Londra celebra la fine del Postmoderno in una mostra titanica








EDITORIALE

IL RISTAGNO DELL'INDIFFERENzA GENERA OMbRE

“Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita” Antonio Gramsci Uno spigolo è un concentrato di energia determinato dalla confluenza di più direttrici che nell'incontro determinano un'esplosione fluida di potenza. E in tale condizione la cultura ristagna alimentandosi della sua stessa bellezza, ma non trovando in sé la forza di uscire dalla propria auterenferenzialità. Qualsiasi sistema se messo all'angolo reagisce, tranne quello della cultura attuale: la quale finge di infuriarsi, ma in realtà scrolla la testa e basta. Probabilmente la dipendenza degli eventi culturali dalle politiche nazionali è totale e pare non avere vie di fuga. Il finanziamento pubblico è spesso l'unico sostentamento dei musei e, se viene a mancare, non si vedono alternative alla sopravvivenza della struttura; chi lavora nel settore cultura riconosce di appartenere a un ambiente senza regole scritte, in cui i diritti e i doveri sono questioni labili e variabili in base all'interlocutore che si ha d'innanzi. Se il mercato fosse regolato da leggi uniformanti che dessero perlomeno un criterio di valutazione degli eventi finanziabili, ci sarebbe meno dispersione di energia e la cultura uscirebbe dal suo angusto angolo, dove ciò che avviene è sempre e solo visto dall'occhio dell'osservatore preparato ed esperto - ovvero la cosiddetta gente del settore. A tali ipotetiche e auspicabili leggi, andrebbe aggiunto l'apprendimento della disciplina. Il fatto che l'insegnamento dell'arte sia quasi totalmente sparito dai programmi scolastici, conferma il decrescente interesse nei confronti di una disciplina che non garantisce un sostentamento certo. Le Accademie si svuotano di contenuto e di alunni, i programmi invecchiano da un anno all'altro e nessuno riesce ad aggiornarli. La mancanza di leggi e di insegnamento, nel momento storico della crisi, dovrebbe far pensare che forse è giunto il momento di alzare la voce per favorire un Sistema Arte non corrotto da favoritismi e che ostacoli il conflitto di interessi fra le diverse figure professionali della Cultura, per ridistribuire le competenze nei settori specifici. Per dirla in soldoni: i giornalisti devono fare i giornalisti, i direttori di museo i direttori, i curatori devono svolgere solo il lavoro per cui vengono pagati e i critici possono decidere liberamente, come hanno d'altronde già fatto, di abbandonare il mestiere e di dedicarsi all'insegnamento (certamente un ripiego, ma un sacrificio nobile). Invece, chi ha occupato per anni i posti di comando privilegiati da cui poter accedere ai finanziamenti dello Stato, si è radicato nella sua posizione da un lato ostacolando le giovani leve, dall'altro cercando un nuovo sostentamento e mettendosi bellamente in vendita presso i privati, cui sarebbero disposti a vendere di tutto. In questo contesto, nessuno si pone il problema di come rinvigorire e rendere trasparente (nel senso di accessibile al cittadino) la Cultura, ma al contrario si nega di dover mettere in discussione lo stato delle cose, affidandosi al meccanismo dei favori: non si guarda né alla qualità né alla solidità delle basi che si dovrebbero porre per il futuro. Si rincorre il collezionista, si lascia parlare come un oracolo l'azienda e il comitato marketing, pur di garantire e preservare la propria posizione; senza fornire regole che pur si potrebbero studiare. Tale processo distrugge sia i giovani, che inseguono sino a esaurirsi, sia coloro che, seppur preparati, si trovano a dover sostenere lavori che in passato non avrebbero mai pensato di sostenere, in nome di un favore. Elisa Delle Noci


arskey : n°4 novembre | dicembre 2011

arskey Numero 4 novembre/dicembre| Anno 1 | 2011 | Periodico trimestrale Edizioni ArsValue S.r.l Piazza Porta Torino 13 - 14100 Asti Amministratore Unico: Pierluigi Salvatore Copyright 2011 per edizioni ArsValue. Tutti i diritti riservati. Spedizione in abbonamento postale - art. 2 comma 20/B Legge 662/96 Stampa: Castelli Bolis Poligrafiche S.p.a. Distribuito su abbonamento, trova i punti di distribuzione su www.teknemedia.net Registrazione: Tribunale di Asti N. 1 del 18.01.2011 Direttore Responsabile: Elisa Delle Noci Vicedirettore: Pierluigi Salvatore Direttore commerciale: Pierluigi Salvatore Responsabile organizzativo: Fabio Molteni Segreteria di Redazione: Giuseppe Ponissa Servizio Abbonamenti e Distribuzione: Cristian Mondino mail: direzione@teknemedia.net Redazione: Arskey via Ticino 19, 10036 Settimo Torinese (TO) mail: redazione@teknemedia.net Tel. 011.19507299 Uffici amministrativi: ArsValue S.r.l. Via Talamoni 3, 20052 Monza Tel. 039.2315043| Fax. 039.3901364 mail: amministrazione@arskey.it

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Maurizio Cattelan, “La Nona Ora”, 1999 Polyester resin, wax, pigment, human hair, fabric, clothing, accessories, stone, glass, and carpet, dimensions variable Courtesy of the artist. © Maurizio Cattelan Photo: Attilio Maranzano


SOMMARIO

modern & contemporary art pg 16 Omaggio a Vettor Pisani, l’artista e il suo specchio. di Giorgio Verzotti

pg 20

Caro Maurizio ti prendo in parola. L’ultima mostra di Maurizio Cattelan? di Francesca Pasini

pg 26

La luce artificiale nell'arte del Novecento. Le Origini della Light Art. di Silvia Ferrari Lilienau

pg 29

Looking back. Il canone della contemporaneità: i magnifici anni Cinquanta. di Valentina Mariani

pg 32

Catalogo ragionato di Gino De Dominicis. Intervista a Italo Tomassoni. di Annalisa Pellino

pg 34 Racconti contemporanei. Umanità straordinaria e odierna violenza. L’estro di Thomas Houseago. di Laura Orlandi pg 36 Il mondo futuristico di Aleksandr Rodčenko. di Valeria Santoleri pg 39 V&A Museum di Londra celebra. La fine del Postmoderno in una mostra titanica. di Chiara Cartuccia pg 41 Pittura Sovietica 1920-1970 - L'arte non asservita all'ideologia. di Letizia Guadagno pg 43 Mario Sironi e il dramma della guerra. di Giulio Cattaneo pg 45 Al grande fotografo Leonard Freed che amava l'Italia. di Manuela Congedi doSSIer

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pg 48

Incontri teorici # 2. Antonello Tolve - Arabella Natalini. di Antonello Tolve La freccia del tempo dai quanti al mondo dell'immagine. Una lettura del XX Secolo. di Andrea Tedesco Intervista ad Antonio Nunziante. Da Van Gogh e Gauguin a Nunziante un viaggio nel paesaggio immaginifico. di Sandra Salvato Il confine della libertà nell'arte. di Cecilia Ci La capacità delle istituzioni italiane di fare sistema al banco di prova. di Annalisa Pellino Arte Povera, un'occasione di discussione. di Fulvio Chimento “Arte Povera 1967-2011”: il futuro era ieri. di Chiara Carolei Il MAXXI omaggia l'Arte Povera. di Gino Pisapia

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The Plot is the Revolution: quando l’evento performativo irrompe nella vita di Francesca Caputo

economIa dell’arte pg 71

Intervista ad: Alberto Garlandini, presidente ICOM Italia. Strategie per la difesa del patrimonio culturale mondiale. di Angiolina Polimeni Un'indagine volta alla scoperta delle realtà museali italiane. di Angiolina Polimeni Al Lu.be.c 2011 tra storia, crisi e innovazione tecnologica. di Rita Salis

pg 74 pg 79 pg 80

Intervista Roberto Grossi. la cultura è a un passo dal baratro: qui serve una rivoluzione! di Nicola Maggi

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pg 84 Intervista ad: Annette Hofmann. Lisson Gallery. Una sede italiana per una galleria internazionale di Letizia Guadagno pg 86 Intervista a Claudia Dwek. Vicepresidente di Sotheby’s Europa. Nella fortezza del mercato dell'arte di Francesca Berardi pg 88 Intervista ad Arnaldo Antonini, direttore generale di Scudo Investimenti SG. Fondi comuni di investimento in arte di Valentina Stefanoni pg 90 Le aste di Settembre e ottobre : Mercato Italiano dell’arte moderna e contemporanea di Giuseppe Ponissa pg 91 Contemporaneo: la fiducia nel mercato cala le vendite no di Nicola Maggi pg 92 Fiere: Frieze - FIAC - Artissima tre fiere a confronto di Gino Pisapia pg 94 Aste in cifre a cura di ArsValue.com pg 95 Servizi educativi: analisi sulla struttura del museo: processo di aziendalizzazione, autonomia e didattica di Annalisa Pellino recenSIonI

pg 106


modern & contemporary art Josef Albers, “3 Gehängte [3 panni stesi]”, 1938 stampa alla gelatina d'argento / gelatin silver print 11,5 x 17,3 cm Josef & Anni Albers Foundation, Bethany (CT) AUTHENTICATION DAY mostra alla Galleria Civica di Modena (vedi recensioni)

omaggio a Vettor pisani, l’artista e il suo specchio | caro maurizio ti prendo in parola. l’ultima mostra di maurizio cattelan? | la luce artificiale nell'arte del novecento. le origini della light art | looking back. Il canone della contemporaneità: i magnifici anni cinquanta | catalogo ragionato di Gino de dominicis. Intervista a Italo tomassoni | racconti contemporanei Umanità straordinaria e odierna violenza. l’estro di thomas Houseago | Il mondo futuristico di aleksandr rodčenko | V&a museum di londra celebra la fine del postmoderno in una mostra titanica | pittura Sovietica 1920-1970 - l'arte non asservita all'ideologia | mario Sironi e il dramma della guerra | al grande fotografo leonard Freed che amava l'Italia

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arskey/Art | Vettor Pisani

OMAGGIO

VETTOR PISANI, L’ARTISTA E IL SUO SPECCHIO di Giorgio Verzotti Abile compositore di frammenti sparsi e sottratti di volta in volta alla deriva della memoria collettiva, l’artista Vettor Pisani - pittore, architetto e commediografo - si è tolto la vita all’età di 77 anni nella sua casa romana. Arskey ha scelto di affidarne il ricordo alla penna di Giorgio Verzotti, il quale, dell’artista ischitano, evidenzia l’attitudine alla ricerca di verità costitutivamente e consapevolmente ambigue, e dunque il carattere enigmatico dell’opera, votata a una drammatizzazione allegorica dei significati originari della nostra cultura.

Vettor Pisani, “Omaggio a Böcklin”, 1991 collage su cartone Courtesy Galleria Massimo Riposati,

Il collage è la tecnica che più si confà a Vettor Pisani: la dislocazione di immagini, di segni, di oggetti, su un piano che diviene così un nuovo contesto; il collage, se spinto fino alla terza dimensione, con l’assemblaggio di elementi eterogenei, resi con questo omogenei a un disegno prestabilito (per inciso e a scanso di equivoci chiarisco subito: Pisani era anche un ottimo disegnatore); e poi, a misura di ambiente, l’installazione, e di spaziotempo, la performance. Il disegno è ciò che tiene insieme i frammenti, dando loro un nuovo significato, senza però che perdano nulla di quello origi-

Vettor Pisani, “Miao Sfinge” “Miaosfinge. Gustosi bocconcini di pesce per sfingi e giocatori di scacchi" Courtesy Galleria Massimo Riposati, Roma 1992

nario, che anzi resta a loro avvinto, come un destino fatale. C’è qui anche una osservanza della retorica su cui sono costruite le allegorie secondo Benjamin, le cui considerazioni (sul dramma barocco tedesco) sono poi state riprese da diversi osservatori delle estetiche 'postmoderne', attraverso le quali, vorremmo aggiungere, Pisani va visto, in questa prospettiva, come un precursore. Sulla permanenza, per tracce, dei significati di partenza sta la posta in gioco in tutto il lavoro dell’artista, ne è essa stessa l’origine, qualunque cosa questo termine voglia dire. Pisani indaga sull’origine

della nostra cultura, quella da cui proveniamo, con lo spirito disincantato dei moderni, cioè senza aspettarsi di trovare la verità, o comunque non una verità univoca. Non a caso, vi si accosta a passi graduali, per avvicinamenti che non escludono improvvise fughe laterali o passi indietro, secondo andamenti (apparentemente) eccentrici.Pisani è un artista e sente, come gli artisti fanno, intuisce quello che poi i ricercatori, gli scienziati, i filologi confermano col senno di poi. Sente che l’origine è oscura, ambigua, e non solo perché ne siamo lontani. Sente che l’ambiguità la connatura (perché


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il suo immaginario surriscaldato di ascendenze nobili ci mette in scena come entità contraddittorie lo stesso succede in noi che la cerchiamo) e sospetta perciò che lo faccia intrinsecamente: ipotizza perciò un’origine (una verità) costitutivamente ambigua, e forse anche improbabile. Per questo l’artista la ripensa, la rimastica ogni volta nelle sue opere: la ripresenta sempre sotto spoglie diverse, sempre arricchita di nuove caratteristiche, di nuove intonazioni sentimentali, con inaspettate aperture, o derive, tematiche. L’opera di Vettor Pisani, diventa così una costellazione di segni di diversa provenienza che cambia ogni volta, rimanendo, nel suo disegno, sempre fedele a se stessa. Strutturata, formalizzata come un collage, essa è dunque 'citazionista' per carattere, è un’opera che ogni volta rimanda ad altre opere, e con questo ad altre paternità, e agli universi di senso a esse collegati. Non si tratta mai di scelte casuali; ciascun elemento, ciascun 'insieme' è creato per convogliare la nostra attenzione lungo percorsi mentali che strutturano fortemente il discorso intorno a cui l’artista intende intrattenerci. Pisani lavora con immagini sedimentate nella nostra memoria collettiva, e non condivide in nulla l’atteggiamento sdrammatizzante di Picasso che dice “io non cerco, io trovo”. Lo notiamo per rilevare la radicalità della posizione di Pisani, che non concede nulla ai miti più invalsi dell’artisticità, sia pure modernista. Nessun 'soggetto creatore' al centro dell’operare, ma piuttosto un operatore del linguaggio che costantemente interroga ciò che in esso è sedimentato, il suo rapporto con l’immaginario da un lato e con la storia dall’altro. Nessun 'tratto distintivo' che rimandi a una soggettività eminente né a una identità fissa, ma al contrario una perdita di identità individuale nel mare magno e germinante dell’identità collettiva che struttura la nostra genealogia culturale. Nessuna 'originalità' da conquistare e di cui farsi un blasone, ma piuttosto il confronto continuo con le stratificazioni del senso di cui ogni atto culturale è pregno e di cui è portatore. Insomma, per dirla con Barthes, Pisani pone la cultura dove la

natura pretende di essere sempre stata e inoltre (passo più radicale e meno condiviso di quanto si pensi) pone una comunità di lavoro dove il soggetto pretende, idealisticamente, di regnare da solo. L’artista si ritrae come soggetto multiplo, come polifonia di voci, si specchia in un riflesso che gli rimanda una complessità, quella della genealogia a cui appartiene, e che produce uno sparagmos creativo. Il soggetto si frantuma in mille identità, non si sa se reali o fittizie (non importa) e con questo frantumarsi, con questo porsi in divenire, dà vita alla creazione. Lo sparagmos è lo smembramento della vittima che con il suo sacrificio salva la comunità, la redime rispetto al suo proprio dettato divino. Animali, uomini e dei vi vengono ugualmente sottoposti: Dioniso, uno dei punti salienti della genealogia di cui sopra, uno fra gli dei che muoiono, viene, da bambino, irretito dai giganti che gli offrono giocattoli, e, fra questi, lo specchio. “Dopo averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi ecco che questi Titani lo sbranarono”. Lo sbranamento abolisce l’unità del dio, ma con questo crea la realtà molteplice: “Dioniso infatti, quando ebbe posto l’immagine nello specchio, a quella tenne dietro e così fu frantumato nel tutto” 1 Per il dio principe dell’ambiguità specchiarsi significa riconoscersi come molteplicità, morire come Uno e rinascere come Tutto, frammentarsi nelle innumerevoli entità che costituiscono il mondo. In Proclo, che riprende i miti orfici, leggiamo ancora: “Perciò dicono altresì che Efesto fece uno specchio per Dioniso, e che il dio, guardandosi dentro e contemplando la propria immagine, si gettò a creare tutta la pluralità.” 2 L’artista si riconosce come identità smembrata e come ritratto collettivo: per questo la sua opera è costruita come un collage, un assemblaggio, un corpo polimorfo che prende piede e spazio, un organismo in crescita. Per questo ha l’aspetto di un ibrido, senza rinunciare all’ironia del pastiche e del cortocircuito fra saperi alti e bassi, o

meglio fra saperi e non-sapere. Il suo disegno sta nel tenere insieme tutto questo, come appunto un corpo in frantumi che ogni volta si organizza in nuove sintesi di senso. Marcel Duchamp e Joseph Beuys, Arnold Böcklin e Fernand Khnopff, i Rosacroce e la Massoneria, Sigmund Freud e Ludwig Wittgenstein, l’Eurasia e la questione ebraica, per non parlare delle figure che l’artista re-inventa, sono solo alcune delle isole emergenti nel mare in cui Pisani naviga. Al di là dell’esegesi, dell’interpretazione che ciascuno di questi nuclei tematici meriterebbe, importante è sottolineare che l’artista ponendo questo rutilante universo ci pone davanti agli occhi il nostro ritratto. Noi ci riflettiamo in esso come soggetti storici e con questo intravvediamo lo sparagmos da cui in quanto tali siamo originati: soggetti scissi, identità multiple, dove per prima cosa il medesimo convive, quando non collide, con l’altro. Ci confrontiamo anche, e questo va sottolineato dati i tempi in cui viviamo, con il meticciato culturale, quindi anche identitario, da cui proveniamo tutti, a scanso di derive integraliste. Non saremo mai troppo grati agli artisti per l’igiene mentale alla quale ci abituano. Dicevamo che Pisani non sdrammatizza, lo rileviamo non perché l’artista infonda pathos drammatico all’atto creativo, su cui anzi non manca di ironizzare, ma perché con il suo immaginario surriscaldato di ascendenze nobili ci mette in scena come entità contraddittorie, mostra le contraddizioni, anche laceranti, su cui il nostro Io si instaura. In un certo senso, Pisani percorre il rovescio della nostra identità collettiva. Non solo l’alchimia e le altre scienze esoteriche, ma anche il gioco dei rovesciamenti, delle equivalenze inaspettate, delle similitudini fra opposti. Lo specchio che l’artista ci mostra è oscuro, e rimanda il riflesso imbarbarito delle cose. Pensiamo a due figure fra le più ricorrenti nel suo lavoro, quelle di Edipo e della Sfinge. Esse abitano entrambi la città di Tebe, o i suoi paraggi, e Tebe è - 13 -


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Vettor Pisani, "Senza Titolo" 2004 disegno su cara, 110 x 126 cm Courtesy Fondazione Morra

il rovescio oscuro di Atene, l’opposto della comunità solare dove regna la ragione: “Tebe è una anti-Atene, è l’ombra, il rovescio della città quotidiana. È come uno specchio oscuro dove si riflettono i valori tradizionali della vita associata, però rovesciati in una antitesi perenne e puntuale. Tebe, città di Edipo ma anche di Dioniso, è il luogo in cui l’umano (e il politico) esplorano il proprio contrario…Tebe insomma è la città tragica per eccellenza”. 3 Dioniso, che viene a Tebe sulla tomba della madre mortale Semele, è ambiguo, diventa un dio che si vendica, condannando alla disperazione i seguaci del suo culto. Su Tebe si rovescia la maledizione dei Labdacidi, Laio ucciso dal figlio Edipo, i figli di lui incestuosi che si fanno guerra l’un l’altro, Antigone sacrificata da una legge ingiusta. Edipo stesso è, come il dio vendicativo, doppio, è il salvatore della città dal pericolo mortale della Sfinge ma anche la causa, per via dei suoi peccati originari, della pestilenza che affligge i cittadini. È un re e insieme un criminale. Doppia è la Sfinge, dal corpo di animale e dal volto seducente di donna: Vettor Pisani ritrae il confronto fra le due figure scegliendo le suadenti figure di Khnopff, per mettere in scena l’eterno cimento dell’Io con il proprio inconscio, il proprio rovescio oscuro, la propria parte maledetta. Un confronto che diventa una sorta di apoteosi della doppiezza, e che però trova un momento di familiarità, una affinità segreta, una parentela inaspettata. Edipo, che per Pisani equivale alla rappresentazione di noi stessi,

del soggetto occidentale in tutta la sua banalità esistenziale, alla fine si riconosce nella Sfinge, nel mostro che interroga e con questo elimina. Abbandonato fanciullo nei boschi del Citerone a causa della profezia, “Edipo infatti non diventerà mai completamente umano e civile; la sua eccezionalità, la sua differenza rispetto agli altri sta appunto nell’essere in parte selvaggio. La doppia nascita conferisce al neonato un surplus di poteri e fa di lui un essere a due facce, uomo e animale nel tempo stesso. Egli non si integrerà completamente nella civiltà umana, neppure quando diventerà re: sarà sempre un uomo in parte marginale, un essere che proprio per questo sa interpretare la voce degli animali ed è perciò capace di comprendere la domanda della Sfinge, animale parlante.”4 Il corpo ibrido che l’opera d’arte diventa nella strategia discorsiva di Vettor Pisani si ricompone ogni volta per restituirci, trascritta in altrettanti enigmi, l’essenza tragica della nostra natura intermedia, allarmata e affascinata insieme dal possibile riconoscere l’altro dentro di sé. 1- Olimpiodoro e Clemente Alessandrino, citati in F. Curi, Endiadi, Milano, Feltrinelli, pag. 64 n.16 e 9. 2- Ibidem, n.10 3- G. Ieranò, Introduzione a Eschilo, I Persiani – Sette contro Tebe, Milano, Oscar Mondadori, 1977, pag. XI. 4- G. Guidorizzi, Il mito di Edipo, in M. Bettini, G. Guidorizzi, Il mito di Edipo, Torino, Einaudi, 2004, pag. 88.


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arskey/Art | Maurizio Cattelan - All

L’ULTIMA MOSTRA DI MAURIzIO CATTELAN?

CARO MAURIzIO TI PRENDO IN PAROLA di Francesca Pasini

Maurizio Cattelan, “L.O.V.E.”, 2010 Carrara marble, figure: 470 x 220 x 72 cm; base: 630 x 470 x 470 cm Courtesy of the artist. © Maurizio Cattelan. Photo: Zeno Zotti

Attorno a Maurizio Cattelan spesso si cerca la second choice delle sue intenzioni, ovviamente questo gioco è andato al rialzo dopo l'intervista in cui annunciava che non avrebbe più fatto mostre; circola, infatti, con insistenza l'ipotesi che la personale al Guggenheim non sia affatto la chiusura di un cerchio, ma una sagace mossa mediatica per attivare l'attenzione attorno al suo lavoro. Può darsi. Io preferisco prenderlo in parola e interpreto questa scelta come un avvertimento dell'impasse a cui è arrivato il sistema dell'arte. Negli ulti-

mi 15 anni il mercato è salito a un livello tale da incrinare il concetto di autonomia del pensiero artistico, collocandolo piuttosto in un inedito valore mediatico e capitalistico. Sì, il capitale e l'euforia finanziaria hanno portato nella cittadella dell'arte contemporanea investitori imprevisti dalla Russia, alla Cina, a Dubai, cosa che ha determinato una frenesia socio-mondana del valore dell'arte. Ebbene, Maurizio Cattelan dichiarando che non farà più mostre e che proseguirà il suo lavoro in altri versanti cosa peraltro che ha sempre accom-

pagnato la sua carriera (dalla creazione di riviste, gallerie, organizzazione di biennali per soli artisti ai Caraibi, e di una vera biennale, quella di Berlino) - avverte non tanto del suo ritiro su un ipotetico Aventino, ma della volontà di sottrarsi al circuito opera - esposizione - fiere - aste. Non critica apertamente, né dice cosa intende fare nel futuro, lascia liberi tutti di decidere se è un giudizio sulla realtà attuale, sul sistema dell'arte o soltanto una sua intuizione che lo porta altrove. Così si sottrae alla spiegazione rassicurante: "ha voluto chiu-


Maurizio Cattelan, "All", Installation view Solomon R. Guggenheim Museum, November 4, 2011 - January 22, 2012 Photo: David Heald Š Solomon R. Guggenheim Foundation


arskey/Art | Maurizio Cattelan - All

Maurizio Cattelan, “Mini Me”, 1999 Rubber, resin, synthetic hair, paint, and clothing, 45 x 20 x 23 cm © Maurizio Cattelan. Photo: Attilio Maranzano. Courtesy the artist

dere in bellezza quando il suo riconoscimento è al massimo, teme di non poter inventare nuovi messaggi choc..." L'assenza di una giustificazione crea imbarazzo. Perché un artista all'apice del successo vuole passare la mano? Cosa ci guadagna? Vuole veramente sputare nel piatto dove mangia? Ecco, la contraddizione su cui punta il dito: non autorizza infatti una critica radicale del sistema, né sconfessa chi si occupa del suo lavoro. Vuole fare altro, ma perché? Forse ritiene che la crisi economica globale, pur non toccando personalmente lui o altre grandi celebrities, non offre più spunti per una critica in controluce. Ma l'arte ha sempre fatto questo, anche quando era parte integrante dell'iconografia, pensiamo a Caravaggio, ma anche a Pontormo, Michelangelo, Leonardo, Tiziano..., tutti hanno svelato la contraddizione col potere di papi e principi che pure erano i loro committenti. E ora i committenti chi sono? È semplicistico pensare che sia il sistema dell'arte, la funzione politica oggi è sostituita dalle multinazionali che decidono ciò che i paesi grandi e piccoli non riescono più a fare. Ebbene questa crisi che coinvolge soprattutto

Maurizio Cattelan, “Untitled”, 2001 Wax, pigment, human hair, fabric, and polyester resin, 150 x 60 x 40 cm © Maurizio Cattelan. Photo: Attilio Maranzano. Courtesy the artist

l'Occidente è decisamente più influente del mercato dell'arte e allora che fare? Resistere e aspettare tempi migliori, contrapporsi e candidare regole che riportino una spartizione più equilibrata dentro il sistema dell'arte? Un questione che prima o poi si dovrà affrontare. Ma Cattelan fa intravedere lo stadio precedente, quando non è ancora riconoscibile il cambiamento, perché come diceva Gertrude Stein nel 1938 "Il creatore è il primo fra i contemporanei a essere consapevole di quello che sta succedendo alla propria generazione" (G.S. Picasso, ed .it Adelphi 1973, p 63). Il tempo ci dirà se questa ipotesi sarà una svolta rispetto all'attuale sistema dell'arte e della comunicazione, peraltro ben più complesso e decisamente meno utopico, di quello dell'epoca di Picasso. Da un lato sembra il necessario passo indietro per riposizionare uno sguardo prospettico sulle cose e sulle idee, dall'altro evoca quella reazione che Anna Achmatova aveva di fronte a una nuova opera: "Ero lì, lì per farlo anch'io!" Del resto la direzione della vita non si trova mai una volta sola e, quando la si cambia, ognuno è tentato di dire: ero

lì, lì per farlo anch'io. Mi rendo conto che nel gioco delle supposizioni attorno a Cattelan sono suggestionata a dire la mia. Ma di fronte a un'opera ognuno è legittimato a prenderla in parola, a fraintendere o ad azzeccare. Bisogna sempre augurarci che le letture siano molte, diverse, e perfino arbitrarie solo così possono intrecciarsi alla storia o agli eventi che avvengono nelle vite individuali. Questa è secondo me la partecipazione che l'arte induce e non coinvolge solo gli addetti ai lavori, ma chiunque abbia voglia di instaurare un dialogo con questo strano soggetto, che non è biologico, ma pur sempre messo al mondo da donne e uomini. L'ho detto più volte: l'arte non è un oggetto da osservare, leggere, studiare, ma un soggetto con il quale spartire affetti, emozioni, contrasti. Allora questa mostra “All” del Guggenheim è un'opera totale che firma la sua esperienza e accompagna la sua volontà di procedere altrove. Non tutti abbiamo alle spalle un corpus di opere ed esperienze da permetterci di spiccare il volo verso altri lidi, né tanto meno da essere esposti nel museo più simbolico del mondo per quanto riguarda la rivoluzione architettonica.


arskey/Art | Maurizio Cattelan - All

Maurizio Cattelan, “We”, 2010 Polyester resin, polyurethane, rubber, paint, human hair, fabric, and wood, 68 x 148 x 78.7 cm © Maurizio Cattelan. Photo: Pierpaolo Ferrari. Courtesy the artist

Però tutti ci troviamo, ogni giorno davanti alla scelta di accettare quanto si è fatto, di riconoscergli il valore effettivo e capire che non vogliamo ripeterci, ma neppure tralasciare il proprio passato. Vale per le opere, i giorni, i sentimenti, le novità. Mi si dirà che sono troppo ottimista, che non tengo conto del cinismo, della mossa del cavallo, della tempestività di entrare e uscire dal sistema che caratterizza l'opera di Cattelan. Riconosco tutti questi suoi comportamenti, mi provocano, ma non mi fanno venir voglia di dire "ero lì, lì per farlo anch'io". Mentre, la sua decisione di annunciare l'uscita da questa scena in concomitanza con la mostra al Guggenheim, Sì. Mi piace l'utopia di reinventarsi la vita, mi fa sperare che Cattelan veda in anticipo un cambiamento in cui saremo coinvolti anche noi, anche se non sappiamo né come, né quando avverrà, esattamente come lui non ci ha detto esattamente cosa farà dopo "l'ultima mostra". Al Guggenheim compie un gesto felice e semplice, l'uovo di Colombo: prende in parola Frank Lloyd Wright e libera le sue meravigliose rampe, le mette in primo piano nude ed essenziali e asseconda il gesto che esse indicano:

affacciarsi sul vuoto, lasciarsi prendere dal vortice di questa spirale e guardare in faccia la vita e l'opera di Cattelan. Camminando lungo le rampe lo sguardo è frontale e ravvicinato rispetto ad alcune opere, ma anche in profondità. Si vedono dall'alto al basso e viceversa e attraverso: è la sedimentazione di una creazione, ma anche la vertigine tipica dei sogni di vedere dentro la terra, dentro una specie di sacello e riconoscere i segni sovrapposti delle opere. In questo senso c'è il legame tra la vita e la morte, e la sentenza di Fontana appare: "l'arte è sempre mortale, prima o poi arriverà il momento della sua distruzione materiale, eterno è il gesto!" Così il gesto più rivoluzionario dell'architettura e quello dell'arte acquistano la loro eternità. Ma il ricordo di Fontana non sta solo in questa sua sentenza, penso al neon 'appeso' sopra la grande scala della Triennale, così Fontana costringeva a guardare in alto ad assecondare la salita e la discesa dei gradini, Cattelan fa un'operazione speculare, lascia libere le scale per creare un reciproco scambio tra lo spazio definito dall'architettura e quello delle opere, appese

nella tromba delle rampe. Lascerà un segno indelebile, chiunque volesse riutilizzarlo farà venire in mente Lui (ecco la mossa che perpetuerà la sua arte), ma nello stesso tempo apre una possibilità immaginativa per altre installazioni. Appendere le opere è un modo originale di creare uno spazio trasparente in cui poter vedere in modo sincronico le opere, quando si guarda in faccia una persona si avverte, magari in modo inconsapevole, una densità di pensieri che compongono la fisionomia in quel momento, così le opere di Cattelan contribuiscono a creare un autoritratto a tutto tondo. A volte sono in primo piano i poliziotti “Frank and Jamie” (2002) che pendono liberi nel vuoto, a volte la “Nona Ora” (1999), che poggia su una piattaforma in basso, praticamente sopra le teste dei visitatori, “Novecento” (1997), il cavallo, già nato per essere appeso, si libra sul vuoto. Su una piccola piattaforma, quasi al centro di queste sviluppo di corde, ecco “Him”, (2001), poi scopriamo la mano mozzata in lattice “Untitled” (2009) da cui nasce di “L.O.V.E”, 2010 davanti alla borsa di Milano, che ancora crea discussioni. Mentre “Now” (2004) Kennedy, scalzo


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Maurizio Cattelan, "Him", 2001 Polyester resin, wax, pigment, human hair, and suit, 101 x 41 x 53 cm © Maurizio Cattelan Photo: Paolo Pellion di Persano, courtesy the artist

nella bara, è ben visibile. Una dedica a un'America che oggi non c'è più? Probabile. Un po' più in alto ecco, “We” (2010), il doppio Cattelan composto su un letto, che ci fa venire in mente sia Boetti che Gilbert and George. A diverse altezze vibrano i quadri “Zorro” (1996) con il taglio Z ( altro richiamo a Fontana), in vari colori. Poi gli occhi incrociano la firma al neon “Cattelan”, (1994), oppure la cometa con la stella a cinque punte Br (Christmas, '94 – '95 – '96- '97), l'asino seduto, o che tira il carretto,

“Untitled” (2002, 2004); “Not Afraid of Love” (2000) l'elefante incappucciato da un lenzuolo, “Bidibidobidiboo” (1996), “Charlie don't surf” (1997) e anche la singola mano in lattice trafitta da una matita (“Untitled”, 1997), che si appoggia su una piattaforma di un'altra opera. I bambini sono appesi, al naturale senza piattaforma (“Untitled”, 2004). Insomma 'Tutto' in sospensione e intrecciato, come nella vita e anche nella trama e ordito degli arazzi Tutto di Boetti. Questo libero e autonomo

riferirsi alla storia dell'arte contemporanea è una sigla del lavoro di Cattelan. Il catalogo curato, come la mostra, da Nancy Spector, ci strappa un altro oh di sorpresa: è in pelle rosso scuro, scritto in oro ed evoca le bibbie che si trovano negli alberghi in USA, un'autoironia, ma anche il Libro con la Maiuscola che dalla religione passa alla vita quotidiana. E non è un caso che attorno a questa mostra ci sia un proliferare di pubblicazione: il numero speciale di Abitare, “Beeing Cattelan”,


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Maurizio Cattelan, “La Rivoluzione siamo noi”, 2000 Polyester resin, wax, pigment, felt suit, and metal coat rack, figure: 123.8 x 35.6 x 43.2 cm; coat rack: 189.9 x 47 x 52.1 cm Courtesy of the artist. © Maurizio Cattelan Photo: Attilio Maranzano

a cura di Paola Nicolin; Maurizio Cattelan con Catherine Grenier, “Un salto nel vuoto, la mia vita fuori dalle cornici”, Rizzoli; la traduzione italiana del catalogo del Guggenheim edita da Skira; Francesco Bonami, “Strade Blu, autobiografia di Maurizio Cattelan”, Mondadori. La struttura che regge le opere è un disegno dove si alternano corde di varie circonferenze e piattaforme di forme e materiali diverse, mentre l'idea di appendere le opere è interna a molte opere. Ma forse quest'idea di usare la tromba delle rampe ha un antecedente. Nel 1994 con Giorgio Verzotti abbiamo curato al Castello di Rivoli, una collettiva internazionale di artisti a quel tempo emergenti dal titolo "SoggettoSoggetto", ci avevamo azzeccato sono

diventati quasi tutti delle star. C'era anche Maurizio e aveva realizzato per l'occasione il tappeto "Belpaese". L'installazione era quasi finita, il "Belpaese", campeggiava all'inizio del percorso nella prima sala al secondo piano. Maurizio era andato in albergo. L'inaugurazione ci sarebbe stata due giorni dopo, non eravamo particolarmente tesi. Verso le 7, mi chiama al telefono. "Francesca devo dirti una cosa difficile, non so come fare, ma se non puoi, rinuncio alla mostra". "Dai, non può essere così grave, parla". "Non voglio mettere il tappeto nella sala, ma al pianterreno nell'ingresso". "Ma sta così bene dov'è, e poi apre la mostra". "No, lì non funziona, perde valore,

davvero, se per te è un problema, io rinuncio a esporlo". "Non se ne parla neanche, fammi andare a vedere". Mi sono affacciata alla ringhiera ho guardato giù e l'ho visto! Aveva ragione. Ida Gianelli non aveva affatto preso bene questa richiesta, ma quando l'ho portata in cima alle scale e ha guardato in basso, si è convinta e ci ha dato ragione. Un aneddoto che indica quanto, dietro il suo scanzonato understatement, ci sia in realtà una visione precisa e approfondita. Fin da allora ho deciso che Maurizio va sempre preso in parola. Lo aspetto alla prossima iniziativa e complimenti alla sua emozionante opera che ci ha mostrato nel più bel museo del mondo.


arskey/Art | La luce artificiale nell'arte del Novecento

LA LUCE ARTIFICIALE NELL'ARTE DEL NOVECENTO

LE ORIGINI DELLA LIGHT ART di Silvia Ferrari Lilienau

Picasso space drawing the Minotaur, by Gjon Mili, 1949

Se si riflette sull'impiego della luce artificiale nell'arte del Novecento, il pensiero corre veloce alla visione spaziale di Lucio Fontana sospesa sullo scalone della Triennale milanese del 1951, al minimalismo delle installazioni di Dan Flavin, all'Arte Povera degli igloo e delle serie di Fibonacci di Mario Merz. Tuttavia, come spesso capita nella storia dell'arte, le soluzioni più audaci sono state anticipate da sedimentazioni sperimentali costituitesi humus vitale. Può dunque accadere che sembri di nuovo conio quanto invece dotato di già robuste radici: la sintesi di esperienze pregresse, amplificata e perciò più impositiva, o il pondus originario convertitosi in altro, nel farsi nuovo della storia. Questo il caso della luce nell'arte, legatasi al colore e al suono nella musica cromatica, a partire dalla fine dell'Ottocento, quando l'elettricità si costituì strumento ad ampio spettro. Pioniere in tal senso fu Alexander Wallace Rimington, professore di Belle Arti al Queen's College di Londra, che nel 1893 inventò il Colour-Organ: fonte luminosa e fonte sonora rimanevano

distinte, e però si associavano nell'effetto finale1. L'esecuzione di una partitura musicale a cui corrispondesse l'emissione di luce colorata ribadiva l'anelito al Gesamtkunstwerk e la tensione spirituale che percorrevano la cultura simbolista, alimentata anche dalla ricerca sulla scomposizione cromatica che Pointillisme e Divisionismo andavano conducendo. Nel moltiplicarsi di esperienze simili, si dovette tuttavia presto constatare che la musica cromoluminosa finiva per risultare monotona, e persino dispersiva, il colore proiettato sottraendo attenzione al brano musicale d'accompagnamento. Il famoso “Clavilux”, creato nel 1922 da Thomas Wilfred, trasmetteva luce ormai indipendente da partiture musicali. I tempi erano infatti maturi perché la luce rinunciasse alla nicchia di vaporose proiezioni cromatiche e divenisse segno. Il cinema d'avanguardia si offrì recinto di prova, da subito dimostrandosi sensibili i futuristi Bruno Corra e Arnaldo Ginna2; il decollo della sperimentazione fu tuttavia registrabile in Germania nei primi anni Venti, con

Viktor Eggeling, Hans Richter e Walter Ruttmann. Eggeling e Richter vicini all'astrazione geometrica, Richter, in particolare, interessato a imprimere movimento a figure di ascendenza costruttivista (“Rhythmus 21”, 1921), mentre Ruttmann da subito più biomorfico e sensuale (“Opus 1”, 1921). Scivolando su un binario parallelo, la manipolazione artistica della luce trovava intanto un'atmosfera quasi alchemica nel Bauhaus, fucina dell'astrazione europea che non disdegnava la produzione seriale: il Bauhaus vide crescere il “Modulatore di spazio e luce” di Moholy-Nagy (1922-1930), capace di proiettare ombre variate, in movimento, a seconda della fonte luminosa con cui interagire; al Bauhaus si accesero di riflessi metallici i balletti di Oskar Schlemmer (“Metalltanz”, 1928-1929). Nel rarefarsi della ricerca purista, soprattutto il cinema popolare e documentario, speciale miscelatore di arti, si fece allora spazio di ibridazione in cui avanguardia e quotidiano potessero incontrarsi, l'uno assorbendo l'altra per restituirne una versione infine


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la visione cosmica del secondo Futurismo si legava alle morbidezze surrealiste conFluendo nell'esperienza di abstraction-création

Fritz Lang, “Metropolis”, 1927 Frame da video

estendibile al design, di per sé più pragmatico e a quel quotidiano funzionale. Così in “Metropolis” di Fritz Lang, del 1927, con le reiterate spirali di luce nel laboratorio dello scienziato Rotwang, che si fanno anelli luminosi durante l'attivazione dell'automa, sino a stabilirne il flusso vitale interno che precede il suo animarsi. Ancora, la celebrazione delle insegne pubblicitarie scintillanti e dell'illuminazione notturna de “Les nuits électriques” di Eugène Deslaw, del 1928, che a tratti si compone in vere e proprie pagine parolibere futuriste. Deslaw era, d'altra parte, in stretto contatto con i futuristi a Parigi, da Luigi Russolo - che per esempio accompagnava al Rumorharmonium il suo film “La Marche des machines”,

presentato allo Studio 28 - a Enrico Prampolini e Pippo Oriani3. Frequentazioni oltremodo interessanti in un momento in cui, proprio a Parigi, la visione cosmica del secondo Futurismo si legava alle morbidezze surrealiste confluendo nell'esperienza di Abstraction-Création, breve ma fondamentale per i primi passi dell'arte organica a venire. Questo infatti il sapore dell'installazione audiocinetica di Zdeněk Pešánek sul tetto del trasformatore di energia elettrica Edison di Praga, nell'inno alla corrente che è il cortometraggio “Světlo Proniká Tmou (Una luce brilla nel buio)”, del 1931. Quando attivata, la scultura si illuminava di luci gialle, rosse, blu4, e suggeriva l'idea di una forza di potere permutativo universale, nelle volute e

nelle ali che attingevano alle coeve modalità iconiche futuriste, a loro volte nutrite delle precoci prove scenografiche di Giacomo Balla, già prodigo di effetti luminosi nel “Feu d'Artifice” di Stravinskij, del 1917. Essa trovava poi conferma in alcune fontane progettate da Pešánek per l'Esposizione Universale di Parigi del 19375: sagome umane, come trattenute entro matrici cavernose, venivano attraversate da tubi al neon, scoprendo un linguaggio artistico aggiornato, tra primordialità surrealista, ideale unione di cielo e terra che soprattutto Prampolini andava allora perseguendo, e aggiunta di luce artificiale a percorrere l'insieme, tutto annodando in una continuità indissolubile. Complice il Surrealismo, il confronto - 23 -


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Zdeněk Pešánek, “Pesanek1936ElectricSculpt” light-kinetic sculpture for the building Elektrických podníků města Prahy (model), 1936, sádra, kov, sklo, umělá hmota, neon, drát, barva, keramika, v. 110, š. 45, h. 55 cm. NG Prague. Source: Dějiny českého výtvarného umění IV/2.

con la luce sarebbe proseguito autonomo con i “rayogrammes” di Man Ray dedicati alla Electricité, su su fino al disegno luminoso nell'aria tracciato da Picasso, che Gjon Mili fermò in fotografia nello studio di Vallauris, nel 1949. L'ultima tessera del mosaico luminoso della prima metà del Novecento sembra essere il design, e i passi manifestano una loro logica direzionale, procedendo dalla ricerca pura del contesto artistico stricto sensu, al cinema in grado di mescere livello sperimentale e immaginario collettivo, fino all'oggetto d'arte di utilità impiegabile. Due figure di artisti e designer si distinguono specialmente, anche per il ponte che ven-

gono a creare con gli esiti successivi. Anzitutto Isamu Noguchi, che nel 1946 rese 'elettrica' la musa della danza contemporanea Martha Graham nei panni di Medea, in “Cave of the Heart”: non fu allora neppure necessario ricorrere esplicitamente a inserti luminosi, bastando allo scopo i fili metallici guizzanti, protesi come fronde d'albero. Esperimento peraltro avviato alla fine degli anni Venti, con il modello per la scultura “Power House” fotografato e mostrato in negativo, per evocare l'effetto finale introdotto dalla sostituzione dello zinco con un tubo al neon. Noguchi era a Parigi nel 1927, e le sue frequentazioni artistiche contemplavano anche

Alexander Calder, che Noguchi di tanto in tanto aiutava a realizzare figurine in fil di ferro, per il suo “Cirque”: sotto l'influenza del Picasso dei primi Venti, poco prima che Mondrian lo folgorasse6. Nel 1928, Noguchi giustapponeva un tubo metallico anche al “Red Seed” scolpito nel legno, animando di vibrazione la forma calda del seme, già imbevuto delle rotondità di Jean Arp. È assai probabile che ogni filo o tubolare piegato a irregolarità fremente rimandasse all'idea della luce, poco importava che poi luce fosse davvero; anzi possibile che la soluzione riducesse i costi senza impoverire il concetto. Luce invece imprescindibile per Noguchi nelle più tarde installazioni 'lunari', le cavità irregolari pensate come fonte di illuminazione, dal soffitto realizzato nel 1948 per la sede dell'American Stove Company, a St. Louis, alla scultura animata da gibbosità e rientranze, “Lunar Voyage”, collocata a parete sulla nave da crociera S.S. Argentina. Tra organi di luce e pellicole luminose, neon veri e fittizi a confrontarsi con scultura e architettura, emerge infine Luciano Baldessari, dagli esordi futuristi, con la sua lampada “Luminator”, del 1929. In essa, il cilindro di base e il cono rovesciato che contiene la lampada sono congiunti da un tubo di andamento quasi spiralico, in un omaggio a eliche, avvitamenti, spazi infiniti e luminosità siderali. Proprio Baldessari sarà chiamato a progettare l'atrio e lo scalone d'onore della Triennale del 1951, in cui Fontana tradurrà in sinuosità organiche le ricerche internazionali dei tre decenni precedenti. Il cerchio lì non si è chiuso, avendo presto introdotto a un nuovo, ampio percorso a esso concentrico, che sconfina - toccando il presente negli ambienti luminosi di James Turrel e di Olafur Eliasson. 1- La descrizione dello strumento e delle teorie che l'accompagnavano nel libro di Rimington pubblicato nel 1911, Colour-Music: the Art of Mobile Colour; cfr. Kenneth Peacock, Instruments to Perform Color-Music: Two Centuries of Technological Experimentation, in 'Leonardo', vol. 21, n. 4, 1988, pp. 401-402. 2- Di Corra Cinema astratto-Musica cromatica, pubblicato nel 1912 (in Futurist Manifestos, a cura di Umbro Apollonio, London, Thames and Hudson, 1973, p. 67). 3- Si veda a tal proposito: Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista, Milano, Skira, 2001, pp. 118-120. 4- Cfr. Jaromir Fiala, On my Work with the Pioneer of Kinetic Electric Light Art Zdeněk Pešánek (1896- 1965): A Memoire, in «Leonardo», vol. 13, n. 3, 1980, pp. 182-185. 5- Peter Weibel, The Development of Light Art, in Light art from artificial light: light as a medium in 20th and 21st century art, a cura di Peter Weibel e Gregor Jansen, Ostfildern, Hatje Cantz, 2006, p. 113. 6- Cfr. Isamu Noguchi, A Sculptor's World, Göttingen, Steidl, 2004², p. 18; e anche:Joan Simon e Brigitte Leal, Alexander Calder: the Paris years 1926-1933, New York, Whitney Museum of American Art; Paris, Centre Pompidou; New Haven, Yale University Press, 2008.


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LOOkING bACk

IL CANONE DELLA CONTEMPORANEITà: I MAGNIFICI ANNI CINqUANTA di Valentina Mariani

Mentre negli Stati Uniti impazzava l’Action Painting di Jackson Pollock - rottura radicale con i linguaggi artistici fino ad allora sperimentati -, un’Europa da ricostruire, sconvolta dalle ferite della Seconda Guerra Mondiale, smarrita e alla ricerca di risposte, muoveva i primi passi all’interno di un dibattito ideologico che, trascinatosi per un decennio come contrapposizione tra figurativismo e aniconismo, tra contenuto e forma, vide uscire vincitore il nuovo movimento dell’Arte Informale. Denominazione nata a Parigi nel 1951, dalla penna del critico d’arte francese Michel Tapié, andava a radunare sotto un unico termine una compagine di espressioni singole, nella maggior parte dei casi scaturite dall’estro individuale e manifestazione delle pulsioni inconsce dell’artista. Semplificando la questione, si potrebbero individuare due correnti, all’interno delle quali collocare gli artisti: una gestuale, legata al segno, e una più propriamente materica. Spirito di ribellione nei confronti dell’insorgere delle nuove tecnologie, genitrici di una società alienata e fredda, recenti ferite inferte dalla guerra e volontà di rompere gli schemi precostituiti di una tradizione lunga secoli, che nel tempo si era evoluta, ma mai era radicalmente mutata: tutti questi elementi condussero gli artisti europei alla creazione di opere nuove. Informali non perché prive di forma, ma in quanto proposta di soluzioni for-

Mimmo Rotella, "Marilyn" decollage su cartone cm 70x50 Casa d'asta Poleschi Data dell'asta mercoledì 16 novembre 2011

mali innovative, che nulla avessero da spartire con il figurativismo o con l’astrattismo. L’artista esprimeva attraverso il colore e con segni dettati dall’impulso un sentimento interiore, rifuggendo qualsiasi accenno alla sfera razionale e attingendo alla qualità emotiva della materia. La materia diveniva, nelle mani degli artisti, protagonista di un gioco emozionale che ne scavava le proprietà e le potenzialità: cernita e ideazione di nuovi accostamenti e di nuove modulazioni, introduzione di materiali tratti dalla quotidianità generarono, nel panorama artistico degli anni Cinquanta e Sessanta, orizzonti prima impensabili. L’esperienza degli artisti di allora, che contribuirono con il proprio lavoro alla costruzione di quegli inaspettati orizzonti, ancora oggi, a sessant’anni di distanza, rimane un punto di riferimento imprescindibile e attuale,

nonostante il centro propulsore del rinnovamento artistico si sia poi gradualmente spostato, proprio a partire da quegli anni, negli Stati Uniti. Anche l’Italia, ai tempi, si trovava coinvolta e partecipe di questo turbinio entusiasmante di modernità e ricerca, sulla scia di un movimento che era letteralmente tale, perché davvero stava mettendo qualcosa in moto. Grande esponente dell’arte informale fu, ad esempio, Emilio Vedova, che a partire dal 1961, lavorò al ciclo dei “Plurimi”, incontro di pittura, scultura e architettura in pannelli lignei dipinti e graffiti, assemblati in intricate composizioni, che occupavano con estrema libertà lo spazio, offrendo mutevoli e coinvolgenti punti di vista allo spostarsi dello spettatore. Ma in Italia, dove il dibattito artistico, concentrato in modo quasi irremovibile sulla polemica tra l’astrattismo e il realismo sostenuto dal Partito Comunista, rischiava di opprimere la creatività e l’estro di pittori e scultori; risaltano soprattutto i nomi di coloro che, in qualche modo, riuscirono a divincolarsi dall’annosa questione, porgendo risposte personali e uniche. Da un lato Alberto Burri e la sua poetica della materia; dall’altro Lucio Fontana e la nascita dello Spazialismo. Affini a quel movimento informale, che come si è detto non è riducibile a definizione, entrambi misero in luce possibilità sconosciute del linguaggio artistico. Se il ricorso a oggetti e materiali di recupero adottato da Burri ebbe indubbie ascendenze - 25 -


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la smitizzazione della sacralità dell’arte, la sFrontatezza e il successo sul mercato sono le Forze motrici della produzione artistica odierna

Mimmo Rotella, "Deliziose", 2005 decollage su tela cm 140x100 Casa d'asta Poleschi Data dell'asta mercoledì 16 novembre 2011

dada, l’introduzione di un impianto geometrico, il rapporto ambiguo tra opera d’arte e realtà e, infine, la forza espressiva del 'vissuto' di cui gli oggetti adoperati sono carichi, fecero di opere come “Sacco e bianco” (1953) o “Rosso Plastica” (1964) dei suggestivi specchi dell’irrimediabile degrado della materia. Lo Spazialismo di Fontana, invece, infranse l’illusione che da sempre le opere dipinte generavano, riproducendo in una dimensione piatta il reale. Non solo lo scopo del quadro non era più l’imitazione della natura, né tanto meno una sua trasfigurazione, ma il quadro stesso diventava mezzo di comunicazione tra lo spazio reale e quello che, attraverso i “Tagli “(o “Attese”, o “Concetti spaziali”) si apriva al di là della tela. Frutto di una trovata contaminazione tra neodadaismo e collage cubista furono il décollage e il doppio décollage di Mimmo Rotella: reinvenzione

del ready-made attuata negli anni Cinquanta, che lo portò a un felice sodalizio con Pierre Restany e con il Nouveau Réalisme, al sorgere del decennio successivo. La querelle tra astrattismo e realismo, cui si accennava prima, vantò un grande protagonista sul fronte dell’arte figurativa: pittore impegnato anche sul fronte critico e teorico con i suoi articoli e saggi, Renato Guttuso fu il più grande autore del Realismo italiano. Il suo linguaggio universalmente fruibile era teso alla composizione di opere che raccontassero l’attualità e la vitalità della modernità, attirando e coinvolgendo lo spettatore in un’epoca di ritrovata energia. Guttuso prediligeva un’arte che fosse anche strumento di un deciso impegno sociale, che narrasse l’entusiasmo e la creatività della gioventù e di quegli anni; un’arte che, per stilemi e ispirazione, si contrapponeva decisamente all’astrattismo e

Emilio Vedova, "… in continuum", 2011 Studio Vedova, Zattere 50, Venezia

al movimento informale. Per quanto riguarda la scultura, risultano meno dirompenti nei confronti del passato le opere di artisti come Marino Marini o Giacomo Manzù. Il primo erede di Arturo Martini e grande conoscitore della plastica antica, il secondo formatosi sul modello di Medardo Rosso, entrambi furono portatori di una certa idea di 'ritorno all’ordine', piuttosto che di stravolgimento della tradizione e per questo erano ancora legati a una dimensione 'monumentale' dell’opera scolpita. Non mancarono tuttavia punti di svolta. Ettore Colla, ispiratosi prima della guerra all’esempio di Arturo Martini, si aprì in seguito all’astrattismo e dagli anni Cinquanta si dedicò alla creazione di opere scultoree nate dall’assemblaggio di detriti meccanici: interpretazione dell’objet trouvé, privo della vena dissacratoria, ma carico di nuovi significati simbolici, quasi dei totem contemporanei.


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Alberto Burri, "Sacco Nero", anni ’50 sacco, oro, vinavil su tavola, cm 26x34 Courtesy Mazzoleni Galleria d’Arte, Torino

Figura stravagante, ma altrettanto importante, nel panorama della scultura italiana fu poi quella di Fausto Melotti. Dopo aver aderito al costruttivismo negli anni Trenta e aver interrotto la propria produzione per un lungo periodo, elaborò un linguaggio astratto-geometrico, ispirato alla musica e alla matematica. A esso Melotti alternava la produzione di opere immaginifiche, sculture simbolico - allegoriche pervase di magia e di fantasia poetica. Una citazione, in questa panoramica (di certo non esaustiva) sull’arte degli anni Cinquanta in Italia, meritano anche il Gruppo T e il Gruppo N, di Milano e di Padova, esponenti dell’Arte Cinetica e Programmatica. Le loro esperienze, sulla chiusura del decennio, si contrapponevano all’Informale e proponevano nuove forme di arte, che rinnovavano il rapporto con la progettazione, la scienza e la tecnologia. La ricerca di questi artisti era basata su un ritorno alla razionalità progettuale, con l’introduzione del movimento reale o virtuale - e del coinvolgimento interattivo dello spettatore. Su un altro versante si collocava invece, con la sua celebre “Merda d’artista” (1961), Piero Manzoni, che pur non aderendo mai ufficialmente al

Nouveau Réalisme, condivideva con il movimento francese l’ascendenza dadaista e lo spirito dissacratorio, che facevano del ready-made uno strumento di polemica nei confronti del consumismo e della civiltà industriale. Il barattolo manzoniano racchiudeva e rappresentava già allora molta di quell’arte che ancora oggi spopola e fa notizia: la provocazione, la smitizzazione della sacralità dell’arte, la sfrontatezza e il successo sul mercato sono - da allora - forze motrici di molta della produzione artistica odierna. La seconda metà del secolo scorso ha visto un’accelerazione incredibile nell'introduzione di nuovi materiali e nell’invenzione di tecnologie che hanno aperto nuove possibilità. Eppure, nonostante questo, a volte si prova la sensazione che non ci sia stata un’evoluzione del panorama artistico, da allora, ma che piuttosto ci si sia incagliati in una sorta di nuovo manierismo. I grandi maestri paiono essere proprio quelli citati, coloro che all’uscita dalla guerra hanno rivitalizzato l’arte e modellato nuovi linguaggi, sfruttando materiali prima ignorati, sfondando confini che apparivano insormontabili. C’è come un senso di torpore, una sensazione di 'già visto', in molta dell’arte di oggi. Quali,

dunque le possibilità per un risveglio? Nessuna nostalgia. Prima tra tutte, il racconto. Se fare arte è anche raccontare, come credo sia, allora essa va sfruttata a questo scopo, tanto più in un mondo globale e sconfinato, in cui il potere evocativo dell’immagine, tanto usata per la pubblicità e il sensazionalismo, non è ancora sempre in grado di mostrare. Che proprio questa sia una potenzialità del XXI secolo lo dimostrano alcuni dei padiglioni nazionali della 54a Biennale di Venezia: penso agli artisti presenti nel padiglione Egitto o Iraq, che con sincerità, ma anche con ottima tecnica, hanno presentato un racconto efficace della propria realtà. Infine, i mezzi che nella contemporaneità sembrano godere di maggiore libertà e racchiudere in sé potenzialità non ancora del tutto esplorate, sono certamente la fotografia e il video, capaci di stabilire un dialogo immediato con una società che ne fa un uso quotidiano, forse anche inconsapevole. Il racconto e le videotecnologie potrebbero essere ingredienti per una nuova narrazione artistica, depurata dalla spettacolarizzazione e dalle logiche di mercato, che fanno di un’opera un prodotto e non un bene comune. - 27 -


arskey/Art | Intervista a Italo Tomassoni

CATALOGO RAGIONATO DI GINO DE DOMINICIS

INTERVISTA A ITALO TOMASSONI di Annalisa Pellino Da un’intervista a Italo Tomassoni, autore del catalogo ragionato su Gino De Dominicis - edito di recente da Skira ‒ alcune note interessanti sull’opera e l’eccentrica figura dell’artista marchigiano …

Gino De Dominicis “Il guardiano dell’opera (Diavolo rosso)”, 1985 tempera e creta su tavola, 270 x 210 cm

Annalisa Pellino: Prof. Tomassoni, quando ha cominciato a lavorare a questo catalogo? Italo Tomassoni: Il lavoro del Catalogo ha coinciso sostanzialmente con la sistematizzazione e la raccolta dei materiali del mio archivio. Dunque è iniziato subito dopo la sparizione di Gino. A.P: La conoscenza diretta di Gino De Dominicis e dei suoi eredi l’avrà sicuramente aiutata in questo difficile compito di documentazione. Ma quanto è stato complesso il lavoro di recupero e organizzazione dei materiali utili a ricostruirne l’opera e la figura, forse fra le più ermetiche del secondo

Gino De Dominicis “Il tempo lo sbaglio lo spazio”, 1969 Scheletro umano, scheletro di cane, pattini a rotelle, guinzaglio, asta in metallo dipinta, 4 x 2,20 circa x 1,70 m Collezione Lia Rumma, Napoli

Novecento italiano? I.T: Si è trattato di un lavoro complesso reso difficile anche dalle resistenze del sistema che si sono sciolte soltanto negli ultimi mesi. A.P: Non ritiene che tale documentazione, e con essa la riproduzione fotografica delle opere, - di cui De Dominicis, lo ricordiamo, non riconosceva la validità - possa in qualche modo violare quello splendido isolamento strenuamente ricercato dall’artista in vita? I.T: Con l’artista non si è mai parlato di un catalogo. Egli però da tempo mi aveva chiesto di scrivere un saggio su di lui per il quale, fino alla fine, era

indeciso se inserire o meno fotografie che peraltro, non riguardavano necessariamente opere ma argomenti vari soprattutto di storia e di geografia. Gino fece rilegare un grosso volume (che chiamava 'librone') che doveva servire da modello per il saggio e raccolse una quantità enorme di materiali iconografici che conservava in una valigia di metallo. Alla sua morte distrusse il contenuto di quella valigia. Salvò invece il 'librone' che insieme ad altri suoi oggetti d’affezione conservo. Nel frattempo avevo terminato di scrivere il saggio che fu approvato dall’artista dopo estenuanti e intensi confronti sui contenuti. Conservo l’unico


arskey/Art | Intervista a Italo Tomassoni

vista espositivo, quanto da quello delle regole del mercato dell’arte, così come sostenuto da Giancarlo Politi? O non crede piuttosto che l’alone di leggenda che circonda questa figura abbia invece contribuito a far salire le quotazioni della sua opera, che per l’appunto non sembrano seguire le dinamiche tipiche del mercato dell’arte? I.T: La difesa del pensiero e della precisa volontà dell’artista mi obbligava ad arginare, anche con iniziative legali, l’indiscriminata pubblicazione delle immagini della sua opera. Si è trattato di una strategia difficile e impopolare che è risultata vincente sia sotto il profilo dei riscontri culturali che delle quotazioni delle opere sul mercato. A.P: A proposito dell’estraneità di De Dominicis alla logica comunicativa e presenzialista del sistema dell’arte, come giudica il suo rifiuto di parteciGino De Dominicis “L’artista e il suo doppio”, anni Ottanta pare a eventi prestigiotecnica mista su foto, 23,5 x 36 cm si quali Documenta a Collezione privata, Tezze di Arzignano Kassel nel 1985 e la Biennale di Venezia del 1990? Perché proprio in queste occasioni? I.T: Gino ha rifiutato Kassel e la Biennale di Venezia perché non condivideva i criteri critici che informavano le curatele di quelle mostre. Non accettava, in sostanza, che le opere degli artisti venissero usate dai curatori come mezzi per illustrare le loro tesi. A.P: Gino De Dominicis tendeva a marcare la differenza fra le arti figurative propriamente dette e la 'performance', che invece considerava un linguaggio più teatrale. Si definiva infatti pittore, scultore e architetto, anche se paradossalmente è noto ai più proprio per le sue azioni più o meno spettacolari. Ricordiamo, solo per citarne qualcuna, quella del 1968 alla Gino De Dominicis, "Senza titolo (I gemelli)", 1973 Persone viventi. fotografia, 14 x 14 cm guida di un trattore con Collezione Silvio Sansone, Salerno tanto di copricapo Curtesy Lia Rumma indiano, ali e un estinoriginale con una serie di interventi, correzioni e aggiunte di mano autografa di Gino. È un documento eccezionale. Non ho intenzione di pubblicarlo. A.P: Ritiene che fino a oggi la mancata autorizzazione da parte degli eredi a far pubblicare libri e cataloghi (rispettandone la volontà verrebbe da pensare) ne abbia collocato l’opera in un “cono d’ombra”, tanto dal punto di

tore da cui uscivano nuvole bianche, o ancora il cocktail romano del 1972 per festeggiare il superamento del secondo principio della termodinamica. Crede che ci sia contraddizione tra questo tipo di pratica che ha caratterizzato la sua carriera negli anni Sessanta e Settanta e la sua idea dell’arte come oggetto che non ha bisogno neppure dello spettatore, dell’opera come forma unica e irripetibile, unica soluzione all’irreversibilità del tempo? I.T: Non credo che Gino De Dominicis accordasse un significato particolare alla performance con il trattore di cui - almeno con me - ha sempre evitato di parlare. Invece sono rimasti storici i “Tentativi” e le “Soluzioni di immortalità”. Ma non si trattava di performance. L’attitudine di Gino tendeva all’immateriale, al simbolico e al filosofico; ben altro che la fisicità delle performance degli anni Settanta legate alle grammatiche corporali. A.P: C’è veramente differenza tra questo tipo di linguaggio e il ritorno alla pittura e al disegno degli anni Ottanta e Novanta (ritorno che mi pare non abbia nulla a che fare con quello trans avanguardistico)? O non c’è piuttosto una salda continuità tematica tra l’uno e l’altro periodo, riconoscibile nei ben noti temi cari a De Dominicis? (Mi riferisco all’idea dell’immortalità, alle varie immagini di uomini-uccello, alle figure mitologiche di Gilgamesh e Urvasi; o ancora, dal punto di vista stilistico, al rifiuto del sistema ortogonale e dello spazio euclideo). I.T: Non credo che per Gino De Dominicis si possa parlare di ritorno alla pittura. Tutte le sue opere sono sempre state oltre il linguaggio e ogni dato iconografico è sempre risultato perfettamente coerente con la sua visione immobile del tempo e della storia e con l’idea forte e misteriosa dell’immortalità. A.P: Nel catalogo c’è anche una sezione con documenti inediti e una parte dedicata ai suoi scritti… Ci darebbe qualche anticipazione? C’è in essi qualcosa che ritiene particolarmente significativo o utile a illuminare in qualche modo la figura di De Dominicis come uomo e come artista? I.T: Gino De Dominicis aveva atteggiamenti di particolare affezione per oggetti dei quali era gelosissimo e cui conferiva significati e valori apotropaici. Per esempio teneva vicino a sé i piccoli rulli della calligrafia sumera, alcune statuette mesopotamiche, la sfera di lapislazzulo e una piccola pietra di cristallo di Rocca. Gli scritti di Gino illuminano la sua poetica e la sua visione del mondo senza attenuare il mistero delle sue opere.


arskey/Art | Thomas Houseago

RACCONTI CONTEMPORANEI

UMANITà STRAORDINARIA E ODIERNA VIOLENzA L’ESTRO DI THOMAS HOUSEAGO di Laura Orlandi

Thomas Houseago, "Baby", 20092010. Tuf-Call, hemp, iron rebar, wood, graphite, and charcoal, 102 1/2 x 90 x 81 inches. Collection of the artist; courtesy Michael Werner Gallery, New York and Galeria Zero, Milan

Un semi giovane. Abbastanza adulto da saper seguire il proprio istinto e affrontare scelte coraggiose ma ancora ingenuamente ragazzino, cronista della propria realtà filtrata dalle pellicole fantascientifiche. Thomas Houseago, classe 1972, è ospitato in questi mesi a Venezia alla mostra “Elogio del Dubbio” al centro di arte contemporanea di Punta della Dogana e niente di meno che nelle sale della Saatchi Gallery di Londra, dove riempie un’intera sala con figure umane ieratiche che rimandano ad Antony Gormley. In laguna lo scultore scozzese è presente con “Bottle II (original)”, del 2010 un’opera che lavora sui volumi della figura, sul rapporto che si instaura tra la tridimensionalità delle forme e la bidimensionalità dei profili. Ne scaturisce un gioco continuo di scarti tra l’astratto e il figurativo, il finito e il non finito, la fisicità dell’oggetto e la vulnerabilità del materiale. La figura di “Bottle II (original)”, come il viso che emerge da “Decorative Panel (Wall Relief)”, 2011, hanno la capacità comunicare con le persone,

di raggiungere chiunque giocando entrambe su un senso di assurdità e di potenza. La passione per l’uomo e per la materia caratterizzano la ricerca di Houseago sempre più protagonista di esposizioni d’avanguardia che dettano nuovi confini per l’arte contemporanea. Un cammino interamente votato alla sperimentazione. Houseago dopo gli studi, che lo vedono seguire la lezione di artisti concettuali del calibro di Stanley Brouwn e Jan Dibbets, ha scelto Los Angeles come città in cui vivere e lavorare. E in America, dove si è stabilito nel 2003, produce con vigore mescolando fonti artistiche storiche - derivate da Michelangelo, Rodin, Jacob Epstein con il suo celebre “Rock Drill”, considerato un riferimento fondamentale a fenomeni musicali del calibro di John Lennon o dei trasgressivi Sex Pistols. Connubio di generi ai quali si aggiunge la passione cinematografica per le grandi saghe fantascientifiche, Star Wars in primis, e per i grandi film di guerra come “The Hurt Locker”,

passando da Uma Thurman e Klaus Kinski. La passione per la materia guida le mani dell'artista che non si limitano a manipolare l’argilla ma si prestano a intagliare il legno, a saldare alluminio, ferro e a fondere il bronzo. L’antico mestiere d’artigiano si tramuta in espediente per un linguaggio assolutamente moderno dove la contemporaneità in cui l’artista vive diventa unica fonte di sperimentazione. Il materiale che lo scultore lavora è solo un mezzo, non il fine dell’opera, che si estranea da qualsiasi forma di conformismo estetico o tecnico. Antiaccademico e innovatore, Houseago mette in crisi le basi stesse della scultura, lo spazio della figura, il volume, la monumentalità, il finito e l’incompleto. Difficile comprendere fino in fondo il legame tra le parti che pone in essere l’artista unendole in un corpo solo. Lo scultore spinge con forza sull’espressionismo quasi grezzo delle sue figure caratterizzate da una corporeità imponente e drammatica. Lo studio del corpo, matrice di tutta la


arskey/Art | Thomas Houseago

produzione dello scozzese, non scivola mai nella pura estetica della fisicità umana dalla quali anzi si distanzia consapevolmente. L’artista non produce una scultura tradizionale ma crea in seno alla tradizione: i rimandi culturali al passato sono evidenti così come i segni simbolici che introduce quasi a evocare un tempo remoto. Se in alcune sue opere è presente un legame con il padre del cubismo, bisogna anche saper superare l’influenza picassiana per scorgere i rimandi alla

cultura puramente fantascientifica di alcuni 'esseri' prodotti dallo scultore. Il perno del lavoro di Houseago è l’umanità odierna, la realtà politica attuale, l’insistenza - ancora oggi pressante - dei conflitti bellici e la violenza a lui vicina, quella delle strade di Los Angeles, che combatte attraverso la sua arte. Alla soglia dei suoi quarant’anni Houseago può già vantare un percorso espositivo di tutto rispetto con partecipazioni a importanti mostre in vari

luoghi d’Europa. Non mancano grandi gallerie come, solo ad esempio, David Kordansky a Los Angeles, Xavier Hufkens a Bruxelles, e Herald Street a Londra, alla Isabella Bortolozzi di Berlino, alla Michael Werner Gallery di Londra, alla mostra di scultura internazionale Sonsbeek ad Arnhem e alla galleria Zero di Milano.

Thomas Houseago, “Joanne”, 2005 plaster, hemp, steel, graphite 124.5 x 58.4 x 86.4 cm Courtesy the Saatchi Gallery, London © Thomas Houseago, 2011

Thomas Houseago, “Figure 2”, 2008 Wood, graphite, oil stick, tuf-cal, hemp, iron rebar 228.6 x 83.8 x 134.6 cm Courtesy the Saatchi Gallery, London © Thomas Houseago, 2011

Thomas Houseago, “Untitled”, 2000 Plaster, jute, iron rebar 190 x 110 x 75 cm Courtesy the Saatchi Gallery, London © Thomas Houseago, 2011 - 31 -


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AL MUSEO

IL MONDO FUTURISTICO DI ALEkSANDR RODČENkO di Valeria Santoleri

Aleksandr Rodčenko , “Gradinata”, 1930 © A. Rodčenko - V. Stepanova Archive © Moscow House of Photography Museum

La mostra, a cura di Olga Sviblova, con l’esposizione di circa 300 opere tra fotografie originali, fotomontaggi e stampe vintage, rappresenta la prima grande rassegna italiana dedicata all’artista russo, protagonista di quella straordinaria stagione creativa del XX secolo che si rivelò dirimente nell’ambito della cultura russa e della scena artistica internazionale. Rodča, gli piaceva essere chiamato così, o con il cognome per esteso, un nome che contiene la radice rod (dinastia), che si trova nelle parole roždenie (nascita) e rodit (partorire). Scherzava con la figlia, dicendo che con un cognome come quello doveva per forza partorire qualcosa di nuovo. Era nato nel 1891 sul palcoscenico del Club russo di San Pietroburgo, sulla prospettiva Nevskij, dove il padre lavorava come trovarobe. Non ebbe mai giocattoli in regalo. Fu così che imparò a giocare con l’immaginazione. E fu così che con la sua Leica trascinò la cultura russa della prima metà del Novecento. Non si può conoscere l’arte russa contemporanea senza passare per Aleksandr Michajlovič Rodčenko, rappresentante di spicco della nuova intelligencija e modello intellettuale, creatore di nuovi linguaggi rivolti all’universo moderno della visualità. Si inserì nel solco tracciato dalla rivoluzione d’ottobre e ne accentuò la frattura, entusiastico caposcuola dell’astrattismo geometrico dell’avanguardia russa degli anni Venti. L’apporto iniziale ben si intuisce dai ‘disegni con riga e compasso’, rigorose composizioni in cui cerchi e archi intersecati descrivono principi di forma e di colore. In quel periodo di

transizione, in cui la ricerca sociale e la sperimentazione artistica procedevano di pari passo verso cambiamenti epocali - era il periodo del Primo Piano Quinquennale Sovietico, che si proponeva di accelerare l’industrializzazione del Paese -, Rodčenko fece della fotografia il proprio principale mezzo espressivo, trasformandola in uno strumento di costruzione intellettuale. Attraverso la pittura, il design, il teatro, il cinema, la grafica e, soprattutto, la fotografia, l’artista definì immagini ispirate al mondo tecnologico, futuristico contraltare della materia pittorica dissezionata di Pavel Filonov e di Michail Matjušin. Le sue creazioni racchiudono l’esperienza di un pittore non-oggettivo, suggestionato dal cinema e dalla rivoluzione, protagonista negli sviluppi dell’ideologia costruttivista, che introdusse nella fotografia personalizzandone le metodologie e gli strumenti fino a creare quello che fu definito Metodo Rodčenko. All’inizio del 1923 molti intellettuali e artisti russi dell’avanguardia si riunirono intorno a Majakovskij e alla rivista LEF (Fronte di sinistra delle arti), fra essi anche Rodčenko - che ne disegnò tutte le copertine e dedicò i primi scatti fotografici proprio ai membri del comitato di redazione -, in qualità di artista, inventore e guida progressista nel grandioso progetto della costruzione di un nuovo stile di vita. Comprò la prima macchina fotografica nel 1924 e con essa sostituì i mezzi della rappresentazione pittorica, trasformando la fotografia documentaria in arte. Negli anni Trenta fotografava di continuo, soprattutto scene della

vita di strada, di cui riusciva a cogliere - da prospettive insolite, in cui particolari, altrimenti inafferrabili, si combinano con la diversità dei piani - i pensieri e le attitudini della gente intenta nella propria quotidianità, lo slancio dei bambini, i tumulti interiori celati da sguardi inquieti, “scorci esagerati e trame materiche impietose … momenti … mai osservati prima, come il tragitto di un proiettile … composizioni così cariche di forme da superare persino Rubens” (A. Rodčenko, “Sovetskoje foto”, 1934) e, contemporaneamente, a catturare la bellezza della tecnologia e dell’architettura moderna. Alla sperimentazione dei fotomontaggi del primo periodo, destinati soprattutto alla pubblicità, seguirono le prime fotografie, perlopiù ritratti psicologici, come quello della madre, quelli dedicati all’amico Vladimir Majakovskij e quelli della bellissima Lilija Brik (1924), la “Lilička” disperatamente amata dal poeta georgiano. Le particolari angolazioni, note come gli angoli alla Rodčenko, abbracciano un dinamismo espressivo che descrive il pensiero e la vibrazione interiore del soggetto fotografato. Ne è uno straordinario esempio “Ritratto di madre” (1924): l’inquadratura è dominata dal fazzoletto a pois, un terzo del piano è occupato da una mano con gli occhiali ripiegati e la parte rimanente da intimi dettagli di pelle. La donna sta leggendo, ma ciò che la foto descrive, con commovente intensità, è uno sforzo genuino e caparbio. Un solo scatto racconta la vicenda di una donna, la madre dell’artista, che imparò a leggere in tarda età, con la difficoltà che


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Aleksandr Rodčenko, Lilija Brik. Ritratto per il poster “Knigi” (Libri), 1924 © A. Rodčenko - V. Stepanova Archive © Moscow House of Photography Museum


AL MUSEO

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Aleksandr Rodčenko, “Knigi” (Libri), pubblicità della Casa Editrice di Stato, 1925 © A. Rodčenko - V. Stepanova Archive © Moscow House of Photography Museum

inevitabilmente accompagna l’apprendimento in quella fase della vita. Quella foto riproduce, intimamente, la tenera determinazione e la forza spirituale che disegnano il carattere di quella donna anziana. Ispirandosi allo stile costruttivista Rodčenko prediligeva le inquadrature dal basso e dall’alto per descrivere lo spazio urbano e la vita che in esso si svolgeva. Ne è espressione emblematica e formalmente asettica, e proprio per questo incredibilmente compiuta e autosufficiente, la prospettiva di “Gradinata”, del 1930. Allo stesso tempo aveva una drammatica e ironica consapevolezza dell’effimerità della vita. Ecco allora le rappresentazioni del circo e del teatro concentrate negli anni Quaranta quando era già stato redarguito dal regime -, clown goffamente sorridenti e calvi come lui, quasi ironici autoritratti, attori di una dimensione in cui l’immaginazione muoveva dal parterre l’obiettivo dell’inseparabile Leica, con un’ottica a fuoco morbido thambar (a focus lungo, con la possibilità di produrre immagini ‘velate’ ed evanescenti giochi di luce). Giocolieri, acrobati e funamboli appaiono sfocati e avvolti da eterei aloni, vivificati dalla precisione formale desunta dal costruttivi-

smo, e dal romanticismo, uniti a comporre la magica e impalpabile architettura di quelle immagini. Aperto a tutte le novità offerte dalla tecnologia - il suo amico e collega Boris Ignatovič lo chiamava “l’esploratore del futuro” - Rodčenko fu molto colpito anche dalle possibilità offerte dal colore. Si ispirò così alla frammentazione delle superfici colorate degli impressionisti francesi, servendosi della fotografia come mezzo meccanico da contrapporre alla mano dell’artista, con altrettanta arte, pregnanza concettuale e apporto poetico. Negli anni Trenta le restrizioni imposte dal regime staliniano si fecero incalzanti. Ci fu chi, come Majakovskij, si sparò un colpo al cuore - era l’aprile del 1930 - e chi, come Malevič, accettò il compromesso per continuare a creare le forme pure della propria pittura, seppur indirizzandola verso rappresentazioni figurative. A Rodčenko, personaggio ormai ‘troppo pubblico’, il regime inflisse amarezze e delusioni, fino a condurlo a riconsiderare formalmente gli aspetti più radicali del proprio pensiero creativo e ad abbandonare la fotografia. Ma non abbandonò mai la sua Leica, dalla quale si separò solo alla morte, nel dicembre del 1956.

“Mi piacerebbe fare fotografie incredibili, che nessuno ha mai fatto prima, immagini della vita stessa, assolutamente reali, capaci di stupire e travolgere”, scriveva Rodča nel suo diario, nel 1934. Il patrimonio delle immagini di Rodčenko è confluito nella House of Photography of Moscow, diretto da Olga Sviblova, che insieme ai famigliari ha promosso una significativa campagna di studi, di cui questa mostra può considerarsi uno dei risultati. Organizzata con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Ministero della Cultura della Federazione Russa, promossa da Roma Capitale - Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico, Azienda Speciale Palaexpo, Fondazione Roma, in collaborazione con Moscow House of Photography Museum e 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE. Merita di essere sottolineato l’allestimento curato da Lucio Turchetta, che, con la messa in opera di separé rosso lacca disposti in posizione incrociata, ha saputo creare una dimensione rigorosa e cristallina, tipicamente costruttivista, una splendida architettura a sostegno delle immagini fotografiche in bianco e nero.


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AL MUSEO

V&A MUSEUM DI LONDRA CELEbRA LA FINE DEL POSTMODERNO IN UNA MOSTRA TITANICA di Chiara Cartuccia

Postmodernism: Style and Subversion 19701990 © V&A Images

Il Victoria and Albert Museum di Londra mette in scena il post-modernismo, con la prima grande mostra antologica dedicata a questo lunga fase della storia della cultura visuale globale, che la scelta curatoriale circoscrive al periodo Settanta Novanta. Nel parlare di questa mostra titanica non si può fare a meno di dilungarsi in una premessa critica: per raccontare un qualsiasi evento è necessario possedere una prospettiva esterna, o almeno cercare di cogliere un insieme che solo l’estraneità può dare. In questo caso particolare parlare in così ampi termini del post-modernismo equivale a sussurrarne maliziosamente la dichiarazione di morte, e un simile azzardo non poteva che spargere del terreno fertile per una delle critiche più pressanti fatte all’esposizione. Perché siamo sicuri, arrivati al tramonto del 2011, d’essere usciti dalla vischiosa atmosfera del mondo postmoderno? La risposta non può essere univoca, e lo stesso evento londinese punta a lasciare il discorso in sospeso. Almeno in parte. Quindi se visitando il museo d’arti applicate londinese si pensa di ritrovare il bandolo della matassa si rimarrà delusi, ma in compenso si può essere certi d’abbandonare l’edificio con un bel cumulo di idee da districare. L’articolazione stessa della mostra punta a un’assolutezza quasi lapidaria; caotica e multicolor come solo gli anni Ottanta hanno saputo essere, l’esposizione contiene di tutto: l’architettura, consueta pietra miliare per ogni nuovo stile, l’arte figurativa, il performativo, la musica, il design, la grafica.

Ma anche l’economia di mercato, il capitalismo esasperato e il culto del danaro. Nello scorrere delle sale assistiamo alla spettacolarizzazione della genealogia dei nostri tempi incerti. I curatori ci conducono per mano lungo un percorso sottolineato con l’evidenziatore dei neon, dalle tinte brillanti e catchy tipiche del periodo reaganiano. Trovata scenica, questa, non trascurabile, e tipica degli allestimenti del V&A, che favoriscono un’immersione totale nel clima estetico raccontato dalle diverse esibizioni. Post-moderno è prima di ogni altra cosa rifiuto del dogmatismo utopico e assolutista del modernismo, dello stile unico e incontrastabile, pienamente basato su un principio di corrispondenza tra forma e funzione, e, all’estremo, tra estetico ed etico (in particolare quindi la Bauhaus di Gropius). Sul finire degli anni Sessanta assistiamo alle prime esternazioni d’insofferenza nei confronti di una visione dell’architettura, e delle arti applicate, ancora strettamente legata alle ideologie avanguardistiche. La mostra si apre con l’architettura, primo terreno di coltura dello stile nuovo, proponendo una panoramica dei lavori di personaggi che hanno dato forma, letteralmente, al primo embrionale postmodernismo: Gaetano Pesce, Aldo Rossi, Stirling/Wilford, Leon Krier, tra gli altri. Ma a spiccare su tutte è la personalità di Robert Venturi, architetto e artista visivo, vero pioniere del postmoderno. Venturi accende la miccia che porta alla deflagrazione degli stili, e alla confusione che ne segue: le

citazioni dal passato, la rinascita del colore, la dinamica formale tendente al kitsch. “Chiunque scelga d’abbandonare il modernismo può scegliere tra Versailles e Las Vegas” scriveva Zevi nel 1967, e Robert Venturi scegliendo di non scegliere o, se si vuole, scegliendo d’essere programmaticamente contraddittorio, prendendo a piene mani da ogni lato, non solo supera il modernismo, ma disegna il profilo del post-moderno. Il design, veicolo privilegiato per una diffusione capillare e popolare dell’estetica post-moderna, è largamente raccontato. Brilla Pieter De Bruyne con la sua “Chantilly chest” del 1975, collage di citazioni di stile, che riassume al meglio quello che i designer del periodo hanno saputo essere: veri bricoleur, nell’accezione del termine data da Levi-Strauss, raccoglitori di un passato superato a fatica che ora ritorna con una semplicità ironica e disarmante. In questa sede a dominare è l’Italia di Ettore Sottsass, con le sue teiere-ziggurat dai colori pastello, e di Milano capitale della (allora) contemporaneità e casa dei collettivi Studio Alchimia e Memphis, pionieri postmoderno, iconici in lavori quali “Proust armchair” (Alchimia) o “Super lamp” (creata da Martine Bedin per Memphis). Ma non solo colori sgargianti e neobarocco esasperato è il post-moderno, i curatori dedicano una larga parte dell’esibizione al tema delle ‘rovine del futuro’, dystopian and far-fromperfect future, quindi “Blade Runner”, design-spazzatura, con Heinz Landes


AL MUSEO

arskey/al Museo | V&A Museum

Ron Arad, “Concrete Stereo”, 1983. Stereo system set in concrete. Museum no. V&A

che rifà Breuer usando materiali di recupero, o il post punk di Ron Arad. Imponente la ricostruzione a grandezza originale del lavoro di Hans Hollein per la Biennale di Venezia 1980 “Strada Novissima”, in cui l’artista univa elementi d’architettura classica e moderna per costruire le rovine di un futuro ipotetico e fallimentare. La completa diffusione del postmodernismo porta il suo coinvolgimento nella moda e nel costume, tanto quanto nella musica, nel cinema e nell’arte performativa. Ognuno di questi aspetti viene preso in considerazione nel complesso percorso espositivo. Grace Jones nel suo maternity dress diventa simbolo totemico di una cultura visuale ormai pienamente formata (siamo nel 1979), che la New Wave esprime sia dal punto di vista musicale che figurativo, uno stile che da sovversivo e marginale è diventato dominante. L’ultima sala viene dedicata al dio danaro, al trionfalismo economico e al culto del consumo degli anni Ottanta, che il post-modernismo favorisce e descrive allo stesso tempo. I curatori suggeriscono che sia stata proprio questa collisione di uno stile nato per essere marginale e innovativo con i meccanismi del capitale a portare alla sua decadenza, e (forse) implosione.

Andy Warhol, “Dollar Sign”, 1981. Synthetic polymer paints and silkscreen inks on canvas. Private collection. Photograph Christie’s Images 2011 © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts / Artists Rights Society (ARS), New York / DACS, London 2011

L’ottimismo anni Ottanta si dissolve gradualmente, e il benessere viene associato a una situazione di conflittualità interna nell’opera di Jenny Holzer “Protect me from what I want”, installazione virale qui riprodotta fotograficamente. A conclusione del lungo percorso espositivo i curatori pongono il video musicale di “Bizarre Love Triangle” dei New Order, e ci lasciano con una domanda, contenuta in un’affermazione: il post-moderno come fenomeno di stile degli ottimisti anni Ottanta è definitivamente morto, e, forse, da rimpiangere, ma possiamo essere certi della nostra attuale estraneità a questo stile? Un mondo, quello di oggi, in cui domina la frammentarietà, il patchwork di culture, religioni e tradizioni, il caos di sentimenti, di modi e mode, è molto simile al futuro immaginato dal post-modernismo di trenta anni fa. Vale quindi la pena cercare di cogliere qualcosa di noi stessi, e del nostro futuro prossimo, ritornando a queste radici contorte da cui proveniamo, guardando dentro questo specchio rotto che riflette la nostra immagine nella sua vera forma. In fondo che sia post-modern o no poco conta.

il post-moderno come Fenomeno di stile degli ottimisti anni ottanta è deFinitivamente morto, ma possiamo essere certi della nostra attuale estraneità a esso?


arskey/al Museo | Palazzo delle Esposizioni

AL MUSEO

PITTURA SOVIETICA 1920-1970 L'ARTE NON ASSERVITA ALL'IDEOLOGIA di Letizia Guadagno

Viktor Popkov, “Costruttori di Bratsk”, 1960-1961. Galleria Statale Tret’jakov, Mosca

Una mostra per ripercorrere la storia dell'Unione Sovietica dal 1920 al 1970 e per rivisitare la produzione artistica di questa lunga stagione densa di accadimenti e rivolgimenti. È l'obiettivo di “Realismi socialisti. Grande Pittura sovietica 1920-1970” allestita al Palaexpo di Roma, un evento espositivo che esplora questa corrente per molto tempo ignorata dai manuali di storia dell'arte, dai critici e dal circuito internazionale delle mostre perché considerata troppo retorica e celebrativa. Impossibile negare, d'altra parte, come l'arte di quegli anni, sovvenzionata da uno Stato che imponeva direttive e censurava ogni singulto di

libertà, fu trasformata in uno vero e proprio strumento di propaganda: un mezzo per consolidare il prestigio di figure politiche come, per esempio, Stalin e per conquistare il consenso popolare attraverso immagini facilmente comprensibili e seducenti. Organizzata nell'ambito del programma di scambio Italia Russia 2011, questa mostra si propone ora di andare oltre l'embargo che avvolse la produzione artistica di questo periodo e di far luce sui diversi esiti stilistici e tematici dei tanti Realismi Socialisti. “Quello che presentiamo qui, è una visione senza pregiudizi su mezzo secolo di storia artistica di una super-

potenza planetaria, con l'idea di sottrarla alle interpretazioni svolte in chiave propagandistica-politica, di confutare una volta per tutte l'opinione di un Realismo Socialista stilisticamente monolitico e riconsiderarne la questione della qualità”, dichiara Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Presidente dell'Azienda Speciale Palaexpo. Allestita in ordine cronologico e divisa in più sezioni, l'esposizione, la più completa mai realizzata fuori dalla Russia dedicata a questa corrente, presenta sessantasei opere, per lo più di grande formato, che illustrano non solo i momenti clou della storia sovie-


AL MUSEO

arskey/al Museo | V&A Museum

Dimitrij Žilinskij, “Ginnasti dell’URSS”, 1964-1965, Museo Statale Russo, San Pietroburgo

tica come la nascita del Bolscevismo, l'ascesa di Stalin, la Seconda Guerra Mondiale, la distruzione di Stalingrado, gli anni di Kruscev e di Brežnev ma anche l'ideologia del regime fondata sul lavoro, sullo sviluppo industriale e urbano, sullo sport. Il risultato è un contributo importante alla definizione di un dibattito ancora aperto riguardo questo fenomeno artistico che coinvolse per decenni centinaia di artisti, sparsi su un vastissimo territorio. Un fenomeno dalle tante anime che, pur avendo posto fine alle sperimentazioni dell'avanguardia russa degli anni Dieci e Venti, seppe trovare la strada per sottrarsi al totale

asservimento all'ideologia del partito comunista e per ricordare le tante piccole e dolorose storie della Storia Russa. Accanto ai lavori elogiativi che ricordano gli eroi, le premiazioni, le gare sportive, i congressi, gli incontri dei notabili moscoviti, il lavoro nei campi, i curatori hanno, infatti, inserito dipinti poco allineati con le direttive del regime. Lavori, spesso qualitativamente notevoli firmati da artisti noti ma anche sconosciuti, attenti a denunciare gli orrori dei conflitti come “Invalidi di guerra” di Juri Pimenov, “L'asso abbattuto” di Aleksandr Deineka,

“Stalingrado” di Vasilij Efanov, il malinconico “I treni portano via i ragazzi” di Leonid Kabacek, “Segni di guerra” e “Madre” entrambi di Geli Korzhev. Non mancano, inoltre, dipinti d'interni come il luminoso “Una giornata calda” di Anatolij Levitin e “Famiglia” di Viktor Ivanov, immagini forti come “Minatore” di Michail Trufanov e “Costruttori di Bratsk” di Viktor Popkov, e opere stilisticamente audaci e innovative come gli “Sportivi” di Malevic e “Formula del proletariato di Pietrogrado” di Pavel Filanov.


arskey/al Museo | Villa Necchi Campiglio

AL MUSEO

MARIO SIRONI E IL DRAMMA DELLA GUERRA di Giulio Cattaneo

Mario Sironi , “Vittoria Alata” 1935 Milano Collezione Isolabella©Martino Mascherpa

Bisogna salire all’ultimo piano della magnifica Villa Necchi Campiglio, edificio chiave dell’opera di Piero Portaluppi che sancisce l’ingresso del razionalismo nell’architettura della città di Milano, per ammirare le quarantatre opere che compongono il corpus della mostra curata da Elena Pontiggia, “Sironi: la guerra, la Vittoria, il dramma. Opere dalle collezioni Isolabella e Gian Ferrari”, in occasione dei 50 anni della morte di Mario Sironi, uno dei grandi maestri del Novecento italiano. Sironi è la chiave di volta dell’esposizione che al suo interno ci parla di Claudia Gian Ferrari, la nota gallerista milanese che ha donato al FAI parte della sua importante collezione d’arte del Novecento, perché fosse esposta proprio a Villa Necchi, prima della sua scomparsa circa un anno fa; della col-

lezione dell’avvocato milanese Lodovico Isolabella, che ha saputo costruire, con una ricerca incontentabile, una raffinata raccolta, unica in Europa nel suo genere, che ha come solo soggetto la prima guerra mondiale, e omaggiare così i 150 anni dell’Unità d’Italia, partendo dall’arte ma attraversando la Storia, dalla prima guerra mondiale all’avvento del fascismo, e portando alla luce il prezioso contributo che i collezionisti milanesi hanno apportato alla cultura cittadina. La complessità della mostra, con i suoi intrecci e i suoi interessanti studi, rintracciabili nel prezioso catalogo edito da Corraini con approfondimenti e schede di tutte le opere esposte, è difficilmente percepibile lungo il dolce percorso espositivo che ha come punto centrale la monumentale tela

della “Vittoria alata”, dipinta da Sironi nel 1935. Ci si giunge come in processione, tra bozzetti preparatori e studi, che indicano chiaramente quanto fosse importante e approfondito da Sironi il soggetto; la si vede già varcando la soglia dell’esposizione, la si apprezza lentamente, quasi a non volerla bruciare in un attimo. Si tratta del cartone per l’affresco “L’Italia fra le scienze e le arti”, realizzato per l’Aula Magna dell’Università La Sapienza a Roma, il più importante documento del lavoro dell’artista, visto che l’originale romano appare oggi pesantemente ridipinto. Fu lo stesso architetto Piacentini a richiedere che la decorazione in affresco della grande nicchia absidale fosse affidata a Sironi che in quegli anni scriveva: “Quando si dice pittura murale non si intende dunque soltan-


AL MUSEO

arskey/al Museo | Villa Necchi Campiglio

to il puro ingrandimento sopra grandi superfici di quadri che siamo abituati a vedere, con gli stessi effetti, gli stessi procedimenti tecnici, gli stessi obiettivi pittorici. Si prospettano invece nuovi problemi di spazialità, di forma, di espressione, di contenuto, lirico o epico, o drammatico. Si pensa a un rinnovamento di ritmi, di equilibri, di uno spirito costruttivo”. La Vittoria sironiana offre anche il punto di contatto diretto tra la profonda amicizia della Gian Ferrari con Lodovico Isolabella; esposta sopra il divano del salotto di Claudia, alla sua morte la “Vittoria alata” è infatti stata acquistata da Isolabella, appassionato d’arte e interessato alla prima guerra mondiale. Da qui si sviluppa l’intero percorso espositivo che trova un altro interessante nucleo di opere realizzate da Sironi nel triennio 1915-1918 per la rivista Il Montello, diretta da Bontempelli, dal nome della montagna delle Prealpi trevigiane a sud del Piave, tra Montebelluna e Neversa, da cui era iniziata la vittoriosa avanzata dell’Italia sugli imperi centrali. Su tutte spiccano le tavole satiriche del 1918 “La scimmietta del Montello”, in cui il soldato austriaco prende le vesti della scimmia; “Sarabanda finale”, in cui tre teste mozzate, dai tratti caricaturali, tra cui si riconosce l’imperatore tedesco, vengono portate in trionfo dalla folla e l’irriverente “In Palestina il nostro Dio”, dove Sironi disegna Cristo schierato al fianco dell’esercito italiano, la vittoria era ormai certa, come a Gerusalemme si era scagliato contro i mercanti del tempio. È interessante notare, come sottolineato dalla stessa Pontiggia in catalogo, come Sironi non si soffermi mai sull’avanzata dell’esercito italiano, sulla vittoria della guerra, non inducendo in nessun caso alla retorica del vincitore. Non accenna alla vittoria; i suoi soggetti sono principalmente i nemici sgomenti, il Kaiser tedesco, i soldati austriaci. “Gli interessano i vinti, non i vincitori, anche se le sue immagini satiriche, caricaturali, nate

quasi sempre per strappare il sorriso ai nostri militari che stavano ancora combattendo, possono dare poco spazio alla pietà”. Sironi dedica ai soldati anche una serie di ritratti realizzati a matita o inchiostro su carta direttamente sul campo di battaglia. Diversamente dalle caricature precedenti, in questo caso l’artista restituisce umanità e nobiltà alla figura umana, indagando l’espressione del volto come in “Soldato che suona la chitarra”, dove l’uomo appare assorto dal suono della

Dix, con l’inedita tela “Schützengraben in der Champagne”, 1916 e Grosz con “Metropolis 1917”; si arriva a un’interessante nucleo di opere di artisti italiani. Vale la pena di sottolineare l’efficacia futurista di “Bombe su Vienna/Bomboni”, 1914-15 di Carrà e il disegno di Balla, “Cimiteri di guerra” del 1918-19, dove la sintesi strutturale e compositiva è portata all’estremo. Finalmente una grande piccola mostra gioiello a Milano; con un apparato critico rilevante, costruttivo, utile;

Mario Sironi, “La Vittoria col suo salvatore” 1924 Milano Collezione Isolabella©Martino Mascherpa

musica, oppure concentrandosi sul dato plastico del corpo, ottenuto tramite un chiaro-scuro forzato che copre i lineamenti del viso per valorizzare la struttura fisica “Soldato e Ritratto del capitano Fantoni”. La mostra si sviluppa inoltre con un corpus di opere, raccolte negli anni da Lodovico Isolabella, che rappresentano i drammi della prima guerra mondiale. Dai maestri europei come Léger con “Les Joueurs de cartes”, 1915;

una selezione di opere attenta e un percorso chiaro e studiato nei particolari; su tutto la consapevolezza che sfruttando al meglio l’esistente, si possano ottenere ottimi risultati. Una sola curatrice, italiana; due collezioni di grande rilievo, milanesi; una villa d’eccezione e una fondazione votata all’arte, il FAI. Nel tempo della perenne crisi economica è forse questa la ricetta giusta?


arskey/al Museo | Fondazione Stelline

AL MUSEO

AL GRANDE FOTOGRAFO LEONARD FREED CHE AMAVA L'ITALIA di Manuela Congedi

Autentici come i frame di una pellicola Rosselliniana, i cento scatti del grande fotografo Leonard Freed in mostra dal 20 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012, investono lo spazio espositivo della Fondazione Stelline di Milano di un’atmosfera neorealista, trasportando lo spettatore indietro di sessant’anni. Sarà il bianco e nero o l’effetto di quella grana ottenuta con la stampa alla gelatina d’argento tipica delle fotografie vintage print; sta di fatto che quelle immagini sembrano davvero scene rubate alla dolce vita di un periodo passato. Solo una didascalia con il nome della città e l’anno nel quale le fotografie sono state scattate, - in un arco temporale di più di quarant’anni-, riportano a una ricollocazione storica: 1958, 1969, 1974, 1984, 1998, ma soprattutto 2000, 2003 e 2004. Freed è morto solo nel 2006 e deve avere scattato quelle immagini durante uno dei suoi ultimi viaggi in Italia. A ben guardare poi anche i singoli elementi della scena, i dettagli, riconducono a una contemporaneità: un telefono cellulare in un angolo o, come in una delle immagini emblematiche della mostra e abbondantemente descritta nel catalogo a corredo, i grandi manifesti pubblicitari che ricoprono interamente le facciate di edifici in restauro con Christy Turlington come testimonial. Se poi da quella stessa porta del Palazzo Stelline, sul quale era stato affisso quel manifesto esce un uomo, un operaio, che beatamente tira su la cerniera dei pantaloni dopo aver 'ovviato ai propri bisogni' con una veracità quasi estemporanea, una spontaneità d’altri tempi, verrebbe da pensare per un attimo a un ricostruzione, un fotomontaggio forse, avvezzi come siamo ai miracoli ai quali la fotografia digitale ci ha abituato. A dire il vero molte di queste immagini sembrerebbero ricostruite, pare incredibile che Freed potesse avere un intuito e una capacità tali da trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto; davvero non ci si spiega come sia riuscito a immortalare due bambi-

ni nudi, all’aperto, a Roma e nel 2000. Intuito e istintività dunque, ma non solo. Certo è che la capacità di un grande fotografo non può esistere a prescindere dalla tecnica e qui, più che di immagini ricostruite, assistiamo a immagini costruite e strutturate accuratamente: “C’è nella fotografia una griglia matematica. C’è un ritmo. L’equilibrio è molto importante; una buona composizione che possa funzionare ... è come le fondamenta di una casa: se non ci sono delle buone fondamenta la casa crolla” come Freed stesso affermò. Immagini specchio di quello che eravamo dunque, che siamo e che saremo, dopo cinquant’anni ancora così (noi italiani), rimasti invariati nel tempo, nell’aspetto, e nelle abitudini. Niente stereotipi, quella di Freed non è una macchina tarata per fabbricare false immagini atte a illustrare una storia inventata, anzi egli al contrario analizza, con la meticolosità di un antropologo, il popolo dal quale è affascinato e ne estrapola le caratteristiche: l’arte, la fede, gli affetti, le tradizioni, la semplicità e la sostanza

anche se, talvolta, a discapito dell’apparenza. Così come l’amore giovanile di ogni artista è destinato a rimanere la sua musa ispiratrice per la vita, così l’incontro tra Leonard Freed e l’Italia avvenne per la prima volta a New York, sua città natale -, lo segnò talmente da rimanerne incantato, e divenne, tra i soggetti ritratti, il suo preferito per la vita. Freed, nato nel 1929 da una famiglia di origine ebrea proveniente dalla Russia, durante la sua vita passò molto del suo tempo all’estero e in Europa. Furono proprio la curiosità e l’attrazione per il vecchio continente e per quei nostri connazionali emigrati in America negli anni Cinquanta, che lo aiutarono a coltivare e incrementare la sua passione per l’arte e la sensibilità d'artista che mantenne nonostante la professione di fotoreporter, di entità decisamente più pratica-, che esercitò per numerose testate internazionali. La dedizione etnografica, e quella stessa vocazione antropologica a cui si accennava lo portarono, durante gli anni Sessanta, a sposare la nobile causa della difesa dei diritti civili degli africani in America in onore della quale realizzò inoltre il layout del libro “Black in White America”. Non meno importanti furono infatti i progetti bibliografici per l’artista che, nel 1980 portò a termine il libro “Police Work”, frutto del tempo passato con la polizia newyorkese dal 1972 al 1979, la pubblicazione in quattro edizioni de “Leonard Freed: Photographs 19541990” nel 1991 e in ultimo, poco prima della fine sopraggiunta nel 2006, il grande progetto fotografico dedicato ancora una volta, alla Città di Roma. Dell’Italia, visitata più di quaranta volte in totale, Freed conosceva oramai a memoria i vizi e i segreti più intimi: Roma la religiosa, Napoli l’eccessiva, Milano la metropolitana. Molti di quei segreti sono svelati oggi nelle cento immagini esposte alle Stelline e scattate dal fotogiornalista reporter durante gli anni di servizio all’agenzia fotografica più importante al mondo, la Magnum.



Céleste Boursier-Mougenot, “fromheretoear (version 10)”, 2010 Tecnica mista Fotografo: Lyndon Douglas © Céleste Boursier-Mougenot Courtesy galerie Xippas (vedi recensioni)

Critica/Dossier Incontri teorici # 2. antonello tolve - arabella natalini | la freccia del tempo dai quanti al mondo dell'immagine. Una lettura del XX Secolo | Intervista ad antonio nunziante. da Van Gogh e Gauguin a nunziante un viaggio nel paesaggio immaginifico | Il confine della libertà nell'arte | la capacità delle istituzioni italiane di fare sistema al banco di prova | arte povera, un'occasione di discussione | arte povera 1967-2011: il futuro era ieri | Il maXXI omaggia l'arte povera | the plot is the revolution: quando l’evento performativo irrompe nella vita |

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A CHE SERVE LA CRITICA?

INCONTRI TEORICI # 2. ARAbELLA NATALINI di Antonello Tolve Antonello Tolve: Muoverei da uno dei tuoi interessi privilegiati, quello sul museo. E particolarmente sulle metamorfosi del museo in età contemporanea. Al museo in quanto istituzione viene mossa l'accusa di organizzare, il più delle volte, mega-exhibition. A volte pacchetti preconfezionati. Altre, ancora, mostre spettacolo in grado di garantire un sostanzioso botteghino. Viene mossa, inoltre, l'imputazione di non promuovere le nuove leve dell'arte e, naturalmente, di non lasciare spazio alle idee e alla sperimentazione. Qual è la tua idea in merito? Arabella Natalini: Hai posto una serie di questioni molto complesse e non è facile rispondere. Storicamente il compito dell’istituzione-museo è stato quello di educare il pubblico e rafforzare l’identità nazionale, ma da tempo ormai alla missione educativa se ne sono aggiunte altre. Credo che quella di offrire un’esperienza diretta della contemporaneità sia una di queste, un’esperienza in grado di incrementare la partecipazione e la riflessione critica senza necessariamente escludere un aspetto d’intrattenimento, inteso come possibile chiave di invito e di accesso. Il mio interesse per l’arte contemporanea è stato fortemente incentivato dalla scoperta liceale di due grandi istituzioni internazionali: la Tate di Londra (prima che, con la creazione della Tate Modern, venisse ribattezzata Tate Britain) e il Centre Georges Pompidou di Parigi. Due strutture architettoniche antitetiche, un museo estremamente classico e il prototipo della macchina funzionale. Due edifici di epoca diversa, nati da istanze ormai datate ma ancora in grado di alimentare, con le rispettive collezioni permanenti e le importanti mostre temporanee, la curiosità e la passione per l’arte. Successivamente ho scoperto le Kunsthallen, le piccole istituzioni e i centri di produzione di arte contemporanea, e la loro vocazione di aggiornamento sperimentale è stata un fattore decisivo nel mio coinvolgimento professionale. L’Italia è stata a lungo il fanalino di coda per

quanto riguarda la presenza degli uni e degli altri, e proprio questo suo triste posizionamento mi ha spinto a interessarmene ancor di più. Ancora negli anni Ottanta, sul territorio nazionale esistevano due sole realtà significative: il Castello di Rivoli, a Torino, e il Museo Pecci, a Prato. Negli ultimi 15 anni la situazione italiana è notevolmente migliorata, e oltre a questi sono sorti altri musei importanti e molti centri d’arte contemporanea dando vita a una diversificazione, e a una complementarietà, fondamentali. Le questioni che riguardano il museo sono molte, a partire dalle riflessione su quale tipologia architettonica possa essere la più appropriata, al loro posizionamento, al loro assetto economico, ma alla base, quella che mi interessa maggiormente, resta la loro funzione critica. Schematizzando, potrei dire che i musei contemporanei si trovano di fronte a tre possibilità, ognuna con degli elementi di criticità: privilegiare criteri sintomatici, di botteghino, o di valore. Se la scelta sintomatica è la via più ovvia, e praticabile, si corre comunque il rischio di proporre sempre gli stessi artisti, di consolidare una visione uniforme e conformista della storia dell’arte recente in nome della scrematura data dal giudizio del tempo. Mi preme sottolineare, sulle orme di Hannah Arendt, che il giudizio del tempo è in realtà fortemente ambivalente: se è vero che spesso “le cose migliori sopravvivono”, è anche vero che si tende a ripetere la storia dei vincitori. Non quindi un esercizio del giudizio ma piuttosto una sua abdicazione. In questo panorama uniformante, sostenuto da molte esposizioni e suggellato da testi influenti (come per esempio il best seller di Bois, Buchloh, Foster e Krauss, “Arte dal 1900”), è sempre più importante la presenza di realtà locali, piccole e medie istituzioni, che oltre a presentare artisti di conclamata fama internazionale fanno delle proposte più legate al territorio. In questo senso mi piace ricordare la virtuosa attività del MAN di Nuoro e, seppure

con altre risorse, quella del Museion di Bolzano, che dedicano una grande attenzione al territorio senza trascurare la scena globale, alimentando un cortocircuito virtuoso tra artisti già affermati e le nuove scoperte. Il fenomeno della grandi mostre, e le sue logiche di ritorno (non soltanto economiche), non rientrano certo in questo ciclo virtuoso, anche se credo che si debbano fare della caute distinzioni tra quelle che seguono esclusivamente delle strategie di marketing e altre che propongono una ricerca accurata che permette la diffusione di fenomeni artistici attraverso una loro rilettura critica e aggiornata. L’elaborazione di idee offerta dal museo può passare da scelte diverse purché ragionate e approfondite, basti ricordare l’esempio emblematico, e antesignano, della storia del MoMA, così strettamente connotata dalle scelte coraggiose di un direttore come Alfred H. Barr. Per quanto riguarda invece la scarsa promozione delle nuove leve dell’arte, e lo spazio per la sperimentazione, credo che si siano fatti dei passi avanti. Non solo molti dei grandi musei dedicano spazi appositi alla produzione più recente, per quanto spesso confinata nelle project room, ma è anche indubbia la crescita numerica e qualitativa di centri d’arte contemporanea privi di una collezione (e in virtù di questa mancanza alleggeriti da obblighi conservativi e di rappresentazione del passato), che si impegnano nella produzione e offrono spazio alla ricerca e alla sperimentazione. A.T: Ho trovato una sorta di affinità tra alcune tue1 argomentazioni e alcune mie2 considerazioni sul pensiero critico. Sull'importanza di ritornare a un quanto mai indispensabile intrattenimento riflessivo. E non solo sulle cose dell'arte e del sistema dell'arte, ma anche su quelle della politica, della società, della vita quotidiana. Pensi sia possibile, proprio oggi che il presente disfa ogni attività di elaborazione riflessiva, ritornare a un corretto spazio critico e a una più puntuale


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Arabella Natalini nel nel lavoro di Eva Marisaldi, 2009 EX3 / Centro per l'Arte Contemporanea di Firenze foto di E. Bialkowska

consapevolezza di quello che accade nel quotidiano? A.N: Capita sempre più spesso di assistere, e partecipare, a un lamento generale sulla perdita del senso critico, in tutti i campi. Per quanto sia innegabile che la produzione contemporanea è talmente vasta da rendere difficile definirne con chiarezza i confini, credo ancora nell’importanza della valutazione, argomentata con indipendenza dal sistema dell’arte e dei media. In questo assetto la scelta effettuata dai musei e dai curatori è decisiva e le loro proposte, per quanto necessariamente parziali, costituiscono un primo filtro determinante. Nel 2002 è stata pubblicata un’inchiesta, realizzata dalla Columbia University, dove veniva chiesto agli esperti di settore di fare una graduatoria degli elementi fondamentali della critica. Al primo posto è stata indicata la descrizione, all’ultimo: il giudizio. In molti

però, sia in Europa che nel resto del mondo, riaffermano oggi il compito della critica, la necessità dell’intrattenimento riflessivo, come dici tu. Leo Steinberg diceva che la storia dell’arte è la storia delle nostre scelte di valore. E le scelte non possono essere solo imposte dai critici del momento ma devono essere argomentate, offrirsi alla discussione e alla verifica pubblica! Se arte contemporanea non è tutto quello che viene prodotto ai nostri giorni, ma ciò che viene valutato come contemporaneo, è sempre più necessario, seppure problematico, esercitare la facoltà di giudicare, ponderando e dandosi tempo. Se viene meno la funzione critica rischiamo di avvicinarci pericolosamente al paradosso che ciascuno è giudice di sé stesso, si auto-valuta, si auto-promuove e si auto-assolve, nell’arte come nella politica. A.T: Mi soffermerei, ora, su un altro

ambito riflessivo che incontra le tue curiosità. Mi riferisco all'arte pubblica. Dal 2001 dirigi la manifestazione “Tusciaelecta. Arte contemporanea nel Chianti”, un festival che mira, fondamentalmente, a una ripresa della tradizione, del genius loci, a indispensabili preamboli socio-antropologici. Ti andrebbe di raccontare questa esperienza decennale? A.N: Il mio interesse per l’arte pubblica nasce ai tempi dell’università, in seguito sviluppato con alcuni progetti sul territorio che ho portato avanti come curatrice del Palazzo delle Papesse di Siena, diretto allora da Sergio Risaliti. Così quando mi è stata offerta la possibilità di occuparmi di una rassegna di arte pubblica tra Firenze e Siena, ho accettato con entusiasmo. Tusciaelecta esordisce nel 1996 come manifestazione che si propone di valorizzare la presenza di artisti stranieri che avevano scelto il


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Chianti, o più in generale la Toscana, come luogo di vita o di lavoro; inizialmente promosso dal solo Comune di Greve, dall’anno successivo il progetto coinvolge nove comuni, allargando i suoi confini e i suoi obbiettivi. Quando, nel 2001, sono stata chiamata a dirigere la rassegna ho deciso di apportare uno spostamento, non immediatamente evidente ma significativo, all’impostazione precedentemente data da Fabio Cavallucci (che aveva dato spazio a opere poste in luoghi fortemente connotati dal punto di vista paesaggistico, molto suggestivi, ma spesso privati), insistendo su lavori che si collocassero invece, quanto più possibile, nel centro delle cittadine coinvolte, nella piazza pubblica o nei luoghi di maggior passaggio. Nell’edizione 2002/2003 ho invitato quindi 10 artisti3 molto diversi tra loro, sia sul piano formale che su quello processuale, con l’intento di fornire un ampio spaccato delle modalità espressive più attuali e instaurare un dialogo serrato con i luoghi ospitanti, proponendo un percorso che potesse includere una maggiore possibilità di incontro con la cittadinanza. In seguito, per motivi di ordine diverso, ho ritenuto opportuno restringere ulteriormente il numero dei partecipanti e concentrarmi sulla produzione di opere permanenti che nel tempo potessero integrarsi con il contesto e avvicinarsi maggiormente alla popolazione4. Questa operazione si è rivelata molto complessa ma credo che la maggior parte di queste opere sia riuscita a trovare, nel tempo, un radicamento e un senso; un senso che ha a che fare con la riorganizzazione dell’esperienza dei fruitori attraverso una ri-comprensione e una riscoperta dei luoghi che rischiano altrimenti di fossilizzarsi e deperire nella loro autorappresentazione più consueta, spesso imposta dall’industria turistica. A.T: Con Lorenzo Giusti curi, dal 2009, il palinsesto culturale di EX3 Centro per l'Arte Contemporanea di Firenze. Ogni esposizione temporanea presentata da EX3 è occasione di riflessione. Penso particolarmente alla collettiva “ Suspense”, alla personale di Eva Marisaldi in “Grigio Nonlineare” o a quella più recente di Marzia Migliora “RADA”. Quale metodo utilizzi (o utilizzate) per costruire una mostra? A.N: Lo spazio di Viale Giannotti ci è stato assegnato attraverso un bando di gara indetto dal Comune di Firenze che richiedeva di elaborare un piano culturale che si concentrasse sulla produzione più giovane e sperimentale. Ciononostante ci siamo subito trovati d’accordo sul fatto che questa apertura andasse affiancata da un’at-

leo steinberg diceva che la storia dell’arte è la storia delle nostre scelte di valore

tenzione verso artisti più maturi, i cosiddetti mid career, che difficilmente trovano oggi, tranne rare eccezioni, uno spazio adeguato nel sistema dell’arte italiano. Da queste riflessioni preliminari è scaturita una programmazione articolata che affianca mostre di artisti italiani e stranieri, con l’obbiettivo di offrire uno spaccato della scena artistica contemporanea. Le scelte di EX3 nascono così da numerosi confronti dove ognuno porta le sue esperienze e i suoi gusti personali per giungere poi a scelte condivise. Naturalmente, la costruzione di una mostra personale o di una collettiva comporta un lavoro di tipo diverso, ma anche per quanto riguarda le personali, ci sono state genesi e modalità differenti. In alcuni casi, come in quelle di Ragnar Kjartansson e di Julian Rosefeldt, abbiamo selezionato lavori molto recenti, mai esposti prima in Italia, costruendo un percorso espositivo che potesse offrire ai visitatori una chiave d’acceso privilegiata al loro percorso artistico. Le mostre che abbiamo prodotto sono nate da scambi intensi e proficui con gli artisti, discutendo nel dettaglio il progetto, analizzando le diverse possibilità, tenendo in considerazione le difficoltà legate al budget (solitamente non corposo), allo spazio (la sala centrale si sviluppa su una superficie di quasi 700 mq per 14 metri di altezza), alla sua collocazione cittadina… E, ancora una volta, parlando a lungo del senso del progetto. Nella costruzione di una mostra collettiva lo scambio più serrato avviene invece tra Lorenzo e me, come nel caso di “Suspense / Sculture sospese”, dove abbiamo proposto una serie di opere rappresentative del nostro punto di vista sulla scultura contemporanea attraverso la scelta di

una sua particolare declinazione: la sospensione. Ogni occasione richiede comunque un grande lavoro, per il quale è sempre fondamentale la disponibilità dei nostri collaboratori: Debora Ercoli - responsabile organizzativa -, Francesco Niccolai - fotografo e responsabile degli allestimenti Elena Magini - mediatrice e collaboratrice a 360° - affiancati da preziosi stagisti, senza i quali la nostra attività non sarebbe stata possibile. Alla soddisfazione di riuscir a dar corpo ai progetti in cui crediamo si è aggiunta quella legata alla nascita di relazioni significative, professionale e umane, che si sono instaurate tra tutti coloro che hanno contribuito a vario titolo alla realizzazione delle mostre. A.T: Alla luce di quello che abbiamo considerato, vorrei chiudere questo nostro incontro rivolgendoti una domanda secca. Che cos'è (o cosa dovrebbe essere), secondo te, una mostra? A.N: Un’opportunità per gli artisti, per noi e per il pubblico. Un’esperienza per lo sguardo e per la mente. 1- Cfr. A. Natalini, “La sospensione della scultura”, in “Suspense. Sculture Sospese”, cat., Damiani, Firenze 2011, pp.23-35; Id., “Grigio nonlineare. Una possibilità”, in “Eva Marisaldi. Grigio nonlineare”, cat., Damiani, Firenze 2010, pp. 87-92. 2- Cfr. A. Tolve, “La ginestra o il fiore della critica d'arte”, in “Lavori in corso. Giovani critici in dialogo con Angelo Trimarco”, a cura di S. Zuliani, premessa di A. Bonito Oliva, Plectica, Salerno 2011, pp. 71-80; Id., “Agonia della teoria. Fine (o fini) della critica?”, in «ArsKey», a. 1, n. 1, Febbraio/Marzo/Aprile 2011, pp. 79-81. 3- Massimo Bartolini, Paola De Pietri, Alicia Framis, Antony Gormley, Renée Green, Eva Marisaldi, Tony Oursler, Nicola Pellegrini, Cesare Pietroiusti, Franco Vaccari, cfr. “Tusciaelecta. Arte Contemporanea nel Chianti” 2002/2003, cat. a cura di A. Natalini, Artout Maschietto&ditore, Firenze 2003. 4- A questo proposito cfr. “Tusciaelecta. Arte Contemporanea nel Chianti” 1996/2010, cat. a cura di A. Natalini, Quodlibet, Macerata 2010.


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LA FRECCIA DEL TEMPO

DAI qUANTI AL MONDO DELL'IMMAGINE UNA LETTURA DEL XX SECOLO di Andrea Lucio Tedesco

Marcel Proust

Postulato 1. L’anno1927. Nel 1927 Heisenberg annuncia il principio di indeterminazione secondo cui la misura simultanea di due variabili congiunte, come posizione e quantità di moto o energia e tempo, non può essere compiuta senza un’incertezza ineliminabile. Per fare un esempio concreto: se misuro la temperatura dell’acqua in una vasca da bagno inserendo il termometro, la temperatura dell’acqua avrà una variazione per la trasmissione stessa della temperatura del termometro; alterando pertanto il mio risultato. Se in una macroscala questo porta uno scarto minimo, ma significativo (perché indica che ogni misurazione sarà sempre convenzionalmente corretta e quindi sempre e soltanto accettata), in una microscala di grandezze, come quello che era obiettivo del fisico studioso delle microparticelle atomiche, il fattore diventa determinante: tanto più è piccola la particella, tanto maggiore lo strumento che dovrò usare, tanto maggiore sarà la variazione che io porterò nel sistema stesso che analizzo. Questo noi lo possiamo comprendere facilmente pensando alle dimen-

sioni della macchina del CERN e delle particelle che la macchina è preposta per misurare. Heisenberg è padre della meccanica quantistica, la quale stabilisce solo in modo probabilistico il punto in cui le misurazioni vengono effettuate, ovvero che anche conoscendo tutti i dati iniziali è impossibile prevedere il risultato di un singolo esperimento. Tale principio è l'ultima tappa di un percorso fisico e filosofico che va da Nietzsche ad Einstein a Husserl ed Heidegger. Casualità non casuale è che il 1927 registra la stampa di “Essere e Tempo” di Heidegger, testo che afferma l'equivalente indeterminazione della prima domanda della filosofia: la domanda sull’Essere delle cose e del Mondo non può che esistere come domanda su noi stessi che siamo misuratori e osservatori, presenti come Esserci, come Cura del Mondo, iniziando e finendo nella temporalità mortale. Qual è questo percorso fisico e filosofico che si conclude nel 1927? Si conclude un lungo tentativo della filosofia durato tutto il secolo XIX di trattenere in sé il sapere scientifico. Si conclude con la consapevolezza che la scienza e la parola

sono due cose oramai inconciliabili. La scienza riesce a portare avanti il mondo, senza la filosofia. Thomas Mann, Robert Musil e Marcel Proust sono gli autori letterari che maggiormente avvertono questo disagio esistenziale, per cui la scienza letteraria non progredisce e non dà risposta, mentre la scienza porta innovazione, cambia il mondo, accorcia le distanze e permette all’uomo di accelerare il cammino della storia. James Joyce cerca la superiorità della parola nell'affresco della coscienza nel suo “Ulisse”. Husserl e Heidegger, lucidamente, affermano che il “linguaggio si è rotto”; Von Humboldt cerca la verità che ci deve essere nella parola perché nasce diversa nelle parti del mondo e Cassirer teorizza la parola perfetta nella “Filosofia delle forme simboliche” per tornare a un simbolo linguistico che racchiuda anche quello matematico. A questo percorso filosofico, l’Ermetismo italiano fa da eco spezzando parole ed endecasillabi. Heisenberg è anello di congiunzione tra l’oggettività della scienza e del suo procedere e la letterarietà del nostro sapere che sempre è costretto a pre-


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supporre. Tali tentativi di ricostruire il sapere assoluto scaturente dalla consapevolezza di rottura del linguaggio furono alla base del nazismo e del fascismo. I padri dell’esistenzialismo, amanti dell’infinita essenza dell’uomo, partorirono il super uomo, distruttore di razze e minoranze. I padri del Relativismo, teoria dell’indeterminazione della scienza, partorirono la bomba atomica. Non è un caso che il desiderio di ordine, che convinse Ungaretti a prendere la tessera del partito fascista e che portò all’illusione filosofi quali Heidegger di aspirare all'onnipotenza della lingua tedesca quale erede della lingua greca, fosse lo stesso desiderio corrisposto dai fisici contemporanei che divennero tutti padri della Bomba Atomica, da Einstein ad Heisenberg. Il senso ironico della Storia, per ricordare all’uomo che non ha controllo sulle idee, è crudele. Corollario 1. Il Dopoguerra. Questa lunga premessa serve a introdurci alla comprensione degli anni dopo la Seconda Guerra. La rottura del linguaggio e del sapere, i tentativi di elevare a potenza e a infinito l’uomo, erano stati riportati nell’orizzonte della mortalità e della finitudine umana. Nel modo più feroce e sanguinario che si possa oggi ricordare. Le bombe, i numeri incredibili di morti, la crudeltà ossessiva e cieca, l’annichilimento dell’intero popolo tedesco che semplicemente obbedì all’ordine del massacro degli Ebrei e alla sottomissione degli altri stati d’Europa, chiusero ogni dissertazione. Di massimi sistemi filosofici nessuno più avrebbe voluto disquisire. La Pop Art non fu solo il movimento della vittoria americana. Fu un desiderio di dire “Ok, quel momento, quel compito di riunire le arti e la scienza è passato. Divertiamoci”. L’Arte Povera, la Conceptual Art e la Land Art sono l'incanto di tornare indietro nel tempo, ricerca di equilibri impossibili e di portare gli occhi di un contemporaneo agli albori dell’umanità attraverso l'uso di materiali semplici. L’annunciazione critica e lucida di tale passaggio fu compresa dagli scrittori sopravvissuti al Dopoguerra e Heidegger è un autore in cui potremmo trovare traccia del lascito. In “Sentieri Interrotti” e “In Cammino verso il linguaggio” Heidegger ammette l’impossibile predominanza della parola, intravedendo nell’imma-

heidegger ammette l’impossibile predominanza della parola, intravedendo nell’immagine la nuova lingua attraverso cui parlerà l’uomo

Robert Musil

gine la nuova lingua attraverso cui parlerà il mondo e l’uomo. Ne “In Cammino verso il linguaggio”, il filosofo tedesco partendo dalla poesia di Georg Trakl, titolata appunto “La parola”, arriva a dire che “qualcosa è laddove non c’è la parola”. Ovvero, anche se non riusciamo a coglierlo, non è detto che non ci sia. Esiste una poesia, non necessariamente scritta di lettere e vocaboli che può cogliere l’essere nel mondo. I “Sentieri Interrotti” rispondono a questa domanda ponendo l’arte come centro di questa visione. L’immagine che

viene prima della parola. La visione prima del racconto. Affidare la conoscenza del mondo all’immagine è stata ed è la cifra della nostra contemporaneità: separata dal numero e dalla verità scientifica, solo l’immagine può assurgere a una verità distinta da quella scientifica laddove la parola naufraga. Immagine che è specchio o continuazione fantastica del mondo, senza nessun freno. E negli ultimi decenni così è stato: immagine artistica, immagine pubblicitaria; la prima che diventa la seconda che si ri-commuta nella prima. La nostra tecnolo-


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gia e il nostro progresso consumistico si è mosso attorno all’immagine diventata prima televisiva, digitale, internettiana, poi fotografia mobile che diventa elevazione del mondo a potenza. Del mondo e non più dell’uomo. Tutto il processo che noi stiamo chiamando ora digitalizzazione, non ha alla base il passaggio dallo scritto all’immagine video di un monitor? Penso al nuovo significato della parola avatar, che una volta rappresentava il divenire corporeo di una divinità, ora è un processo che trasforma l’identità umana nell’immagine ideale che noi vogliamo per noi stessi. Il profilo era il ritratto reale, oggi è ritratto ideale. Tutte le forme della cultura seguono il processo di idealizzazione. La parola nelle sue forme guarda a distanza: la critica arriva sempre dopo a cercare di imbrigliare, di curare, di mettere il punto. L’estetica arriva ultima, stanca sui banchi di accademia. La filosofia non partecipa neanche e la letteratura diventa diario e cronaca. È significativo che la formula di scrittura esposta da Chuck Palahniuk reciti come la scrittura letteraria debba diventare elettrizzante come un videogioco e altrettanto significativi sono i successi della letteratura fantastica quali “Il Signore Degli Anelli” e “La Storia Infinita”, romanzo formativo sui rischi della vita immaginifica. È diventata immagine la politica stessa: qui in Italia siamo più avanti che negli altri paesi. Mentre in Inghilterra e in America ancora si combatte con il magnate dell’editoria internazionale, cercando di addomesticarlo, vendendosi a piccoli pezzi, qui in Italia siamo andati oltre e prima. Semplicemente abbiamo permesso a chi governava il mercato dell’immagine televisiva ed editoriale di andare al potere. Siamo sempre stati più avanti delle altre nazioni. Spesso nel bene e stavolta nel male. Postulato 2. La freccia dell’immagine. Se dovessimo rappresentare il tempo attraverso la parola, penseremmo a un percorso che si articola attraverso il 'prima' e il 'dopo'. Ogni frase continua la precedente, aggiunge un pezzo. In questo si dice che il pensiero procede, dando un’immagine illusoria del tempo che continua. Se rappresentassimo invece il tempo attraverso le immagini, penseremmo a un percorso che si articola per metamorfosi o sostituzioni tra immagini, dove un'immagine può anche ritornare alla precedente, senza un

filo conduttore o riferimento. Il tempo disegnato dalle immagini sembra un'amplificazione o una ripetizione. All'interno di tale ripetizione, il tempo non può scorrere. Il tempo rimane una costante illusione, un sempre presente riflesso di sé, di guardarsi in uno specchio sempre cangiante. Un video di Markus Schinwald: in un mondo di connessioni, un uomo non riesce a staccarsi da un filo attorcigliato alla sua caviglia; ma il cavo è staccato da tutto ed è solo la sua impressione di non riuscire a essere libero; mentre cerca di liberarsi, il suo tentativo diventa una danza di tip tap. In una installazione di Mario Airò, un petalo di foglia danza all’infinito. È come un minuto che dura eterno. Un 'minuto esistenziale' in cui continuando a cambiare, la natura umana osserva la sua costante caducità e il suo rinascere fino a sembrare qualcosa di bello nella sua terribile pochezza. Il tempo attraverso le immagini non scorre nelle metamorfosi attraverso le opere: resta fermo amplificandosi e contemplando se stesso, in un minuto che non smette di terminare e auto illudersi. Corollario a. La cifra di Glenn Gould e il naufragio della lettura della Storia. Glenn Gould è il più grande interprete di Bach della nostra epoca e uno dei più originali interpreti dotti del repertorio classico in generale. Il pianista canadese si ritira a 32 anni dalla vita concertistica (32 è il numero delle variazioni Goldberg, 32 sono le sonate di Beethoven) per dedicarsi alla registrazione costante dei pezzi in sala di incisione, innamorato della tecnologia. Glenn Gould compone una sola opera conosciuta, un quartetto per archi. Il suo amico Bruno Monsaingeon non è entusiasta leggendo la partitura, ma la salva dopo averla eseguita. A parte questo, Glenn Gould non ha mai composto nulla. Ha detto di Bach “che ha passato tutta la vita a comporre fughe, che non ha mai fatto altro in tutta la vita”. E di lui possiamo dire che non ha fatto altro che re interpretarlo: cercando fughe nelle opere di Mozart e di qualunque altro compositore gli venisse sotto mano. Quando si trova a eseguire il Contrappunto XIV dell’“Arte della Fuga”, si trova davanti a un pezzo incompiuto. Il Contrapunctus in questione è una fuga a 3 soggetti, vale a dire una fuga tripla, in re minore, in metro alla breve. Agli inizi del 1981,

Bruno Monsaingeon lo convinse a concludere una puntata della trilogia filmata “Glenn Gould plays Bach” con il monumentale contrappunto. La sera della registrazione Gould convocò il regista e gli confessò che la fuga dava problemi “È la cosa più difficile che abbia mai affrontato. In qualche modo bisogna renderla scorrevole: ma come? Ne ho diverse versioni: una che suonerebbe come una pavana, un’altra come una giga, tutte completamente diverse per quanto riguarda tempi, fraseggi, articolazioni e via dicendo”. Nella battuta 239, re3, una croma, la musica si interrompe. Come fulminato da una scossa elettrica, Glenn Gould solleva improvvisamente il braccio e lo mantiene fermo in aria: la scena viene immortalata dalla cinepresa con un fermo immagine. Chi ha visto il video, non può dimenticare questo gesto. Che dice “Io qui non arrivo oltre”. Nella continua ripetizione e amplificazione, l’immagine di Gould viene assumere il simbolo di un’epoca che più che veri artisti conosce interpreti che ripetono e trasfigurano all’infinito; viene a completarsi il percorso di naufragio del linguaggio: dove la rottura con il tempo immediatamente passato dell’Ante Guerra, diventa rottura con il tempo della Storia in generale. In modo che gli anni dal 1950 sino a oggi appaiano come un grande Barocco senza riferimenti storici. Fine prima parte. Prosegue nel prossimo numero.

Thomas Mann


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INTERVISTA AD ANTONIO NUNzIANTE

DA VAN GOGH E GAUGUIN A NUNzIANTE UN VIAGGIO NEL PAESAGGIO IMMAGINIFICO di Sandra Salvato Anche Boston ci ha provato, a riprendersi il quadro, 'quel quadro'. Parliamo della grande opera di Gauguin “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (D’où Venons Nous, Que Sommes Nous, Où Allons Nous)”, senza il quale, scrive e ripete a voce alta il deus ex machina Marco Goldin davanti alla stampa, agli amici, agli sponsor, ai colleghi, “la mostra non si sarebbe potuta fare, e che con quest’unico quadro la mostra si sarebbe potuta svolgere”. La calamità che ha ferito Genova pur senza piegarla, ha spaventato a tal punto che alcuni tra i Musei e le Gallerie prestatrici hanno intimato il dietrofront ai propri corrieri. Viaggio uguale impresa dunque, nel senso più faticoso del termine. Perché non senza sforzi Goldin, ideatore, curatore e principale promotore della mostra costata ben 5 milioni di euro, “Van Gogh e il Viaggio di Gauguin” che si è aperta il 12 novembre al Palazzo Ducale di Genova e ivi resterà fino al 15 aprile 2012, è riuscito a mutare un trasferimento irto di ostacoli in un’avventura culturale, un impegno in un viaggio che per dirla alla Kerouac - “benedicesse la terra, oscurasse tutti i fiumi”, fosse insomma un ritorno alla vita in un momento di grande disperazione. È dedicata a coloro che non ce l’hanno fatta e a quelli che si sono rimboccati le maniche, questa mostra che ruota tutta intorno al tema del viaggio, termine che evoca mille suggestioni, che rappresenta l’andare e fissa punti di partenza e di ritorno, reali e immaginari, lontani e vicini, fisici e mentali. Come non essere sedotti da un capitolo così importante della vita se poi viene addirittura raccontato dall’arte. Che si fa argano per risollevare gli animi e ci fa percorrere un mare che non a caso, bagna il capoluogo ligure. “..Il domandò, che viaggio avuto avessero, e quando a Genova fosser giunti ..”, come le parole di Boccaccio mettono insieme la città e il topos letterario, così le immagini narrate nella mostra a Palazzo Ducale uniscono luogo e andar per luoghi. La prima metonimia la si incontra all’inizio del percorso tra 80 capolavori della pittura europea e

americana del XIX e XX secolo, un allestimento che non solo esibisce ma crea. Il primo step infatti lo si compie davanti alla ricostruzione (ideale) della stanza presa in affitto da Van Gogh ad Arles e dove il pittore mosse nervosamente i suoi passi nell’attesa del viaggio di Gauguin. Qui, accanto alle scarpe vissute e infangate del maestro olandese, stanno i dipinti di Giorgio Morandi, diversi ma non nell’anima, che s’invischia con la realtà e in modo del tutto personale ritorna intrisa di vita, pronta a confessare, a farsi osservare. Sono molti i materiali che aiutano il visitatore nella comprensione della filologia espositiva. Disegni, taccuini, ritagli, plastici dilatano l’ambito ospitante fino a far sembrare il percorso un itinerario spaziotemporale aristotelico, finito eppure continuo. L’esplorazione è il fil rouge che connette autori di passati distanti (come Turner con Rothko) e muove la materia oltre gli argini delle tele facendo dialogare un preciso soggetto a tanti possibili soggetti esterni. L’esplorazione è l’unico modo per penetrare una matassa di memorie reali e fantastiche che ha mille bandoli. Pensiamo alla vertigine dello spazio americano riportata da Bierstadt, il pittore dell’Ovest, della scoperta dello Yellowstone e di Yosemite, a Church, pittore della valle dell’Hudson, oppure alla natura di Wyeth, ai chiari di luna di Homer e alle luci accecanti di un mattino, in un interno, di Hopper. Scene straordinarie che giungono a noi da un tempo remoto come una scenografia teatrale che si srotola e ci scorre davanti agli occhi. Siamo solo all’inizio dell’allestimento, una messa in scena rigorosa che lascia parlare i quadri e forse non ha potuto aspirare a diventare ulteriore cornice per lo sguardo. Si ha infatti l’impressione che le intenzioni potessero comprendere altro, magari qualche effetto speciale. Fatto sta che la sobrietà con cui si riferisce di questa precisa indagine artistica è funzionale alla migliore valutazione possibile del significato del viaggio attraverso la pittura. Semplice e diretto. Percorriamo il corridoio nella consapevolezza che si

sarebbe stretto verso vedute più mentali, verso una trasformazione di difficile nominazione. A un tratto appare, ritagliata dal buio, la tela di Gauguin, una vera epifania considerato che quest’opera, quattro metri di lunghezza per uno e mezzo di altezza, in Italia non si è mai vista e in Europa una sola volta, a Parigi una decina di anni fa. Quarto prestito in un secolo. Quasi una presenza indigena, una mescola di colori e figure che pare prenda vita nella sua stravagante composizione per raccontarsi all’interno di una salacapanna. La ricostruzione dell’habitat in cui verosimilmente il pittore ha dipinto nell’isola di Tahiti. Mancava solo la sabbia. Gauguin, che tanti mari ha solcato prima di approdare qui, rappresenta il viaggio entro confini più brevi, quelli dell’isola, quelli che separano la casa dalla spiaggia, ma soprattutto narra il viaggio spirituale, la ricerca del paradiso perduto. Siamo di fronte alla sintesi assoluta della mostra, a un’immagine carica di simboli che si legge da destra verso sinistra e conta vari nuclei rappresentativi. Protagonisti la nascita e la morte, il sentimento religioso orientale opposto a quello occidentale - l’icona azzurra rivela l’interesse di Gauguin al sincretismo culturale - la giovinezza, l’armonia del creato, l’umano e il divino, cose visibili e invisibili, emozioni e filosofia. Costruito con un effetto quasi cinematografico il quadro, che vale 300 milioni di euro, è fatto di mille scene dove ricorrono motivi cari al pittore ed elementi anticipatori del fare futuro. Dopo un breve ma significativo intermezzo su Monet e Kandinsky siamo già agli inizi del Novecento - in cui la sovrapposizione e l’integrazione tra luogo e pittura sono totali e l’interiorizzazione della realtà rinvia a un’altra significazione delle cose vedute - emblematico il dipinto di “Lo stagno delle ninfee” e il ponte giapponese del pittore francese - scopriamo il corpus principale della mostra. Quaranta opere e dieci disegni di Van Gogh. Ogni tela si rivela nella luce, non artificiale, bensì naturale della propria tavolozza. Il pittore ha visto tutto, sente il mondo con gli occhi. Van


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Paul Gauguin, “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?�, (part) 1897-1898 olio su tela, cm 139,1 x 374,6 Boston, Museum of Fine Arts

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l’esplorazione è l’unico modo per penetrare una matassa di memorie reali e Fantastiche che ha mille bandoli Albert Bierstadt, “Tra le montagne”, 1867 olio su tela, cm 91,9 x 127,6. Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT

Vincent van Gogh, “Uliveto”, 1889 olio su tela, cm 72,4 x 91,9 Otterlo, Kröller Müller Museum

Gogh è totalmente innamorato della luce, del fuoco dei colori, da esserne sul fine sopraffatto. In un’escalation di voracità visiva, l’autore accende il mondo, lo potenzia nei suoi tratti, nelle sue tinte, lo tocca. Un capolavoro dopo l’altro, la natura si squaderna secondo mille declinazioni, dal Vigneto, alle “Barche di pescatori sulla spiaggia di Les Saintes-Mariesde-la-Mer”, al Sentiero nel Parco, passando per i “Filari di Pioppi al tramonto”, la serie dei Tronchi d’albero, fino ad approdare al noto “Il Seminatore”. Scrive alla sorella nell’estate del 1888, “Lavorando all’esterno, nella grande calura del giorno, mi trovo magnificamente. È un caldo secco, limpido, diafano. Il colore qui è veramente bellissimo. Quando il verde è fresco è un verde ricco come ne vediamo raramente al Nord, un verde distensivo. (…) ma il paesaggio assume allora torni dorati di tutte le sfumature: ora verde, ora giallo, ora rosa, ora bronzino, ora ramato, infine giallo limone o giallo scialbo, il giallo di un mucchio di grano battuto, ad esempio”. Ogni dipinto è un racconto, un

lumeggiare sul senso della vita, un viaggio tra le cose e il loro dirsi. Infine la scritta, Vincent. Una piccola stanza e un ‘grande’ quadro. “Autoritratto al cavalletto” rappresenta ancora un altro percorso, quello verso l’eterno che spazia in ogni 'Io' e che dovrebbe riportare al punto di partenza, alle proprie “espressioni passionali, impiegando come mezzo d'espressione e di esaltazione del carattere la nostra scienza e il nostro gusto moderno del colore”. Van Gogh e la mostra ci lasciano di fronte a un covone, sotto un cielo nuvoloso, ai campi di grano con i corvi, a una natura che si offre come un corpo a una lunga e intensa meditazione.

INTERVISTA Viaggiare, come scrive Onfray, rivela ciò di cui siamo portatori. Esserne consapevoli significa comprendere

che il talento è tale solo se al servizio di uno stato di grazia che consenta di vedere oltre quello che si palesa allo sguardo mentre siamo in movimento. E quando ciò accade, è allora che la pittura manifesta la pienezza della propria forza. Dovesse anche prendere strade nuove come nel caso di Antonio Nunziante, che nella sua mostra “Paesaggi della luce” allestita nella Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e partita in contemporanea a quella dei grandi Maestri del colore (12 novembre -22 gennaio 2012), annuncia una metamorfosi, giudicata non a torto dal curatore Marco Goldin, “il traguardo migliore che abbia mai toccato nella sua storia di artista”. I dipinti, quaranta in tutto, nascono da uno sguardo diverso, se vogliamo più libero, davanti agli avvenimenti della luce. La galleria di paesaggi, tutti immaginifici, ora si allarga, ora si stringe in perfetto sincrono con le visioni dello spirito. A volte è solo la materia che prende spessore divenendo presenza tangibile, a volte è una dissolvenza del tratto, l’immagine che non aderisce più alla tela perché sta


arskey/Dossier | Intervista ad Antonio Nunziante

Antonio Nunziante,“Percorsi in una notte stellata” olio su tela cm 40x60

Antonio Nunziante,“Controluce a Saintes-Maries de la Mer”, olio su tela cm 30x40


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cercando, per le vie informali, altri spazi da colonizzare. Quelle stanze dove tutto accadeva ed era più faticoso ma virtuoso contenere, si sono aperte, spalancate alla potenza della natura. Vivono l’acqua, i sentieri, il cielo romantico e non possiamo non pensare a Turner, a Friedrich. Fuori da quella soglia il mondo di Nunziante respira e arditamente si dilata, prende forma. Anche antropomorfa. Come un prodigio capita che si materializzi un uomo - forse il pittore? -, e da questo riprendiamo a guardare, quasi cercando di afferrare l’altro capo del filo per farci trascinare in tale magnifica avventura di luce e bellezza. Sandra Salvato: Come nasce la mostra? Antonio Nunziante: È un progetto nato lo scorso anno, quando stavo lavorando a quella sul Caravaggio. Goldin mi ha chiesto di produrre una mostra che avesse il viaggio come motore principale. “Voglio che faccia il tuo viaggio così come questi artisti - Gauguin, Van Gogh - hanno fatto il loro”, mi ha detto Marco. Mi ha fatto capire quanto fosse importante essere abbinato a questo evento a Palazzo Ducale. Ho cominciato a produrre subito, dopo la mostra di Fiesole. Avevo già i progetti, i disegni. Ho realizzato quaranta opere e, a parte 4-5 tele grandi, gli altri sono dipinti di dimensioni piuttosto contenute. Non volevo fosse la superficie a dettare l’impatto emotivo, ma che ci fossero piuttosto piccoli racconti interiori. Prendiamo “Narciso”, il quadro come vede - è nato piccolo, ma Goldin mi ha chiesto di ingrandirlo, due metri per un metro e mezzo. Questo perché, insieme a un altro dipinto, verrà integrato in un’altra mostra, inserito cioè in un contesto e non lasciato a se stante come in questo caso. S.S: Goldin parla di una nuova strada, una nuova pittura. Ci spieghi meglio. A.N: Assolutamente si. Se la mostra di Fiesole è stata realizzata, pensata, attorno a delle icone, contestualizzata insomma - non era la mia mostra, ma quella voluta da un curatore (Giovanni Faccenda, n.d.r.) - questa al contrario nasce per me. Anche il mio mercante è venuto in studio e ha chiesto di acquistarla. Ho risposto no, questa mostra è mia. Non volevo condizionamenti da nessuno. Penso di essermi conquistato una libertà che poche altre volte ho avuto, vuoi per il mercato, vuoi per la televisione, vuoi per i curatori che ti portano verso determinate direzioni. E questo è un errore. Se l’artista non è un uomo libero non è un artista. Io l’ho sempre detto, e scritto. Picasso un giorno ritrasse la moglie, ballerina russa, come un pittore dell’Ottocento, il giorno dopo realizzò un quadro cubista. Se avesse voluto dipingere una colomba in modo iperrealista o raffigurarla con altri mille stili, fino a rappresentarla con

una sola linea, quello sarebbe stato il divertimento per l’artista. Fare cioè quello che si sentiva di fare. Trentacinque anni di condizionamenti del mercato - io ho sempre vissuto di pittura -, questo è stato il mio danno e pure il mio vantaggio. Perché il grande mercante ha mezzi importanti ma la libertà è fondamentale. S.S: Perciò non dobbiamo considerare questa mostra un caso isolato, ma l’inizio di una nuova avventura. A.N: Certamente. Questa è la pietra miliare, la mia stella polare. Questo è l’inizio perché li ho dipinti per me. Prendiamo Miró, anche lui aveva attorno a sé buoni consiglieri che lo hanno supportato. Perciò con buoni manager si crea il fenomeno. Io questa volta sono partito da me stesso. E

romantica, a sfondare ancora tra le provocazioni dell’arte contemporanea? A.N: Qui non c’è carbone, non un pezzo di lamiera. Qui c’è energia pittorica allo stato puro. È pittura. Certo che una mostra così stride in un momento in cui si celebra l’Arte Povera in tutti i musei italiani. Sembra una mostra fuori dal mondo. Ma forse è il futuro. Perché la gente ne ha piene le scatole di essere presa per i fondelli. Si potrà dire che sono cose già viste ma davvero le cose già viste devono essere cancellate con un colpo di spugna? S.S: Come si salva l’arte in piena crisi economica, di valori. A.N: Sono un uomo del terzo millennio che vive la sua contemporaneità.

Antonio Nunziante, “Io sono il signore degli spazi vuoti e dei suoi itinerari, conosco bene il mio mondo come lo conosce il sole”, 2011 olio su tela, cm 100 x 100 collezione privata

per quanto si vogliano cercare punti di riferimento le nuvole non sono di Magritte, i campi di grano non sono di Van Gogh. Anche quando facevo una pittura più surreale guardavo al mio modo di sentire o vedere le cose. Ci sono dei luoghi comuni in arte, si può incorrere in confronti più spesso di quanto uno non immagini. C’è un dipinto in mostra che nasce da alcune foto che ha scattato mio figlio in Tanzania. Ebbene, quello è stato il punto di partenza ma il paesaggio che noi vediamo non è la Tanzania, è un luogo possibile, immaginato. Ogni paesaggio è stato creato, pensato ascoltando i racconti di chi viaggia, ricorrendo ai miei ricordi, a un’idea. Non hai sempre bisogno di un’immagine di riferimento. S.S: Come riesce la pittura, per giunta

Quando si parla di politica al giorno d’oggi si parla di banalità. L’Italia è molto più forte di quello che ci vogliono far credere, per merito di quegli italiani che si prendono la briga di lavorare 14-16 ore al giorno, e mantengono dipendenti. Sono questi gli eroi, non i furfanti o i pagliacci dei talk show televisivi. Il valore aggiunto del nostro Paese siamo noi. Se ci lasciassero da soli staremmo tanto meglio. Non parlo di anarchia ma di una solitudine che ha a che fare con la libertà di agire, di pensare. Vivere nel rispetto della libertà di ognuno. Qui, in Italia come a Genova, c’è arte e per questa arte ci sono centinaia, migliaia di persone, disposte a spostarsi da tutta Europa per venire a vederla. Per sentirsi meglio.


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DOSSIER

LA CAPACITà DELLE ISTITUzIONI ITALIANE DI FARE SISTEMA AL bANCO DI PROVA di Annalisa Pellino In mostra le storie dell’Arte Povera … a Bologna Milano Napoli Roma e Torino! … a Bologna Milano Napoli Roma e Torino!

Pino Pascali, “Ponte levatoio”, 1968 steel wool, plywood. 221 x 118 x 10 cm Kunstmuseum Liechtenstein, Vaduz. Foto / photo Stefan Altenburger Al Castello di Rivoli

È passato quasi mezzo secolo dalla prima mostra dell’Arte Povera presso la Galleria La Bertesca di Genova (1967) e ancora una volta il movimento e i suoi protagonisti trovano in Germano Celant il mentore ideale. Con un 'atto dovuto' di rilettura e storicizzazione, sono state ben 6 le istituzioni italiane coinvolte nell’ampio e complesso progetto espositivo dal titolo “Arte Povera 2011”. Lungi dal costringere storie diverse in una mera ricognizione antologica del movimento, le varie mostre propongono un affondo sui diversi aspetti del movimento che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta è stato il punto di convergenza di linguaggi differenti

targati Anselmo, Boetti, Clazolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Pascali, Penone, Pistoletto, Prini e Zorio. Così alla Triennale di Milano - promotrice dell’evento insieme al Castello di Rivoli - la mostra “Arte Povera 19672010” si dispiega in un doppio percorso focalizzato da una parte sulla poetica del gruppo nell’arco di tempo che va dal 1967 al 1975, dall’altra sulle opere dei singoli artisti che hanno proseguito autonomamente le proprie ricerche fino al 2010. Del resto lo stesso Celant, nel recente “Arte Povera. Storia e Storie” - che riprende e aggiorna la riflessione del precedente "Arte Povera, storie e pro-

tagonisti" (1985) -, evidenzia come questo movimento rinvii a un determinato contesto, contingente e particolare, ma allo stesso tempo sia stato in grado di accogliere un pluralismo espressivo capace di autodefinirsi e riattualizzarsi nel corso degli anni. Anche il Castello di Rivoli ha inaugurato, l’8 ottobre, una mostra di caratPovera tere generale: “Arte International” propone infatti un confronto con le coeve correnti internazionali quali Body, Conceptual e Land Art, i cui confini non sono mai così netti come la necessaria esigenza di categorizzazione potrebbe far credere. Anzi l’Arte Povera, che ha sempre fatto ricorso a una varietà di media e


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la mostra potrebbe costituire il punto di riFerimento metodologico e progettuale di un modus operandi esteso a tutto il territorio nazionale supporti tale da includere anche video e fotografia, potrebbe quasi esser letta come la declinazione tutta italiana di una mutazione artistico-culturale che negli anni Settanta ha toccato le due sponde dell’Atlantico. Una mutazione che ha costretto le stesse istituzioni tradizionalmente preposte alla conservazione e alla storicizzazione, a riformulare le proprie categorie critiche, i criteri espositivi e gli stessi parametri di giudizio e attribuzione del valore. Va da sé allora che la rilettura proposta da questa mostra-evento - sempre sulla base di criteri rigorosamente storici di cui Celant rilevava la mancanza in una mostra come “Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968-2008”, curata da Francesco Bonami a Palazzo Grassi -, pone non tanto, o non solo, la questione dell’opportunità di considerare o meno il movimento come parte di una tradizione artistica italiana di respiro internazionale, in grado di raccogliere l’eredità del Futurismo. Né tantomeno sembra che il problema principale sia la messa in discussione della sua carica eversiva, anch’essa contestuale e influenzata più o meno direttamente da contingenze storiche pre e postsessantottine. Carica eversiva di cui nella maggior parte dei casi solo le opere recano ancora traccia, opere che spesso non amano la parete e che, pur confrontandosi con ampi spazi, vanno incontro a difficoltà espositive e allestitive di non poco conto. Sul banco di prova infatti non è tanto la persistenza o la rappresentatività del movimento, quanto la capacità delle istituzioni italiane di fare sistema, la collaborazione stessa fra i vari musei che hanno risposto all’appello di un evento fortemente caratterizzato anche dal punto di visto simbolico: non solo la mostra cade nell’anno del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ma anche in un momento in cui la crisi della cultura (e non solo) pare sia diventata ormai il pane quoti-

diano degli italiani. Nel clou del dibattito sulla maximanovra finanziaria, che minaccia di far chiudere enti e centri di ricerca come l’Accademia della Crusca e mentre la Lega continua a battere il chiodo del Federalismo considerandolo come 'la madre di tutte le riforme', pensare a una coesione interregionale fra enti e musei quasi fa sorridere (amaramente) ma soprattutto fa riflettere. Dopo un’oculata fase di rodaggio infatti, se le suddette istituzioni riuscissero a riconfermare nel lungo periodo la collaborazione sinergica che le ha fatte incontrare per sposare la causa di questa mostra-mosaico (Celant), il proprio ruolo di mediatori culturali ne uscirebbe sicuramente rinvigorito, soprattutto in un momento così critico. Ancora oggi i musei soffrono di un eccesso di autoreferenzialità regionalistica, fieri portatori di un’identità circoscritta alla storia delle proprie collezioni, che invece potrebbero aprirsi a una circolazione di opere, competenze e risorse economico-finanziare, indispensabile per concepire e realizzare mostre di ampio respiro. Avviare progetti collaborativi virtuosi significa anche fare cassa comune e monitorarsi a vicenda, traendo vantaggio dalle singole specificità, ergo un buon deterrente per il malcostume gestionale del patrimonio artistico italiano, fin troppo sensibile ai valzer della politica. Come una sorta di progetto pilota dunque, la mostra potrebbe costituire il punto di riferimento metodologico e progettuale di un modus operandi esteso a tutto il territorio nazionale, in grado di fare del sistema di rimandi di cui è parte, e non dell’autoreferenzialità regionalistica (o peggio cittadina) la base di un' identità forte. E allora, quale modo migliore per iniziare se non documentando le storiche tappe del movimento che ha toccato tutto lo stivale, da Genova ad Amalfi, da Bologna a Roma?

È dunque il MAMbo, con la mostra “Arte Povera 1968”, a proporre un focus su inizi e sviluppi dell’Arte Povera, attraverso una selezione di cataloghi, libri d’artista, manifesti e inviti, ripercorrendo altresì il dibattito critico seguito all’esposizione bolognese della Galleria De’ Foscherari nel 1968. Mentre al MADRE di Napoli o meglio nell’attigua Chiesa trecentesca di Santa Maria DonnaREgina -a essere omaggiata, con una serie di interventi d’artista, è la storica mostra agli Arsenali di Amalfi “Arte Povera + Azioni Povere 1968”. Passaggio che il direttore scientifico dei lavori, definisce vero “momento forte”. Il MAXXI è invece il fulcro dell’intervento alchemico di Gilberto Zorio, mentre la Galleria Nazionale d’arte moderna riaprirà al pubblico il 7 dicembre con un riallestimento che valorizza l’Arte Povera e in particolare la figura dell’eclettico e troppo prematuramente scomparso Pino Pascali. Dopotutto anche la capitale ha svolto un ruolo di punta nella geografia del movimento, ospitando artisti come Kounellis e lo stesso Pascali, che in comune con gli altri poveristi avevano l’attenzione per la materia grezza e le sue possibilità, fisiche, chimiche e performative. È questo infatti il filo rosso che accomunava linguaggi e generi sì differenti, ma che all’unanimità rifuggivano l’artificio, puntando piuttosto a valorizzare le caratteristiche intrinseche dei materiali. Non a caso dunque il concetto e la stessa definizione di Arte Povera rinviano a quella di “Teatro Povero” del regista polacco Jerzy Grotowski, il cui rivoluzionario metodo consisteva appunto nel ridurre al minimo gli elementi scenografici per affidare tutta la carica emotiva e linguistica dell’opera al corpo dell’attore, con la sua facoltà di dominare lo spazio della scena e metaforicamente quello della platea. L’energia comunicativa del corpo e della materia diventava così il marchio di fabbrica di un’ arte che può fare a meno di commenti e messe in scena declamatorie, che parla da sé con tutta la forza della sua presenza, con l’evidenza della sua causalità, che riesce a essere concettuale senza rinunciare alla forma. Celant infatti ne sottolinea la flessibilità e la fluidità, laddove il concetto di povero racchiude in sé tanto il mondo naturale quanto quello artificiale, dall’insalata alla plastica, dal pappagallo alla fiamma ossidrica, dall’albero all’acciaio inox, tutto rigorosamente ridotto ai minimi termini.


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ARTE POVERA, UN'OCCASIONE DI DISCUSSIONE di Fulvio Chimento

Jannis Kounellis, "Senza titolo" Al MAMbo


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il grande merito dell'arte povera è stato quello di sapersi inserire nel dibattito internazionale dell'arte e di captarne alcune delle tendenze principali, celant, in poche parole, è stato in grado di 'sprovincializzare' l'arte italiana La mostra presentata al MAMbo, dal titolo “Arte Povera 1968”, trae spunto da una delle prime esposizioni sull'argomento tenutasi proprio a Bologna, alla Galleria de’ Foscherari, nel febbraio 1968. L'evento partecipa al grande progetto condiviso da diverse realtà museali italiane che propongono un'interpretazione storica di quel che nasce con il rifiuto dei saperi istituzionali e che, secondo alcuni critici, costituisce con il Futurismo il movimento artistico nazionale più importante e influente del Novecento. Nel contesto di un progetto di così ampio respiro, il MAMbo offre una peculiare lettura delle origini dell’Arte Povera e dello specifico filone legato all’editoria storica e attuale. Vengono presentate al pubblico alcune delle opere esposte durante la mostra storica alla Galleria de’ Foscherari così come altre che testimoniano l’attività svolta dagli artisti intorno al periodo considerato. A queste si aggiunge una selezione di materiali - cataloghi, libri d'artista, manifesti, inviti e documenti realizzati a partire dalla fine degli anni Sessanta - concernente il gruppo di artisti. La definizione di ‘corrente’ non fornisce coordinate del tutto esatte per definire l'Arte Povera, quindi per fare chiarezza bisognerà prendere in considerazione quanto stava avvenendo in quegli anni nel panorama internazionale dell'arte. Il minimalismo americano, con Bob Morris, Donald Judd, Carl Andre, Robert Smithson e Dan Flavin, costituiva la forza di maggiore innovazione nel mondo della forma, in una dialettica tutta interna alla storia dell'arte, che solo in seconda istanza

rimanda a un significato ideologico di rottura e di cambiamento. Dalle dinamiche minimaliste nasce anche la Land Art, che, secondo Renato Barilli, “consiste nel trasferire e imporre gli schemi minimali a un vasto contesto ambientale”. Negli Stati Uniti spiccano i nomi di Walter De Maria e Dennis Oppenheim, mentre in Europa si segnalano l'olandese Jan Dibbets, l'inglese Richard Long e il bulgaro Christo. L'Arte Povera, può essere considerata un'appendice dell'arte minimale americana oppure una fusione delle due tendenze artistiche sopra indicate, in grado, quindi, di esprimere concetti 'minimi' servendosi, però, del corredo proprio della Land art: legno, carta, sacchi, cumuli di carbone o di patate (materiali in parte già utilizzati da Burri più di vent'anni prima). Gli artisti che prendono parte a questa tipologia di minimalismo europeo presentano caratteristiche differenti nel proprio modo di lavorare, è stata questa la grande forza interna al gruppo, ma non possono essere considerati tutti sullo stesso livello, anche se il talento medio era oggettivamente molto elevato. Il tempo ha decretato che Jannis Kounellis, Giuseppe Penone e Mario Merz sono state le stelle più luminose di questo firmamento, poiché sono stati in grado di evolversi fino a raggiungere le vette più alte dell'arte contemporanea italiana. La fortuna del gruppo è stata straordinaria, tanto che tra gli anni Settanta e Ottanta, visitando gallerie e spazi istituzionali europei era impossibile non imbattersi nelle opere dei

vari Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Pascali, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini e Zorio. Le grandi gallerie italiane dedicarono mostre personali a tutti loro, che, oltre a raggiungere la fama, hanno visto riconosciuti importanti compensi economici, con buona pace di altri artisti parimenti meritevoli che frequentavano lo steso giro torinese, ma non vennero mai presi in considerazione da Celant. Tuttavia non ci sorprenderemo che la carriera di un artista possa essere condita anche da una buona dose di fortuna, che ne decreta l'affermazione. Chi riuscì a entrare nel gruppo ha avuto la strada spianata, mentre altri artisti hanno dovuto faticare non poco nell'intraprendere percorsi autonomi. Il grande merito dell'Arte Povera è stato quello di sapersi inserire nel dibattito internazionale dell'arte e di captarne alcune delle tendenze principali, Celant, in poche parole, è stato in grado di 'sprovincializzare' l'arte italiana. Per quanto riguarda invece aspetti politico-ideologici legati all'Arte Povera bisogna essere più cauti, perché in campo artistico le rivoluzioni sono quelle che hanno come oggetto i fondamenti stessi dell'arte, misurabili solamente sul lungo termine. Chi conosce la storia dell'arte sa che il concetto di 'superamento', o di 'rivoluzione', può essere circoscritto a fasi specifiche (come nel caso dell'Arte Povera), tranne, ovviamente, rare eccezioni che costituiscono dei punti di non ritorno.

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Giuseppe Penone, "Sculture di linfa” 2007 Credit Francesco Bolis Al MAXXI

Giulio Paolini, “Amore e Psiche”, 1981 Fotografia su tela emulsionata, telai, tessuti colorati Tela fotografica 55 x 65 cm, sette telai 55 x 65 cm ciascuno Collezione privata, Torino. Foto Paolo Pellio Triennale di Milano

Gilberto Zorio, “Canoa che ruota”, 2009 canoa, tubi di acciaio inossidabile, tubi di alluminio, compressore, tre otri di maiale, sibilo, temporizzatore dimensioni variabili. Collezione dell'artista Triennale di Milano

tutto è qui, è già scritto, una sorta di mastodontica stele di rosetta, e l’eFFetto sullo spettatore è pari a quello del ricercatore che dopo tanto aFFannarsi trova la chiave di lettura


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“ARTE POVERA 1967-2011”: IL FUTURO ERA IERI di Chiara Carolei

Pino Pascali, “32 mq di mare circa”, 1967 30 vasche di alluminio zincato e acqua colorata all'anilina 113 x 113 cm ognuna Galleria nazionale d’arte moderna, Roma Triennale di Milano

Una grande mostra all’interno di un progetto ancor più grande, 3000 metri quadri che si innestano in un circuito di otto istituzioni unite, in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, dall’Arte Povera. Un’occasione così, in Italia, forse non si era mai vista prima. Neanche in occasione delle celebrazioni per l’anniversario del Futurismo, quando si è preferito che ciascuno pensasse per sé. Questa volta no, la macchina si muove all’unisono, e per sette mesi l’Italia promuove l’Arte Povera. Spetta alla Triennale di Milano, insieme al Castello di Rivoli, il compito di fare da traino alle altre istituzioni, con una mostra mastodontica che parla a chiare lettere: questa è l’Arte Povera, questa è la sorgente di tutto quanto oggi si sviluppa attorno all’idea di contemporaneità. È da qui che si muove ogni forma di installazione, ogni spinta verso la contaminazione, ogni tentativo di rompere (ancora) gli schemi. Tutto è qui, è già scritto, una sorta di mastodontica stele di Rosetta, e l’ef-

fetto sullo spettatore è pari a quello del ricercatore che dopo tanto affannarsi trova la chiave di lettura. Un’emozione, un grande respiro, un premio dopo tanta ricerca. Ma subito, un istante dopo, un senso di spaesamento, e la consapevolezza che niente dopo avrà più il sapore della scoperta. Camminare tra le sale della Triennale è come sfogliare un grande catalogo antologico, proprio come il grosso volume pubblicato in occasione di questa manifestazione a otto braccia. Come camminare tra le vie della storia, riscoprendo quanto già conoscevamo, ma riuscendo lo stesso a sentirci stupiti, in qualche modo grati e orgogliosi di appartenere a una cultura capace di reagire, creare, spezzare, proporre, costruire, far fluire, circolare. Tutto è familiare, e nonostante ciò tutto sembra avere ancora la forza di poterci meravigliare. Il “Mare” di Pino Pascali risolve i conflitti tra fantasia e razionalità, Michelangelo Pistoletto non smette di trascinare lo spettatore nel proprio spazio, Gilberto Zorio

mette nelle nostre mani la formula magica per creare il contatto tra il cielo e la terra, mentre le opere di Giulio Paolini riportano il sapere e la cultura in una dimensione strutturata e misurabile. In queste stanze c’è tutto quello che conosciamo, ci sono i germogli di tutto quello che è sbocciato dopo il 1967, ci sono le grandi dimensioni e i materiali di recupero, il concetto che sposa la manualità, la circolarità che sostituisce per sempre la linearità. Ma la mostra in Triennale, curata dallo stesso padre poverista, Germano Celant, vuole essere qualcosa di più di un’antologica offrendo allo spettatore uno sguardo contemporaneo sull’Arte Povera. Ma questa contemporaneità, sottolineata nel titolo stesso con l’indicazione 1967-2011, è individuata e proposta allo spettatore nello sviluppo linguistico operato dagli stessi poveristi. È in questo contesto che la meraviglia del ricercatore di fronte a una meravigliosa riscoperta si spegne: il futuro era ieri, e oggi?


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IL MAXXI OMAGGIA L'ARTE POVERA di Gino Pisapia

L'artista crea, il critico analizza, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, il mass-media celebra e il pubblico contempla, una catena non equa ma solidale, di funzioni interagenti tra loro, corrispondenti ai diversi soggetti, ognuno portatore di una propria professionalità - le 7 sorelle tanto amate da ABO diventano protagoniste del mega evento che, in concomitanza con il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, celebra l'Arte Povera in una grande mostra sia per la qualità e quantità dei pezzi esposti che per l'ampiezza geografica che ricopre. Teatri d'incontro di Arte Povera 2011 - a cura di Germano Celant, concepita come un mosaico che forma un ritratto, un racconto globale con caratteristiche spaziali, storiche e mediatiche - sono il MAMbo di Bologna, il Castello di Rivoli Torino, il MAXXI e, la GNAM di Roma, la Triennale di Milano, la GAMeC di Bergamo, il MADRE di Napoli e il Teatro Margherita di Bari. In quest'occasione il museo non solo storicizza ma espone e mostra la storia e la geografia di un movimento artistico italiano nato nel 1967 e teorizzato da Germano Celant al quale hanno aderito fin dagli albori Pistoletto, Penone, Boetti, Calzolari, Zorio, Fabro, Anselmo, Piacentino, Gilardi, Prini, Kounellis, Paolini, Pascali, Mario e Marisa Merz. Distribuire l'evento in più regioni e sedi conferisce all'esposizione potenzialità molto forti ma soprattutto lascia emergere le caratteristiche singolari delle opere e dei relativi spazi connotanti il progetto ricostruendo in tal senso un percorso completo che va dal 1967 al 2011. “Omaggio all'Arte Povera” è il titolo della mostra di scena al MAXXI fino all'8 Gennaio 2012, curata da Anna Mattirolo e Luigia Lonardelli che propone due nuove installazioni monumentali di Gilberto Zorio e di Jannis Kounellis in dialogo con l'installazione permanente “Scultura di Linfa”, di Giuseppe Penone. Lo spazio dà vita

GilbertoZorio, "Canoa Roma” 2011 foto P.Tocci Al MAXXI

all'opera e l'opera dà vita allo spazio. Così come l'occhio fa esistere l'opera, essa deve la sua forma intima allo spazio all'interno del quale vive, pertanto la sua realtà comincia aldilà di ciò che di essa è visibile. Spazio temporale, mentale e materiale diventano elementi fisici, tali da farle assumere, ogni volta che questa entra in contatto con luoghi diversi, un nuovo senso e quasi una forma ulteriore. Prima di entrare nella sinuosa fluidità organica dell'architettura progettata da Zaha Hadid, dirigendo lo sguardo verso l'aggettante vetrata superiore del museo scorgiamo uno strano oggetto, sospeso, ancorato mediante cavi metallici alla muratura dell'edificio, è “Canoa Roma” 2011, opera specifica progettata dall'alchimista Gilberto Zorio, realizzata grazie alla Galleria Oredaria e alla partnership stipulata tra il MAXXI e Unicredit per la promozione e divulgazione dell'arte contemporanea. Tubi inox, contenitore trasparente, luci, temporizzatore, luminescenze sono i materiali di cui si compone l'installazione, dove l'elemento centrale è costituito da una canoa - motivo che l'artista declina nel suo lavoro dal 1984 - sulla cui punta un contenitore trasparente con del fosforo viene attivato periodicamente dalle luci che gli conferiscono proprietà luminose rendendola fruibile anche di notte. In questo modo l'opera va a creare un trait d'union tra l'interno dello spazio espositivo e l'esterno dove scorre la vita quotidiana e l'opera vi etra visivamente per testimoniare le tensioni e la caducità del mondo - fisico e mentale - ma allo stesso tempo 'accende' la luce della speranza. “Senza Titolo” 1988, è l'installazione di Jannis Kounellis, realizzata con la collaborazione della Galleria Marino, che utilizza imponen-

ti lastre di ferro sulle quali putrelle a doppio T fissano a esse lastre rettangolari intervallate da sacchi di juta grezzi mentre una lampada a petrolio accesa pende da un arcuato braccio flessibile ridisegnando l'atrio del museo e annullando la monumentalità dell'opera a favore del ripristino della dignità dei materiali utilizzati e sottratti all'uso comune. Temi classici continuamente ri-attualizzati nella sua poetica grazie all'impiego di materiali 'poveri', sacchi di juta, carbone, ferro, fuoco, elementi che veicolano una memoria e allo steso tempo raccontano di un' esistenza precedente. Ultima opera, non per importanza ma per collocazione, è “Sculture di linfa” 2007 di Giuseppe Penone installazione permanente nella collezione del MAXXI - presentata alla 52° Biennale di Venezia che va a occupare nella sua totalità l'ampia sala che la ospita. Le pareti sono completamente ricoperte da pezzi rettangolari di cuoio sagomato, che evocano il rilievo della corteccia degli alberi, stessa lavorazione del pavimento realizzato però in marmo bianco di Carrara, invece al centro dello spazio un albero privato della sua 'pelle' accoglie nel lungo solco che ne ripercorre il nucleo, la resina/linfa simbolo della vita. Calpestando il pavimento della sala si ha la sensazione, attraverso i piedi, di toccare le pareti con le mani mentre l'aria che si respira è intrisa del forte odore emanato dal cuoio che si fonde col profumo del legno e della resina, conferendo all'opera un'elevata carica multisensoriale. Il minimo comune denominatore tra questi tre artisti è l'attenzione - che attraverso differenti soluzioni stilistiche, linguistiche e concettuali - rivolgono alla natura, agli artifici e alle forze primigenie di cui gli elementi sono carichi ma soprattutto hanno creato ed elaborato nella loro lunga attività artistica una dialettica e un simbolismo che continua a essere presente anche nelle produzioni più recenti.


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THE PLOT IS THE REVOLUTION: qUANDO L’EVENTO PERFORMATIVO IRROMPE NELLA VITA di Francesca Caputo

“The Plot Is The Revolution”, ideato e diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con Silvia Calderoni e Judith Malina (Living Theatre), con la partecipazione di Thomas Walker e Brad Burgess e la comunità a-venire di ‘The Plot’. Una produzione Motus realizzata grazie al sostegno di: Festival Santarcangelo41, Fondazione Morra, Napoli e la collaborazione di Cristina Valenti, copyright Lorenza Daverio

Di fronte all’asfissiante deriva culturale, sociale e politica cui stiamo assistendo, ormai da troppo tempo, nel mondo Occidentale, diventa sempre più urgente la ricerca di un’arte non riconciliata e sedata dal sistema dominante, non più autoreferenziale e implosa in sé stessa. Nell’odierno scenario è principalmente il teatro d’azione, di ricerca - a lungo trascurato dalla critica delle arti visive - che, dalla seconda metà del Novecento, tenta di fare i conti con tale desertificazione. I linguaggi delle arti s’intersecano proprio nella dimensione performativa che trae origine dal teatro e dalla danza - partendo dalle avanguardie artistiche storiche, passando per la stagione degli happening, degli environment, delle performance, della Body Art - oggi è ormai parte integrante delle arti visive e dell’uso in esse dei nuovi media. L’evoluzione dei codici del teatro e della drammaturgia, grazie alla peformatività che fluidifica, attraversa e sintetizza tutti i linguaggi, espande la sua capacità di immaginare e speri-

mentare altre esperienze, altri mondi, a tutti gli altri campi, non ultimo quello dell’azione politica, intesa come performance collettiva. In questo senso l’idea di performatività restituisce attualità all’intuizione artaudiana di un teatro inteso come laboratorio antropologico (così come avveniva in tutto il teatro di ricerca degli anni Sessanta-Settanta). Paradigmatico di quest’approccio poliespressivo è il lavoro del Living Theatre (fondato nel 1947 a New York da Julian Beck e Judith Malina) che, dalla profezia di Artaud con il suo “Teatro della Crudeltà”, muove per riportare all’arte la totalità dell’uomo (fisica, mentale, spirituale). Nella sua lunga storia la compagniacomunità, ha annullato la dipendenza dal copione, dal testo codificato e dalla finzione, componendo le proprie creazioni sull’improvvisazione entro una struttura predefinita, sulla meditazione del caso, tanto cara a John Cage, sull’ensemble, sui rituali, sul valore attribuito al lavoro di disciplina sul corpo e lo spirito dell’attore, memore della lezione della biomeccanica di

Mejerchol’d. Nella convinzione che, con la sua presenza e la sua vita di relazioni, possa porsi come momento espressivo immediato, veicolando nuovamente emozioni, sentimenti, conoscenze, il Living ha saputo sviluppare pratiche che coinvolgono tutta la percezione corporea in termini performativi, articolando le azioni sceniche su una sinestesia percettiva, dove parola, azione, visione, suono, ritualità, tendenza multimediale, interagiscono in una soluzione spettacolare che sollecita il pubblico in un’apertura attiva e cognitiva, senza veramente più distinzione tra attore e spettatore. Fondendo indissolubilmente l’impegno artistico a quello civile e politico, hanno portando nell’arte le istanze pacifiste e libertarie del pensiero anarchico, l’imperativo etico di cambiare il mondo, trasformandoli in mezzi e tecniche di lavoro progettuale. Nelle costanti interazioni tra prassi teatrali e artistici, fortemente presenti anche tra gli anni Novanta del Novecento e il primo decennio del XXI secolo, si pensi ad esempio alla - 63 -


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Socìetas Raffaello Sanzio, risulta evidente il territorio privilegiato del teatro nel panorama dell’arte contemporanea. Tra le attuali espressioni più vivide del teatro di ricerca in Italia e della funzione sociale dell’arte, vi sono i Motus, fondati a Rimini nel 1991 da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande che da anni, anche grazie all’utilizzo di tecnologie e new media, stanno rivoluzionando le pratiche artistico-performative e il ruolo artista-fruitore. Con i loro spettacoli, performance e installazioni, da sempre propongono un’eclettica e poliedrica alchimia tra teatro e arti visive, fantascienza e fumetto, cinema e musica, codici pubblicitari e poesia, disegnando una spettacolarità estrema e pungente, attenta al rapporto tra spazio, corpo, sguardo e parola. In equilibrio tra catastrofici immaginari post-human e agitazioni poeticolibertarie, la compagnia opera in scena veri e propri ipertesti che mixano Beckett, Bacon, Baudrillard o Ballard, esplorano i molteplici luoghi della visione e individuando nel CutUp di Burroughs e nel détournement di Guy Debord dei validi strumenti per la creazione di nuovi universi. Il percorso dei Motus è principalmente una proposta d’azione, radicale e poetica che, ponendo precise interrogazioni su recenti accadimenti, percorre un attraversamento nelle zone del perturbante. Uno dei segni distin-

tivi della loro elaborazione progettuale - sottinteso nello stesso nome della compagnia - è appunto il movimento, il nomadismo, in luoghi che prediligono i margini in senso fisico e metaforico, traendo linfa dalle rovine del quotidiano, agendo e reagendo a essi, traducendo le contraddizioni del contemporaneo in materia attiva di riflessione e provocazione. L’ultimo progetto della compagnia, “The Plot is the Revolution” vede confrontarsi, in un interessante intreccio di esperienze, proprio i Motus e il Living Theatre. Due percorsi diversi per formazione, metodologie, forme sceniche ma convergenti nello spirito e nella convinzione che la performatività teatrale sia un linguaggio potentemente rivoluzionario di azione nel presente. Grazie al Teatro di Milano - che l’ha ospitato entro la sua stagione 20112012, “Nostalgia del Mostro” - lo spettacolo è stato portato negli spazi della Fondazione Arnoldo Pomodoro. Il titolo di questo ‘evento eccezionale’, riacquisisce come punto di partenza e nuovo compimento, “The Plot is the Revolution” (La Trama è la Rivoluzione), frase che accompagnava nel 1968 la mappa di “Paradise Now”, il lavoro più dirompente del Living, che tracciava il percorso ascensionale verso la Rivoluzione Permanente. Dopo 43 anni dal debutto, nuovamente con i Motus la Trama è la Rivoluzione. Dove la trama, come già per il Living,

è intesa nell’ambivalente accezione del termine, come soggetto, intreccio, disegno e come cospirazione, meccanismo e strategia d’azione. Altro punto di contatto, nelle differenti declinazioni, di questi due discorsi artistici è la figura di Antigone; eroina sofoclea esplorata - con una trasfigurazione fisica e gestuale dal testo di Brecht - per la prima volta da Judith Malina nel 1967, come esempio di esistenza alternativa per il cambiamento dell’intera comunità. L’Antigone del Living diventa poi ideale riferimento nel progetto “Syrma Antigónes”, avviato dal 2008, una intensa ricerca dei Motus (sfociata in tre contest, “Let the Sunshine In, Too Late!, Iovadovia” e nello spettacolo “Alexis”. Una tragedia greca), che attualizza lo scontro tra le regole non scritte della coscienza e leggi istituzionali. “The Plot is the Revolution” è l’incontro inter-generazionale di pensieri, di visioni del presente, fra due ‘Antigone’, due attrici, portatrici della loro storia personale e teatrale: Judith Malina, 85enne anima del Living e la trentenne Silvia Calderoni, sensibile interprete dei Motus. Dissolvendo ogni elemento scenico, ruolo e forma della finzione narrativa, l’evento si svolge entro uno spazio bianco, asettico, amplificato dal pavimento interamente rivestito di cartone, anch’esso bianco, per essere agito, vissuto, scritto, disegnato; tangibile metafora di un presente in fieri,

“The Plot Is The Revolution”, ideato e diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con Silvia Calderoni e Judith Malina (Living Theatre), con la partecipazione di Thomas Walker e Brad Burgess e la comunità a-venire di ‘The Plot’. Una produzione Motus realizzata grazie al sostegno di: Festival Santarcangelo41, Fondazione Morra, Napoli e la collaborazione di Cristina Valenti, copyright Lorenza Daverio


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che si costruisce nel tempo e nella sul pavimento di cartone, che viene e proiettata in avanti, nello slancio durata dello spettacolo. Il pavimento- trasportato realmente e metaforica- dell’energia affermativa del presente, cartone sorregge su un unico piano, mente fuori dal teatro. Al pubblico, in una dialettica di riconoscimento. infatti, è dato appuntamento per un L’intermittenza tra il prima e questo attori e partecipanti. Un viaggio metateatrale, dove il teatro per un sit-in di pacifica riappropriazio- poi apre la falla del presente: è forse e gli attori escono ed entrano conti- ne degli spazi in Piazza Affari, simbo- tutto qui il senso di “The Plot is the nuamente da sé stessi. Si procede lo del potere opprimente degli schemi Revolution”. attraverso una successione di doman- e dei ritmi imposti dal mondo della Albert Camus diceva: “Seppur involontariamente noi artisti siamo impede, della giovane performer alla finanza. Malina, che passa in rassegna alcuni “The Plot is the Revolution” è un acca- gnati. Non è la lotta a renderci artisti, dei momenti cruciali del suo percorso dimento sulla necessità ‘here and ma è l’arte che ci costringe a essere di artista e attivista, anarchica e paci- now’ di mantenere una speranza, di combattenti. Per la sua stessa funziofista, in un racconto biografico, poeti- ridisegnare le mappe delle possibilità. ne l’artista è il testimone della libertà co e ironico. Allo stesso tempo la Ed è proprio la parola ‘NOW’ a essere e questa è una motivazione che si Calderoni traduce questi frammenti in tracciata da Silvia, in una delle ultime ritrova a pagare cara. Per la sua stessvolgimenti scenici, agiti da lei sola o azioni, con lo spray rosso a caratteri sa funzione egli è impegnato nelle con Thomas Walker e Brad Burgess cubitali sulla scena. È il segno più profondità più inestricabili della stodel Living, fatti agire dal o traccianti importante per Judith, perché: “Il pas- ria, là dove soffoca la carne stessa graficamente sul piano della platea- sato è una menzogna storica. Il futuro dell’uomo”. palcoscenico che progressivamente si è un sogno. L’unica realtà esistente è Il Living e i Motus sono capaci di catalizzare emozioni collettive, dando adesso”. riempie di simboli, parole, figure. Dal ricordo della Malina di un’azione Entrambe sono straordinariamente corpo a un cortocircuito tra tragedia e civile del Living contro le armi giocat- potenti. Malina con la forza delle sue presente, arte e vita, nella ricerca tolo, simbolo di tutte le vittime della parole, del suo esempio di arte-vita, intergenerazionale della rottura del violenza, compresi i bambini (la frase che irrompe senza soluzione di conti- limite (del corpo, della voce) la rottura “This toy teaches children to kill” nuità nel gesto della Calderoni, re- delle resistenza, l’estensione del conscritta da Silvia ne sigla la validità nel- agendo con il suo corpo e la sua intel- cetto di performing art, del corpo l’oggi), la giovane performer attraver- ligenza scenica alle provocazioni rivo- come codice e dell’arte come gesto di sa le azioni di Antigone, mostrando la luzionarie del Living Theatre. Non si resistenza per cercare ‘spazi mentali e sua versione e poi, guidata dalle paro- appropria né ripropone il loro lavoro geografici’ dover poter nuovamente le dell’anziana attrice, vivendo sul pro- ma lo filtra nel suo essere contempo- concepire una prospettiva al cambiaprio corpo l’esperienza dell’Antigone ranea e in una declinazione molto più mento, da scoprire insieme sotto la introspettiva, psicologica rispetto al pelle del visibile. del Living e di The Brig. La riflessione tra le due ‘Antigone’ lavoro corale del Living. sulle forme di oppressione e di soffe- Attraverso uno spazio modificato dagli renza quotidianamente presenti nel- accostamenti eccentrici tra il corpo l’esperienza sociale, la constatazione come esperienza plurale e il corpo che fin dall’infanzia riceviamo un trai- come esperienza del passato vi è un ning dell’oppressione, a malapena richiamo che diventa allo stesso riconoscibile tanto profondamente è tempo durata del frammento, memoradicato in noi, conduce al corpo di ria tradotta in tensioni e tempi diversi Silvia devastato dalla peste artaudiana (già scena finale di “Mysteries and smaller pieces”). Fino ad arrivare al passaggio dal dolore a una prospettiva di gioia da cercare nell’immediatezza del momento che rimanda a “Paradise Now” e alla citazione del volo, esorcizzando la paura in nome della fiducia nell’altro. Infine la condivisione dell’urlo che, partendo dalle due attrici, si propaga ai partecipanti-assemblea per cercare di abbattere le pareti, cosa che naturalmente non avviene, da qui la scena finale di scrittura collettiva degli spetta“The Plot Is The Revolution”, ideato e diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con Silvia Calderoni e tori-partecipanti, dopo Judith Malina (Living Theatre), con la partecipazione di Thomas Walker e Brad Burgess e la comunità a-venire l’invito a lasciare i loro di ‘The Plot’. Una produzione Motus realizzata grazie al sostegno di: Festival Santarcangelo41, Fondazione pensieri rivoluzionari Morra, Napoli e la collaborazione di Cristina Valenti, copyright Lorenza Daverio


21.11.11

aste/ economia/ politica

21.01.12

Christie's London - 14 October 2011 - Jussi Pylkkanen selling the record-breaking “Kerze” by Richte

Economia dell’Arte

Intervista ad alberto Garlandini, presidente Icom Italia. Strategie per la difesa del patrimonio culturale mondiale | Un'indagine volta alla scoperta delle realtà museali italiane | al lu.be.c 2011 tra storia, crisi e innovazione tecnologica | roberto Grossi la cultura è a un passo dal baratro:qui serve una rivoluzione! | Intervista ad: annette Hofmann. lisson Gallery. Una sede italiana per una galleria internazionale | Intervista a: claudia dwek | Intervista ad arnaldo antonini | mercato Italiano | contemporaneo: la fiducia nel mercato cala le vendite no | Fiere: Frieze - FIac - artissima tre fiere a confronto | Servizi educativi:analisi sulla struttura del museo: processo di aziendalizzazione, autonomia e didattica | aste in cifre | recensioni

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arskey/Politiche Culturali | Intervista a Alberto Garlandini

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intervista ad:

alberto garlandini presidente icom italia

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strategie per la difesa del patrimonio culturale mondiale di Angiolina Polimeni

Alberto Garlandini

Angiolina Polimeni: ICOM si configura come un’agorà intellettuale capace di generare proposte realmente in grado di sostenere, supportare e divulgare la cultura senza mai abbandonare l’importante valenza morale e le ricadute etiche che questo ruolo comportano; la sua storia è complessa e attraversa molteplici realtà. Potrebbe parlarci della natura di ICOM Italia e fare un bilancio della sua esperienza? Alberto Garlandini: ICOM Italia è il comitato nazionale dell’ICOM (International Council of Museums), la più importante associazione museale a livello mondiale che, con più di 30 mila iscritti nei cinque continenti e 148 comitati nazionali e internazionali, lavora per preservare, assicurare la continuità e a comunicare il valore del patrimonio culturale mondiale. Il Comitato italiano, che si occupa delle problematiche strettamente connesse allo sviluppo e alla difesa della professione, è presente su tutto il territorio grazie all’impegno dei Coordinamenti regionali e alla continua attività di ricerca delle Commissioni tematiche di approfondimento disciplinare. Forte di quasi 900 soci, ICOM Italia è la principale associazione museale italiana. Ha promosso la Conferenza permanente delle associazioni museali italiane, che comprende, oltre a ICOM Italia, AMACI, AMEI, ANMLI, ANMS e SIMBDEA, e sviluppa una strategia di coalizione con le Associazioni nazionali dei Bibliotecari e degli

gli istituti e il patrimonio culturale proprio in tempo di crisi possono costituire delle risorse preziose e dei fattori competitivi di cui fare tesoro

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Archivisti. Ogni anno ICOM Italia organizza alcuni fra i più importanti appuntamenti per i professionisti del settore: Assemblea Nazionale ICOM Italia Evento primaverile itinerante che tocca le più importanti città italiane, affianca convegni dedicati ad approfondire tematiche di attualità legate al mondo dei musei a momenti sociali e di confronto sul lavoro svolto e sugli obiettivi di breve e medio termine. Nel 2011 si è tenuta a Palermo. 18 maggio: Giornata Internazionale dei Musei La manifestazione, che dal 1977 si svolge ogni anno il 18 maggio, si concretizza in una miriade di appuntamenti distribuiti su tutto il territorio nazionale. L’evento, che rappresenta la principale occasione di incontro fra il grande pubblico e i professionisti museali, nel 2012 sarà dedicato al tema Museums in a changing world. Conferenza Nazionale dei Musei d’Italia Organizzata annualmente da ICOM e dalla Conferenza permanente delle associazioni museali italiane, è giunta alla settima edizione e si terrà a Milano il 21 novembre 2011: si connota da tempo come l’unica occasione per riunire gli Stati Generali degli oltre 5 mila musei italiani e di tutte le associazioni museali italiane. Premio ICOM Italia - Musei dell’anno Unico riconoscimento nazionale ai musei e ai museologi d’eccellenza, il Premio ICOM Italia - Musei dell’anno 2011 ha l’obiettivo di valorizzare le buone pratiche operative e gestionali dei musei italiani e farne emergere le eccellenze. La prossima sfida per il Comitato Nazionale Italiano è ospitare nel 2016 a Milano (dopo Shanghai nel 2010 e Rio de Janeiro nel 2013) la 24 Conferenza internazionale di ICOM. A.P: A pagare il prezzo più elevato della crisi economica globale è evidentemente la cultura considerata semplice strumento di promozione turistica o lusso. Quali sono, secondo la sua esperienza, i termini economici, politici e sociali capaci di rimuovere quest’errata opinione? A.G: ICOM si oppone a quanti sostengono che in tempo di crisi la cultura, gli istituti e il patrimonio culturale sono un lusso al quale si può rinunciare. Al contrario, ribadiamo che proprio in tempo di crisi essi possono costituire delle risorse preziose e dei fattori competitivi di cui fare tesoro. I musei del XXI secolo non sono più solo istituti di conservazione del patrimonio culturale e della memoria storica. Hanno una dimensione sempre più sociale e sono servizi pubblici al servizio delle comunità, producono e - 67 -


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Alberto Garlandini

comunicano saperi, cultura, creatività. Sono agenzie per la mediazione culturale, per il dialogo interculturale, per la coesione sociale. Aprono le menti e aiutano a comunicare con il mondo. Danno nuova linfa alle identità e alle radici culturali; creano senso di appartenenza; potenziano le attrattive dei territori; migliorano la qualità della vita di quanti vi vivono e lavorano. L’Italia non ne può fare a meno. A.P: Qual è la Sua opinione sulla distribuzione dei fondi nella cultura italiana? A.G: Da tempo la spesa pubblica per la cultura è in diminuzione, ma stiamo assistendo a una drammatica accelerazione di questa tendenza. Le amministrazioni pubbliche - statali, regionali e locali - fronteggiano i vincoli di un patto di stabilità che viene applicato in modo sempre più indiscriminato. Anche amministrazioni virtuose sono impedite nell’utilizzo di risorse che pure hanno a disposizione grazie alla buona gestione del passato. I tagli lineari ai bilanci pubblici spesso non distinguono gli sprechi dagli investimenti, le spese per l’effimero dalle spese per le strutture. L’offerta culturale del nostro paese nei prossimi anni sarà duramente colpita e uscirà dalla crisi molto diversa da quella che conosciamo. Come cambierà? Anche nelle attuali difficili condizioni il cambiamento può essere positivo: molto dipenderà dalla nostra capacità di proposta e dalla consapevolezza e lungimiranza delle classi dirigenti e delle comunità. Tra le proposte su cui ICOM propone di riflettere c’è quella per una riforma fiscale a favore degli istituti e delle attività culturali. ICOM chiede che la partecipazione dei cittadini sia sostenuta in ogni forma possibile. Abbiamo proposto che il 5 per mille dell’IRPEF venga destinato anche a favore degli istituti culturali. In questi giorni in cui si riparla di riforma fiscale, ICOM ribadisce che l’uso della leva fiscale per favorire la gestione del patrimonio culturale è ancora troppo limitato e condizionato dall’instabile volontà dei governi nazionali. ICOM si augura che la messa a regime di un effettivo federalismo fiscale crei a livello locale condizioni favorevoli per politiche di sostegno al non profit. Occorrono maggiori benefici per le donazioni liberali, ma anche per le attività professionali svolte gratuitamente a favore dei musei e del patrimonio culturale; per rendere più efficace la leva fiscale si dovranno eliminare tetti e vincoli finanziari e sburocratizzare e semplificare radicalmente le procedure. A.P: Evidenziate le latenti criticità presenti nel sistema museale italiano, quali sono le strategie da attuare per avvicinare il pubblico, i professionisti del settore, sensibilizzare le amministrazioni ed il governo a concepite l’arte quale indispensabile elemento di coesione e crescita sociale? A.G: Di fronte alla crisi e ai suoi drammatici effetti anche sul mondo della cultura, ICOM Italia ha presentato sei proposte per una gestione sostenibile degli istituti culturali e per un progetto di rilancio del sistema cultuale italiano, che si possono così sintetizzare: 1. ICOM per un sistema culturale più cooperante e più integrato: è necessaria la massima cooperazione tra le persone, gli istituti, le amministrazioni pubbliche e private. Bisogna aumentare la capacità di agire in rete e di promuovere sistemi territoriali, e superare la gestione separata di musei e beni culturali, arrivando anche all’integrazione di soggetti storicamente autonomi. 2. ICOM per la riorganizzazione e razionalizzazione dei sistemi culturali territoriali: a fronte delle prime chiusure di spazi culturali e alla riduzione di orari di apertura e di attività, non si deve subire un ridimensionamento casuale, bensì condividere piani di razionalizza-

22nd General Conference of ICOM from 7 to 12 November 2010 in Shanghai, China

abbiamo proposto che il 5 per mille dell’irpef venga destinato anche a favore degli istituti culturali. in questi giorni in cui si riparla di riforma fiscale, icom ribadisce che l’uso della leva fiscale per favorire la gestione del patrimonio culturale è ancora troppo limitato e condizionato dall’instabile volontà dei governi nazionali

zione, frutto di una consapevole riprogrammazione tecnica e politica, e non di tagli ciechi e automatici. 3. ICOM per una moratoria di nuovi musei: è superata la convinzione che ogni piccola comunità possa sostenere la gestione di un museo. La nascita di nuove realtà è molto aumentata nei passati vent’anni, ma questa fase entusiasmante è terminata. D’ora in poi ci si dovrà occupare di più dell’esistente che di aprire nuovi musei. 4. ICOM per l’uso razionale delle scarse risorse e la rivalutazione delle spese per la gestione degli istituti culturali: occorre concentrare le scarse risorse sugli istituti culturali permanenti e sulle loro attività; non è tempo di iniziative improvvisate e senza impatti duraturi, né culturali né economici. Ogni investimento sia valutato in base alla sua capacità di lasciare sul territorio risultati concreti e permanenti. Mentre è messa in discussione l’esistenza stessa di reti culturali, è insensato che milioni di euro pubblici e privati siano spesi per coprire i deficit di mostre ed eventi effimeri. 5. ICOM per la difesa del capitale umano: un museo senza direzione e senza personale è un museo morto, impossibilitato a contribuire alla vita e alla crescita della comunità. I professionisti e i volontari sono un tesoro che non possiamo permetterci di disperdere. Sono le intelligenze che anche con scarse risorse permettono ai musei di proseguire le loro diuturne attività pubbliche. 6. ICOM per la sussidiarietà e per una riforma fiscale a favore degli istituti e delle attività culturali: solo la partecipazione volontaria dei cittadini e delle comunità e la sinergia tra azione pubblica e azione privata potranno garantire la sostenibilità della gestione dei musei e del patrimonio culturale. L’uso della leva fiscale è ancora troppo limitato e la messa a regime di un effettivo federalismo fiscale dovrà creare condizioni più favorevoli per benefici sia per le donazioni, sia per le attività professionali svolte gratuitamente a favore dei musei e del patrimonio culturale. In concreto, ICOM rivolge un appello affinché i professionisti e i volontari dei musei e degli altri istituti culturali, gli amministratori pubblici e privati, le fondazioni bancarie e di altra origine, gli sponsor e tutti quanti hanno a cuore il patrimonio culturale costituiscano - città per città, territorio per territorio - tavoli tecnici e politici per condividere risposte efficaci alle pressanti urgenze poste dalla crisi. A.P: Nel suo intervento introduttivo alla “ 6° Conferenza Nazionale dei Musei d’Italia - Musei, etica e sostenibilità. Nuove sfide dell’agire professionale ai tempi della crisi” - Lei, evidenzia quattro linee guida volte alla tutela del patrimonio museale: concentrare l’attenzione sul capitale umano quale elemento indispensabile alla vita dei musei italiani e non solo, far confluire le scarse risorse sugli istituti permanenti e con progetti dall’impatto duraturo, creare una rete di comunicazione comune e infine favorire la cooperazione fra persone e istituti, governo e sfera pubblica e privata. Potrebbe farci un esempio concreto di progetto o amministrazione locale che sta percorrendo la strada da lei indicata? A.G: Porre la cultura e gli istituti culturali al centro di un modello di sviluppo sostenibile del nostro paese è una sfida per ognuno di noi, quale che sia il livello di responsabilità e di decisionalità. È un percorso difficile e di medio lungo periodo: è in gioco il futuro dell’Italia e saremo giudicati per quanto il Sistema Italia nel suo complesso riuscirà a fare. A.P: Durante la “6° Conferenza Nazionale dei Musei


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Alberto Garlandini

d’Italia”, è stata dedicata grande attenzione al Codice Etico per i Musei di ICOM. Desidera parlarci di questo nuovo e prezioso strumento del quale disponete? A.G: Si tratta del più importate documento prodotto da ICOM. Adottato all’unanimità dalla 15°Assemblea Generale dell’ICOM a Buenos Aires il 4 novembre del 1986, è stato modificato nel 2001 e, infine, revisionato dall’Assemblea Generale a Seoul del 2004. Tradotto in 36 lingue e dal 2009 disponibile anche in versione italiana, il Codice Etico individua i valori e i principi condivisi dalla comunità professionale internazionale e fissa gli standard di funzionamento e di performance dei musei. A.P: Tra le varie iniziative nazionali prioritarie emerse dall’ultima “Assemblea Nazionale di ICOM Italia – Palermo, 6 giugno 2011” -, si accenna alla nascita dei Premi ICOM ai Musei: un appuntamento ancora in fase embrionale o già definito nelle sue linee guida sin nei minimi dettagli? A.G: Il “Premio ICOM Italia - Musei dell’anno”, giunto quest’anno alla seconda edizione, è uno degli appuntamenti principali organizzati dal Comitato italiano di ICOM. Il premio ha l’obiettivo di valorizzare quei musei che si sono distinti nella loro attività, anche sulla base dei principi deontologici e di qualità definiti dal Codice Etico di ICOM. Quest’anno, il lungo lavoro di selezione si è svolto su due livelli: il Consiglio direttivo di ICOM Italia, dopo aver attentamente valutato i progetti, ha individuato le terne dei finalisti. Successivamente, le candidature sono state sottoposte al vaglio della giuria internazionale, composta da Manon Blanchette, Presidente di ICOM-AVICOM (International Committee for the Audiovisual and Image and Sound New Technologies); Carol Ann Scott, Segretario Generale di ICOM-MPR (International Committee for Marketing and Public Relation); Emma Nardi, Presidente ICOMCECA (International Committee for Education and Cultural Action). Nel corso della cerimonia di premiazione, che si è svolta a Siena il 29 ottobre scorso, sono stati assegnati i premi a: MuseoTorino, per la categoria Information Communication Technology; Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ‘Leonardo da Vinci’ di Milano per il miglior progetto di partnership pubblico/privato; Museo delle Trame Mediterranee - Fondazione Orestiadi di Gibellina (Trapani) per la mediazione culturale. Durante la serata sono stati conferiti altri due importanti riconoscimenti ai professionisti museali: il premio honoris causa a Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, e quello al museologo dell’anno a Gabriella Belli, Direttrice del MART di Rovereto, consegnato da Hans Martin Hinz, Presidente mondiale dell’International Council of Museum. A.P: Il sondaggio proposto da ICCROM sulle collezioni museali nel mondo denuncia una situazione allarmante: circa il 60% delle collezioni è immagazzinato nei depositi e pertanto inaccessibile e a rischio di veloce deterioramento. Secondo la sua personale opinione quali sono gli elementi e i fattori che comportano situazioni di questo genere? A.G: Un museo è una universitas facti in cui le collezioni esposte al pubblico si integrano con quelle conservate nei depositi. Uno standard di qualità fondamentale per ogni museo è che le collezioni nei depositi siano studiate, conservate al meglio e accessibili, sia pure in modalità controllate e limitate. Ciò ne permette la valorizzazione pubblica grazie d esposizioni temporanee e a rotazione, e a ricerche interdisciplinari. La situazione è effettivamente disomogenea e richiede un’attenzione specifica, che è parte importante delle responsabilità del personale scientifico dei musei.

ICOM Annual Meetings, 2011

uno standard di qualità fondamentale per ogni museo è che le collezioni nei depositi siano studiate, conservate al meglio e accessibili, sia pure in modalità controllate e limitate

A.P: La nomina a Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura di Francesco Bandarin e l’elezione di Daniele Jalla ad Executive Council di ICOM sembrano essere segnali tangibili di un riconoscimento a livello internazionale della museologia italiana. Ma è davvero così? A.G: Proprio in uno dei momento più critici per la cultura nel nostro paese, c’è un'Italia che sa imporsi sul piano internazionale ai massimi livelli. Dopo la prestigiosa nomina di Francesco Bandarin a Vice Direttore Generale dell'UNESCO per la Cultura nell’aprile del 2010, a novembre 2010, nel corso della General Conference di Shanghai, Daniele Jalla, past president di ICOM Italia, è stato eletto nel consiglio direttivo dell'International Council of Museum, le ‘Nazioni Unite’ dei Musei. Tale riconoscimento a livello internazionale è sottolineato anche dalla nomina, nella stessa occasione, di Giuliana Ericani, Direttrice del Museo di Bassano del Grappa, alla presidenza dell’International Committee of Fine Arts (ICFA) e di Emma Nardi, Docente all’Università di Roma III, alla Presidenza dell’International Committee for Education and Cultural Action (CECA), che ora mi affiancano nell’Advisory Committee di ICOM. A.P: A Milano, presso la Fondazione Stelline, il 21 Novembre 2011, si terrà la “Settima Conferenza Nazionale dei Musei dedicata a Musei d’Italia. L’Italia dei Musei. 150 anni di storia e storie”. Un appuntamento in diretta connessione con le Celebrazioni dell’Unità d’Italia che porterà l’attenzione su passato, presente e futuro del nostro paese. Desidera raccontarci quali sono le sue aspettative e quali sono i progetti che ICOM ha in cantiere? A.G: Nel secolo e mezzo che ci separa dall’Unità d’Italia il panorama museale del nostro Paese è profondamente cambiato, delineando una realtà che si presenta sicuramente altra e distante rispetto a quella di allora, tanto quanto l’Italia di oggi è lontana dall’Italia del 1861. Ciò non impedisce di riconoscere nell’esperienza contemporanea elementi di continuità e di ritrovarvi i molti e diversi lasciti del secolo e mezzo di storia dell’Italia e dei suoi musei. In un tempo e in una società dalla memoria sempre più corta, ricostruire questa storia, far emergere i tratti più significativi delle quattro grandi stagioni di questi ultimi centocinquant’anni consente di capire meglio i caratteri originali della realtà museale italiana attuale, la sua spiccata specificità e la sua variegata e straordinaria ricchezza. A questa prospettiva storica si affianca una apertura verso il futuro dei musei e delle professioni dei musei, visti nel loro collegamento con gli altri istituti e professioni della cultura. In una logica di integrazione e di convergenza istituzionale e professionale, i professionisti dei musei, delle biblioteche e degli archivi inizieranno, a partire da questa importante occasione di confronto, una riflessione comune sulla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale nel Terzo Millennio. A.P: Ritiene che al vostro lavoro sia data la giusta visibilità ed attenzione? A.G: Negli ultimi anni ICOM è molto cambiata: da ristretto club di esperti, come era alla sua fondazione nel 1946, è diventata una libera e volontaria associazione professionale che promuove le nuove funzioni dei musei “al servizio della società e del suo sviluppo”. Un rinnovato impegno nella comunicazione della propria attività è sancito dalla partnership siglata recentemente con 24 Ore cultura, società del Gruppo 24 ORE che ha assunto il ruolo di Media Partner di ICOM Italia. - 69 -


arskey/Politiche Culturali | Sondaggio seconda parte

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dialoghi contemporanei :

un’indagine volta alla scoperta delle realtà museali italiane di Angiolina Polimeni

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Alla scoperta della condizione culturale del nostro paese in un confronto con alcune delle più significative voci del panorama museale italiano. Cinque domande volte alla definizione delle linee interne e generali che compongono il mondo dell’arte oggi; per testimoniare e riflettere una realtà composita definita da un profondo legame contaminante con la società e per spiegare quali siano le strategie adottate per promuovere l’enorme patrimonio artistico e culturale del quale disponiamo. In un percorso che si muove su tutta la penisola. Seconda parte. Dott. Riccardo Passoni, Vicepresidente dell’Associazione AMACI Angiolina Polimeni: A quasi un mese dalla Settima Edizione della “Giornata del Contemporaneo”, evento capace di delineare emblematicamente la fisionomia di AMACI, potrebbe parlarci della storia e degli obiettivi di questa associazione? Riccardo Passoni: La storia dell’Associazione è piuttosto recente, e non raggiunge i 10 anni (siamo infatti nati nel 2003). Continuo a insistere sul fatto che AMACI debba essere identificata come una rete di relazioni tra organismi di nascita e storia affatto differente, che ha consentito di conoscere reciprocamente le storie delle istituzioni coinvolte. Ora è possibile confrontarsi sullo stato di salute - e relative, eventuali, impasse - dei musei su quasi tutto il territorio nazionale, di identificarne la programmazione e così di seguito …. A.P: Dall'ultimo sondaggio di Arskey Magazine, rivolto ad alcuni dei direttori dei più importanti musei di arte contemporanea della nostra penisola, emerge un chiaro desiderio di coordinamento tra le diverse realtà poiché questo dovrebbe consentire sinergie ulteriori rispetto all'ottimizzazione degli investimenti, permettere una più intensa condivisione della progettualità e un più profondo stimolo verso l'innovazione trasformandosi in vero antidoto alla crisi. A suo personale avviso, quali sono le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo progetto? R.P: L’intensità e la durata della crisi sono state verosimilmente sottovalutate da tutti agli inizi, e quindi questo ha determinato una risposta certo rallentata di fronte all’emergenza, soprattutto finanziaria, dei singoli centri. In realtà sarebbe bene ricordare che ciascun museo (o centro d’arte contemporanea) vive riferendosi soprattutto ad altre reti. Le altre presenze sul territorio con caratteristiche analoghe (ma non necessariamente), la relazione con i propri organi di rappresentanza, gli obiettivi momentaneamente loro assegnati: il rapporto dunque con 'la politica' e le relative tensioni areali. Poi c’è la storia, più o meno riconoscibile, di ciascun istituto, ci sono le identità espositive e collezionistiche consolidatesi nel tempo, che spingono l’azione verso scelte magari autocentrate. E, in ogni modo, bisogna ricordare la forte variegazione di modelli gestionali delle singole realtà, ove si lavora con

modalità di decisione e operative spesso molto diverse. All’interno di AMACI convergono i musei dello stato, delle realtà locali (città, regioni, province), i musei-associazione, i musei-istituzione, i musei-fondazione, le fondazioni ancora - aggreganti più musei, aventi scopi non necessariamente completamente coincidenti. Non esiste pertanto un modello di museo di arte contemporanea con regole univoche e condivise. Potrebbe bastare, ma si dovrebbe aggiungere anche, dal punto di vista della sua domanda, la oggettiva instabilità di molti incarichi direttivi, legati a un orizzonte temporale spesso limitato, o addirittura evocare l’instabilità di talune strutture, e intendo proprio dal punto di vista della loro sopravvivenza. A.P: La prospettiva secondo la quale l'arte è utile alla comunità potrebbe determinare qualche cambiamento e condurre a una strategia dalla quale far partire una nuova forma di investimento da sviluppare in un canale evoluted innovativo di responsabilità sociale? R.P:La domanda, così come formulata, non è chiarissima, ma credo che voglia intendere che esista, nella riflessione attuale, un ‘sentimento’ sempre più crescente nei confronti dell’idea che un museo e le sue attività culturali abbiano da tener presente l’orizzonte rappresentato dagli stimoli della ‘comunità’ di appartenenza. Insomma, che la sua programmazione debba accostarsi ai bisogni dei fruitori, con sensibilità educativa ben studiata e collaudata. Con la verosimile conseguenza di abbandonare ogni strategia di provocazione - nei confronti del proprio pubblico - nella programmazione scelta. Ma è anche possibile che questa sia una stagione in cui le provocazioni non riescano a provocare più nessuno. A lungo alimentate dal desiderio di modificare i luoghi comuni di un’estetica ‘media’, oggi le ‘offese’ visive nascono infatti per lo più come strategia di marketing per la collocazione di un prodotto, e come tali vengono identificate, rendendole tendenzialmente sempre più inerti e, in prospettiva, non più necessarie. Comunque il discorso è senz’altro aperto, complesso, e non può risolversi in due battute. Poi, uno potrebbe domandarsi in cosa consista la comunità verso cui si hanno responsabilità sociali, per un museo. Potrebbe essere, oltre alla comunità in cui opera fisicamente, la più estesa comunità museale che si occupa, per esempio, di arte contemporanea? Ogni scelta che il museo compie in realtà non può essere pensata senza tener pre-

sente come gli altri musei giudicheranno il tuo lavoro. In sintesi, dunque, mi sentirei di rispondere di sì a un orizzonte di responsabilità sociale per le nostre attività, ma facendo ben comprendere a tutti che i musei hanno delle responsabilità anche nei confronti della propria storia e della propria appartenenza categoriale. A.P: Potrebbe concederci qualche anticipazione rispetto ai futuri progetti di AMACI? R.P: Lo scenario nel breve-medio termine sarà di natura soprattutto difensiva, inutile menare il can per l’aia. Recentemente ho partecipato, sempre per conto di AMACI, a una riunione organizzata dall’ICOM Italia con tutti rappresentanti delle maggiori associazioni museali (non solo d’arte, ovviamente), in vista della prossima conferenza annuale, sugli scenari prospettabili ‘circa’ il 2025. Cambieranno i compiti dei musei, cambieranno le identità professionali collegate, e non certo in direzione di un loro rafforzamento. Il compito di AMACI dovrebbe dunque consistere innanzitutto nel monitorare questo stato di fatto, con l’obiettivo di mettere meglio a fuoco dove voglia posizionarsi la nostra associazione. Intendo dire cercare di capire meglio di quanto si sia fatto sinora se in noi debba prevalere un’anima ‘movimentista’, come vorrebbero taluni, o se si vorranno privilegiare soprattutto le presenze e gli atteggiamenti più istituzionali. Vorrei che venisse esclusa qualsiasi tentazione di scissione tra le diverse anime che compongono la nostra rete museale, che, certo, è costituita da realtà fortemente differenziate, con consistenti dissimmetrie tra centri e periferie; ma che, proprio perché tutte, sin dall’inizio della nostra storia associativa, coinvolte a pieno titolo nella realizzazione di questa rete museale, hanno contribuito a dare identità - e migliore articolazione della presenza del contemporaneo lungo la penisola - al nostro lavoro. Un’articolazione di funzioni e attività che emergeranno con forza quando sarà messo definitivamente a punto il sito dell’associazione, vero strumento di informazione e comunicazione dell’offerta culturale complessiva prodotta sul versante del moderno e contemporaneo da AMACI. Dunque: restare uniti, rafforzare la propria immagine di 'ruolo', e comunicativa, in vista di un rafforzamento del rapporto della nostra rete con le altre associazioni italiane e straniere.


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Mario De Simoni

Dott. Mario De Simoni, Direttore Generale - Palaexpo Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Mario De Simoni:L’ Azienda Speciale Palaexpo gestisce sia le Scuderie del Quirinale, votate al racconto della grande arte classica italiana, sia il Palazzo delle Esposizioni, dedicato al Novecento storicizzato, alle trasversalità del sapere, alle grandi civiltà. Indubbiamente, una seria difficoltà è rappresentata dal fatto che entrambi i siti non hanno una propria collezione, venendo così a mancare le tipiche 'ragioni di scambio' con i grandi musei, specie quelli interna-

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Dott.ssa Paola Marini, Dirigente coordinamento Musei Monumenti del Comune di Verona. Angiolina Polimeni: In questo particolare momento storico, caratterizzato da una profonda crisi economica mondiale, oltre alla possibile unione di forze politiche-amministrative e artistiche, quali sono, a suo personale avviso, le strategie da adottare per rendere più dinamico il sistema museale italiano? Paola Marini: Riuscire davvero a attivare l’apporto dei privati (non solo delle Fondazioni e delle grandissime aziende che sostengono solo mostre), riuscire a eliminare tanti piccolissimi interventi inutili, fare davvero 'squadra' fra Musei, Università, Soprintendenze, istituti di ricerca, volontariato culturale. A.P: Nell’anno dedicato ai festeggiamenti per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, qual è il ruolo ricoperto dal territorio? P.M: Una bellissima mobilitazione generale, forse un po’

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arskey/Politiche Culturali | Sondaggio seconda parte

Dott.ssa Gabriella Belli, Dirigente coordinamento Musei Monumenti del Comune di Venezia

An gi olin a Polimeni: In questo particolare momento storico, caratterizzato da Gabriella Belli una profonda crisi economica mondiale, oltre alla possibile unione di forze politiche-amministrative e artistiche, quali sono, a suo personale avviso, le strategie da adottare per rendere più dinamico il sistema museale italiano? Gabriella Belli: Dal punto di vista finanziario penso soprat-

zionali. Da un lato, il fatto che, nonostante ciò, sia stato possibile realizzare alcune delle più memorabili mostre degli ultimi anni ci riempie d’orgoglio, perché significa che i grandi prestatori hanno valutato e apprezzato comunque la serietà dei progetti scientifici e la nostra generale affidabilità. Dall’altro, in particolare per le Scuderie del Quirinale, non mi stancherò mai di riconoscere la collaborazione preziosissima del MiBAC, in genere delle Soprintendenze Statali e parimenti della Sovrintendenza del Comune di Roma. Una rete virtuosa di collaborazioni che ci ha sin qui consentito di superare il gap strutturale di cui parlavo prima. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? M.D.S: Negli ultimi due decenni sono stati fatti enormi passi avanti, nel senso di una modernizzazione del sistema. Credo però che sia giunto il momento di affrontare seriamente un grande problema, che investe la natura stessa dell’essere museo: intere generazioni di Soprintendenti e di tecnici stanno andando in pensione e il ricambio è difficile, a causa delle restrizioni sul turn over nella Pubblica Amministrazione. Stiamo perdendo memoria e professionalità in un settore strategico della nostra vita, anche economica. È urgente sbloccare questa situazione. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? M.D.S: Sì. Ci si deve dedicare sistematicamente al rapporto con le PMI sparse sul territorio. L’Italia è una grande nazione, ma è anche il paese dei mille campanili. Questa caratteristica, che spesso ci indebolisce, ha però risvolti

positivi: vi sono centinaia di medi imprenditori che, come la maggior parte degli italiani, sono orgogliosi delle opere d’arte e dei musei presenti sul proprio territorio. Perché noi siamo questo, siamo le nostre opere d’arte, anche se non sempre le conosciamo approfonditamente. Questo comune e diffuso sentire dovrebbe essere un campo d’intervento da analizzare e sfruttare sistematicamente in termini di fund-raising locale. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci cosa l’ha condotta a percorrere questa strada? M.D.S: Siamo un’azienda pubblica gestita, per quanto giusto e possibile, con criteri privatistici. Siamo mossi dal convincimento che il buon 'prodotto' venga sempre premiato. Delle famose 4 P del marketing secondo Kotler (Prodotto, Pubblicità, Posizione, Prezzo) se manca la prima P le altre sono inutili. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? M.D.S: Dedicheremo il Palazzo delle Esposizioni all’indagine del rapporto delle grandi città (New York, Londra, Roma etc) con le arti, mentre alle Scuderie del Quirinale segnalo, dopo Filippino Lippi, la prima grande monografica dedicata a Roma a Tintoretto, inatteso protagonista anche della Biennale di Venezia quest’anno.

dispersiva, comunque benefica. A.P: Il modello dirigenziale da Lei adottato sino a oggi, ha garantito il successo di una straordinaria macchina capace di attrarre nei Musei Civici della Sua città, un grande numero di visitatori. Vorrebbe descriverci la formula che l’ha condotta a questo ottimo risultato? P.M: Massima trasparenza con l’Amministrazione; partecipazione del gruppo dei collaboratori ai processi decisionali; radicamento territoriale; tenere alto il livello qualitativo e il riconoscimento nazionale e internazionale… e tanto, tanto lavoro. A.P: Potrebbe concederci qualche anticipazione rispetto ai progetti di valorizzazione del patrimonio museale che ha intenzione di attuare per la città? P.M: Si tratta di progetti dell’Amministrazione Comunale. Nell’ordine e in sintesi: - Mostra “Il Settecento a Verona: Tiepolo, Cignaroli, Rotari”, Verona, Palazzo della Gran Guardia, 26 novembre 2011 – 9 aprile 2012: aspettiamo tutti!

- Inaugurazione dell’ampliamento del Museo degli Affreschi “G. B. Cavalcaselle”, primavera 2012. - Mostra su “Paolo Veronese” in collaborazione con la National Gallery di Londra, 2013-2014. - Restauro e ampliamento del Museo Archeologico al Teatro Romano con un finanziamento di 3.500.000 di fondi POR (il progetto primo classificato nella procedura bandita dalla Regione del Veneto). - Restauro della torre di Sud-Est di Castelvecchio come sede dell’Archivio dei disegni di Carlo Scarpa di proprietà della Regione del Veneto e del Comune di Verona (lavori già in corso finanziati per metà dal Comune di Verona e per metà dalla Regione Veneto). - Preparazione dei volumi II e III del catalogo generale dei dipinti della collezione civica. - E soprattutto poter continuare l’apertura dei musei, la didattica, i restauri, la vita quotidiana in questi tempi difficili.

tutto a economie di scala, da realizzarsi in primis attraverso la collaborazione e la partnership delle istituzioni museali, al fine di progettare insieme attività espositive e eventi artistici, che possono transitare da un museo all’altro, con un evidente contenimento della spesa; dal punto di vista più propriamente culturale credo che in momenti di crisi ogni museo deve saper ottimizzare i propri 'valori patrimoniali interni', ovvero utilizzare al meglio le collezioni permanenti, che costituiscono il core business del museo. L’esperienza mi ha insegnato, solo per fare un esempio, che la rotazione delle collezioni, dunque il cambiamento frequente del display o di parte di esso, proposto con 'sguardi critici' diversi, può diventare una forte attrattiva per il pubblico, che scopre ogni volta cose nuove. Penso anche che in momenti di crisi i musei debbano aver particolare cura nel rafforzare il proprio rapporto con i visitatori residenti o del vicino territorio. In questo senso i dipartimenti didattici, che oggi sono presenti in tutti i musei italiani, possono fare molto con proposte e programmi indiriz-

zati proprio a questo particolare tipo di utenza, le famiglie, gruppi o singoli della così detta 'terza età', ma anche gruppi appartenenti a categorie protette. A.P: Nell’anno dedicato ai festeggiamenti per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, qual è il ruolo ricoperto dal territorio? G.B: Molti territori sono stati più coinvolti, perché interessati da vicende storiche fortemente collegate con la nascita dell’Unità d’Italia. È comunque evidente che questa data ha significato molto anche per tutte le altre regioni, per l’importanza che oggi tutti noi attribuiamo al senso dello stato unitario. Il Mart ha ospitato alcune lezioni e alcuni eventi, a testimonianza del percorso certo non facile, ma proprio per questo ancor più importante, che all’inizio del XX secolo ha unito la nostra regione al resto del Paese. A.P: Il modello dirigenziale da Lei adottato sino a oggi, ha garantito il successo di una straordinaria macchina capace di attrarre nei musei civici della Sua città, un grande numero di visitatori. Vorrebbe descriverci la formula che

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l’ha condotta a questo ottimo risultato? G.B: Non credo esistano formule preconfezionate per dirigere, o almeno non ne ho utilizzate, piuttosto esistono comportamenti che servono da modello per coloro che partecipano a un progetto comune. In questo senso si può dire che il Mart è stato un progetto ampiamente condiviso, per il quale ognuno con responsabilità diverse ha dato il suo piccolo o grande contributo: proprio sulla responsabi-

lità individuale ho costruito la mia relazione con lo staff, mirando a rendere tutte le persone autonome e in grado di svolgere il loro lavoro nella massima potenzialità culturale e operativa. Certamente ho anche adottato un metodo non 'invasivo' di controllo, in particolare per quanto riguarda i progetti scientifici, sia nell’ambito espositivo che in quello di ricerca e pedagogico, ai quali ho sempre partecipato con grande interesse.

A.P: Potrebbe concederci qualche anticipazione rispetto ai progetti di valorizzazione del patrimonio museale che ha intenzione di attuare per la città? G.B: Sto lavorando per mettere a fuoco un progetto relativo al patrimonio permanente e un programma di iniziative. Per dare anticipazioni è un po’ presto, certamente però il mio lavoro si muoverà di pari passo tra valorizzazione e produzione culturale.

digitale: da una parte il problema dell’accelerazione sociale e dall’altra il tema dell’identità nel confronto con la cosiddetta network society. Attualmente in corso è la mostra “Declining Democracy” dedicata all’attuale crisi di sistema e alle possibili declinazioni dei principi della democrazia, in un momento in cui la sua validità sembra essere messa in discussione. I temi delle specifiche mostre vengono approfonditi non solo attraverso le pubblicazioni editoriali che coinvolgono esperti delle diverse discipline, ma anche grazie ai programmi settimanali di lezioni, artist talk, proiezioni e workshop. Sin dalla sua apertura, il CCC Strozzina ha ospitato opere di artisti come Bill Viola, William Franziska Nori davanti all'installazione "Tape Florence" di Numen, realizzata nel Kentridge, Dan Perjovschi, Damien Hirst, Cindy Sherman, Thomas cortile di Palazzo Strozzi Demand, Andreas Gursky, Wolfgang foto: Simone Donati Tillmans, Antony Gormley e Gerhard Dott.ssa Franziska Nori, Direttrice del CCC Strozzina Richter. I loro lavori sono stati affiancati a quelli di artisti più giovani o ancora non conosciuti al grande pubblico, semAngiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’espepre ricercando un dialogo visivo e critico tra diversi approcrienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state ci, visioni e linguaggi al fine di esplorare, attraverso gli occhi le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? degli artisti, la realtà che ci circonda. Sono a cura del CCC F.N: La sfida iniziale è stata quella di concepire uno spazio Strozzina gli interventi installativi site specific realizzati nel dedicato al contemporaneo in una città che, con la sua forte cortile di Palazzo Strozzi, uno spazio sempre aperto al pubtradizione e dopo anni di fervente produzione artistica fino blico e molto amato dai fiorentini e dai turisti. Artisti interagli anni Ottanta del Novecento, sembrava essersi rinchiunazionali vengono invitati a entrare in dialogo con l’architetsa in se stessa. Altra sfida è stata quella dello spazio rinatura rinascimentale offrendo modo ai cittadini, nel contemscimentale del Palazzo e la sua importante posizione nel po, di interagire con l’arte contemporanea. A partire dal cuore della città storica, apparentemente in contrasto con 2008 il CCC Strozzina è organizzatore del Premio Talenti l’idea della contemporaneità ma ormai perfettamente in Emergenti, creato per promuovere e sostenere la giovane dialogo con essa. arte italiana tramite una mostra e un premio che offrono a Grazie a una costellazione, pressoché unica in Italia, una giovani artisti italiani l’opportunità di esporre e promuovepartnership tra pubblico e privato che diede vita alla re il proprio lavoro in Italia e all’estero. “Open Studios” è Fondazione Palazzo Strozzi di cui il CCC Strozzina è parte, invece un progetto che offre visite agli studi di artisti toscala nostra realtà fu ideata nella precisa volontà di dare alla ni che, per due anni, ha visto una trentina di artisti accogliecittà di Firenze un centro espositivo di livello internazionale re un pubblico di curiosi e appassionati nei luoghi della loro in cui ospitare progetti culturali tematici, secondo un’impoproduzione. stazione interdisciplinare aggiornata sulle più recenti ricerA.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i che scientifiche e sulle attuali tendenze del mondo concambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistetemporaneo, fungendo da 'laboratorio del pensiero'. ma museale italiano? Finora, tutto ciò, sembra essere stato apprezzato dal pubF.N: Avremmo bisogno di una gestione pubblica più preblico, di tutte le età e i livelli, locale e nazionale, oltre che sente sensibile e di enti locali più autonomi che riconoscainternazionale già abituato a questo genere di spazi molto no alla cultura lo status di risorsa collettiva e siano pertancaratterizzato ma anche aperto e poco classificabile sotto to disposti a investire nell’infrastruttura culturale con un’iun’unica definizione. dea più ampia, dinamica, dedicata al presente e al futuro, Così sono nati progetti come “Sistemi Emotivi” (2007), non solo di salvaguardia del patrimonio storico. Ben vengadedicata alla relazione tra arte e emozione alla luce delle no, poi, la collaborazione e i finanziamenti da parte dei pripiù recenti scoperte neuroscientifiche, “Cina Cina Cina!!!” vati, se la qualità delle proposte si mantiene libera e lungi(2008), dedicata al recente boom dell’arte contemporanea mirante. Non si tratta solo di ricevere investimenti, ma di cinese, “Arte, Prezzo e Valore” (2008), che ha analizzato la strategie più dinamiche e ampie in un senso di crescita culcrescente correlazione tra l’arte contemporanea e il sisteturale che deve essere per forza pubblica, come in tanti ma economico internazionale, “Green Platform” (2009), altri Stati europei. Per quanto riguarda il settore specifico dedicata alle tematiche dell’ecologia e della sostenibilità, dell’arte, un intero sistema andrebbe attualizzato e legato “Realtà Manipolate” (2009) e “Gerhard Richter e la dissolai programmi scolastici e alla formazione, in genere, che venza dell’immagine nell’arte contemporanea” (2010) che prepari le nuove generazioni alle sfide di una cultura semhanno affrontato il problema della rappresentazione della pre più internazionale e di alto livello, ma anche di mondi e realtà nel mondo moderno. mercati sempre più globali e altamente competitivi, a pro“As Soon As Possible” (2010) e “Identità Virtuali” (2011) si grammi per residenze di artisti all’estero, alla creazione di sono dedicate a temi della società della comunicazione

spazi di lavoro aperti e di riconoscimenti sul territorio. In Europa sono tanti i paesi che da anni investono nella giovane produzione artistica non solo come veicolo di progresso per una società intera ma anche in un’ottica politica di rappresentanza culturale all’estero. Concretamente nei nostri musei italiani è carente una strategia mirata di formazione specialistica per le diverse figure professionali e personalmente sono una fervente sostenitrice di un coinvolgimento di professionisti giovani o neo laureati nei team di lavoro. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? F.N: Sì, e in molte città europee si stanno attuando svariati possibili modelli e approcci. Dalle coproduzioni tra partner istituzionali che generano progetti ed eventi promossi in comune; a modelli di collaborazione tra il pubblico e il privato che tendano di più verso una vera partnership e meno a un semplice sponsoring, in un sistema di contenuti culturali di alto livello ma per tutti. Nell’ambito delle manifestazioni temporanee, gli esempi in Europa forse più importanti di eventi 'sinergici' su un territorio unico sono “La Capitale Culturale Europea” e “Manifesta”, una vivacissima Biennale Europea dedicata all’arte contemporanea. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, una intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci cosa l’ha condotta a percorrere questa strada? F.N: La sfida consiste nell’elaborare una proposta culturale che nasce dalle esigenze e dalle specificità di un territorio, avvalendosi di metodi di management consolidati. Nel caso della Fondazione Palazzo Strozzi e nello specifico del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina il compito era di ideare per Firenze un’istituzione sul modello della Kunsthalle, dunque senza una collezione permanente e definita da un programma di mostre ed eventi temporanei, che fungesse da ponte tra le realtà artistiche internazionali e la città, dando un forte impulso di innovazione al territorio intero. Dall’inaugurazione dello spazio, che avvenne nel novembre 2007, credo possiamo dire che il CCC Strozzina si sia affermato come realtà consolidata nel sistema nazionale e internazionale e che Firenze abbia vissuto una rifioritura della contemporaneità, anche da parte di altre istituzioni nate nello stesso periodo o poco dopo. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? F.N: Per la prima parte del 2012 abbiamo in programma un evento espositivo, ma anche culturale di più ampio raggio, come “American Dreamers” che propone una riflessione sull’attuale stato dell’arte contemporanea negli Stati Uniti, i quali dall’11 settembre 2001 all’odierna crisi finanziaria hanno visto cadere certezze di invulnerabilità e di sicurezza economica e sociale. L’idea di 'sogno americano' sembra essere entrata in crisi. Grandi artisti così come le più giovani generazioni sembrano riflettere tutto ciò con le loro opere, attuando una sorta di fuga dalla realtà e di rifugio in mondi alternativi, sicuri e soprattutto controllabili.

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Dott. Marco Bazzini, Direttore del Centro Luigi Pecci

Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Marco Bazzini Marco Bazzini: Sono foto: Isabella Gherardi Direttore da cinque anni e rispetto a quando ho assunto l’incarico l’immagine del Centro, oggi, è del tutto diversa. Un museo vivace, con una programmazione del tutto originale rispetto alle altre istituzioni e stabili legami nel mondo, soprattutto nei paesi delle nuove economie, Cina e Brasile, oltre all’Europa. La prima cosa fatta è stata proprio quella di potenziare l’immagine internazionale del museo e stabilire nuovi rapporti con partner esteri. Questo ha consentito di riaccreditare anche il Pecci a livello nazionale. L’altra grande scommessa è stata il lavoro sulla collezione, dato che era stato appena approvato il progetto di ampliamento progettato da Maurice Nio, ora in corso di realizzazione. I frutti si vedranno a lavori conclusi ma già nella nostra vetrina milanese, il Museo Pecci Milano aperto sui Navigli da meno di due anni, ci sono stati le prime avvisaglie con la presentazione di opere entrate recentemente in collezione come “La caverna dell’antimateria” di Pinot Gallizio, “La luna” di Fabio Mauri o il microambiente di Superstudio presente alla mostra “The New Domestic Landscape” del 1972 al MoMA di New York. Anche alla collezione è stato cercato di dare un’identità forte, deve raccontare la storia internazionale del museo, le esperienze nate in Toscana e presentare importanti maestri dello scorso secolo oggi troppo e immeritevolmente dimenticati. Infine il lavoro sul territorio, sicuramente il più importante e difficile, perché il Centro era completamente staccato dalla città di Prato, per non parlare di Firenze. E un museo invece vive se è radicato nella sua comunità, se questa per prima percepisce la fortuna di avere vicino un luogo in cui poter passare il proprio tempo libero crescendo piacevolmente. Un museo deve parlare a tutti e programmare per tutti mantenendo ferma la qualità della proposta. È stato possibile fare passi avanti anche su questo fronte grazie al riconoscimento di museo regionale per l’arte contemporanea da parte della Regione

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Dott. Antonio Cassiano, Dirigente coordinamento Musei Monumenti del Comune di Lecce

Angiolina Polimeni: In questo particolare momento storico, caratterizzato da una profonda crisi economica mondiale, oltre alla possibile unione di forze politiche-amministrative e artistiche, quali sono, a suo personale avviso, le strategie da adottare per rendere più dinamico il sistema museale italiano? Antonio Cassiano:Meno mostre costose, variazione di allestimenti con materiali interni diversamente presentati. A.P: Nell’anno dedicato ai festeggiamenti per il 150°

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Silvana Annicchiarico foto di Fabrizio Marchesi

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Dott.ssa Silvana Annicchiarico, Direttrice Triennale Design Museum Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Silvana Annicchiarico:

Toscana. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? M.B: Innanzitutto i musei devono tornare ad avere attenzione e fiducia. Faccio un esempio: troppo spesso in quest’ultimo decennio i politici hanno voluto investire in eventi effimeri con la conseguenza di screditare le istituzioni museali e di far mancare loro quella continuità necessaria per crescere e rendere gli investimenti, culturali ed economici, patrimonio della collettività. Allo stesso modo si è comportato anche il collezionismo, ormai tutti, piccoli o grandi, si stanno facendo le loro fondazioni. Così come stanno aumentando i musei monografici dedicati ai singoli artisti da parte di amministrazioni pubbliche. C’è troppa frammentazione, mentre bisognerebbe puntare a compattare, solo in questo modo si velocizza l’informazione e si possono avere buoni risultati per tutti. Il museo deve tornare a essere uno dei punti nevralgici della società, e se inserito in contesti più ampi può essere una grande risorsa per il territorio senza perdere la propria autonomia. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? M.B: È fondamentale avere un atteggiamento del genere. I musei sono fonti di occasioni, sia per la loro collezione sia per le mostre che programmano. Se esiste una rete queste occasioni possono essere sfruttate da tutti purché tutti lavorino a un obbiettivo comune e mantengano le proprie funzioni e identità. Troppo facile dire che un museo deve fare turismo, la sua missione è un’altra ma può contribuire a farlo se si lavora insieme con le strutture preposte. Il museo non può agire da solo fuori dal suo ruolo, però può e deve lavorare insieme alle altre competenze presenti sul territorio. Potrà sembrare romantico ma non credo esistano modelli, piuttosto dipende dagli uomini e da quanto a questi uomini stia a cuore la crescita dell’arte e delle loro città. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci cosa l’ha condotta a percorrere questa strada? M.B: Per molti anni ci è stato detto che un manager doveva essere a capo di un museo. Oggi, invece, molte aziende mandano i propri alti dirigenti a scuola dagli artisti per svi-

luppare la creatività. La vicenda è un po’ bizzarra considerando che un direttore di museo ha la fortuna di stare con gli artisti tutti i giorni e che i budget da amministrare sono purtroppo oggi pari a delle 'paghette' per le quali basta il buonsenso del padre di famiglia. Credo che oggi un museo non debba soltanto adottare dei modelli di gestione ma debba anche sperimentare nuove possibilità che poi gli economisti della cultura devono congelare in nuovi modelli. Ma il museo paradossalmente deve già aver fatto un altro passo in avanti. È quello che giornalmente ci insegnano gli artisti, è quello che abbiamo fatto al Centro Pecci in questi anni. Per quanto riguarda la programmazione a lungo termine siamo stati avvantaggiati da una convezione con la Regione Toscana su più anni oltre al contributo annuale del Comune di Prato che si è mantenuto sostanzialmente stabile. Questo, insieme a un accurato lavoro sui budget, garantisce di poter prendere impegni anche con istituzioni estere o programmare in serenità. Chiaramente questo è stato un lavoro condotto insieme al Presidente, al Consiglio di amministrazione e al direttore amministrativo del Centro. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? M.B: “Live! l’arte incontra il rock”, programmata durante l’estate ci ha dato grandi soddisfazioni di pubblico e critica, così come ora le mostre dei due irregolari che ora presentiamo: Athos Ongaro e Mario Mariotti. Continuiamo anche il lavoro sull’Architettura radicale, un movimento che in Italia ha avuto i suoi maggiori protagonisti a Firenze. È attualmente in corso anche una mostra su Superstudio, oltre sessanta fotografie scattate da Cristiano Toraldo di Francia raccontano la vicenda di questo gruppo, inoltre è esposto anche il modello “supersuperficie” del MoMA. Il 10 dicembre apriamo una grande retrospettiva di Nicola De Maria, curata da me insieme a Achille Bonito Oliva. Una mostra all’interno del progetto Transavanguardia italiana ideato da Achille Bonito Oliva che coinvolge più città e istituzioni museali. Mentre nella prossima primavera portiamo il progetto “Italian Genius Now” in Brasile (San Paolo, Rio e Porto Alegre) e a Prato una mostra coprodotta con il Minsheng Art Museum di Shanghai. Sarà la prima mostra storico-critica sull’arte contemporanea cinese ad arrivare in Europa. E per l’autunno ancora un nuovo progetto internazionale, ma è un po’ troppo presto per annunciarlo.

Anniversario dell’Unità d’Italia, qual è il ruolo ricoperto dal territorio? A.C: Lavorare per raccontare la storia comune degli italiani che è più antica di 150 anni ed è quella linguistica, artistica e degli usi e costumi. A.P: Il modello dirigenziale da Lei adottato sino a oggi, ha garantito il successo di una straordinaria macchina capace di attrarre nei Musei Civici della Sua città, un grande numero di visitatori. Vorrebbe descriverci la formula che l’ha condotta a questo ottimo risultato? A.C: La costruzione di piccole mostre sui temi inerenti il territorio e realizzati con materiali del museo senza ricor-

rere a prestiti esterni. Queste mostre si alternano con altre sui grandi temi della cultura italiana ed europea e i suoi riflessi nel nostro territorio (Barocco Europeo - Barocco Leccese, Scultura Barocca tra Napoli Spagna e Salento; Ottocento e Novecento: L’Europa e la Puglia, Echi Caravaggeschi in Puglia...) A.P: Potrebbe concederci qualche anticipazione rispetto ai progetti di valorizzazione del patrimonio museale che ha intenzione di attuare per la città? A.C: Riallestimento delle collezioni che essendo disomogenee verranno presentate per tempi di acquisizioni e sottolineando la storia e il gusto del collezionismo.

Inaugurato nel 2007, Triennale Design Museum è diventato di fatto un punto di riferimento in campo internazionale grazie alla peculiarità di essere un museo dinamico, mutante, che a ogni edizione, ogni anno, cambia il proprio ordinamento scientifico, allestimento e selezione delle opere. La domanda da cui partiamo è sempre la stessa “che cosa è il design italiano?”, ma a ogni successiva edizione cerchiamo di prospettare e definire una risposta nuova a partire da un differente angolo di osservazione. Questa modalità di articolazione, inconsueta nelle istituzioni museali, ha lo scopo non solo di riuscire a convincere i visitatori a tornare al museo almeno una volta l’anno, ma anche di indurli a non considerare il museo come un luogo di sola conservazione della memoria, bensì come uno spa-

zio di investigazione del presente e di prefigurazione prospettica del futuro. La vera difficoltà risiede proprio nel riuscire a far convivere l’aspetto della conservazione con quello della valorizzazione ma il numero sempre crescente di visitatori e l’attenzione della stampa internazionale (non ultima la consacrazione da parte del New York Times di “Quali cose siamo”, terza edizione del museo a cura di Alessandro Mendini, come “Best Design Exhibition” del 2010) ci indicano che stiamo percorrendo la via giusta. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? S.A: Credo sia importante cambiare la modalità stessa di pensare il sistema museale, di mettere in scena le collezio-

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arskey/Politiche Culturali | Sondaggio seconda parte ni e le opere. Proprio come stiamo facendo con il Triennale Design Museum: un museo-laboratorio, che produce attività, scambia relazioni, si apre alle nuove generazioni, indaga la storia degli oggetti, archivia documenti e materiali per ricerche future. Il museo deve inoltre essere capace di fornire servizi di alta qualità e saper accogliere e ascoltare il visitatore. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? S.A: Il design italiano è un sistema complesso, policentrico e reticolare. Ci sono infatti numerosi giacimenti di design su tutto il territorio nazionale, di proprietà di aziende, enti o fondazioni, che, agendo alla periferia del sistema, hanno spontaneamente creato luoghi di conservazione e valorizzazione delle 'proprie opere'. Lontano dalle rotte principali del turismo e della cultura, giace un patrimonio diffuso di collezioni eterogenee, musei aziendali, archivi, magazzini poco conosciuti dal grande pubblico. Triennale Design Museum ha una ricca collezione permanente, composta dalla Collezione Permanente del Design Italiano, dai disegni di Alessandro Mendini, dalla Collezione di Giovanni Sacchi e dalla collezione di Alessandro Pedretti, ma ha un’altra ambizione: essere un luogo capace di rappresentare e valorizzare questa somma di espressioni in un progetto museale coordinato e di fondare una rete che metta

a sistema il tutto e gli fornisca un’adeguata rappresentazione. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un'intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci cosa l’ha condotta a percorrere questa strada? S.A: Io credo che la politica dei tagli alla cultura, così persistente e continuata, senza criteri, sia, oltre che un errore, un grave danno per il Paese. L'Italia, come è noto, ha un grande patrimonio culturale, fatto non solo di storia e archeologia, di arte e musei, di teatri e musica... Ma ha anche una storia recente, legata alle arti applicate che, pur affondando le proprie radici in epoche lontane, soprattutto dal secondo dopoguerra, hanno conosciuto fortuna e apprezzamento in tutto il mondo. Nessuna istituzione culturale, per quanto intelligente e capace, può 'inventarsi' soluzioni senza investire risorse vere nella ricerca, negli studi e nella rappresentazione. I risultati che ha ottenuto il Triennale Design Museum in questi anni di impegnativo lavoro sono, pertanto, in discussione e possono essere spazzati via in poco tempo se non si cambia regi-

stro. Sarebbe un peccato grave, non solo per noi, per il nostro Museo, ma anche per l'economia che ne è connessa fatta di imprese, molto spesso piccole ma in molti casi grandi e prestigiose, che nel rapporto tra cultura del progetto e cultura del fare non si trovi modo di affermarsi. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? S.A: Il 10 ottobre è stata inaugurata “O’Clock. Design del tempo, tempo del design”, una grande mostra sui rapporti fra tempo e design con una selezione di opere di artisti e designer internazionali, che curo con Jan van Rossem. La mostra avrà uno speciale allestimento di Patricia Urquiola e come Main Partner Officine Panerai. Prosegue poi il progetto sul design dei paesi emergenti “New Far East Design”. Dopo il focus sulla Cina, dal 28 ottobre presentiamo “Vitality. Korea New Design”, seguiranno poi “Finestre sul Mondo” su India, Sud America e Africa. Sto lavorando inoltre alla quinta edizione del Triennale Design Museum che nel 2012 racconterà la storia del design attraverso una storia che è sempre stata considerata minore e ancillare… ma al momento preferisco non dire di più…

Dott.ssa Letizia Ragaglia, Direttrice di Museion

A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? L.R: Posso parlare da un punto di vista dei musei dediti al contemporaneo. AMACI sta già facendo molto. La rete di AMACI dovrebbe poter godere di maggiore sostegno e credibilità a livello nazionale e quindi a livello anche politico, e poter contare su un sostegno in termini di risorse nella comunicazione compatta di questa rete. Favorire gli scambi tra i musei rende certamente il sistema più dinamico. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? L.R: Certamente. Noi cerchiamo di collaborare con molte altre realtà, il famoso 'l’unione fa la forza' è una verità! Innanzitutto collaboriamo in maniera stretta con l’università: da anni realizziamo un ciclo di conferenze comune dal titolo “artiparlando”; inoltre abbiamo dislocato la nostra biblioteca all’interno dell’università per permettere una fruizione più ampia del nostro patrimonio librario. Insieme all’università abbiamo anche dato luogo a un nuovo centro per libri d’artista. Per anni abbiamo anche realizzato dei progetti in comune con l’Accademia Europea di Bolzano (EURAC), un istituto di ricerca all’avanguardia con il quale abbiamo organizzato con successo dei 'Percorsi tra arte e scienza'. Abbiamo inoltre una cooperazione continuativa con il cinema d’essai di Bolzano “Filmclub”, che consiste in una programmazione mirata di pellicole attinenti alle nostre mostre. Infine, collaboriamo costantemente con il festival di cultura contemporanea “Transart”. Poi ci sono tante altre micro collaborazioni: con il conservatorio, con i festival letterari, tutte di vitale importanza per il nostro posizionamento sul territorio e per fortificare la nostra missione di 'casa per la cultura contemporanea'. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un'intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci cosa l’ha condotta a percorrere questa strada? L.R: Siamo un museo d’arte moderna e contemporanea, ma la nostra 'mission' è prevalentemente orientata sul contemporaneo. “All art has been contemporary” è uno slogan intelligente per far notare che il contemporaneo ha sempre avuto delle difficoltà per farsi accettare. Io credo nella forza e nella necessità di una cultura contemporanea, perché ci riguarda da vicino e dunque percorro la strada dell’arte contemporanea con convinzione e passione. È

una strada che permette di lavorare con gli artisti, che apre continuamente gli orizzonti e, per rispondere a Lei, permette anche di realizzare progetti importanti con budget ragionevoli. Certamente se facessimo mostre sugli impressionisti, per fare un esempio, avremmo un pubblico per lo meno triplicato, ma in parallelo salirebbero anche vertiginosamente i costi di organizzazione e realizzazione delle mostre. Del resto a noi interessa occuparci dell’oggi, addentrarci nella produzione contemporanea. Le nostre, le mie scelte sono dettate in primo luogo anche dalla natura di Museion, che si intende come laboratorio di cultura contemporanea, dove l’arte accade, viene prodotta e comunicata. All’interno di Museion i collaboratori si identificano con questa missione: dai tecnici ai conservatori, dal personale all’ingresso a quello nelle sale c’è una forte adesione all’identità di questa casa. E credo, anzi ne sono convinta, che questa sia una carta vincente del nostro museo. A.P: A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? L.R:Con la stagione 2012 si inaugura a Museion una nuova formula: ogni anno un guest curator realizzerà una mostra a tema che durante l’anno sarà approfondita da tavole rotonde ed eventi collaterali. Il curatore ospite 2012 sarà Rein Wolfs, direttore artistico della Kunsthalle Fridericianum di Kassel. Wolfs curerà una mostra a tema intitolata "The New Public", in cui analizzerà il nuovo pubblico e la nuova dimensione pubblica dei musei. "The New Public" inaugura il 14 settembre 2012 e sarà preceduta da due importanti personali: una dei Claire Fontaine (inaugurazione: 3 febbraio 2012) e l'altra di Pawel Althamer (inaugurazione 18 maggio 2012). Alla nuova stagione 2012 corrisponde anche un cambiamento fisico e visibile per lo spazio museale. Il pianoterra, già accessibile gratuitamente, si aprirà sempre di più al pubblico e diventerà al contempo un luogo di sperimentazione con una project room, uno spazio espositivo per progetti nuovi o creati per l’occasione da giovani artisti, con una particolare attenzione agli artisti del territorio. Il designer Martino Gamper è inoltre incaricato di progettare una struttura flessibile per ospitare le tavole rotonde di approfondimento delle mostre ed eventi. Infine, anche la facciata mediale verrà attivata stabilmente: per il 2012 è previsto un programma di video a cura di Frida Carazzato, con proiezioni da aprile ad agosto.

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Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Letizia Ragaglia: Le difficoltà principali erano legate all’obbligo di sanare i conti del museo e quindi di disporre di risorse Letizia Ragaglia finanziarie davvero foto è di Ivo Corrà limitate. Inoltre, un altro scoglio da superare, che impegna ancora molte energie del museo, è migliorarne la percezione sul territorio. Le soluzioni adottate sono state abbastanza semplici, anche se drastiche: cercare di non intaccare la qualità delle mostre, lavorare con artisti relativamente giovani e disponibili a sostenere il museo producendo delle esposizioni anche con un budget limitato. Tutto il team di Museion ha partecipato a questa operazione e devo dire che siamo riusciti a sanare i conti nel giro di poco tempo proprio grazie all’impegno massimo di ogni reparto. Certamente la disponibilità di artisti come Monica Bonvicini, Andro Wekua e Micol Assaël è stata fondamentale, così come la strategia di iniziare a cooperare strettamente con istituzioni affini come il Wiels di Bruxelles e la Kunsthalle Fridericianum di Kassel. Sul fronte del territorio stiamo ancora cercando di migliorare la comunicazione: abbiamo una buona reputazione all’estero e a livello nazionale. A livello locale abbiamo un ottimo rapporto con le scuole e con chi frequenta gli ambienti artistici. Dobbiamo invece ancora impegnarci ad abbattere la soglia di diffidenza nei confronti di chi non è abituato all’arte contemporanea. Ora che abbiamo stabilito il programma artistico dei prossimi due anni ci concentreremo molto sulla comunicazione delle offerte che già abbiamo messo in piedi per il pubblico: workshop e laboratori per i più piccoli e per i giovani, programmi speciali per gli adulti, apertura gratuita e visita guidata gratuita ogni giovedì sera, la presenza dei mediatori d’arte nelle sale ogni fine settimana…

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arskey/Politiche Culturali | Nuove Tecnologie

. . al lu.be.c 2011 tra storia, crisi e innovazione tecnologica . . di Rita Salis

Si è chiusa il 22 ottobre 2011 presso il ricordare il progetto Cosmos Sky Med teatro di San Girolamo di Lucca l'ediche può essere applicato sia ad aspetzione del 2011 del Lu.be.c. Una rasseti civili che culturali ed è stato presengna ricca di spunti e scambi, dove ci si tato da Enrico Saggese, presidente è confrontati con la crisi che investe dell'ASI. profondamente i beni culturali e su Come è emerso in diversi incontri del tutte le possibili soluzioni per incentiLu.be.c. le istituzioni statali e museali vare e far crescere il settore, anche sempre più usano le tecnologie come attraverso la ricerca tecnologica. Da mezzo per la promozione del territorio tutti gli interventi è emersa chiarae per avvicinarsi al pubblico dei giovamente l’annosa necessità di fare sisteni, che non sempre frequenta i musei, ma, creando proficue collaborazioni per questa ragione molti musei hanno tra le amministrazioni e tra pubblico e puntato su progetti di sviluppo sia privato. Un altro punto che è stato Foto Lu.be.c. 2010: I beni culturali attraverso realtà virtuali attraverso i social media (come è trattato da tantissimi relatori è la stato fatto dalla Fondazione Torino necessità di creare posti di lavoro per i Musei o dal Museo della Scienza di Napoli), sia tragiovani, che spesso già collaborano proficuamente con mite l’utilizzo dei qr code da leggere con il proprio le istituzioni, ma troppo spesso solo tramite stage o smartphone per scaricare guide di musei (come l’apcontratti di collaborazione saltuari. Durante la seduta plicazione studiata ad esempio dal Museo Civico di plenaria del primo giorno l'intervento di Andrea Bassano del Grappa) o informazioni turistiche sulla Carandini ha entusiasmato la platea presente all'Ex città che si visita (come nel caso del progetto Visito Real Collegio. Nonostante la grave crisi e i rischi che Tuscany). La promozione del territorio può essere ancora gravano sui dipendenti del settore, il incentivata anche da iniziative come la magna charta Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali del volontariato, che è stata presentata dal Cesvot, o ha sostenuto che gli sblocchi delle 168 assunzioni nei molti sono i progetti attraverso la creazione di sistemi integrati, che sapprossimi due anni sono un fatto certamente positivo e innovativi che sono piano dare risposte concrete alla valorizzazione dovuto anche alla buona volontà del ministro Galan. stati presentati e che attraverso il coinvolgimento di tutti gli operatori del Tuttavia Carandini ha anche espresso un severo giuditerritorio, come si sta tentando di fare attraverso la potrebbero creare zio contro la classe dirigente del nostro paese, colpeLucca Land Card. Le tecnologie sono inoltre fondavole di non aver incentivato la creazione di una seria delle ottime mentali per la digitalizzazione dei beni culturali e per politica dei beni culturali. Inoltre la burocrazia e la possibilità di sviluppo l'editoria, come hanno dimostrato le presentazioni mancanza di professionalità, la rende non all'altezza dei progetti europei ENARC e CARARE, la mostra su nel settore dei beni dei giovani e del loro futuro. Ha poi parlato con un Giorgio Vasari realizzata presso l'Istituto Italiano di discorso profondo e commovente del valore dell’Unità culturali Cultura di Tokyo in collaborazione con il progetto d’Italia, problematica anche a causa dei localismi non G.E.M.A., o come il progetto Iterr-cost che promuove risolti e della mancanza di simboli nazionali, ma il suo itinerari alla scoperta del romanico tra Toscana, valore passa anche dalla ricchezza e dalla stratigrafia Corsica e Sardegna. Molto interessante è stata anche della nostra storia e dalla geografia del territorio, la presentazione in anteprima, da parte di Massimo come ha sostenuto nel suo intervento “la storia è la Riva della Brown University del progetto “Garibaldi nostra radice”. Panorama ” allestita a Siena nella Sala del Durante la prima giornata è stato assegnato anche il Risorgimento dal 28 ottobre e fino al 15 gennaio. Lu.be.c. 2011 a Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini, Denso di spunti e propositi per lo sviluppo è stato Presidente Nazionale dell’Associazione Dimore infine anche il convegno sui parchi e giardini d'Italia, Storiche Italiane: “per la costante attività come leve di valorizzazione del paesaggio, anche dell’Associazione volta a sostenere e incentivare la attraverso, come auspicato da Paolo Pejrone, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali e nascita di una scuola per giardinieri, che sappia dare dei valori che essi rappresentano”. vitalità e professionalità a questi piccoli luoghi creati Molti i progetti innovativi che sono stati presentati e dall'ingegno dell'uomo, così densi di fascino e sugche potrebbero creare delle ottime possibilità di svigestione. luppo nel settore dei beni culturali, come ha affermato anche Antonia Pasqua Recchia. Tra questi si può - 75 -


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Roberto Grossi

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intervista a:

roberto grossi presidente di federculture

la cultura è a un passo dal baratro: qui serve una rivoluzione!

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di Nicola Maggi La credibilità del nostro Paese sta crollando. Per l’Unione Europea siamo, assieme alla Grecia, un sorvegliato speciale. Eppure il nostro Governo sembra in grado solo di negare l’evidenza, facendo orecchie da mercante di fronte alle richieste di cambiamento che provengono da vari settori. In primo luogo quello della cultura, in grado di creare profitti crescenti anche in tempi di crisi ma completamente dimenticato dalla politica. Gli ultimi dati divulgati in occasione degli Stati Generali di Cultura e Turismo, riunitisi a Roma alla fine di settembre, parlano chiaro: la spesa delle famiglie italiane per i servizi culturali e ricreativi è cresciuta del 5,8% nel 2010 e nell’ultimo decennio addirittura del 53,7%. Cresce anche il turismo culturale, che lo scorso anno ha fatto registrare introiti per 8,6 miliardi di euro. Eppure gli investimenti pubblici in questo settore, che da solo vale il 5% del Pil nazionale, continuano a diminuire e se tra il 2005 e il 2009 si è perso il 15% delle risorse, per i prossimi anni si prospetta un’ulteriore riduzione del 30%. Ma la cosa più grave è che, al defilarsi dello stato, si somma anche la fuga, o meglio, la 'cacciata' dei privati, determinata da alcune decisioni prese dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma il dramma della cultura in Italia non è legato solo ai tagli indiscriminati. Il vero problema sono le politiche nazionali per il settore, da sempre latitanti in Italia, ma praticamente assenti da almeno tre anni. “Il settore è come se non fosse più oggetto dell’interesse pubblico - spiega Roberto Grossi, presidente di Federculture - come dire che, da un giorno all’altro, non bisogna più occuparci di sanità, di trasporti o di scuola. Ecco, sta succedendo questo. Abbiamo avuto dei ministri, Bondi e Galan, che non ci sono stati. Purtroppo anche Galan ha deluso le attese ma il processo è molto lungo. In questi anni abbiamo scontato un gap di carattere culturale della classe politica e dei dirigenti, per i quali la cultura o era qualcosa di passivo, di morto, o puro spettacolo, intrattenimento, con il conseguente proliferare di grandi eventi e festival che non avevano alcuna ragione di nascere”. “Ma la cultura - prosegue Grossi - è stata anche uno strumento utilizzato per far crescere l’immagine personale di molti politici, per creare consenso”. Un’estremizzazione, spiega il presidente di Federculture, che ha portato da un lato “alla creazione di tanti piccoli parchi Disneyland con sperpero di tantissime risorse e, dall’altro lato, a guardare al nostro patrimonio come a qualcosa che appartiene al passato e che è più un peso che un’occasione di crescita”.

il sistema della produzione culturale è arrivato, fino a giugno 2011, a contribuire al pil nazionale per il 5%

Nicola Maggi: Dove ci sta conducendo questa situazione? Roberto Grossi: Dentro questa forbice, abbiamo assistito in modo emblematico al crollo di Pompei, che è la conseguenza di certe disattenzioni, e all’abbandono di tanti siti del nostro paese. Ormai non se ne parla neanche più di quanti sono quelli chiusi e di quanti ne chiuderanno nei prossimi anni. Nonostante questo, per fortuna, c’è stata in questi anni una forte crescita della produzione culturale e artistica italiana. Però questa fascia, queste realtà che si sono sviluppate nel paese e che hanno stimolato la domanda sono nate per un processo che viene dal basso, per l’impegno, talvolta, degli enti locali, che hanno riaperto il Palazzo delle Esposizioni, costruito gli Auditorium ma anche creato strumenti di gestione e dato coraggio e fiato a tante associazioni e a molte realtà attive nel territorio che hanno animato luoghi e reso il museo una cosa viva, organizzandola meglio. Grazie a loro si è migliorata in modo sensibile l’offerta culturale del paese. N.M: Come si riflette, questa capacità di gestione


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Roberto Grossi

dimostrata dagli amministratori locali, nelle scelte del Governo? R.G: Gli enti locali hanno dimostrato di avere le capacità di far bene e che ci sono degli operatori, sia pubblici che privati, in grado di far funzionare le cose. Pensi a quante Fondazioni pubbliche ci sono in Italia. Il MAXXI è gestito da una Fondazione pubblica, con dei manager. L’Auditorium non è un caso che abbia quei risultati: è perché c’è dietro una gestione di tipo manageriale. E così in tutta Italia: La Triennale e il Piccolo di Milano, la Fondazione del Musei Civici di Torino o di Venezia. Si sono create reti, si sono create aziende. Un fermento nato soprattutto su iniziativa degli enti locali e delle imprese ma che non ha trovato riconoscimento nelle politiche pubbliche e che è schiacciato dalla non-politica, dall’assenza delle riforme. Ma anche da una serie di leggi, come quelle fatte da Tremonti e inserite nelle ultime finanziarie, terribili, che penalizzano tutte le strutture più efficienti ed efficaci. Misure che allontanano i privati dai consigli d’amministrazione e che, addirittura, impediscono agli enti locali e alle regioni di decidere autonomamente come investire i propri soldi e se organizzare una mostra o uno spettacolo. N.M: Nonostante questo, però, il settore continua ad avere una performance positiva … R.G: Il sistema della produzione culturale è arrivato, fino a giugno 2011, a contribuire al Pil nazionale per il 5%. Un contributo che è superiore a quello dell’industria automobilistica, della chimica, della meccanica o di tutta l’agricoltura messa insieme. Questo settore, inoltre, dà lavoro a un milione e mezzo di persone. Il punto è che c’è un problema culturale legato a una classe politica che non è in grado di interpretare e di comprendere, in una scala di priorità e di valori, l’importanza del settore della cultura. Settore che non è solo il teatro, il museo, il monumento o l’area archeologica. Ma è, prima di tutto, produzione artistica, sviluppo della conoscenza, integrazione sociale, possibilità di crescita e di equilibrio tra gli strati sociali della popolazione. Cinquant’anni fa, quando il paese usciva dalla guerra, grazie a una costituzione molto precisa che aveva dato alla cultura e alla conoscenza un ruolo centrale, il paese si è sviluppato. Nonostante tutto c’era speranza, si investiva sulla conoscenza, sull’istruzione, sulla scuola e sull’università. Anche se le famiglie erano meno ricche, in termini di reddito pro capite, però c’era una speranza di crescita. Una famiglia sapeva che se faceva un sacrificio per far studiare il proprio figlio questo era però importante per il suo futuro. N.M: Quando si è incrinata questa fiducia nella cultura? R.G: Abbiamo avuto un momento di sviluppo straordinario, come intervento pubblico, dal dopoguerra fino a tutti gli anni Settanta. Pensiamo alla Rai e alle sue produzioni, da “Non è mai troppo tardi” di Alberto Manzi alle riduzioni per la televisione dei grandi classici della letteratura. Oggi la Rai è un’altra cosa. È diventata uno strumento che rischia di far del male ai nostri ragazzi. Fino agli anni Settanta c’è stata una politica pubblica in questo senso. Poi, dagli anni Ottanta fino all’inizio del anni Novanta, c’è stato, da parte degli enti locali, uno sviluppo fortissimo della gestione dei musei, dei teatri e delle biblioteche. Questo perché gli enti locali, vent’anni prima dello Stato, si sono interrogati su come far sì che certe istituzioni potessero non essere più solo delle voci di costo all’interno dei bilanci ma anche un’opportunità, se gestite in modo più efficace e non secondo logiche burocratiche. In questo modo hanno riavvicinato le

le nostre strutture sono imbrigliate da logiche burocratiche e va a finire che il soprintendente che deve andare a controllare cosa accade a trenta chilometri di distanza non ha i soldi per la benzina

grandi città italiane e i paesi agli standard dell’Europa. Fino agli anni Novanta per vedere una mostra importante bisognava davvero andare a Londra o a Parigi. Dagli anni Novanta, attraverso una politica di sviluppo urbano e sociale, a nuovi contenitori culturali, a grandi investimenti in opere pubbliche e grazie alla nascita di strumenti di gestione più efficienti, costruiti con logiche privatistiche e talvolta proprio assieme al privato - che è diventato azionista - le città sono cambiate e si sono poste subito su uno scenario internazionale. Questo, peraltro, con una diminuzione dell’onere per l’ente pubblico - che si è spogliato dell’intervento diretto nell’organizzazione e gestione di musei, teatri e spettacoli -, creando lavoro specializzato, soprattutto giovanile e, in qualche modo, arricchendo e animando luoghi che erano morti. N.M: La nomina, da parte del Ministro Bondi, di Mario Resca a Direttore Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale sembrava, però, un tentativo, da parte del Governo di rispondere alla mancanza di una gestione manageriale dei nostri beni culturali ... che risultati ha portato? R.G: Per valorizzare il nostro patrimonio culturale e le attività culturali è necessario che ci sia una politica pubblica. Non è un problema puramente tecnico. Per gestire meglio la Reggia di Caserta o Pompei ci vuole una politica pubblica fatta di riforme, di scelte sul personale e sui finanziamenti da erogare, di verifica delle attività svolte e dei modelli di gestione. Tutto questo non c’è. Quindi, l’ottimo lavoro e la buona volontà di Mario Resca hanno potuto fare ben poco. Non è possibile valorizzare i beni culturali se il personale dello Stato è poco e sempre meno qualificato: vanno via i restauratori e non ce ne sono di nuovi, non ci sono le nuove leve perché non si fanno concorsi. Le nostre strutture sono imbrigliate da logiche burocratiche e va a finire che il Soprintendente che deve andare a controllare cosa accade a trenta chilometri di distanza non ha i soldi per la benzina. Questa è la situazione. Come si può valorizzare se non riusciamo neanche a tutelare? L’idea della nomina era giustissima. D’altronde già il Codice Urbani aveva inserito, per la prima volta in modo chiaro, il tema della valorizzazione della cultura, dei beni culturali assieme a quella delle attività culturali e del paesaggio, tra le materie di intervento pubblico statale. Perché sottolineo statale? Perché gli enti locali lo facevano già dagli anni Novanta. Pensiamo a Torino, a come è cambiata: era una città morta, industriale, che è stata completamente riprogrammata guardando ai cittadini e al futuro. E la cultura è stata l’asse centrale di questa rivoluzione. Luci d’artista che hanno decorato la città, la Mole Antonelliana, dove non andava nessuno, che è diventata un museo del cinema visitassimo. N.M: Sul fronte dei finanziamenti, a fianco dei tagli pubblici, stiamo assistendo anche a un calo degli investimenti privati e delle Fondazioni bancarie … R.G: Quello che dice il presidente dell’Acri è molto chiaro. Le fondazioni bancarie sono in un momento di crisi. Nel 2011 hanno perso in borsa tantissimi soldi e per il 2012 prevedono un decremento di oltre il 20% delle quote destinate alla cultura. Non potranno più garantire il livello di erogazione del passato. Ma la cosa drammatica è che crolleranno le sponsorizzazioni di oltre il 30%. E, cosa ancor peggiore, è che stanno uscendo i privati dalla co-gestione delle aziende. La grande novità degli ultimi anni, infatti, non erano le sponsorizzazioni degli eventi. Quelle ci saranno sempre in misura maggiore o minore. La - 77 -


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Roberto Grossi

grande novità era la presenza dei privati all’interno dei Cda. Pensiamo al Mart di Rovereto, ai Musei Civici di Venezia, al MamBo, al MAXXI o a tutte quelle strutture pubbliche e parapubbliche vocate al contemporaneo. Ecco, in questo momento, i privati tendono a uscire o a diminuire l’investimento in tutte queste realtà. N.M: Come mai? R.G: Per due ragioni. Primo per il crollo della politica pubblica di settore: il disinteresse che mostra lo Stato per la propria creatura si sta traducendo in termini di non sostegno, di difficoltà a stabilire una progettualità di lungo respiro - indispensabile per certi settori -; di difficoltà a sapere quale sarà l’investimento dello stato o dei comuni. A tutto ciò si aggiungono le norme introdotte da Tremonti che, senza avere benefici per l’erario in termini di contenimento dei costi, impediscono di fatto ai privati di entrare nei Cda, giungendo, in certi casi, a farli addirittura uscire. Tremonti ha fatto una norma in cui si dice che tutte le strutture partecipate, anche con un centesimo di denaro pubblico, devono adeguare i propri statuti riducendo i componenti dei Cda a un numero massimo di cinque. Tenendo presente che c’è un’altra norma che stabilisce che tutti i componenti svolgono il proprio ruolo a titolo gratuito, la decisione del Ministro non comporta alcun risparmio. Con il risultato che, trovandoci di fronte a tutte strutture partecipate dallo stato, dalle regioni o dagli enti locali, che hanno nei Cda i loro tre o quattro rappresentanti, sono proprio i privati a rimanere fuori. Quindi, il privato che è entrato a fatica, è stato convinto a entrare nel Cda con il versamento di una quota pluriennale, non lo potrà più fare. O deve uscire o non potrà più entrare. L’esperienza di Della Valle non può

il nostro turismo, che si è retto in larga parte grazie alle città d’arte, potrebbe tornare ai primi posti, con un vantaggio economico e occupazionale straordinario, mentre negli ultimi trent’anni siamo passati dal primo al quinto posto come incoming

essere l’alternativa. Ben vengano i mecenati sul restauro ma il problema non è questo ma una visione gestionale dell’area archeologica o del museo completamente diversa e che richiede che il privato sia dentro. N.M: Cosa chiedono alla politica gli amministratori locali e gli operatori che si sono riuniti a Roma per gli Stati Generali di Cultura e Turismo? R.G: Il messaggio che abbiamo mandato a Galan e a Tremonti, con cui ho parlato personalmente, è stato: “Guardate signori, il settore oggi vale il 5% del Pil ma con il freno a mano tirato. Se noi proviamo ad accelerare un po’ con delle politiche di intervento attive, senza castrare gli enti locali, con una politica nazionale seria di collaborazione, con dei progetti che creino dei distretti culturali, ambientali e enogastronomici, noi potremmo essere competitivi. La nostra occupazione potrebbe raddoppiare e così il nostro contributo al Pil. Il nostro turismo, che si è retto in larga parte grazie alle città d’arte, potrebbe tornare ai primi posti, con un vantaggio economico e occupazionale straordinario, mentre negli ultimi trent’anni siamo passati dal primo al quinto posto come incoming”. N.M: Cosa le hanno risposto? R.G: La risposta è il fatto che loro non credono in tutto ciò … Una 'non risposta' che è peggio di una risposta negativa. A quella puoi controbattere e poi, dati alla mano, si arriva sempre a un punto di congiunzione. L’indifferenza, le posizioni agnostiche e gli slogan facili - “la cultura non si mangia” -, senza un confronto e una verifica, sono il vero pericolo per il paese. Un pericolo mortale. Perché quello che è in


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gioco non è l’apertura o meno di un museo o che dal 2012 - quando avremo il 30% in meno dell’offerta culturale - un museo riduca l’orario di apertura. Quello che è in gioco è la diffusione della conoscenza, in cui la cultura è un veicolo non un obiettivo. L’obiettivo che noi abbiamo è il benessere del cittadino, la qualità della vita. La nostra proposta al governo, lo abbiamo detto anche al Presidente della Repubblica, non è: cerchiamo di salvare il museo o il teatro. Ma: cerchiamo di salvare il paese, rispetto al quale la cultura è la vocazione vera e, secondo, l’elemento cruciale della coesione sociale e della felicità delle persone. La cultura deve essere vista come uno strumento per raggiungere un obiettivo che è il benessere dei cittadini intesi sia come singole persone, perché fa bene al cervello e al cuore, che collettivamente, perché crea economia, ricchezza, migliora la condizione delle famiglie. Noi dobbiamo alzare il tiro. Purtroppo abbiamo un governo, ma anche un parlamento, assolutamente inadeguato alle necessità del paese. N.M: Come intendete contrastare questa situazione? R.G: Faremo resistenza fino in fondo. Una resistenza attiva. Ma soprattutto ci facciamo, fin da ora, portatori di un messaggio preciso di rivoluzione culturale. Ci vuole una diversa coscienza e consapevolezza, perché la cultura è legata all’etica, a dei valori e alla valorizzazione delle capacità di ciascuno di noi e alla democrazia. Serve una rivoluzione culturale. N.M: Nel documento uscito dagli Stati Generali affermate anche di essere pronti a fare sacrifici... R.G: Noi siamo i primi a dire che ci sono margini di razionalizzazione anche nel nostro settore. Stiamo tirando la cinghia ma non ci siamo lamentati perché ci sono meno soldi pubblici. Chiediamo, anzi, di essere rendicontati; chiediamo delle verifiche, di sapere come vengono spesi i soldi di Arcus, secondo quali criteri. E soprattutto quali sono i risultati che Arcus, e quindi il Ministero, ottiene con i suoi investimento. Vogliamo che il Ministero valuti quello che stiamo facendo all’Auditorium di Roma o al MAXXI. Invece ci sono tagli indifferenziati, non ci sono valutazioni e tutti sono uguali. Chiediamo che ci sia il coraggio di decidere se un’azienda merita di avere il sostegno pubblico e in che misura. N.M: Il problema dei fondi per la cultura è ormai un fenomeno globale. Ma all’estero sono molti i casi di governi in prima linea per promuovere la filantropia e il mecenatismo. Come mai, secondo lei, un Governo come quello italiano, che parla sempre di riduzione dei costi pubblici, non riesce (o non vuole) a varare misure che facilitino l’ingresso della finanza privata in cultura? R.G: È il solito problema di ignoranza, di indifferenza e di incultura di cui parlavamo prima. È chiaro che se un ministro approfondisse un po’, avesse il coraggio di creare un tavolo di lavoro serio su questi temi capirebbe subito che creando delle leve di facilitazione fiscale e valorizzando dei sistemi di gestione efficienti troveremmo sicuramente tante risorse private che andrebbero al fianco di quelle pubbliche. L’investimento complessivo nel settore potrebbe essere incrementato almeno del 100%. Il problema è che non possiamo pensare che il mecenate dia soldi in assenza di una programmazione e di certezze rispetto all’esito della donazione. Le faccio un esempio: sono un museo statale gestito da una fondazione. Avvicino un privato che potrebbe farmi una grande donazione. Per attrarlo devo dargli la garanzia che sono in grado di gestire il lascito che mi fa. Devo garantire che il museo funzio-

se fanno crollare, come stanno facendo, la produzione artistica, crollerà anche la domanda e si perderà occupazione e noi saremo finiti, torneremo indietro di sessant’anni

na, che è aperto tutto il giorno, che fa una programmazione di livello ecc. Il problema è la gestione. Se noi uccidiamo la gestione e non abbiamo certezza delle entrate pubbliche, perché solo alla fine dell’anno ci viene detto quando ci verrà erogato per l’anno in corso, è chiaro che il privato scappa via. Il settore pubblico ha bisogno di politiche diverse e di uomini diversi. N.M: Una richiesta che ormai viene da più parti nel nostro paese … R.G: Cero, perché è assolutamente evidente che con questa classe politica il paese non può andare avanti. E questo è tanto più evidente nel settore della cultura, con gli errori che si stanno facendo nella scuola, nell’università e nella ricerca. E quindi anche nelle politiche per il cinema o per il teatro. Ma se noi abbiamo assistito a un incremento della spesa delle famiglie e della domanda di teatro e di cinema, questo è dovuto a un miglioramento della gestione. Se fanno crollare, come stanno facendo, la produzione artistica, crollerà anche la domanda e si perderà occupazione e noi saremo finiti, torneremo indietro di sessant’anni. Il paese rischia di perdere l’unica chance che ha per ricostruire un disegno di sviluppo che abbia un senso. Oppure pensiamo che la ripresa possa avvenire attraverso operazioni bancarie o la costruzione di infrastrutture come il ponte di Messina? Il nostro paese non è questo. Non può fare a meno di una nuova visione strategica per il settore della cultura. Parliamo della possibilità dell’Italia di attrarre artisti da tutto il mondo, come avviene da secoli. Da quest’anno, invece, anche gli artisti che hanno resistito fino a oggi se ne vanno e perdiamo la loro capacità creativa e la loro energia. E non possiamo permettercelo. N.M: Questo disinteresse della politica per la cultura sembra però interrompersi quando si tratta di 'gestire' certe strutture. Penso, ad esempio, alla Biennale di Venezia… R.G: Certo, è tutto per logiche clientelari. Vede, è una questione di uomini, di persone. Noi abbiamo ancora dei gioielli invidiati nel mondo. Il Piccolo di Milano ha fatto una tournée in Russia che ha riscosso un successo pazzesco e così l’Accademia di Santa Cecilia in Giappone. Insomma, all’estero la nostra arte, la nostra musica, il nostro design, sono fortissimi. Il settore della cultura è l’unico che ancora esporta. Questa eccellenza è limitata a delle riserve indiane e tutte sono oggi in difficoltà. Nella scelta degli uomini, come nel caso della Biennale, un politico dovrebbe pensare a quale può essere la persona migliore. Invece le logiche sono ancora quelle amicali, della spartizione delle poltrone. E questo fa un danno gigantesco, perché è un ulteriore elemento di inquinamento delle gestioni. Noi chiediamo che queste siano autonome, che la politica esca dalla gestione della cultura. Deve uscire fuori e ricominciare a fare quello che gli chiediamo: le strategie, le scelte sociali e di programmazione economica. Questo chiediamo alla politica. Vorremmo una politica alta. Per quanto riguarda le nomine non si deve più sentire che un ministro sceglie una persona perché è il suo vicino di casa o un suo amico. Questo è un danno incommensurabile per il Paese. Le scelte degli amministratori e dei dirigenti devono essere fatte secondo altre logiche. So che è il libro dei sogni ma ogni tanto bisogna anche sognare.

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arskey/Politiche Culturali | Intervista ad Annette Hofmann

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intervista ad:

annette hofmann lisson gallery. una sede italiana per una galleria internazionale di Letizia Guadagno

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Continua l'arrivo in Italia di titolate gallerie d'arte. Dopo la Gagosian a Roma, è sbarcata da alcune settimane nel cuore di Milano la Lisson. Fondata nel 1967 a Londra da Nicholas Logsdail, la Lisson vanta una 'scuderia' di artisti impressionanti tra cui figurano Ai Weiwei, Marina Abramović, Daniel Buren, Tony Cragg, Anish Kapoor, Sol LeWitt, Julian Opie, Tony Oursler, Santiago Sierra... Per la Lisson è la prima sede al di fuori della Gran Bretagna, una nuova sfida che è stata affidata ad Annette Hofmann che in passato aveva lavorato otto anni per la galleria londinese. E proprio lei ci racconta le ragioni di questa scelta e molto altro ancora.

Letizia Guadagno: Lisson a Milano. Come mai? Annette Hofmann: È una scelta che dipende da molti fattori. Prima di tutto, c'era il nostro desiderio di crescere e l'Italia c'è sempre piaciuta, c'è sempre stato un grande amore per questo paese da parte degli stranieri. Poi ci hanno offerto uno spazio molto forte, creativo, con cui gli artisti saranno invitati a interagire, perché, questo ci tengo a sottolinearlo, non sarà unicamente un punto vendita. Inoltre, la galleria ha anche accesso al giardino dove potremmo esporre delle statue ed è situata vicino a quelli che erano gli orti di Leonardo da Vinci. Accanto a queste motivazioni di carattere emotivo, ci sono motivi di carattere logistico: Milano è vicina ad altri paesi importanti come la Svizzera, la Germania, la Francia. Inoltre è un punto di riferimento sempre più autorevole per il design, l'architettura e l'arte contemporanea. L.G: In Italia sono previste agevolazioni per l'apertura di spazi espositivi? A.H: Assolutamente no. Se fossero state queste le motivazioni a guidare la nostra scelta, avremmo dovuto aprire una galleria altrove, magari in Svizzera dove, per esempio, l'Iva è più bassa. L.G: Com'è il mercato italiano? A.H: È un mercato che esiste da tempo formato da collezionisti forti ma anche da giovani curiosi, aperti, attenti al nuovo. Noi abbiamo un legame storico con diversi collezionisti molto noti e con collezionisti 'na-

Spencer Finch, “Sky Over Coney Island (November 21,2004 1:14 pm)”, 2004/2011 Dimensions Variable, Balloons, String, Brick. © Spencer Finch. Photo credit: Luke Stettner


arskey/Politiche Culturali | Intervista ad Annette Hofmann

ART & LANGUAGE, “Five American Background Songs”, 2009-2010 Acrylic on canvas and mixed media. Courtesy the artist and Lisson Gallery

scosti'. E pur avendo aperto solo da poche settimane, grazie a questa rete di relazioni consolidate nel tempo, ci sentiamo già a casa. L.G: Quali sono le differenze fra il collezionista italiano e quello straniero? A.H: Il collezionista italiano è molto aperto alle innovazioni, osa nelle scelte, è capace di avventurarsi in terreni 'inesplorati'. Allo stesso tempo, medita molto prima di procedere all'acquisto ed è molto attento al prezzo. La cifra richiesta deve essere equa e, inoltre cerca sempre di trattare, vuole sempre fare un affare. I collezionisti stranieri, invece, scelgono d'istinto, molto più velocemente, e pagano la cifra richiesta senza nessun indugio. Le trattative sono rapidissime. L.G: La crisi. Che effetti ha sull'andamento della galleria Lisson? A.H: Non ne se sentiamo il peso. Forse, perché il mercato dell'arte offre dei 'bei' rifugi. Beni, non mi piace assolutamente parlare di investimenti, che hanno dei veri valori. E a conferma di quello che dico, potrei citare i nomi di tanti uomini d'affari che nel collezionismo di opere d'arte hanno trovato una vera e propria passione. Quello che all'inizio era considerato un investimento si è trasformato in un fortissimo interesse. Nonostante i tempi difficili, quindi, il mercato c'è. Anzi, erano anni che Basilea non andava così bene. L.G: Nella vostra 'scuderia' ci sono al momento trentotto artisti di cui solo un italiano, Giulio Paolini. La nuova sede della Lisson a Milano coinciderà con una maggiore apertura verso la produzione italiana contemporanea? A.H: La Lisson è particolarmente attenta al talento che va al di là della nazionalità. È solo un caso che al momento ci sia un solo artista italiano. E questo non significa assolutamente che non ci siano talenti in Italia, direi solo che si esprimono con un linguaggio che non è il nostro. Da quando abbiamo aperto la sede milanese, però, ogni giorno almeno due artisti italiani vengono a mostrarmi il loro lavoro. Sicuramente grazie a questi incontri, sarà più facile che il loro numero aumenti. Non è escluso che

nonostante i tempi difficili, quindi, il mercato c'è. anzi, erano anni che basilea non andava così bene

in futuro non ci possano essere sorprese in questo senso. Non nascondo che mi farebbe molto piacere offrire ad alcuni artisti italiani l'opportunità di un progetto interamente dedicato a loro. L.G: Come viene percepito all'estero l'attuale panorama artistico italiano? A.H: Gli artisti italiani sono sempre stati dei privilegiati perché hanno una storia artistica importante alle loro spalle. Allo stesso tempo, in passato, il mondo artistico italiano era piuttosto chiuso. Gli artisti erano troppo confinati nella loro realtà. Attualmente, la situazione mi sembra diversa, ci sono diversi artisti italiani molto conosciuti che hanno capito l'importanza di andare all'estero, di viaggiare, di aprirsi al mondo. E questo è veramente un consiglio che mi sento di dare a tutti i giovani artisti: viaggiate, studiate fuori, imparate l'inglese. L'amore per il proprio paese e le radici sono importanti, ma è necessario andare. Poi, chiaramente, si può ritornare. Viviamo in un mondo sempre più globalizzato e non si può rimanere isolati. L.G: Come si diventa un artista della Lisson? A.H: Non c'è una ricetta. È necessario un grande talento e la capacità di sapere esprimere lo zeitgeist, lo spirito del tempo. A noi, d'altra parte, non interessa il metodo o il mezzo che utilizza l'artista ma siamo alla ricerca di innovazioni che si combinino con un pensiero estetico. Vogliamo artisti in grado di creare lavori nuovi e pensieri nuovi. L.G: Cosa proporrà la vostra galleria milanese nella prossima stagione? A.H: Vogliamo far vedere in Italia artisti che non sono mai arrivati. Un approccio che sarà interessante per il pubblico ma anche per gli stessi artisti che potranno mostrare qui il loro lavoro. L'idea è quello di organizzare quattro-cinque mostre l'anno. Dopo aver aperto con una collettiva, la prossima esposizione sarà dedicata a Julian Opie di cui presenteremo alcune sculture. Poi ci saranno delle sorprese su cui stiamo ancora lavorando. - 81 -


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Claudia Dwek

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intervista a:

claudia dwek, vicepresidente di sotheby’s europa

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nella fortezza del mercato dell’arte di Francesca berardi

Il 9 novembre Sotheby’s ha superato se stessa. All’asta di New York dedicata all’arte contemporanea ha totalizzato quasi 316 milioni di dollari, realizzando il suo terzo miglior risultato di sempre nel settore del contemporaneo. La sera precedente anche Christie’s ha portato a casa una cifra superiore alle aspettative durante l’asta newyorkese di arte contemporanea, con vendite da quasi 248 milioni di dollari. Risultati da età dell’oro, già preannunciati la settimana precedente dal successo delle aste dedicate all’arte moderna e all’Impressionismo: a New York Sotheby’s ha venduto per circa 200 milioni di dollari in una serata, mentre Christie’s ne ha totalizzati 140. A differenza del mercato azionario, soggetto da una forte volatilità causata dai timori per il debito pubblico nell’Eurozona e dalla preoccupazione di una doppia recessione negli Stati Uniti, il mercato dell’arte sembra confermarsi solido come una fortezza. Ne parliamo con Claudia Dwek, Vice Presidente di Sotheby’s Europa e fondatrice del dipartimento di arte moderna e contemporanea di Sotheby’s in Italia. Dwek lavora per la casa d’aste londinese dalla fine degli anni Ottanta e vanta un primato: è stata la più giovane donna italiana ad aver battuto un’asta.

Francesca Berardi: Partiamo dal risultato dell’asta del contemporaneo a New York. Sembra che il mercato delle aste non conosca la crisi. È davvero così? Claudia Dwek: Mi sento anche un po’ a disagio a dirlo, con quello che sta attraversando il mondo, e soprattutto il nostro Paese, in questo momento, ma devo ammettere che il mercato dell’arte sembra essere abbastanza estraneo alle oscillazioni finanziarie e le ragioni sono abbastanza chiare. Negli anni l’acquisto dell’opera d’arte è sempre stato percepito come investimento, specialmente rispetto a certi livelli di spesa, come quelli da milioni di dollari che si sono visti a New York. Si deve poi tenere conto che anche il mercato dell’arte si è globalizzato: una società come Sotheby’s nel 2005 vendeva a ventotto paesi del mondo, adesso a sessanta. In ogni caso paragonando l’andamento del mercato azionario con quello dell’arte, non si tiene mai in conto un aspetto: stiamo parlando di un’asta che raggiunge i 320 milioni di dollari, una cifra che

mercato dell’arte sembra essere abbastanza estraneo alle oscillazioni finanziarie

nell’ottica del mercato finanziario equivale a una goccia di tutti gli oceani messi insieme. Se si pensasse a quanti miliardi si bruciano in un’ora di sessione di borsa non farebbe più così scalpore un’asta da 400 milioni di dollari. Non è neppure paragonabile. F.B: Le opere che hanno superato ogni record e aspettativa il 9 novembre a New York sono quelle di Clyfford Still. Quattro tele vendute per un totale di 114,1 milioni di dollari, con l’opera “1949-A-N°1” stimata un massimo di 35 milioni e battuta all’asta per 61,7 milioni. In un’operazione del genere, gli oltre 25 milioni di dollari di differenza tra la stima massima e il prezzo di vendita come si giustificano? C.D: Chiaramente lo scarto di 25 milioni di dollari non è certo dovuto alla nostra inesperienza, ma dal fatto che Clyfford Still non è mai comparso sul mercato con un’opera del genere. L’artista ha prodotto pochissimo e da quando faccio questo lavoro non avevo mai visto battere all’asta un suo quadro così importante. La tela venduta per 61 milioni di dollari è del 1949, un anno decisivo per l’astrattismo informale, in cui avviene la rottura con gli schemi precedenti. E poi un altro fattore che sicuramente ha giocato a favore è la destinazione dei proventi di vendita. L’opera è stata messa all’asta per conto della città di Denver, che investirà i proventi nel nuovo museo d’arte contemporanea dedicato all’artista (il Clyfford Still Museum inaugura a Denver, in Colorado, il 16 novembre, ndr). È più piacevole comprare un quadro il cui costo va a finanziare un museo, piuttosto che finire nelle tasche di un ricco signore. F.B: Facendo un bilancio delle ultime aste, quali artisti vanno meglio? E tra quelli italiani? C.D: Sicuramente, come nel caso di Clyfford Still, funzionano gli artisti non speculati. Le sue opere sono una rarità. Chi soffre, anche se solo per modo di dire, sono gli artisti che ripetutamente si presentano sul mercato. Ma nel corso di questo giro di aste sono andati bene anche loro, ed è stata la prova che il mercato è assolutamente in salute. Riguardo agli italiani, si può prendere a esempio l’asta che si è tenuta lo scorso mese in Inghilterra. Una volta l’anno organizziamo a Londra una vendita di


arskey/Politiche Culturali | Intervista a Claudia Dwek

Sotheby’s New York. Contemporary Art. 9 November 2011

Clyfford Still, “1949-A-No.1” signed and dated Clyfford 49 oil on canvas. 93 x 79 in. 236.2 x 200.7 cm. Est. $25/35 million. Sold for $61,682,500

arte italiana e questa volta abbiamo fatto il nostro migliore risultato di sempre. Presentavamo una magnifica collezione privata che abbiamo venduto ben sopra le aspettative. Ottimi risultati per Marino Marini e Giorgio Morandi, ma anche Alberto Burri è stato straordinario. Da quando abbiamo iniziato a fare queste vendite di arte italiana a Londra, lavoriamo per mettere in piedi delle collezioni piuttosto significative, e spesso diamo anche qualche consiglio ai collezionisti per colmare le mancanze. Molte volte sono in cerca di un pezzo specifico per completare la loro raccolta. Anche negli Stati Uniti gli artisti italiani continuano ad andare bene: a New York abbiamo appena venduto due teste di gesso di Giulio Paolini a 290mila dollari. F.B: E quali sono le previsioni per i prossimi tre mesi? C.D: È difficile fare delle previsioni, anche solo di giorno in giorno, ma sinceramente non credo che un mercato in salute come questo possa subire scossoni nei prossimi tre mesi. Certo può succedere di tutto, ma se la situazione si mantiene stabile non c’è ragione di temere ricadute: la gente ha confermato di credere molto nell’opera d’arte come investimento. Per quanto ci riguarda, abbiamo superato i due test iniziali di ottobre e novembre assolutamente al di sopra delle aspettative. Chiaramente in un momento di turmoil finanziario come questo, eravamo anche noi ‘un po' alla finestra’. Il nostro migliore augurio era di non deludere le aspettative delle persone che ci hanno affidato le opere in vendita e i risultati sono andati meglio di qualsiasi previsione. F.B: Le vendite a New York sono state da record. Mettendo a confronto il mercato dell’arte europeo e quello americano, si può dire che il collezionismo sia agevolato negli Stati Uniti dal punto di vista fiscale? C.D: Non conosco bene la legislazione americana in merito, ma quello che è certo è che i collezionisti negli Stati Uniti godono di una deducibilità fiscale che incoraggia gli acquisti, soprattutto nel caso comprino un’opera per donarla a un museo. In Europa la situazione è diversa, e in Italia agevolazioni fiscali non ce ne sono. In ogni caso per quanto riguarda il nostro mestiere abbiamo l’applicazione dell’IVA solamente sulla commissione di intermediazione. F.B: Negli Stati Uniti, se si esclude la California, non viene applicato il diritto di seguito sulle vendite delle opere successive alla prima. Non c’è il rischio di una delocalizzazione delle vendite dall’Europa all’America?

è difficile fare delle previsioni, anche solo di giorno in giorno, ma sinceramente non credo che un mercato in salute come questo possa subire scossoni nei prossimi tre mesi

C.D: La vendita delle opere degli artisti più quotati non è minimamente penalizzata dal diritto di seguito, anche perché l’applicazione massima è di 12mila e 500 euro, una cifra che non influisce su opere da migliaia di dollari. Ritengo comunque che l’applicazione del diritto di seguito in Europa sia gestita in maniera assolutamente inadeguata. Ognuno fa quello che vuole. L’erogazione dei proventi agli eredi degli artisti o alle fondazioni viene gestita in maniera confusa, a seconda del paese. La legge non è omologata, e per esempio in Inghilterra non si applica sulle opere degli artisti deceduti. Questo significa che se si acquista un Fontana o un Burri a Londra non si paga la percentuale agli eredi. In Francia il diritto di seguito lo paga chi vende, in Italia chi compra. Per di più la SIAE è stata istruita dal Ministero dell’Economia su come incassare il diritto di seguito, ma non su come rimborsarlo. A causa di questa confusione, si sono tenuti dei capitali fermi per anni. La questione in generale è molto delicata, e se ne discute molto. Io credo sia giusto pagare una volta, ma dare una percentuale a ogni passaggio successivo non ha senso. F.B: E rispetto alle dogane? Negli Stati Uniti non sono previsti costi di import-export, e in Europa? C.D: Anche in questo caso funziona a seconda dei paesi. Mentre l’Inghilterra ha l’IVA di importazione extra UE del 5%, noi in Italia se compriamo un’opera negli Stati Uniti paghiamo il 10%, a meno che l’opera d’arte non venga riconosciuta come tale. In quel caso si passa al 2%. F.B: Da poche settimane una delle più importanti casa d’aste cinesi, la China Guardian Auction ha annunciato l’apertura di uffici a New York e Londra. Il direttore ha spiegato che l’obiettivo è “imparare la lezione di Sotheby’s e Christie’s”. Che ruolo ha la Cina in questo momento nel mercato delle aste? Si sta espandendo in Europa e America anche in questo settore? C.D: Il discorso parte dal presupposto che attualmente in Cina possono vendere solo case d’aste cinesi e il mercato interno è da 10 miliardi di dollari. Tutti sappiamo che i cinesi hanno la capacità di fare le cose con grandissima velocità, per cui il fatto che aprano uffici di rappresentanza negli Stati Uniti e in Europa fa pensare che si stiano muovendo con rapidità anche in questa direzione. Ma a noi piace credere che il nostro ‘know how’ sia un po’ più sofisticato, se non altro alla luce di 300 anni di esperienza. - 83 -


arskey/Politiche Culturali| Intervista ad Arnaldo Antonini,

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intervista ad:

arnaldo antonini, direttore generale di scudo investimenti sg

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fondi comuni di investimento in arte

Valentina Stefanoni: La crisi finanziaria di questi ultimi anni ha portato gli investitori di tutto il mondo a guardarsi intorno alla ricerca di asset alternativi in grado di tutelare il proprio portafoglio dalla volatilità dei mercati azionari. Possiamo considerare anche l’arte tra questi beni? Arnaldo Antonini: L’interesse nei confronti dell’arte come investimento alternativo è fortemente cresciuto negli ultimi anni, portando questo tipo di asset a essere considerato un bene rifugio. Nonostante il forte ridimensionamento dei mercati finanziari in conseguenza della recessione mondiale e della crisi di fiducia relativamente alla sostenibilità dei rendimenti sui titoli di stato europei, infatti, non ci sono state evidenti ripercussioni sul livello di scambi nel mercato dell’arte internazionale e nazionale. Il mercato è stato in grado di resistere alla crisi diffusa grazie all’intervento, soprattutto a partire dal 2010, di nuovi soggetti con alto reddito disponibile, i Paesi Emergenti, con particolare riferimento alla Cina. Le ultime aste internazionali hanno registrato delle buone performance, a riprova del momento positivo per il settore. Ci attendiamo una conferma dalle vendite all’incanto di novembre e dicembre in Italia. V.S: Anche a livello italiano possiamo riscontrare un andamento positivo del mercato? A.A: Il mercato italiano dell’Arte Moderna e Contemporanea è correlato negativamente con i mercati azionari, in quanto gli acquisti sono ancora soprattutto guidati da collezionisti e, relativamente alle opere

di Valentina Stefanoni

il mercato è stato in grado di resistere alla crisi diffusa grazie all’intervento, soprattutto a partire dal 2010, di nuovi soggetti con alto reddito disponibile, i paesi emergenti, con particolare riferimento alla cina

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di importanza storica, da musei. Questi due soggetti non sono infatti eccessivamente condizionati dalle performance dei mercati azionari se non a seguito di una duratura crisi economica o finanziaria. Negli ultimi 10 anni il mercato italiano dell’Arte Moderna e Contemporanea, stando ai dati forniti da Arsvalue.com, è salito di un tasso percentuale compreso tra il 20% (ArsValue 100) ed il 45% circa (ArsValue 50). Nello stesso periodo i mercati azionari mondiali (MSCI world) sono scesi dell’8% e quelli europei (Stoxx 50) del 48% circa. L’unico mercato azionario a essersi comportato meglio dell’arte italiana è quello dei Paesi Emergenti che è salito negli ultimi 10 anni del 183% circa. Nel corso del I semestre del 2011 l’investimento in opere di artisti 'storicizzati' è stato guidato da strategie di tipo difensivo, mentre i prezzi delle opere degli artisti 'emergenti' hanno dimostrato di subire maggiormente i condizionamenti negativi derivanti dalla crisi economica globale in atto e dal rischio di recessione paventato da alcuni analisti. V.S: Ma investire in arte conviene davvero? A.A: L’investimento in arte se condotto in maniera professionale può offrire rendimenti interessanti anche rispetto all’investimento in azioni. Vi sono analisi empiriche di lungo termine che lo dimostrano. Secondo uno studio condotto da William N. Goetzmann, direttore dell'International Center for Finance alla Yale School of Management, dal 1900 al 1980 l'investimento in arte ha offerto un rendimento medio annuo in dollari superiore al 17%. Tra il 1974 e il 1982 il Fondo Pensione delle ferrovie inglesi ha investito una parte del proprio patrimonio in opere d'arte, e tra il 1987 e il 1989 ha liquidato l'investimento registrando un rendimento medio annuo del 15,3%. Investire in arte è quindi possibile non solo a livello individuale, ma anche tramite lo strumento degli art funds. V.S: Quali sono i vantaggi dell’investimento tramite gli art funds?


arskey/Politiche Culturali | Intervista ad Arnaldo Antonini,

Carta Accardi, “Pianeta”, 1959 Tempera alla caseina su cartone, cm. 48x68

A.A: I fondi comuni di investimento in arte rendono possibile la distribuzione e il controllo dei rischi in un portafoglio diversificato di opere, sia per quantità che per tipologia, oltre a permettere una riduzione dei costi di transazione e altri costi associati al collezionismo. Le opere d’arte acquistate da un fondo sono selezionate sulla base di un ritorno dell’investimento e, date le risorse finanziarie e il network, il fondo può accedere a mercati più difficilmente raggiungibili individualmente. Un collezionista con un budget limitato non può avere accesso a opere 'importanti', mentre tramite un fondo si. Queste e altre motivazioni hanno spinto la Scudo Investimenti SG, nel dicembre 2010, a dar vita al Fondo Scudo Arte Moderna. V.S: Può spiegarci di cosa si tratta? A.A: Fondo Scudo Arte Moderna è un fondo comune di investimento di tipo chiuso alternativo riservato a clienti professionali. Questo fondo di diritto sammarinese, il cui patrimonio è investito in oggetti e opere d’arte, ha un orizzonte temporale di investimento a medio-lungo termine. Il fondo è riservato a clienti professionali, e cioè, oltre a intermediari autorizzati, società di gestione del risparmio, SICAV, fondi pensione e compagnie di assicurazione, a persone fisiche e giuridiche che attestino di possedere l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie in materia di investimenti e valutazione dei relativi rischi. L’investimento minimo è di 25.000 euro, le quote possono essere sottoscritte nell’ambito di più fasi, e verranno rimborsate alla scadenza del fondo che è di 10 anni. La finalità principale del Fondo, è l’investimento in oggetti e opere d’arte moderna e contemporanea (opere d’arte, quadri su tela o qualsiasi altro supporto eseguiti con qualsiasi tecnica), con l’obiettivo di ottenere a lungo termine una costante rivalutazione del patrimonio artistico oggetto del fondo.

le opere d’arte acquistate da un fondo sono selezionate sulla base di un ritorno dell’investimento e, date le risorse finanziarie e il network, il fondo può accedere a mercati più difficilmente raggiungibili individualmente

sizione? A.A: Il Consiglio di Amministrazione ha istituito, a tal fine, un Comitato di Investimento, composto da tre membri, che rappresenta un organo consultivo incaricato di formulare pareri per il Consiglio sulle strategie di investimento e sulle singole operazioni riguardanti le opere acquistate. Il Comitato, dietro indicazioni dell’art advisor e previo parere di un esperto indipendente, propone al CdA le opere d’arte in cui investire. Al Comitato è demandata anche la valorizzazione delle opere di proprietà del fondo, tramite esposizioni in gallerie e in mostre e altre iniziative. Alla stregua di un operatore finanziario, l’art advisor deve orientare il fondo nelle attività di compravendita delle opere e garantire la massima efficacia degli investimenti, in virtù della sua conoscenza dei mercati finanziari e di quello dell’arte. L’esperto indipendente ha invece l’incarico di periziare le opere proposte dall’art advisor sia ai fini dell’autenticità dell’opera sia della congruità del prezzo, e supporta il Comitato nella gestione del fondo. V.S: Che strategia di investimento è prevista per il fondo? A.A: Per un massimo dell’80%, il portafoglio viene investito in opere d’arte, di cui un massimo del 10% in artisti emergenti, mentre il 20% rimanente è destinato ad assets liquidi, quali cash e obbligazioni a breve termine. Il fondo nel corso del I semestre ha perseguito una politica di investimento incentrata soprattutto all’acquisizione di opere di artisti “storicizzati” tra cui posso segnalare Achille Perilli, Gianni Dova, Mimmo Rotella, Carla Accardi, Anton Zoran Music, Alighiero Boetti, Piero Dorazio, Agostino Bonalumi, Ottone Rosai e Mario Tozzi. Per le aste di novembre 2011 stiamo valutendo l’acquisizione di Lucio Fontana, Enrico Castellani, Emilio Vedova, Gerardo Dottori, Gastone Novelli, Giuseppe Capogrossi, Osvaldo Licini, Mario Nigro e Giuseppe Santomaso.

V.S: Sono previste forme di tutela per gli investitori, vista la inusuale tipologia degli asset oggetto di acqui- 85 -


arskey/Politiche Culturali | Aste di Settembre e Ottobre

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le aste di settembre e ottobre :

mercato italiano

dell’arte moderna e contemporanea di Giuseppe Ponissa

Settembre e ottobre sono i mesi che vedono la ripresa delle vendite all’incanto, un primo bimestre ricco di appuntamenti in attesa del bimestre novembre-dicembre dove passeranno in asta le opere più importanti del II semestre dell’anno. A fronte delle diverse sessioni che sono state svolte non possiamo certo annoverare risultati eclatanti, ma gli acquisti di un certo livello non sono del tutto mancati, perché investire in arte, soprattutto quando ci sono buone occasioni (e in questo periodo ne capitano), non ha perso di attrattiva e i collezionisti mantengono Anton Zoran Music, "Ombre sul Carso", 1958 olio su tela, cm 114x146. alta la soglia dell’attenzione. Stima €.55.000/61.000 Il mese di settembre ha visto le multiprezzo di aggiudicazione €. 67.650 sessioni della Meeting Art di Vercelli, in Aste Boetto. cui il top lot è stato un olio su tela Asta del 25 ottobre 2011 lotto n.1044 (157x130 cm) di Santomaso del 1973 passato a 50mila euro, un’opera esposta nel 1979 in una personale dell’artista svoltasi a Monaco. A 35mila euro troviamo una vernice su sicofoil (68x50 cm) del 1969 della Accardi. A metà mese a Montecatini Terme ha battuto anche gli acquisti di un Fabiani Arte. Nei quattro giorni, tra gli altri, abbiamo certo livello non visto un ricamo su tela (21x22 cm) del 1990 di Boetti sono del tutto andare per 13mila e 500 euro e un olio su tavola (50x45 mancati, perché cm) di Guidi del 1937 aggiudicato a 11mila e 500 euro. A Firenze ha venduto all’incanto Pananti. Se si deve investire in arte, dichiarare un vincitore lo si individua senza dubbio in soprattutto quando ci Antonio Bueno, con ben tre opere nei primi cinque top sono buone occasioni lots. Si tratta di tre oli su faesite, due dei quali esposti presso Palazzo Strozzi nel 1981, in particolare: una (e in questo periodo ne “Maternità” (56x35 cm) battuta a 10mila euro, stessa capitano), non ha perso cifra di una “Donna con cappello e collana verde” di attrattiva (50x40 cm) e infine un “Marinaretto” (24x18 cm) aggiudicato a 7mila e 200 euro. In chiusura di settembre ricordiamo un’asta di giovani artisti presso Arte Media di San Marino: segnalazione per il risultato più alto che è quello di una tecnica mista di dimensioni ragguardevoli (270x150 cm) di Bruia che ha totalizzato 2mila e 500 euro. Passando a ottobre incontriamo le due sessioni di Arte Moderna e Contemporanea di Artesegno (Udine). A spiccare è stata l’“Afrodite” di Luca Pignatelli, un olio su tela del 2000 e delle notevoli dimensioni di 171x146 cm battuta a 20mila euro. Il secondo risultato lo troviamo a quota 7mila euro e riguarda una tecnica mista su carta lavorata (150x100 cm) del 2009 di Samorì. A Brescia si è svolta l’asta di Capitolium Art. Una litografia (87x69,5 cm) di Twombly del 1970 è stata venduta per 9mila euro. A 3mila e 100 euro è sceso il martelletto per un olio su faesite (45x45 cm) del 1980 di

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Salvo. A Milano da Viscontea una scultura in vetro lavorato a caldo e foglia d’oro di Vigliaturo è stata battuta a 32mila euro. FidesArte di Mestre ha esitato una tempera su cartoncino riportata su tela di Calder (76x111 cm) del 1970, che vanta un’esposizione veneziana presso la Galleria d’Arte il Capricorno, per 22mila euro; a poco meno, 21mila euro, è stata acquistata una tempera su carta intelata (35x50 cm) del 1957 di Capogrossi. Nella seconda parte del mese facciamo tappa ancora a Udine, sempre presso Artesegno, che ha proposto due sessioni di Arte Internazionale. Il De Chirico pubblicato in copertina, una scultura in bronzo (52x21x30 cm) del 1970 esposta in diverse occasioni (a Milano, Ferrara, New York, Reggio Calabria, Kamakura, Parigi) ha fatto cadere il martelletto a 30mila euro. 22mila euro sono invece stati necessari a un collezionista per portarsi a casa un alluminio acrilico su tavola (41x40 cm) del 1981 di Cruz-Diez, artista i cui passaggi di un certo rilievo nelle aste italiane fino a oggi erano appannaggio di Sotheby’s. Avviandoci verso la fine di ottobre ci spostiamo a Torino presso la Casa d’Aste Sant’Agostino. Qui assistiamo all’aggiudicazione di 15mila euro per un olio su tela (50,5x70 cm) del 1930 di Mus, risultato di rilievo visto che va considerato come il quarto in assoluto per l’artista. Interessanti anche gli 11mila euro ottenuti da un olio su tavola (70x90 cm) di Tabusso, aggiudicazione in linea con i top lots dell’autore, il cui unico risultato che si distanzia davvero dagli altri sono i 22mila euro raggiunti quest’anno da un grande (190x160 cm) olio su tela battuto sempre da Sant’Agostino. Chiudiamo la rassegna a Genova presso Boetto. Protagonista con i suoi 55mila euro un olio su tela (114x146 cm) del 1958 di Zoran Music, esposto nel 1987 ad Asiago presso la Galleria Contini e nel 1991 presso la Pinacoteca Comunale di Ravenna. Seguono, a livello di aggiudicazione, una tempera vinilica su tela estroflessa del 1979 (130x100 cm) di Bonalumi battuta a 49mila euro e un “Volume” a tempera su tela forata (70x50 cm) del 1960 di Dadamaino che ha cambiato proprietario a 29mila euro; notiamo tra l’altro che un altro “Volume” a idropittura su tela sagomata (60x50 cm) ad aprile ha toccato la stessa cifra sempre presso Boetto. N.B: I prezzi di aggiudicazione citati non sono comprensivi dei diritti d’asta.


arskey/Politiche Culturali | Aste International

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aste :

contemporaneo: la fiducia nel mercato cala le vendite no di Nicola Maggi

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Fonte: ArtTactic

Come si rifletterà la nuova crisi economica sul mercato dell’arte? Il dubbio è amletico. Le aste autunnali di arte contemporanea a Londra e New York ci consegnano, infatti, uno scenario ancora di difficile interpretazione. La crisi dei debiti sovrani, che ormai da mesi sta tormentando i mercati finanziari di mezzo mondo, sembra infatti avere un effetto negativo solo sull’umore degli osservatori e dei bidder più che sui risultati delle aste. Se il sondaggio lanciato da ArtTactic prima degli appuntamenti londinesi aveva messo in evidenza come l’Art Market Confidence Indicator per il mercato statunitense ed europeo di arte contemporanea fosse sceso al 55%, i risultati delle principali evening sale di questi mesi mostrano, invece, una sostanziale tenuta del mercato pur con qualche differenza tra le due sponde dell’Atlantico: più nervosa Londra, a tratti esaltante New York. Le aste londinesi di metà ottobre da Sotheby’s, Christie’s, Phillips de Pury e Bonhams hanno fatto registrare un andamento quanto mai altalenante, da cui esce vincente solo la casa d’aste di François Pinault. Le quattro evening sale in programma a Londra hanno, infatti, realizzato un totale di circa 64,3 milioni di euro (buyer premium escluso), ben al di sotto delle stime pre-vendita che facevano sperare in un risultato finale complessivo tra i 66,6 e i 97,7 mln. Nonostante questa performance non certo soddisfacente, l’autunno londinese ha comunque raggiunto un volume d’affari incredibile che non si vedeva dal 2007: il 63% in più rispetto allo scorso ottobre. “Dai risultati delle aste di Londra risulta chiaro che il mercato è nervoso - spiega Anders Petterson, ex dirigente di JP Morgan e fondatore di ArtTactic -. Solo Christie’s, con l’asta del 14 ottobre, ha risollevato un po’ la fiducia, in particolare nella fascia alta del mercato. Un dato in linea con i risultati dell'indagine ArtTactic che ha mostrato come la fiducia in questo segmento (opere dal valore di 1 mln di dollari o più) sia fortemente positiva, sebbene l’outlook a sei mesi per

la crisi dei debiti sovrani, che ormai da mesi sta tormentando i mercati finanziari di mezzo mondo, sembra infatti avere un effetto negativo solo sull’umore degli osservatori e dei bidder più che sui risultati delle aste

"Italian Sale" © Christie's Images Limited 2011

il contemporaneo nel suo complesso sia negativo. Il mercato delle opere che si collocano in una fascia di prezzo tra i 500mila e il milione di dollari, infatti, ha visto cadere la fiducia del 35% da giugno 2011, mentre quello mid-range (100mila - 500mila dollari) ha registrato una riduzione del 67%”. Se le evening sale di ottobre non hanno brillato, con l’eccezione di quella di Christie’s che con un totale di 43.4 mln di euro ha superato le aspettative pre-asta di 35.2 mln, facendo registrare un 44% dei lotti venduti sopra la stima massima e 7 record d’artista, le Italian Sale hanno dimostrato ancora una volta il loro appeal. Trainato dalla collezione “Italian Identity”, l’appuntamento con l’arte italiana del XX secolo in programma il 13 ottobre da Sotheby’s ha realizzato il più alto risultato mai ottenuto in un’asta di questa categoria: 45 milioni di euro, a un passo dai 56,5 posti come stima massima; registrando un tasso di vendita pari al 79,3% del lotti e all’84,9% del valore. Superiore alle aspettative anche l’Italian Sale del 14 ottobre da Christie’s che, con 20 milioni di euro, ha nettamente superato i 17,6 mln della stima più alta anche se con tassi di vendita inferiori a quelli della rivale: 70% in lotti e 78% in valore. Un risultato che, assieme a quello della evening sale giustifica a pieno l’ottimismo mostrato da Mariolina Bassetti, Direttore Internazionale del Dipartimento di Post-War & Contemporary Art di Christie's, la quale, intervistata prima delle aste sulle possibili ripercussioni della crisi in corso sul mercato aveva affermato: “Quando avvenne il crack di Wall Street, nell’estate del 2008, eravamo in un momento di assoluto boom ma oggi il mercato dell’arte contemporanea è molto più sano e stabile di quanto non fosse allora. Al momento non vediamo i presupposti per una crisi grave nel mondo delle aste”. Una fiducia nel mercato dimostrata anche da un ex del mondo delle aste: Emmanuel Di Donna, che proprio in questi giorni ha inaugurato la - 87 -


arskey/Politiche Culturali| Fiere sua nuova galleria newyorkese, aperta insieme ad Henry Blain dopo aver lasciato Sotheby’s lo scorso anno. “Il mercato dell'arte è sempre passato attraverso cicli, alcuni positivi altri negativi, e continuerà a farlo - ha commentato in attesa degli appuntamenti col contemporaneo in programma a New York in novembre -. L'ultima crisi ha fatto sì che ci fosse meno disponibilità di grandi opere. Per un attimo il mercato si è contratto per poi ripartire. In tempo di crisi coloro che possiedono grandi opere sono più riluttanti a vendere. In ogni caso, il 'mercato dell'arte' deve essere suddiviso in sotto categorie e questo è ciò che rende difficile seguire e capire le sue performance. Penso che oggi si possano ottenere capolavori a prezzi migliori, mentre le opere di fascia media sono più sensibili ai prezzi”. E proprio da New York arrivano i segnali più confortanti sulla tenuta del mercato. Delle tre evening sale in programma rispettivamente da Phillips de Pury, Christie’s e Sotheby’s solo quella dell’8 novembre presso la casa di François Pinault ha fatto registrare un risultato leggermente al di sotto delle aspettative chiudendo con un totale di 247,6 milioni di dollari (buyer premium incluso). I tassi di vendita sono stati comunque ottimi: 90% in lotti e 89% in valore. Per il

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"Italian Sale" © Christie's Images Limited 2011

fiere:

resto la Contemporary Art Part I del 7 novembre da Phillips, con un totale di 71,3 mln di dollari, ha centrato il suo obiettivo che si collocava tra i 66,5 e i 97,9 mln di dollari della stima iniziale. Anche in questo caso tassi di vendita altissimi: 94% in valore e 85% per lotti. Bene anche la parte della seduta dedicata all’asta benefica per la Fondazione Solomon R. Guggenheim che ha totalizzato ben 2,7 mln di dollari superando le aspettative della stima più alta posta a 2,2 mln. Straordinaria, infine, la performance di Sotheby’s che nella evening sale del 9 novembre ha totalizzato oltre 315,8 mln di dollari, 45 milioni in più rispetto alla stima più alta. Il suo risultato migliore da maggio 2008 e il terzo della sua storia. Da Europa e Stati Uniti ora la parola passa alla Cina, dove le aste di contemporaneo sono in corso mentre questo numero di ArsKey va in stampa. Considerando che il Chinese Art Market Confidence è, attualmente, a 80 punti - contro i 35 di Europa, Usa e India - non dovrebbero comunque esserci sorprese, anche perché l’outlook a sei mesi rimane stabile. La vera cartina di tornasole, ancora una volta, saranno quindi le aste di maggio ma ancora c’è tempo. Time will tell!

frieze – fiac – artissima tre fiere a confronto

Le fiere d'arte contemporanea come già accade da diversi anni ricoprono oggi un ruolo sempre più importante all'interno del sistema dell'arte e soprattutto nel grande giro di vendite che si cela dietro al prodotto artistico. Ne nascono ogni anno di nuove e ognuna è diversa dall'altra, con programmi eterogenei, caratterizzate dalle sedi espositive, dai programmi curatoriali e da tutti gli eventi collaterali che inevitabilmente vanno ad accrescere l'offerta culturale. Tante e tali sono perciò le possibilità per i collezionisti, i direttori di musei, i curatori, i giornalisti e il pubblico di curiosi, di trovare una grande varietà di opere e di artisti tra le quali districarsi cercando di capire anche in base alle più recenti tendenze artistico-estetiche su chi investire, su chi puntare per la prossima mostra o semplicemente chi guardare. La londinese Frieze Art Fair 2011, diretta da Amanda Sharp e Matthew Slotover, alla sua 9° edizione, si è svolta dal 13 al 16 di Ottobre a Regent's Park nella tensostruttura da 230.000 euro ridisegnata dallo studio Carmody Groarke, inaugurando la stagione fieristica autunnale e registrando circa 60.000 visitatori. In tempo di crisi e di acquisti più attenti le ripercussioni si avvertono anche in un mercato di lusso come l'arte contemporanea ma questo di certo non ha scoraggiato i collezionisti che a Londra si son recati per appagare e accrescere la propria voglia di possesso. 173 le gallerie provenienti da 33 nazioni, poche (ma buone) le italiane Massimo De Carlo, Giò Marconi e Zero di Milano, Franco Noero di Torino, T293 e Raucci/Santamaria di Napoli mentre Francesca Minini presentava un solo show di Francesco Simenti alla fiera indipendente SUNDAY 2011 (quest'anno alquanto deludente). Un po' scarna la sezione Frame che ospitava 25 giova-

di Gino Pisapia

“in tempo di crisi e di acquisti più attenti le ripercussioni si avvertono anche in un mercato di lusso come l'arte contemporanea ma questo di certo non ha scoraggiato i collezionisti

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ni gallerie, più interessante invece Frieze Project con opere di Bik Van der Pol, Pierre Huyghe, Oliver Laric, Christian Jankowsky, LuckyPDF, Peles Empire, Laure Prouvost, Cara Tolmie e lo Sculpture Park che accoglieva a Regent's Park i lavori da esterno di Neha Choksi, Johan Creten, Claudia Fontes, Alicia Framis, Tom Friedman, Gimhongsok Des Hughes, Thomas Houseago, Eva Koťátková & Petr Koťátko, Will Ryman, Kiki Smith, Gavin Turk. Buone le vendite con il picco registrato da un'opera di Neo Rauch venduta da David Zwirner per 1.350.000 dollari, bene anche per Lisson, White Cube, Gagosian, Kurimanzutto, Sprüth Magers, Corvi Mora, Marian Goodman, Houser & Wirth, IBID Project e Anton Kern. A completare gli incassi si aggiungono i 45.000.000 di euro raggiunti da Sotheby's per le sessioni “Contemporary Art e 20th Century Italian Art” e i 63.400.000 euro registrati da Christie's per le sessioni “Post-War & Contemporary Art“e “The Italian Sale” con il record stabilito da “Kerze” del 1982 di Gerhard Richter aggiudicato per la modica cifra di 11.900.000 euro. Di alto profilo, “Panorama”, grande mostra antologica dedicata al maestro tedesco Gerhard Richter alla Tate Modern e “The Unilever Series” di Tacita Dean nella Turbine Hall (anche se avevamo visto di meglio) e ancora “Postmodernism” al Victoria & Albert Museum, Mike Kelly da Gagosian, Gabriel Kuri alla South London Gallery, Anri Sala alla Serpentine Gallery, la nuovissima sede di White Cube, Whilhelm Sasnal alla Whitechapel Gallery, Jacob Cassay all'ICA, Rem Koolhaas al Barbican Centre e dulcis in fundo Nathalie Djurberg e la performance di “Haroon Mirza” al Camden Art Centre.


arskey/Politiche Culturali | Fiere

Frieze 2011. photo Gino Pisapia

FIAC 2011. photo Gino Pisapia

FIAC 2011. photo Gino Pisapia

Frieze 2011. Stand Lisson Gallery. Photo Gino Pisapia

Da Londra voliamo a Parigi per la 38° edizione di FIAC 2011 dal 20 al 23 Ottobre, diretta da Jennifer Flay, nella splendida cornice del Grand Palais, che ospita 168 gallerie da 21 nazioni, molte delle quali avevamo incontrato anche a Frieze. Grandissimo successo di pubblico e di critica con 60.200 visitatori (6% in più rispetto al 2010) e con opere molto più interessanti rispetto a quelle proposte a Londra ma soprattutto con diversi record di vendite. Soddisfatti White Cube per la vendita di Damien Hirst a 2.800.000 euro, Emmanuel Perrotin per un polittico gigantesco di Takashi Murakami venduto a 2.700.000 euro e Cheim & Read per aver incassato un totale superiore a 6.000.000 di euro. Tra gli artisti più venduti ci sono Nate Lowman, John McCracken, Dan Colen, Danh Vo, Donald Judd, Albert Oehlen. Numerose le gallerie italiane con proposte davvero interessanti: Franco Noero, Arte Studio Invernizzi, Raffaella Cortese, Massimo De Carlo, Massimo Minini, Francesca Minini, Artiaco, Monitor, Magazzino, Kaufmann Repetto, Tornabuoni e Continua che per l'occasione esponeva un'opera museale di Chen Zhen. Anche a Parigi non sono mancati eventi collaterali, dalle installazioni en plain air del giardino delle Tuileries al Jardin des Plantes, dal Jeu de Paume alla Galerie Lafayette (più interessante lo scorso anno), dal Pompidou con Yayoi Kusama, Cyprien Gaillard (vincitore del Marcel Duchamp prix 2010 quest'anno vinto da Mircea Cantor), Edvard Munch, allo splendido rituale di arte totale che ogni anno si ripete a Le Moulin organizzato dalla galleria Continua in collaborazione con Magazzino, Chemould Prescott Road, Galerie Xippas, In Situ-Fabienne Leclerc, Thaddaeus Ropac, White Cube. Dopo tanto peregrinare torniamo finalmente in Italia, a Torino per la 18° edizione di Artissima 2011, dal 4 al 6 Novembre, diretta da Francesco Manacorda, negli accattivanti spazi dell'Oval presso il Lingotto. Quasi 45.000 i visitatori della fiera che hanno atteso il week

il record è stabilito da “kerze” del 1982 di gerhard richter aggiudicato per la modica cifra di 11.900.000 euro

end prima di fare il loro ingresso in massa nei 161 stand di cui 58 italiani e 103 stranieri, buone le vendite ma a rallentatore sicuramente non da eguagliare gli incassi di Londra e Parigi. Molte le opere di qualità, interessante la sezione “Present Future” dove venivano presentati dalle gallerie di riferimento i lavori di 16 giovani artisti internazionali, tra i più interessanti: Lupo Borgonovo, Katinka Bock, Michal Budny, Dina Danish (vincitrice del premio Illy Present Future), Igor Grubić, Vlatka Horvat, Rob Johannesma, Alek O, Julien Prévieux, Misha Stroj, Raphaël Zarka. Una menzione speciale va alla sezione “Back to the Future” che mostrava i lavori di 20 artisti (10 italiani e 10 stranieri) attivi tra gli anni Sessanta e Settanta le cui ricerche meritano oggi attenzione per la vicinanza delle loro pratiche agli sviluppi artistici contemporanei tra cui: Giorgio Ciam, Tomaso Binga, Giuseppe Chiari, Giorgio Griffa, Ketty La Rocca, Dmitri Prigov, Peter Hutchinson, Bruce McLean. Anche a Torino non sono mancati gli eventi collaterali come The Others - fiera aperta alle gallerie e agli spazi no-profit nati dopo il 2009 - , Artissima Lido (riservata a nuovi modelli e strutture per la produzione di arte contemporanea), Luigi Ontani e la mostra sull'Arte Povera al Castello di Rivoli, Simon Starling alla Fondazione Merz, “Eroi “alla GAM, “Un'Espressione Geografica” e “Andrea Salvino” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Gilbert & George alla Pinacoteca Agnelli. Seppur la crisi in cui stiamo vivendo sta attanagliando tutti i campi dell'economia mondiale, l'arte contemporanea sembra resistere dimostrando ancora una volta che la cultura (forse) è l'unico investimento possibile. Ci prepariamo pertanto alla nuova avventura di ART BASEL MIAMI BEACH dall'1 al 4 Dicembre 2011.


A CURA DI ARSVALUE.COM

ASTE IN CIFRE

*i prezzi di aggiudicazione non sono comprensivi dei diritti d’asta Artista

Titolo e anno

Tecnica e dimensioni

Accardi Carla

Giallorosabianco, 1969

Vernice su sicofoil - cm. 68x50

30.000

35.000 Meeting Art (VC) - 10/09/2011

Adami Valerio

L'amara medicina

20.000

20.000 Meeting Art (VC) - 11/09/2011

Arman

Senza titolo, 2002

Olio su tela - cm. 92x73 Violino tagliato e tubetti di colore montati su tela riportata su tavola - cm. 80x60

12.000

Sant'Agostino (TO) 12.000 24/10/2011

Boetti Alighiero

Senza titolo, (1990)

Adesivi e tecnica mista su carta cm. 57x80

20.000

20.000 Meeting Art (VC) - 10/09/2011

Boetti Alighiero

Cinque x Cinque Venticinque, 1990

Ricamo su tela - cm. 21x22

12.500 - 23.000

13.500 Fabiani Arte (PT) - 15/09/2011

Centine -Giallo, 1979

Tempera vinilica su tela estroflessa - cm. 130x100

60.000 - 70.000

49.000 Boetto (GE) - 25/10/2011

Bonalumi Agostino

Bianco, 2007

Acrilico su tela estroflessa - cm. 130x110

50.000 - 56.000

39.000 Boetto (GE) - 25/10/2011

Bueno Antonio

Maternità

Olio su faesite - cm. 56x35

7.000 - 8.000

10.000 Pananti (FI) - 17/09/2011

Bueno Antonio

Donna con cappello e collana verde

Olio su faesite - cm. 50x40

7.000 - 8.000

10.000 Pananti (FI) - 17/09/2011

Calder Alexander

Composizione, 1970

Tempera su cartoncino riportato su tela - cm. 76x111

10.000

22.000 Fidesarte (VE) - 16/10/2011

Superficie CP/ 183, 1957

Tempera su carta intelata - cm. 35x50

15.000

21.000 Fidesarte (VE) - 16/10/2011

Cruz-Diez Carlos

Physichromie/ DDC1, 1981

Alluminio, acrilico su tavola - cm. 41x40

22.000

22.000 Artesegno (UD) - 22/10/2011

Dadamaino

Volume, 1960

Tempera su tela forata - cm. 70x50

De Chirico Giorgio

Il poeta solitario, 1970

Scultura in bronzo patinato argentato - cm. 52x21x30

30.000

Ghirri Luigi

Marina di Ravenna/ Kodachrome, 1971

Cromogenica da negativo vintage - cm. 12,5x16,6

3.000 - 3.400

3.000 Boetto (GE) - 25/10/2011

Giacomelli Mario

Mare, 1959

Stampa alla gelatina sali d'argento - cm. 29x39

2.200 - 2.500

2.200 Boetto (GE) - 25/10/2011

Guidi Virgilio

Ritratto della signora Lidia Mandelli, 1937

Olio su tavola - cm. 50x45

Hartung Hans

P 1970 - 5, 1970

Acrilici su cartone - cm. 60x80

16.000

16.000 Fidesarte (VE) - 16/10/2011

Mus Italo

Interno, intimità, 1930

Olio su tela - cm. 50,5x70

15.000

Sant'Agostino (TO) 15.000 24/10/2011

Music Anton Zoran

Ombre sul Carso, 1958

Olio su tela - cm. 114x146

55.000 - 61.000

55.000 Boetto (GE) - 25/10/2011

Spazio totale, 1954-55

Tempera verniciata su tela - cm. 55x46

28.000 - 31.000

29.000 Boetto (GE) - 25/10/2011

Perilli Achille

La morbidezza nera, 1991

Tecnica mista su tela di juta - cm. 100x100

12.000

12.000 Artesegno (UD) - 29/10/2011

Pignatelli Luca

Afrodite, 2000

Olio su tela - cm. 171x146

20.000

20.000 Artesegno (UD) - 15/10/2011

Salvo

Damasco, 2001

Olio su tavola - cm. 60x50

9.000

9.000 Fidesarte (VE) - 16/10/2011

Santomaso Giuseppe

Spazio violato, 1973

Olio su tela - cm. 157x130

50.000

50.000 Meeting Art (VC) - 17/09/2011

Shimamoto Shozo

Ana esquisse, 1962

Tecnica mista e buchi su carta cm. 36x51

16.000

16.000 Artesegno (UD) - 29/10/2011

Spoerri Daniel

Encyclopedia Diderot et D'Alambert, 1993

Assemblaggio su tavola - cm 58x46

Tabusso Francesco

Paesaggio olandese

Olio su tavola - cm. 70x90

10.000

Sant'Agostino (TO) 11.000 24/10/2011

Tozzi Mario

Sguardo interrogativo, 1971

Olio su tela - cm. 55x46

30.000

30.000 Meeting Art (VC) - 18/09/2011

Tozzi Mario

Profilo con geometrie, 1971

Olio su tela - cm. 35x27

15.000

15.000 Fidesarte (VE) - 16/10/2011

Vigliaturo Silvio

Il Druido e la Badessa, 2003

Sculture in vetro lavorato a caldo e foglia d'oro - cm. 63

23.000

32.000 Viscontea (MI) - 13/10/2011

Bonalumi Agostino

Capogrossi Giuseppe

Nigro Mario

Base d'asta / stima

32.000 - 36.000

11.800 - 16.000

7.000 - 12.000

Aggiudicazione

Casa d'aste / data

29.000 Boetto (GE) - 25/10/2011 30.000 Artesegno (UD) - 22/10/2011

11.500 Fabiani Arte (PT) - 15/09/2011

6.900 Pananti (FI) - 17/09/2011


arskey/Politiche Culturali | Servizi educativi

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servizi educativi:

analisi sulla struttura del museo: processo di aziendalizzazione, autonomia e didattica di Annalisa Pellino

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Il museo. “Un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di educazione, di diletto”. Questa la definizione dell’ICOM nel 19861. In Italia - Per quanto riguarda nello specifico il nostro paese il Codice Urbani dei Beni Culturali (art.101 del D. Lgs 42/2004) lo definisce come “Struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”, rettificando quanto emanato nel Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 99), dove invece si parlava genericamente di fruizione. Del resto sono passati ormai quarant’anni da quando si cominciava a parlare di Didattica dei Musei e una commissione ad hoc veniva costituita presso la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti. Presieduta dall’archeologo Pietro Romanelli e formata da pedagogisti, sovrintendenti e direttori di musei, la commissione si proponeva di far incontrare il grande pubblico e gli specialisti, il mondo della ricerca e quello dell’istruzione, museo e scuola. Ma se la circolare emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione (n. 128 del 27 marzo 1970) formalizzava la costituzione di sezioni didattiche nei musei e di centri funzionali al coordinamento con i vari provveditorati scolastici, nel 1975 l’istituzione del Ministero per i Beni Culturali sanciva la netta separazione tra settore educativo e conservativo, in controtendenza anche rispetto ad altri paesi europei come l’Inghilterra, dove questo rapporto andava invece progressivamente consolidandosi. In ogni caso sulla scia di un interesse internazionale per il problema - riunione congiunta UNESCO – ICOM di Parigi (1951)2 e convegni di Brooklyn e Atene (1954) la commissione diede il via al convegno dal titolo “Il museo come esperienza sociale” (Roma, 4-5-6 dicembre 1971), il primo significativo appuntamento di una inedita attenzione alla funzione pedagogica e divulgativa del museo. Così, scrollandosi di dosso ogni sorta di elitismo culturale, la Pinacoteca di Brera, il Museo Poldi Pezzoli, gli Uffizi, la Galleria Borghese e la Galleria d’Arte Moderna di Roma furono le prime istituzioni museali a fornire un servizio di visite guidate e a dotarsi di vere e proprie sezioni didattiche. A Brera in particolare (dove non a caso si incontrano accademia e museo) questo avvenne nel 1977 con la geniale presenza dell’artista e designer Bruno Munari, il cui metodo, incentrato non tanto sugli aspetti estetici delle opere quanto sui processi e il modus operandi, è oggi il punto di riferimento di molti dipartimenti educazione italiani. Questa rinnovata consapevolezza della funzione educativa del museo e dei suoi operatori troppo spesso dimentichi della stretta connessione tra ricerca e pratica, scienza e arte non è, a ben vedere, affatto inedita per un’istituzione nata proprio sotto il segno dell’inclusività estetica (si pensi ai primi Victoria and Albert Museum e

percorso didattica GAM di Torino

che senso ha conservare “per pubblica utilità” quando questo pubblico non sa di possedere un siffatto patrimonio e non può servirsene come utile strumento di conoscenza e formazione personale oltre che professionale?

al Louvre) ma che invece si era proposta fino ad allora come oasi di contemplazione individuale, riservata a pochi conoscitori, mercanti e addetti ai lavori. In particolare la Galleria d’arte Moderna di Roma si proponeva come centro produttore di cultura e non muto contenitore conservativo, “parte costitutiva e integrante del sistema dell'informazione e della cultura di massa” - secondo le parole dell’allora direttrice Palma Bucarelli - dunque particolarmente attento alla questione educativa. Del resto che senso ha conservare “per pubblica utilità” quando questo pubblico non sa di possedere un siffatto patrimonio e non può servirsene come utile strumento di conoscenza e formazione personale oltre che professionale? Come sottolinea Alessandra Mottola Molfino (a sua volta citando Antonio Paolucci) quando nel 1737 Anna Maria Ludovica de’ Medici lascia il regno di toscana alla casata dei Lorena, stipula con loro un 'Patto di famiglia' in cui vengono dichiarate le 3 ragioni della donazione dell’immenso patrimonio artistico: l’onore dello Stato, l’educazione dei cittadini e infine l’utilità dei forestieri. Questo per dire che quello didattico non è un servizio aggiuntivo ma prioritario, anzi la produttività di un museo si misura oggi proprio in termini di promozione e diffusione culturali. Accolta dunque la necessità di contendersi l’attenzione del cosiddetto 'grande pubblico', il museo arriva solo oggi a capire l’importanza strategica della didattica, rivolta in modo particolare a un pubblico di età scolare, che rappresenta la fetta più grossa dei paganti biglietto. Un esempio per tutti: i vari report condotti negli ultimi anni sui visitatori dei musei piemontesi hanno evidenziato come il pubblico scolastico corrisponda in media al 50% dei paganti biglietto. L’apprendimento informale - Ciò che in generale sembrava emergere già allora in modo chiaro era la diversità e la particolarità dell’offerta educativa del museo. Infatti oggi la dicitura 'didattica museale' ha lasciato il posto al concetto di educazione tout court, intesa in senso lato come 'apprendimento informale', partecipativo e collaborativo, volto a far leva tanto sulla dimensione cognitiva quanto su quella sensoriale ed emotiva del fruitore. Va da sé che la sperimentazione e l’attuazione di metodi interdisciplinari, multimediali e ludici, non va intesa in termini di mero intrattenimento - rispetto al quale la competizione con le moderne tecnologie è una partita persa in partenza - quanto di un’esperienza formativa completa e appagante. Questo tipo di approccio è confermato dalla teoria costruttivista dell’apprendimento, affermatasi a partire dagli anni Ottanta in seno a quella cognitivista. - 91 -


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Ma mentre dal punto di vista cognitivo il sapere è concepito secondo criteri scientifici e razionali, con schemi di apprendimento lineari e definiti, il costruttivismo pone l’accento sul percorso personale del soggetto, dotato di proprie strutture conoscitive, di una capacità di elaborare che non può essere quantificata né misurata secondo schemi predefiniti e di una particolare forma di intelligenza che lo distingue da tutti gli altri soggetti, così come sostenuto anche dalla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner. E fin qui nulla strano. Il gap sta nel fatto che anche se da un punto di vista teorico, questo tipo di approccio non trova ormai alcun tipo di resistenza, dal punto di vista operativo la sfida è ancora tutta, o almeno in parte, da giocare. La Carta nazionale delle professioni museali Innanzitutto la complessità delle conoscenze e delle competenze che un siffatto tipo di progettazione e offerta formativa mette in gioco, richiede non solo la collaborazione di più figure professionali, degli istituti universitari e/o enti di ricerca a cui fanno capo, ma anche una formazione universitaria strutturata ad hoc, purtroppo quasi assente negli atenei italiani. Ne deriva dunque anche la difficoltà di un riconoscimento professionale dal punto di vista giuridico, e quindi retributivo, delle figure impegnate nel processo di valorizzazione dei beni culturali, che va dal riconoscimento del bene culturale in quanto tale alla sua fruizione pubblica (ovviamente sempre nel rispetto dei limiti posti dalle esigenze di conservazione e tutela). Basti pensare che se nel 1999 il MiBAC ha creato un centro per i servizi educativi con tanto di giornale on line - S'ed -, solo nel 2006 è stata pubblicata una “Carta nazionale delle Professioni museali” approvata dalla II Conferenza dei musei italiani (Roma, 2 ottobre 2006), nella quale si fa riferimento, nell’ambito dei 'servizi e rapporti con il pubblico', alla figura del responsabile dei servizi educativi e a quella dell’educatore museale. Il responsabile dei servizi educativi non solo si occupa dei progetti educativi mediando fra il mondo della scuola e il museo e fra questo e gli enti di ricerca preposti alla formazione degli ambiti disciplinari di competenza, ma collabora alla stessa definizione dell’identità e della missione del museo, valorizzando la componente educativa delle collezioni. Oltre ai suddetti compiti, la carta prevede che tale responsabile svolga attività di monitoraggio, non solo sul pubblico del museo, intercettandone i bisogni la domanda per così dire - ma anche su un pubblico cosiddetto potenziale3, previa indagine statistica. L’educatore museale invece realizza fisicamente gli interventi educativi tanto in relazione alle collezioni permanenti, quanto agli eventi temporanei, adeguandoli alle caratteristiche e alle esigenze dei diversi destinatari. Entrambe le figure possono essere condivise da più musei in gestione associata, ma mentre sembra che il responsabile della didattica debba far parte dell’organico del museo, non vale lo stesso per l’educatore museale. E in generale, entrambe le figure, nonostante l’alto livello formativo e il grado di competenza e responsabilità richiesto, sovente sono a rischio esternalizzazione, cosa che fa del servizio educativo l’anello debole della catena. L’anello debole della catena. Perché? -Semplicemente perché l’ente gestore che segue una logica imprenditoriale e votata all’efficienza economica (ottimale allocazione delle risorse) più che all’efficacia culturale del servizio (raggiungimento degli obiettivi), tende a mettere in secondo piano la gestione dei servizi educativi, che richiedono una progettazione di lungo termine e difficilmente quantificabile. Quindi laddove il servizio del gestore può risultare vincente dal punto di vista della pianificazione economica, può fallire da quello della qualità dell’offerta culturale, proponendo attività non specifiche e consone all’identità del museo. Del resto

percorso didattica Museo di Riva del Garda

l’ente gestore che segue una logica imprenditoriale e votata all’efficienza economica più che all’efficacia culturale del servizio, tende a mettere in secondo piano la gestione dei servizi educativi

Dipartimento Educazione Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea nel mondo

come rileva Antonella Leonardo l’esternalizzazione può anche avere un effetto boomerang nel senso che mentre il museo si accolla le eventuali perdite connesse ai costi fissi di gestione, al privato vanno comunque i profitti derivanti dai servizi aggiuntivi. Per questo sarebbe meglio internalizzare il servizio, che è imprescindibile per il museologo e il conservatore che intendano stabilire un rapporto virtuoso e duraturo con il territorio, quest’ultimo fondamentale per la realtà italiana in termini di 'continuità e contiguità' (Settis). Hanno dipartimenti educazione interni e strutturati il Mart, il MamBo, la GNAM, il MaGa (che propone anche un biennio specialistico di didattica per il museo) e naturalmente quasi tutti i musei torinesi, che con la seconda edizione di ZonArte confermano la loro volontà, e capacità, di fare rete indipendentemente dai musei di riferimento, tanto da trovare posto persino ad Artissima, una fiera dell’arte contemporanea come tante che sembra non avere nulla a che fare con l’educazione, ma che quest’anno ha aperto le porte a un pubblico sempre più diversificato e chissà che non diventi l’esempio per iniziative simili anche fuori dall’Italia. Ma se questo vale per i più importanti musei di arte contemporanea italiani, di sicuro non è la regola, come dimostra anche il caso del MADRE di Napoli, i cui servizi educativi sono gestiti dalla cooperativa Pierreci, alla quale bisogna comunque riconoscere la qualità del servizio educativo offerto nel museo partenopeo. Inoltre bisogna dire che i benefici economici dell’offerta formativa non sono del tutto svincolati dalla sua qualità. Fermo restando che non si tratta di gestire l’offerta in funzione dei benefici economici (ad esempio perseguendo eventuali economie di scala) e tenendo ben presente che questi ultimi sono considerati non come fine, ma in termini di consequenzialità rispetto alla prima, non si può non convenire con gli economisti che la formazione di un gusto estetico e il suo affinamento è indubbiamente connesso alla creazione di abitudini di consumo del bene culturale (addiction). Così già Bourdieu nel 1979 scriveva ne “La Distinction. Critique sociale du jugement” che “un adulto non entrerà mai in un museo se non lo ha fatto almeno una volta da bambino”. La variazione di sensibilità dipende infatti dal consumo precedente, dunque la conoscenza è il primo passo verso la formazione di abitudini culturali. Laddove poi c’è anche interazione sociale, la domanda del bene aumenta, in quanto le abitudini si rafforzano a vicenda, cosa che ci da la misura della dinamicità di questo tipo di servizio che viene - a nostro avviso in modo riduttivo - annoverato fra le 'attività di supporto nell’erogazione del servizio museale' insieme all’accoglienza (guardaroba e parcheggio) e ai servizi complementari (auditorium, sala conferenze ecc …) non necessariamente riconducibili alla visita4 . Abitudini culturali e accessibilità - Una delle prime ricerche5 sul pubblico dei musei era stata condotta proprio da Bourdieu (con A. Darbel): “L'Amour de l'art” (1966), in cui la collezione e il museo venivano proposti non tanto come patrimonio, quanto come strumento di libertà. Ciò che invece si tende a evidenziare nelle ricerche più recenti è proprio la stretta connessione tra istruzione e abitudine a frequentare i musei (che Bourdieu aveva evidenziato ne “La Distinction”) e dunque il 'valore di iniziatore della scuola'. Così ad esempio da una ricerca condotta dal Centro di Didattica Museale sulle caratteristiche del pubblico adulto, su un campione di 34 musei, emergono una serie di ipotesi, tra cui quella secondo cui la “fruizione in età scolastica influenza gli atteggiamenti del pubblico in età adulta” e che la “fruizione in età adulta ha un effetto di consolidamento delle conoscenze e delle competenze precedentemente acquisi-


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te”. E se il 55% di quelli che avevano risposto ai questionari avevano visitato il museo per la prima volta a meno di 10 anni, ben il 76,75% degli utenti adulti avrebbe voluto usufruire del laboratorio didattico che però era concepito solo per i bambini. Il 44% indica la curiosità come la molla della visita, che aumenta col decrescere del titolo di studio, anche se il pubblico che frequenta più assiduamente è quello con un titolo di studio più alto. Dalla ricerca emerge anche che il pubblico (in generale) sembra essere interessato più alle mostre che al museo, ma soprattutto ciò che viene messo in evidenza è che “il potenziale dei musei in termini di mediazione nei confronti dei diversi tipi di pubblico non è stato ancora esplorato e che la sua accessibilità si misura non solo sulla base del tempo annuo di apertura, ma anche sulla qualità della proposta didattica”. Per quanto riguarda l’azione divulgativa e didattica, un primo riscontro viene dal numero delle presenze, ma non basta, perché quello che non è facilmente misurabile è quanto i visitatori abbiano tratto dalla visita, ovvero i benefici intangibili ed esperienziali che afferiscono alla sfera cognitivo-comportamentale. In generale i vari studi di taglio economico sulla domanda culturale hanno dimostrato come questa sia diventata via via più esigente e sensibile alla qualità del servizio valutato come alternativo o sostitutivo a quello di consumo e intrattenimento dei nuovi media. Secondo Ludovico Solima è proprio questo fenomeno che ha portato negli anni Ottanta all’affermazione di un modello manageriale di gestione del museo. In particolare con l’entrata in vigore della legge Ronchey (legge 4 del 14.1.1993)6, la gestione del museo diventa autonoma, ma di impronta privatistica, nel senso che si basa sugli indicatori di performance e sulla cosiddetta costumer satisfaction: il processo decisionale dipende dunque dalle informazioni che il museo riesce ad avere sulla percezione del suo pubblico, collegando i risultati economici ottenuti con le risorse utilizzate. Il cortocircuito che ne deriva è evidente perché la concezione di tipo economico del bene culturale tende a mettere in secondo piano quella di tipo educativo, anche se la legge pare evidenziare l’identità del museo come organizzazione deputata a esplicare attività didattica e pedagogica nei confronti dei fruitori e non solo come contenitore conservativo. In Europa - Nonostante questo processo di aziendalizzazione però, l’autonomia dei musei italiani è limitata in una certa misura dalle attività di tutela e conservazione, che invece negli altri paesi europei come Francia, Spagna e Gran Bretagna sono gestite da organi specifici. In questi paesi infatti esiste un rapporto più diretto e immediato (in termini di feedback) tra “autonomia gestionale e capacità di orientare l’offerta museale in funzione della domanda”. In linea teorica, l’idea sarebbe quella di coinvolgere gli utenti dando loro anche la possibilità di decidere di quale servizio usufruire e in che misura, andando incontro alle loro esigenze di partecipazione a più livelli e gradi di coinvolgimento. Ad esempio il South Kensington Cultural Group, coordinato da Christopher Wilk, senior curator delle British Galleries, ha coinvolto nel 2001 un team di educatori, a loro volta coordinati da Gail Durbin, per realizzare diverse aree espositive, ora più contemplative, ora più attive e adatte a diversi tipi di pubblico. Le seconde inoltre non si limitavano a offrire al pubblico la possibilità di partecipare, ma erano concepite come un serbatoio di idee, a cui ognuno poteva contribuire con osservazioni, commenti e interpretazioni anche on line. Del resto i musei inglesi hanno dimostrato nell’ultimo decennio di essere ottimi “centri per l’ apprendimento, per la creatività e la partecipazione civile”, almeno secondo David Anderson - direttore del Learning and Interpretation del Victoria and Albert Museum di Londra -, il quale si richiama ai propositi dell’amministrazione laburista a

Dipartimento Educazione del MAXXI

bisogna dire che negli ultimi dieci anni, in netta controtendenza rispetto alle ‘politiche culturali’ del nostro paese, i dipartimenti di educazione dei più importanti musei di arte contemporanea, sono stati in grado di costruire un’offerta di alta qualità rivolta tanto al pubblico di età scolare quanto al pubblico adulto sulla falsariga del concetto di lifelong learning - a dispetto anche della scarsità di risorse destinate a questo ambito dal budgeting museale

Servizi educativi Gnam

seguito delle elezioni del 1997: “Education, in ensuring that creativity is not extinguished by the formal education system and beyond”. (Chris Smith, allora segretario di stato for culture, media and sport). Secondo questo tipo di visione la raison d'être dell’educazione artistica risiede nella condivisione della creatività e della conoscenza “al centro della sostenibilità delle relazioni in un mondo in sviluppo” e dunque al centro di una strategia di governo volta a dare sostegno alla creatività giovanile, con tanto di fondo per la cultura dei giovani -Youth Culture Trust- e con il sostegno delle cosiddette Creative Partnerships. Programmi di ricerca come Strategic Commissioning - che ha avuto come interlocutori musei nazionali e regionali e da cui è emerso come la maggior parte degli insegnanti valutino positivamente l’apprendimento degli alunni coinvolti nei programmi di mediazione museale -, hanno fatto sì che il governo prendesse coscienza dell’importanza strategica del settore culturale rispetto a problematiche come l’esclusione sociale e la cittadinanza attiva, favorendo dunque il coinvolgimento simultaneo dei servizi sociali, del museo e di altri tipi di istituzioni e/o agenzie impegnate nel settore educativo. Una sfida ancora tutta (o in parte) da giocare - Nel 2001 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha voluto dotarsi di una normativa che iniziasse a colmare l’oggettivo divario esistente fra i musei italiani e quelli europei e del resto del mondo, con l’“Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei”. La norma fa esplicito riferimento alla necessità di dedicare “risorse, umane e finanziarie, interne o esterne al museo, assicurando l’accessibilità” e stabilendo “rapporti - in forma permanente o temporanea - con gli altri musei, gli istituti di ricerca, le università, enti e fondazioni, esperti e studiosi, avvalendosi delle loro competenze e risorse per conseguire risultati di comune interesse ai fini pubblici”. Bisogna dire che negli ultimi dieci anni, in netta controtendenza rispetto alle ‘politiche culturali’ del nostro paese, i dipartimenti di educazione dei più importanti musei di arte contemporanea, sono stati in grado di costruire un’offerta di alta qualità rivolta tanto al pubblico di età scolare quanto al pubblico adulto sulla falsariga del concetto di lifelong learning - a dispetto anche della scarsità di risorse destinate a questo ambito dal budgeting museale. Infatti il sostegno finanziario necessario per portare avanti i progetti educativi e per mantenere un certo livello qualitativo, purtroppo non corrisponde alle reali esigenze operative, le cui condizioni dovrebbero invece rispecchiarne l’alto profilo teorico. Gli operatori del settore hanno però saputo rispondere in modo avveduto e lungimirante a questo gap, dando vita a un significativo network di relazioni, in grado non solo di agevolare lo scambio di metodi e idee, ma anche di far conoscere un ambito professionale in continua evoluzione, dove si incontrano ricerca e tradizione nel segno di una reale multidisciplinarietà. 1- XV Assemblea generale dell’ICOM, Buenos Aires, Argentina, 4 novembre 1986. 2- È in questa occasione che fu fondata l’InSEA (International Society of Education through Art), come risultato del lavoro di una commissione di ricerca coordinata da Herbert Read. 3- A proposito dei vari tipi di pubblico e del cosiddetto pubblico potenziale si veda la ricerca di Walter Santagata, Vittorio Falletti, Maurizio Maggi, Il pubblico invisibile. Indagine sui non-utenti dei musei, Rapporto per Regione Piemonte e Comune di Torino, Dicembre 1999 4- Ludovico Solima, La gestione imprenditoriale dei musei, percorsi strategici e competitivi nel settore dei beni culturali. 5- In realtà le prime indagini di tipo quantitativo sul pubblico dei musei sono state condotta in America negli anni ’60, ma qui si intende prendere in considerazione l’ argomento da un punto di vista qualitativo, tenendo come riferimento il contesto europeo. 6- Anche se la legge è stata abrogata e sostituita dall’ attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.L. 22 Gennaio 2004), passando per il Testo Unico dei Beni Ambientali e (490/1999), rappresenta comunque un passaggio fondamentale verso la regolamentazione del processo di aziendalizzazione del museo.

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grande assemblaggio di arte e oggettistica di varia natura si rivela invece una raccolta documentaristica ben Milano organizzata e suddivisa in otto sezioni GAMEC - GALLERIA D’ARTE a tema, le quali dedicano ognuna la MODERNA E CONTEMPORANEA giusta dimensione per mostrarsi IL BELPAESE DELL’ARTE. all’occhio del visitatore nella sua ETICHE ED ESTETICHE immediatezza e loquacità. Come il DELLA NAZIONE titolo della mostra suggerisce, tra etifino al 19 febbraio 2012 che ed estetiche il primo passo di quedi Laura Luppi sto viaggio viene compiuto nella sala In occasione del 150° anni- dedicata al capitolo “Fratelli d’Italia”, versario dell’Unità d’Italia la GAMeC allestita con opere realizzate da celedi Bergamo festeggia con la mostra “Il bri coppie di fratelli d’arte. Dalla pitBelpaese dell'arte. Etiche ed Estetiche tura metafisica di Giorgio de Chirico a della Nazione”, curata da Giacinto Di Alberto Savinio alla tendenza astratta Pietrantonio e Maria Cristina e cinetica di Gianni e Joe Colombo, dall’esuberanza degli architetti Alessandro e Francesco Mendini alle videoproduzioni di Gianluca e Massimiliano De Serio, ogni artista testimonia una personale visione della comune patria. La sezione non dimentica i successi raggiunti nel campo della ricerca medica, omaggiando il premio Nobel Rita Levi Montalcini, associata alla pittrice nonché sorella gemella Paola. In “Mappamondo Italia” sono le cartine geografiche colorate e avanguardistiche a dominare la scena con opere su tela e sculture di Boetti, Parmiggiani, Guareschi, Cattelan, Fontaine, Luciano Fabro, Claudia Losi e Salvo. “Cartoline d’Italia” e “Politica Italia” uniscono mitologia e bellezza nella loro più alta manifestazione con De Nittis, Jodice e Bartolini, a un pizzico di sarcasmo e ironia con gli inni di Isgrò (“Viva il Papa” e “Viva il Re”) e le caricature dei parlamentari Hans-Peter Feldmann, “David”, 2009 d’Ottocento disegnate su carta cm 113 x 40 x 30 intestata dalla tagliente mano di Courtesy Galleria Massimo Minini Sebastiano Tecchio (Presidente Foto: Andrea Gilberti della Camera dei Deputati, poi Presidente del Senato del Regno Rodeschini, e aperta fino al 19 febbraio 2012. L’obiettivo è quello di d’Italia e Ministro di Grazia e proporre un’immagine generale Giustizia e Culti). A indicare gli evidell’Italia dal lontano Ottocento fino denti paradossi di uno Stato dalle ai giorni nostri attraverso i tanti pregi grandi contraddizioni ci pensa il mone difetti con cui si è fatta amare, criti- taggio video di una serie di scatti fotocare, a volte deridere e altre osannare. grafici che testimoniano le tante 200 sono le opere proposte negli imprese edili lasciate incompiute sul spazi espositivi della Galleria d’Arte territorio nazionale, le quali suscitano Moderna e Contemporanea di non poche domande sulla sorte delBergamo, tra lavori di artisti conna- l’investimento di denaro per le grandi zionali e internazionali, ma non solo. opere pubbliche. Ma dell’Italia popuOltrepassare la soglia di ogni sala lista e popolare era doveroso non parconsente infatti di intraprendere un lare solo male. Non poteva infatti percorso informativo e memorabile mancare uno sguardo diretto alle gloanche tra i cimeli delle grandi vittorie rie sportive ottenute dai grandi camsportive, tra i costumi e le usanze pioni e atleti italiani, quelli che hanno della tradizione religiosa, tra gli avve- saputo distinguersi e farsi ricordare nimenti e gli episodi che hanno reso nel tempo alzando la bandiera tricolofamoso il Bel Paese in tutto il mondo. re sul gradino più alto del podio agoCiò che potrebbe apparire come un nistico. Strettamente legato a questa materia, il fenomeno del tifo ha sicu-

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ramente un ruolo rilevante al fine di comprendere le passioni che alimentano lo stile di vita italiano anche e soprattutto nei momenti di svago. “Bar Sport Italia” offre un’ampia carrellata di oggetti di culto per chi lo sport lo ha più tifato che praticato, come le figurine dei giocatori di calcio, la maglia azzurra del capitano della Nazionale Giacinto Facchetti, la maglia rosa di Felice Gimondi e la coppa Europa di sci, per citare solo alcuni esempi. In queste, come in altre circostanze, nella realtà come nell’immaginario, il cittadino italiano riscopre quel senso di appartenenza a una stessa nazione, quel patriottismo spesso dimenticato e per questo fortemente criticato. Le opere di Roccasalva, Gang Song Ryong, Mastrovito, ancora Cattelan e Rehberger fanno da contraltare estetico-artistico a quell’etica-cultura dello spirito competitivo e associativo degli atleti e dei loro sostenitori. Non poteva certo mancare la sezione dedicata al sacro e al profano, spesso miscelato tra ex-voto e ritualità di credenze popolari ricche di spiritualità e superstizione. “Per grazia ricevuta Italia” propone alcune rivisitazioni della figura femminile cardine del cattolicesimo, la Madonna, di cui particolarmente degne di nota sono le “Virgin Mary from the series blueprints” (1999) di Kiki Smith e la “White Madonna with Twins” (2006) di Vanessa Beecroft. Il “Guerriero” di Mimmo Paladino (2011) accoglie invece lo spettatore nell’area “A futura memoria d’Italia” in cui sono affissi 200 ritratti di altrettanti garibaldini provenienti dalla città e dalla provincia di Bergamo, unitisi a comporre il numeroso gruppo della Spedizione dei Mille. La fotografia in bianco e nero di Letizia Battaglia che ritrae il volto della vedova ventiduenne dell’agente di scorta Vito Schifani riporta la mente e le coscienze al tragico evento della strage di Capaci, in cui fu vittima anche il bersaglio principale Giovanni Falcone. Questo uno degli eventi cardine della recente storia del nostro Paese. “Fatto in Italia / All’italiana” ristabilisce un clima più spiritoso e autoironico con la presenza di opere come “Donatella” (2010) di Giovanni Rizzoli e il “David” (2009) di Feldmann, perché infondo l’allegria e l’ilarità certo non mancano tra le doti più peculiari del temperamento mediterraneo. A completare il progetto una piccola ma confortevole sala propone una videoproiezione dalle interessanti note stonate, le quali suonano leggere tra spot pubblicitari e spezzoni di film popolari, tra programmi e notiziari televisivi a comprovare con immagini e suoni quello che è stato e

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che è ancora oggi il Bel Paese, tra etiche ed estetiche.

Milano PAC- PADIGLIONE D’ARTE CONTEMPORANEA SILVIO WOLF - SULLA SOGLIA chiusa il 6 novembre 2011 di Aurora Tamigio Avevamo lasciato Silvio Wolf alla 53esima Biennale di Venezia del 2009. La sua opera, “Light Wave”, troneggiava al centro del Padiglione Italia di Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, avvolgendo l’ambiente in una luce misteriosa e vagamente mistica. Oggi quest’opera apre la

Silvio Wolf, “La Via del Cuore” Performance prima grande mostra personale di Silvio Wolf in uno spazio pubblico italiano, il PAC di Via Palestro. “Sulla Soglia” è il titolo di questo ambizioso percorso espositivo che presenta in sette distinte sezioni trent’anni di attività artistica di un autore che lavora sull’impressione istantanea dell’immagine fotografica e sul primo impatto che l’opera ha sullo spettatore. Per questo non appena ci si trova sulla soglia si viene immediatamente investiti dal fascio di luce di “Light Wave”, una sorta di ‘alba primordiale’ i cui toni freddi congelano il visitatore all’ingresso, catturandolo all’istante in un’aurea malinconica e avvolgente. Nelle sezioni successive il tema della ‘soglia’ ritorna in un’intera serie di opere, “Soglie”, le cui immagini di architetture visionarie sembrano offrire l’accesso verso dimensioni parallele le cui porte possono essere aperte solo dall’artista. Segue nel percorso espositivo la serie “Orizzonti”, meditazioni sul lessico fotografico, e “Icone di Luce”, una produzione più ‘manierista’ in cui le ricerche di Wolf sulla sensorialità incontrano la sperimentazione fotografica. Nelle sale successive la mostra si snoda tra videoproiezioni e installazioni che tra specchi, suoni, luci e fotografie creano spazi di incredibile impatto. Nella serie di fotografie raffiguranti La Scala di Milano, gli ambienti tortuosi del teatro sono accumunati ad alcuni spazi labirintici, come i caveau di una


banca. Senza dubbio al centro della riflessione di Silvio Wolf c’è il coinvolgimento dello spettatore nell’esperienza creativa dell’artista. Lo stesso concetto della ‘soglia’ implica il desiderio di introdurre il visitatore all’interno dell’opera, sia empaticamente ed emozionalmente, sia fisicamente: le opere di Wolf infatti sono installazioni, ambienti, video-proiezioni che coinvolgono lo spettatore, circondandolo di luce o invitandolo a farsi guidare nelle sale dai fasci luminosi. Lo stesso Wolf è solito richiedere al visitatore, parlando delle sue opere, di porsi in una condizione di ‘ascolto’: la natura meditativa e contemplativa delle sue creazioni infatti prevede da parte dello spettatore, immerso negli ambienti immaginifici dell’artista, un’attenzione particolare. Del resto la mostra di Wolf non riguarda solo l’arte visiva. Prestando attenzione, è possibile accorgersi che la ‘colonna sonora’ dell’esposizione, un intenso musicare di shofar, antico strumento ebraico, è una registrazione tratta dalla performance “La Via del Cuore” svoltasi durante l’inaugurazione dell’8 ottobre -in occasione della settima Giornata del Contemporaneo in collaborazione con il contralto Cinzia Bauci e Pier Gallesi. La mostra “Sulla Soglia”, promossa dal PAC in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano è a cura di Giorgio Verzotti, curatore anche dei testi del catalogo, edito da Silvana Editoriale, in collaborazione con lo stesso Silvio Wolf.

Museum of Art di New York insieme alla compagnia Shen Wei Dance Arts (il 6 e 13 giugno 2011), l’artista prosegue la propria ricerca estetica in questo spazio, ispirato dal forte impatto estetico della Collezione, “le cui opere guardano in faccia al futuro senza paura, e altre volte mostrano ansie e perplessità per l’ignoto”. Domenica 30 ottobre 2011 è stata inaugurata la personale di “Alessandro Pessoli, Fiamma pilota le ombre seguono”, in mostra fino al 29 gennaio 2011, formata da tre grandi tele incentrate sul tema iconografico della Crocifissione spogliato della pietas medievale e dei sofismi moderni, decostruito e riassemblato sistematicamente con oli, smalti e vernici spray. La fiamma pilota guida il corteo, è un tenue bagliore che si intravede in lontananza, che sopravvive e ritorna eternamente. La vivace pittura di Alessandro Pessoli è ricca di memorie della storia dell’arte più o meno antiche, religiose e non, tracce sedimentate e rettificate che riaffiorano in superficie come risorgive, distillate populisticamente fino a creare un lessico familiare di temi e stili. Dal 13 novembre 2011 al 29 aprile 2012 sarà la volta dell’artista tedesca Andrea Büttner, vincitrice della terza edizione 2009 - 2011 del Max Mara Art Prize for Women in collaborazione con la Whitechapel Gallery di Londra. Premiata il 23 marzo 2011 da una giuria composta dall’artista Fiona Banner, dalla gallerista Alison

Reggio Emilia COLLEZIONE MARAMOTTI EX STABILIMENTI MAX MARA ALESSANDRO PESSOLI, ANDREA BÜTTNER, SHEN WEI fino al 29 April 2012 di Sara Draghi La stagione autunnale della Collezione Maramotti è ricca di interessanti novità: una passerella di artisti alla ribalta della contemporaneità internazionale sfileranno uno di seguito all’altro nelle sale degli stabilimenti Max Mara di via Fratelli Cervi a Reggio Emilia. “Re-Turn. Artistic Vision of Shen Wei”, “Alessandro Pessoli - Fiamma pilota le ombre seguono” e “Andrea Büttner -The Poverty of Riches”, sono tre personali eterogenee, azzeccate, importanti. Il dinamismo e l’intuito industriale ereditato dal padre della collezione, Achille Maramotti fondatore della casa di moda Max Mara, uniti ad un gusto progressista e ad uno straordinario spazio architettonico arioso e flessibile, creano i presupposti ideali per fare di questo luogo uno dei capisaldi dell’avanguardia artistica italiana e, della collezione ‘work in progress’ Maramotti, un prezioso abbecedario dei percorsi e degli stili artistici internazionali dal secondo dopoguerra ad oggi. Il primo appuntamento, del 21 e 23 ottobre 2011, è stato con “Re-Turn. Artistic Vision of Shen Wei”, progetto site specific di dance performance concepito per gli spazi lattescenti della Collezione Maramotti. Nel suo nuovo lavoro Shen Wei, coreografo, ballerino, pittore e designer di origini cinesi, apre un dialogo sui generis con le opere d’arte contemporanea della collezione stabile Maramotti, sincronizzando le energie statiche delle opere con quelle dei corpi volubili dei danzatori. Dopo il precedente di “Still Moving”, ideato per la Charles Engelhard Court al Metropolitan

Andrea Büttner Jacques, dalla collezionista Valeria Napoleone, dalla critica d’arte Polly Staple e presieduta da Iwona Blazwick, direttrice della Whitechapel Gallery, l’artista ha esordito con la propria personale presso galleria londinese dal’1 al 10 aprile 2011. Dopo l’ouverture di Londra, “The Poverty of Riches” si trasferisce a Reggio Emilia: il progetto, realizzato nel corso di una residenza in Italia trascorsa tra l'Accademia Americana di Roma, la Fondazione Pistoletto di Biella e alcune comunità monastiche di cui l’artista è stata ospite, inquisisce il concetto di povertà sia da un punto di vista estetico che religioso. Esplorando i complessi rapporti instaurati nei secoli tra Cattolicesimo e Arte, l’artista realizza un ciclo di lavori xilografici e un percorso installativo di notevole suggestione, ponendo al centro del confronto gli affreschi di Giotto ed alcune opere appartenenti alla collezione Maramotti firmate da Alberto Burri, Enrico Castellani e Piero Manzoni.

FONDAzIONI

Milano FONDAZIONE ZAPPETTINI ANTONIO CALDERARA chiusa il 25 novembre 2011 di Manuela Congedi Si mimetizzano quasi, tra le pareti bianche della Fondazione Zappettini, le eteree superfici di Antonio Calderara, l’artista lombardo che si fece negli anni Sessanta portatore ante litteram di una tendenza artistica che riuscì ad ottenere solo dopo un decennio la definizione ufficiale di Pittura analitica o Pittura pittura. Seguirono a un esordio decisamente figurativo del pittore nella prima metà degli anni Trenta, accenni di figurazione e infine campiture di colore, senza referenzialità alcuna verso il dato reale se non quella alla pittura stessa. Fu proprio l’evoluzione verso questi ultimi lavori a valergli il titolo di caposaldo dell’Astrazione geometrico-concreta grazie soprattutto alla dedizione per l’arte di Piet Mondrian. La definizione di astrazione geometrico-concreta si materializza nelle tavole di Calderara, oggetto della mostra, essenzialmente attraverso due elementi: la luce e la figura piana. Antonio Calderara, Le declinazioni “Variazioni cromatiche”, di questi ultimi nelle 1971, olio su tavola, 2 presenti x (91 x 9 cm), collezio- tavole sono svane privata, Savona riate e vanno dagli esercizi di colore, le così dette velature per la luce, alle forme elementari del quadrato nelle sue varie dimensioni per le figure della geometria piana. A sostegno del tutto l’apporto dei principi matematici indispensabili al mantenimento dell’equilibrio formale della superficie. Tuttavia, come ogni astrattista che si rispetti, il punto di partenza rimane pur sempre la figurazione e la presenza assoluta della luce in satura unione con il colore, poco più di un pretesto seppur in senso lato. Interessante in questo senso la riflessione di Claudio Cerritelli nel testo a corredo del catalogo della mostra dove parla di paesaggio che si dissolve nella luce. A onor del vero i lavori di Calderara potrebbero banalmente portare titoli come “Paesaggio” in quanto rappresentazioni del reale al quale è stato sottratto tutto il superfluo sino ad arrivare alla sintesi estrema, e dove la luce accecante tanto quanto una nebbia offuscante lascia intravedere soltanto la struttura geometrica delle case di quei paesaggi. Così, con una leggerezza quasi sconosciuta alla forza di gravità, il pennello di Calderara poggiandosi al foglio per permettere appena al colore di sfiorarlo dava vita a trasparenti campiture distinte solo per variazioni cromatiche, esercizi concettuali di pittura

pura nella loro dimensione spazioluce. La personale di Antonio Calderara a cura di Riccardo Zelatore, è stata visitabile fino al 25 novembre alla Fondazione Zappettini dove, oltre all’esposizione di quindici lavori del Maestro, è stato possibile ammirare lo spazio della Fondazione tornata dopo anni alla sua attività espositiva a Milano nella storica sede di Via Nerino 3. La scelta di Antonio Calderara non è casuale in quanto prosegue un discorso votato alla rivalutazione della pittura anni Settanta che da sempre la Fondazione promuove.

Milano HANGAR BICOCCA FROM HERE TO EAR (VERSION 15). CÉLESTE BOURSIER-MOUGENOT fino al 4 dicembre 2011 di Aurora Tamigio Dinnanzi a From here to ear, l’opera di Céleste BoursierMougenot allestita fino al 4 dicembre all’Hangar Bicocca, sorge spontanea una domanda: che cosa ci stupisce dell’arte, la sua realizzazione o il risultato finale? L’abilità di un artista nella lavorazione del marmo o la statua finita? Nella nuova installazione presentata dall’artista francese presso il Cubo di Hangar Bicocca, che cos’è a lasciarci senza fiato? Il progetto di un’opera realizzata usando uccellini, erba e chitarre elettriche oppure la restituzione che essa offre allo spettatore di uno spazio altro, sospeso tra la dimensione naturale e quella artificiale? L’installazione di BoursierMougenot, curata da Andrea Lissoni, è allestita a Milano in una versione inedita, concepita appositamente per lo spazio più suggestivo dell’Hangar. La realizzazione precedente dell’opera, presentata a Londra, presso il Barbican Art Center, nella primavera 2010, ha riscosso un successo enorme di critica e di pubblico: il video online di “From here to ear” ha contato più di mezzo milione di visite. Il Cubo dell’Hangar si trasforma, nell’installazione dell’artista francese, in un’enorme voliera in cui un gran numero di uccellini volano da un punto all’altro posandosi sulle 8 chitarre e sui 9 bassi, poggiati a loro volta su supporti in ferro. Pizzicando le corde degli strumenti con le zampine e con il becco, gli uccelli ‘realizzano’ melodie dallo spartito casuale, improvvisazioni mai uguali fra loro. Tutto intorno a questo concerto, lo spettatore si muove su sentieri di pietra ricavati tra aiuole di sabbia, erba e fuscelli (elementi naturali trovati, come da uso dell’artista, intorno al luogo in cui sorge l’installazione) con cui gli uccellini stessi hanno costruito il grappolo di nidi che pende al centro dell’ambiente. Del debito di BoursierMougenot nei confronti di John Cage si è già parlato, forse perché l’opera dell’artista francese è ad oggi uno dei prodotti d’arte contemporanea che più si avvicina alla poetica del compositore americano. Pur non abbracciando del tutto la fede di Cage nel caos quotidiano, gli uccellini di “From here to ear” sono gli artefici di una composizione musicale giocata sul caso, sull’irripetibilità e sull’imprevedibile. Boursier-Mougenot porta alle estreme conseguenze la ricerca di Cage sui ‘suoni della natura’ rendendo quest’ultima esecutrice della musica. Ne consegue una fusione perfetta tra l’artificiale (il suono metallico proveniente dalle chitarre e dai bassi


elettrici attraverso gli amplificatori) e il naturale (il cinguettare degli uccellini, posti in un ambiente che ricrea il più possibile l’habitat originale). A questa alchimia perfetta partecipa lo spazio del Cubo, ambitissimo dagli artisti per le sue misure regolari e per l’architettura neutrale capace di trasformarsi in una scatola che può ospitare qualunque fantasia creativa. Da non trascurare è anche il ruolo assegnato dall’artista francese al pubblico della sua opera. Gli spettatori dopo essere entrati nella ‘voliera’ - su indicazione del curatore Lissoni, in non più di 15-17 persone per volta - e aver camminato attraverso la sabbia e gli strumenti musicali, possono avvicinarsi agli uccellini o vedere i gruppi di volatili sfrecciare sulle proprie teste. È proprio la presenza del visitatore nel Cubo che porta gli animali a volare, incuriositi (forse anche un po’ spaventati) dagli ospiti e dal loro vociare. L’interdisciplinarità dell’opera coinvolge più aspetti artistici (si tratta di un’installazione ma anche di una performance) ma anche più ‘attori’, e rende lo spettatore partecipe anch’esso dell’esecuzione. La formazione di Céleste Boursier-Mougenot (Nizza, 1961) spazia dalla musica al teatro, fino ad arrivare alla performance, l’unica capace di riunire insieme tutti questi stimoli. Ha iniziato ad esporre a partire dagli anni Novanta, e da allora le sue opere hanno viaggiato dalla Francia al Brasile, passando per l’Inghilterra e gli Stati Uniti e vincendo premi prestigiosi come il Golden David Award (2009) o il FIACRE Grant (1997 e 2004). In questi anni Boursier-Mougenot ha incentrato la propria ricerca soprattutto sul potenziale musicale di oggetti (e di forme di vita, come si è visto per “From here to ear”) solitamente estranei alla dimensione artistica del suono. La sua poetica riprende importanti concetti sulla teoria del caos derivanti dalle esperienze artistiche europee e americane di fine anni Sessanta - inizio Settanta. In contemporanea all’inaugurazione dell’installazione di Céleste Boursier-Mougenot, si sono tenute lo scorso 5 ottobre due performance dell’artista thailandese Surasi Kusolwong: “Invisible Academy” (con Eleonora Fossati, Daniel, Giuseppe Costa, e Giuseppe Zappala) e “1 Euro Suitcase Market” (“Never Say No to Povera”), 2011. In quest’ultimo evento, replica di quello già tenutasi con successo alla Tate Modern, l'artista ha improvvisato un mercatino di prodotti thai appositamente importati per l’occasione e venduti singolarmente al prezzo simbolico di 1 euro.

Modena GALLERIA CIVICA - PALAZZO SANTA MARGHERITA JOSEF ALBERS fino all’8 gennaio 2012 di Gaia Fattorini Gli occhi del poeta, lo spirito del filosofo, le mani dell’artigiano. L’arte di Josef Albers te la trovi intorno, ti avvolge, è quasi come se la potessi non solo toccare, ma anche utilizzare. Ed alla galleria civica di Modena, in una mostra curata dal direttore Marco Pierini, che sarà aperta fino all’8 gennaio, sono protagonisti la razionalità dei sogni e la poesia dei materiali di questo artista con radici talmente solide, da non

Josef Albers, “Park”, 1924 ca. vetro, fil di ferro, metallo e vernice in cornice di legno/glass, wire, metal and paint in wood frame, 49,5 x 38 cm, Josef & Anni Albers Foundation, Bethany (CT) aver paura di esplorare i materiali più disparati. Suo padre faceva l’artigiano in una piccola città della Ruhr, la regione più ricca d’Europa. E che lo è diventata grazie all’orgoglio del lavoro, metodico, preciso, infallibile: tedesco, si potrebbe dire ricordando un rigore diventato proverbiale. E che in Josef Albers, nato nel 1888, non è solo un tratto formativo, ma l’essenza stessa della sua arte. Nella sua attività ha sempre rivendicato che la sua unica insegnante è stata l’esperienza e la sua eredità culturale la tradizione artigiana della sua famiglia. E nei suoi anni sulle cattedre delle più prestigiose scuole mondiali, dalla Bauhaus di Weimar, al Black Mountain College fino a Yale, ha sempre rivendicato di non insegnare arte, ma filosofia. Cos’è l’arte e a cosa diavolo serve? La

domanda delle domande che da mil- nizzatori e artisti partecipanti. Il suclenni interroga l’uomo, ripercorrendo cesso ottenuto ha una fin troppo facila carriera di Albers nelle sale dei due le spiegazione: si trattava di un prespazi espositivi della galleria civica mio che ha visto il coinvolgimento di modenese, palazzo Santa Margherita diversi soggetti di varia natura. Basti e la Palazzina dei Giardini, sbatte guardare ai premi in palio per renderaddosso allo spettatore come gli spi- sene conto, in ballo c’erano: la visibigoli vivi dei suoi quadri. Senza suppo- lità sul sito ArsWall.com, denaro connenza né pedanteria, ma con un tante, mostre presso le galleria approccio umile e disincantato, come GlobArt di Acqui Terme, Spazio quello che può avere chi è stato uno Solferino di Milano e Spazi Arte di dei protagonisti dell’arte, facendosi Piacenza, atelier virtuali e newsletter un vanto di una formazione certo mai promozionali su ArsValue.com e infibanale. E allora non resta che lasciar- ne pagine promozionali sulla rivista si sorprendere dalla fame di arte di cartacea ArsKey. Francamente fa un Albers. La mostra modenese rico- certo effetto notare uno spiegamento struisce gli anni del Bauhaus di di forze così articolato e di una tale Weimar, Dessau e Berlino, quelli del qualità. A condire il tutto il piacevole Black Mountain College e della Yale intento di promozione dell’arte conUniversity, fino all’ultima parte della temporanea del premio, che ha dato sua vita quando, lasciato l’insegna- la possibilità agli artisti di ottenere mento si dedicò solo alla pittura. La visibilità e misurarsi con una giuria retrospettiva presenta i suoi lavori scelta e con il pubblico (visti i due con il vetro, l’uso del legno come premi assegnati con votazioni su materiale allo stesso tempo antico e internet a Maria Grazia Taddei per la modernissimo, la scoperta della foto- pittura e a Norman Douglas Pensa per grafia. Fino all’approdo maturo alla la fotografia). In definitiva si può parpittura con i primi dipinti della serie lare di una bella iniziativa, che ha “Omaggio al quadrato” (1950-1976) unito i nuovi canali multimediali e la la conseguente riscoperta di geome- classica e sempre d’impatto esposiziotrie e forme ridotte ai minimi termini ne in galleria ed ha saputo offrire alla quale la sua pittura sarà esclusi- nuove possibilità agli artisti e inconvamente votata, che suonano ancora trare il favore del pubblico. Un sucoggi così familiari, perché nascoste cesso che ha convinto gli organizzatonella natura e nelle cose, invisibili solo per gli occhi di chi non le vuole vedere. La retrospettiva, la più ampia mai arrivata in Italia, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, è organizzata in collaborazione con la Josef e Anni Albers Foundation che ha prestato, con una sola eccezione, le 175 opere esposte. Che spaziano e declinano secondo un’impronta particolarissima e riconoscibile, quasi tutti i materiali possibili: dal vetro al legno, il metallo, le stoffe, le tele fino ad arrivare addirittura alle copertine dei Carla Ponti, “Le depit amoureux” dischi. Con un percorso dettato a volte anche dalla necessità, come quando, nella Germania sull’orlo della tragedia, cominciò a lavorare con il legno solo perché non c’era più disponibilità di vetro come materia prima. Un viaggio appassionate, quindi, dentro forme, materiali e idee molto diversi fra loro. Ma che rimangono sempre saldamente ancorati ad una semplice razionalità che non solo non impedisce di sperimentare, ma che permette di prendere fisicamente Alessandro Di Cola, “Sotto il gelo” 2010 quegli esperimenti e farli diventare realtà. ri ad annunciare l’intenzione di proseguire questa esperienza con la seconda edizione del premio. Non rimane che indicare i vincitori. I premi speAcqui Terme ciali sono stati assegnati a Bruno GLOBART GALLERY Daniele, Ezio Alzani e Alessandro Di PREMIO ARSWALL Cola. I vincitori sono stati Carla Ponti chiuso il 29 ottobre 2011 per la fotografia e Alessandro Di Cola di Giuseppe Ponissa per la pittura. Di seguito riportiamo le motivazioni lette durante la premiaSabato 29 ottobre si è svol- zione da Adolfo Carozzi della Galleria ta la fase finale del I° Premio ArsWall GlobArt: “Sotto il gelo” di Alessandro indetto da ArsValue, un premio dedi- Di Cola: “Legato a una personale figucato a pittura e fotografia che si è con- razione, generata da una particolare cluso, come è giusto che sia quando si sensibilità, crea con uguale dimestitratta di opere d’arte, con una mostra, chezza l’opera sul piano o nello spain particolare l’esposizione ha presen- zio. Lo sfrontato ed azzardato approctato i 18 lavori dei finalisti. La mostra cio con il disegno e la composizione di sabato, svoltasi presso la Galleria scenografica rileva una indubbia preGlobArt di Acqui Terme (AL), ha visto parazione tecnica. Il lavoro premiato, la presenza dell’Assessore alla Cultura nel tradire una sorta di manualità del Comune di Acqui Terme Carlo congenita, caratteristica è la cifra Sburlati e soprattutto di un numeroso della cucitura, esalta quella che forse pubblico, per la soddisfazione di orga- si potrebbe definire, oltre il naturali-

GALLERIE

Céleste Boursier-Mougenot, “fromheretoear (version 10)”, 2010 Tecnica mista Installazione realizzata per la mostra Céleste Boursier-Mougenot, The Curve Barbican Artgallery, Londra, febbraio-maggio 2010 Fotografo: Lyndon Douglas © Céleste Boursier-Mougenot Courtesy galerie Xippas


smo arcangeliano, un ritorno all’amore per il paesaggio proprio di una debolezza tutta e sempre italiana, affrontato con personale e riconoscibile ricerca degli esiti sorprendentemente piacevoli”. “Le depit amoureux” di Carla Ponti: “La ricerca sul reale, la spinge attraverso il particolare ad attribuire agli oggetti un’altra dimensione percettiva, essi si liberano in sostanza della loro esistenza per generare una nuova forma. L’opera premiata esalta con la manipolazione della realtà una diversa percezione suscitando nell’osservatore curiosità ed ammirazione nell’equilibrato e delicato gioco di forme e colori”.

Altavilla ATLANTICA ARTE CONTEMPORANEA BRUNO LUCCA - IL PORTO DELLE NEBBIE chiusa il 12 Novembre 2011 di Enrico Migliaccio La Galleria Atlantica Arte Contemporanea di Altavilla, Vicenza ospita "Bruno Lucca. Il porto delle nebbie". La mostra è liberamente ispirata dall'omonimo romanzo di Georges Simenon pubblicato nel 1932, uno dei 76 dedicati alle inchieste del commissario Maigret. “Il romanzo - afferma Lucca - è ambientato nelle nebbie di Ouistreham, un piccolo villaggio di pescatori, in un'atmosfera che non si può definire 'sinistra' perché è un'altra cosa, una vaga inquietudine, un'angoscia, un'oppressione, la sensazione di un mondo sconosciuto al quale si è estranei e che continua a vivere di vita propria intorno a noi. Ed è a queste sensazioni che mi sono ispirato per questo ciclo di lavori nei quali ho cercato di dare corpo a queste impressioni, raffigurando soprattutto narrativamente ma anche psicologicamente le suggestioni visive di cui il romanzo è ricco”. Dalle emozioni nascoste nel libro, l'artista, ha realizzato una ventina di quadri sublimando le parole rendendole vere, reali, osservabili. Un'inusuale capacità di toccare con la mente paesaggi e oggetti chiusi nelle pagine, intrappolati dall'inchiostro e poi tradotti in opere d'arte. La mostra ha evidenziato la sottile linee che unisce l'arte alla vita, dando alla letteratura un importante riscatto sociologico seguendo un percorso del tutto nuovo e accattivante. Nato a Nove, Vicenza, Bruno Lucca, nel 1961 si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia nel corso di pittura del maestro Emilio Vedova. È stato assegnatario, all'inizio degli anni Novanta, di uno studio della Fondazione Bevilacqua La Masa a Palazzo Carminati, Venezia. Nel 2010 è finalista al Premio Giovani Collezionisti nell'ambito della fiera Roma. The Road to Contemporary Art presso il Macro Future. Vive e lavora a Vicenza in un ex complesso francescano. Sviluppa una tecnica strettamente personale, riconoscibile e non comune. Elementi basilari nella pittura vengono reinterpretati; “da alcuni anni - spiega l'artista - lavoro occupandomi di temi quali l'identità, la diversità, l'apparenza, l'illusorietà, ma anche la perdita, la caducità, l'effimero, l'oblio. Tecnicamente dipingo utilizzando prevalentemente dell'olio di lino, il normale medium della pittura tradizionale, che steso su tessuto si espande formando un leggero alone che contorna le figure o le forme dipinte. Questo mi consente di operare per sottrazione rappresentativa,

restituendo solo evanescenze o ombre dei soggetti raffigurati, evocando figure o forme ben visibili declinate con fermezza ma nello stesso tempo inconsistenti, senza materialità corporea, come sospese tra presenza e assenza, apparenza e verità”. La personale è seguita da un gallerista che si allontana dal vecchio e passato stile espositivo, Paolo Rigon. La professionalità e la curiosità che solo la passione può trasmettere, lo ha spinto a viaggiare in molti paesi per assorbire input poi trasmessi nella sua galleria. Una location che va assaporata, osservata, mangiata. Pochi in Italia hanno avuto il coraggio di remare contro corrente, rischiando e mettendosi in gioco fino in fondo, Rigon è uno di questi. Sono evidenti le forti capacità curatoriali e la maniacale selezione dei particolari. “Ho aperto Atlantica Arte Contemporanea nel 2007 - ci dice Paolo Rigon - a pochi metri da un’autostrada. Dalle finestre si vedono automobili viaggiare veloci. Anche l’arte contemporanea corre veloce e per seguirne i cambiamenti occorre essere sempre in movimento. Per questo motivo mi muovo nel mondo alla ricerca di nuovi pittori come Radu Comsa, Shinko Okuhara, Salvo, Gabriele Turola, Andro Semeiko,

doppia personale di Bronek Kozka e Pauline Anastasiou, inaugurata il 7 ottobre nell’ambito di “Start”, la riapertura contemporanea di tutte le gallerie genovesi, indaga dall’interno il sogno di una vita perfetta nel paese dagli spazi sconfinati, rivelando l’insondabile che si nasconde dietro il mito della vita familiare e della società suburbana.

che non è stata progettata con uno storyboard, ma sognata sulla base di una sensibilità estetica formatasi su fotografia e cinema e che volutamente rivela come proprie fonti, come il cavallo di Muybridge che appare senza cavaliere. I suoi video, girati in Super 8, Video 8 e video digitale indagano i margini che ha personalmente sperimentato, quelli dell’emigrazione

Bronek Kozka, “Sunshine House” Courtesy Vision Quest

Bruno Lucca Julian Opie, Stefano Abbiati, e oggi Bruno Lucca. Vengono dal Giappone e dall’Inghilterra, dalla Romania e naturalmente dall’Italia. Hanno in comune la ricerca in ambito pittorico, una matrice figurativa in linea con i linguaggi contemporanei. Metto a disposizione la galleria affinché ognuno di loro possa interpretare questo spazio come meglio crede. Il viaggio di un quadro parte dallo studio dell’artista e prosegue fino a raggiungere le pareti di un museo o quelle di un collezionista. Atlantica, come l’autostrada qui di fronte, nasce per mettere in comunicazione, per facilitare la circolazione”. In esposizione anche copie del libro "Il porto delle nebbie", che in Italia è pubblicato dalle Edizioni Adelphi. Ogni romanzo è stato personalizzato da Lucca con una dedica pittorica, regalandoci la vera sensazione che arte e letterature si fondano in un qualcosa di superiore. L'originalità dell'evento è provata da alcuni cadeaux molto significativi. Sassolini, conchiglie, piccoli legni che riportano frasi del libro. Un continuum della storia che ci segue ed entra nella nostra vita di tutti i giorni. Oggetti comuni, genuini, armonici, un mezzo comunicativo che si lega alla tecnica dell'artista non articolata e complessa ma che semplicemente stupisce.

Genova VISIONQUEST GALLERY PAULINE ANASTASIOU E BRONEK KOZKA THE AUSTRALIAN DREAM… fino al 10 dicembre 2011 di Alessandra Gagliano Candela Da VisionQuesT a Genova è di scena il sogno australiano. La

Negli scatti di Kozka, preparati come set cinematografici con una perfezione estetica volutamente eccessiva, giovani ed adulti vengono colti in momenti della loro vita quotidiana, a cena, mentre scendono dalle auto per entrare in casa, seduti sul divano, o intorno a un tavolo. Sono fermo immagine di grandi dimensioni, stampe lambda su D-Bond, che assumono la pregnanza di quadri, e che in qualche modo invertono l’antica diatriba tra pittura e fotografia. Kozka mette in scena racconti ai quali non si sfugge: osservandoli è inevitabile ricordare certi films degli anni Cinquanta e Sessanta, le pubblicità nelle quali tutto è perfetto. La raffinatezza del suo lavoro genera al primo impatto un effetto rasserenante, ma ad una osservazione più approfondita si avverte che non tutto è come sembra: a queste tavole imbandite, in queste auto smaglianti, in questi salotti dall’ordine immacolato c’è un ospite invisibile, eppure ben presente, l’inquietudine. Come dice l’artista, si rivela che il sogno australiano, è appunto un sogno e la perfezione estetica fa emergere quel che si nasconde sotto i ‘suburbia’, legami familiari e comunicazione, isolamento, sospetto e paura, particolarmente presenti dopo l’11 settembre. Nei video di Pauline Anastasiou scorrono momenti di vita familiare scelti e montati fra le ore ed ore da lei girate ai suoi figli in un continuum visivo nel quale le immagini, talvolta sovrapposte, generano effetti straordinari. Un fluire ipnotico nel quale la memoria costruisce un traitd’union tra le riprese effettuate da lei e quelle compiute da suo padre nel corso della sua infanzia, che si intrecciano a comporre un album familiare attraverso due generazioni. Anastasiou delinea così una storia più ampia ed insieme compie una riflessione cosciente sul luogo eterotopico, il luogo che ospita i margini del quale parla Foucault, in un’opera che come afferma lei stessa, miscela conscio e inconscio sul filo del sogno. Un’opera

e della morte e ri-immaginano la sua famiglia con la coscienza che la scelta degli spezzoni da montare costituisce già una manipolazione della realtà. Bronek Kozka e Pauline Anastasiou sono entrambi australiani di seconda generazione, vivono a Melbourne, dove insegnano fotografia presso il RMIT( Royal Melbourne Institute of Technology), hanno all’attivo numerose mostre e pubblicazioni, Kozka è stato finalista di premi prestigiosi come l’Hasselblad Masters Award nel 2008, Anastasiou ha svolto conferenze a partecipato a pubblicazioni anche a livello internazionale. “The Australian Dream” è una mostra raffinata e ricca di spunti che vale la pena di essere visitata.

Milano GALLERIA PACK ANDRES SERRANO - HOLY WORKS chiusa il 19 Novembre 2011 di Giulio Cattaneo Dopo l’abbuffata di “Start”, dove tra raffinate portate si insinuano silenziose un insieme di pietanze avariate, la Galleria Pack ci offre sul piatto d’argento una, ma con facilità potremmo definire l’unica, tra le mostre più interessanti di questo ammorbante periodo milanese, che dura ormai dalla primavera scorsa, la personale di Andres Serrano che presenta in anteprima nel nostro paese la sua nuova fatica, “Holy works”. Amato e allo stesso tempo bistrattato, disprezzato, da critica e pubblico, Serrano crea scandalo dividendo l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori dall’ormai lontano 1987, anno della sua “Piss Christ”, la celebre fotografia di un crocifisso immerso nell’urina dell’artista, che contribuì a lanciarlo nello star system dell’arte contemporanea. Vincitrice di un concorso nel 1989, la fotografia fu subito al centro di un dibattito al Senato degli Stati Uniti, subì un atto vandalico in Australia, un attacco naziskin in Svezia nel 2007, e lo scorso aprile un colpo di martello nell’esposizione avi-


gnonese “I Believe in Miracles”, per mano di un gruppo di integralisti cattolici. Serrano è sotto accusa, con altri artisti, anche nell’ultimo pamphlet, L'hiver de la culture, del critico Jean Clair, che lo accusa di “fare l’elogio della spontaneità e della violenza” e di realizzare opere mostruose, informi, senza vita, “con un gesto portato all’estremo limite”. Negare che Serrano si occupi di macabro, morte, ma allo stesso tempo anche di vita, è assurdo e paradossale, sarebbe negare l’essenza del suo lavoro; certamente non possiamo e non vogliamo nemmeno limitare la sua attività ad una semplice e pura provocazione, alla sola volontà di far parlare, di andare con-

bilità di studiare la composizione, non di essere lo spunto per la tematica: l’interesse è verso l’ordine in cui sono disposte le figure, a partire dal centro, da Cristo. Non solo da Leonardo, Serrano prende spunto anche da Piero della Francesca e Caravaggio, molto spesso viene accostato all’autore lombardo soprattutto per l’utilizzo e lo studio che fa nei suoi ritratti della luce, ricercati dal fotografo nel suo Grand Tour dei musei italiani, alla ricerca della tradizionale arte sacra del quattro-cinquecento. “Piuttosto che distruggere le icone sacre”, spiega Serrano, “io le reinvento e le rafforzo”. C’è in tutta la sua produzione una volontà dichiarata di essere riconosciuto dall’autorità ecclesiastica come

Andres Serrano, “Crucifix” Courtesy Galleria Pack tro la Chiesa, la morale. Di colpire là dove la fotografia tocca cuore, anima e cervello, grazie alla sua schietta e fredda spontaneità. È lo stesso Serrano, sulle pagine del Corriere della Sera, a rispondere agevolmente a Clair, accogliendo con favore i commenti del critico francese, già direttore del Museo Picasso, ribadendo però di non esaltare violenza e mostruosità ma piuttosto di credere “nel potere dell’arte di emozionare e illuminare”. La mostra allestita alla Galleria Pack presenta un artista molto lontano da come lo avevamo visto nella sua ultima presenza milanese, al PAC nel 2006, dove era esposta in esclusiva una selezione delle macabre fotografie tratte dalla serie The morgue. Ormai distante dalla volontà più o meno dichiarata, ma sicuramente evidente, di un’iconoclastia tipica di molti cicli passati, in “Holy works” prevale un interesse verso una personale lettura della pittura italiana quattro-cinquecentesca che attualizza grazie alla sua tipica maniera stilistica, da copertina patinata, ma anche attraverso l’utilizzo di personaggi presi all’interno della cerchia degli amici e conoscenti che riportano le tipiche caratteristiche somatiche di quel melting pot newyorkese da sempre protagonista delle sue fotografie. Accoglie i visitatori l’immensa ultima cena, ispirata dall’affresco leonardesco, composta da tredici pannelli fotografici disposti lungo tutta la parente d’ingresso della galleria. Volti fieri, ritratti tipicamente vicini alla sua poetica. Solo Cristo ci osserva, gli apostoli, anche se Serrano stesso dichiara di non aver mai associato questi ritratti direttamente alle figure bibliche, sono tutti in stretta relazione con lui, mai con lo spettatore. La ricerca è tutta incentrata sulla composizione, sul dialogo tra i volti, tra i vari personaggi; la ricerca è sulle emozioni. Leonardo offre a Serrano la possi-

uno dei più importanti artisti religiosi del suo tempo; anche per questo motivo “Holy works” appare fin dalla prima lettura come uno dei più importanti e sentiti cicli dell’artista newyorchese. Etichettato spesso come l’anticristo, Serrano si dichiara cattolico, non praticante, e pone come nuovo obbiettivo del suo lavoro quello di aggiornare il linguaggio iconografico della Chiesa, storicamente ricco di immagini ma ormai senza valore comunicativo, lontano sia dalla comunicazione sia dall’arte contemporanea, sperando di riuscire addirittura a lavorare ed ad essere apprezzato dal Vaticano. Che la provocazione sia davvero finita? Che non ci sia mai stata? Come se riflettere sulla morte, sulla religiosità, sugli escrementi (come nel ciclo “Shit”) e l’uso dei fluidi corporei, fosse dissacrante e provocatorio a prescindere? Se non possiamo definire quella di Serrano una radicale inversione di marcia, è comunque evidente un cambiamento nella trattazione delle tematiche, in questo caso quella prettamente religiosa; le tanto aspettate ‘provocazioni’ hanno lasciato il posto alla pura ricerca estetica. Continuando a trarre spunto dai meccanismi della pubblicità, le sue immagini sono studiate nei minimi dettagli; dalla luce, come già sottolineato di derivazione caravaggesca, alle pose, ai volti dei personaggi, alla scelta dei colori accesi e dei pochi ma fondamentali elementi iconografici. Si inseriscono perfettamente in questa concezione il trittico “Stations of the cross”, che presenta Gesù durante la via crucis, mentre sostiene la croce; ritratto senza sofferenza ma riflessivo e pensieroso, lontano dai canoni estetici dell’iconografia religiosa più classica. In “Crucifix 1-2”, Serrano si confronta con il tema della crocifissione sperimentando un dittico in cui nel pannello di sinistra troviamo Maria,

avvolta in uno studiatissimo panneggio di rinascimentale memoria, stagliarsi su di un limbo nero, mentre in quello di destra scorgiamo solamente la parte inferiore delle croce, massiccia, pendere dall’altro, invisibile. Serrano raggiunge l’unione completa di ricerca pittorica, fotografica e pubblicitaria, in un lavoro potente ed evocativo nella sua estrema ma complessa semplicità. Si ricollega alla contemporaneità il ritratto “Mother and child”, realizzato mentre in America scoppiava il caso di Casey Anthony, la donna accusata di aver ucciso la figlia Caylee di tre anni ritrovata morta in una borsa; “una strana coincidenza” sottolinea Serrano che in quel periodo stava proprio lavorando al ritratto. Sicuramente più emozionanti e spiazzanti i ritratti “Christ-The scream”, dove Cristo è ripreso con gli occhi rivolti verso il cielo, il volto irrorato di sangue, mentre lancia un urlo disperato diretto al padre e “Blood Madonna”, dove Maria, ritratta in estasi, lacrima sangue levando anch’essa gli occhi al cielo. Pura e classica la bellezza della “China Madonna” che riecheggia le donne ritratte da Gauguin senza però dimenticare i più classici schemi derivati dalla pittura del rinascimento italiano. Appare evidente, analizzando le opere, un attento studio compiuto da Serrano sulla Storia dell’arte europea; partendo dal sempre citato Caravaggio, ritroviamo anche interessanti parallelismi con Ribera, Antonello da Messina, Velázquez, Lorenzo Lotto, Murillo e Giorgione.

Torino GALLERIA FRANCO SOFFIANTINO ANAWANA HALOBA - SOLO SHOW chiusa il 22 ottobre 2011 di Angiolina Polimeni

Private Became Public”, è un opera filmica che si svolge sullo sfondo dell’arido deserto australiano e ha come protagoniste, cinque donne provenienti da differenti contesti culturali. Questo lavoro, straordinaria riflessione sulle ideologie pre femministe in diretto collegamento con la nostra contemporaneità, si ispira ad una serie di avvenimenti rivoluzionari che hanno condotto le donne a superare la dimensione privata per entrare attivamente in quella pubblica, a loro generalmente preclusa. L’opera racconta il riscatto di una popolazione rinchiusa in compartimenti stagni senza possibilità di interazione diretta con la realtà circostante e mette in evidenza una precisa politica di sostegno e di promozione dell’indipendenza. Il primo nuovo progetto, intitolato “The Oracle”, è una grande installazione site-specific che simula una sala di consulenza all’interno di un ambiente che riproduce la tipologia abitativa di una favela. Vi è un immensa attenzione per il minimo dettaglio, tutto è riprodotto con cura maniacale per cercare di chiarire ed approfondire le dinamiche sottese al mondo in via di sviluppo. L’artista si fa portatrice di un evidente illusione di realtà trasformata in strumento di previsione universale per tutti i popoli. Mentre “Say It As It Is” è una performance nella quale gli interpreti riscrivono e raccontano un'altra volta tutte le sensazioni risvegliate dalla colonizzazione, in particolare occidentale. È un opera di grande potenza che testimonia l’intima fusione e l’imposta compenetrazione vissuta fra i mondi e le culture in oggetto. Tra le precedenti opere di Haloba, da ricordare per definire con maggiore attenzione il suo lavoro, figura “Lamentations” - 2006/08, opera nella quale l’artista traccia con la propria lingua delle mappe su una superficie ricoperta di sale; perfetta metafora capace di descrivere le enormi barriere culturali e le inevitabili difficoltà linguistiche degli immigrati. All’interno del progetto “Art, Ecology & the Poltics of Change: Still Life”, co-curato da Jack Persekian, Jonathan Watkins ed Eva Scharrer, durante 8° Sharjah Biennial - 2007, Anawana Haloba presenta “Road Map”: un'installazione scultorea e sonora interattiva che indaga nel panorama politico del Mediorientale durante la tragica guerra in Iraq, nella

Il 22 settembre 2011, presso la Galleria Franco Soffiantino, si è aperta la prima mostra personale italiana dedicata all’opera dell’artista norvegese e originaria dello Zambia, Anawana Haloba: “My lips are sealed”. Le opere di Anawana Haloba (Livingstone, Zambia - 1978) si fondano essenzialmente sull’uso costante del proprio corpo come mezzo performativo e sulla realizzazione di intense installazioni video ed audio. Il lavoro di questa giovane artista si svolge sul filo di una costante ed ardua riflessione sul destino umano oltre alle tradizionali convenzioni del politically correct. Tutte le sue opere analizzano gli stati e le relazioni esistenti fra differenti comunità all'interno dei più disparati contesti politici, socio-economici e culturali scatenando un forte impatto emotivo nello spettatore che viene così travolto dalla profondità della sua Anawana Haloba, “When the Private Became Public”, 2008, creazione artistica. video and sound installation, still, In questa sua prima courtesy the artist, rappresentazione Galleria Franco Soffiantino, italiana, l’artista Rijksakademie, Amsterdam, Notam02 Studios, Oslo presenta due nuove opere ed una grande installazione video del 2008 che è incessante provvisorietà presente fra un lavoro commissionato dalla cura- Israele e Palestina e nella frattura trice della 16th Biennal of Sydney - delle relazioni tra Afghanistan e 2008, Carolyn Christov-Bakargiev Pakistan. A Manifesta 7 - 2008, ha (nominata Direttore Artistico di preso parte al progetto “The Rest of Documenta 13 nel 2012). “When the Now”, curato dal Raqs Media


Lesino e Giacomo Maria Prati (www.arcadiarte.org) ed in collaborazione con Stefano Gagliardi (www.galleriagagliard i . c o m ) . L'allestimento con l'utilizzo nel titolo della parola waste (spreco, ma anche rifiuto) vuole indagare l'apertura di questo tema, quanto mai attuale nelle ricerche di venti artisti. L'intento è anche quello di interagire con il pubblico che visiterà l'esposizione, sottolineando non solo l'aspetto ludico, che spesso è legato a questo tipo di opere, ma anche ponendo una riflessione sul consumo critico e consapevole nella società contemporanea. Lo sponsor principale è infatti la società Entsorga s.p.a., che da anni si occupa di smaltimento e compostaggio dei rifiuti e di riduzioni dei materiali inquinanti. Gli artisti presenti in Tortona PALAZZO GUIDOBONO mostra sono: Alessandra Fiordaliso, Andrea Ciresola. Andrea Francolino, WASTE. I RIFIUTI TRA Anna Rita Serra, Antonio De Chiara, SOSTENIBILITA’ ED ARTE Carlo Cane, Cracking Art, Cristiana Cattaneo, Daniela Ferretti, Dario Tironi / Koji Yoshida, Ilaria Morganti, Ivano Vitali, Lorenzo Perrone, Luisa Poletto, Marisa Merlin, Matilde Domestico, Michele Taricco, Renzo Nucara, Shendra Stucki e Simone Fontana. Nella mostra inaugurata il 18 settembre sono presenti oltre cinquanta opere realizzate da artisti di generazione e formazione differente che lavorano con un'inesauribile curiosità nella ricerca delle diverse forme e colori che i rifiuti offrono. Alcuni artisti scelgono di usarli, trasformandoli in canoniche forme d'arte, come Luisa Poletto o Cracking Art Group, “REquiem”, 2011 come le plastiche di Anna Rita Serra, che vogliono ridare un valore estetico a questi oggetti chiusa il 23 ottobre 2011 dimenticati. Altri li hanno descritti di Rita Salis nelle tele, come Michele Taricco, Fin dagli inizi del Andrea Ciresola e il giovane Simone Novecento con le avanguardie stori- Fontana che li fa diventare delle clasche, gli artisti si sono avvicinati agli siche e ben composte nature morte. oggetti che la società scartava e Colpisce per l'ironia, ma al tempo abbandonava per farli rivivere attra- stesso per la sua profonda critica il verso l'arte. Da allora questo interesse lavoro dell'artista barese Andrea non si è più fermato e gli artisti hanno Francolino. continuato ad usare gli scarti e la Inoltre i rifiuti sono diventati in quespazzatura in infinite declinazioni sti anni con il design ecologico una compositive, utilizzando qualsiasi forma espressiva che è diventata una tipo di materiale e qualsiasi tecnica, vera e propria moda, questo interesse creando dipinti, sculture e installazio- è testimoniato dalla presenza in ni molto diverse tra loro e che spesso mostra di oggetti di arte applicata, di affascinano e catturano l'attenzione design e di gioielli come le opere readel pubblico, anche di chi solitamente lizzate da Alessandra Fiordaliso e non si avvicina all'arte contempora- Marisa Merlin, o come Ivano Vitali nea. Nell'ultimo decennio questo che dalla carta dei giornali crea enortema è diventato ancor più uno stimo- mi arazzi e oggetti d'ogni tipo e forma. lo per la creazione artistica, non è infatti soltanto usato come critica sociale o come simbolo della modernità o con vivace ironia. È quindi un London tema che si presta ad infinite variazio- WHITECHAPEL ART GALLERY ni, anche per la duttilità che questi WILHELM SASNAL materiali offrono e proprio di questo fino al 1 gennaio 2012 aspetto si occupa l'interessante di Manu Buttiglione mostra che si tiene a Tortona nel L’autunno londinese semPalazzo Guidobono dal titolo “Waste. bra essere dedicato alla pittura con I rifiuti tra sostenibilità ed arte”. La mostra, nata da un'idea di Gerhard Richter alla Tate Modern, Cristiana Cattaneo, è curata da Paolo Frank Stella da Haunch of Venison e Collective. In quest’occasione Haloba ha realizzato un'installazione sonora intitolata “The Air Between Two Women”, opera nella quale si assiste ad una conversazione tra lei e Francesca Grilli, basata sull’espressione ‘residuo’ come riferimento all'esperienza umana. Si conclude questo veloce excursus con la 53° Biennale di Venezia - 2009, evento nel quale Haloba ha presentato “The Greater G8 AD MARKET (GG8)”: un'installazione interattiva, scultorea e sonora che si trasforma in spazio di vendita per falsi prodotti in promozione dei membri del G8. Manifesta critica politica, affrontata sotto una prospettiva personale volta a sottolineare gli illegittimi diritti acquisiti dai leader mondiali e delle loro politiche, è un lavoro per ricalcare la logica ed i desideri di una politica completamente trasportata nella dimensione fantastica del sogno; una dimensione nella quale l’artista ridefinisce le regole di scambio e ove è possibile proporre e vedere fatui prodotti derivanti dal commercio equo solidale del Terzo Mondo.

ESTERO

Wilhelm Sasnal ben due pittori ospiti alla Whitechapel, Mark Rotcho e Wilhelm Sasnal. Inevitabile allora la domanda: cosa significa fare pittura oggi? A risponderci è proprio il più giovane degli artisti prima citati, Wilhem Sasnal, con la sua prima ampia retrospettiva nel Regno Unito, a cura di Achim Borchardt-Hume. Sasnal, polacco, classe 1972, è diffusamente considerato uno dei più interessanti pittori contemporanei per la sua abilità di esplorare le potenzialità del medium e di declinarlo alla complessa esperienza del mondo d’oggi. La mostra alla Whitechapel si propone dunque di ricostruire l’ultimo decennio della carriera dell’artista attraverso una selezione di sessanta dipinti e quattro video, commentati dalle parole dell’artista tramite citazioni dall’intervista in catalogo che, come note al testo pittorico, ci guidano alla scoperta dei meccanismi alla base del suo modo di fare arte. L’immensa passione per la pittura e l’estensiva conoscenza della storia dell’arte hanno condotto l’artista ad un personalissimo stile che, pur rifiutando ogni tipo di accademismo, fonde un’attitudine pop a citazioni romantiche, rimanendo in bilico tra astrattismo e realismo. Sasnal non ama cimentarsi in puri esercizi di stile ma s’impegna piuttosto a trasportare sulla tela le esperienze visive di ogni giorno. Come in Masi, un’imponente composizione geometrica, apparentemente astratta, che prende forma invece dalla rielaborazione di un ricordo, l’insegna del negozio dove l’artista ha incontrato per la prima volta sua moglie, che continua a far parte della sua quotidiana routine. Memorie personali, istantanee di momenti passati insieme alla sua famiglia, si alternano ad aspetti dell’attualità e flashback dal passato controverso della sua Polonia. Le immagini ostinatamente proposte dai media, come la famosa fotografia di una giovane sopravvissuta al recente Tsunami in Giappone, sono rese uniche attraverso l’utilizzo del medium pittorico ed elevate ad icone del mondo contemporaneo sfruttando l’oliato meccanismo della Pop Art. L’idea di riconnettere la pittura all’esperienza quotidiana ha distinto infatti la pratica di Sasnal sin dal 2001, con la serie ispirata a Maus, il celebre fumetto di Art Spiegelmann sull’Olocausto. In questi lavori, l’artista riprende i tratti sintetici dei personaggi ingrandendoli alla misura della tela, eliminando ogni dialogo a sfrut-

tare la potenza evocativa delle immagini. È una pittura essenziale quella di Sasnal fatta di ampie superfici monocrome e di acuti contrasti luminosi. Le larghe pennellate e i segni veloci sono eseguiti in modo da contrastare la staticità della tela, aggiungendo dinamismo alla composizione. Brillante esempio ne è “Power Plant in Iran”, dove dal profilo essenziale di una centrale nucleare si propaga una potente colata di colore che rompe l’azzurro polveroso dell’atmosfera, ad additare senza mezzi toni l’argomento principale della composizione. Alle qualità cinetiche del lavoro dell’artista polacco è dedicata l’ultima sezione della mostra, che ospita dipinti ispirati al cinema e alla fotografia insieme ad una selezione di brevi video dove l’immagine in movimento viene utilizzato per veicolare una riflessione sul medium della pittura e viceversa. I lavori esposti alla Whitechapel ci mostrano come un dipinto è di volta in volta una prova da superare, una lotta che si fa con e contro il mezzo pittorico per tradurre efficacemente una sensazione visiva, che sia impressa nella memoria o esperita nel quotidiano, sulla superficie della tela. La pittura secondo Sasnal oggi come ieri non può essere intesa come una pratica solitaria o qualcosa che si fa ritirandosi da tutto, ma è un impegno ad essere presenti ed un’ulteriore testimonianza dell’attitudine, indubbiamente contemporanea, a rimanere connessi con il resto del mondo.

London SOUTH LONDON GALLERY GABRIEL KURI: BEFORE CONTINGENCY AFTER THE FACT chiusa il 27 Novembre 2011 di Stella Kasian Lo scorso Ottobre le sue sculture in metallo colorato si staglia-

Gabriel Kuri vano sul verde di Regent’s Park. Collocate agli ingressi della struttura che ospitava Frieze Art Fair, le opere di Gabriel Kuri sostituivano i più comuni posacenere messi a disposizione del pubblico. Quest’anno l’artista messicano si è mosso dalla parte opposta di Londra, fuori dal centro e dal glamour della settimana dell’arte. Nelle sale della South London Gallery, nella periferica zona di Peckam, qualcosa però rimane a fare eco al progetto del 2010, e non sono i mozziconi di sigaretta. La personale ospitata dalla galleria, nota per i suoi temerari programmi espositivi, intraprende un’attenta riflessione sul concetto di scultura, che salvaguardata nella sua forma più pura e minimalista, viene però mostrata in originali espressioni, ‘contaminata’ da elementi di uso comune. Pensiero e materia, come sempre, sono i punti di partenza della ricerca


dell’artista messicano. Le opere in mostra da una parte indagano la nozione comune di casa e le conseguenti questioni economiche, private e pubbliche, ad essa legate; dall’altra rimangono fedeli a studi più propriamente artistici, interrogandosi sul rapporto fra superfici dure e morbide, fra interno ed esterno. “Untitled (Extra Safe)”, è la rappresentazione di una lieve bolla d’aria in bilico fra due mondi, quello della scultura classicamente (o meglio, modernamente) intesa e l’idea di un’arte scultorea che esca dai propri limiti coinvolgendo la vita quotidiana. Gabriel Kuri è famoso per la scaltrezza nel maneggiare gli strumenti del consumismo occidentale a suo uso e piacimento. Carte di credito giganti, fatte a pezzi, costituiscono le unità di misura di creazioni a metà fra il serio ed il faceto, fra l’installazione rigorosamente studiata e l’affastellamento di elementi fuori misura difficili da classificare. L’artista, residente da anni a Bruxelles, è capace di generare incredibili quanto efficaci equilibri in lavori di grande efficacia comunicativa. Ciò che la società produce e poi distrugge viene recuperato e riscattato dal suo valore effimero. Famosi i collages realizzati utilizzando scontrini e tickets eliminacoda, ultimo degli ultimi l’immagine curata per la passata edizione dell’Armory Show di New York. Un lavoro quasi tassonomico che ritroviamo anche nella galleria

rifiuti della società che si accumulano prima ancora di essere tali. La nostra civiltà è tutta lì, nella più che mai autentica scultura di Gabriel Kuri.

Paris TORNABUONI ART ENRICO CASTELLANI RETROSPETTIVA fino al 17 dicembre 2011 di Martina Favali

Enrico Castellani si appropria dello spazio Tornabuoni Art, Parigi. In mostra una retrospettiva che ripercorre il lavoro dell’artista dagli anni sessanta fino ad oggi. Ad attrarre immediatamente lo sguardo è “Dittico rosso”, datato 1963, portavoce del nuovo linguaggio visivo codificato da Castellani già dal 1959, anno in cui realizza la prima superficie in rilievo, monocroma ed ‘estroflessa’. I chiodi piantati sul retro della tela, consentono l’esposizione verso l’esterno di alcune zone e l’apparente depressione delle altre non trattate. Lo spazio espanso di Castellani accoglie così luce ed ombra, concavità e convessità, positivo e negativo insieme, è il risultato compiuto di una ricerca o, come dirà l’artista stesso, di un ‘bisogno di assoluto’. La necessità porta Castellani a pensare “il possesso di un'entità elementare, linea, ritmo indefinitamente ripetibile, superficie monocroma” come indispensabile “per dare alle opere stesse concretezza di infinito […]”. Si ha quasi l’impressione di sentirlo quel ritmo, chiaro e cadenzato come fosse scandito da un metronomo. I primi anni sessanta sono anni di sperimentazione, gli anni di Fontana, di Burri, di Manzoni. Gli anni che ne faranno e per sempre uno dei maestri della storia dell’arte italiana. Allora Castellani prova le tante articolazioni delle sue superfici, aggettanti, angolari, sagomate. E allo stesso modo le declinazioni cromatiche vanno dal nero al Enrico Castellani, "Superficie argento", 2005 rosso, e ancora giallo, Acrylique sur toile enfoncée et soulevée, 80x80 cm argento e bianco. copyright: Tornabuoni Art Bianco, bianco soprattutto, bianco londinese. che non è colore per Castellani, ma Uscendo dalla sala principale tramite non colore: “[…] Come nella trattazio“Untitled (Openining)”, topico punto ne delle superfici delle mie opere di passaggio fra dentro e fuori, nel tendo a fare qualcosa il più oggettivo Clore Studio su tavoli votivi scarti possibile, così avviene per il colore. Il riportati in vita ed immacolate creatu- bianco è il colore o meglio il non-colore della produzione di massa sono re che rende più sensibile questa messi insieme ed idolatrati. Saponette oggettivazione". E le superfici bianconsunte e posacenere pieni di siga- che restano opere illuminate, la sinterette spente fanno compagnia a botti- si intensa e viva della visione di glie d’acqua minerale sigillate. Il senso Castellani, del suo linguaggio artistiutilitaristico dell’oggetto si fa da parte co. Un linguaggio che non cessa di per dare voce ad a tutto il potenziale evolversi nel tempo, testimoni i lavori simbolico. Come in un gioco di parole, più recenti come Superficie argento Kuri giustappone elementi apparente- del 2005. Le pareti di Tornabuoni Art mente incongruenti per rivelarne un sono animate, Enrico Castellani le significato inedito. Il titolo della anima. Entrando si condivide uno mostra “Before contingency after the spazio, non lo si scruta da lontano, fact” parla chiaro. Dietro la casualità bisogna esserne parte. si annida la realtà, dietro il sacro il profano, dietro il caduco il concreto. Berlin La nostra civiltà è tutta lì alla South KW INSTITUTE London Gallery: l’intimità di una casa, FOR CONTEMPORARY ART il sistema economico messo in crisi SEEING IS BELIEVING dal meccanismo del credito, la paura chiusa il 13 novembre 2011 di esaurire i beni di prima necessità, i di Mario Margani

Il KW presenta con “Seeing is Believing” una riflessione sul ruolo, il potere e lo statuto dell’immagine filtrata dai media, a pochi mesi dall’apertura della 7th Berlin Biennale for Contemporary Art (21 aprile 2012) che prende come punto di partenza il ruolo dell’arte contemporanea nel campo dell’attivismo sociale e politico. I 24 artisti invitati dalla curatrice Susanne Pfeffer hanno concentrato la propria ricerca nel corso degli ultimi anni su alcuni degli eventi, degli oggetti, delle paure e delle immagini (reali, fantomatiche o pretestuose) che hanno segnato l’ultima decade e che sono spesso già storicizzati anche grazie al potere dell’immagine nel rendere credibile ciò che razionalmente non sembrerebbe verosimile. Nonostante il tema non si segnali per la sua novità, alcuni dei lavori in mostra segnano un interessante aggiornamento nell’approfondimento di un tematica già ampiamente trattata in ambito sociale, artistico e filosofico. L’installazione “Phantom Truck” (2007) di Iñigo Manglano-Ovalle (1961, Spagna) occupa per intero la grande Hall del KW, per l’occasione totalmente oscurata. Immergendosi nell’oscurità, dopo alcuni minuti il visitatore intravede una ricostruzione platonica 1:1 del camion la cui sfocata foto satellitare nel 2003 fu presentata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da Colin Powell, allora segretario di stato USA, come prova dell’esistenza in Iraq di un laboratorio mobile per lo sviluppo di armi biologiche di distruzione di massa e di conseguenza come giustificazione per la seconda guerra del Golfo. Niente di simile fu mai ritrovato e due anni dopo lo stesso Powell dichiarerà l’inattendibilità delle fonti. Nonostante la fredda accoglienza della comunità scientifica e dell’Onu, la tesi del laboratorio mobile corredata da foto e ricostruzioni artificiose divenne una delle ‘prove’ dell’esistenza di un pericolo per gli USA. Così poche settimane dopo Bush trovò l’appoggio del proprio popolo, psicologicamente provato dall’11 settembre, per dichiarare guerra all’Iraq. Gli attimi precedenti l’annuncio ufficiale di inizio dell’operazione “Shock and Awe” in Iraq sono al centro dell’omonimo video (2003) di Gianni Motti (1958, Italia). L’emittente televisiva Euro News trasmesse per errore in diretta i minuti precedenti il collegamento, mostrando le espressioni rilassate e talvolta divertire di G.W. Bush intento a ‘provare’ atteggiamenti seri per il suo discorso. Una temporanea falla nel sistema del controllo dell’immagine mediata che manifesta la distanza tra ciò che dovrebbe e ciò che non dovrebbe essere visto. L’oscena realtà fa capolino nel sistema mediatico di narrazione dei fatti trasformando l’uomo più potente al mondo in un attore nel suo momento di pausa tra le registrazioni di una scena da film. Ad un atteggiamento anti-spettacolare si riferisce al contrario “May 1, 2011” (2011) di Alfredo Jaar (1956, Chile). La riflessione sulla sfiducia nella rappresentazione e sull’uso politico delle immagini prende come punto di partenza la notizia dell’uccisione di Bin Laden. La Casa Bianca decise di non utilizzare immagini a testimonianza dell’accaduto e lo stesso Obama chiese al proprio popolo e al mondo intero di ‘credere senza vedere’. A testimonianza della necessità tommasiaca, diverse foto del possibile corpo furono pubblicate online

ed in TV, ma tutte vennero smascherate come fotomontaggi. Jaar mostra quindi la foto più celebre di quella notte di inizio Maggio, con Obama ed il suo team nella Situation Room della Casa Bianca intenti ad osservare le immagini provenienti dal covo di Bin Laden. Una decisione che segna la rottura con l’atavica tradizione della messa al pubblico ludibrio del corpo del nemico sconfitto ed ucciso. Una decisione testimoniata da Jaar con uno schermo totalmente privo di immagine ad affiancare quello con la foto nella Casa Bianca. Khaled Hourani (1965, Palestina) documenta con “The Zebra Copy Card” (2009) l’iniziativa di un piccolo zoo di Gaza city che non avendo la possibilità a causa dell’imbargo israeliano di importare una zebra, ha deciso di sostituirlo con degli asini bianchi dipinti a strisce nere. Impossibilitato a viaggiare verso Gaza perché bloccato a Ramallah, Hourani ha commissionato dunque ai guardiani dello zoo una foto degli asini zebrati. La foto stampata su 10 mila cartoline, è accompagnata dal testo della notizia data dall’agenzia Reuters che spiega come le due finte zebre abbiano fatto la felicità dei bambini di Gaza che affollano lo zoo per godersi la visione di quella che per loro è una vera zebra, non avendone mai viste di vere. L’embargo, al quale la striscia di Gaza è soggetta dal giugno 2007, comincia a plasmare la vita e l’esperienza dei bambini nati in ‘cattività’ perché in un territorio isolato ed il lavoro di Hourani rappresenta paradossalmente come la realtà si possa trasformare in imitazione ed allo stesso tempo essere vissuta autenticamente e inconsapevolmente. Il dialogo tra le fotografie di Taryn Simon (1975, USA) e gli oggetti di Abbas Akhavan (1977, Iran) testimonia il livello di rigidità e di insicurezza che la società occidentale ha raggiunto negli ultimi anni. Simon - presente a Berlino anche con una personale alla Neue National Galerie - con “Contraband” (2009 ongoing) ha già collezionato più di mille foto di oggetti confiscati alla frontiera USA perché considerati pericolosi pur trattandosi, tra gli altri, anche di innocue farfalle. Al contrario con “Makeshift Object” (2008 ongoing) Akhavan presenta una collezione di oggetti di uso comune - tra i quali saponi, spazzolini, carta igienica - trasformati con piccoli accorgimenti in pericolose armi, ricordando l’effettiva impossibilità di ottenere la sicurezza quando è il terrore a dettare le regole. In altri casi la mostra perde parte del suo interesse concentrandosi eccessivamente sul media televisivo e approfondendo i temi della carica ‘sessuale’ delle immagini di guerra e della divisa militare o del tipo di moralità ad essa sottesa. Con lavori fuori tema seppur interessanti, quali “Electric Blue” (2010) di Adrian Paci (1969, Albania), “Re:The_Operation” (2002), Paul Chan (1973, China), “Uniform Attraction” (2008), di Kenneth Anger (1927, USA) “Seeing is Believing” diventa un tentativo in parte fallito di approfondire le radici contemporanee della dicotomia iconoclastia/spettacolo che si manifesta quotidianamente e non più solo attraverso la TV e i mezzi di comunicazione di massa.


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