ARSKEY MAGAZINE 3

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Numero 3 settembre/ottobre| Anno 1 | 2011 | Periodico bimestrale €.5,00

arskey

Oleg Kulik Surasi Kusolwong Fernando Prats Michael Fliri

Speciale 54° Biennale di Venezia Ai Weiwei: la porta verso la libertà Intervista ad Antonia Pasqua Recchia Sondaggio | stato di salute dei musei italiani Public Art in Public Places È la Cina il nuovo leader globale





Afro Basaldella SENZA TITOLO olio, collage su car ta su tela, cm 30x34,5 eseguito nel 1968 â‚Ź 18.000/22.000

Giuseppe Santomaso SENZA TITOLO olio, acrilico e china su car toncino su tela, cm 70x70 eseguito nel 1962 â‚Ź 25.000/30.000

Asta: design, arte moderna e contemporanea / Firenze 7 dicembre 2011 Firenze Borgo degli Albizi 26 - 50122 TEL 055 2340888 FAX 055 244343 pandolfini@pandolfini.it www.pandolfini.it

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“CORAZZIERE DOPO WATERLOO” Bronzo, pezzo unico, cm h 54, 2004


edItORIAle

Un CAne Che ABBAIA VAle PIù dI Un leOne AddORMentAtO Voci parlano di una democrazia sotto scacco, le biennali sono piene di opere il cui polemico tema è un necessario riassetto della nostra economia occidentale a vantaggio di una ridistribuzione democratica del benessere sociale. Alcune biennali riescono a coinvolgere, a volte a commuovere, ma nella maggioranza dei casi non sono progetti ambiziosi in grado di smuovere l'opinione pubblica; c'è bisogno dell'opera d'arte totale. Ma quando, in rari casi, la volontà dell'artista è pura e l'obbiettivo è raggiunto, l'escamotage visivo, per quanto criptico, non sfugge ed è in tali circostanze che torna la tanto temuta censura: l'ambiguità del suo protrarsi ne determina la natura. Si potrebbe addirittura pensare che se l’opera viene censurata vuol dire che è riuscita altrimenti non lo è. Al termine censura soggiace la più profonda delle ambiguità in quanto il suo perdurare agisce come propellente alla denuncia pur volendo essere repressiva riesce solo a sobillare. La soppressione da parte dei governi di una fittizia minaccia al potere fomenta ulteriormente gli animi a unirsi contro l'oppressione. Quindi è la paura dei potenti la stessa minaccia al potere. E nel caso di Weiwei ritroviamo tutti gli elementi necessari a provare tale tesi. La censura del suo lavoro, considerato una minaccia al potere, e il conseguente arresto ha determinato un’onda anomala che si è propagata in ogni direzione senza incontrare alcuno ostacolo se non da parte del governo cinese che in continua ascesa non desidera intromissioni nella politica estera, da parte dei propri cittadini e allora se veramente accadrà ciò che i quotidiani annunciano, se i cinesi entreranno, sostituendosi a leader recentemente decaduti, nel mercato italiano e in quello dell'arte, come potrete constatare leggendo l'articolo “È la Cina il nuovo leader globale” di Nicola Maggi, allora non resta che da chiedersi qual è il prezzo del benessere di cui approfittiamo e chi ne paga le conseguenze? La crescita economica non dovrebbe andare di pari passo con la costituzione di una tavola dei diritti sociali? Ai Weiwei di cui parleremo a lungo in questo numero, nell'articolo “Ai Weiwei: la porta verso la libertà” di Francesca Caputo, si è posto questa domanda denunciando, con il suo lavoro, la mancanza di libertà e la violazione dei diritti civili in Cina. E mentre la società occidentale assiste sbigottita e scandalizzata all'arcaica censura cinese, dimentica la propria decadenza, che è insita in ogni creazione e pertanto apparentemente inevitabile. Gli artisti in tale contesto intervengono misurando la pressione sociale, che esige la dipanazione del groviglio: non dargli ascolto sarebbe un grossolano errore di valutazione. Osserviamo il vicino e dimentichiamo che il nostro giardino non è perfetto. E allora se di crisi si parla, si parla di crollo ideologico, di censura, di necessaria rinascita e rinvigorimento della struttura sociale occidentale: allora forse l'artista è ancora l'animo incontaminato che può aprirci gli occhi perché se questo è per la cultura occidentale il punto di non ritorno, fiaccata dal benessere che l'ha resa egoista e pigra, è facile ipotizzare che anche l'arte di questo popolo abbia raggiunto quello che si può definire come il crash temporale, la rottura della continuità storica e della suo processo evolutivo (o involutivo). L'abbandono della lobby, che impigrisce l'opera e la umilia, è la soluzione. Attraverso questa rottura dolorosa l'arte può rinascere, ripartendo dal basso, là dove ritrova le sue antiche e pure origini. E se abbiamo riscontrato che in molti padiglioni della 54° Biennale di Venezia, si celebra la democrazia non dobbiamo dimenticare che questa, quando la si ha, non la si deve abbandonare alla necessità elettorale del momento ma deve sopravvivere a prescindere dal colore politico, nell'unità sociale che costituisce l'identità nazionale. La parola crisi in giapponese viene formata da due parole 'pericolo' e 'opportunità': sta a noi definire l'esito della storia. Elisa Delle Noci


arskey : n°3 settembre | ottobre 2011

arskey Numero 3 settembre/ottobre| Anno 1 | 2011 | Periodico bimestrale Edizioni ArsValue S.r.l Piazza Porta Torino 13 - 14100 Asti Amministratore Unico: Pierluigi Salvatore Copyright 2011 per edizioni ArsValue. Tutti i diritti riservati. Spedizione in abbonamento postale - art. 2 comma 20/B Legge 662/96 Distribuito su abbonamento, trova i punti di distribuzione su www.teknemedia.net Stampa: Arti Grafiche Boccia S.p.a, Via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84131 Salerno Registrazione: Tribunale di Asti N. 1 del 18.01.2011 Direttore Responsabile: Elisa Delle Noci Vicedirettore: Pierluigi Salvatore Direttore commerciale: Pierluigi Salvatore Responsabile organizzativo: Fabio Molteni Segreteria di Redazione: Giuseppe Ponissa Servizio Abbonamenti e Distribuzione: Cristian Mondino mail: direzione@teknemedia.net Redazione: Arskey via Ticino 19, 10036 Settimo Torinese (TO) mail: redazione@teknemedia.net Tel. 011.19507299 Uffici amministrativi: ArsValue S.r.l. Via Talamoni 3, 20052 Monza Tel. 039.2315043| Fax. 039.3901364 mail: amministrazione@arskey.it

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In copertina: Thomas Houseago “Joanne” 2005 plaster, hemp, steel, graphite 124.5 x 58.4 x 86.4 cm Courtesy the Saatchi Gallery, London © Thomas Houseago, 2011 (sul prossimo numero)


SOMMARIO

Modern & conteMporary art pg 20 Padiglione Italia. Possibile che sia stato così difficile dire di no? di Francesca Pasini e Giorgio Verzotti

pg 21

Illuminazioni di Giorgio Verzotti

pg 25

Padiglioni interessanti, ma la giuria non li vede e premia la potente Germania. di Francesca Pasini

pg 33 Scuola Grande di San Rocco, Venezia. Oleg Kulik, Vespri della Beata Vergine. After Monteverdi di Sibilla Panerai pg 34 C. Marclay, M. Erenbourg, E. Benassi, C. Boltanski. Una Biennale contro le convenzioni di Luca Panaro pg 38 Arsenale Novissimo, Venezia. Federico Diaz - Outside Itself di Sibilla Panerai pg 39 U.S.A - Allora & Calzadilla . Radiografia di una Nazione (su un lettino solare) di Barbara Cortina pg 40 La radioattività estetica della 54° Biennale di Venezia di Antonello Tolve pg 42 Padiglione Cileno. Fernando Prats racconta il Cile con “Gran Sur” di Gino Pisapia pg 44 Eventi Collaterali della 54° Biennale. “Round The Clock” di Valentina Mariani pg 46 Intervista Conversazione con Surasi Kusolwong di Viviana Pozzoli pg 51 Camden Arts Centre. Intervista a Jenni Lomax di Stella Kasian pg 54 Racconti contemporanei. Michael Fliri: il corpo tra maschera e identità di Sara Panetti pg 56 Brancusi e Serra. Tentare il mondo per catturarne l'energia di Francesca Pasini pg 57 Francis Alÿs. Il peplo rosso di Fabiola incendia la casa di Francesca Pasini pg 58 Cartografia. Arte e critica d'arte nell'era del policentrismo planetario di Antonello Tolve

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doSSIer

pg 62

Dossier. Ai Weiwei: la porta verso la libertà di Francesca Caputo Dossier. Strade senza nome, monumenti senza faccia. Come cambiano l’arte e lo spazio pubblico nei Balkani di Claudia Zanfi Contaminazioni. Why Theater? Le arti visive nella sperimentazione teatrale contemporanea di Matteo Antonaci

econoMIa dell’arte pg 80 Sondaggio prima parte segune : stato di salute dei musei italiani di Angiolina Polimeni

pg 85 Le aste di maggio, giugno e luglio: Mercato Italiano dell’arte moderna e contemporanea di Giuseppe Ponissa pg 86 Aste: Sotheby’s, Christie’s e Phillips de Pury: lotta a colpi di Warhol di Nicola Maggi pg 88 Intervista ad: Antonia Pasqua Recchia. Educare al valore del patrimonio culturale di Letizia Guadagno pg 91 Difesa del patrimonio: Progetto Cultura Intesa San Paolo, un intervento sull’intero territorio nazionale di Laura Luppi pg 93 Fundraising: Come ti attiro il mecenate: una questione di metodo di Nicola Maggi pg 95 Diritto dell’arte: Public Art in Public Places. Intervista ai due giuristi dell’arte Alessandra Donati e Gianmaria Ajani di Annalisa Pellino pg 98 Mercato: è la Cina il nuovo leader globale di Nicola Maggi pg 100 a cura di ArsValue.com Aste in cifre

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recenSIonI 65

pg 106


speciale Biennale di Venezia +

modern & contemporary art

Monika Sosnowska, “Antechamber”, 2011. Para-Pavilion – projections -irregular room covered with wallpaper, finished with skirting board, some stuccos, doors, lamps. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli Courtesy of la Biennale di Venezia

padiglione Italia. possibile che sia stato così difficile dire di no? | Illuminazioni | padiglioni interessanti, ma la giuria non li vede e premia la potente Germania | oleg Kulik | c. Marclay, M. erenbourg, e. Benassi, c. Boltanski. Una Biennale contro le convenzioni | Federico diaz - outside Itself | U.S.a - allora & calzadilla . radiografia di una nazione (su un lettino solare) | la radioattività estetica della 54° Biennale di Venezia | padiglione Israele. Sigalit landau, “one Man's Floor is another Man's Feelings” | “round the clock” | Intervista a Surasi Kusolwong | Intervista a Jenni lomax | Michael Fliri: il corpo tra maschera e identità | Brancusi e Serra | cartografia. arte e critica d'arte nell'era del policentrismo planetario

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arskey/speciale Biennale di Venezia | Padiglione Italia

Santiago Sierra, “NO, Global Tour”, 2009-2011, fotografia in b/n, 100 x 177 cm Courtesy prometeogallery di Ida Pisani, Milano/Lucca.

54° BIennAle dI VenezIA | PAdIGlIOne ItAlIA

POSSIBIle Che SIA StAtO COSì dIFFICIle dIRe dI nO? di Francesca Pasini e Giorgio Verzotti “Questa simpatica manifestazione è dunque frutto dello sforzo intellettuale congiunto di trecento noti personaggi della cultura, moda, spettacolo, che hanno aderito al Monopoli ed hanno indicato, ognuno, un 'artista', non pensando di cacciarlo nei guai e diventando così complici di una operazione che crea il delitto perfetto: ammazzare l'arte italiana per overdose, coprendola di ridicolo, con l'aiuto fornito dalle stesse vittime”. Così scrive Massimo Minini nella sua rubrica su Flash Art, e non si poteva dire meglio. Però i mali non finiscono qui: eran trecento non tutti giovani e non tanto forti, ma quello che colpisce è la “statura” di alcuni intellettuali selezionatori. Non possiamo elencarli tutti, citiamo solo quelli che ci hanno fatto più impressione. Abbiate pazienza perché sono tanti. Andiamo randomly: Mina Gregori, Luca Canali, Paola Capriolo, Carlo Ripa di Meana, Benedetta Craveri, Dante Ferretti, Rosetta Loy,

Angelo Guglielmi, Lorenza Trucchi, Franco Battiato, Ennio Morricone, Salvatore Niffoi, Giorgio Agamben, Tiziano Scarpa, Pietro Citati, Furio Colombo, Salvatore Settis, Salvatore Veca, Miriam Mafai, Ermanno Olmi, Maurizio Cucchi, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Claudio Magris, Dario Fo, Berrnardo Bertolucci, Paolo Mieli, Nico Naldini, Vladimir Luxuria, Tullio De Mauro, Lidia Ravera, Pier Giorgio Oddifreddi, Mariuccia Ciotta. Nei trecento ci sono anche tante mezze calzette, ma anche altri nomi illustri meno riconosciuti e ovviamente molti personaggi di destra. Ci indignano quelli che spesso abbiamo ritrovato in calce agli appelli contro il governo Berlusconi e la sua politica anche culturale. Possibile che non si potesse dire NO? Possibile che non si sia capito che il progetto di Sgarbi è un progetto a sostegno di quella politica? Ci diranno che l’arte è al di sopra degli schieramenti politici, ma queste sono balle: i personaggi appena citati ne

sono perfettamente consapevoli. Inoltre Vittorio Sgarbi è stato nominato direttamente dal ministro Bondi segnalando una (legittima) appartenenza. I commissari di tutti gli altri padiglioni non sono di nomina politica. Quindi c’era materia sufficiente per non aderire a questo progetto, oltre tutto fregiato di un titolo insultante (“L’arte non è cosa nostra”). Insultante perché in un paese come il nostro, ricco di esplicite connivenze, non si può parlare alla leggera di mafia. Insultante per tutti coloro che lavorano onestamente nell’arte. Non stanno qui i mafiosi da combattere. Oggi Pasolini viene usato in ogni occasione, quasi sempre equivocando il suo pensiero, ma si rimane attoniti all’idea che nessuno abbia voluto pronunciare quel NO che Pasolini aveva saputo affermare in modo dialettico in tante occasioni. Oggi gli apocalittici sono diventati tutti integrati? Con questo non vogliamo togliere peso alla complicità degli artisti. Anche loro


arskey/speciale Biennale di Venezia | Illuminazioni

sapevano benissimo chi è Sgarbi e che cosa significa per il mondo dell’arte contemporanea. La Biennale è sempre un piatto appetibile, ma che siano caduti nel tranello del binomio amico nemico, inventato da Sgarbi nei suoi talk show e poi diventato parte integrante della sottocultura mediatica berlusconiana, questo è proprio incredibile! Indigna ancora di più lo stereotipo un po’ menefreghista per cui alcuni maestri e alcuni artisti di qualità (Kounellis, Paolini, Pistoletto, Beecroft, Accardi, Guerzoni, Vitali, Dorfles, Bonalumi, Cucchi, Fioroni, Parmiggiani, Guccione, Forgioli....) hanno pensato che “l’arte è sopra le parti”, che in fin dei conti si trattava solo di prestare un’opera.... Anche qui: possibile che sia stato così difficile dire di no? Molti lo hanno fatto e a loro va la nostra solidarietà.

Oggi gli apOcalittici sOnO diventati tutti integrati?

54° BIennAle dI VenezIA |PAdIGlIOne ItAlIA

IllUMInAzIOnI

di Giorgio Verzotti

A cosa serve esporre Tintoretto alla potenti e 'trendy': basta leggere le A meno che 'luce' sia declinata in un Biennale di Venezia? Serve ai cronisti didascalie dei lavori esposti, gli artisti ampio spettro di variazioni semantiincolti, tipo quelli di Repubblica, per che (ancora) non si giovano di queste che, di primo acchito si direbbe che in dire che l’arte contemporanea “non protezioni (spesso numerose, ed elen- Biennale lavori specificamente dediregge il confronto” coi maestri del cate tutte, come a sottolineare l’alta cati a essa, artificiale o naturale, siano passato, e basta: nient’altro oltre a qualità del pedigree) si contano sulle molto pochi: Jack Goldstein con tele questa trita e prevedibile banalità. dita di una mano. Da questo punto di del 1985, James Turrell, ovviamente, La luce di Tintoretto? Ma a Venezia la vista, la rassegna diventa uno sfoggio con un lavoro di cui tutto si potrà dire luce in pittura è anche Vedova, come di potere, sia pure solo 'culturale', che ma non che ci sorprende, le lampadimi fa notare una collega che in quella fa il paio con quello tutto 'economico' ne dei ‘marquis’ di Parreno viste qui città organizza mostre meno ampie sfoggiato invece nelle magniloquenti per l’ennesima volta, Amalia Pica, ma più serie: basta vedere il grande installazioni da Pinault o alla David Nuur con i suoi neon, probabilciclo “... in continuum” esposto alla Fondazione Prada, che si compiace di mente i quadri 'cangianti' di Polke, e Fondazione che prende il nome dal coinvolgere, da privato, musei come poco altro. A meno di considerare maestro, visibile per la prima volta l’Hermitage. video e film come 'lavori sulla luce'!! nella sua totalità, non si poteva Dicono da due anni che sta tornando Ma appunto, forse la luce va intesa cominciare da qui? la Venezia del lusso e della monda- come una metafora, di quelle che tenNon è vero, come dice la curatrice nità, si vede che questa volta anche la gono dentro un po’ di tutto, e diventaBice Curiger in catalogo, che gli artisti Biennale si è voluta adeguare, infatti no parole d’ordine passe-partout. La contemporanei non fanno mai i conti invita (di nuovo!) Cattelan, sia pure con Biennale di Venezia questa volta non col passato, e che in retrospettiva si il lavoro già presentato nel 1997: non rimarrà nella memoria dei posteri, fermano sempre al Modernismo come sarà una novità, ma la sua sola pre- perché si dà come la solita mostra eredità da elaborare. Non è vero e senza fa glamour. ricca di lavori interessanti ma che non basta pensare a Giulio Paolini e a La mancanza di idee si vede nella dice niente di particolare, come più o molti altri, per non parlare delle ten- debolezza del tema proposto, che si meno tutte le altre cento e più biennadenze post-moderne. No, il dubbio riscontra a fatica nelle opere, e che li che si tengono ogni anno nel mondo. che prende dopo aver attraversato le ben pochi artisti si meritano di svilup- Nota bene, ho detto particolare, non Corderie dell’Arsenale ed essere pare. ho detto 'nuovo', perché lo sappiamo approdati nella grande sala dell’ex- “Illuminazioni” allude alla luce come tutti che l’assolutamente nuovo non Padiglione Italia è che Tintoretto sia tema di ricerca artistica, da qui le esiste, ogni opera d’arte, così come solo un pretesto per coprire mancan- aureole luminose e gli angeli incorpo- ogni idea, nasce da un’opera o da un’iza di idee e di coraggio. Possibile? rei di Tintoretto, e però anche dea preesistente. Possibile che Curiger, fondatrice di all’Illuminismo come epoca-simbolo, Ora se la luce è un filo rosso troppo Parkett, da anni al Kunstmuseum di quella in cui ancor oggi ci riconoscia- impalpabile e imprendibile, il secondo Zurigo, a quanto dire una delle prota- mo, nonostante gli attacchi che certo termine contenuto nel titolo, nazioni, goniste del sistema dell’arte di cui pensiero contemporaneo (reazionario, poteva far pensare a una riflessione sopra, e alla quale andava fino a oggi ma piuttosto in voga) da tempo lancia sul concetto di nazionalità, di identità tutta la nostra stima, abbia avuto così contro quell’epoca e contro la tradizio- collettiva, nell’epoca della globalizzane culturale e politica che a essa si zione. Questione interessante e quanpaura di rischiare? Il coraggio viene meno quando nelle rifà. Del secondo tema, o sottotesto to mai stringente, oltre tutto approscelte ci si affida quasi totalmente ad che dir si voglia, si vedono tracce forse priata nel caso della Biennale di artisti e opere già ampiamente accre- nei lavori più 'impegnati' sul piano Venezia, la più antica di tutte e quella proprio su padiglioni sociopolitico, ma non è manovre. una novità. ditati nel sistema dell’arte dal suppor- Vincenzo Agnetti, “Dopo le grandi Bricolage”,strutturata 1980 alla luce… to di gallerie (o fondazioni private) Quanto Fotografia e scrittura a china, cm 53 x 79 nazionali. A dire il vero già nel 1993 Milano, collezione Salvatore Licitra

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arskey/speciale Biennale di Venezia | Illuminazioni

Carol Bove, “The Foamy Saliva of a Horse”, 2011. Mixed media, dimensions variable. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia

David Goldblatt, “AREALS / Demos”, 15 August 2009. Digital print in pigment inks on cotton rag paper. Installation view: ILLUMInations, 54th International Art Exhibition - la Biennale di Venezia Photo: IRondinella. Courtesy: la Biennale di Venezia

Rosemarie Trockel, “Replace me”, 2011. Acrystal, Steel, Wool, plastic, mixed media. Inv. No: RTR 2004, 100 × 450 × 70 cm. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia

Oscar Tuazon, “The Trees”, 2011. Para-Pavilion. Concrete, steel, live tree, fluorescent and halogen lamps 400 × 400 × 340 cm. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy of la Biennale di Venezia


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Song Dong, “Song Dong’s Parapavilion”, 2011. Three-story structure. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia

Dayanita Singh, “Dream Villa Slideshow”, 2010. Digital slideshow installation of 38 images from the Dream Villa series, variable dimensions. Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Francesco Galli. Courtesy: la Biennale di Venezia - 23 -


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Nicholas Hlobo, “Iimpundulu Zonke Ziyandilandela”, 2011. Suspended sculpture. Rubber, ribbon and mixedmedia. Wall mounted painting dimension 5 units. Stretched Canvas Photo: Irondinella. Courtesy: la Biennale di Venezia

Bonito Oliva era intervenuto su questo aspetto, proponendo la prima biennale 'transnazionale', ma non importa: diciotto anni dopo le cose si sono evolute, ed è giusto che una mostra d’arte internazionale ne faccia materia di riflessione. Una riflessione un po’ breve però, dal fiato corto, che si limita a cinque domande poste a ciascun artista, e pubblicate in catalogo, e all’idea dei para-padiglioni. Idea vincente se fosse stata realizzata su larga scala, invece che in solo quattro casi. Se il concetto stesso di nazione, come da più parti si dice in catalogo, è obsoleto, almeno nella coscienza collettiva se non nelle realtà geopolitiche (dove per altro è da più parti rimesso in questione), l’idea di raccogliere più artisti in uno spazio creato da altri artisti, l’idea insomma di comunità provvisorie, nate su particolari progetti, senza istanze identitarie da fondare e difendere, era un’idea interessante, che poteva informare di sé l’intera esposizione. Invece sono solo quattro gli

artisti che la realizzano, e c’è da credere che tutto sia partito da Franz West, che da sempre concepisce l’opera da esporre come una sorta di collaborazione fra più agenti. Molto bella la sua cucina ricostruita all’Arsenale, con il video di Dayanita Singh e la pletora di opere di suoi amici affisse all’esterno, e belle e toccanti le altre installazioni, di Son Dong da Pechino, di Monika Sosnowska da Varsavia con le fotografie del sudafricano David Goldblatt, e dello statunitense Oscar Tuazon negli spazi aperti dei Giardini. Per il resto, in una Biennale senza idee forti possiamo solo giocare al solito gioco del mi-piace o non-mi-piace: bellissima la sala di Gabriel Kuri e di Luigi Ghirri insieme, belle le sculture di Rebecca Warren, di Andro Wekua e di Carol Bove (quest’ultima una sorpresa per molti di noi italiani, ma di gallerie toste lei ne ha già quattro!), bella la grande pittura di Corinne Wasmuht, interessanti foto e video 'old fashioned' di

Gerard Byrne (lui, poverino, di supporter ne ha solo uno ma è Lisson!!), o quelle di Elad Lassry già visto da De Carlo. Scontata la presenza di Pipilotti Rist e di Fischli e Weiss, svizzeri come la curatrice, nonostante da vent’anni ci mostrino sempre lo stesso lavoro, o lo stesso spirito. Graffia, come sempre, Rosemarie Trockel, colpisce l’immaginazione il grande uccello-vampiro di Nicholas Hlobo, mentre la gigantesca candelona accesa di Urs Fischer, raffigurante il “Ratto delle Sabine” di Giambologna e un Rudolf Stingel che lo osserva, spicca non solo per le dimensioni, ma anche per essere un vanaglorioso monumento al più vieto pompierismo contemporaneo, però molto trendy. Fra gli italiani, deludono Andreotta Calò, troppo retorico, e Luca Francesconi troppo sciatto; lascia perplessi, per una volta, Monica Bonvicini, bravi tutti gli altri, anzi, le altre, Marylin compresa.


arskey/speciale Biennale di Venezia| Biennale Padiglioni

54° BIennAle dI VenezIA |

PAdIGlIOnI InteReSSAntI, MA lA GIURIA nOn lI Vede e PReMIA lA POtente GeRMAnIA di Francesca Pasini Si avverte che qualcosa sta cambiando, ma ancora non si vede chiaro: questa è la percezione diffusa che si respira alla Biennale. Tra i padiglioni ci sono segnali interessanti, ma non c’è la stessa energia di altre volte, penso al ’93 quando il padiglione tedesco con Hans Haacke aveva vinto il premio. Un colpo al cuore che apriva la questione elaborabile, ma non dimenticabile del nazismo. Non si può dire altrettanto di quello attuale, che pure ha vinto, e non capisco perché. Forse ha influito l’attuale supremazia della Germania in Europa. Nel ’93 Haacke con il suo deutsche mark ingigantito, posto come uno scudo sopra l’ingresso, alludeva al disegno della 'Grande Germania' nazista, al suo protagonismo alla Biennale del ’38 e al dramma successivo, rappresentato all’interno dal nudo pavimento tutto rotto. Quando lo si calpestava si sentiva il suono della distruzione. Oggi con Christoph Schlingensief non si aggiorna la riflessione su quel trauma: l’installazione di una chiesa all’interno del padiglione è enfatica, troppo didattico il mixing tra disegni, ritratti, e i video della sua malattia e dell’elezione del Papa. Sul retro del padiglione una selezione di film tra i quali “100 Anni Adolf Hitler - L’ultima ora nel Fuhrerbunker” (1988 – 9, 55 min) a cui si collega “Il massacro della motosega tedesca - La prima ora della riunificazione della Germania” (1990, 63 min.). È un vero massacro di urla, sangue e distruzione con una motosega imbracciata come un kalashnikov. Troppo orrore senza complessità. Insomma tutti cerchiamo di capire se il mondo cambierà, ma ci serve un linguaggio così parodisticamente cruento? È comprensibile che un paese voglia rendere memoria a un suo artista morto nell'estate del 2010, dedicandogli il padiglione, ma dargli il pre-

mio mi sembra francamente eccessivo. Haacke aveva ragione: quel grande deutsche mark, diventato un euro, fa oggi sentire il suo peso nella giuria dell'arte. Peccato. Si poteva dare conto di politiche diverse. Prima di tutto penso all'esempio di integrità del nuovo Egitto che abbiamo conosciuto nei primi mesi dell'anno. Quell'Egitto si è fatto sentire a Venezia nella 'platea dell'umanità', come a suo tempo aveva intitolato Szeemann la sua Biennale del 2001, e ha dedicato il padiglione a Ahmed Basiouny (1978 -2011). L'artista ammazzato il 28 gennaio dai cecchini della polizia mentre in piazza Tahrir filmava la rivoluzione per informare il mondo. Con grande rispetto e nessuna agiografia, Aida Eltorie, curatrice del Padiglione dell’Egitto, ha disposto sulla parete di fondo una lunga sequenza di schermi senza soluzione di continuità, dove si alternano le riprese di piazza Tahrir con quelle della performance “30 Days of Running in the Place”, realizzata lo scorso anno, dove Basiouny corre nello stesso posto con sensori sotto le scarpe e sulla testa che ne rilevano la temperatura, con quest'azione rende visibile e quantificabile il movimento e il consumo energetico del corpo. Basiouny aveva messo a servizio del suo paese passione, arte e sincerità, il suo paese rende onore al suo lavoro artistico e politico nella platea dell'arte più prestigiosa del mondo. È proprio in questo intreccio senza gerarchie che nasce la qualità di questa scelta culturale e politica. Onore all'Egitto. William Kentridge nel progetto “Breathe, Return, Dissolve” (2008) aveva analizzato il tema della fragilità della coerenza e della conseguente disintegrazione delle immagini, affermando che questo rapporto "richiama anche ad altre fragilità e rotture" e dichiarava è "un'antientropia, nel

senso di raccogliere e riportare il caos all'ordine piuttosto che regredire dall'ordine alla dispersione”. Lo ha ribadito nel marzo scorso in occasione della nuova presentazione di “Breathe, Return, Dissolve”, a Palazzo Reale a Milano, riferendosi alle rotture dell'ordine in Tunisia, Egitto, Libia. Mentre scrivo, siamo alla fine di giugno, arrivano notizie di nuove ribellioni in Egitto, mi auguro che questa antientropia, tenga conto delle disintegrazioni necessarie per trarre dal caos della rottura politica, individuale, culturale un ordine in grado di riaggregare le immagini future dei paesi dell'Africa Mediterranea. Il padiglione egiziano avvertendo che il processo è in corso, pone davanti agli occhi del mondo le immagini del futuro di una nazione, nel momento cruciale del cambiamento, come diceva Gertrude Stein, "l'artista è il primo ad avvertire il cambiamento che sta avvenendo nella sua generazione". Lo aveva avvertito Kentridge, lo aveva sperimentato in diretta Basiouny. Una giuria tempestiva avrebbe dovuto segnalare questo avvertimento, invece il verdetto conferma la lentezza dell'Occidente che non azzarda e non riconosce nell'antientropia egiziana la nascita di nuovi rapporti. Cosa che aveva previsto Basiouny nel suo testamento morale che campeggia all'ingresso del Padiglione: “Ti prego, o padre, o madre, o gioventù, o studenti, o altro ancora. Tu sai che questa è la nostra ultima occasione per la nostra dignità, l'ultima modifica per cambiare il regime che dura da 30 anni. Scendete in piazza, ribellatevi, portate cibo, vestiti, acqua, maschere, coperte, e una bottiglia di aceto; credetemi non c'è che un passo molto piccolo a sinistra... Se vogliono la guerra, vogliamo la pace, io voglio esercitare una pratica corretta fino alla fine, per riconquistare la dignità della mia - 25 -


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cOme riprOpOrre Oggi una libertĂ di parOla che sappia adeguarsi alla glObalizzaziOne, ma facendO emergere la grana della vOce del singOlO?

Ahmed Basiouny, "30 Days of Running in the Space" Padiglione Egitto Foto Š Sebastiano Luciano


Adrián Villar Rojas, “L'assassinio della tua eredità” Pavilion of Argentina, 54th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia photo credit: Oliver Haas

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Markus Schinwald, “Installationsansicht österreichischer Pavillon”, 2011 © VBK, Wien 2011 54. Internationale Kunstausstellung – la Biennale di Venezia Photo: Andreas Balon / la Biennale 2011 Austria

Markus Schinwald, “Orient”, 2011 © VBK, Wien 2011. HD 9 min, Loop Filmstill: Courtesy of the artist / la Biennale 2011 Austria

nazione”. Detto questo iniziamo il giro tra gli altri padiglioni. Grande l'emozione in Svizzera, dove Thomas Hirschhorn invade lo spazio con “Crystal of Resistance”. Il motivo del cristallo è alla base del dinamismo che - afferma Hirschhorn - "unisce tutto e offusca tutto. Mi aiuta a illuminare intenzionalmente solo una o alcune sfaccettature". Conglomerati di cellophane e nastro adesivo, inglobano, telefonini, televisori, sedie, quotidiani, settimanali popolari e politici di tutto il mondo. Muretti profilati di vetri rotti fanno da sfondo a corpi di manichini in vetrina, altri sventrati dal cui addome escono dei cristalli. È una specie di labirinto in due piani rivestito di carta d'argento, dove la metafora del consumo e del conflitto a esso collegato diventa una dinamica drammatica. Un

vorticare di pensieri che tutti facciamo, ma che non dichiariamo apertamente perché vogliamo proteggerci dalla collisione. Come sempre nel lavoro di Hirschhorn l'energia visiva, lo shock in diretta, è accompagnato da una miriade di suggerimenti dove la Cultura con la maiuscola viene messa a contatto, pancia a terra, con la speculare intromissione della gerarchia che sancisce disparità e coazioni, necessità tecnologiche e comportamenti distorti. Sì, siamo nel cuore del presente, inteso come accumulo, come affollamento che produce energia, ma anche confusione disgregante. Il cristallo ne è il simbolo e, come dichiara Hirschhorn, "una forma per pensare qualcosa di nuovo, con la quale voglio creare una verità. Non una mia verità, bensì una verità in sé. L'arte resiste a opinioni, informazioni,

commenti, consuetudini politiche, estetiche, culturali, ma anche alla tradizione, alla morale, ai dati di fatto. La resistenza è sempre legata all'attrito, al confronto, alla distruzione, ma anche alla creatività. In “Crystal of Resistance” voglio affrontare questo conflitto tra creatività e distruzione." Dalla Svizzera passiamo alla Danimarca dove la domanda cruciale è sulla libertà di parola, e poi alla Spagna dove Dora Garcia ha previsto che per tutta l'estate si alternino letture e discussioni sui temi cruciali della politica, del femminismo, della storia, della letteratura. Egitto, Svizzera, Danimarca, Spagna sono i nodi gordiani che pongono domande sul futuro delle nazioni che compongono il mondo dell'arte. In questi padiglioni c'è lo sforzo di unire immagini e problemi, domande, con


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Thomas Hirschhorn, “Crystal of Resistance”, 2011. Installation View: Swiss Pavilion, 54th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia Photo: Giorgio Zucchiatti Courtesy: la Biennale di Venezia

l'auspicio di dare figura a un mutamento plurilinguistico in grado di analizzare la profondità di una crisi globale dell'Occidente, senza rinunciare alle conquiste acquisite come appunto la libertà di parola, ma anche il riutilizzo delle idee e delle teorie che hanno fatto da sfondo alla rinascita culturale dopo il trauma delle due guerre mondiali. Dora Garcia lo fa chiamando altri a intervenire in modo performativo dentro il suo padiglione, trattenendo la presenza degli indignados, e degli inadequados. In Danimarca 18 artisti di varie nazioni danno figura ai problemi della storia e al loro legame con la libertà di parola: il mito di Mao Tse Tung e la modificazione delle immagini (Zhang Dali - Cina); la censura dell'integralismo islamico (Taryn Simon - Usa); la complessa vicenda delle identità di

genere (Lilibeth Cuenca Rasmussen Manila vive a Copenhagen); gli stereotipi della maschilità visti attraverso gli stili pittorici dell'espressionismo, dell'astrattismo americano, dei cartoons, dell'arte naif (Tala Madani - Teheran, vive a Amsterdam); la registrazione delle parole che hanno cambiato il mondo, “An Ear to the Sounds of Our History” (Sharon Hayes - New York ), costituito da un grande collage di L.P (1948 - 84), con i discorsi di Kennedy, Angela Davies, Martin Luther King, Simone de Beauvoir, Churchill, Golda Meir, le dimissioni di Nixon…. Come riproporre oggi una libertà di parola che sappia adeguarsi alla globalizzazione, ma facendo emergere la grana della voce del singolo? Oggi siamo sempre in comunicazione con tutti, ma non è vero che a tutti è concessa uguale libertà di parola.

Altri padiglioni dicono, altro: il Brasile e la Romania sono dedicati a figure storiche della loro cultura artistica che per motivi diversi non avevano avuto il riconoscimento necessario. È bello che si compia questa restituzione, anche questo è un modo orgoglioso di affrontare il cambiamento. È il caso di Artur Barrio (Porto 1945 vive in Brasile dal 1955), che in una stanza ripropone una grande installazione storica creando uno spazio organico che mette in figura un paesaggio dove disegni e oggetti si alleano a materiali naturali. Mentre nella seconda stanza espande il suo linguaggio in un progetto realizzato appositamente per la Biennale. Attraverso le sue opere appare un Brasile che sa comporre cultura sincretica e riflessione individuale e storica. Un segnale importante per capi-


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Mike Nelson Pavilion of Great Britain at the 54th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia

re fuori dagli stereotipi lo sviluppo attuale di questo grande Paese. Il rumeno Jon Grigorescu non aveva quasi mai potuto realizzare le sue performance in pubblico, qui non è solo documentata la sua storia passata, ma il suo presente, la sua indebolita prestanza fisica che gli impedisce di completare una corsa, evidenzia così l'intreccio tra arte e vita, che fin dall'origine era alla base del suo lavoro. Si intitola “Perforning History” e prospetta il legame con il presente anche attraverso la collaborazione con le giovani artiste Anetta Mona Chisa & Lucia Tkacova, la prima romena e la seconda slovacca. Esse lanciano nel cielo un pallone a forma di pugno chiuso che, una volta preso il vento, non è più manovrabile, appare la metafora della volatilità di un'ideologia, ma anche la difficoltà nel farci i conti, come dire: il passato non è una cartolina sbiadita, ma un complesso di rimandi che, pur lontani, chiedono di essere analizzati e non solo espulsi. Il padiglione dell'Austria, realizzato da Markus Schinwald, è formalmente impeccabile e propone, con una critica dall'interno, il tema dell'esclusione e della difficoltà di relazione. Lo fa costruendo un labirinto sospeso, a circa un metro di distanza da terra, così si intravvedono le gambe di chi cammina, ma non altro. Tra le feritoie create tra un blocco e l'altro di questa architettura a testa in giù, vediamo una serie di rifacimenti di ritratti dell'Ottocento, dove uomini e donne hanno vari strumenti che impediscono loro di parlare, sono maschere/corazze, o singoli legami, quasi delle cinture di castità che impediscono il movimento delle labbra e quindi la pronuncia della parola e, per traslato, l'incontro, compreso quello erotico. Un tema analogo è sviluppato nei due video proiettati alla fine del percorso uno alle spalle dell'altro. Anche in

questa scelta si manifesta l'impossibilità di cogliere una storia per intero, perché simbolicamente ognuna dà le spalle a una, cento, mille altre. Ancora uno spostamento appare nel padiglione Polacco, affidato all'artista israeliana Yael Bartana, la quale con tre turbanti film prospetta un tema incandescente : il ritorno in Polonia di 3.300.000 ebrei. Cosa succederebbe se i discendenti di coloro che riuscirono a raggiungere Israele dopo il dramma del nazismo e la distruzione del ghetto di Varsavia chiedessero di esercitare il diritto di tornare nel paese di origine per ripristinare la comunità stroncata? La domanda è metaforica, ma anche realistica. I film di Yael Bartana non fanno sconti e l'intreccio tra le divise militari di questi ritornanti e la costruzione dei luoghi dove andare, mantiene in bilico la coazione autoritaria, che ogni trasferimento di massa porta con sé e l'aspirazione a ritrovare i luoghi d'origine, travolti dall'esclusione. Ma l'esclusione, che appare nei racconti filmati in modo eccellente, non riguarda solo il dramma del passato, tra le righe appare la critica alla politica d'Israele, ad esempio nell'episodio della costruzione di un kibbutz in terra polacca, dove l'allusione alla militarizzazione del territorio è immediato. La qualità sta proprio nel non dare una visione romantica del ritorno, ma nel costringerci a leggere le condizioni gerarchiche di molti paesi. Bartana nel suo manifesto di “Jewish Renaissance Movement in Poland” (JRMIP), da lei iniziato nel 2007 e sviluppato a livello internazionale, dichiara: “Gli ebrei oggi non sono lo stesso popolo che fu espulso dall'Europa, e gli Europei non sono gli stessi che furono responsabili di quell'epurazione. È un buon momento per riunirli per cambiare in meglio l'Europa e Israele e l'intero Medio Oriente.... JRMIP è la risposta

positiva alla crisi attuale quando le utopie storiche hanno fallito e il paradiso promesso è stato privatizzato. Nelle nostre fila accettiamo tutti coloro che non trovano posto nelle loro terre, gli espulsi e i perseguitati”. Forse è un'utopia, ma certamente è un problema reale irrisolto. La proposta di Bartana è dura e forte proprio perché tocca l'immaginario e ne fa una sintesi simbolica da cui ognuno deve trarre una lettura. Man mano che ripercorro il viaggio tra le nazioni dentro la cittadella dell'arte vedo un dialogo abbastanza fluido tra il Sud del Mondo e alcuni indirizzi europei. Il Padiglione del Cile non ha ancora un proprio spazio né dentro i Giardini, né fuori, è quindi ospitato all'Arsenale. Qui Fernando Prats ha creato una visione geopolitica del rischio naturale. Fin dall'ingresso ci attrae con l'annuncio trascritto in neon rosso dell'esploratore irlandese Ernest Shackleton del 1911: “Cercasi uomini per spedizione rischiosa. Bassa paga, freddo pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”. Un testo che produce un doppio shock: uno storico, l'avventura delle spedizioni nell'antartico; uno attuale, queste sono oggi le condizioni richieste perfino a chi cerca un banale e quotidiano ingaggio di lavoro. All'interno, la scritta riappare in un bellissimo video, poggia su una spiaggia popolata da pinguini, dove la sua luce rossa crea un confine incandescente con il mare artico avvolto da un blu tagliente e che sfuma nei vapori dell'atmosfera. Nella stanza seguente troviamo, invece, alcuni quadri e oggetti che testimoniano l'eruzione del vulcano Chaitén (2008) e il terribile terremoto del Cile nello scorso anno. Sono opere-reperti, ottenute facendo un calco con il fumo di parti-


arskey/speciale Biennale di Venezia | Biennale Padiglioni colari di quei luoghi. Come se l'aderenza tattile al ricordo fosse la sola guida in grado di trattenere l'enigma della forza segreta della natura, che è bellissima, ma anche terribile e soprattutto mai del tutto prevedibile e dominabile dall'uomo. Il titolo dell'intero progetto, “Gran Sur”, evoca lo sconfinamento, ma anche la necessità di non dimenticare, che fa parte della geografia ma anche delle relazioni umane e dei misteri che tuttora avvolgono il pianeta. Una percezione complementare la si ritrova nel padiglione Argentino, sempre all'Arsenale, il giovanissimo Adrián Villar Rojas crea delle enormi sculture di argilla, basate sulla teoria dei multiverses, secondo la quale è ipotizzabile la compresenza di molteplici universi. La mostra dal titolo “L'assassinio della tua eredità”, evoca la sproporzione tra realtà e memoria attraverso giganteschi particolari assimilabili alle strutture di ponti o architetture tecniche che stanno alla base della costruzione del nostro pianeta, o di enormi porzioni di elementi naturali. Quello che vediamo è dunque l'ipertrofia di un processo costruttivo che ha stravolto il rapporto tra costruire e abitare l'universo terrestre. Fuori dai Giardini, gli appuntamenti sono tantissimi: da non perdere il padiglione della Scozia con Karla

Black. Nell'antico Palazzo Pisani, Black ha invaso le stanze con una fantastica popolazione di sculture, tattili, fragili, odorose, fatte di terra, polvere di marmo, vernice in polvere, sugar paper e ombretto, sapone .... I colori sono rosa come la pelle o azzurri come l'iride e i cieli, tutto evoca il corpo, la sua mobilità e la sua friabile consistenza. Ne consegue un'architettura anticonformista, senza volontà di potenza, che ci rimanda a quell'amalgama di "gesti sventati e tentativi seriamente ossessivi di rappresentare la bellezza", come dichiara Karla Black, dove la bellezza sta nell'essenza stessa del pigmento o in una distesa di terra, come dire che esiste una bellezza in sé che ci avvince ancor prima che prenda forma. È forse per questo che le sculture create da Black rimandano l'idea di perenne movimento. E poi c'è molto humor critico nella scelta dei colori normalmente associati ai buoni sentimenti delle bambine rosa e dei maschietti azzurri. Mi piace chiudere questo giro tra le nazioni dell'arte con Libia Castro & Ólafur Ólafsson che rappresentano il Padiglione dell'Islanda con il progetto “Under Deconstruction”. Sappiamo quanto sia attuale la revisione dei sistemi di sviluppo, Serge Latouche ha proposto l'idea di una decrescita che corrisponda a una 'abbondanza frugale', mentre questi artisti analiz-

zano i temi legati alla definizione della propria origine in tempi in cui è facile essere espulsi dai paesi ospitanti ed è necessario abbandonare la propria terra. A Venezia, nella lavanderia del Collegio Armeno di Ca' Zenobio, ci accolgono con una scritta al neon commovente, “Your Country Doesn't Exist” un messaggio che dal 2003 hanno diffuso con immagini, manifesti, pubblicità televisive. Per l'opening è stato cantato in varie lingue dal mezzo soprano Júníusdóttir . Il nodo dell'appartenenza nell'epoca globale appare nella sua fragilità e nella coincidenza storica con il popolo armeno, che in questa sede aveva costruito un collegio per garantire istruzione e appartenenza. La scelta di questa casetta a parte nel giardino, diventa una cifra emozionale che si intreccia a tutto il progetto: all'interno con il canto della “Constitution of the Republic of Iceland”, realizzato con la compositrice islandese Karólína Eiríksdóttir; sul tetto, in un panorama veneziano assolutamente inaspettato, l'installazione sonora si diffonde da un vaso di terracotta. Racconta del difficile incontro amoroso tra stranieri, che fin dall'antica Grecia era stato vietato e ora implica una serie di altre nevralgiche difficoltà. “Exorcising Ancient Ghost” è un augurio e una necessità che tra i tetti e i campanili di Venezia ci raggiunge con particolare intensità.

Libia Castro & Ólafur Ólafsson, “Il tuo paese non esiste” (Venice) 2011. From the project Your country doesn´t exist, 2003–ongoing. Neon intervention. Installation shot on facade of pavilion. Courtesy of the artists, Galleria Riccardo Crespi and Collezione Leggeri. Photo © Lilja Gunnarsdottir


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Yael Bartana, “Mur i Wieża (Wall and Tower)”, 2009 Production photo Courtesy Annet Gelink Gallery, Amsterdam and Sommer Contemporary Art, Tel Aviv Photo: Magda Wunsche & Samsel


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SCUOlA GRAnde dI SAn ROCCO, VenezIA

OleG KUlIK, VeSPRI dellA BeAtA VeRGIne. AFteR MOnteVeRdI di Sibilla Panerai

Oleg Kulik, “Vespri della Beata Vergine, composizione di C. Monteverdi” rendering della performance.

A volte, si sa, gli eventi più belli hanno breve durata, in specie se si tratta di quelli collaterali alla Biennale che non tutti i visitatori, arrivando nei mesi successivi all’inaugurazione, possono visitare. Peccato dunque per chi si è perso la video installazione di Oleg Kulik (Kiev, 1961, vive e lavora a Mosca) “Vespri della Beata Vergine” che proponeva, dal 1 al 15 giugno e in forma di film, la riproduzione teatrale svoltasi nel gennaio del 2009 al Théâtre du Châtelet, Parigi, dove Kulik era scenografo. La mostra presentata da Galleria Pack (Milano) e RNA Foundation (Londra) era a cura di Victoria Golembiovskaya. I Vespri, le preghiere della sera secondo la liturgia delle ore, composizione musicale del 1610 di Claudio Monteverdi, è stata scritta proprio a Venezia, secondo un modus operandi assolutamente innovativo per l’epoca, dato che andava a unire sacro e profano, musiche religiose e sonate più popolari. Su questi presupposti Kulik innesta la sua visione, incentrandola sull’utilizzo di tecnologie digitali. Nel passaggio dal Teatro allo spazio sacro della Scuola Grande di San Rocco, in qualche modo i Vespri ritrovano la loro collocazione ideale. Kulik ha voluto rendere lo spazio scenico quanto più simile a un altare, per dare l’idea di trovarsi di

fronte a una vera e propria cerimonia liturgica. Annulla la buca e dispone i musicisti, i cantanti e gli attori sul palco, in un semicerchio cerimoniale. Così l’azione del direttore d’orchestra diviene tutt’uno con lo spettacolo, che prende vita dal movimento delle sue mani nello spazio. Al centro della scena è una parete di vetro invisibile che, a seconda della rotazione, permette di specchiare e riflettere il pubblico e le proiezioni che avvengono in tutta la sala, annullando la distanza tra scena e spettatore. Una serie di video multi-canale ricrea nella sala veneziana l’immersione totale voluta dall’opera di Kulik, con effetti di alto coinvolgimento emotivo. L’intero ambiente risulta trasformato dalle proiezioni, che si intersecano sulle pareti fin sopra al soffitto. Al fianco di Kulik i dipinti di Tintoretto che, per mezzo della prospettiva, era solito unire le scene del quotidiano agli avvenimenti religiosi così come, nella sua composizione, Monteverdi fa con le sonate, gli inni, i Magnificat e i salmi biblici. Un uccello dalle piume azzurre si libra nel cielo tra colori vibranti e danzatori digitali: le visioni di Kulik, come esalazioni di vapore, sembrano proiettarsi in tempo reale, interpretando la musica nei momenti più solenni. In scena i momenti della sera,

da una luna blu elettrico, colore ricorrente, all’arrivo del temporale, tra fasci di luce e proiezioni spettacolari, riflessi, ologrammi e pattern visivi in grado di creare uno spazio multidimensionale, vicina a quell’opera d’arte assoluta invocata da Wagner. Kulik, scultore, perfomer e fotografo, è conosciuto come l’artista al guinzaglio, per aver fondato un movimento politico per la salvaguardia dell’ambiente e delle specie animali, che egli stesso impersonifica nelle opere sotto forma del suo cane Quilty, vero e proprio alter ego. Egli è presente a Venezia anche nella mostra “Glasstress” 2011, curata da Lidewij Edelkoort, Peter Noever e Demetrio Paparoni, nelle sale di Palazzo Cavalli Franchetti, con una scultura in vetro concepita in difesa dell’artista, fotografo e architetto Ai Weiwei, incarcerato dal regime per le proprie idee. Tra le mostre di Kulik si ricordano: “Russia!”, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 2006; “STARZ”, progetto speciale per la prima Biennale di Arte Contemporanea di Mosca, Museo di Arte Contemporanea di Mosca, 2005; “Always a little further”, 51° Biennale di Venezia, and Windows”, 2005; “House Padiglione Jugoslavo, 49° Biennale di Venezia, 2001.


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C. MARClAy, M. eRenBOURG, e. BenASSI, C. BOltAnSKI

UnA BIennAle COntRO le COnVenzIOnI di luca Panaro

Della 54° Esposizione Internazionale d'Arte, “ILLUMInazioni”, ho apprezzato la volontà della direttrice Bice Curiger di essere anticonvenzionale, azzardando un dialogo fra passato e presente che ha lasciato un po' interdetti gli esperti del settore, specie quando hanno visto all'ingresso del Palazzo delle Esposizioni i grandi dipinti di Jacopo Tintoretto. Molti si sono trincerati dietro l'idea di Biennale intesa come cartina tornasole del presente, e guai a spostarsi da questa convenzione. Certo, dovrebbe essere così, ma il nostro presente è più che mai contraddistinto dal passato (ammettiamolo!), pertanto questo sguardo all'indietro permette di definire le ragioni di quella spinta in avanti che tarda ad arrivare, che deve trovare inevitabilmente le proprie risorse nella storia. Credo quindi che la curatrice abbia sottolineato correttamente un aspetto del nostro tempo, rintracciando proprio in questa situazione il tanto desiderato “presente”.

Dopotutto anche Maurizio Cattelan ha deciso di partecipare riproponendo l'opera “Turisti”, già esposta negli stessi spazi nel 1997 in occasione della Biennale di Venezia curata da Germano Celant. I duemila piccioni impagliati che osservano gli spettatori dall'alto testimoniano bene il recupero del passato e in questo caso anche la decadenza del presente. Non si tratta però di una Biennale passatista, anzi, basti pensare che l'80% delle opere sono recenti, alcune sono state realizzate per l'occasione e un terzo degli artisti hanno meno di 35 anni. La Curiger ha saputo semplicemente dosare bene gli ingredienti, mescolando sapientemente gli artisti di oggi con alcuni recuperi dal passato, spesso autori ancora molto influenti nonostante la loro scomparsa prematura. Basti pensare al regalo che è stato riservato all'Italia proprio nell'anno in cui il nostro Padiglione ha svilito l'arte nazionale con la deplorevole curatela di Vittorio

Sgarbi - la Curiger ha proposto nel Palazzo delle Esposizioni due grandi artisti come Gianni Colombo e Luigi Ghirri, veri precursori dell'arte di oggi.1 Questa Biennale si è distinta inoltre per l'attenzione nei confronti dei padiglioni nazionali che, pur non essendo sotto la giurisdizione della curatrice, hanno avuto quest'anno maggiore risalto in quanto peculiarità dell'esposizione veneziana. Una novità consiste nella realizzazione di quattro para-padiglioni, ovvero nuove strutture architettoniche realizzate da Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon e Franz West, che ospitano le opere di altri artisti. L'idea è quindi di aprire le porte ad autori non direttamente selezionati dalla curatrice, così come ha fatto Sgarbi, con la differenza che gli ottimi artisti reclutati dalla Curiger hanno selezionato altrettanti validi artisti, gli intellettuali chiamati da Sgarbi, invece, non essendo realmente informati rispetto agli sviluppi


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Christian Marclay, “The Clock”, 2010. Edizione di 6 video a singolo canale, 24 ore. Courtesy White Cube, London; Paula Cooper Gallery, New York. Foto Benjamin Westoby

dell'arte visiva contemporanea, hanno purtroppo selezionato molti artisti mediocri. Fra i quali naturalmente spiccano anche autori meritevoli, che spiace però vedere in questo contesto a subire lo sgarbo del curatore italiano. Tornando allo sguardo al passato come indicatore del presente, si notano parecchie opere che insistono su questo aspetto, molte delle quali ottenute utilizzando materiali d'archivio. Fra i lavori più interessanti di questa Biennale, è l'opera “The Clock” (2010) di Christian Marclay che si è aggiudicato il Leone d'oro per il miglior artista di “ILLUMInazioni”. Si tratta di un video composto di parti di film di ogni epoca in cui gli attori interagiscono con un orologio, guardandolo, indicandolo, parlandone. Quello che in ambito cinematografico si chiama found-footage film e che in arte ha avuto il suo momento di gloria negli anni Ottanta con quel 'impulso archivistico' - come l'ha definito Hal Foster - che nel decennio precedente

aveva già dato interessanti anticipazioni, e che negli anni Novanta è stato abbondantemente sviluppato da molti artisti internazionali. Ma la novità introdotta da Marclay consiste nell'avere trasformato lo stesso video in un vero e proprio orologio, facendolo durare 24 ore e sincronizzandolo con l'ora reale dello spettatore. Come forse direbbe Rosalind Krauss l'artista ha “re-inventato il medium”, permettendo al pubblico di attualizzare il passato cinematografico, ma soprattutto facendo funzionare il video in modo differente rispetto alle convenzioni. Da questa opera il cinema ne esce rivitalizzato, prendendo inoltre le distanze dalla logica del racconto e dal legame con la letteratura che spesso ne limita le potenzialità. L'ispirazione cinematografica contraddistingue anche un curioso progetto di Matteo Erenbourg (Alterazioni Video) realizzato per il Padiglione Internet. Il titolo è “Emoticons From Italian Cinema” (2011)2 e consiste in un sito web dove anche in questo caso

il linguaggio cinematografico perde la convenzionale struttura narrativa. Una serie di celebri film come “Blow Up” di Michelangelo Antonioni, “La ciociara” di Vittorio De Sica, “Giù la testa” di Sergio Leone, “Il generale della Rovere” di Roberto Rossellini e tanti altri, sono re-inventati mediante l'isolamento di alcuni stati d'animo prelevati dalle pellicole e mostrati sotto forma di GIF animate, ovvero quelle sequenze d'immagini temporizzate che si usano abitualmente su internet. La navigazione del sito permette di accedere direttamente alle scene tratte dai film, di cui viene indicato soltanto il regista, oppure di selezionare uno stato d'animo (sorpresa, paura, meraviglia...) e accedere alle GIF relative, come per esempio il 'rammarico' di Alberto Sordi ne “Il maestro di Vigevano”, la 'frustrazione' di Marcello Mastroianni ne “L'assassino”, oppure la 'colpa' di Mariangela Melato in “Todo modo”. L'utilizzo di materiali d'archivio è da sempre al centro della ricerca anche

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Matteo Erenbourg, “Emoticons From Italian Cinema”, 2011 da Enrico Petri “Il maestro di vigevano”

Matteo Erenbourg, “Emoticons From Italian Cinema”, 2011 da Michelangelo Antonioni “Blow Up”

Elisabetta Benassi, “The innocents abroad”, 2011 9 motorized microfiche readers, microfiche sheets, tables, light bulbs, electronic unit, cables. Each unit 140 × 100 × 100 cm approx. Mechanical-electronical project and realization Felice Farina - Nina Lab, Rome Installation view: ILLUMInations, 54. Esposizione Internazionale d'Arte - la Biennale di Venezia Photo: Franziska Bodmer e Bruno Mancia - FBM Studio Courtesy: la Biennale di Venezia


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Christian Bolatnski, "Chance" 54e Biennale de / Pavillon français Photographe : Didier Plowy

di Christian Boltanski che quest'anno rappresenta la Francia con l'installazione intitolata “Chance” (2011). Nel primo ambiente (“La ruota della fortuna”) la volontà aleatoria di un computer sorteggia uno fra i tanti bambini appena nati documentati nel tapis-roulant di fotografie che scorrono incessantemente su una grande impalcatura di acciaio. In seguito al suono di una sirena lo scorrere delle immagini si arresta sulla fotografia di un bambino, il suo viso appare sul monitor, un fanciullo è stato scelto: è nato! Nel secondo ambiente (“Ultime notizie degli umani”) dei numeri colorati sfilano rapidamente su due grandi contatori: i verdi indicano il numero delle nascite, i rossi quelli delle morti. In media ogni giorno nascono 200.000 bambini in più rispetto agli uomini che muoiono. Nel terzo ambiente (“Essere di nuovo”) i visi di 60 polacchi e di 52 svizzeri deceduti sono ritagliati in tre parti, passano sullo schermo a grande velocità e si ricompongono per formare circa un milione e mezzo di esseri ibridi. Il visitatore premendo un bottone può così formare nuovi individui. Il “gioco” poi continua su internet,3 dove ciascuno può tentare la fortuna per vincere una sorpresa che sarà inviata a casa direttamente da Boltanski. Intorno al Padiglione

francese sono state invece collocate dall'artista delle sedie ‘parlanti’ che chiedono, ciascuna in una lingua diversa: “È l'ultima volta?”. Ma purtroppo solo il destino può rispondere a questa domanda. Il recupero del passato e delle immagini archiviate riguarda anche l'opera di Elisabetta Benassi “The Innocents abroad” (2011), espressamente realizzata per la Biennale di Venezia e disegnata per lo spazio espositivo riservatole all'Arsenale. L'installazione è composta da una serie di nove lettori automatizzati di microfiche che mostrano la parte posteriore di centinaia di fotografie trovate dall'artista negli archivi di riviste e quotidiani internazionali. Il risultato è una storia del Novecento raccontata attraverso il fotogiornalismo, mostrando i fatti non con le immagini, ma mediante le didascalie che si trovano sul retro delle stesse. L'installazione cattura il visitatore in uno spazio buio dove i lettori analogici retroilluminati scorrono velocemente i documenti stimolando la concentrazione sulle notizie in essi riportati, a volte relative a grandi momenti della nostra umanità, in altri casi testimonianze di piccole storie quotidiane. Dall'opera di Elisabetta Benassi come da questa edizione della Biennale si

evince la necessità di gettare una nuova luce sulla storia collettiva, come recupero di un'identità culturale che proviene dal passato e dal singolo per ripercuotersi nel presente ed essere condivisa dalla comunità. Il tema della luce scelto per questa edizione dell'Esposizione Internazionale d'Arte trova infine una spettacolare rappresentazione nell'enorme scultura di Urs Fischer “Untitlet”, 2011 che riproduce in cera “Il ratto delle Sabine” dell'artista fiammingo Giambologna: come una normale candela, giorno dopo giorno, l'opera si consuma a testimonianza della fragilità dell'arte e dei suoi operatori. 1- Si veda la rubrica “I precursori” su Artkey n°11: Luigi Ghirri e l'arte contemporanea (settembre-ottobre 2009) e Artkey n°13: Partecipazione e interazione nell'opera di Gianni Colombo (gennaio-febbraio 2010). 2- www.emoticonsfromitaliancinema.com 3- www.boltanski-chance.com


arskey/speciale Biennale di Venezia | Federico Diaz

ARSenAle nOVISSIMO, VenezIA

FedeRICO dIAz - OUtSIde ItSelF di Sibilla Panerai

Federico Diaz, "Geometric Death Frequency-141", 2010, MASS MoCA, Stati Uniti, installazione dimensione ambiente. Courtesy Federico Diaz e MASS MoCA

“Made by robots” cita il simbolo apposto al progetto site specific di Federico Diaz quale evento collaterale all’Arsenale Novissimo, organizzato da DOX Centro per l’Arte Contemporanea di Praga. Come sospeso nel nero spazio della grande sala all’Arsenale, un fascio di luce illumina il pavimento. Davanti due instancabili arti meccanici, le cui vibrazioni e movimenti attirano fin da subito l’occhio dello spettatore. Tutt’intorno un numero imprecisato di sfere nere e lucidissime vanno ad assumere la forma di una scultura auto-replicante, sulla base dei dati che forniscono quasi inconsapevolmente i visitatori. L’installazione “Outside Itself”, curata dalla fondatrice del Contemporary Art Center P.S.1 Alanna Heiss è stata scelta per il suo carattere innovativo e la sua valenza interattiva. I due robot si muovono seguendo una serie di calcoli matematici sulla quantità di luce, fabbricando e collocando una sfera alla volta. Un precisissimo esempio di work in progress, di opera in fieri la cui forma è sconosciuta al suo stesso progettista, dato che, in questo caso, il

Federico Diaz, "Outside Itself", 2011, Arsenale Novissimo, Venezia. Courtesy Federico Diaz

creatore materiale è il robot ma le variabili di dimensione, peso e forma sono indotte dall’interazione reale del pubblico. Un’opera che cambierà continuamente dal 4 giugno, data della sua inaugurazione, al 30 settembre, portando con sé la traccia d’ombra di ogni visitatore. Al contrario del suo aspetto cybergoth, il progetto è incentrato sulla luce: ogni sfera rappresenta un singolo “fotone”, monitorato dai sensori ottici che inviano il flusso di dati ai robot, che variano in base all’ora del giorno, al numero di visitatori presenti, ai loro movimenti e al colore dei loro abiti. Il programma matematico permette ai due robot di costruire e posizionare circa 2mila sfere del diametro di 5 centimetri ogni 12 ore. Federico Diaz ha preso ispirazione dal tema della 54° Biennale “ILLUMInazioni”, approfondendo il tema dell’opera che aveva realizzato per il MASS MoCA (Massachusetts Museum of Contemporary Art, Stati Uniti) alla fine del 2010, “Geometric Death Frequency-141” che, situata nel cortile del museo, è composta anch’essa da sfere nere assemblate dai robot nella forma di una scultura

ondeggiante. Per la Biennale Diaz osa di più e aggiunge, ai dati digitali da cui prendono spunto i movimenti meccanici, l’interattività provocata dalle circostanze esterne, come un organismo umano che si adatta all’ambiente. Si pensi all’opera “Generatrix”, un organismo artificiale in grado di reagire ai movimenti dei visitatori, con cui Diaz ha vinto il premio speciale “Milano Europe, Futuro Presente” del 2001. Perché di futuro si tratta o di una rivisitazione reale di “Blade Runner”, dove i robot sono estensioni dell’uomo che permettono di avanzare ‘Outside Itself’, fuori dal sé del proprio corpo organico, in una perfetta sintesi di tecnologia, intelligenza artificiale e biomeccanica. Tematiche care a Diaz dalla fine degli anni Novanta, le cui opere virtuali e umanoidi scavano nell’interazione corpo-macchina, monitorando gli esiti della nano meccanica, dell’incidenza tecnologica sul corpo umano e soprattutto generando visioni futuribili che apportano all’arte contemporanea un respiro innovativo e a tratti fantastico, “viaggiando in un mondo - direbbe Spielberg - in cui i robot hanno sogni e desideri”.


arskey/speciale Biennale di Venezia | Allora & Calzadilla

AllORA & CAlzAdIllA

RAdIOGRAFIA dI UnA nAzIOne (SU Un lettInO SOlARe) di Barbara Cortina

Allora & Calzadilla, “Algorithm”, 2011 U.S. Pavilion, 54th International Art Exhibition, presented by the Indianapolis Museum of Art Photos by Andrew Bordwin

Allora & Calzadilla, “Body in Flight (Delta)”, 2011. Photo by Andrew Bordwin

Allora & Calzadilla,“Track and Field”, 2011. U.S. Pavilion, 54th International Art Exhibition, presented by the Indianapolis Museum of Art Photos by Tascha Horowitz and Andrew Bordwin

“(What’s the story) Morning Glory?” cantavano gli Oasis in un singolo di successo che dava anche il titolo al loro secondo album, ormai più di dieci anni fa. Il ritornello della canzone mi è tornato in mente più volte durante la visita di “Gloria”, il Padiglione statunitense di Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla alla 54° Biennale di Venezia. Costringere l’America a guardarsi allo specchio, analoga domanda sembrano porsi i due performing artists - partner nella vita e nel lavoro, americana lei, cubano lui che vivono e lavorano a San Juan in Portorico. Non ci si lasci ingannare dal riferimento a una canzone assai popolare del Brit-pop, la domanda è molto seria come molto seria, nonché complessa è l’idea che ha portato “Gloria”, esposizione di sei nuove opere (perfetta combinazione di performance, scultura, video e installazione sonora curata da Lisa Freiman dell’Indianapolis Museum of Art) a essere selezionata per rappresentare gli Stati Uniti alla prestigiosa manifestazione veneziana, avendo così la meglio su scelte curatoriali più tradizionali che proponevano l’onnipresente Cindy Sherman, Catherine Opie o Diana Thater. E anche rispetto al grande Bruce Nauman, scelto due anni prima, lo scarto era evidente tanto da allarmare, inizialmente, anche la stessa Freiman, preoccupata che la proposta di “Gloria”, (costata in totale 1 milione di dollari, dei quali buona parte finanziati dallo sponsor Hugo Boss, dal Dipartimento di Stato Americano e da diversi collezionisti e filantropi) imperniata del concetto di identità nazionale, militarismo e americanismo, fosse troppo impegnata politicamente. Ma, come ha ricordato la stessa Jennifer Allora intervistata da Carol Vogel per il New York Times, più forte è stata l’esigenza di far tornare l’arte contemporanea a riflettere sul momento presente di una nazione, quella americana, anche attraverso l’utilizzo di pratiche artistiche più sperimentali e, se vogliamo, scelte dissacranti. Per questo motivo troviamo subito all’ingresso del Padiglione “Track and Field”, carro armato britannico spedito da Manchester a Venezia via nave, rovesciato e riportato a nuova vita con l’installazione di un tapis roulant sul cingolo destro. Non è un caso che, proseguendo all’interno del Padiglione, proprio sotto la rotonda palladiana del 1930, sia stata simbolicamente collocata “Armed Freedom Lying on a

Sunbed” la quale racchiude in sé il senso dell’intera operazione: copia bronzea della statua che svetta sulla cima della cupola del Campidoglio a Washington, nota come “Freedom Triumphant in War and Peace”, potente emblema di un’America sempre pronta alla difesa della propria indentità, sia in pace che in guerra, giace come obnubilata su un lettino abbronzante a raggi zeta, in un eccessivo culto del corpo (altro pilastro fondamentale della mito americano) che rende inutili nonché ridicoli gli attributi che la caratterizzano; l’elmetto militare a testa d’aquila adorno di tredici stelle, la spada, lo scudo araldico. A sua volta il culto del corpo, e la necessità di spingersi oltre i limiti, anche gravitazionali, ci conduce rispettivamente alle fedeli riproduzioni in legno delle poltrone business class di “Body in Flight (Delta) e Body in Flight (American)” sulle quali, per tutta la durata della Biennale, otto ginnasti della nazionale olimpica si esibiranno in una speciale coreografia messa a punto con David Durante, ex campione plurimedagliato, e la coreografa Rebecca Davis ex collaboratrice di Trisha Brown. Si consiglia la visione di almeno una delle performances, della durata di 15 minuti, per comprendere al meglio la tensione e la fatica fisica delle esibizioni, come gli atleti riescano a ‘possedere’ fisicamente le poltrone, con tutte le associazioni che ne conseguono (soldi, potere, affari internazionali). Non manca l’ironia con “Algorithm”, organo a canne alto sei metri al cui interno è stato collocato un bancomat, perfettamente funzionante in caso di improvvisa mancanza di liquidità: a ogni operazione sarà come suonare l’organo e, pigiando i tasti, una melodia sempre diversa, gospel, horror e così via, ricorderà a tutti i visitatori della transazione in atto. Si finisce, infine, con il video a due canali “Half Mast/Full Mast”, cortometraggio girato sull’isola portoricana di Vieques, teatro di esercitazioni della Marina Militare USA sino al 2003 quando le truppe lasciarono l’isola ed ebbe inizio il recupero ambientale. Forse il lavoro col minor impatto ideologico, almeno in questo contesto. Nel complesso un progetto costruito con intelligenza, il cui taglio multiculturale e autocritico e, soprattutto, la cui analisi della realtà condotta allo stesso tempo a livello spaziale, metaforico e concettuale danno vita a una spietata indagine sullo stato di una nazione.


arskey/speciale Biennale di Venezia | Illuminazioni

IllUMInAzIOnI

lA RAdIOAttIVItà eStetICA dellA 54° BIennAle dI VenezIA di Antonello tolve

Giuseppe Stampone, “Bye Bye Ai Weiwei”, 2011, installazione

“Indossa occhiali da sole molto scuri: ‘proteggiti’”, raccomanda Tiziano Scarpa in un suo romanzo del 2000 dedicato a Venezia1. Una Venezia che “può essere letale” perché “in centro storico la radioattività estetica è altissima”. Ma Venezia è sempre Venezia. Ed è davvero difficile non essere accecati dalla sua radioattività estetica. Anche perché Venezia, si sa, ha mille volti e risvolti segreti. C'è la Venezia romantica. La Venezia mondana. La Venezia dello spettacolo. Quella di Palladio, quella di Piazza San Marco o quella del gran turismo internazionale che affolla i vaporetti con valigie elefantiache. “E poi c'è” anche “tutta l'altra Venezia”, ha scritto Diego Valeri, dal canto suo, in una preziosa Guida sentimentale2: “quella interna, delle calli, dei campi, dei rii, delle rive remote: quella che forma il gran corpo della città”. Infine, immancabile e impareggiabile, c'è la grande Biennale

di Venezia che, giunta oggi alla sua 54° edizione, propone - ormai da sempre, e precisamente da quel lontano 1895 - uno show unico per il popolo dell'arte che vi confluisce tutto per partecipare, appunto, a uno degli eventi più esclusivi al mondo. Un evento imperdibile. E non solo per quello che offre (e che non offre). Ma anche perché, per chi ama lo scoop, non mancano mai occasioni irrinunciabili. (Per questa edizione la pornostar Vittoria Risi è stata tronista privilegiata del Padiglione italiano). Poi, fortunatamente, non mancano eventi meravigliosi e opere che tolgono il respiro, “Los Olores de la Guerra” di Reynier Leyva Novo (esposta nel Padiglione America Latina / IILA), ne è, a me pare, esempio lampante. E non mancano nemmeno le solite critiche. O gli scandali internazionali. Tra questi, due, probabilmente, negli anni, hanno superato la norma. Quello del

1964 (quando Rauschenberg vinse il leone d'oro per la pittura) e quello del 1972 (quando De Dominicis introdusse un vivente all'interno dell'opera). Ma questa, purtroppo, è storia. Una storia che non ritorna. Che non può ritornare in un presente indispettito con se stesso. In un groviglio straniante di compulsione oftalmica e in un inquinamento immaginifico davvero duro, dilagante, devastante. Lo dimostra, come campione privilegiato, il problematico Padiglione Italia, dove l'inquinamento immaginifico supera la soglia dell'allerta e brucia gli sguardi fino a bucarli. Illeggibile, picnolessico, “bulimico”, a detta di Achille Bonito Oliva, “perché vi prevale il metodo del karaoke”, il Padiglione, si presenta, difatti, come una indigestaque moles (Ovidio) di oggetti, di artefatti, di cose, cosucce, cosette. Anche di cianfrusaglie. Insomma, quer pasticciaccio brutto


arskey/speciale Biennale di Venezia | Illuminazioni

Reynier Leyva Novo, “Los Olores de la Guerra”, 2009, istallazione, bottiglie di vetro e profumi, dimensioni variabili. Courtesy dell'artista

“illuminaziOni” illumina pOcO mOstrandO una luce fiOca e agitata brutto del Padiglione Italia propone un vero e proprio ingorgo oftalmico che fa sprofondare lo spettatore all'interno di un girone (nocivo) di immagini nel quale vien da dire, con Dante, “lasciate ogni speranza o voi ch'entrate”. Malgrado ciò vale sempre la pena visitare il panorama offerto dalla Biennale. Anche perché è davvero facile imbattersi in padiglioni o eventi trasversali d'una bellezza disarmante. Disarmano, ad esempio, il Sud America e la Cina. Due Padiglioni che sorprendono per la poesia mostrata. Per un genius loci potente. Per una riconquista indispensabile di onestà intellettuale e creativa3. Così, al di là dell'incolmabile assenza metodologica, degli errori e delle mancanze inconsolabili sicuramente non volute (pesante è, tra le varie Illuminazioni, l'assenza di Lo Savio), tutta una serie di eventi e di opere “Bye Bye Ai Weiwei” di Giuseppe Stampone reinventa finanche il paesaggio notturno - ravvivano felicemente Venezia. Mentre Fondazione Prada Ca' Corner della Regina a cura di Germano Celant sfoggia una parure di opere la cui preziosità si confonde con quella del palazzo che le ospita, tra queste spic-

Pino Pascali, “Confluenze (Confluences)”, 1967, aluminum, aniline-dyed water, 7 x 112 x 112 cm, 22 elements each, courtesy Fondazione Prada, photo Attilio Maranzano Fondazione Prada_Ca’ Corner, Venice, 2011, exhibition view.

cano, per esuberanza creativa, le favolose “Confluenze” (1967) di Pino Pascali, artista a cui la Regione Puglia dedica una mostra, “Pino Pascali. Ritorno a Venezia / Puglia Arte Contemporanea”4, la Fondazione François Pinault, con “Il mondo vi appartiene”, propone una significativa traiettoria visiva che, se da una parte scansa intelligentemente le date per trascendere “le origini culturali, le generazioni e le diverse epoche” (Caroline Bourgeois), dall'altra schiude uno scenario in cui l'arte si riappropria del mondo, appunto, fino a tessere una trama fittissima di viaggi, tragitti, avventure estetiche5. Accanto a queste exhibition esemplari e sfarzose, “Corpi radianti per fervide sensazioni” (progetto di Mirko Bratuša, Padiglione Slovenia), “The Fridge Factory and Clear Waters” (Padiglione Montenegro che promuove, tra l'altro, la prossima apertura del MACCO Cetinje / Marina Abramović Community Center Obod Cetinje), “A Woman Takes Little Space” (lavoro proposto da Liina Siib per rappresentare l'Estonia) la sorprendente “Pietas” di Jan Fabre e “Il Caos # 3 – I Conflitti”, a cura di Raffaele Gavarro, sono davvero ottimi motivi per andare

a Venezia. Senza parlare, poi, di alcuni padiglioni deliziosi tra cui spiccano quelli della Germania, dell'Austria, della Polonia, dell'Olanda, del Giappone e della Finlandia. Così, se il Padiglione Italia si presenta come un outlet in cui è possibile trovare anche una maglietta di Prada un po' stropicciata e lisa e “Illuminazioni” illumina poco mostrando una luce fioca e agitata, Venezia e la sua Biennale del 2011 propongono, ancora una volta, uno sfarzo estetico dal quale, forse, proteggersi un po'. E, magari, con occhiali da sole molto scuri. 1- T. Scarpa, “Venezia è un pesce”, Feltrinelli, Milano 2000, p. 7. 2- D. Valeri, “Guida sentimentale di Venezia”, Le Tre Venezie, Padova 1942, p. 96. 3- Cfr. A. Tolve, “Alcuni buoni (e cattivi) motivi per andare alla 54. Biennale di Venezia”, in teknemedia.net, 16.06.2011, p. http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html?mId=8673 (linkata il 29/06/2011 ore 11.45). 4- Cfr. A. Tolve, “Fondazione Prada e Pino Pascali, due eventi collaterali della 54. Biennale di Venezia”, in teknemedia.net, 16.06.2011, p.http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html? mId=8672 (linkata il 29/06/2011 ore 11.51). 5- Cfr. A. Tolve, “Mondi diversi a Palazzo Grassi, Padiglione Iran, Padiglione Montenegro, Padiglione Sloveno e A Woman Takes Little Space”, in teknemedia,net, 21.06.2011, p.http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html? mId=8687 (linkata il 29/06/2011 ore 12.18).

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arskey/speciale Biennale di Venezia | Padiglione Cileno

PAdIGlIOne CIlenO

FeRnAndO PRAtS RACCOntA Il CIle COn “GRAn SUR” di Gino Pisapia

Fernando Prats, “Grand Sur”, 2011 veduta dell'Istallazione 54. Biennale d'Arte di Venezia

Gino Pisapia: Quest'anno sei stato selezionato per rappresentare il Cile alla 54° Edizione della Biennale di Venezia con un progetto a cura di Fernando Castro Flórez. Cosa vuol dire per te questo riconoscimento? Fernando Prats: È stato molto stimolante, in quanto ho dovuto assumermi la responsabilità di spostare l'asse della rappresentazione politica con l'asse della rappresentazione territoriale, che è, in fondo, una rappresentazione politica di secondo grado. Dopo vari decenni di 'distrazione culturale' per la presenza di un corpo politico traumatizzato, finalmente oggi le cose sono cambiate, personalmente ho usato e interpretato il territorio del paese e della nazione. Ciò che conta, nel mio lavoro è il rapporto tra l'uomo e gli spazi che costituiscono distinte aree di tensione tra la visibilità del paesaggio e il destino dei corpi sottoposti agli eccessi, della politica e a quelli della natura. Ciò che permane in fondo è la tettonica del disastro, l'immanenza della catastrofe. G.P: In che modo e con quali mezzi il governo cileno ha supportato e promosso il tuo progetto a Venezia? F.P: Il governo del Cile nella 54° Biennale di Venezia assume un ruolo da protagonista, scommettendo su un

tipo di gestione che combina le proprie risorse con quelle dei privati. Questo atteggiamento corrisponde alla prospettiva di una politica di internazionalizzazione della cultura e dell'arte del nostro Paese. È qualcosa senza precedenti, che ha avuto inizio nel 2009. Il nostro obiettivo è quello di avere un padiglione in modo regolare e stabile a Venezia. La presenza del mio paese e del mio lavoro sono stati resi possibili dalle sinergie tra vari enti, il Ministero della Cultura, il Dipartimento Culturale del Ministero degli Esteri, l'Ambasciata del Cile in Italia, la Galleria Joan Prats, la Marina Militare cilena. Senza l'appoggio di quest'ultima non sarebbe stato possibile approdare sull'isola dell'Elefante nel sud delle isole Shetland, in condizioni di navigazione complesse e difficili. Questo non ha fatto altro che accrescere in me l'ammirazione per Sir Ernest Shackleton. G.P: Nel tuo lavoro hai da sempre affrontato tematiche legate al tuo territorio d'origine e hai veicolato attraverso vari media messaggi di carattere politico e sociale. Perché hai scelto “Gran Sur” per il Padiglione del Cile alla 54° Biennale di Venezia? F.P: Come ho detto all'inizio: quello che prevale qui è la poetica sulla poli-

tica. Quello che non si vuole accettare è che questa ha ancora un ruolo da compiere solo che ha invertito la densità delle relazioni. In termini stretti il mio lavoro è uno sconfinamento della pittura verso il reale, io non faccio installazioni. Mi muovo nell’universo simbolico-formale della pittura, mettendo in crisi i media classici atti alla rappresentazione del reale, della natura, della vita. “Gran Sur” si svolge, si articola, si sostiene, nel potere delle parole e nella fatalità delle azioni degli uomini che hanno affrontato gli eccessi della natura. La natura è sempre esuberante e inarrestabile, ragion per cui ci ritroviamo a confrontarci con essa costantemente. “Gran Sur” ci mette in contatto con i limiti della resistenza umana e ci mostra in che modo l'arte possa testimoniare e comunicare al mondo intero la vera potenza della natura. G.P: Il tuo progetto parla dell'eruzione del vulcano Chaitén del 2008, del disastroso terremoto del 2010 in Cile e della spedizione di Ernest Shackleton in Antartide. Ci illustreresti il tuo intervento all'interno del padiglione e qual è l'elemento unificatore di questi tre eventi storici da te descritti? F.P: Il legame è quello che collega due


arskey/speciale Biennale di Venezia| Padiglione Cileno

Fernando Prats, Intervento sull'impatto dell'eruzione vulcanica a Chaiten

Fernando Prats, “Grand Sur”, 2011 Neon lettering, veduta dell'Istallazione Facciata del Padiglione del Cile 54. Biennale d'Arte di Venezia

eccessi: uno fisico e uno naturale, però quello che io chiamo l'eccesso fisico, in realtà corrisponde alla tolleranza giuridica nella costruzione e nell'amministrazione del territorio. Una delle cose che mi ha impressionato di più è stato quando lo Stato ha inviato un comando dell'esercito per recuperare le popolazioni colpite, i registri immobiliari, le liste di servizio civile e di identificazione. Era un segno che la gente e la città avevano definitivamente cessato di esistere. È sempre importante porre l'attenzione sugli atti della giurisdizione. Tuttavia, quando si pensa ai disastri della natura, questi non esistono. Ci sono solo disastri culturali. La natura la consideriamo come area di debolezza, di fragilità solo in base al potere della cultura. Questo potere si pone, a volte, scopi illimitati. E questo è pericoloso. Il fascino di immaginare il dominio, il controllo di tutte le coordinate per non trovarci lì dove non dovremmo essere nell'ora e nel momento meno indicati. Il progetto presentato alla 54° Biennale di Venezia s'intitola “Gran Sur”, un dialogo tra tre pezzi che sono di per sé, processi di condensazione del tempo. Il primo intervento ruota intorno al disastro vulcanico nella

Fernando Prats Lavoro sul terremoto che ha colpito le zone del centro sud in Cile, tele

città di Chaitén, il secondo intervento consiste in una serie di disegni realizzati dopo il terribile terremoto in Cile nel mese di febbraio 2010 e il terzo ripropone l'installazione fatta in Antartide sull'Isola dell'Elefante formata da lettere al neon che riprendono l'annuncio pubblicato da Shackleton per reclutare uomini capaci di affrontare l'avventura della traversata del Polo Sud nel 1914. L'annuncio di Shackleton è il fulcro dell'esposizione ed è posto al centro della facciata del padiglione come una chiamata all'impossibile. Nella prima sala ad accogliere lo spettatore, il video, testimonianza dell'installazione sull'isola dell'Elefante. All'interno dello spazio ci sono inoltre due opere che si riferiscono all'eruzione di Chaitén e al terremoto, costituite da due video che mostrano l'azione pittorica e due grandi vetrine con i risultati tangibili del processo, mentre sulla parete maggiore del padiglione, un grosso polittico colorato riproduce il sismogramma del disastro del 27 febbraio 2010. G.P: Che riscontro ha avuto il tuo lavoro dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia? F.P: Una reazione molto positiva dalla

critica erudita e informata. Una reazione negativa della critica militante. Una piacevole, invece, reazione da parte del pubblico che è riuscito a cogliere in “Gran Sur” il vero senso dell'operazione e del lavoro, scavalcando la formalità e l'oggettività dell'opera. Tirando le somme il padiglione è stato un successo. G.P: In che misura l'arte può legarsi al sociale e che potere di influenza può esercitare nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica e del sentimento collettivo? F.P: La difficoltà è che né l'ordine sociale, né l'opinione pubblica, né il sentimento collettivo sono sullo stesso piano. Sono più elementi che si articolano in modo molto particolare, perché hanno storie molto particolari. Ciò che conta è stabilire delle connessioni tra loro. L'opera d'arte lavora nel mezzo della tensione tra questi tre elementi, a volte come catalizzatore, altre come amplificatore delle distanze. In ogni caso non userei la parola 'legarsi', ma articolare. G.P: Quali sono i tuoi progetti futuri? F.P: Sto lavorando alla pubblicazione di “Gran Sur”, preparo un progetto per la Biennale della Polonia e una mostra a Barcellona.

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arskey/speciale Biennale di Venezia| Eventi Collaterali della 54° Biennale di Venezia

eVentI COllAteRAlI dellA 54° BIennAle

“ROUnd the ClOCK” di Valentina Mariani

Matteo Sanna, "This Paradise is not for me" 2011 Foto © Sebastiano Luciano

Carta, cenere, ferro, vetro sono alcuni dei materiali che caratterizzano le opere della mostra “Round The Clock”. Materiali e mezzi discreti sono punti cardine dell'esposizione – tra gli Eventi Collaterali della 54° Biennale di Venezia – a cura di Martina Cavallarin, presso lo Spazio Thetis. Il percorso espositivo è frutto di un ragionato percorso creativo e intellettuale, che si addentra in problematiche attuali, legate all'ecosistema e all'ambiente. L'interazione dell'uomo con il pianeta è il tema che ha ispirato la curatrice e l'elaborazione delle opere. 15 gli artisti internazionali chiamati in gioco: ciascuno con la sua personale interpretazione del tema, ma tutti accomunati da una solida ricerca concettuale, espressa tramite strumenti e materiali modesti, spesso riciclati, concreti portavoce d'un possibile sistema ecosostenibile. La forza poetica e l'estrema sensibilità di questi artisti introducono un discorso tra i più urgenti per la società odierna. Cambiamenti epocali possono scaturire da una sensibilizzazione destata dalla profonda potenzialità comunicativa dell'arte contemporanea. Tale operazione può avere il coraggio di partire dagli elementi apparentemente più banali della quotidianità. David Rickard valorizza il peso del respiro, rimarcando le dimensioni di un'esigenza primaria dell'uomo: “Exhaust” è un'installazio-

ne composta da palloni gonfiabili, riempiti con l'aria esalata dall'artista nel corso di 24 ore. Wilhelm Scheruebl, per “Birdseed”, si serve della spiazzante semplicità dei semi: girasoli e cardi, piantati in sacchetti di plastica sospesi al muro, germogliano davanti allo spettatore. Alla botanica si lega anche “Blumen” di Francesco Bocchini, una vetrina che espone fiori surreali, creati con lamiere di ferro dipinte a olio. Un gioco illusorio e provocatorio, che ben si accorda con quello di Eva Jospin: “Détails d'une Forêt”, un profondo rilievo di legno e cartone, invita lo spettatore ad addentrarsi in una foresta immaginaria, confine poetico tra la realtà e un mondo di fantasia. Diametralmente opposto è il percorso di Ulrich Egger, che con la sua ‘fotoscultura’, “Im Herzen der Altstadt”, analizza l'urbanizzazione e il suo impatto sulla natura. L'architettura è protagonista di altre due opere: “Play time” di Silvia Vendramel, una struttura sospesa di legno e plastica, che segue il disegno delle ombre, tracciato dalla luce attraverso le finestre, e “Apolidea”, video di Devis Venturelli, un lucido confronto tra l'impatto dell'architettura stabile e quello delle tende dei nomadi. Chiara Lecca usa materiali “provenienti dal ‘ventre’ del mondo naturale”, per concentrarsi sul legame viscerale che lega uomo e natura. Una spirale loga-

ritmica traccia la linea intorno a cui si dipana “This paradise is not for me”, di Matteo Sanna, una serie di mangiatoie per uccelli in cui il mangime è visibile, ma non raggiungibile: una riflessione sulla disponibilità e lo sfruttamento delle risorse. Una denuncia sociale si svela in chiave pop con Antonio Riello, nella reinterpretazione ironica di oggetti aggressivi, ricoperti con carte da parati, come il missile “Honest John”. Analoga è la dimensione ludica di “Kaleidos” di Maria Elisabetta Novello, mentre su un versante documentaristico si colloca Svetlana Ostapovici con “Metal recycling”. “Monumento al mantenimento delle regole di casa”, di Gianni Moretti, è un gioco sapiente intorno all'etimologia del termine 'ecosistema'. Sul tema quanto mai attuale della ricerca d'energia nel segno del rispetto per l'ambiente, si concentra Serafino Maiorano. Infine, un fotogramma di “Deserto rosso” di Michelangelo Antonioni è lo spunto per l'opera di Peter Welz – “Study for a video sculpture” / [Michelangelo Antonioni] - che trae spunto dall'importanza che l'ambiente aveva, per il regista, nella rappresentazione dello stato d'animo. “Round The Clock”, forte della sua coerenza intellettuale, mostra con semplicità, ma con effetto, come un 'nuovo umanesimo' sia auspicabile e forse non troppo lontano.


arskey/speciale Biennale di Venezia | Eventi Collaterali della 54째 Biennale di Venezia

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arskey/Art| Intervista Surasi Kusolwong

Surasi Kusolwong, “Ping—Pong, Panda, Povera, Pop—Punk, Planet, Politics and P—Art” Courtesy Fondazione Hangar Bicocca Copyright Agostino Osio


arskey/Art| Intervista Surasi Kusolwong

InteRVIStA

COnVeRSAzIOne COn SURASI KUSOlWOnG di Viviana Pozzoli I'm much more interested in personal relationships than aesthetic. Aesthetic is just what you see, it has to do with appearances… Surasi Kusolwong

Surasi Kusolwong, classe 1965, vive e lavora a Bangkok. Celebre per i Markets, installazioni/performances in cui nella tipica atmosfera dei mercati orientali sono esposti e venduti al pubblico al prezzo unico di un dollaro oggetti di uso quotidiano, opere d’arte e chincaglierie kitsch mescolati tra loro, i suoi lavori sono stati esposti in importanti luoghi dell’arte internazionali, come la Tate Modern di Londra, il Palais de Tokyo di Parigi e il Rose Art Museum di Boston, oltre che alle Biennali di Taiwan (2000), Berlino (2001), Istanbul e Venezia (2003) All’Hangar Bicocca di Milano l’artista thailandese Surasi Kusolwong mette in scena la caleidoscopica mostra “Ping-Pong, Panda, Povera, PopPunk, Planet, Politics and P-Art”, un’installazione multipla site-specific che si sviluppa nello shed, la parte iniziale del grande spazio espositivo. Fulcro della mostra sono cinque tavoli da ping-pong, sui quali l’artista è intervenuto con una serie di oggetti, tra cui piccole sculture, gadgets e uova, o ancora con superfici specchianti disseminate di citazioni, all’insegna di quell’intreccio tra fonti alte e fonti basse che caratterizza da sempre la sua poetica. Simbolo per eccellenza della diplomazia internazionale, nel suo svolgersi su un continuo scambio, di battute e di risposte, il gioco del ping-pong è anche un invito al dialogo, una lieve ed elegante metafora della vita e delle relazioni umane. Offrendogli la possibilità di prendere attivamente parte all’installazione, attraverso l’elemento ludico e lo strumento dell’ironia Kusolwong invita il pubblico a una profonda riflessione critica sulla contemporaneità, che investe tutti i suoi aspetti, sociali, politici, economici e ambientali. Le installazioni e gli environments scultorei della mostra - dal cubo in alluminio collegato a una macchina del fumo, alle lampade pendenti che rappresentano i diversi continenti del mondo, dalla scultura composta dalle pagine del libro “Living in the End Times” del filosofo e psicanalista sloveno di matrice marxista Slavoj Žižek, al panda 'made in China' realizzato in

tessuto, dalle strutture in gommapiuma o le sculture-tenda che riflettono sul tema dell’abitazione, al neon “Hello” che cita una canzone dei Nirvana le cui note riecheggiano nell’Hangar - affrontano queste tematiche complesse con grande acume e ironia, mescolando suggestioni, simboli ed elementi linguistici della spiritualità orientale con quelli della tradizione artistica occidentale (in particolare Arte Povera, Minimalismo e Razionalismo), in un continuo e inaspettato gioco di rimandi. Viviana Pozzoli: Vorrei iniziare dal titolo della mostra, “Ping-Pong, Panda, Povera, Pop-Punk, Planet, Politics and P-Art”. Puoi spiegarci come lo hai scelto e qual è il suo significato? Surasi Kusolwong: Mi è sempre piaciuto giocare con le parole: svela legami e significati nascosti. Nel titolo uso termini brevi che iniziano con la lettera ‘p’, creando una sorta di codice, una password - esattamente come per il computer - attraverso cui accedere alla mostra. Per comprenderne il significato, per cogliere i legami intimi tra le diverse opere, bisogna avere una chiave di accesso, una chiave di lettura. Il riferimento al ping-pong è chiaro, si tratta dell’elemento di maggiore visibilità della mostra ed è un po’ la metafora di tutto il lavoro; il panda è fisicamente presente; povera rimanda all’Arte Povera, ma anche alla condizione del pianeta; la musica è uno degli elementi dell’insieme; la politica, per la quale ho scelto di usare la metafora della luce, è rappresentata

dalle lampade, si scopre verso la fine del percorso espositivo è il momento più forte e intenso della mostra; la part infine è quello che faccio, è l’arte delle persone. V.P: Il titolo è piuttosto 'dadaista', come l’atteggiamento radicale e iconoclasta che si respira qui all’Hangar e come, del resto, i tuoi celebri Markets. Negli anni Venti i dadaisti tedeschi definivano le loro mostre ‘fiere’ (‘Dada-Messe’), all’insegna di una programmatica diminutio del concetto di opera d’arte in linea con il carattere fortemente anti-artistico della loro ricerca. S.K: Amo molto Dada… Non avevo pensato a questo legame, ma grazie al tuo suggerimento non posso che riconoscere il grande fascino che il movimento dadaista ha esercitato su di me e sulla mia poetica, e che in parte avevo dimenticato. Ti ringrazio per l’accostamento, ne sono lusingato. V.P: Nel tuo lavoro trovano spazio diversi simboli dell’Asia nell’immaginario collettivo - il ping-pong, il panda, etc. Quanto incidono i luoghi comuni sulla tua riflessione artistica e perché scegli di affrontarli? S.K: Più che di luoghi comuni io parlerei di cose comuni, nel senso positivo del termine. Ho viaggiato molto nella mia vita, ho avuto la fortuna di girare il mondo, come Boetti. Lui amava viaggiare e lavorare con le persone del luogo. Non lavorava per realizzare grandi opere d’arte, ma per creare una vita migliore. Cos’è una vita migliore? È qualcosa di comune, di semplice, di quotidiano, come dimo-


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Surasi Kusolwong, “Ping—Pong, Panda, Povera, Pop—Punk, Planet, Politics and P—Art” Courtesy Fondazione Hangar Bicocca Copyright Agostino Osio

stra la sua esperienza in Afghanistan con le giovani ricamatrici locali, alle quali ha commissionato numerosi manufatti, tra cui la celebre “Mappa”, nonché la vicenda del One Hotel a Kabul, aperto dall’artista e lasciato in gestione a un giovane del posto. Queste esperienze sono testimonianze di un’intima vicinanza tra l’artista e la vita quotidiana, all’insegna di una condivisione del pensiero comune. Non è la solitudine che fa l’arte, ma qualcos’altro: sono le relazioni, dentro e fuori il museo. È in questa direzione che va letta la mia proposta di aprire le porte dell’Hangar per far incontrare le persone all’interno e all’esterno dello spazio espositivo, sottraendo l’ambiente alla sua dimensione buia, silenziosa e quasi sacrale. V.P: In questo senso è molto interessante il dialogo che si instaura fra le tue opere e la straordinaria installazione permanente di Anselm Kiefer “I Sette Palazzi Celesti”, lavori completamente differenti per approccio, concezione e personalità. Il risultato è particolarmente stimolante perché questo dialogo, questo principio del confronto e del contrasto, ritorna provvidenzialmente come una sorta di leitmotiv in tutta la mostra. S.K: Assolutamente sì, c’è un completo contrasto: con la sua gravità e

solennità l’opera di Kiefer sembra rivelare una verità assoluta, soggiogando lo spettatore fisicamente, emotivamente e intellettualmente, senza concedergli scelta né via di scampo, e così facendo enfatizza proprio quella distanza tra arte e pubblico che io invece cerco di annullare. Ho lavorato molto sulla luce qui all’Hangar, ho creato la mia luce - per me è sempre difficile accettare l’illuminazione che trovo nelle gallerie, sento il bisogno di crearla ex novo -, un elemento che contribuisce a dare vita a un’atmosfera nuova, radicalmente differente. V.P: Povera significa Arte Povera. Molti elementi del tuo lavoro per l’Hangar, e in generale di tutta la tua ricerca, citano l’arte povera e i suoi artisti, come Alighiero Boetti. Si tratta di elementi diversi, dai materiali, quali specchi, marmi, tessuti e neon, alle forme, come il cubo, da alcuni oggetti, tra cui le lampade, al medium linguistico, grazie alla citazione diretta dell’artista. Perché hai scelto proprio il movimento torinese, ci sono delle ragioni personali? S.K: Penso che ciò che accomuna maggiormente me e gli esponenti dell’Arte Povera sia il trionfo di quel concetto che vede l’utilizzo della materia prima quale elemento della creazione, come in Prometeo. Ai suoi

esordi il movimento lavorava sulla povertà dei materiali, anche se con il tempo è arrivato a risultati molto lontani da tali premesse. Ciò che mi interessa dell’Arte Povera sono le intenzioni, non i risultati. Questa intenzionalità è intimamente legata alla mia idea dell’arte e al mio modo di operare, ed è ciò che mi ha più profondamente influenzato. È inoltre importante ricordare che il gruppo aveva a che fare da vicino con il movimento industriale, era connesso con il sistema politico e il mondo dell’industria, ai quali guardava criticamente, e sono proprio le modalità con cui i suoi artisti si relazionavano con questi aspetti della realtà contemporanea a interessarmi. V.P: Il gioco, come il ping-pong, e più in generale l’elemento ludico sembrano centrali nella tua ricerca espressiva. Lontanissimo dalla forma che ha assunto nella contemporaneità, di rituale ordinario, standardizzato e massificato, nella tua opera il gioco torna a essere momento di libertà, di creatività collettiva e individuale, strumento di critica e autocritica costruttiva, motivo di presa di coscienza di sé e del mondo e di consapevolezza. Cosa rappresenta il gioco nella tua poetica? L’arte può essere definita un gioco?


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S.K: Sì, assolutamente, credo che l’arte sia un gioco flessibile. Ciò che mi interessa è che a ognuno è consentito creare le proprie regole del gioco. Si può scegliere di usare il ping-pong, il football o la boxe, ma ciascuno è libero di cambiare le regole a proprio piacimento. V.P: Allo stesso modo il pubblico delle tue mostre può decidere le regole - ad esempio può decidere se rompere o lasciare intatte le uova che hai disposto su uno dei tavoli da ping-pong perché gli viene concessa piena libertà (e responsabilità). S.K: Certamente, il pubblico è libero e può prendere le proprie decisioni. Per me è importante la condivisione di un’esperienza, come nella musica… In un concerto l’artista e il pubblico condividono le stesse emozioni. Se a un concerto al pubblico non è concesso fare nulla, se non può esprimersi, cantare, ballare, potrebbe rimanere a casa e ascoltare un disco. Desidero fortemente che alle mie mostre si crei una speciale energia, che vi sia un sentimento di condivisione tra l’artista e il pubblico, esattamente come nella musica. V.P: Vorrei parlare di dialogo culturale. Attraverso i tuoi lavori porti l’Oriente - i suoi simboli, i suoi colori, i suoi oggetti, e anche il suo caos (mi riferisco in particolare ai tuoi Markets) - nelle gallerie e nelle istituzioni artistiche dell’Occidente, e affronti in modo ironico e propositivo il tema della globalizzazione. In che misura ti interessa la dimensione del

dialogo e dello scambio culturale? S.K: Tempo fa pensavo che l’arte fosse molto importante per lo scambio culturale, ora non più. Sono giunto alla conclusione che oggi l’arte è uno dei tanti media che i politici e gli uomini di potere usano, come uno strumento. In questo contesto lo scambio culturale è la sfida dell’artista, che deve uscire dalla sua torre d’avorio e affrontare la realtà. Personalmente ho sempre cercato la sfida, in ogni momento. Quando prepari una mostra devi chiederti in che modo vuoi partecipare, come affrontare il tuo ruolo e come relazionarti con la collettività, con la comunità dell’arte e con il pubblico. Ad esempio io amo molto lavorare con gli studenti, mostrare loro il mio lavoro, spiegare loro le opere e così via: mi interessa lo scambio che si crea. Non sono uno di quegli artisti che pretendono di insegnare tutto agli altri, sono una persona semplice, normale, mi piace il dialogo, mi piace parlare con gli altri e ascoltarli; mi interessano i rapporti umani. V.P: Mi sembra che il tuo immaginario possa essere accostato a quello cinematografico. Le tue installazioni, dalle atmosfere molto suggestive, si animano grazie al pubblico, a persone che, prendendovi parte, compiono delle azioni (come fossero attori), e alla presenza della musica (quasi una colonna sonora). Cosa ne pensi? Che rapporto hai con il cinema? S.K: Molte persone mi domandano se ho mai visto un certo film, affermando che è molto vicino alla mia sensibilità,

al mio modo di pensare e di lavorare, ma io rispondo di no. Non ho una vasta cultura cinematografica o musicale, so molto poco in generale, ma sperimento: mi piace fare cose che non ho mai fatto o che non conosco, e mentre le faccio imparo. In campo cinematografico ho davvero scarse conoscenze, ho visto pochi films; tuttavia in una recente mostra al Van Abbemuseum di Eindhoven ho utilizzato un film di Chris Marker intitolato “Untitled”, che molte persone le quali conoscono bene il cinema non avevano mai visto. Ho scelto quella pellicola perché mi interessava confrontarmi con qualcosa di diverso. Come per Boetti: tutti lo conoscono, ma quando mostri loro una sua opera ti chiedono se sia davvero un Boetti… Non si tratta di una conoscenza di Boetti, ma su Boetti. Lo stesso Boetti si rifà ad altri, come faccio io nella mia opera: si deve scavare il primo strato, quello più superficiale, per capire il messaggio, una citazione, un riferimento, e poi si scava ancora, in un’intricata operazione a più livelli. È una questione di relazioni, una rete di rimandi, connessioni e rapporti in cui l’uno è strettamente legato all’altro. È come la metropolitana, dove le connessioni e gli scambi si sviluppano al di sotto della superficie. V.P: In molti dei tuoi lavori giochi con i materiali, creando un cortocircuito di senso che sovverte il significato di oggetti e situazioni. Le tue sculture, come le sculture-tenda o le strutture abitative in gommapiuma, mettono in discussione l’oggetto stesso, depo-

Surasi Kusolwong, “Ping—Pong, Panda, Povera, Pop—Punk, Planet, Politics and P—Art” Courtesy Fondazione Hangar Bicocca Copyright Agostino Osio

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tenziando il suo ruolo e defunzionalizzandolo. Questo processo sembra suggerire un’indiretta relazione tra l’identità dell’oggetto e il concetto di autorità. S.K: È esattamente come dici, mi interessa svelare la struttura delle cose e dei fenomeni, facendone emergere ambiguità e contraddizioni. Lavorare sui contrasti - bianco e nero, ovest e est, tranquillità e follia, minimalismo e espressionismo - mi permette di dare vita a queste contraddizioni e di innescare quel processo di analisi critica e consapevole che hai tratteggiato. Per quanto riguarda i materiali, qui all’Hangar ho scelto di utilizzare in modo preponderante la gommapiuma, soprattutto in relazione al tema dell’abitazione e della sua progettazione. Queste spugne industriali sono fantastiche, permettono di realizzare strutture molto leggere la cui massa assomiglia a quella di un organo che assorbe l’aria e l’ambiente. V.P: Il tuo lavoro sottende una dura critica al consumismo e alla mercificazione dell’arte. A partire dagli anni Sessanta molti artisti, gruppi di artisti e movimenti hanno portato avanti questo tipo di ricerca. Perché è ancora attuale? Che cosa è cambiato? S.K: È ancora estremamente attuale, è ciò che ci circonda e gli artisti non possono ignorarlo, ma dagli anni Sessanta tutto è cambiato radicalmente. In primo luogo oggi si assiste al fenomeno del decentramento della produzione, per cui i prodotti delle grandi case di moda o di design sono disegnati da qualcuno in un Paese (dall’“autorità”) e poi realizzati altrove, in Cina, Indonesia, Sri Lanka o Bulgaria. Il concetto della produzione di un prodotto in un unico Paese - dall’ideazione alla realizzazione manifatturiera o industriale - ormai non è che un’utopia, una falsità. Bisogna poi considerare come lo stesso approccio economico, così come le relazioni e i rapporti di potere a livello internazionale, siano completamente differenti da quegli anni. V.P: La tua ricerca riflette in modo penetrante e efficace sulla situazione

politica mondiale. Pensi che un artista debba essere impegnato politicamente e che il suo ruolo sia quello di interpretare criticamente la realtà e guidare la società? S.K: Assolutamente sì. Mi piace la politica, anche se non voglio essere un politico… Spesso dico che sono troppo giovane per essere un politico e troppo vecchio per essere una superstar! V.P: Sei molto attento al destino del pianeta e presentando la tua macchina del fumo durante l’anteprima della mostra hai usato le parole “world is smoking”, dando vita a un’immagine icastica e altamente evocativa. Recentemente l'Italia è stata chiamata a decidere sul nucleare attraverso un referendum. Vuoi dire qualcosa a questo proposito? Come ti poni di fronte al nucleare e al problema dell’energia? S.K: Sono da sempre attento agli investimenti dei diversi Paesi nel settore energetico e alle relative strategie messe in atto dai politici. Per me è assurda la contraddizione che si crea nella definizione ‘energia pulita’. I potenti la chiamano energia pulita perché è invisibile, è trasparente, ma non è affatto pulita ed è estremamente pericolosa. È sotto gli occhi di tutti quello che è appena successo in Giappone, tuttavia essi continuano a dire ciò che vogliono, trascurando il fatto che sia corretto o meno, e raccontano menzogne alla persone servendosi dei media. Diversi esponenti legati al mondo della politica, come uomini d’affari, cercano di fare propaganda puntando prepotentemente sulla capacità di persuasione dei media. In Thailandia conosciamo bene questo fenomeno, la nostra realtà è in questo senso molto vicina a quella italiana, con cui condividiamo proprio tali problemi. Il nostro ex primo ministro, Thaksin Shinawatra (ricco imprenditore e proprietario della maggiore compagnia telefonica nazionale, costretto alle dimissioni per conflitto di interesse, ndr) è chiamato Berlusconi n. 2. Voi italiani siete diventati una sorta di esempio: il modello italiano, il modello Berlusconi. È per questo che ho

scelto di realizzare qui il ping-pong, un lavoro altamente simbolico, presentato per la prima volta in Cina, la patria della ping-pong diplomacy, poi in America e ora in Italia. La mia è una scelta precisa e consapevole, che intende veicolare un messaggio importante. V.P: Andrai a Venezia durante il tuo soggiorno italiano? Cosa pensi di una manifestazione come la Biennale? S.K: Sinceramente non so se andrò a Venezia quest’anno, non ne sono sicuro. Ci sono stato diverse volte e nel 2003 ho partecipato con “Oxygen Room (Breathing Beauty)”, un’opera in cui i visitatori erano invitati a respirare ossigeno e riflettere sulla qualità dell’aria e sulla condizione del pianeta. La Biennale è una manifestazione basata su un sistema molto tradizionale, ma è un vero modello per il mondo. C’è una lunga e consolidata tradizione di rapporti artistici fra Thailandia e Italia, scaturiti proprio in seno alla Biennale, soprattutto nell’ambito delle istituzioni deputate all’insegnamento dell’arte. L’accademia dove ho studiato a Bangkok è stata fondata da un italiano e il mio maestro è stato allievo di italiani. Amo l’Italia e la mia formazione ha inevitabilmente delle profonde radici in questo Paese, perciò ho pensato che ora toccava a me: era il momento per ricambiare in qualche modo, per venire qui e dare il mio contributo; ed ecco la mostra all’Hangar. In genere non lavoro facilmente con le gallerie. Dico sempre di me che sono un piccolo animale, ma vivo, e non una grande tigre. Molti artisti diventano delle tigri; io non voglio essere come loro… le grandi tigri si trovano nei musei, ma sono imbalsamante. Io preferisco lavorare e stare con le persone.


arskey/Art| Intervista Jenni Lomax

CAMden ARtS CentRe

InteRVIStA A JennI lOMAx di Stella Kasian Il suo sorriso è stata la sua fortuna e quella del Camden Arts Centre. Nota nell’ambiente dell’arte per la sua naturale dote di rapportarsi in maniera diretta e spontanea con gli artisti con cui quotidianamente entra in contatto, Jenni Lomax, da oltre dieci anni, con la stessa passione e lo stesso entusiasmo, tiene le redini di una delle gallerie d’arte pubblica fra le più apprezzate da pubblico e critica, a Londra, e non solo.

Kenneth Martin and Mary Martin, “Constructed Works” Installation view Camden Arts Centre 2007 Copyright Camden Arts Centre Photo credit Andy Keate

Stella Kasian: Il Camden Arts Centre è una delle istituzioni culturali maggiormente rispettate, recentemente fra le gallerie d’arte premiate dall’Arts Council, avendo ricevuto un incentivo sui fondi pubblici concessi. Fra i meriti riconosciuti vi è la capacità di vedere dove altri non posano lo sguardo. Negli ultimi anni sono stati rivalutati artisti del passato, ad esempio Eva Hesse i cui lavori sperimentali poco conosciuti al pubblico sono stati messi in mostra lo scorso inverno “Studioworks”, 2009-2010; giovani promesse come Angela de La Cruz alla prima mostra in una galleria pubblica inglese, mostra che le ha valso peraltro la nomina al Turner Prize “After”, 2011; o artisti stranieri appena noti nel Regno Unito, come Pino Pascali, la cui personale si è recentemente conclusa “Final works 196768”, 2011. Quali sono i criteri in base alla quale viene stilato il programma espositivo della Galleria? Jenni Lomax: Lo scopo fondamentale del Camden Arts Centre è permettere

alle persone di scoprire nuovi aspetti dell’arte. Quindi piuttosto che condividere la medesima tipologia di artisti di molte altre gallerie a Londra, come la Whitechapel o la Serpentine, che spesso tendono a mostrare uno stesso aspetto dell’arte, il Camden preferisce concentrarsi sul processo del fare arte, sul modo di pensare e lavorare degli artisti, su come alcuni siano o meno influenzati da altri. È per questo motivo che si cerca di creare un equilibrio fra artisti emergenti e pietre miliari della storia dell’arte, con il costante obiettivo di coinvolgere il pubblico nella comprensione di questi processi di creazione e ispirazione. S.K: A tal proposito, il pubblico ha un ruolo importante, non solo mero spettatore della mostra, ma è chiamato a prendere personalmente parte alle attività della galleria, spesso attraverso un'interazione diretta con gli artisti. Prima di diventare direttrice del Camden Arts Centre lei ha lavorato per più di dieci anni (1979-90) come Community Education Organiser alla

Whitechapel Gallery. In che modo la sua esperienza precedente ha influito sul lavoro che svolge oggi al Camden? J.L: Prima di tutto c’è da dire che io stessa ho ricevuto una formazione da artista. Successivamente ai miei studi ho passato diverso tempo lavorando nell’area dell’East London, proprio dietro l’angolo della Whitechapel Gallery, nell’ambito di workshop e attività analoghe fatte con giovani artisti. Quando sono arrivata alla Whitechapel l’Educational Programme non esisteva, e negli undici anni che ho lavorato presso la galleria ho creato questo settore lavorando direttamente con gli artisti, portandoli a prendere parte alle mostre; ho creato un programma di residenze d’artista da svolgersi fuori dalla galleria, all’interno di scuole e ospedali. Una totale novità al tempo. Altre gallerie avevano un dipartimento educativo ma nella sua concezione più tradizionale e formale che escludeva la possibilità di mettere gli artisti e le mostre al centro della scena. Era un momento di grande fervore nell’East London,


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molti artisti si stavano trasferendo nella zona aprendo lì i propri studi e creando delle comunità. Mi è stato possibile lavorare a stretto contatto con tutti questi artisti. C’era davvero una grande collaborazione. Quando giunse il lavoro al Camden Arts Centre ero profondamente interessata alle possibilità di questo spazio, al tempo non molto conosciuto come galleria d’arte quanto per la serie di corsi qui organizzati. La struttura dava grandi possibilità che sentivo di dover sfruttare. C’era lo spazio giusto per creare un Artist's studio e a me interessava non tanto essere una curatrice, quanto porre l’attività degli artisti come punto di partenza del programma della galleria. S.K: Le residenze d’artista del Camden Arts Centre sono quindi un modo per permettere agli artisti di crescere e portare avanti la propria attività ma anche al pubblico di imparare? J.L: Un aspetto del lavoro degli artisti scelti per le residenze deve essere di per sé il coinvolgimento del pubblico. Questo viene poi supportato attraverso un programma di eventi, talks, workshops organizzati dalla galleria stessa. S.K: Fra i vari progetti realizzati negli ultimi anni, ricordo “DiY Regeneration”, parte di “Junction”, serie di eventi commissionata dal Camden Arts Centre e supportata da Bloomberg. Un progetto per rivalutare l’area di King’s Cross attraverso attività organizzate direttamente sul luogo. Possiamo parlare di senso civico dell’arte contemporanea? Ritiene che l’arte debba saper uscire fuori dai confini canonici della galleria per espletare al meglio questa funzione sociale? J.L: Penso che negli ultimi dieci anni si sia assistita a un tendenza da parte degli artisti più giovani di creare la propria arte in relazione alla propria comunità, una forma di arte pubblica, spesso prodotta attraverso una collaborazione fra artisti e architetti; un’arte capace di produrre un impatto diretto sul pubblico, stimolando le persone a riflettere sul luogo in cui risiedono, sulla realtà che vivono quotidianamente. Essendo il Camden interessato a questo genere di rapporto diretto fra artista e pubblico si è voluto coinvolgere questa tipologia di artisti nel nostro programma, cercando di lavorare con aree locali. Per esempio c’è un progetto attualmente in corso che si sta svolgendo presso una sala bingo su Kilburn High Road, portato avanti dall’artista Anna Best.

Per quel che riguarda King’s Cross, è un’area che a partire da tre anni fa ha subito un grande sviluppo commerciale che ha totalmente trasformato la zona influendo sulla vita dei suoi abitanti. Abbiamo immediatamente sentito come quest’area potesse essere particolarmente interessante per gli artisti come territorio da esplorare, come stimolo per progetti che potessero permettere ad artisti e abitanti di fare qualcosa di utile e produttivo per migliorare le condizioni di vita di un quartiere, creando una connessione più stretta fra arte e vita, mostrando l’aspetto più concreto dell’arte. Un esempio è il lavoro di Ria Pacquée “Return of the Witness” che ha filmato la gente comune durante la caotica routine quotidiana. S.K: In riferimento alla mostra curata da Simon Starling, “Never The Same River (Possible Futures, Probable Pasts)”, 2010, lei ha affermato: “per me gli edifici e le architetture sono importanti veicoli per mantenere il ricordo di una mostra”. In che modo la storia di un edificio, nel caso del Camden una vecchia biblioteca adibita poi a galleria d’arte e completamente ristrutturata fra il 2002 e 2003 su progetto dello studio di Tony Fretton, incide sull’allestimento e il risultato finale di una mostra. Come architettura e arte interagiscono e si influenzano? J.L: Penso questo accada in molti e differenti maniere. Quando lavori sul programma espositivo vieni a contatto con alcuni artisti il cui lavoro sembra essere perfetto per la tua galleria, come per altri pensi “questo artista invece sarebbe perfetto per la Serpentine”. È una questione di proporzioni e di strutture. Ricordo una coppia di artisti Kenneth Martin and Mary Martin “Constructed Works”, 2007 che trovai particolarmente adatti per questo edificio. Rappresentanti del Modernismo Inglese, lavorarono nel momento esatto in cui questa struttura si stava trasformando in una centro d’arte, entrando in contatto con le radici di questo edificio, di quest’area. La storia del Camden Arts Centre è forte e certamente influenza notevolmente il lavoro della galleria nella scelta degli artisti quanto il lavoro dell’artista stesso, che risponde fisicamente alla struttura architettonica, ma anche concettualmente all’idea del Camden Arts Centre, di ciò che è stato in passato e di ciò che è oggi. Il fatto che l’edifico nasca come biblioteca stimola il senso di ricerca e scoperta. Specialmente la Galleria 3, che era un tempo la sala di lettura, con le sue enormi finestre sulla strada ha un

impatto notevole sulla creatività di un artista. Recentemente Katja Strunz “Sound of the Pregeometric Age”, 2010 ha saputo molto ben sfruttare il potere di questo spazio creando un’interazione fra rumori esterni e interni. S.K: Parlando di ricordi e memorie, quale mostra, fra le tante che hanno avuto luogo qui al Camden sotto la sua direzione, le è rimasta particolarmente a cuore e perché? J.L: Sicuramente la mostra che posso definire maggiormente significativa per me è Michelangelo Pistoletto “Oggetti in meno (Minus Objects) 1965-1966”. Pistoletto allora non era molto conosciuto nel Regno Unito e quella nel 1991 fu la sua prima personale a Londra. Posso dire che quella mostra definì in un certo modo le linee guida del Camden Arts Centre. Ho comunque amato molte altre mostre. Fra le varie, una di cui vado molto fiera è quella dedicata a Prunella Clough “Paintings 19701996” che considero una delle pittrici inglesi più importanti del ventesimo secolo, ma totalmente lasciata in ombra dalle istituzioni. S.K: In apertura di questa intervista abbiamo accennato ai tagli che il settore della cultura ha recentemente subito. Sembra in parte profilarsi l’idea di un nuovo modello filo-americano che dia maggiore spazio e fiducia ai finanziatori privati, in modo tale che questa fonte diventi un’alternativa ai fondi pubblici. Cosa pensa lei di questa possibilità? In che modo ritiene che la cultura possa essere aiutata e sostenuta? J.L: Penso che l’idea di filantropia privata debba avere un ruolo importante nel sostentamento delle arti che non può essere affidato esclusivamente nelle mani del Governo. Tuttavia il rischio di affidarsi al privato è di essere meno sperimentali, avventurosi, politici, critici, dovendo affidare il proprio programma ai dettami degli sponsors. Bisognerebbe preservare le piccole organizzazioni più sperimentali, praticando una sorta di 'ecologia' dell’arte. Per esempio spazi come Studio Voltaire, da sempre all’avanguardia, che ricevono grandi incentivi da parte di privati hanno radicalmente cambiato l’assetto del programma, dando voce ad artisti conosciuti e consolidati. La nostra organizzazione riceve la giusta percentuale da parte di donatori privati, senza cui non potremmo svolgere il nostro lavoro, facendo sì che il nostro programma risponda a una serie diversa di criteri. Spazi come il nostro, rispetto a musei e a gallerie più grandi, indirizzano le


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Ria Pacquee, “The return of the Witness”, (2010) Copyright the artist

Katja Strunz, “Sound of Pregeometric Age” Installation view Camden Arts Centre 2010 Copyright Camden Arts Centre Photo credit Andy Keate

proprie risorse esclusivamente verso il programma e gli artisti, ed è anche per questo che lavoriamo con un team molto esiguo rispetto ad altre gallerie. Siamo lontani dalle grandi istituzioni che devono spostare parte delle proprie risorse dal programma alla ricerca e gestione dei fondi e quindi al supporto dei donatori, che non ricevendo benefici non concederebbero finanziamenti. Penso che la vera sfida sia raggiungere un giusto equilibrio fra le due componenti. S.K: È già stata alla Biennale di Venezia? J.L: Sì, sono stata in giugno in occasione dell’inaugurazione. Devo dire che ho molto apprezzato il lavoro di Melanie Smith per il Padiglione Messicano, sito fuori dai Giardini, presso il Palazzo Rota Ivancich. Fra gli eventi collaterali molto bella è la

Simon Starling "Never the Same River, Selected" Installation view Camden Arts Centre 2011 Copyright Camden Arts Centre Photo credit Andy Keate

mostra dedicata a Pino Pascali presso Palazzo Michiel da Brusà e la mostra collettiva “Tra - Edge of Becoming” allestita a Palazzo Fortuny. S.K: Cosa pensa dell’idea di Bice Curiger, direttrice di questa edizione di accostare ai classici padiglioni nazionali, dei così detti 'parapadiglioni', opere architettoniche create appositamente per ospitare i lavori di altri artisti in una maggiore interazione internazionale? J.L: L’idea di per se è molto brillante ma il risultato finale un po’ spiazzante. Ricordo le prime volte che mi recai a Venezia in occasione della Biennale, agli inizi degli anni Ottanta. Tutto era molto più a misura d’uomo, le mostre si svolgevano all’interno degli edifici della città negli ex Magazzini del sale, all’Arsenale e nelle Corderie, che ricordo utilizzate per la sezione “Aperto”, dedicata ai giovani artisti.

Il punto di forza della Biennale di Venezia è la città stessa. La possibilità di godere dell’arte contemporanea ma inserita in un contesto storico e artistico così suggestivo. Trovo interessante la scelta di aver portato l’arte fuori dai luoghi tradizionali, ma d’altro canto questo ha diminuito la possibilità di godere realmente Venezia, quasi scomparsa in una serie infinita di padiglioni, distaccati rispetto al cuore della città. Per me l’impatto è stato totalmente diverso. Forse essermi recata a Venezia nei giorni dell’inaugurazione non ha aiutato una visione oggettiva, travolta dalla frenesia, favolosa ma frastornante, di quei giorni. Potrei provare a tornare a settembre, in un momento in cui la Biennale è certamente più godibile.


arskey/Art| Michael Fliri

RACCOntI COnteMPORAneI

MIChAel FlIRI: Il CORPO tRA MASCheRA e IdentItà di Sara Panetti Nato in Alto Adige nel 1978, Michael Fliri vive e lavora a Vienna e in Italia. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha seguito diversi corsi di arte visiva tra Bergen e Monaco con Asta Gröting, Olaf Metzel, Maik & Dirk Löbbert, frequentando, nel 2005, la Filmaker University di New York . Dagli esordi del 2001 con “Come out and play”, alla Andechser Galerie di Innsbruck e con “Hell…Well” alla Kunstrom di Bergen, approda a Milano alla galleria Raffaelle Cortese, al MART di Rovereto, al Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, per giungere, oltreoceano, all’Art Miami Basel nel 2010

In principio era il 'corpo'. Un incipit perfetto per una monografia su Michael Fliri. Medium inflazionato, abusato, violentato e forzato al limite delle proprie possibilità da una certa corrente dell’arte contemporanea, a partire dai pionieri della Body Art degli anni Sessanta fino alle performance coeve, ecco che il corpo, viene nuovamente scelto, di default, anche dall’artista altoatesino il quale sembra calcare, con il plauso della critica, le scene del plateau artistico contemporaneo. Ed ecco dipanarsi la triade, ormai classica, del contemporaneista performativo: corpo, gesto, azione. L’artista, protagonista unico ed esclusivo delle proprie performance, diventa misura, con la sola presenza scenica, dei limiti insondabili dell’individuo. Seguendo uno studio scenografico attento e strutturato su pochi elementi rappresentativi, il soggetto indaga la realtà con un’ironia acuta e, a tratti farsesca, quasi a voler fare il verso alla gestualità aulica di una certa video-art eccessivamente compassa-

ta. Il tema della metamorfosi viene affrontato in “Ways around the Urschlamm” (2010), opera in cui una sequenza di maschere ferma il volto dell’artista nell’atto della trasformazione in essere animale, testimoniando una simbiosi primitiva dell’animo umano diviso da sempre tra uomo e bestia. La maschera ritorna con cadenza regolare nei lavori di Fliri, come testimonianza della volontà dell’artista di depurare la scena dalla presenza di un protagonismo soggettivo e autoreferenziale per cercare, nella declinazione del sé nell’altro, una possibilità di rivincita sul solipsismo eccentrico del singolo individuo, rendendo giustizia alla molteplicità dell’uno. Molto pirandelliano in questo, Fliri, considera la maschera come una possibilità. “La maschera è uno strumento” afferma durante l'intervista per Arskey magazine “che alcuni sanno usare, altri un po' meno. lo la vedo come una potenzialità che sta in ognuno di noi e che vale la pena di esplorare”. A metà tra metafora esistenziale e gioco dissacratorio, il tra-

vestimento diviene per Fliri un metodo d’indagine sulla realtà che lo circonda, un mezzo per creare prospettive inedite ancora cariche di quell’ingenuità che si perde fuori dal mondo della rappresentazione. In “All right...all right” (2007), il volto dell’artista viene coperto da maschere diverse e multiformi, realizzate con materiali di riuso quali fili di plastica e alluminio creando un carosello di icone clownesche e stereotipate. “Più lavori realizzo, col tempo, più ho la sensazione che sia l'insieme a rappresentarmi maggiormente. Considero interessanti le potenzialità del processo, e mi fido”. Per un’arte processuale, dunque, Fliri si pone a metà tra performance e video art, non disdegnando forme di rappresentazione più classiche quali la scultura. In “To praise exaggeration” (2010), un enorme volto giace a terra come un monolite abbandonato, lasciandosi coprire da diversi strati di lattice fluido che, dopo l’essiccamento, vengono rimossi come se ci si trovasse di fronte al mutar di pelle di un rettile.


Michael Fliri, “Ways around the Urschlamm”, 2010 sculture (masks)

L’energia che si crea durante il processo di trasformazione del corpo, del gesto e, in senso lato, della materia è il punto focale della ricerca di Fliri. Nei suoi video ciò che conta non è il plot, né il ritmo incalzante della narrazione, ma non è neppure il porsi in un atteggiamento da anti-eroe a contraddistinguerlo. Ciò che conta è il disvelamento di una processualità celata, di ciò che sta sotto, di quel ritmo altro che a prima vista può risultare monotono e ripetitivo, ma che, mettendo a nudo le dinamiche della rappresentazione, rivela, al contempo i meccanismi più intimi del reale. In “Give Doubt the Benefit of the Doubt (Make up)”, (2010), l’artista, sotto le sembianze di un essere ibrido, propone una serie di declinazioni dell’atto del cadere svelando i trucchi di una scena del delitto, come gli sgorghi di sangue sul pavimento a seguito di un assassinio. La farsa, la parodia divengono così metafora dei limiti del reale con i quali l’uomo si misura continuamente. Il corpo viene utilizzato al massimo delle sue potenzialità comu-

nicative. Sara Panetti: Che cosa vuol dire essere artisti, oggi? Michael Fliri: Vuol dire essere tutto ciò che vivo. Pormi nuove domande e nuove idee. Tutto questo mi rende un artista. I video di Fliri si pongono sulla linea di confine tra il sublime e il burlesco. Si scorge nei suoi lavori un intreccio indissolubile tra narrazione e performance: l’artista sta al centro della scena, prendendosi gioco di sé e dei suoi stessi propositi. Come una macchietta comica ironizza sulla propria condizione esistenziale che, di riflesso, diviene anche quella vissuta dallo spettatore. Le situazioni surreali che scorrono sullo schermo risultano spiazzanti, svelando il paradosso che va insinuandosi tra realtà e finzione, divenendo proiezione dell’immaginario degli astanti. Il male di vivere dell’uomo contemporaneo viene affrontato seguendo una linea narrativa sempli-

ce in grado di trasporre contesti apparentemente consueti in una dimensione immaginativa. In “0O°°°oo°0Oo°O0” (2010), l’azione si svolge in un ambiente subacqueo, con gesti minimi, sospesi in un tempo dilatato ed espanso; un tempo mentale in cui il protagonista si immerge calandosi da una botola posta a confine tra mondo sommerso e mondo reale. E, forse, è proprio questo il senso più intimo della poetica di Fliri: il porsi a metà tra fisico e simbolico proprio nel momento in cui tende all’estremo l’utilizzo del corpo come medium d’espressione narrativo-figurativa. Tutta la sua opera si gioca in una contrapposizione di energie, tra causa ed effetto, tra dentro e fuori, tra realtà e finzione, senza proporre soluzioni definitive, senza dogmi, come a voler reiterare un interrogativo laconico, come a voler lasciare allo spettatore il sacrosanto 'beneficio del dubbio'.

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Al MUSeO

arskey/al Museo| Fondazione Beyeler

BRAnCUSI e SeRRA

tentARe Il MOndO PeR CAttURARne l'eneRGIA di Francesca Pasini

Constantin Brancusi, “Une Muse”, 1912 Installation view Fondazione Beyeler Richard Serra, “Olson”, 1986 Fondazione Beyeler

L'arte è eternamente contemporanea, lo si dice spesso, ma è molto energetico poterlo constatare direttamente. Un esempio di gran classe lo si vede alla Fondazione Beyeler a Basilea, dove Brancusi e Serra creano un dialogo a distanza ravvicinata. Una mostra allestita in modo impeccabile negli stupendi spazi della Fondazione Beyeler a cura di Oliver Wick e accompagnata da un importante libro edito dalla Fondazione. È una vera magia quella che si prova nel vedere riuniti “L'oiseau d'or”, 1919 (Minneapolis Institute of Arts), 1923-47 (Fondation “L'oiseau”, Beyeler) , “L'oiseau dans l'espace”, 1925 -31 (Kunsthaus Zürich), “L'oiseau dans l'espace” 1927 (private collection), “L'oiseau dans l'espace”, 1930 (Guggenheim - New York) e due “Maïastra” 1912 ( Tate - London e Guggenheim - Venice). Ognuno li ha nella mente ma vederli tutti insieme crea uno shock fortissimo. È difficile da descrivere, perché la luce, la leggerezza, lo slancio plastico di ognuno crea una specie di euforia visiva, la percezione è di partecipare a una dimensione dello spazio totalmente fisico e nello stesso tempo non esperibile se non rimanendo con gli occhi fissi su queste forme inesauribili. È un grandioso regalo poter vedere sincronicamente questo gruppo di sculture. Analoga emozione si prova davanti

alle teste delle muse, le quali spostano radicalmente il concetto di ispirazione perché assumono la forza di un'energia condensata in forma, e nel dialogo tra l'una e l'altra si avverte il brivido di una ricerca che tocca e rivoluziona il senso originario della visione plastica. E poi il bacio, l'infante, “Mademoiselle Pogany”, 1925. Non potevano mancare alcune delle foto originali di Brancusi, né le sue colonne infinite, la serie de “La Négresse blanche”, 1923, “La Négresse blonde”, 1926, anch'esse presentate in gruppo, e occasione veramente rara, le sculture lignee suggestionate dall'arte africana del 1914 - 18. Insomma un tuffo in una collezione di opere, veramente eternamente contemporanee. E il dialogo con Richard Serra è un passaggio di grande empatia, senza cadute didascaliche. Si passa alle sue grandi sculture in un percorso alternato dove è decisivo riconoscere come lo spirito innovativo di Brancusi trova un proseguimento necessario nella ricerca plastica. È un passaggio che ci dice come la scultura abbia scelto di parlare dell'energia che sta nella vita e nell'universo e non solo nella capacità di reggersi autonomamente. Dalle Madonne dei Pisano, quando la torsione del busto è stata la chiave per dare vita al tutto tondo dei corpi, attraverso Brancusi e Serra si arriva a comprendere la sfida della

forma che tenta il mondo, non per descriverlo ma per viverlo dentro le sue molteplici e complesse conoscenze. Impareggiabile è in questo senso Richard Serra con “Olson”, 1986, dove due semi circonferenze inclinate e fuori asse ci parlano di tutto, della rotazione del mondo, della vertigine dell'equilibrio umano e di quello siderale. “Delineator”, 1974, composto da due grandi lastre di 790 x 310 cm, poste una a terra e una al soffitto, indica, invece, quanto sia scomponibile la percezione delle misure, quanto sia necessario non dimenticare la finitezza del nostro abitare: quella lastra sopra la testa apre lo spazio, ma ci dice anche della necessità di conoscere il limite sopra di noi. Si possono fare molte letture da quelle metafisiche a quelle umane, affettive, esistenziali, ma la forza di questa immagine sta proprio nella dura semplicità di raccontare la nostra finitezza in una stanza 'vuota'. Ed è quasi impossibile non riconoscere l'influenza volontaria e autonoma da Brancusi nella vorticosa scultura a parete, “Belts”, 1966-67, dove il movimento delle cinghie di cuoio si intreccia a quello del tubo al neon, come se la loro porosità atona avesse bisogno di un additivo di luce che dal gancio sul muro fa lievitare lo spazio. Basilea vale veramente un viaggio.


arskey/al Museo| Haus zum Kirschgarten

FRAnCIS AlÿS

Il PePlO ROSSO dI FABIOlA InCendIA lA CASA di Francesca Pasini

Francis Alÿs, “Fabiola” Schaulager at the Haus zum Kirschgarten, Basilea Photo: Tom Bisig, Basel Francis Alÿs, “Fabiola” Schaulager at the Haus zum Kirschgarten, Basilea. Photo: Tom Bisig, Basel

Alla base del progetto “Fabiola” di Francis Alÿs c'è il nevralgico legame tra iconografia e trasmissione simbolica, tra originale e copia, tra icona e stereotipo. L'installazione, prodotta dallo Schaulager, è ospitata alla Haus zum Kirschgarten di Basilea, la casa del mercante di seta Rudolf Burckhardt, costruita alla fine del Settecento, come simbolo del potere economico e sociale raggiunto. Passata di mano in mano è diventata proprietà della città che ha qui raccolto oggetti e arredi per farne un museo della vita domestica. Una sede che fa da sfondo in modo puntuale al progetto di Francis Alÿs e alla figura della Santa Fabiola, discendente della gens Fabia, attorno al 390 dc, dopo due matrimoni, abbracciò il cristianesimo lasciando tutti i suoi beni ai poveri. Una donna che scelse di passare dalla casa del marito a quella dello sposo divino e che fu fonte di ispirazione per il ruolo della donna nell'esegesi cristiana della famiglia. Alÿs nell'arco di vent'anni ha raccolto circa 370 immagini provenienti dal dipinto di Jacques Henner (1829 - 1905). Sono quadri, disegni, miniature, ricami, cammei, alcuni firmati, molti anonimi che presentano il ritratto del volto di una donna giovane, con un velo rosso che le copre la testa e le scende lungo il collo nudo. Ricorda la scultura neo-

classica e una specie di santino portato alla dignità di un ritratto. Un'icona che, come testimonia la ricerca di Francis Alÿs nei mercati delle pulci e nei negozi antiquari di tutto il mondo, è diventata il simbolo e lo stereotipo della santità domestica della donna. Accentuo il tono domestico perché l'agiografia di Fabiola dà risalto al rapporto con due mariti, dal primo divorziò per il suo carattere 'vizioso', dal secondo la separò la morte, ma resta comunque la 'macchia' del divorzio che contrasta con la monogamia cristiana, che appunto nell'Ottocento trova forma dogmatica. Jacques Henner evidenzia la bellezza e la giovinezza, ma ne mortifica la carne con un saio che le nasconde i capelli. La fortuna di quest'iconografia è collegabile all'intreccio tra una donna in carne e ossa e le vestigia della santa, il peplo rosso è da un lato plasmato sulla statuaria romana, dall'altro si allea a quello della Madonna. C'è insomma quel tratto di domestica affettività che ha reso popolare la Madre di Gesù, e questa santa che ha conosciuto prima l'amore degli uomini e poi quello del Cristo. Francis Alÿs punta gli occhi sulla struttura profonda dei legami culturali ed espressivi con manufatti di vario tipo; molti sono i ricami a piccolo punto che immediatamente ci trasportano in un'area voti-

va domestica, ma anche nella moltiplicazione inesauribile dei ritratti dipinti si sente la spinta ad avvicinare quest'icona al proprio vissuto. Ma il colpo da maestro sta nella scelta del luogo. In questa casa dell'alta borghesia protestante le innumerevoli immagini di Fabiola si annidano tra i quadri esistenti, dentro le vetrine delle porcellane, nelle camere da letto, nelle sale di rappresentanza, nei bagni, nella cucina, negli sgabuzzini fino a formare una straordinaria quadreria che dialoga con una raccolta di antiche teste femminili in 'Papier-mâché', nel piccolo padiglione del Giardino. Ne nasce un folgorante racconto sulla trasmissione di un'iconografia e sul desiderio di riprodurla, sul sentimento del kitsch, sul dramma della chiusura delle donne dentro i confini della casa. Non c'è nulla da aggiungere, basta attraversare questa casa e lasciarsi guardare da questa giovane donna dal capo velato di rosso per entrare nel labirinto delle influenze culturali, nell'ansia della ripetizione, nella fragorosa separazione che ha collocato le donne nelle case del padre, del marito, mentre loro costruivano il mondo e quelle stesse case in cui si concludeva l'universo femminile. Tutti questi veli rossi da cui emerge il profilo di Fabiola diventano un fuoco che incendia la casa.


arskey/Critica| Cartografia

Rosy Rox, “Ticket, Binario Zero”, 2008, stampa su carta, 9x21cm Collezione dell'artista

CARtOGRAFIA

ARte e CRItICA d'ARte nell'eRA del POlICentRISMO PlAnetARIO di Antonello tolve Il divenire delle arti e della critica (indicative sono le trasformazioni dei vari modelli produttivi e fruitivi), propone, da tempo, una serie di considerazioni che, sotto la via lattea della secolarizzazione (Säkularisierung) e del post-histoire, mettono in luce una riflessione legata non tanto all'apocalittica fine della storia o fine della modernità1 quanto piuttosto a una rilettura, oggi sempre più avvertita, degli spazi della vita e dell'abitare2. Se da una parte l'interrogativo costante è legato al ruolo e alla posizione dell'uomo nel post-histoire, appunto termine attorno al quale Arnold Gehlen struttura, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, un discorso affidato “a un testo racchiuso nell'emblema Zeit-Bilder” (Trimarco) -, dall'altra questa stessa strada fa da viatico, mi sembra, a una rilettura del mondo e del suo racconto cartografico per ristabilire un rapporto con i mutamenti radicali dell'odierno assetto planetario. Seguendo queste indicazioni, la condizione post-storica delinea un ambiente volto non solo a porre l'accento su problematiche dif-

ferenti e scottanti, ma a indicare anche un passaggio in cui la linearità del tempo (la linearità della storia) cede il passo al rigonfiamento dello spazio (al ripensamento topografico) per rilevare un salto nell'ambito del sapere geografico. Di una geografia che serve all'artista - all'uomo - per comprendere i profondi mutamenti di una umanità segnata dalla crisi del valore del nuovo (Vattimo) e assoggettata da quella che Krzysztof Pomian ha rilevato essere “una crescente dipendenza del presente dal futuro”3. Sostegno e incoraggiamento per l'arte e per la critica d'arte è, in questo modo, non tanto lo svuotamento della storia quanto, piuttosto, la sensibile dissoluzione degli argini geografici e la lettura dei nuovi valori - o disvalori globali in un mondo che ha perso da tempo ogni centro fino a divaricare le sue frontiere in direzione d'un territorio multiculturale e plurale. Indicazioni, queste, che richiamano in causa i problemi, altrettanto dominanti, dell'alterità - dell'altro, dello straniero -, dell'ospitalità e della coexistence (Nancy), del policentrismo4 e

dell'ecologia, della flexibility del lavoro (Sennett). “Lo spazio del Post-histoire”, suggerisce Angelo Trimarco in una riflessione tesa a dipanare il sistema dell'arte nell'intricato ambiente post-storico, “[...] risulta un territorio mobile e ricco, difficilmente riducibile allo splendore di pochi emblemi”. Un territorio - anzi, una condizione puntualizza Trimarco - in cui “l'arte testimonia di un ruolo centrale e privilegiato, in quanto pratica decostruttiva e fondativa di altri linguaggi e, perfino, nel progetto di Lévy, dell'antropologia e dell'architettura di città e di collettivi intelligenti”5. Situare al centro del dibattito il problema topografico e le sue varie declinazioni attuali, vuol dire, allora, rilevare un aspetto della vita quotidiana che, sotto la stella della delocalizzazione, e sotto la via maestra della globalizzazione (termine sin troppo abusato e liso), della disseminazione e della mondialisation6, della liquidità (Bauman) e della trasparenza, dell'immateriale e del virtuale, pone luce, immancabilmente, sulle questioni


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Bianco-Valente, “visibile invisibile”, 2009, digital drawing on paper, red cotton thread, cm 35x50 Bianco-Valente, “Materia prima (Raw material)”, 1994-2008, Geograpich map, Nail of cm.10, cm 21x30x6,5

un mOndO che ha persO da tempO Ogni centrO finO a divaricare le sue frOntiere in direziOne d'un territOriO multiculturale e plurale nevralgiche di un jardin planétaire (per usare le parole di Gilles Clément), di una civiltà transnazionale che cerca di misurare daccapo i propri territori e le proprie zone di percorrenza reale o, semplicemente, metaforica. Ora, il ricorso al linguaggio cartografico, non più rigorosamente scientifico e logico7 ma vivacemente creativo, permette all'artista (accorto e immaginifico topografo della superficie terrestre) di considerare daccapo l'atlante della vita - e quello delle sue emozioni8 - per ridurre (e a volte lillipuzzianizzare) il globo terrestre e ricondurre la sua estensione a formule grammaticali che fanno i conti con il mondo così come davvero è9. Ma anche con una spinta interiore, con una volontà di potenza, Wille zur Macht (Nietzsche), che si rivela come essenza stessa del mondo. Di un mondo che “non appare più se non come un'opera d'arte che si fa da sé sich selbst gebärendes (ein Kunstwerk)”10. Cosmopolita per eccellenza (e per inclinazione), l'artista accorcia sensibilmente - e radicalmente - la distan-

ze con l'altro promuovendo un alleggerimento della diversità - territoriale, culturale, religiosa, politica ecc. mediante sillabari visivi e linguistici che fanno dell'accumulo esperienziale uno dei nuclei e dei grumi del lavoro creativo d'oggi. Spingendosi fuori dalla dimensione narrativa e messo da parte il Grund, l'artista scavalca e cavalca il proprio confine storico-geografico per genufletterlo, segmentarlo e reinventarlo secondo una volontà luciferina che evidenzia una inesauribile agilità di presa diretta del mondo. Mosso dall'incertezza (in una nuova geologia planetaria dalla quale prende a prestito gli strumenti necessari) l'artista interroga il proprio pianeta, lo riformula per mescolarne gli statuti interni. Per creare regioni utopiche che segnano, disegnano e precisano ogni possibile problematica etica, politica, sociale. “L'arte attuale”, evidenzia Achille Bonito Oliva in una Lezione di anatomia socratica sul corpo dell'arte, “ha deciso di passare non alla storia ma alla geografia, di attraversare lo spa-

zio più che il tempo”11. Cittadino del mondo, l'artista percepisce una perdita di centralità alla quale contrappone una critica del discorso cartografico12 utile a ricostruire gli spazi dell'abitare mediante atti di liberazione (di creazione) e di riflessione sull'universo attuale della vita “dotato”, avvisa Farinelli lettore del mcluhaniano Understanding Media, “non di un unico centro ma di una pluralità di centri ubiqui, dunque apparentemente caotico e in continuo flusso”13. Le varie Tautologie - “Davanti, dietro, destra, sinistra, cielo”, 1967-1968 o il “Mappamondo geodetico”, 1968 -, le “Italie” o gli “Habitat” (legati, questi, all'elaborazione dell'idea di spazio) di Luciano Fabro. Il "Mappamondo" (1968) di Michelangelo Pistoletto esposto in occasione della mostra "Arte Povera + Azioni Povere", (Amalfi, Arsenali dell'Antica Repubblica, 4-6 ottobre 1968). I “Territori occupati”, 1969 e la splendida “Mappa”, 1979 di Alighiero Boetti. Il progetto - “Street of the city”, 20092010 - proposto da William Kentridge per gli spazi del Museo di


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Giuseppe Stampone, “Saluti da L'Aquila”, 2011 progetto neodimensionale (www.salutidalaquila.it) courtesy dell'artista e prometeogallery di Ida Pisani, Milano/Lucca

Capodimonte (Napoli) in cui l'artista, attraverso le tecniche tradizionali dell'arazzo, crea delle sovrapposizioni utopiche e infrange “le barriere tra geografia e politica, persone e cose”14. E poi, i “Ticket binario zero” realizzati da Rosy Rox in occasione della mostra “Sistema Binario”15 (tenuta negli spazi della Stazione di Mergellina); ticket utili per viaggiare su un treno fantasma la cui partenza imminente, dall'installazione “Binario zero”, 2008, volge verso mete ideali quali, Mosca, Londra, Parigi, Berlino, New York. Sempre in una stazione (luogo di percorrenza, di spostamento territoriale), quella di Mosca, “In the Company Of”, il video firmato da Simon Gush che mette in campo una partita di calcetto con dieci giocatori immigrati in Belgio da varie località del mondo, metafora d'integrazione, apertura e, naturalmente, dilatazione geografica. E ancora, le quattro mappe di Jef Geys “Quadra Medicinale”, 2009, il mondo ricostruito da Farid Rasulov “Safe map of the world”, 2007, i quartieri di Tokyo “Valley Trip”, 2007 proposti da Pak Sheung Chuen, il disegno grafico di Massimo Caputo “Détournement Venise”, 2009 realizzato in occasione della 53° Biennale di Venezia, il lavoro sull'Italia proposto dal collettivo Claire Fontaine in occasione della mostra “Italia Italie Italien Italy Wlochy”, tenuta negli spazi un po' dimenticati di ARCOS, il Museo di Benevento. Indimenticabili, in questa carrellata, i paesaggi capovolti, della serie “South”, 2008-2010, di Gea Casolaro (sua anche una meravigliosa installazione “You are here (and we are still here too)”, 2008, lo straordinario sistema geografico di natura emozionale messo in campo da BiancoValente “visibile invisibile”, 2009 e “Materia prima (Raw material)”, 19942008 e i recenti “Saluti da L'Aquila”, 2011 organizzati dall'elasticità creativa di Giuseppe Stampone16. La manipolazione della categoria territoriale che si evince dalla sfilata di queste opere, di questi progetti e di questi nomi dell'arte, pone l'artista all'interno di un discorso critico. O meglio di una critica del discorso geo-

grafico che serve a sabotare (e negare a volte) la natura storica della realtà. Con la fine simbolica della storia l'interrogativo si pone, dunque, sul suolo della geografia. Su un ritorno alle coordinate dello spazio che pone anche la critica e la teoria dell'arte a interrogarsi sui nuovi punti cardinali dell'arte e della vita. Non a caso, “Punti cardinali dell'arte” è, nel 1993, il titolo consegnato da Achille Bonito Oliva alla sua Biennale di Venezia. Un titolo che fa da viatico, appunto, a tutta una serie di riflessioni transgeografiche. A una serie di mostre che, sul finire del Novecento e lungo il primo decennio del XXI secolo, pongono l'accento su un paesaggio che muta l'assetto cartografico internazionale e intellettuale. “Eurasia. Dissolvenze geografiche dell'arte” tenuta al MART di Rovereto nel 2008 (anche questa a firma di Achille Bonito Oliva) rileva, a sua volta, uno stesso intrattenimento riflessivo. Il discorso verte, ora, sullo spazio (sul Raum17, appunto), perché l'artista e il critico d'arte percepiscono - e mettono il luce - una caduta generale delle frontiere territoriali che schiude altre vie d'analisi, altri orizzonti. Le coordinate geografiche diventano, così, anche per la critica, strumenti necessari a riconsiderare il pianeta. Lo dimostrano le intenzioni di Daniel Birnbaum che, in occasione della 53° Biennale di Venezia (2009), propone un titolo secco, “Fare Mondi / Making Worlds”, per sottolineare un paesaggio dilatato da un punto di vista temporale e territoriale. Una linea seguita, del resto, dalla mostra “Il mondo vi appartiene”, (2011) curata da Caroline Bourgeois negli spazi di Palazzo Grassi (sede della François Pinault Foundation), dal progetto espositivo “Ma quale, tra tutti i mondi, è il più esclusivo?” (organizzata, sempre nel 2011, a Salerno negli spazi dell'Archivio dell'Architettura Contemporanea) e dalla mostra celebrativa “Un'espressione geografica. Unità e Identità dell'Italia attraverso l'Arte Contemporanea” (curata da Francesco Bonami per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, anche

questa del 2011). Mostre, pratiche critiche, programmi espositivi e interrogativi che rappresentano, da angolazioni analoghe (e, certo, con differenti sfumature costruttive), il particolare desiderio di riappropriarsi del mondo e di fare i conti con la sua estensione territoriale. Con le sue divaricazioni. Con i suoi perimetri e le sue aree. Con i suoi paralleli, con i suoi abiti globali e con un sistema (dell'arte e della vita quotidiana) che schiude via via i disagi, i miracoli e i traumi (Perniola) di un nuovo habitat sociale, di una nuova civiltà. 1- Per tale questione si veda almeno G. Vattimo, “La fine della modernità”, Garzanti, Milano 1985 e particolarmente il VI, La struttura delle rivoluzioni artistiche, pp. 98-117. 2- A. Trimarco, “L'arte e l'abitare”, Editoriale Modo, Milano 2001. 3 - K. Pomian, “La crisi dell'avvenire”, trad. it., pp. 97114, in R. Romano, a cura di, “Le frontiere del tempo”, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 102. Dello stesso autore si veda anche “Sur l'histoire, Gallimard”, Paris 1999; trad. it., Che cos'è la storia, Bruno Mondadori, Milano 2001. 4 - Cfr. R. Mainardi, “Geografia delle comunicazioni. Spazi e reti dell'informazione”, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996. 5 - A. Trimarco, “Post-storia. Il sistema dell'arte”, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 10-11. 6 - Cfr. J.-L. Nancy, “La création du monde ou la mondialisation”, Galilée, Paris 2002. 7 - Cfr. J.-L. Nancy, “La création du monde ou la mondialisation”, Galilée, Paris 2002. 8 - Cfr. G. Bruno, “Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema”, Bruno Mondadori, Milano 2002. 9 - Cfr. F. Farinelli, “Geografia. Un'introduzione ai modelli del mondo”, Einaudi, Torino 2003. 10 - G. Vattimo, “La fine della modernità”, cit., p. 104. 11 - A. Bonito Oliva, “Lezioni di anatomia. Il corpo dell'arte”, Edizioni Kappa, Roma 1995, p. 34. 12 - Cfr. F. Farinelli, “La crisi della ragione cartografica”, Einaudi, Torino 2009. 13 - F. Farinelli, “Geografia”, cit. p. 70. 14 - L. Rumma, “Introduzione, in William Kentridge. Street of the city (and other tapestries) / Strade della città (e altri arazzi)”, cat. della mostra tenuta negli spazi del Museo di Capodimonte dal 14 novembre 2009 al 20 gennaio 2010, con testi di N. Spinoza, L. Rumma, A. Bonito Oliva, W. Kentridge, A. Tecce, F. Tramontano e M. de Vivo, Electa, Milano 2009, p. 17. 15 - Cfr. A. Rispoli, E. Viola, Sistema Binario, cat. della mostra tenuta negli spazi della Stazione di Mergellina dal 6 maggio al 3 giugno 2008, con testi di A. Bonito Oliva, A. Trimarco, S. Zuliani, A. Rispoli, E. Viola, schede critiche di A. Tolve, Paparo, Napoli 2008. 16 - Cfr. R. Gavarro, a cura di, “Saluti da L'Aquila. Giuseppe Stampone”, Maretti Editore, Dogana RSM 2011 e A. Tolve, “Giuseppe Stampone. Estetica Neodimensionale / Neodimensional Aesthetics”, MMMAC, Salerno 2011. 17 - Cfr. M. Heidegger, “Bauen Wohnen Denken”, conferenza tenuta il 5 agosto 1951 e apparsa, poi, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; trad. it., “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.


Arskey/Critica |

Thomas Hirschhorn, “Crystal of Resistance”, 2011. Installation View: Swiss Pavilion, 54th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia Photo: Giorgio Zucchiatti Courtesy: la Biennale di Venezia

Dossier ai Weiwei: la porta verso la libertà | Strade senza nome, monumenti senza faccia. come cambiano l’arte e lo spazio pubblico nei Balkani | Why theater? le arti visive nella sperimentazione teatrale contemporanea.

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arskey/Dossier | Ai Weiwei

The Unilever Series: Ai Weiwei “Sunflower Seeds” 2010 Photocredit: Tate Photography © Ai Weiwei


dOSSIeR

AI WeIWeI: lA PORtA VeRSO lA lIBeRtà di Francesca Caputo Ai Weiwei oltre a essere uno degli esponenti più importanti dell’arte cinese contemporanea, stimato anche entro il panorama internazionale, è una figura fondamentale per gli attivisti dei diritti umani in Cina. Il suo nome è stato al centro della cronaca mondiale dallo scorso aprile, quando è stato arrestato e di lui non si sono avute più notizie per tre mesi. Ma chi è davvero Ai Weiwei e cosa rappresenta la sua posizione di resistenza e denuncia entro l’arte del presente? Non molto tempo dopo essersi diplomato all’Accademia del Cinema di Pechino e aver contribuito a creare, sul finire degli anni Settanta, il gruppo ‘The Stars’ - un movimento di artisti d’avanguardia che espressero il loro desiderio di cambiamento, sfidando le icone ufficiali e le ideologie del Partito Comunista - Ai Weiwei si è trasferito dal 1983 al 1993 negli Stati Uniti, dove ha studiato alla Parsons School of Design. Ha vissuto principalmente a New York. Qui ha condotto le sue sperimentazioni, folgorato dal movimento Dada, da Duchamp, Warhol e Jasper Johns, creando arte concettuale e guardando alla possibilità che l’arte possa essere presente in tutte le azioni e i gesti dell’artista. Sempre a New York, nel 1985, ha scritto il manifesto “Chinese United Overseas Artists”, divenuto un punto di riferimento per le giovani generazioni di artisti cinesi. Vi si legge: “[…] guardandoci indietro dobbiamo ammettere che l’arte cinese sta attraversando il più nero secolo di tutta la storia moderna. Gli intellettuali e gli artisti cinesi hanno la responsabilità di compiere ogni sforzo per proteggere il passato e aiutare il popolo, trasformando tutto ciò in una società formata da spiriti liberi e creativi. Questo rappresenterà la vera ‘modernizzazione’ della Cina”. Ritornato nel suo Paese, all’aggravarsi delle condizioni di salute del padre il celebre poeta Ai Qing, che per venti anni fu inviato nei campi di lavoro, per aver criticato il regime - Weiwei è divenuto la forza trainante che ha ispi-

rato un’intera generazione di artisti. Negli anni Novanta ha contribuito a ricreare, nei sobborghi di Pechino, l’atmosfera della controcultura di New York, attraverso happening, mostre da lui curate e pubblicando privatamente una serie di libri e riviste d’arte. Tanto che quella zona, divenuta residenza di una comunità di artisti della Capitale, è stata ribattezzata ‘Beijing East Village’. Weiwei ha dato voce a una serie di artisti cinesi emergenti che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di rivelarsi e ha contribuito alla conoscenza dell’arte sperimentale della Repubblica Popolare Cinese, anche al di fuori dei suoi confini; soprattutto mediante le attività svolte nel China Art Archives and Warehouse, uno spazio espositivo d’avanguardia che ha co-fondando nel 1997. Nella sua attività artistica e curatoriale, Weiwei ha sempre cercato di smuovere in Patria il pensiero critico, spesso servendosi del potere dell’ironia, come nella serie di fotografie provocatorie “Study of Perspective” (19952003), in cui si vede l’artista che alza il dito medio verso alcuni monumenti o luoghi simboli di potere, tra cui la Casa Bianca, Piazza Tienanmen o la Tour Eiffel. La sua arte di denuncia ma al contempo giocosa è anche un monito alla Cina odierna, alla sua modernizzazione selvaggia che va di pari passo con l’adozione di un’economia capitalistica gestita dal Partito. Contro la perdita di memoria, la cancellazione della propria storia, del proprio passato, dei propri valori culturali (iniziata durante la Rivoluzione Culturale) senza che vi sia una capacità di riscrittura, molti dei lavori dell’artista utilizzano come base di partenza, vecchi mobili, porte di antiche dinastie e oggetti, spesso di ceramica e porcellana, dell’antica tradizione artigianale, scovati tra mercatini e antiquari. In questo tipo di opere esplora i problemi legati all’autenticità e alle radici, la relazione con il passato come passaggio di definizione del presente e del futuro. Ne sono esem-

pio le sculture e installazioni “Table with Two Legs on The Wall” (1997), “Template” (2007) e “Map of China” (2006) in cui pone una critica sottile alla percezione di dominazione della Cina verso Taiwan o il Tibet. La tabula rasa delle tradizioni e lo spaesamento di significati che ciò comporta è il cardine attorno a cui ruota la famosa performance “Dropping a Han Dynasty Urn” del 1995, in cui distruggeva un vaso della dinastia Han. Così come nella recente serie “Coloured Vases” (2003-10) o nel dissacrante “Han Dynasty Urn With Coca-Cola Logo” (1994), dove interviene su antichi vasi, sopravvissuti al Tempo e alla Storia, ricoprendoli di brillanti pigmenti industriali (o con il logo della Coca-Cola) sostituendo un significato storico con un più recente dis-valore culturale, illustrando l’ambiguità di valore ed estetica nel tempo attuale, indicando la collisione tra apparenze superficiali e realtà nascoste. Nel 2000, durante la terza edizione della Biennale di Shanghai, internazionalmente considerata come un’importante vetrina dell’arte contemporanea cinese, Ai Weiwei ha co-curato insieme a Feng Boyi, presso il suo spazio China Art Archives and Warehouse, la contro-mostra “Fuck Off”, quale alternativa alla diffusione di un’arte uniformata e appiattita alle volontà del Partito, incarnata dalla Biennale e più in generale contro la strutturazione del sistema dell’arte. Vi ospitò i lavori di una cinquantina di giovani artisti, mostrando al mondo le attuali tendenze dell’arte contemporanea in Cina e il suo vero volto, non conformato. Naturalmente, nonostante la risonanza dell’evento, la polizia fece irruzione nello spazio espositivo, chiudendo la mostra anzitempo e quindi, di fatto, mettendola sotto censura. Da quel momento in poi, molti critici e curatori internazionali hanno iniziato a scoprire l’arte cinese non convenzionale. È in questo periodo che in Weiwei comincia a consolidarsi l’idea di militanza artistica non colla-


arskey/Dossier | Ai Weiwei

borativa con il governo. Nel 2007 l’artista conquista la scena internazionale, partecipando a Documenta 12 a Kassel, in Germania, con il progetto “Fairytale”, un omaggio alla magia e all’incertezza dell’incontro. Un’opera aperta, costituita dal viaggio di 1001 cittadini cinesi e dalla loro permanenza a Kassel per tutta la durata della manifestazione, tre mesi. La loro presenza era sottolineata all’interno degli spazi espositivi dall’allestimento di 1001 sedie dell’epoca Qing, che stanno a simboleggiare anche il passato e il futuro della Cina, consegnati allo sguardo del contemporaneo. Il gruppo di partecipanti è stato formato tramite un annuncio pubblico postato dall’artista sul suo blog e dopo che tutti i selezionati sono riusciti a ottenere visti e passaporti. Mentre il numero intendeva denunciare l’omologazione cui è sottoposta l’identità cinese, invitando a prendere atto di ciascuna coscienza individuale. Il titolo del progetto è un omaggio ai fratelli Grimm, poiché “Fairytale” è una favola sulla Cina moderna, dal sapore irriverente e situazionista, sull’identità recuperata, sulla consapevolezza che il cambiamento può nascere solo a partire dai singoli individui e attraverso il confronto. Nonostante da più di mezzo secolo prenda in giro il Partito Comunista, Ai WeiWei è stato scelto come consulente artistico, collaborando con gli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, per la costruzione dello Stadio Nazionale di Pechino (il cosiddetto 'Bird’s Nest', “Nido di uccello”), per le Olimpiadi del 2008. Un progetto ufficiale che accetta nella convinzione che i Giochi Olimpici siano una grande occasione di apertura per il Paese. Ma il suo contributo è divenuto una spina nel fianco del governo, poiché l’artista ha abbandonato il progetto, boicottato e criticato i giochi, dopo essersi reso conto che erano usati solo come sfoggio di potere e cinica operazione di propaganda. Attraverso la sua arte e insieme al suo blog, l’artista è divenuto uno degli attivisti politici più conosciuti della Cina. In Weiwei non vi è alcuna separazione tra l’attività artistica e quella svolta in rete. Entrambi i medium sono utilizzati, con grande ironia, come strumenti per creare consapevolezza e coscienza civile. Figura tra gli intellettuali firmatari di Charta 08, il manifesto per l’affermazione delle libertà democratiche in Cina promosso da Liu Xiaobo (esponente di punta del movimento di Piazza Tienanmen, premio Nobel per la Pace nel 2010, che non ha potuto ritirare perché sta scontando in carcere una condanna a undici anni per 'istigazione alla sovversione') e ha organizzato una campagna in rete per

sostenere il Nobel Liu. Azioni ovviamente mal digerite dal governo. L’attivismo di Weiwei parte da lontano. È cominciato gradualmente e si è intensificato con il passare del tempo, coinvolgendolo in prima persona e annullando qualsiasi divisione tra arte, vita e denuncia. Nella sua opera, storia, politica, libertà, radici e identità diventano i temi portanti. La rotta di collisione con le autorità avviene sul finire del 2008, quando l’artista ha iniziato a portare alla luce le realtà occultate e gli abusi di potere del governo cinese, con un’azione sincronica del web e della pratica artistica. Ha dato vita, insieme all’ambientalista Tan Zuoren e altri collaboratori, a un’indagine autonoma sulle cause reali del crollo di edifici scolastici in seguito al massiccio terremoto nella provincia di Sichuan avvenuto nel 2008, accusando apertamente di corruzione le autorità per l’utilizzo di materiale scadente nella costruzione. In opposizione al governo, che non ha mai fornito informazioni ufficiali, ha pubblicato sul suo blog i resoconti dell’inchiesta, con il numero esatto e i nomi di vittime, oltre 5000. Questa è la reazione del potere costituito: il blog è repentinamente oscurato dalle autorità ma l’artista affigge la lista sui muri del suo studio FAKE Design di Pechino; Zuoren viene accusato di attività sovversiva e condannato a cinque anni di carcere, l’artista ne ricava un arresto temporaneo e pesanti percosse della polizia che gli hanno impedito di testimoniare in favore di Zuoren al processo. Tuttavia, la cifra ufficiale del governo, che in passato era arrivato a minacciare le famiglie delle vittime di non rivelare i nomi, è divenuta 5335, probabilmente grazie alla pressione della campagna di Weiwei. Un mese dopo, mentre l’artista era in Germania a preparare una sua esposizione, è ricoverato per un’emorragia cerebrale (e subisce una delicata operazione al cranio) che si pensa fosse legata al pestaggio. Con queste parole commenta l’accaduto: “Com’è possibile che siano stati in grado di sviluppare e dispiegare in Cina, sotto la tirannia, una tale maestria e raffinatezza di tecnica? La Haus der Kunst, che è stata commissionata da Hitler per mostrare un’arte di propaganda, ‘l’autentica arte tedesca’, costituisce per me il quadro contestuale e formale in cui esaminare la faccenda”. Infatti, da ottobre 2009 a gennaio 2010, la Germania gli dedica un’amplia retrospettiva, consacrandolo come l’artista contemporaneo più famoso della Cina. Ai Weiwei ha presentato presso la Haus der Kunst a Monaco la mostra “So Sorry”, il cui titolo allude alla nuova prassi adottata da governi, industrie e società finanziarie in tutto

il mondo, consistente nel chiedere scusa per compensare i danni irreparabili provocati alle popolazioni in seguito alle loro azioni. Senza però che a queste parole segua una reale assunzione di responsabilità con una conseguente inversione di rotta. Indimenticabile è il suo intervento sulla facciata del museo. Una grande installazione, “Remembering” (2009), di 9000 zainetti di bambini, che componevano un ideogramma cinese con una frase commemorativa di una delle madri delle vittime del terremoto del Sichuan: “Ha vissuto felicemente per sette anni in questo mondo”. L’artista ha dichiarato che l’idea è maturata dopo la sua visita nella provincia colpita dal disastro, poiché: “[…] gli zaini e il materiale di studio sparsi nelle macerie si sono visti in tutto il mondo. Poi, le vite degli studenti scomparsi sono state inghiottite dalla propaganda di stato e ben presto si dimentica tutto”. Della stessa natura è l’installazione “Snake Ceiling” (2009), creata per la mostra al Mori Art Museum di Tokyo. Queste opere segnano il punto di non ritorno con le autorità del suo Paese. Nonostante i pestaggi, le intimidazioni, l’artista non ha mai mollato. Il suo blog, letto da circa 17 milioni di utenti, è stato prima censurato nel corso della sua indagine e poi chiuso. Così Weiwei è tornato in Internet, questa volta usando il social network Twitter, spesso per schierarsi contro le scelte del governo. Come quando, insieme ad altri netizen, contribuì al boicottaggio dell’obbligo di installare, su mandato governativo, il software Green Dam Youth Escort. Ufficialmente era un tentativo per bloccare la pornografia online ma è stato ampiamente criticato come strumento di censura per limitare gli utenti di Internet, perché sulla “lista nera” di default potevano finire indirizzi scomodi alle autorità governative. Anche questa volta le sue osservazioni sono state rimosse. Dalla fine del 2009 Weiwei figura tra gli attivisti che, agendo nelle maglie della rete cinese per esprimere la loro opinione, sono finiti al centro di un’operazione governativa (l’Operazione Aurora) di attacco su Google. Con una massiccia azione di hackeraggio i diversi account usati dall’artista sono stati violati, al fine di scovare le prove del suo coinvolgimento in attività di cospirazione e sovversione. Con la forza della sua arte, in cui traduce il suo impegno civile e la sua percezione della vita, Ai Weiwei ha portato a riflettere la Cina sulle sue contraddizioni, anche al di fuori dei suoi stessi confini. Il maggior successo a livello internazionale l’ha raggiunto nel 2010, quando è stato chiamato a realizzare un’installazione monumentale nella


Ai Weiwei, “Surveillance Camera”, 2010 Marble39.2 x 39.8 x 19 cm, Courtesy the artist and Lisson Gallery - 65 -


Turbine Hall della Tate Modern per il progetto “Unilever Series”. Il titolo dell’opera è “Sunflower Seeds”, un lavoro intriso dello stesso spirito critico, giocoso, poetico e dissacratorio alla base di tutto il suo fare artistico. Si tratta di circa 100 milioni di semi di girasole, a grandezza naturale, che ricoprivano come un tappeto, la pavimentazione dello spazio espositivo. Queste piccole sculture di porcellana sono state realizzate e dipinte a mano dalla comunità artigiana di Jingdezhen. Un villaggio specializzato nella lavorazione della porcellana per un lunghissimo periodo, che l’artista ha coinvolto nell’operazione, in qualche modo ricollocandolo nel mercato del lavoro, giacché una grave crisi economica aveva lasciato in molti senza lavoro. Una poetica denuncia che contiene in sé diverse allusioni: i semi di girasole come retorica della propaganda di Partito, raffigurante il popolo come un campo di girasoli che volgevano lo sguardo verso il sole, verso Mao. È metafora dell’unicità del singolo entro la moltitudine e un invito a prenderne atto poiché è da tale interazione che si sprigiona la forza e la potenzialità rivoluzionaria della collettività. È una riflessione allo stesso tempo sulla condizione del popolo cinese e sulla produzione industriale contemporanea. “Sunflower Seeds”, infatti, sottintende in maniera paradigmatica il cortocircuito tra il collasso dell’economia locale tradizionale - custode dell’identità culturale e della dimensione umana del lavoro - e la produzione industriale contemporanea, incarnata nel fenomeno della produzione di massa 'Made in China', oggetti futili e di scarsa qualità fagocitati dal mercato internazionale. Dal 2008, da quando si è schierato a fianco delle famiglie delle vittime del terremoto di Sichuan, Ai Weiwei non ha mai rinunciato al suo attivismo civile e artistico, interrogandosi costantemente sul ruolo dell’artista in Cina e affidando alle sue opere il compito di investigare la realtà. Da allora si trova nel mirino delle autorità e non è stato mai più perso di vista. Ciononostante non ha mai voluto lasciare il suo Paese. Anche se quest’anno ha acquistato uno spazio per il suo nuovo atelier in una vecchia centrale idroelettrica sulle sponde dello Spera, non ha mai pensato di trasferirsi stabilmente a Berlino. Il suo studio principale a Shanghai, in un’area appositamente destinata dall’autorità al lavoro degli artisti, è divenuto il rifugio dei blogger cinesi, quando la loro conferenza annuale è stata vietata dal governo e nel 2010 ha organizzato via Twitter una marcia degli artisti che erano stati sradicati dai loro studi. Sempre on

line, ha denunciato arresti e soprusi commessi da un governo completamente insensibile alla causa dei diritti civili, divenendo un faro per tutti i cittadini cinesi che usano Internet come piattaforma di pressione per l’accesso alla libera informazione. Nel gennaio del 2011 il suo studio di Shanghai è stato perquisito e raso al suolo (poiché formalmente accusato di essere stato costruito senza licenza). In risposta ha lanciato in rete l’idea provocatoria di organizzare una festa per celebrare la demolizione forzata, ma il governo cinese lo ha condannato agli arresti domiciliari per evitare che vi partecipasse. La festa si è fatta comunque alla presenza di oltre 500 suoi sostenitori. Da anni il telefono dell’artista e dei suoi collaboratori è sotto sorveglianza, così come il suo studio è quotidianamente presidiato da poliziotti in borghese. Con il consueto sarcasmo ha pubblicato sul suo blog le foto dei poliziotti e nel 2010 ha realizzato la scultura “Surveillance Camera”, con riferimento alle telecamere montate dalle autorità all’esterno della sua casa-studio e più in generale denunciando la condizione di continuo controllo cui è sottoposta la popolazione. Tuttavia ciò che è accaduto il 2 aprile 2011 è stato qualcosa di completamente diverso per le modalità in cui è avvenuto e per il coordinamento con cui si è svolta l’azione. Ai Weiwei è stato fermato all’aeroporto di Pechino, mentre si preparava a partire per Hong Kong per un volo di routine, ed è stato arrestato. Contemporaneamente il suo studio è stato perquisito e l’hard disk del computer insieme ai laptop sono stati sequestrati. Inoltre la polizia ha arrestato otto collaboratori (rilasciati il 25 aprile) e sua moglie Lu Qing è stata posta sotto controllo della polizia. Soltanto il 7 aprile il governo cinese ha reso noto che il motivo dell’arresto, ovvero presunti reati economici. Durante tutta la sua sparizione forzata, i funzionari del governo non hanno comunicato alla famiglia dove fosse detenuto (anche se secondo la legge cinese la notifica formale dell’arresto, con il luogo e le motivazioni di detenzione, deve avvenire ai familiari nell’arco di 24 ore). L’unico contatto con il mondo esterno e la famiglia - una breve visita di 20 minuti di sua moglie Lu Qing, condotta in un luogo segreto - fu organizzata dalla polizia alla vigilia della visita in Cina di Van Rompuy, Presidente del Consiglio Europeo. Solo dopo 81 giorni, il 22 giugno, è stato rilasciato dalle autorità su cauzione. Ufficialmente la decisione è arrivata perché l’artista avrebbe confessato la volontà di pagare le tasse eluse, come ha dichiarato l’agenzia

governativa. Ora si trova, di fatto, agli arresti domiciliari, giacché per un anno, finché rimarrà 'sotto indagine', sarà sotto stretta sorveglianza: non è autorizzato a lasciare Pechino e se va in giro per la sua città deve segnalare i movimenti, non gli è permesso di rilasciare interviste e di utilizzare social media. Sicuramente non è un caso che la decisione sia avvenuta pochi giorni prima della visita del Premier cinese Wen Jiabao in Europa. Così come, la straordinaria mobilitazione internazionale in suo favore ha avuto certamente un peso rilevante; Nicholas Bequelin, dell’organizzazione Human Rights Watch, ha dichiarato: “La sua era una detenzione politica e il suo è un rilascio politico. È il risultato di una enorme protesta che ha costretto il governo a questa risoluzione... penso che Pechino si sia resa conto del danno provocato nel tenere il più famoso artista cinese in stato di detenzione”. In realtà Weiwei rappresenta solo la punta di diamante, con il più alto profilo internazionale, tra gli artisti, intellettuali attivisti, blogger, avvocati dei diritti umani, semplici utenti di Internet che, dalla fine di febbraio, sono stati arrestati, detenuti, scomparsi sotto la custodia della polizia in località segrete, senza alcuna giustificazione legale. Molti hanno subito pesanti minacce, sottoposti a controlli e provvedimenti repressivi. Tanti sono ancora detenuti e alcuni sono stati rilasciati sotto condizioni particolarmente lesive delle libertà individuali, proprio come Ai Weiwei. Un giro di vite scatenato dal timore del governo cinese di una “Rivoluzione dei Gelsomini" ispirata dagli eventi del Medio Oriente e dell'Africa del Nord. Una repressione così massiccia che le associazioni internazionali hanno definito la più violenta dai tempi di Piazza Tienanmen. Innescata dalle cosiddette “passeggiate dei gelsomini” - messaggi anonimi apparsi su web che invitavano i cittadini a manifestare pacificamente per la democrazia - è scattata addirittura per coloro che hanno semplicemente menzionato l’espressione in rete. L’artista, che è sempre stato una figura scomoda per il governo, negli ultimi tempi si chiedeva sul suo blog come mai non lo avessero ancora arrestato e pochi giorni prima che ciò avvenisse, su Twitter cercava di tenere un conteggio dei cittadini fermati. Come ha suggerito Nicholas Bequelin di Human Rights Watch, il suo arresto è stato calcolato in modo da inviare un monito a tutti gli attivisti. Nessuno è immune alla repressione se la decisione è approvata dai vertici. Nessuno è più al sicuro, neppure un artista e


intellettuale di fama mondiale, le cui critiche in passato erano coperte da una tacita immunità. Tuttavia le autorità cinesi si sono trovate sotto una pressione insolitamente pesante da tutti gli angoli del globo, proveniente non solo dalle normali vie diplomatiche, ma anche da intellettuali (tra cui Salman Rushdie e Umberto Eco), da personaggi di spicco della vita politica - sia degli Stati Uniti sia d’Europa - organizzazioni e da una vasta e non comune campagna d’iniziative del mondo dell’arte per chiederne la liberazione. Tra i primi e maggiori tentativi, spicca quello voluto dalla Fondazione Guggenheim che, a nome del mondo dell’arte, ha attivato una petizione online, ospitata dal sito della Change.org, raccogliendo oltre 90.000 firme. Sembra che l’appello internazionale sia diventato talmente popolare da preoccupare le autorità cinesi. A dichiararlo è stato Change.org, che ha denunciato di essere stato oggetto di massicci e ripetuti attacchi informatici provenienti dalla Cina, così dirompenti da spingere l’organizzazione a chiedere assistenza all’FBI e a un parlamentare statunitense. Molte istituzioni d’arte e musei nel mondo hanno dato spazio sulla loro homepage alla petizione messa in atto dal Guggenheim, come lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Walker Art Center e il Minneapolis Institute of Arts e il S.a.L.E. Docks di Venezia, per citarne solo alcuni. Forse l’azione più coraggiosa è stata quella promossa dal Contemporary Art Centre di Taipei, che sul suo sito ha invitato la Cina storica avversaria della terraferma - a rilasciare tutti gli attivisti e a proteggere la libertà creativa degli artisti, quale “concreto segno di sviluppo del Paese”. La Tate Modern di Londra, ha ricoperto la facciata dell’edificio con la scritta “Release Ai Weiwei” (Liberate Ai Weiwei) e contemporaneamente la Turbine Hall, che fino al 2 maggio aveva ospitato la monumentale installazione “Sunflower Seeds”, ha deciso di rendere omaggio all’artista con un allestimento ridotto. Parte dei semi di girasole in porcellana sono ora esposti alla Kunsthalle Marcel Duchamp in Svizzera. Il Museion di Bolzano, in occasione dei suoi primi tre anni di attività, ha chiamato il duo artistico ARTbrothers kraxentrouga - formato da Armin Mutschlechner e Luis Seiwald - che ha realizzato un’installazione multimediale sulla facciata del museo con la scritta “Remember Ai Weiwei. Difendi la libertà dell’arte”. Il Berlin Gallery Weekend 2011, oltre a ospitare opere dell’artista, è stato caratterizzato da una vasta azione

all’insegna dello slogan “Where is Ai Weiwei?” e, durante la quarta edizione di Roma -The Road to Contemporary Art, nello allo stand di Pio Monti l’artista cinese H. H. Lim, ha usato il medesimo slogan per un’estemporanea installazione. Il curatore Steven Holmes ha promosso, tramite Facebook, una giornata di protesta internazionale, denominata “1001 Chairs for Ai Weiwei”, un appuntamento simultaneo in tutto il mondo che ha raccolto numerosi attivisti. Ricordando la celebre performance “Fairytale”, i partecipanti si sono riuniti per una pacifica manifestazione, sedendosi dinanzi ad ambasciate e consolati cinesi in segno di protesta. Davvero tanti gli spazi espositivi pubblici e privati che hanno dedicato mostre e iniziative pro Ai Weiwei, impossibile citarli tutti. Merita una menzione, l’iniziativa che sta portando “Circle of Animals/Zodiac Heads” in esposizione itinerante tra Stati Uniti, Gran Bretagna - presso la Somerset House, dove non erano mai state esposte prima sculture contemporanee - Europa e Asia, tanto da diventare l’opera simbolo della protesta. Sono dodici enormi teste di bronzo che reinterpretano gli animali dello zodiaco cinese, un omaggio alle sculture che ornavano l’orologio della Fontana dello Zodiaco di Yuan Ming Yuan, residenza imperiale di Pechino, trafugate da inglesi e francesi durante la Seconda Guerra dell’Oppio nel 1860. Divenute emblema dell’umiliazione subita dalla Cina da parte dell’Occidente, nell’opera acquisiscono un profondo significato identitario, svelando i delicati rapporti tra cultura, storia, politica e società. Anche la Biennale di Venezia (dove l’artista ha partecipato nel 2009) ha chiesto formalmente notizie di Weiwei, indirizzando una lettera all’ambasciatore cinese, firmata da Paolo Baratta, Presidente della Biennale e dagli artisti presenti alla kermesse. Numerose sono state le incursioni degli attivisti, anche all’interno del Padiglione ufficiale della Cina. Mentre, durante l’inaugurazione, il sagrato della Chiesa delle Zitella alla Giudecca è stato illuminato dalla scritta di protesta “Bye Bye Ai Weiwei” di Giuseppe Stampone. Molto più dirompente l’iniziativa dell’artista russo Oleg Kulik che, all’evento collaterale “Glasstress” 2011 (a cura di L. Edelkoort, P. Noever e D. Paparoni) ha esposto una statua in vetro raffigurante Ai Weiwei tenuto al guinzaglio dall'artista - apprezzato e sostenuto dall’establishment cinese - Zhang Huan, ovvero il potere che sottomette il libero pensiero. Tra le iniziative collaterali della 54. Biennale di Venezia spicca

anche “Cracked Culture?” ( a cura di Wang Lin e Gloria Vallese) sulla questione dell'identità nella nuova arte cinese. All’interno di questa mobilitazione, senza pari entro il mondo dell’arte contemporanea, non sono mancate le polemiche indirizzate principalmente verso alcune gallerie che trattano le opere di Weiwei. Nonostante abbiano aderito all’ondata di sostegno, non si sono fatte scrupolo di lucrare sulla situazione, facendo lievitare le quotazioni dei suoi lavori e partecipando, con assoluta lievità, alle fiere di Hong Kong e Pechino. Con varie modalità, gli artisti contemporanei hanno dimostrato il loro appoggio. Vero e proprio portavoce di tali gesti di solidarietà è stato Anish Kapoor che, durante l’inaugurazione di una sua mostra al Grand Palais di Parigi, oltre a dedicare all’artista cinese il suo ultimo imponente lavoro, “Leviathan”, ha lanciato la sua proposta: un giorno di azione attraverso la chiusura delle istituzioni culturali in tutto il mondo per urlare l’illegalità della sua detenzione e richiamare Pechino al rispetto dei diritti umani. Kapoor ha dichiarato: “Non ho mai incontrato personalmente Ai Weiwei. Ma lui è un grande narratore dell'esistenza umana. Che cosa ha fatto di male? Ha denunciato la corruzione, l'inefficienza, la burocrazia. E per questo motivo lo vogliono punire. Lo tengono in isolamento ed è una barbarie”. L’invito del famoso scultore angloindiano è stato subito appoggiato da molti artisti, tra cui gli scultori londinesi Mark Willinger e Patrick Bill secondo cui: “È giusto chiudere i musei perché in questo modo neghi alla società la libertà di immaginazione, garantita dalla visita alle gallerie e ai musei, ed è esattamente ciò che fa il governo cinese. Così fai capire che cosa significa reprimere l'arte e sensibilizzi l'opinione pubblica”. Ma Kapoor oltre a promuovere iniziative ha fatto molto di più, annullando una sua mostra programmata al National Museum of China di Pechino. Un gesto significativo effettuato anche dall’artista francese Daniel Buren, che per le stesse istanze ha cancellato la sua mostra prevista a luglio all’Ullens Center for Contemporary. Olafur Eliasson ha espresso il suo appoggio e, in accordo con il responsabile per la Cultura di Berlino, Jürgen Zöllner, ha offerto all’artista cinese una cattedra all’Università di Belle Arti della Capitale, dove anche lui è docente. Fino ad arrivare alla performance di Mike Brenner che, all’esterno del Milwaukee Art Museum, si è rasato la testa in segno di protesta. Anche il popolo dell’arte contempora-


“cOnsiderO tutte le minacce ai diritti umani minacce alla libertà e alla raziOnalità, alle pOtenzialità della vita. vOgliO imparare ad affrOntarle” ai WeiWei

Ai Weiwei, “Coloured Vases” 2010, 31 Han Dynasty vases and industrial paint Dimensions variable Courtesy the artist and Lisson Gallery


nea si è mobilitato con passione, partecipando alle inaugurazioni con simboli inneggianti alla sua liberazione, dalle shopping bag rosse con la scritta “Free Ai Weiwei”, che hanno invaso la Biennale di Venezia, alle maschere con il volto dell’artista indossate da numerosi attivisti durante la vernice di Art Basel. L’ondata più massiccia d’iniziative è quella partita dalla rete. Oltre al sito ufficiale della protesta Freeaiweiwei.org che ha monitorato il caso, sterminate sono state le campagne, petizioni, dimostrazioni e sit-in, organizzati tramite i social network. Tra le tante ricordiamo quella italiana promossa dall’associazione Pulitzer e supportata da Amnesty Italia. A colpire particolarmente sono state le espressioni popolari di sgomento e disgusto sulle circostanze della scomparsa e della detenzione di Weiwei. Con grande partecipazione, in tutto il globo, si sono sviluppate manifestazioni di piazza, azioni virtuali e urbane estemporanee. Murales e stencil hanno ricoperto le strade delle principali città, anche in Cina. Proprio nel Sol Levante - dove la censura di Stato ha cancellato da Baidu, il motore di ricerca più usato nel Paese, il nome dell’artista e ogni riferimento alla sua persona - sono comparsi nelle maglie della rete, molteplici account di cittadini cinesi, il cui nickname era “il mio nome è Ai Weiwei”. Un’azione che l’artista, una volta rilasciato, avrà sicuramente apprezzato, dato che ha sempre usato il web in maniera ludica, creativa e appassionata. In agosto, Weiwei, noncurante dei divieti imposti dalle autorità e correndo un grave rischio è riuscito nuovamente ad aggirare le restrizioni, comparendo su Google + con due brevi post per dare “una prova della mia sopravvivenza”. Il suo blog è stato definito dal critico d’arte Hans Ulrich Obrist una “scultura sociale” del nostro tempo, rappresentando quella piattaforma per il dialogo e la discussione che incarna il concetto di arte come strumento comunicativo. Nonostante gli scritti prodotti dall’artista nel suo blog, tra 2006 e 2009,

siano stati oscurati, la Mit Press li ha recuperati e riuniti in un volume, cha a settembre uscirà in Italia per Johan & Levi (e in edizione ebook da Doppiozero). Un prezioso strumento per conoscere il pensiero di questo poliedrico artista, in cui si intrecciano discorsi autobiografici, documenti sulle sue attività e progetti artistici, inchieste e azioni politiche, riflessioni sulla condizione della Cina postmoderna, inni a una critica indipendente e alla libertà d’opinione. Il 3 luglio 2009, l’artista scrive sul blog: “Chi non ha libertà di parola, libertà di stampa e diritto di voto non è umano e non ha bisogno di memoria. Senza il diritto alla memoria, scegliamo di dimenticare”. Proprio ora che Ai Weiwei è tornato a casa, non bisogna abbassare la guardia né dimenticare ma continuare a far sentire la propria voce, per chiedere il rilascio di tutti gli altri attivisti di cui non si ha notizia dallo scorso febbraio e affinché all’artista sia restituita la piena libertà. Come hanno rilevato molti avvocati dei diritti umani e organizzazioni, tra cui Amnesty International, le restrizioni impostegli (divieto di utilizzare mass media, social network e di uscire da Pechino) “[…] violano i suoi diritti alla libertà di espressione, associazione e movimento e devono essere rimosse”. È inoltre necessario che la comunità artistica globale continui a esprimersi, con la stessa forza e compattezza dimostrata per Ai Weiwei, contro la censura e la persecuzione politica degli artisti in tutto il mondo. Ancora troppi sono i tentativi di imbavagliare, anche in arte, il pensiero libero. Non solo nelle Nazioni emergenti che stanno diventando i nuovi leader dell’economia mondiale e del mercato dell’arte, come la Cina, l’ex Unione Sovietica (pensiamo al caso del collettivo Voina) o il Medio Oriente, con il recentissimo episodio di censura avvenuto durante la 54. Biennale di Venezia, entro il Padiglione della Repubblica dell’Azerbaijan, alle due opere dell’artista Aidan Salakhova (le grandi sculture “Waiting Bride” e “Black Stone”). Accade, sempre più spesso, anche nella cara vecchia Europa - compresa

l’Italia, pensiamo alla sorte toccata alla mostra “Arte e Omosessualità”, curata da Eugenio Viola - e negli Stati Uniti, culla della democrazia, dove, per citare un episodio paradigmatico, il MOCA di Los Angeles censurò un’opera del famoso street artist italiano, Blu, che era stato invitato a realizzare un’opera site specific sulle pareti esterne del museo. La vicenda di Ai Weiwei deve ricordare a tutti noi che non si deve smettere di lottare per la libera espressione, una richiesta che emerge pressante in tutto il mondo, anche attraverso le pratiche artistiche. Giacché la creazione artistica del presente dovrebbe necessariamente implicare un coinvolgimento e una presa di posizione sulla realtà, essere uno strumento per veicolare informazioni. Anche nel nostro Occidente incancrenito, dove sovente le provocazioni artistiche non sono altro che mero strumento spettacolare asservito al mercato e al sistema e proprio per questo si permette che esistano. In un mondo veramente libero, dovrebbe essere la coscienza personale a far decidere in piena autonomia, a ogni singolo individuo, se vedere o no una determinata opera, se leggere o no una determinata opinione. Nessun Paese è immune da tentativi di imbavagliamento del pensiero critico. Accade in sordina anche in Italia, dove l’Agicom potrebbe presto decidere di adottare una nuova regolamentazione che darebbe all’Autorità delle Comunicazioni il potere di rimuovere contenuti da siti internet italiani e di chiudere determinati siti stranieri. Se ne avete voglia il sito Avaaz.org si sta occupando di questa campagna. Come ha scritto Ai Weiwei: “Considero tutte le minacce ai diritti umani minacce alla libertà e alla razionalità, alle potenzialità della vita. Voglio imparare ad affrontarle”. Facciamolo tutti, prima che un pezzetto alla volta, un bel giorno ci risveglieremo in un mondo senza possibilità d’espressione e dove non è permesso dissentire.


arskey/Dossier | spazio pubblico nei Balkani

dOSSIeR

StRAde SenzA nOMe, MOnUMentI SenzA FACCIA. COMe CAMBIAnO l’ARte e lO SPAzIO PUBBlICO neI BAlKAnI di Claudia zanfi

Rasa Todosijevic, "Majka na prodaju"

‘East is east, west is west, Yugoslavia is the best!’ recitava un vecchio e diffuso proverbio all’epoca di Tito. In occasione della 54° Biennale di Venezia la sottoscritta, da tempo impegnata nella promozione artisticoculturale in aree del Mediterraneo, è invitata al Forum Internazionale “Continental Breakfast. Place of Encounter”, a cura dall’organizzazione ‘Trieste Contemporanea’ in collaborazione con l’ufficio UNESCO di Venezia. Il simposio è dedicato alle pratiche curatoriali e allo spazio pubblico nell’area dei Balcani e dell’Est Europa. Un osservatorio sulla situazione contemporanea dell'arte e della cultura nell'Europa centro orientale, rivolto a professionisti internazionali, commissari dei padiglioni della Biennale di Venezia e studiosi d’arte contemporanea, tra cui: Adam Budak, Safet Ahmeti, Iara Boubnova, Beral Madra, Sanja Kojic Mladenov, Miran Mohar, Piotr Piotrovski, altri……

Danica Dakic, "Witness"

Tema di questa edizione del Forum è la percezione e l’uso dello spazio pubblico nell’area in oggetto, con particolare riferimento ai luoghi e alla loro memoria. Tale indagine, anche sotto gli aspetti più controversi, è utile per capire come l’arte contemporanea, oggi, sia in grado di indirizzare il proprio pubblico verso aspetti sociali, in particolare coinvolgendolo in un sistema di intercomunicazione e di reciprocità. Il lavoro della memoria si traduce come processo di rigenerazione del sé e, in ambito urbano, nella capacità di ri-connotazione dei luoghi in termini talvolta di vera e propria de-simbolizzazione e ri-simbolizzazione. Dopo ogni cambiamento politico è d’uso cancellare la presenza dei regimi precedenti e ri-nominare anzitutto le città (ad esempio San Pietroburgo; poi Leningrado; ora Pietroburgo). Segue la ridefinizione di strade, piazze, luoghi pubblici, creando così un disorientamento generale da parte dei cittadini, o meglio un nuovo tipo di orientamento e di significati. Ad

esempio a Nicosia la piazza principale Eleftheria Square (Piazza Libertà), dopo l’occupazione turca è stata rinominata Ataturk Square (dal nome del comandate turco), e ora è chiamata più semplicemente - e ‘neutralmente’- Saray Square (dal nome dell’Hotel principale che si affaccia sulla piazza). Generalmente restano invariati i nomi delle strade più antiche, quelle nominate all’epoca dei romani da condottieri o consoli che ne hanno seguito la realizzazione (es: via Ignazia dal console Egnatius). A seguito della caduta del comunismo fondamentale nel cambiamento del paesaggio urbano balcanico (e non solo) è anche la sostituzione dei monumenti, che passano da simboli politici e rivoluzionari a simboli religiosi e nazionalisti (es: statue di Tito o di Lenin sostituite con statue di santi, martiri, eroi locali, ecc...). Il lavoro degli artisti di questa area attinge quindi alle trasformazioni sociali e urbane avvenute in modo sostanziale negli ultimi dieci anni. Viene così attivata un’indagine etno-


Igor Sovilj, "Old bridge Mostar"

grafica-topografica-geografica sul campo, raccogliendo dati, parlando con le persone del luogo, vivendo sul territorio. Il video artista kosovaro Alban Muja (che sarà presentato in Ottobre al Festival Internazionale d’Arte Pubblica TINA B a Praga), nel suo ultimo video proiettato a New York dal titolo “Blue wall, red doors” (2010), racconta la confusione topografica delle strade di Pristina, capitale del Kosovo. Residenti, taxisti, postini non conoscono gli indirizzi esatti delle vie, a causa di continue mutazioni: i nuovi edifici e i nuovi nomi dei luoghi, trasformati dall’epoca della Yugoslavia agli anni di Milosevic, dall’ONU al Kosovo indipendente. Un dedalo di cambiamenti e di sostituzioni che fanno letteralmente ‘perdere la bussola’ a chiunque. Perciò i riferimenti sono non tanto i nomi delle vie, quanto alcuni punti fissi di riferimento: il campanile, la moschea, il bagno turco, la stazione ferroviaria o degli autobus, ecc…, cioè quei luoghi della memoria e dell’orientamento che mettono in connessione passato/futuro. Questo è anche il tema principale del grande Forum che si tiene a fine Settembre a Sarajevo, dal titolo significativo “Facing the past, creating the future”.

Organizzato da ‘Open Society/Soros Foundations’ in occasione del 20ennale dello scoppio della guerra nei Balcani (25 Giugno 1991), raccoglie oltre 100 invitati da tutta l’area balcanica: studiosi, curatori, artisti, scrittori, filosofi a riflettere sulla memoria dei luoghi e soprattutto sul loro futuro. Non va poi dimenticato che il Novecento si apre con un colpo di pistola a Sarajevo e si chiude con il l’esplosione delle Twin Towers a New York….. L’uso dello spazio pubblico è molto sentito in Bosnia e Croazia, e in generale in tutto il sud dei Balcani, dove le piazze e gli spazi aperti sono considerati vere e proprie ‘agorà’, luoghi di incontro e di confronto. Ad esempio il ponte di Visegrad, sulla Drina, è stato ricostruito dopo la guerra con uno spazio allargato nel mezzo, una sorta di grande marciapiede o piccola piazza, che permette ai pedoni di fermarsi a chiacchierare. Nel compiere un’analisi sullo sviluppo delle aree urbane e dello spazio pubblico nei Balcani, importante è attivare un nuovo approccio, allontanandosi da stereotipi e luoghi comuni, per intraprendere nuovi percorsi. Act of mapping, è la capacità di disegnare ciò che va al di là della semplice car-

tografia, attraverso una sorta di performance, una serie di azioni ‘politiche e sociali’. Informazioni non tradizionali e non rappresentate sulle mappe usuali, bensì una rappresentazione ‘creativa’ e diversificata della geografia, in cui sono presi in considerazione tutti i punti di vista e le conoscenze geografiche più varie. Viene quindi amplificata l’esperienza del visitatore attraverso una rappresentazione dinamica della città. Si istituisce una specie di ‘contro-geografia’ dei luoghi, in cui la pratica del quotidiano e della memoria sovrasta la cartografia e la ri-nominazione continua dei luoghi. È quindi il cittadino medesimo, colui che usa la città, a ridefinire lo spazio pubblico in termini critici. Ma il rinnovamento principale nella Penisola Balcanica non è avvenuto con la sostituzione dei nomi di città strade, ponti, piazze, monumenti, bensì attraverso le arti e la cultura. Sarajevo, un tempo definita la ‘Gerusalemme dei Balcani’ per la sua molteplicità di lingue, religioni e culture, ha dimostrato una forza e una vivacità uniche, tanto che anche durante la guerra l’attività culturale non si è fermata. La scena contemporanea del Paese si raccoglie principalmente intorno alle città di Banja Luka

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arskey/Dossier | spazio pubblico nei Balkani

Biljana Djurdjevic, "Mural"

Stefan Rusu, "Frunza Project"

Pavel Braila, "Untitled"


il lavOrO della memOria si traduce cOme prOcessO di rigeneraziOne del sé e, in ambitO urbanO, nella capacità di ri-cOnnOtaziOne dei luOghi e di Sarajevo, poli artistici in continuo fermento. Gli artisti hanno svolto un ruolo attivo nella lenta ripresa della Bosnia e oggi la loro opera è più che mai significativa per la ricostruzione culturale del paese. Tra questi l’artista e teorico Igor Sovilj, laureato all’Accademia di Belle Arti di Banja Luka, fondatore di una serie di realtà non-governative a Sarajevo e dell’associazione per creativi Tac.ka a Prijedor, una delle principali organizzazioni per lo sviluppo culturale in Bosnia Erzegovina. Sempre in Bosnia il collettivo Mostar Urban Movement (MUM), ha attivato un programma di ricerca dedicato alla ‘de-costruzione dei monumenti storici’. Tra le loro varie attività l’ideazione e realizzazione del contestato monumento a Bruce Lee (un eroe positivo e internazionale, al di sopra delle schermaglie locali nazionalistiche, volutamente ‘pop’). Il loro motto resta la ricollocazione creativa di spazi ‘art-oriented’ (gallerie, musei, ecc), a spazi ‘non-artoriented’, cioè la strada, la piazza, i luoghi aperti. Questo genere di ricerche e di dibattiti pubblici si propongono di illustrare i complessi legami tra l'arte e la democrazia. Il corso mutabile della storia ha definito in vari modi la loro dipendenza reciproca, mentre la difesa dei valori democratici e la critica delle

minacce di volta in volte subite sono sempre state nel mirino degli artisti. Ne sono testimoni alcuni degli artisti internazionali che hanno partecipato al progetto “Open City/ Arcipelago Balkani”, con un collage di immagini sull’uso dello spazio pubblico, sulle sue trasformazioni, sulla percezione da parte dei propri cittadini. Tra i principali esempi Pavel Braila (Repubblica di Moldavia), che con un’opera inedita, realizzata appositamente per il progetto, rappresenta le molteplici sfaccettature della sua città - Chisinau, capitale della Moldavia - in un’epoca di grande trasformazione e di passaggio culturale. Rasa Todosijevic (Serbia, presente quest’anno alla Biennale di Venezia come unico artista del padiglione nazionale serbo), incentra la propria ricerca sulla mappatura dello spazio pubblico attraverso i luoghi della memoria, e sulla particolarità dei nomi delle vie e delle piazze. Danica Dakic (Bosnia and Herzegovina) si interroga sul significato di identità, di territorio e di ‘casa’. Un elemento ricorrente è la sua ossessione per i linguaggi e per la formazione dell'identità, attraverso originali mappe da lei ridisegnate. Calin Dan (Romania) propone un ritratto della città di Bucarest, capitale europea più volte rasa al suolo, ma che conserva la propria identità grazie

Oliver Musovik, "The Railwayman"

alla stratificazione architettonica e sociale. Hristina Ivanoska (Macedonia) lavora sul tema della rappresentazione dei luoghi pubblici e sulla titolazione di strade e ponti a Skopje. Il ponte principale che unisce le due sponde della città, porta per la prima volta il nome simbolico di due donne rivoluzionarie: Rosa Plaveva e Nakie Bajram. Biljana Djurdjevic (Serbia) con l’opera “Mural” partecipa a un’iniziativa di miglioramento della città di Belgrado, in cui artisti locali hanno ridisegnato l’identità visiva degli edifici, che negli ultimi anni sono stati tappezzati da troppi messaggi commerciali e pubblicitari. Oliver Musovik (Macedonia) ci racconta di un aneddoto realmente accaduto, che mette in luce la storia, la memoria e l’identità di un paese “dove le strade non hanno nome”. Ne esce un ritratto dei Balcani identificati come un grande laboratorio urbano, dove tutto è in movimento e forse, anche sotto quell’innato gusto estetico per il kitsch, le città di quest’area risultano tra i maggiori esempi di ‘società liquide’ di tutta l’Europa. Pulviscolari, fluide nella propria trasformazione, dense di flussi culturali e di diversità di cui non hanno timore, citando l’analisi finale del sociologo Zygmunt Bauman.

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arskey/Dossier| Why Theater?

COntAMInAzIOnI

Why theAteR? le ARtI VISIVe nellA SPeRIMentAzIOne teAtRAle COnteMPORAneA di Matteo Antonaci

Santasangre, "SeiGradi” foto di Laura Arlotti

Basta dare uno sguardo alla programmazione di alcuni festival del teatro sperimentale italiano per accorgersi di come le arti visive acquistino sempre più spazio tra gli eventi offerti allo spettatore. Esposizioni, istallazioni, piccole gallerie temporanee riempiono, per fare un esempio, la programmazione delle attuali edizioni del Festival di Santarcangelo (in Emilia Romagna) e Drodesera (Dro, Trentino). Non si tratta esclusivamente di eventi collaterali ma di esposizio-

ni poste in continuo dialogo con le opere performative presentate all’interno dei festival. Se la quarantunesima edizione del Festival di Santarcangelo, incentrata sulla figura dell'attore/performer, amplia i propri orizzonti ospitando, tra le altre, l’opera video “Chorus/Count on us”1 di Marina Abramović, Drodesera (22-30 Luglio 2011) costruisce addirittura una vera e propria Temporary Gallery dal titolo “My personal crime”, invitando giovani artisti a confrontarsi con

il tema della catastrofe su cui l’intero festival è costruito. Eppure il rapporto arti visive/arti performative non si esaurisce esclusivamente nell’incontro tra le due differenti discipline artistiche, piuttosto è a esse consustanziale. Proprio il termine 'incontro' rischia, oggi, di diventare pretesto per accantonare il problema teorico del rapporto tra tali discipline, risolvendolo nell’isolamento accademico e nella continua ricerca delle specificità che caratterizzano i diffe-


gruppo nanou, "Motel - Faccende personali” foto di Laura Arlotti

renti generi artistici. Come faceva notare, alla fine degli anni Ottanta, la studiosa Valentina Valentini “per lo storico dell’arte Eugenio Battisti, la storia degli studi dei rapporti fra teatro e arti figurative è stata incanalata e settorializzata in una disciplina specifica: la scenografia. Questa restrizione concettuale (...) ha prodotto per un verso un più agile recupero di documenti iconografici, ma contemporaneamente un appiattimento della cultura teatrale, scissa in campi di studi

specifici e separati, tenendo lontano gli studiosi di teatro dall’indagare l’aspetto figurativo e visuale, ridotto (…) a fatto scenografico-decorativo”2. Conquistata attraverso le esperienze degli Ottanta/Novanta, recuperata nella stessa etimologia del termine teatro - dal greco theàomai, traducibile con il termine 'vedo' - e data oramai per assodata, la natura visiva del teatro offre oggi nuovi territori di indagine. Le nuove compagnie della sperimentazione teatrale italiana scelgono

di muoversi in quel limen in cui arti performative e arti visive si metamorfizzano vicendevolmente, alterando la propria sintassi e ricostituendosi in un uso sincronico e integrato dei differenti linguaggi. L’impossibilità di classificare le opere lascia deflagrare anche gli spazi a esse inerenti. Una versatilità congenita permette ai nuovi artisti di spostarsi in ambienti e spazi differenti, dalle gallerie d’arte ai concerti di musica elettronica, dalle sfilate di moda ai più classici spazi teatra- 75 -


arskey/Dossier| Why Theater?

li. È il 'luogo' teatrale stesso, invaso dalla sintassi delle arti visive, dall’utilizzo delle tecnologie e dall’immaterialità dell’informatica a deflagrare, a perdere la sua specificità, a essere semplice 'medium' dell’evento artistico. A loro volta le istallazioni, i video, le esposizioni in gallerie d’arte, la produzione di opere materiali che spesso coinvolge i nuovi gruppi, non possono essere lette come eventi collaterali all’effimera produzione performativa, ma come sua vera e propria estensione, sua incrostazione nello spaziotempo, suo divenire oggetto. Infine si può generalizzare un definitivo cambiamento nella costituzione delle stesse compagnie/collettivi artistici che, lontani da qualunque tipologia di formazione teatrale, riuniscono personalità provenienti dai più disparati ambiti artistici. Come afferma lo studioso Mauro Petruzziello “non esistendo più una gerarchia fra segni, viene a frantumarsi anche il concetto stesso di compagnia. Ogni gruppo è il coagulato di varie specializzazioni”3. Risulta chiaro, quindi, come, i differenti linguaggi e le differenti declinazioni dell’arte contemporanea, convoglino inconsciamente all’interno dell’opera, come atto scontato, connaturato alla personalità dei singoli membri dei gruppi. Assumendo come esempio il lavoro delle compagnie Santasangre, gruppo nanou e Pathosformel, con lo scopo di tematizzare il rapporto arti performative/arti visive, si potrebbe ipotizzare una micro-topografia dell’'effetto arte contemporanea' all’interno nella scena teatrale4. Nel rapporto tra le due differenti discipline sarebbe così possibile individuare: 1. L’utilizzo dell’immagine/immaginario costruito dall’arte contemporanea come citazione esplicita/implicita nel modellamento dell’immagine teatrale 2. L’assorbimento di alcune sintassi appartenenti all’arte contemporanea nella sintassi dello spettacolo teatrale. Questi due 'effetti' dell’arte contemporanea non sono mai isolati o individuabili singolarmente ma si combinano in differenti gradazioni secondo l’estetica e la poetica perseguita dagli artisti. Il collettivo romano Santasangre (nato dall’unione di Roberta Zanardo, Maria Carmela Milano, Luca Brinchi, Pasquale Tricoci e Dario Salvagnini) convoglia all’interno dei propri spettacoli proiezioni video, Body Art, istallazioni meccaniche e azioni performative. La metamorfosi totale dei linguaggi porta il collettivo a spostarsi in ambienti differenti: dal festival di

musica elettronica “MIT - Meet in Town” (2010), al recente progetto “MyAtelier” (2011) che ha occupato Roma con una serie di gallerie mobili a forma di cubo bianco al cui interno erano ospitati differenti artisti visivi. Se in “SeiGradi” (2008) il collettivo costruisce il proprio spettacolo nella fusione di movimenti corporei, proiezioni 3D astratte e sonorità elettroniche manipolate dal vivo, nel seguente “Framerate 0” (2009) sottrae totalmente il corpo umano dalla scena, occupata da un’enorme lastra di ghiaccio che, tenuta salda da ganci, resistenze e bracci meccanici, si mostra allo sguardo dello spettatore trafitta da luci e proiezioni video. L'immaginario carnale della Body-Art si innesta all'algido immaginario video plasmato da artisti come Ryoji Ikeda o Ryoichi Kurokawa, configurandosi in nuovissimi orizzonti visivi. Differente il discorso per il recente progetto “Motel - Faccende personali” (2009-2011) della compagnia ravennate gruppo nanou, costituita da Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura. Qui la coreografia e la danza si spostano da un’attenzione all’elemento corporeo a quello scenografico e il movimento dell’uomo lascia spazio a quello del mobilio di una stanza di motel. La sintassi cinematografica, filtrata attraverso gli studi dell’arte contemporanea, rivive in assenza del suo supporto tecnologico, attraverso la manipolazione di luci, suoni e l’articolazione fotografica dell’immagine. Questa riecheggia e cita l’ambiguità dell’opera di Gregory Crewdson, il silenzio dei quadri di Edward Hopper, e un vastissimo immaginario cinematografico rimescolato e rimodellato come in una nuova, indefinibile forma di found foutage. Le due tipologie di effetto ipotizzate nel rapporto arte contemporanea/arti performative trovano perfetto equilibrio nella produzione artistica del gruppo Pathosformel composto da Paola Villani e Daniel Blanga Gubbai. Se in la “Timidezza delle Ossa” (2006), i corpi dei performer, nascosti allo sguardo dello spettatore, emergono come bassorilievi e frammenti di ossa su una tela bianca che nasconde la scena, nel successivo “La più piccola distanza” (2008) la compagnia lascia scorrere dei quadrati dai colori carnali su un’intelaiatura metallica, ricostruendo possibili rapporti umani tra le figure geometriche costrette al movimento bidimensionale. Il riferimento esplicito ad Aby Warburg, le forme e le immagini estrapolate dalla

storia dell’arte (dalle tecniche del bassorilievo alle provocazioni di Yves Klein, dall’idea di scultura di Michelangelo Buonarroti ai quadrati di Malevic, dalle pennellate di Rothko alle geometrie di Mondrian), si montano sulla scena articolandosi nell'esplorazione dell'universo umano, ma anche del dispositivo visivo e del rapporto tra supporto/contenitore e immagine/contenuto. Da questa rapida carrellata di esempi più o meno recenti emerge, infine, un’ultima domanda: se la portata e la (non) specificità di queste opere permette alle compagnie di declinare il proprio lavoro all’interno dei circuiti dell’arte contemporanea, della musica elettronica ecc., perché scegliere il 'luogo' teatrale come spazio in cui condurre la propria ricerca artistica? Cercando un comune denominatore che possa fungere da risposta provvisoria a tale domanda, potremmo fare riferimento ad alcune recenti affermazioni di Valentina Valentini. Scrive la studiosa: “La pratica artistica negli ultimi decenni ha fatto affiorare esperienze che non coincidono più con il teatro come genere, né quello moderno né quello postmoderno. Un dato infatti che si può generalizzare è che l’attrazione di molti artisti non è tanto nei confronti del teatro in quanto genere, ma in quanto evento, performance, l’arte che viene generata di fronte a un pubblico. È la qualità di liveness che attira nel circuito degli eventi teatrali, piuttosto che l’adesione alle sue convenzioni di genere. Il teatro è diventato una cornice in cui si inscrive altro dal teatro stesso.”5 È in questa cornice che l’arte contemporanea, contaminata e metamorfizzata, trova nuove potenzialità espressive, esplora inediti territori, fa a meno della specificità dei supporti che la esprimono, abbandona ogni riflessione metalinguistica, si lancia verso l’inafferrabilità dell’hic et nunc, la 'mortalità' del live, la necessità totalizzante della meraviglia visiva. 1- Opera realizzata da Marina Abramović dopo la guerra nei territori della ex Jugoslavia: celata dietro uno scheletro l’artista dirige un coro di bambini vestiti di nero che cantano l’inno dell’ONU in lingua serbocroata. 2- Valentini Valentina, “Teatro in immagine Vol.1”, “Eventi performativi e nuovi media”, Bulzoni Editore, Roma, 1987, p. 21. 3- Petruzziello Mauro, “Iperscene - Città di Ebla, Cosmesi, gruppo nanou, Ooffouro, Santasangre”, Editoria&Spettacolo, Roma, 2007, p.14. 4- In questa sede metteremo da parte la sua contropartita, ovvero un possibile “effetto teatro” all’interno dell’arte contemporanea. 5- Valentini Valentina, “Di un oltre”, articolo pubblicato sulla rivista Gli Altri, Venerdì 4 Marzo 2011


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10.9.11

aste/ economia/ politica

10.11.11

economia dell’arte Sondaggio prima parte segune : stato di salute dei musei italiani | Intervista ad: antonia pasqua recchia. educare al valore del patrimonio culturale | difesa del patrimonio: progetto cultura Intesa San paolo, un intervento sull’intero territorio nazionale | Fundraising: come ti attiro il mecenate: una questione di metodo | diritto dell’arte: public art in public places. Intervista ai due giuristi dell’arte alessandra donati e Gianmaria ajani | Mercato: è la cina il nuovo leader globale | aste: Sotheby’s, christie’s e phillips de pury: lotta a colpi di Warhol | a cura di arsValue.com aste in cifre

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arskey/Politiche Culturali| Sondaggio prima parte

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DIALOGHI CONTEMPORANEI :

sTATO DI sALuTE DEI MusEI ITALIANI

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di Angiolina Polimeni

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Un’indagine alla scoperta della condizione culturale del nostro paese in un confronto con alcune delle più significative voci del panorama museale italiano. Cinque domande volte alla definizione delle linee interne e generali che compongono il mondo dell’arte oggi; per testimoniare e riflettere una realtà composita definita da un profondo legame contaminante con la società e per spiegare quali siano le strategie adottate per promuovere l’enorme patrimonio artistico e culturale del quale disponiamo. In un percorso che si muove su tutta la penisola, oltre a uno speciale incontro con il Dott. Claudio Salsi - Direttore del Settore Musei del Comune di Milano, si intrecciano le voci dei direttori di: CAMeC, Castello di Rivoli, GAMeC, MAMbo, MART, MAXXI e Museo del Novecento.

Claudio Salsi

CLAUDIO SALSI Direttore del Settore Musei del Comune di Milano Angiolina Polimeni: In questo particolare momento storico, caratterizzato da una profonda crisi economica mondiale, oltre alla possibile unione di forze politiche-amministrative e artistiche, quali sono, a suo personale avviso, le strategie da adottare per rendere più dinamico il sistema museale italiano? Claudio Salsi: Innanzi tutto penso che sia necessario considerare i musei, che sono presenti capillarmente sul nostro territorio, come una risorsa tutta italiana unica e speciale, fondamentale per lo sviluppo del nostro paese, non solo sotto il profilo culturale e sociale, ma anche turistico (potenzialità ancora ampiamente sotto stimata) ed economico per l'indotto che i musei più importanti sono in grado di generare. Tuttavia, per essere sempre attrattivi, in una società che comunica velocemente, i musei devono poter rinnovare con una certa regolarità gli allestimenti, aggiornando i propri linguaggi alle esigenze della comunicazione contemporanea e proponendo sempre qualche novità: un restauro, una scoperta, un acquisto, una mostra che valorizzi una parte delle collezioni. Per superare le difficoltà della situazione economica, almeno parzialmente, penso che occorra insistere nella direzione del coinvolgi-

mento sistematico di forze private che accettino di sostenere i musei globalmente, non limitandosi ad appoggiare singoli eventi, ma "adottandoli" in tutti gli aspetti della loro attività, attraverso sponsorizzazioni e partnership di tipo pluriennale. Emblematica è l'esperienza del nuovo Museo del Novecento, a Milano: questo istituto può contare su main sponsor generosi (Finmeccanica e Bank of America) che hanno deciso di sostenerlo per alcuni anni sotto il profilo delle iniziative culturali. Infatti la sponsorizzazione episodica non aiuta il museo in modo significativo perchè non consente di elaborare programmi di sviluppo a lungo respiro (ad esempio, organizzazione di mostre di ricerca che richiedono tempi lunghi di preparazione, complessi interventi di restauro o campagne di incremento del patrimonio, ampliamenti o riallestimenti delle sedi espositive). Certo, chi investe dovrebbe essere aiutato da significative opportunità di sgravio fiscale e questo è un obiettivo che l'amministrazione statale dovrebbe porsi prioritariamente se vuole sostenere questi importanti fattori dello sviluppo italiano. A.P: Nell’anno dedicato ai festeggiamenti per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, qual è il ruolo ricoperto dal territorio milanese? C.S: La città di Milano ha deciso di puntare sulla valorizzazione del proprio Museo del Risorgimento, trai più ricchi a livello nazionale, il cui percorso espositivo è stato rinnovato nel 2009 proprio nella prospettiva di questa scadenza. Sono state comunque organizzate varie mostre ed esposizioni in diversi punti della città (dedicate a Napoleone III e l'Italia in collaborazione con Archivi Alinari e il Musée de l'Armée di Parigi, alle Cinque Giornate di Milano in collaborazione con la Struttura Tecnica di Missione per i 150 anni dell'Unità d'Italia presso la Presidenza del Consiglio, alla Galleria delle Battaglie, la raccolta di dipinti storici di tema risorgimentale formata dai Savoia presso il Palazzo Reale di Milano e ad altri aspetti della cultura ottocentesca e risorgimentale sotto il profilo storico, figurativo, musicale e documentario. Una grande mostra fotografica, tenutasi al Castello Sforzesco, ha messo in primo piano il ruolo della fotografia a Milano nell'Ottocento attraverso i fototipi storici del Civico Archivio Fotografico, restituendo un inedito ritratto della nostra città, prima e durante le grandi trasformazioni urbanistiche della seconda metà del secolo. Il Museo del Risorgimento è stato la meta di un vero e proprio 'pellegrinaggio' laico che nei primi 6 mesi dell'anno ha visto la presenza di oltre 11mila visitatori (pari all'affluenza

totale del 2010). Di grande rilievo e stimolo al recupero delle memorie garibaldine nazionali e internazionali è stato il ritorno solenne a Milano, dopo un lungo restauro a Livorno, del vascello detto "Il Leone di Caprera", con il quale un manipolo di marinai patrioti di Montevideo tra il 1880 e il 1881 attraversarono fortunosamente l'oceano per recare in dono all'eroe dei due mondi un album di firme degli italiani residenti in Uruguay. Il cimelio, di proprietà delle Civiche Raccolte Storiche, è ora esposto nel Museo Navale Didattico presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Il Palazzo Moriggia che ospita il Museo del Risorgimento ha beneficiato di una sponsorizzazione tecnica di Akzo Nobel che ha curato il restauro delle facciate interne. A.P: Il modello dirigenziale da lei adottato sino a oggi, ha garantito il successo di una straordinaria macchina capace di attrarre nei Musei Civici del capoluogo lombardo quasi un milione e centomila visitatori nell’anno 2010. Vorrebbe descriverci la formula che l’ha condotta a questo ottimo risultato? C.S: Credo che la forza della nostra rete museale stia innanzi tutto nella varietà dei beni culturali che interessano ben 14 siti espositivi (a cui corrisponde un numero quasi doppio di istituti culturali civici tra musei, biblioteche e archivi), di tipo artistico, archeologico, storico e scientifico. Un unicum per originalità e completezza. I musei però si alimentano della ricerca e delle iniziative culturali. Per favorire queste attività la Direzione del Settore Musei ha sempre favorito l'autonomia scientifica e organizzativa dei vari istituti museali, i cui responsabili, tutti molto preparati e fortemente motivati nella loro professionalità, vengono incoraggiati nella progettualità di mostre temporanee, di tipo istituzionale (ma spesso arricchite da prestiti da altri musei italiani e stranieri) convegni, cicli di conferenze e via dicendo. L'autonomia è un valore importante: ogni museo deve poter esprimere al meglio la propria specificità, ma anche il coordinamento è un valore essenziale per non disperdere le energie e favorire, sostenere e orientare di volta in volta questo o quel complesso museale. In questo modo si torna al museo per vedere una mostra o assistere a un concerto o ascoltare una conferenza. Questo aspetto della nostra attività ha tuttavia valenza non solo verso la città, come sarebbe logico aspettarsi, ma anche nei confronti del pubblico turistico. Ciò vale soprattutto per i Musei del Castello Sforzesco, tradizionalmente i più frequentati


arskey/Politiche Culturali | Sondaggio prima parte tra quelli della città, soprattutto da un pubblico internazionale, grazie alla presenza dalla celebre “Pietà Rondanini”, ultima dolente e incompiuta opera di Michelangelo. I nostri musei inoltre hanno tutti una spiccata attenzione per la dimensione didattica, intesa sia come offerta scolastica, sia come proposta per il pubblico adulto. Infatti se calcoliamo l'affluenza a iniziative didattiche e culturali fuori dall'orario di apertura vedremo che i numeri salgono ben oltre i dati ufficiali. L'apertura del Museo del Novecento inoltre è stato

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Giacinto Di Pietrantonio con Giuseppe di Sislej Xhafa

GAMeC/Giacinto Di Pietrantonio Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Giacinto Di Pietrantonio:Per quanto mi riguarda non posso parlare che di un’esperienza positiva quella fatta dal dicembre del 2000 alla GAMeC di Bergamo. Le difficoltà sono da sempre la penuria dei finanziamenti, che man mano siamo riusciti a far crescere anche se il nostro budget annuale non è alto, anzi. Tuttavia, anche se con pochi soldi siamo riusciti a posizionare un museo che prima conoscevano in pochissimi e che oggi è molto noto sia in Italia che all’estero. Difatti vantiamo collaborazioni che vanno dal Centre Pompidou alla Whitechapel di Londra, dalla Fondazione Proa di Buenos Aires e tanti altri sia in Europa che oltre. Comunque tutto ciò è stato possibile, perché abbiamo uno staff di persone molto preparate e molto appassionate. Senza di loro non si sarebbero ottenuti i risultati a cui siamo arrivati. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? G.D.P: Maggiore collaborazione tra le varie realtà dell’arte, insomma una coscienza collettiva, più che un lavorare per proprio conto, come avviene nella maggior parte dei casi.

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Andrea Bellini Foto Giorgio Majno

Beatrice Merz

CASTELLO DI RIVOLI / Beatrice Merz e Andrea Bellini Beatrice Merz e Andrea Bellini, direttori del Castello di Rivoli in carica dal 2009, raccontano la loro esperienza regalando qualche piccola anteprima rispetto all’intensa stagione espositiva che si sta per aprire. Angiolina Polimeni: Potete fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le diffi-

un evento a cui la città ha risposto in modo eccezionale; in poche settimane, anche favorito dalla gratuità dei primi mesi, un terzo dei milanesi aveva visitato il nuovo museo in piazza del Duomo. A.P: Potrebbe concederci qualche anticipazione rispetto ai progetti di valorizzazione del patrimonio museale che ha intenzione di attuare per la città di Milano? C.S:In questo momento il progetto più avanzato e completo riguarda il rinnovo museografico del Castello Sforzesco,

a cura dello Studio De Lucchi e dello Studio Chipperfield. Grazie al contributo fondamentale di Fondazione Cariplo, il programma degli interventi riguarderà, dal prossimo anno e per il primo lotto di lavori, la Raccolta delle Stampe A.Bertarelli, l'ingresso ai Musei (con bookshop, biglietteria e guardaroba), il punto informativo presso al Torre del Filarete e l'ex Ospedale Spagnolo, che dopo il restauro ospiterà una sala conferenze e, nei pressi, nel Cortile delle Armi, un 'temporary dehor' (design De Lucchi).

A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? G.D.P:Per noi il territorio è sempre stato prioritario e difatti abbiamo una sezione didattica che lavora su questo da sempre, una sezione che è stata la prima di un museo d’arte moderna e contemporanea a vincere il Premio nazionale, fatto con RAI 3, per la didattica. Ciò è avvenuto nel 2006 e da tenere presente che fino all’anno precedente avevano vinto sempre e solo tra musei d’arte antica. La nostra sezione didattica è stata anche la prima a formare i mediatori museali 30 guide in 30 lingue e provenienti da paesi diversi che vivono ora nella bergamasca. Questo è un lavoro importante che abbiamo fatto sul territorio coinvolgendo i molti migranti che vivono a Bergamo e provincia. Quest’anno abbiamo vinto anche il Premio Terna riservato ai musei associati all’AMACI, dove il bando prevedeva di presentare un progetto di relazione e sviluppo del museo con il territorio: Noi abbiamo presentato ALTA TENSIONE, una sorta di università parallela dell’arte che parte a settembre e va fino a marzo del 2012 con conferenze, workshop, tavole rotonde. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci la sua esperienza? G.D.P: Come detto la passione e la concentrazione per quello che faccio sia io che tutta la GAMeC a partire dal CDA è fondamentale in tutto questo, soprattutto nei momenti di crisi e una delle cose che più di altre ti aiuta a resistere e andare avanti e a sviluppare con flessibilità tutte le cose che hai sopra menzionato. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? G.D.P: A settembre apriamo con due mostre: una personale di Tim Rollins appositamente creata per la GAMeC con opere realizzate dall’artista con alcune classi di scuole

bergamasche e curata da Alessandro Rabottini. La mostra ruoterà intorno alla figura di Giordano Bruno ed è quindi fatta in collaborazione con il Festival di Bergamo Scienza. La mostra poi andrà al Museum fur Gegenwartskunst di Basilea. L’altra è la grande mostra con oltre 300 opere esposte chiamata “IL BELPAESE DELL'ARTE. Etiche ed Estetiche della Nazione” e non a caso è un’esposizione in cui si cerca di fare un ritratto dell’Italia nell’anno del 150° della sua Unità, il che in terra padana non è poco. Quindi una mostra super, curata da me e Maria Cristina Rodeschini, con più di cento artisti noti e ignoti, per non contare gli altri autori, o testimonianze di discipline diverse con opere e cose che vanno dall'Ottocento a oggi: pitture, sculture, caricature, video, foto, oggetti, ex voto, coppe e medaglie di campioni olimpici, mondiali, europei e italiani in varie discipline sportive, come i fratelli d’Italia di Lo Savio e Tano Festa, ma anche della pittrice Paola Levi Montalcini e documenti e studi della sorella premio nobel Rita, ecc. Foto storiche ufficiali dei Presidenti della Repubblica, e tant’altro per una mostra a 360 gradi con tante novità e cose sconosciute che fanno dell’Italia il Bel Paese dell'Arte unico al mondo. Per questo, oltre alle opere e cose esposte nel Museo la mostra si allarga anche fuori la città con gli stendardi commissionati ad alcuni artisti, bandiere che per la prima volta sfileranno un mese prima dell’apertura della mostra il 26 agosto nella processione di Sant’Alessandro patrono di Bergamo e poi saranno appesi ai balconi cittadini per tutta la durata della mostra. Così cerchiamo di riattivare anche alcune pratiche antiche dell’arte. In questo modo recuperiamo quella tradizione antica dell’Italia quando gli artisti lavoravano per eventi pubblici sia religiosi che laici. Poi la mostra è raccontata in catalogo oltre che dalle immagini delle opere esposte anche dai testi di firme prestigiose e diverse come i giornalisti Aldo Cazzullo del Corriere della Sera e Roberto di Caro dell’Espresso, il geografo Franco Farinelli, lo psicologo Ugo Morelli, l’antropologo Ivan Bargna, il critico Francesco Bonami, il prete Don Giuliano Zanchi, l’economista Pierluigi Sacco.

coltà incontrate e le soluzioni da voi adottate? Beatrice Merz e Andrea Bellini: Non è stato un periodo semplice. Per non compromettere in modo drammatico l’economia del museo abbiamo dovuto posticipare la mostra di McCracken, così come altre iniziative in programma. Purtroppo anche tutte le riunioni con il Consiglio di amministrazione sono state incentrate sul problema economico-finanziario, e poco sulla strategia museale in generale. L’obiettivo era chiudere il bilancio del 2010 in pareggio. Ci siamo riusciti grazie a una politica rigorosa di tagli e risparmi, come l’eliminazione delle celebri cene delle inaugurazioni presso il Combal, il ristorante due stelle Michelin all’interno del museo, la riduzione degli orari di apertura, il contenimento delle spese per la struttura, il contenimento delle spese per gli stipendi. Abbiamo anche provato, considerata la difficile congiuntura economica, a inventare una alternativa al 'mostrismo' imperante negli anni scorsi a Rivoli: siamo stati insomma costretti a rinunciare a una idea di museo incentrata fondamentalmente sulle 'grandi mostre'. Da qui la realizzazione di eventi a costo zero, come la grande installazione ambientale al terzo piano di Philippe Parreno, oppure l’intensificazione dei programmi collaterali, basati su proiezioni di documentari, concerti e conferenze. In questa fase di crisi la

nostra straordinaria collezione ci ha inoltre consentito di realizzare importanti mostre a costi contenuti, come la personale al terzo piano di Vito Acconci e il riallestimento in due tempi della collezione permanente con le mostre “Tutto è connesso” 1 e 2. Non abbiamo comunque rinunciato ad alcune importanti esposizioni, come “Exhibition Exhibition”, una mostra sul doppio appositamente pensata per la Manica Lunga, la prima grande retrospettiva europea di “John McCracken - Retrospettiva”, e la personale nelle sale della collezione di Andro Wekua, artista georgiano protagonista dell’ultima Biennale di Venezia. A.P: Secondo il vostro personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? B.M/A.B: A nostro parere serve una volontà politica forte, che si concentri da un lato sul problema delle risorse (servono infatti finanziamenti, pubblici o privati fa lo stesso, altrimenti il sistema finirà per collassare su se stesso), e dall’altro su una vera e propria strategia culturale, in grado di stabilire delle priorità. A.P: La vostra decisione di investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali si evidenzia nella nascita del nuovo biglietto unico per visitare due palazzi sabaudi quali il Castello e la Reggia di Venaria e il Museo del Cinema.

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arskey/Politiche Culturali| Sondaggio prima parte Potete illustrare questa scelta? B.M/A.B: Il Castello di Rivoli è forse l’unico museo d’arte contemporanea in Europa, di una certa importanza, che non è situato nel centro di una città. Per raggiungere il museo da Torino in taxi occorrono 40 minuti, con i mezzi (prima metropolitana, poi autobus e poi piccola camminata) i tempi si allungano molto, diciamo che non si arriva prima di un’ora e mezza. Un taxi costa 80 euro, andata e ritorno. Non ci vuole molto per capire che questo è un handicap terribile per una istituzione di questo tipo. Eppure, nonostante tutto, facciamo circa 100mila visitatori l’anno, una specie di miracolo visto il problema. Noi da parte nostra, considerati anche i tagli, facciamo del nostro meglio per aumentare i visitatori. In questo senso è nata l’idea di una sorta di biglietto unico con la Reggia di Venaria e il Museo del Cinema. L’iniziativa in parte funziona ma, per muovere le masse, rimane comunque centrale il problema dei trasporti. Per questa ragione noi crediamo sia fondamentale - da parte dell’amministrazione comunale e regionale - investire su questo aspetto, rendendo il museo più accessibile. Non servirebbe poi molto, parliamo di un sistema di navette....Ma anche qui il problema è di natura

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Anna Mattirolo

Margherita Guccione

Direttore MAXXI Architettura Margherita Guccione / Direttore MAXXI Arte Anna Mattirolo Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Margherita Guccione: Positivo. Sin dalla sua inaugurazione nel 2009, la forza scultorea e spettacolare dell’edificio progettato da Zaha Hadid ha trasformato il Museo MAXXI in una nuova e imprescindibile icona della città di Roma. Le aspettative che ci ha posto Zaha Hadid sono ambiziose e ci spronano quotidianamente a puntare alto, assecondando il flusso degli spazi museali che richiedono dinamismo e flessibilità nella fruizione fisica e nella programmazione culturale. D’altro canto rispettare i punti di forza del MAXXI è per noi quasi 'naturale', poiché le funzioni del Museo fin dall’inizio sono state studiate e indirizzate dall’approccio architettonico innovativo del progetto. Per ovviare a un altro tipo di difficoltà come quello della crisi economica la strategia adottata è stata di porre al centro degli obiettivi la creazione di una rete complessa e dinamica tra istituzioni pubbliche e private che operano nel settore delle arti contemporanee. Anna Mattirolo: Quando nel 1998 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha bandito il concorso per la progettazione del “Centro per le Arti Contemporanee” già si aveva ben chiaro il ruolo che avrebbe dovuto ricoprire questa nuova istituzione. L’idea era quella di dotare Roma di un campus polifunzionale che contenesse al suo interno le espressioni artistiche del XXI secolo. È stato un percorso lungo e non facile ma è stata una sfida che abbiamo sempre raccolto con entusiasmo. Oggi Il MAXXI si presenta come un’architettura fuori dagli schemi e come un’esperienza che inaugura una nuova pratica museografica che rompe con il

politica. Serve una strategia e la volontà di risolvere i problemi! A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, i dati relativi all’affluenza, grazie a una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale, non ha subito variazioni significative rispetto allo scorso anno. Questi dati sembrano confermare un'intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione capace di decretare continui successi. Volete parlane? B.M/A.B:Esatto. Nonostante il difficile momento economico generale abbiamo mantenuto, in linea di massima, lo stesso numero di visitatori. Ma questo non deve giustificare la politica dei tagli indiscriminati: se non si investe i visitatori sono necessariamente destinati a scendere. Le faccio l’esempio del MUSAC di Léon. Ebbene questo museo spagnolo fino all’anno scorso aveva un budget di 5.5 milioni di euro, ed era in grado di attrarre 145mila visitatori. L’anno scorso il governo ha tagliato 1.5 milioni di euro, portando il budget a 4 milioni di euro, e i visitatori sono scesi a 120mila. Le facciamo notare inoltre che l’entrata al MUSAC è gratuita, mentre da noi si paga il biglietto. Come vede il

numero di visitatori di Rivoli, nonostante la sfavorevole posizione del museo, è in linea con importanti musei europei collocati nei centri cittadini. Questo dal nostro punto di vista è uno straordinario successo. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte come la mostra dedicata ad Andro Wekua - “A neon shadow”. Qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? B.M/A.B: Per il prossimo autunno abbiamo in programma due eventi che rientrano nelle celebrazioni conclusive dei 150 anni dell’Unità d’Italia: “Arte Povera International”, una mostra sull’Arte Povera letta all’interno di un contesto internazionale, e “Le scatole viventi / The Living Boxes”, un inedito congegno espositivo pensato appositamente per la Manica Lunga. Per il 2012 abbiamo in cantiere dei progetti straordinari, come la prima grande esposizione in un museo italiano di Thomas Schutte, una mostra di Ana Mendieta, un progetto site specific di Paola Pivi e poi ancora alcuni convegni e alcune collaborazioni con realtà museali internazionali.

passato e che è stata di grande stimolo per l’allestimento dei focus di collezione e delle mostre. Ad esempio ogni problema allestitivo incontrato è diventato un incentivo a dialogare con lo spazio e con le opere, vi sono poi naturalmente le difficoltà finanziarie, comuni a tante istituzioni che si occupano di cultura e a quelle abbiamo fatto fronte pian piano che i problemi si sono presentati, cercando di mantenere invariata la qualità di ciò che offriamo al pubblico in termini di mostre, pubblicazioni, servizio e ricerca. Direi che tutto sommato sono soddisfatta, non ci sono passi che non rifarei. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano?

museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione, è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Volete parlane?

M.G: Non parlerei di cambiamenti ma di nuove prospettive. Il punto di partenza è quello di innescare un circolo virtuoso di apertura verso l’esterno che, partendo dalla centralità, nel caso del MAXXI, della città di Roma, sia capace di costruire politiche comuni per uno sviluppo consapevole e di qualità delle esperienze legate alle arti del XXI secolo. A.M: Il sistema museale italiano dovrebbe riuscire ad attuare una programmazione culturale almeno triennale, aspetto che consentirebbe al calendario delle esposizioni di avere una più definita organicità. Questo può avvenire soltanto se ogni istituzione ha la certezza di poter usufruire di un budget che non subisca variazioni più che significative in corso d’opera. Tutti questi aspetti insieme permetterebbero anche di migliorare le relazioni tra le istituzioni che così potrebbero portare avanti i loro progetti con maggiore sicurezza e in sinergia. Altro suggerimento è quello di poter realizzare un codice etico condiviso tra le istituzioni, documento al quale il MAXXI sta già lavorando da tempo. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? M.G: Noi, come MAXXI Architettura, crediamo molto nelle relazioni e collaborazioni con il territorio, ed è in questo senso che promuoviamo le nostra iniziative su tutte le scale, da quella internazionale a quella locale. Tutto ciò permette di attivare intrecci sinergici con pubbliche amministrazioni, enti locali, ma anche con i privati. Il dialogo con i privati è sempre in atto. Anche questa è una sfida: costruire un programma d’eccellenza, rispondendo a finalità che tengano conto delle esigenze di soggetti diversi. A.M: Io credo che questo intreccio sia non solo auspicabile ma necessario. Fin dall’apertura con “Spazio”, la collaborazione con altre istituzioni, specialmente nazionali, è stata fondamentale per creare un rapporto di sinergia professionale e una piattaforma comune di opere tesa a un costante aggiornamento della collezione e, anche, a una sorta di integrazione tra i patrimoni delle diverse istituzioni. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà

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M.G: In questi anni abbiamo lavorato perché ci fosse un’istituzione nazionale specifica sul contemporaneo e impegnata nel rappresentare le dinamiche architettoniche e artistiche su scala nazionale e internazionale. Un’altra aspettativa raggiunta è il consolidarsi della comunità culturale che gravita attorno al MAXXI e che ogni giorno aumenta e si fa sentire attraverso incontri, convegni e visite. In tutto questo sicuramente il sistema di rete complessa di cui parlavo prima è la strategia che perseguiamo. In particolare il MAXXI Architettura è fortemente legato al sistema di gestione di un vero e proprio ‘patrimonio virtuale’, costituito dalla rete dei musei e degli archivi pubblici e privati presenti in Italia, che permette di estendere a dismisura il patrimonio di riferimento. A.M:L’intenzione, come dicevo prima, è sempre stata quella di fare fronte alle difficoltà finanziarie e offrire al nostro pubblico il meglio possibile. In questo naturalmente le partnership con altre istituzioni sono di arricchimento e di aiuto e per alcuni progetti sono stati una risorsa imprescindibile, penso ad esempio alla mostra di Michelangelo Pistoletto o a “Indian Highway” che apriremo a settembre. Resta inteso, comunque, che ogni programmazione ha bisogno di un budget adeguato. I tagli subiti restano un fatto assolutamente drammatico che rischia di mettere a repentaglio il futuro di tutti i musei. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? M.G: Le scelte culturali seguono contemporaneamente più filoni e cercano di unire una dimensione museale tradizionale con un approccio più sperimentale e aperto al nuovo. L’intenzione è di allargare l’offerta culturale, al fine di poter offrire una grande varietà di occasioni, stimoli e approfondimenti per coloro che visitano e frequentano il MAXXI. Della programmazione futura vi anticipo la mostra “Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta” inaugureremo a novembre. Per il MAXXI Architettura si tratta di un’iniziativa molto importante, particolarmente vicina al core-business del suo impegno relativo ai temi dell’architettura e della valorizzazione del patrimonio e del paesaggio italiano. Superando l’idea tradizionale di mostra, attraverso approfondimenti, incontri e laboratori. Il progetto ha obiettivi molteplici, come la ricerca di un approccio strategico che ci permetta di affrontare la questione della


arskey/Politiche Culturali | Sondaggio prima parte sostenibilità al di là dell’affidamento alla tecnologia e all’ecologia tradizionale, e l’obiettivo di individuare e promuovere progettisti nuovi e tattiche progettuali innovative. A.M: Anzitutto seguiteremo con i focus di collezione e stia-

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Gabriella Belli

MART/Gabriella Belli Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Gabriella Belli: È davvero molto difficile e complicato per me, parlare della mia esperienza al MART perché questo è nato esattamente insieme al mio avvio professionale nel mondo del contemporaneo. Al mio arrivo, nel 1981, Palazzo Albere si trovava completamente vuoto ed era necessario fare una scommessa per inventarsi. È stata un'esperienza unica e straordinaria nella quale ho avuto l’opportunità di scegliere praticamente tutto. Grazie a un lungo e intenso lavoro siamo riusciti a creare un perfetto raccordo con le istituzioni per evidenziare le peculiarità della zona. In un territorio vergine nel quale non si parlava di contemporaneità abbiamo fatto un’importante scommessa per creare un luogo unico nel suo genere. Ho potuto trasformare in un’opportunità una location che si trovava al di fuori dei tradizionali percorsi legati all’arte contemporanea e questo è stato un grande stimolo per portare avanti un progetto innovativo che si svincolava da tutto ciò che potevano proporre, ad esempio, le gallerie d’arte presenti sul territorio. Il fine ultimo di questo percorso era quello di instaurare una personale e unica visione dell’arte

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CAMeC/ Marzia Ratti

Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Marzia Ratti: Il CAMeC ha aperto i battenti nel 2004 e ha puntato al raggiungimento di un duplice obiettivo: valorizzare le ricche collezioni permaMarzia Ratti nenti (Premio del Golfo, Collezione Cozzani, Collezione Bettolini) e promuovere le arti contemporanee consolidando una forte vocazione della Spezia con momenti artistici salienti avvenuti sia nel Novecento che in questo secolo. Alla luce di tale programma, voluto fortemente dal Comune che gestisce la struttura tramite l’Istituzione, direi che il bilancio è positivo, anche

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mo attualmente lavorando a due progetti di mostra e catalogo: uno dedicato a Marisa Merz e l’altro a Lara Favaretto. Poi un progetto importante a cui tengo molto è quello dedicato a Francesco Vezzoli, a cui stiamo già lavorando con il

Moma PS1, in cui io sarò curatrice del catalogo, un progetto ampio e ambizioso in cui vorremmo adattare il modello del catalogo ragionato per un artista contemporaneo come Vezzoli.

seguendo una strada originale che rispondesse comunque alle domande e alle esigenze culturali del territorio senza però dimenticare il costante e profondo studio ed esame che si trova alla base di ogni scelta che ha come obiettivo ultimo di attrarre il pubblico, stimolato da un valido motivo per venire al MART. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? G.B: Il vero cambiamento, quello epocale, è nella governance. È una trasformazione che si avrà solo nel momento in cui i direttori dei musei verranno considerati dei tecnici, dei direttori scientifici quali in realtà già sono o dovrebbero essere. In Italia, oggi, c’è un legame troppo stretto tra la politica e le direzioni scientifiche il cui lavoro non è mai svincolato da questa relazione. Il modello da emulare appartiene agli Stati Uniti o alla Germania, paesi nei quali, generalmente, un direttore viene eletto per cinque anni, e ha la possibilità di svolgere il proprio lavoro con assoluta tranquillità e continuità d’azione, salvo azioni improprie che lo potrebbero far mandare via: si parla di semplice meritocrazia che richiede qualità tecniche, indubbia competenza, originalità di pensiero e attenzione ai tempi. Per lavorare nel modo più corretto è necessario disporre di una regia continuativa che purtroppo, molte volte, non esiste poiché dopo due o tre anni, in base alle fluttuazioni della politica un direttore cade. Anche nella mia esperienza personale al MART, nelle sue fasi aurorali, è stato importantissimo godere di questa continuità che è anche un'estensione dell’idea che sottende al lavoro di ogni singolo. Conseguente alle direzioni, un secondo fattore essenziale a definire il cambiamento, è legato a motivi economici. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? G.B: Tutta la politica culturale del MART si fonda nel riconoscimento del valore che appartiene al territorio nel quale si struttura. Senza dimenticare come sia inevitabilmente mutata la situazione dagli anni Ottanta a oggi, prerogativa costante del nostro lavoro è sempre stata quella di rispondere a tutte le domande che possono stimolare la possibilità di un approfondimento, analizzando tutte le richieste e il contesto nel quale ci muoviamo. Per poter allargare sempre più il cerchio. A testimonianza di tale interesse, sta per prendere vita un progetto al quale sono molto legata: un focus sul territorio nato sull’archivio di lavori degli artisti trentini emergenti e affermati. Questo lavoro vuole essere una testimonianza sull’importanza della memoria, un censimento culturale a disposizione della memoria di noi tutti. Tale pubblicazione sarà su catalogo cartaceo e visibile on-line.

A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci la sua esperienza? G.B: Alla base di ogni nostra scelta c’è un taglio, un progetto culturale differente che non è omologato a null’altro perché al centro di tutto c’è sempre la ricerca e la qualità scientifica come elemento di forza capace di creare e definire anche la reputazione del MART. Nostra consuetudine è quella di lavorare su un progetto culturale specifico e sulle novità che questo può portare con sé perché questa modalità di approccio conduce a un costante avanzamento negli studi della disciplina. Questo modo di operare porta con sé, tempi di programmazione molto lunghi che si muovono sui due tre anni a causa dell’intensa attenzione che si dedica a ogni mostra. La nostra programmazione è pertanto pluriennale, ciò ci consente di guardare costantemente al futuro, tanto che per noi l’anno venturo, il 2012, si può dire un anno già concluso. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? G.B: Nel calendario d’autunno si prospetta, nel mese di settembre, una monografica dedicata all’opera di Gino Severini. È dagli anni Trenta che in Italia non si dedica una mostra di tale portata a questo eccezionale artista. Coprodotta con il Musée de l’Orangerie di Parigi, questa esposizione sottende un'operazione molto meditata e strategica e nel suo primo incontro con il pubblico internazionale, ha riscosso un grande successo. Il 2012 si preannuncia come un anno molto più contemporaneo rispetto al 2011. Continueranno i progetti a largo respiro come la mostra “L’Arte della Matematica” che avrà per tema il rapporto e le influenze esistenti fra gli artisti del Novecento e la disciplina matematica. Sarà un'esplorazione trasversale, che metterà in relazione gli schemi matematici con i mezzi di espressione visiva grazie alle opere di indiscussi maestri della storia dell’arte: Leonardo da Vinci, Paul Klee, Piet Mondrian e Vasilij Kandinskij. Stiamo anche lavorando a una mostra su Gina Pane, Vito Acconci e a un progetto con Lea Vergine sulla storia della micro-cultura artistica dei ristretti circoli culturali di inizio Novecento in Francia, Inghilterra e Italia per analizzare gli scambi intellettuali e le storie di micro-cultura quotidiana che ne scaturiscono.

se i tagli alla cultura intervenuti in seguito hanno comportato un ridimensionamento dei progetti espositivi previsti, non permettendo la piena maturazione dell’idea di partenza . A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? M.R: Il panorama delle istituzioni culturali italiane dedicate alla contemporaneità è assai più ricco e articolato di un tempo e a ciò corrisponde anche una vivacità profonda delle ricerche artistiche. Se riuscissimo a creare una più efficace rete di cooperazione fra i diversi poli delle realtà regionali per lavorare intorno a progetti di promozione dell’arte italiana, valorizzandola in Italia ed esportandola più e quanto possibile, potremmo senz’altro migliorare le nostre performances ed essere utili alla causa dei nostri invidiati patrimoni culturali e degli ottimi artisti nazionali A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? M.R: L’ho appena sostenuto. Intanto formulando proposte culturali ricche di contenuti a partire dai patrimoni e dalle

esperienze in essere. L’Italia è leader nel mondo per questi aspetti. Si abbasserebbero conseguentemente anche i costi di produzione delle mostre, talvolta ingiustificatamente troppo costosi. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci la sua esperienza? M.R: Sicuramente il principio di realtà prevale su ogni altra concezione teorica e metodologica, per quanto valide. Oggi occorre coniugare l’alta qualità delle proposte alla loro concreta fattibilità, cercando di collegare le innovazioni e le suggestioni che provengono dai linguaggi artistici al sistema socio-economica in cui opera il Centro e soprattutto di renderle visibili e ben fruibili nel modello di vita che la città offre, sapendo che esse possono esserne un ulteriore valore aggiunto.

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arskey/Politiche Culturali| Sondaggio prima parte A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? M.R:Malgrado le enormi difficoltà finanziarie siamo riusciti a offrire proposte espositive in continuità valorizzando la pittura del secondo Novecento con la mostra “Il Premio fra i premi. La pittura in Italia dal Futurismo all’Informale”, la pittura ligure con i maestri del nostro Novecento e proprio di recente è stato avviato il progetto “CAMeC Pianozero” che apre un dialogo serrato con giovani artisti emergenti, scelti in base al filtro della programmazione generale del Centro. Nel prossimo futuro inizieremo anche una linea

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Gianfranco Maraniello Direttore MAMbo - Museo d'Arte Moderna di Bologna Foto di Matteo Monti

MAMbo/ Gianfranco Maraniello Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Gianfranco Maraniello:In effetti è tempo di bilanci. Il mutare degli scenari macroeconomici e le drammatiche conseguenze facilmente prevedibili obbligano a prendere consapevolezza di quel che siamo per capire cosa potremo diventare. Ho avuto l'onore di assumere la direzione della Galleria d'Arte Moderna in una fase critica, di passaggio. Negli ultimi anni abbiamo inventato e realizzato il MAMbo, aggiunto la casa di Morandi al Museo dedicatogli e da noi gestito, abbiamo inaugurato il Museo per la Memoria di Ustica con l'opera di Boltanski che rappresenta uno dei maggiori monumenti contemporanei in Italia. A ciò si aggiunge il recupero e l'incremento del patrimonio della collezione della GAM e la messa in ordine di tutti gli aspetti gestionali con particolare riferimento all'inquadramento del personale per cui oggi le eccellenti professionalità a tempo indeterminato a servizio dell'Istituzione potranno

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Marina Pugliese

Museo del Novecento / Marina Pugliese Angiolina Polimeni: Potrebbe fare un bilancio dell’esperienza maturata sino a oggi, raccontando quali sono state le difficoltà incontrate e le soluzioni adottate? Marina Pugliese: Il bilancio è indubbiamente positivo, segno della necessità sentita a Milano di un museo che

espositiva di coordinamento ligure, cooperando con la Fondazione Regionale per la Cultura, per creare eventi internazionali e di scambi di collezioni facendo tesoro delle raccolte presenti in Liguria da Levante a Ponente, passando naturalmente per Genova. Proseguiremo infine la valorizzazione degli artisti del territorio, come si è già fatto con le mostre di Giuliano Tomaino e Marco Casentini (oggi presenti entrambi alla Biennale Ligure), realizzando una mostra omaggio alla lunga attività di Francesco Vaccarone “Opere 1956-2011”che avrà anche estensioni in città, come già sperimentato positivamente nel caso di Tomaino. L’invasione pacifica degli spazi urbani con le opere degli artisti di cui organizziamo mostre personali dentro il

Centro è un modo davvero efficace per avvicinare le persone, senza forzature, all’arte contemporanea. Un’altra attività che abbiamo davvero potenziato in questi anni recenti è quella didattica che offre oggi una vasta gamma di proposte e che spazia dai percorsi educativi pensati per la scuola, ai laboratori di arte - terapia, ai progetti speciali legati alle mostre o alle presenze degli artisti in città, agli incontri di approfondimento dedicati ai docenti. Abbiamo costruito, anno dopo un anno, un proficuo rapporto di collaborazione coi docenti e con gli operatori culturali del territorio mettendo in rete esperienze e competenza tali da arricchire la progettazione didattica e la sua concreta applicazione.

esserne il suo futuro punto di forza. Più di centomila bambini hanno usufruito dei nostri servizi educativi. Abbiamo conti in regola e possiamo guardare retrospettivamente al nostro programma di mostre con soddisfazione, tenendo conto di successi come la coproduzione di “Morandi 18901964” col Metropolitan di New York e le monografiche di quegli artisti che, basti come sintomo, dopo pochi mesi hanno avuto la copertina di Artforum (da Ryan Gander a Christopher Williams, per ben cinque volte in tre anni). Questo in estrema sintesi, ma molto ci sarebbe da aggiungere. Eppure ho la tremenda sensazione che tutto poggiasse su basi troppo fragili e che ancora questa precarietà non sia superata. A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? G.M: Il sistema museale italiano è dinamico, fin troppo. Il problema, semmai, è proprio la continuità di progetto, il riconoscimento del valore e il posizionamento delle istituzioni esistenti. Vedremo quanti musei sopravviveranno alla crisi ormai sopraggiunta e quali strategie ciascuno saprà inventarsi non secondo una generica ricetta, ma in base alle specifiche contingenze. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? G.M: Questo sarebbe il ruolo della politica che dovrebbe favorire tali dinamiche e mettersi a servizio delle istituzioni. Ovviamente ogni territorio ha proprie ragioni e dinamiche da comprendere e far fruttare. In generale, però, direi che il problema dell'Italia è, invece, l'invadenza della politica a discapito delle istituzioni e di valori non di parte. Banche, imprese, fondazioni cercano la complicità con chi governa anziché bilanciare le prerogative della politica con contro-poteri. Ancor peggio con il giornalismo che non è capace di porsi in modo autorevole e favorire il ruolo di un'eventuale opinione pubblica. Il risultato è che le istituzioni vengono oggi difese dai suoi rappresentanti facendo impropriamente (ma inevitabilmente) azione politica.

A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un’intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci la sua esperienza? G.M: Nel 2006, con il Consiglio di Amministrazione del Museo, abbiamo delineato una strategia attraverso un lavoro di analisi del contesto museale italiano ed europeo e una pianificazione delle nostre attività che ci garantisse riconoscibilità e un chiaro posizionamento. Su questo progetto abbiamo ricevuto il sostegno dei principali partner e si è tenuta la barra dritta su quanto promesso a loro e a noi stessi. Si tratta di accompagnare sempre il profilo culturale con una prospettiva di sostenibilità. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? G.M: Siamo tra i musei che lavorano all'epocale spazio interpretativo dell'Arte Povera con il ciclo di mostre che aprirà proprio al MAMbo e stiamo preparando la grande mostra retrospettiva su Marcel Broodthaers. Sono due fondamentali appuntamenti che mi consentiranno di spiegare retrospettivamente perché finora il MAMbo ha fatto quel che ha fatto, quali traiettorie si possono ora leggere compiutamente e perché nessun aspetto gestionale del Museo e nessuna mostra o evento possano essere disarticolati dalla programmazione. Tutto ciò in vista di un necessario cambio di passo e un rinnovamento per affrontare sensatamente le difficoltà venture. Nel 2005 dovevamo traslocare il Museo e questa situazione è stata vissuta non solo come un problema pratico, ma come stimolante opportunità da un punto di vista culturale. La crisi finanziaria che attanaglia l'Europa dovrà parimenti impegnarci nell'invenzione di un Museo adeguato ai tempi.

finalmente esponesse l’importante patrimonio civico di arte del XX secolo. Le difficoltà maggiori sono state dovute al ricorso di uno degli esercizi commerciali che occupavano il piano terreno dell’Arengario, questione che ha posticipato di molto l’inizio dei lavori. Una volta avviato il cantiere nella sostanza è andato tutto liscio A.P: Secondo il suo personale punto di vista, quali sono i cambiamenti necessari atti a rendere più dinamico il sistema museale italiano? M.P:Uscire dalla logica dei 'musei ufficio' vincolati al bilancio degli enti pubblici e privi di autonomia gestionale. A.P: Oggi è possibile investire sull’intreccio sinergico delle risorse territoriali? Se sì, come? M.P: È auspicabile ma non facile, purtroppo le differenze anche politiche dei vari enti presenti sul territorio rendono ancora troppo spesso difficile operare in una logica di rete. A.P: Nonostante gli ingenti tagli subiti da tutte le realtà museali, un intelligente pianificazione strategica innestata su un modello dirigenziale in continua evoluzione è capace di decretare continui successi messi in evidenza dai dati relativi all’affluenza, da una programmazione di alto livello e una importante eco della stampa internazionale. Vorrebbe raccontarci la sua esperienza?

M.P: Credo che i tagli, per quanto deprecabili, possano servire per ridurre la logica dell’evento effimero e incentivare quella delle mostre come occasioni di ricerca. Noi abbiamo scelto di percorrere questa strada, evidenziando la centralità del patrimonio e quindi del percorso museale. Sicuramente però ci ha aiutato la collocazione in Piazza Duomo e l’estro del progetto architettonico di Rota e Fornasari, rispettoso del contesto e innovativo al tempo stesso. A.P: L’estate si chiude con un programma ricchissimo e la stagione autunnale si apre con un nuovo ventaglio ricco di proposte. Potrebbe concederci qualche piccola anticipazione rispetto ai programmi futuri? M.P: Dal 13 al 18 settembre, per l’iniziativa “Primo piano d’artista” a cura di Alessandra Galasso, Marta Dell’Angelo realizzerà un’opera in museo, mentre alla fine di settembre (il 29) inaugureremo tre mostre, una dedicata alla collezione di fotografia storica di Bank of America Merrill Lynch, curata da Silvia Paoli, un focus su Kengiro Azuma a cura di Danka Giacon e, negli archivi, una mostra su documenti dadaisti e futuristi dalle collezioni milanesi, a cura di Vicente Todolì e Italo Rota. A questo si affiancherà un ricco programma di conferenze e presentazioni di libri.

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LE AsTE DI MAGGIO, GIuGNO E LuGLIO:

MERCATO ITALIANO

DELL’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA di Giuseppe Ponissa

Maggio, giugno e luglio hanno accompagnato le vendite all’incanto verso le vacanze, registrando tutto sommato risultati interessanti nonostante il momento certo non felice che continua ad attanagliare il mercato dell’arte e non solo. Maggio ha visto attive le sedi milanesi di Christie’s e Sotheby’s. Durante le due sessioni di Christie’s, tra i pezzi venduti meglio, diversi sono di Fontana e spesso hanno superato o si sono avvicinati molto alla stima massima. Ad esempio il top lot di questa vendita è proprio un “Concetto spaziale” (55,2x46 cm) a olio, lacerazione e graffiti su tela del 1963-64 che veniva presentato con una stima massima di 500mila euro ed è stato battuto a 580mila euro; cifra di tutto rispetto in assoluto essendo il maggiore dei top lots dell’artista in Italia dei due anni passati. Un “Concetto spaziale. Attese” (46x38 cm) a cementite su tela del ’64 ha invece raggiunto i 390mila euro, a fronte di una stima massima di 400mila; ancora un “Concetto spaziale” (65x53,7 cm) olio, graffiti e squarcio su tela del 1961 ha ottenuto Lucio Fontana, “ Concetto Spaziale (Forma)”, 1963 190mila euro a fronte di una valutaolio, squarcio e graffiti su tela, cm 73x60 zione massima di 200mila. Discorso Stima € 350.000/450.000 simile per due opere di Castellani tra prezzo di aggiudicazione € 499.100 le maggiori vendite all’interno dell’aPandolfini Casa d'Aste sta. Ben venduto a 400mila euro un Asta del 14 giugno 2011, lotto n. 343 non piccolo (140x182 cm) acrilico su tela estroflessa e introflessa del 1967: ha eguagliato la stima massima di presentazione, ottenendo il terzo miglior risultato assoluto dell’artista, dietro gli 800mila e 420mila euro registrati nel 2010. Dieci lotti prima, una stessa tecnica del ’67 (59,5x69,1 cm) è stata esitata a 180mila euro, andando di 30mila euro oltre la valutazione massima. Passando a Sotheby’s in rilievo c’è sicuramente l’arazzo LE vENDITE (107x102 cm) del 1988 di Boetti, opera esposta presso ALL’INCANTO vERsO LE la Galleria Rochini di Terni nel 1997 e che è stata la vACANzE, REGIsTRANDO meglio venduta delle sessioni con i suoi 410mila euro di aggiudicazione, che rappresentano per altro il TuTTO sOMMATO miglior prezzo raggiunto in assoluto dall’artista in RIsuLTATI INTEREssANTI Italia, eguagliando il record di un altro arazzo (86x139 NONOsTANTE IL cm) del ’79 venduto nel 2007 dalla stessa casa d’aste. MOMENTO CERTO NON Due concetti spaziali di Fontana, entrambi idropitture su tela del 1964-65, hanno meritato il primo (45x37 fELICE cm) 320mila euro e il secondo (27x22 cm) 300mila. Tra i lotti di spicco anche due oli su tela di De Chirico: “Archeologi” (80x60 cm) del ’61 ha totalizzato 300mila euro, “Piazza d’Italia con Arianna” (50x70 cm) ne ha totalizzati 260mila nonostante una stima massima che indicava 200mila. Ricordiamo anche una “Natura

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morta” (25x35,5 cm) del '42 di Morandi attestatasi sui 280mila euro e “Base magica” (61x79,5x79,5 cm), una scultura del '61 di Manzoni, che con i suoi 240mila euro ha superato di 40mila euro la stima massima di presentazione. Il mese era stato aperto da Poleschi di Milano. Migliore aggiudicazione un arazzo (84x25 cm) del '89 di Boetti: partendo da una base d’asta di 48mila euro ha raggiunto i 55mila. Altra buona aggiudicazione sono i 40mila euro di Paladino grazie a un olio su tavola (58x48 cm) del 2001, cifra che si allinea al top lot dell’anno scorso, ma che non ha nulla a che fare con le migliori aggiudicazioni degli anni scorsi. Poi i toni si abbassano, a partire dai 24mila euro ottenuti da una tecnica mista su cartoncino (69x104 cm) del ’56 di Scanavino. A 19mila euro troviamo un’idropittura su tela (50x40 cm) del ’59 di Dadamaino, risultato in linea con quello di un’opera delle stesse dimensioni passata a marzo presso Sant’Agostino a 20mila euro e superiore ai top lots dei due scorsi anni. Spostandoci a Firenze troviamo la vendita di Pananti, in cui “Allegoria della commedia e della musica”, olio su tela riportata su tavola del '48 e dalle sontuose dimensioni di 180x358 cm, di Colacicchi è stato esitato a 28mila euro. Chiudono maggio le sessioni di FarsettiArte di Prato, l’ultima delle quali ha visto passare i pezzi più pregiati e registrato le aggiudicazioni più forti. A partire dai 600mila euro a cui è stato esitato “Piccolo cavaliere”, una scultura in bronzo (alta 52,5 cm) del '46 di Marini; l’opera, esposta nel ’95 presso la veronese Galleria dello Scudo, segna la migliore aggiudicazione in Italia dell’artista toscano dal 1996 e più in generale la seconda in assoluto. Ottimi anche i 560mila euro raggiunti dall’olio su tela (80x80 cm) del 1911 di Boccioni, un risultato ragguardevole in assoluto, inferiore, di molto c’è da dire, solo ai top lots del 2006 e del 2007. A 480mila euro troviamo un grande acrilico su cellotex (150x200 cm) del '87 di Burri; l’opera vanta due esposizioni nel '88, a New York e alla Biennale di Venezia, e una a Modena l’anno scorso, vanta inoltre una bella gara presentata com’era con una stima massima di 350mila euro. Concludiamo con i 400mila euro della “Natura morta" di Morandi, un olio su tela (25x30 cm) del '60 esposto a Firenze proprio quest’anno presso la Galleria Frediano Farsetti. Passando a giugno incontriamo subito la prima delle tredici sessioni della Meeting Art. Tre le opere portate a casa a 35mila euro. La prima è “Il missile”, un olio su tela (65x83 cm) del ’61 di Tozzi esposto nel '68 a Brescia, dieci anni dopo nel fiorentino Palazzo - 85 -


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Strozzi e nel '84 nel ferrarese Palazzo dei Diamanti. La seconda è “Burlesque” di Adami, un grande olio su tela (146x114 cm) in esposizione nel '96 presso il Museo Mediceo a Firenze. La terza è una tecnica mista su tela (80x140 cm) del ’61 di Gallizio, si tratta di un notevole risultato per due motivi: perché la base di partenza era fissata a 10mila euro in meno, e perché è in assoluto il miglior risultato di questo artista in Italia, basti pensare che i top lots dei tre anni precedenti non sono andati oltre i 4mila e 500 euro. A Brescia ha battuto Capitolium Art, una vendita che ha visto tra i migliori risultati diverse opere di Boris Georgiev e tre in particolare compaiono tra i primi cinque top lots dell’asta ritoccando le relative basi d’asta. Una tempera su tavola preparata a gesso (49,5x38 cm) del ’34 ha totalizzato 9mila euro partendo da 7mila; una carta su tavola a pastelli e sanguigna (65x49 cm) del ’31 partiva da 6mila e ha raggiunto i 7mila euro; stessa cifra di una tecnica mista su gesso su tavola (31x41 cm) presentata a 5mila euro. Lo stesso giorno ha venduto all’incanto anche la Sant’Agostino di Torino. Migliore vendita quella di un cemento e ferro (76x54,5x12 cm) del 2005 di Uncini a 28mila euro; una vendita superiore al top lot del 2009 dell’artista in Italia (18mila euro) e in linea con quello del 2008 (29mila euro), mentre il 2010 ha visto un exploit più elevato (40mila euro). Quota 20mila euro è stata raggiunta da due lotti: una tecnica mista su cartoncino (70x100 cm) del 2003 di Zorio e un olio su tela (70x51,5 cm) di Arturo Faldi. Un decollage (95x125 cm) del 2004 di Rotella ha visto cadere il martelletto a 19mila euro, opera già Art Trading di Milano e Galleria Il Prisma di Cuneo. Partiva invece da 12mila euro un olio e collage su tela (91x144 cm) degli anni ’60 di Celiberti, quadro che ha saputo raggiungere 18mila euro; di quest’artista solo nel 2009 si è verificato un risultato di poco superiore, cioè i 20mila euro spesi sempre presso la

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CHIuDONO MAGGIO LE sEssIONI DI fARsETTIARTE DI PRATO, L’uLTIMA DELLE quALI HA vIsTO PAssARE I PEzzI PIù PREGIATI E REGIsTRATO LE AGGIuDICAzIONI PIù fORTI

casa d’aste torinese, ma per un olio su tela del ‘62 di dimensioni sensibilmente maggiori (180x250 cm). A Firenze è toccato a Pandolfini. Su tutti “Concetto spaziale (Forma)”, un olio squarcio e graffiti su tela verde (73x60 cm) del ’63 di Fontana esitato a 410mila euro. Bisogna poi arrivare ai 38mila euro dell’acrilico su tavola (76x76 cm) del ’74 di Vasarely. 25mila euro è invece la cifra spesa per un pastello collage e tempera su carta (76x56,5 cm) a quattro mani, quelle di LeWitt e Paladino, esposto a Londra nel 2004. Interessanti risultano i 18mila euro a cui è stato esitato “Vendemmia in giardino”, un grande olio su compensato (150x200 cm) del ’40 di Lilloni esposto, nell’anno della creazione, sia presso il Palazzo della Ragione a Bergamo sia presso il Palazzo della Permanente a Milano: in assoluto è un ottimo risultato per quest’artista, bisogna risalire al 2006 per trovarne uno superiore e il top lot dell’anno scorso in Italia si è fermato a 7mila e 800 euro. Restiamo a Firenze presso Pananti. Le due sessioni hanno visto una “Venezia, Isola San Giorgio” a olio su tela (40x50 cm) della metà degli anni ’50 di De Chirico passare a 94mila euro. Di rilievo i 57mila euro registrati per un olio su tela (92x73 cm) del ’70 di Tozzi esposto nel '80 sia presso il Centro Rizzoli a Milano sia presso la Pinacoteca Comunale di Macerata: innanzitutto perché veniva presentato con una stima massima di 40mila euro; in secondo luogo perché siamo sui livelli delle migliori aggiudicazioni in asta in Italia del 2009 (54mila euro) e del 2007 (55mila euro), fermo restando che l’artista ha saputo fare meglio in diverse occasioni. N.B: i prezzi di aggiudicazione citati non sono comprensivi dei diritti d’asta

AsTE: sOTHEby’s, CHRIsTIE’s E PHILLIPs DE PuRy: LOTTA A COLPI DI WARHOL

Mentre le aste di arte moderna e impressionisti non brillano, fiaccate da stime troppo aggressive, le sessioni di contemporanea di primavera-estate fanno scintille nel segno di Andy Warhol e… di Christie’s. Ben 52 le opere del fondatore della Factory andate all’asta, a conferma dell’entusiasmo che il suo lavoro scatena ancora tra i bidder delle tre principali auction house internazionali. Un successo tale da aver spinto la ArtTactic Ltd a lanciare un nuovo report periodico dedicato proprio al mercato di Warhol che, nel 2010, ha rappresentato il 17,2%

di nicola Maggi

© Christie’s Images Limited 2011

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di tutte le vendite di arte contemporanea nel mondo. Qui New York - Il 9 maggio è Sotheby’s ad aprire la sessione primaverile newyorkese con l’asta single-owner della collezione Allan Stone che, a dispetto del clima non esaltante in sala, si chiude con un ottimo risultato: il 92,9% di lotti venduti e il 98,6% in valore, con un incasso finale di 54,8 milioni di dollari, ben oltre la stima massima di 46,8 milioni. Fin qui sembra andare tutto bene ma la Evening Sale del giorno successivo, sempre da Sotheby’s, frena gli entusiasmi. I 128,1 milioni di dollari di incasso sono appena sopra la stima minima (120,8 mln) e molto


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lontani da quella massima: 171,4 mln. E questo anche se le percentuali di venduto non sono state tremende: 84,5% dei lotti e 88,7% sul valore. Le aspettative erano decisamente altre, però, e lo si capisce dalle dichiarazioni rilasciate dal capo del settore globale di arte contemporanea, Tobias Meyer, che tenta di enfatizzare il risultato mettendolo in stretta relazione con quello, molto migliore, del 9 maggio. In realtà, tutti i top lot della serata hanno avuto risultati a dir poco modesti e solo poche opere hanno superato il tetto della stima massima. È il caso di “Sixteen Jackies” di Warhol, opera che guidava l’asta e battuta al prezzo di 20,2 mln di dollari. E così è stato per tutti gli altri Warhol all’asta (7 di cui uno invenduto) con l’unica eccezione di “Shadow (red)” conteso tra quattro bidder e venduto a 4,8 mln di dollari, cinque volte la stima più alta. Deludente anche il risultato della “Pink Panther” di Jeff Koons. L’opera, scelta per la copertina del catalogo dell’asta, ha totalizzato 16,8 milioni, ben al di sotto della stima minima di 20. Anche in questo caso la comunicazione della auction house tenta il miracolo stilistico, sottolineando che l’opera è stata battuta a una cifra ben oltre il milione e 800 mila dollari realizzato nel 1999, quando il lotto apparve per la prima volta sul mercato. Magra consolazione. Di tenore analogo la Day Sale dell’11 maggio: solo il 78,7% dei lotti venduti e un incasso di 59,5 mln di dollari, pari all’83,8% del valore. Altra musica quella suonata da Christie’s nella Evening Sale dell’11 maggio e nelle due sedute diurne del 12. Il primo appuntamento serale presso la saleroom newyorkese della casa d’asta di François Pinault ha dell’incredibile: sette tra record mondiali e d’asta, il 95% dei lotti venduti il 99% in valore e un incasso finale di 301,7 milioni di dollari. La star è ancora Andy Warhol ma questa volta la performance dei lotti in catalogo è decisamente migliore di quella vista da Sotheby’s: le 8 opere dell’artista hanno totalizzato, da sole, quasi 91 milioni di dollari incluso il nuovo strabiliante record d’asta per un ritratto: “Self-Potrait” (1963-64), aggiudicato per 38,4 mln dopo una bagarre di ben 16 minuti tra i bidder in sala e quelli al telefono. Il tutto per un’asta che ha visto il 10% dei lotti superare il tetto dei 20 milioni. Come se non bastasse anche le due Day Sale del 12 maggio hanno fatto registrare l’89% dei lotti venduti e 92% in valore per un totale di oltre 65,7 milioni di dollari e 9 lotti battuti sopra il milione. Infine Phillips de Pury & Co, che nella Evening Sale del 12 maggio ha totalizzato 94,8 mln di dollari, vendendo il 75% in lotti e l’88% in valore. Un risultato che equivale al doppio di quanto incassato lo scorso anno dalla stessa asta e guidato, tanto per cambiare, da un’opera di Andy Warhol: “Liz#5” aggiudicata per 26 milioni. Qui Londra - Il secondo round delle aste di primavera-estate di arte contemporanea è inaugurato dalla casa d’aste del gruppo russo Mercury il 27 giugno. L’edizione 2011 di ArtBasel, una delle migliori degli ultimi anni, si è chiusa da poco, e Phillips de Pury, sovvertendo l’ordine usuale, è la prima a battere il suo catalogo e questo la premia: l’asta si chiude con 16,9 milioni di dollari di incasso, l’87% dei lotti venduti e il 95% in valore. Oltre il doppio dell’incasso dello scorso anno e, questa volta, senza lo zampino di Warhol… Ottimo anche il risultato della Day Sale del 28 giugno: 78% dei lotti venduti e 91% in valore, per un totale di 26,3 mln di dollari. Dopo questa partenza inusuale è il turno di Christie’s che nella Evening Sale del 28 giugno mette a segno un altro buon risultato, anche se siamo lontani dalla performance del 12 maggio:

uN’AGGuERRITA COMPETIzIONE TRA COLLEzIONIsTI PRIvATI HA ANIMATO LA vENDITA DEIL “CONTEMPLATORI DI ROvINE” DI GIORGIO DE CHIRICO, OPERA DI quALITà MusEALE DEL 1932-34, AGGIuDICATA PER 656MILA EuRO

82% di lotti venduti e 94% in valore per un totale di 125,8 milioni di dollari. Modesta la Day Sale del giorno dopo: il 25% dei lotti rimane invenduto ed è raggiunto solo il 76,8% in valore per un incasso finale di 21 mln di dollari. La sessione londinese è la grande occasione di Sotheby’s per pareggiare i conti con la rivale dopo la disfatta di New York e, naturalmente, non se la fa scappare. L’Evening Sale del 29 giugno si chiude con il più alto totale di sempre realizzato da un’asta di contemporanea a Londra: 174,1 milioni di dollari. A trainare l’asta, un capolavoro di Francis Bacon, “Crouching Nude”, venduto per 13,3 mln di dollari. Bene anche la Day Sale del 30: 31,8 mln di dollari con l’80,8% dei lotti venduti e 88,2% in valore. Qui Italia - La settimana dal 23 al 29 maggio è stata, infine, quella più importante per le aste di arte contemporanea in Italia. I due appuntamenti con l’arte moderna e contemporanea da Christie’s, fissati per il 24 e 25 maggio, hanno totalizzato 7,8 mln di euro segnando un +40% rispetto al maggio scorso. E dalla casa d’asta commentano: “Siamo soddisfatti per l’intensa partecipazione di compratori italiani e internazionali, attivi soprattutto sulle opere di Lucio Fontana ed Enrico Castellani. I solidi risultati della vendita hanno premiato l’accurata selezione delle opere offerte, come dimostrato dal fatto che nove dei dieci migliori risultati hanno superato la stima massima. Un’agguerrita competizione tra collezionisti privati ha animato la vendita del “Contemplatori di Rovine” di Giorgio de Chirico, opera di qualità museale del 1932-34, aggiudicata per 656mila euro”. Il testimone passa, quindi a Sotheby’s che, il 25 e 26 maggio, mette all’incanto la Collezione Tonelli che comprende, tra gli altri, lavori di Tàpies e Birolli ma che non ha i risultati sperati. Le contrattazioni si chiudono, infatti, con solo il 55,4% dei lotti venduti e un incasso finale di 5,5 mln di euro. “Gli appuntamenti di Milano - spiega Guido Candela, responsabile scientifico dell’Osservatorio sul Mercato dei Beni Artistici di Nomisma - hanno confermato entrambi la concentrazione d’interesse su tre artisti: Castellani, Boetti e Fontana. Risultati più deludenti si sono registrati, invece, per la dispersione della Collezione Tonelli. La spiegazione data è che le valutazioni erano troppo alte”. Da Milano a Prato. Farsetti Arte continua nelle sue buone performance confermandosi la terza casa d’asta in Italia. I due cataloghi messi all’asta dalla casa pratese il 27 e 28 maggio hanno generato un incasso finale di 4,5 milioni di euro e, se sono mancati i colpi di scena, i due appuntamenti hanno confermato la tenuta del mercato di fascia media. “La prima sessione d’asta del 2011 in Italia segna, ancora una volta, risultati difficilmente interpretabili. - spiegano dall’Osservatorio di Nomisma - Luci e ombre si manifestano seguendo anche la qualità e la quantità dell’offerta. Gli acquirenti mantengono comportamenti attenti e selettivi”. “Leggendo attentamente le performance delle aste - concludono - i gravi momenti di difficoltà sembrano essere stati superati perché le case d’asta hanno provveduto a rivedere le stime richiamando, così, l’interesse del collezionista, anche se proprio questa revisione può aver causato una rarefazione dell’offerta: per lo stesso motivo, infatti, i proprietari sono incentivati ad aspettare, se possono permetterselo, tempi migliori”.

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arskey/Politiche Culturali| Intervista ad Antonia Pasqua Recchia

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INTERvIsTA AD:

ANTONIA PAsquA RECCHIA. EDuCARE AL vALORE DEL PATRIMONIO CuLTuRALE di letizia Guadagno

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Dirigente di lungo corso del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, è una delle colonne portanti della macchina ministeriale, di cui conosce bene risorse e punti deboli su cui lavorare. Già responsabile della Digitalizzazione e dell'Innovazione Tecnologica, del Bilancio e degli Archivi, da dicembre 2010 è alla guida del PaBAAC, la nuova Direzione che segue Paesaggio, Belle Arti, Architettura e Arte Contemporanea. Un insieme di responsabilità che non sembra affatto spaventare Antonia Pasqua Recchia che affronta il suo incarico con determinazione, pacatezza e con la consapevolezza che “l'educazione al patrimonio è un pezzo importante dell'educazione civica”.

Antonia Pasqua Recchia

Letizia Guadagno: Lei è Direttore Generale del PaBAAC, la direzione che si occupa di Paesaggio, Belle Arti, Architettura e Arte Contemporanee. La nascita del PaBAAC ha creato non poche polemiche. Secondo Lei quali sono i lati positivi ma anche i rischi di questo accorpamento? Antonia Pasqua Recchia: L'accorpamento delle Direzioni Generali è stato un passo obbligato. Il nostro Ministero, come tutte le altre amministrazioni, è stato oggetto di riduzioni degli organi per arrivare così a una riduzione della spesa. Il fatto di aver riunificato le Direzioni Generali del Paesaggio e Architettura prima, e poi Contemporaneo con anche la competenza del Patrimonio Storico Artistico, rientra dunque in questo disegno generale di tutta la Pubblica Amministrazione di ridurre i propri costi. I lati positivi che io vedo sono questi. L'iniziale divisione tra il paesaggio e l'architet-

RIsPARMI sI sONO OTTENuTI RIDuCENDO IL NuMERO DELLE POsIzIONI APICALI (DIREzIONI GENERALI) DA 33 A 29, IL NuMERO DELLE POsIzIONI DIRIGENzIALI DA 216 A 94 E IL NuMERO DEGLI ORGANICI, PAssATO DALLE 23.043 uNITà, PRIMA DEL 2009, ALLE 21.632 uNITà DEL 2009

tura, che aveva generato due direzioni diverse, non teneva più conto, dal mio punto di vista, della tutela perché il concetto di tutela, così come è andato evolvendosi, è attualmente un concetto che mette in rilievo il contesto. Il valore del patrimonio culturale non è insito solo nel singolo monumento o nella singola opera d'arte. È certamente quello legato all'individualità ma anche, e direi soprattutto, alle relazioni, quindi le relazione del singolo oggetto con il contesto. Per esempio, nel caso di un edificio monumentale, la relazione è con il contesto ambientale ovvero con il paesaggio, se intendiamo paesaggio in un'accezione ampia come quella attuale. Tenere quindi separate la competenza sulla tutela sul paesaggio da quella sulla tutela sul patrimonio faceva perdere il quadro d'unione in cui i due si andavano a collocare. Questa nuova situazione è, dunque, sicuramente vantaggiosa da un punto di vista sia concettuale che operativo. Rispondendo alla domanda, devo dire quindi che io questi rischi non li vedo. La Direzione Generale con i suoi servizi tecnici, ognuno responsabile di un settore, è strutturata per seguire tutti questi ambiti. La competenza è dunque garantita dalla settorialità di ciascun Servizio, ognuno gestito da dirigenti di lungo corso con curricula ineccepibili. L.G: A seguito di questo accorpamento c'è stata realmente una sensibile riduzione dei costi? A.P.R: La riduzione dei costi c'è stata, lo posso dire con certezza perché l'ultima riforma del Ministero è stata nel 2009 e, in quel periodo, io ero Direttore Generale degli Affari Generali e del Bilancio. I risparmi si sono ottenuti riducendo il numero delle posizioni apicali (direzioni generali) da 33 a 29, il numero delle posizioni dirigenziali da 216 a 94 e il numero degli organici, passato dalle 23.043 unità, prima del 2009, alle 21.632 unità del 2009. Complessivamente il risparmio è stato di oltre 70milioni di euro. L.G: E questa cifra in cosa è stata reinvestita? A.P.R: Questo dovrebbe chiederlo al Ministro


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dell'Economia. Dovrebbe, comunque, aver contribuito a migliorare lo stato della finanza pubblica e ad alleggerire il deficit. L.G: Il PaBAAC ha assorbito anche il PARC, una struttura interamente dedicata al contemporaneo che esiste in tutti i paesi. Questo accorpamento penalizzerà l'arte contemporanea? Quali sono le iniziative più rilevanti in programma per questo settore? A.P.R: Io non penso che il nostro paese subirà degli arretramenti nel campo del contemporaneo a causa di questo accorpamento. Non bisogna dimenticare che con il PARC negli ultimi anni c'è stato un grande impulso che ha portato a delle nuove realtà come la nascita del MAXXI. Ora questo museo c'è, esiste, e sicuramente costituisce il maggiore centro della divulgazione dell'arte e dell'architettura contemporanea in Italia. Il Ministero, attraverso il Servizio della Direzione Generale, svolge i propri compiti che sono promozione dell'arte e dell'architettura contemporanea ma anche di tutela dell'arte e, soprattutto, dell'architettura contemporanea. Io credo che l'azione non sarà ridotta in questi ambiti. Le dirò di più. Proprio in questi mesi noi stiamo rilanciando un grande progetto che era già stato avviato negli anni precedenti, volto a incentivare la qualità architettonica delle opere pubbliche future. Il nostro paesaggio si difende con una strategia che si basa su due pilastri: il controllo delle azioni di trasformazione attraverso la pianificazione paesaggistica e il miglioramento della qualità degli interventi attraverso la qualità architettonica del progetto. Sul primo punto, scontiamo dei ritardi ma stiamo riaprendo con tutte le Regioni gli accordi di copianificazione con l’apertura di tavoli tecnici di collaborazione. Quanto al secondo punto, ci stiamo molto impegnando e proprio da questa Direzione Generale è partito il progetto “Qualità Italia”, già sperimentato al Sud, per il quale abbiamo elaborato delle apposite strategie e una metodologia molto efficace. Abbiamo supportato gli enti locali affinché nei bandi per la realizzazione delle opere pubbliche, che vogliamo siano aperti anche ai giovani architetti ma non solo, cresca la progettualità di qualità che adesso, francamente, non c'è e non c'era nemmeno negli anni passati, però. Realizzare un'opera pubblica architettonica di qualità può, addirittura, aumentare la qualità del contesto. L'intenzione è dunque di portare questo progetto, attraverso la Regione Calabria che è capofila delle regioni in tema di cultura, alla Conferenza StatoRegioni per far sì che possa essere adottato e diffuso presso gli enti locali. Inoltre, attraverso il Piano per l'Arte Contemporanea che è stato approvato, lo scorso maggio, dal Consiglio Superiore noi abbiamo sostenuto tutte quelle Regioni che hanno proposto progetti e programmi per l'incentivazione di questo specifico settore. L.G: La Direzione ha la delega anche sulla Biennale. Quest'anno la realizzazione del Padiglione Italia ha creato non pochi problemi e si è persino temuto che l'Italia, paese ospitante, non avesse il suo Padiglione. Ora che ha avuto modo di visitarlo cosa ne pensa? A.P.R: Del Padiglione Italia se ne può discutere e le discussioni che ci sono sono tutte legittime purché riferite alle scelte artistiche. Credo, infatti, che le critiche migliori siano quelle che entrino nel contenuto.

IL NOsTRO PAEsAGGIO sI DIfENDE CON uNA sTRATEGIA CHE sI bAsA su DuE PILAsTRI: IL CONTROLLO DELLE AzIONI DI TRAsfORMAzIONE ATTRAvERsO LA PIANIfICAzIONE PAEsAGGIsTICA E IL MIGLIORAMENTO DELLA quALITà DEGLI INTERvENTI ATTRAvERsO LA quALITà ARCHITETTONICA DEL PROGETTO

Io non sono per demonizzare le scelte artistiche fatte dal curatore. Sicuramente nel Padiglione Italia c'è tanto, non so dire se c'è troppo. All'interno del Padiglione, nel corso di questi mesi così come avevo suggerito al curatore - purtroppo però il nostro curatore è una persona che non ascolta molto - sarebbe stato auspicabile costruire dei percorsi. Nel Padiglione, infatti, ci sono dei capolavori e questo non lo dico solo io che non sono un'esperta di arte contemporanea, ma lo affermano in molti. Poi evidentemente ci sono anche artisti che non sarebbero mai arrivati alla Biennale. Il fatto, comunque, che ci sia così tanto permette veramente di ripercorrere e di trovare un senso dell'arte contemporanea in Italia. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che questa Biennale coincide con il 150° anno dell'Unità d'Italia ed effettivamente questa dimensione che è stata definita bulimica, ridondante, eccessiva, si tiene anche su questa ragione. Proprio per questo, far emergere il tanto che c'è di creatività, a prescindere dai valori che sono sicuramente diversificati e che magari avrebbero preteso una selezione più drastica, non ritengo che sia sbagliato. L.G: Si è parlato in questi giorni di una possibilità: selezionare il prossimo curatore del Padiglione Italia attraverso un concorso. Cosa ci dice in merito? A.P.R: Essendo il MiBAC un ente che commissiona e si pone un obiettivo culturale si potrebbe arrivare a scegliere il curatore attraverso una procedura di comparazione. Certo, non è semplice anzi sarebbe complicato però potrebbe essere un'ipotesi. L.G: La digitalizzazione e il censimento delle opere architettoniche di valore sono alcuni dei suoi obiettivi: come state procedendo? A.P.R: Mi occupo di digitalizzazione da tanto tempo ed è una mia grande aspirazione poter completare i numerosi progetti avviati in questo campo. Come Ministero noi eroghiamo dei servizi pubblici che poi sono anche servizi culturali. Organizziamo sia eventi culturali, come le mostre, che spesso riscuotono grande successo, o inauguriamo dei musei. Allo stesso tempo noi regoliamo l'attività dei cittadini attraverso delle autorizzazioni o dei dinieghi. E questa attività di regolazione è molto più impattante sulla vita dei cittadini rispetto alla prima. Questa riguarda, infatti, tutti quei cittadini che nel loro esercizio del diritto di proprietà o d'impresa vengono a contatto con il sistema giuridico della tutela. Questo impone alla Pubblica Amministrazione di adoperarsi per rendere i servizi più efficienti e lo strumento informatico è decisamente il più adatto a questo scopo. È da tempo quindi che il progetto d'innovazione di servizio viene portato avanti con lo scopo di rendere accessibile on line al cittadino tutta la vincolistica del patrimonio architettonico e di quello storicoartistico. Questo è un obiettivo che ci auguriamo di realizzare presto anche perché le banche dati ci sono, si tratta solo di farle dialogare tra di loro e di creare un'interfaccia per il cittadino. Quanto alla realizzazione di banche dati architettoniche e storico artistiche, mentre è compito dell'Istituto Centrale del Catalogo catalogare le opere, è obbligo della Direzione Generale disporre di una compiuta conoscenza del patrimonio sia architettonico che storico artistico in quanto è fondamen- 89 -


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tale per l’esercizio della tutela. E in questo ambito l'impegno della Direzione Generale è fortissimo. Quando ci viene richiesta una valutazione sia strategica che di impatto ambientale su una grande opera come per esempio un elettrodotto che attraversa dei territori, noi dobbiamo avere, e ancora non l'abbiamo, su un'unica piattaforma tecnologica informatizzata la visualizzazione di tutto il patrimonio. Il mio obiettivo è dunque quello di rendere tutti i sistemi, da quello del Catasto a quello cartografico, dialoganti tra loro. Attualmente, infatti, i sistemi sono ancora slegati e noi dobbiamo rincorrere le informazioni. L.G: Ci sono particolari iniziative su cui state lavorando al momento? A.P.R: L'altra iniziativa, ancora più importante, su cui stiamo lavorando è quella della messa on line, con tutte le cautele, dell'elenco del patrimonio architettonico e storico artistico, di quello diffuso e di quello privato sottoposto a vincoli. Non voglio che ci siano più informazioni riservate. L'idea portante è quella di avere un approccio da parte della Direzione Generale di tipo sistemico per far sì che tutte le competenze, dalla tutela alla conservazione, dal restauro alla valorizzazione, siano legate tra di loro. Perché se è vero che i beni culturali debbono essere preservati per le generazioni future, è pur vero che di questi beni noi dobbiamo anche fruirne perché non dobbiamo sottovalutare il loro valore educativo. I beni culturali non hanno, infatti, solo un valore di divertimento ma anche un valore di contributo, quello che viene definito, il benessere sociale. Essere educati ad apprezzare il valore del nostro patrimonio culturale significa far crescere la qualità della vita, migliorare il rispetto delle regole. L'educazione al patrimonio è quindi un pezzo importante dell'educazione civica. A questo fine diventa importante la capacità di dialogare con potenziali fruitori che attualmente sono ai margini. Ci sono, infatti, strati di cittadini italiani rispetto ai quali tutti i temi culturali risultano esotici. E questo indica che non c'è abbastanza comunicazione. Personalmente, non sono affatto d'accordo con chi afferma che era meglio quando i musei erano visitati da persone colte e consapevoli dei capolavori che erano conservati in questi spazi. Io credo invece

RITENGO CHE IL TEMA DELLA RIquALIfICAzIONE uRbANA IN TERMINI DI sOsTENIbILITà ENERGETICA DEbbA PRENDERE IN CONsIDERAzIONE IL vALORE DEL PAEsAGGIO

che tutta l'arte debba essere avvicinata ai 'meno attrezzati' dal punto di vista culturale. Proprio attraverso questa progressiva conoscenza si può portarli dalla parte della consapevolezza. Questo non significa rendere l'arte commerciale. La nostra missione consiste dunque nel conservare il patrimonio ma anche nel far crescere la cultura e il senso civico. È importante far capire, per esempio, che il paesaggio è un valore culturale e i delitti contro il paesaggio sono dei delitti riprovevoli proprio come l'appropriazione indebita. E sino a quando un abuso edilizio verrà considerato un qualcosa di irregolare ma non di penale, non arriveremo mai a difendere efficacemente il nostro paesaggio. L.G: Parliamo di paesaggio e di energia eolica. Come si conciliano queste due importanti realtà? Come preservare il primo permettendo alla seconda di svilupparsi, anche in considerazione dei recenti esiti del referendum? A.P.R: Il nucleare non va bene però anche sull'eolico selvaggio dobbiamo fare qualche riflessione, anche perché mi chiedo se sull'eolico ci siano capitali e capacità imprenditoriali effettive e reali. Io non dico eolico no, mai. Dobbiamo però conservare il valore del paesaggio e anche il Ministro Galan è di questa opinione. Come disporre di energie alternative rispetto al petrolio importato a caro prezzo è però un problema che non spetta al MiBAC risolvere. Diverso il discorso dell'energia rinnovabile, sia quella solare che quella fotovoltaica. In questo ambito ci sono molte iniziative e molta voglia d'impegnarsi da parte di questa Direzione Generale. Ritengo che il tema della riqualificazione urbana in termini di sostenibilità energetica debba prendere in considerazione il valore del paesaggio e a questo proposito voglio citare alcuni bandi riservati a giovani per la progettazione di sistemi di produzione di energia solare compatibili con le situazioni ambientali delle isole minori. Sull'eolico, quindi, la posizione del Ministero è molto severa. Secondo noi, non è la strada maestra, dovrebbero essere altre le fonti da incentivare.


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DIfEsA DEL PATRIMONIO:

PROGETTO CuLTuRA INTEsA sAN PAOLO, uN INTERvENTO suLL’INTERO TERRITORIO NAzIONALE

L’Italia come luogo di cultura, di arte e di storia. Un enorme patrimonio spesso mal difeso e non dovutamente preservato dal trascorrere del tempo, in gran parte custodito in collezioni private non aperte al pubblico o, per così dire, lasciato in ombra nei sotterranei di musei e di spazi espositivi non sufficientemente ampi da renderlo fruibile nella sua totalità. Il principio di responsabilità verso la comunità contemporanea e il desiderio di tramandare questo prezioso tesoro alle generazioni future muove il “Progetto Cultura Intesa San Paolo” verso la realizzazione di un programma a finalità sociale studiato e voluto allo scopo di ridonare luce e attualità ai capolavori di proprietà del Gruppo. Un attento comitato scientifico composto da Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Regno, Fernando Mazzocca, professore ordinario di Storia della critica d’arte presso l’Università degli Studi di Milano, e Aldo Grasso, professore ordinario di Storia

di laura luppi

IL PuNTO DI PARTENzA è sTATA LA sELEzIONE DI CIRCA MILLE su 10MILA OPERE D’ARTE DIsPONIbILI, DA DIsTRIbuIRE su 12MILA Mq DI suPERfICIE EsPOsITIvA suDDIvIsA NEI TRE POLI MusEALI DI vICENzA, NAPOLI E MILANO

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della radio e della televisione presso l’Università Cattolica di Milano, si è costituito non solo per meglio riqualificare le opere e gli edifici storici di appartenenza alle banche d’origine, ma anche per promuovere eventi quali mostre, convegni e laboratori didattici. Il punto di partenza è stata la selezione di circa mille su 10mila opere d’arte disponibili, da distribuire su 12mila mq di superficie espositiva suddivisa nei tre poli museali di Vicenza, Napoli e Milano, a cui seguirà l’apertura di nuove filiali dislocate in tutto il territorio nazionale, in primis a Torino. I luoghi al momento adibiti alla salvaguardia della collezione e già visitabili sono le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza e la Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli. L’antica sede della Banca Cattolica del Veneto, e dimora vicentina di fine Seicento, è l’involucro preposto a illustrare i maggiori esponenti della pittura veneta del XVIII secolo, tra cui Pietro Longhi, Canaletto, Francesco Guardi e Michele Marieschi, oltre a circa 130 icone russe risalenti al periodo che va dal XIII al XIX secolo. Al suo interno è inoltre presente un attivo laboratorio di restauro e una biblioteca specialistica dalla quale è possibile consultare “Index of Christian Art”, realizzato dalla Princeton University per l’arte cristiana. Palazzo Zevallos Stigliano di Napoli, ex sede della Banca Commerciale Italiana e già sito del capolavoro di Caravaggio “Martirio di Sant’Orsola”, è invece destinato a un ampliamento che lo vedrà ospitare 552 reperti di ceramiche attiche e magnogreche a testimonianza dell’impronta artistica dell’Italia meridionale del V-III secolo a.C. (attualmente conservati nelle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari di Vicenza). La galleria del Palazzo di via Toledo offrirà anche un esempio di artigianato locale, il presepe napoletano del XVIII secolo ancora fermo a Palazzo Reale, e un ventaglio di 150 opere di ambito partenopeo (XVII-XIX sec.). Entrambi gli edifici hanno finora proposto cicli di mostre temporanee, concerti musicali, manifestazioni teatrali ed esibizioni di danza a motivare l’obiettivo interattivo tra tutte le forme culturali che concernono la poliedricità della tradizione italiana. Questi gli spazi già da qualche tempo attivi e da cui il “Progetto Cultura Intesa San Paolo” non discosta mai lo sguardo in funzione di ulteriori sviluppi e iniziative che li riguarderanno. Per quanto concerne la città di Milano sono quattro gli edifici in fase di restauro e allestimento a cura dell’architetto Michele De Lucchi e confluenti nelle Gallerie di Piazza Scala, tra via Manzoni e Piazza della Scala (sede storica di Intesa San Paolo). L’obiettivo è quello di costituire due musei, uno dedi- 91 -


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cato all’Ottocento e uno al Novecento. A partire da quest’autunno, il primo troverà la giusta collocazione in Palazzo Anguissola, Palazzo Canonica e Palazzo Brentani. Un vasto numero di opere, circa 200 tra cui molte di pertinenza della Fondazione Cariplo, saranno a loro volta suddivise in correnti stilistiche contenute entro gli estremi del Neoclassicismo e del Futurismo. Dai bassorilievi di Antonio Canova ai quadri storici di Francesco Hayez e Gerolamo Induno, dalle scene di genere di Giuseppe Cannella e Angelo Inganni al Naturalismo di Mosé Bianchi, dal Divisionismo di Giovanni Segantini e Angelo Morbelli al Simbolismo di Gaetano Previati e Emilio Gola per passare attraverso le esperienze pittoriche di Giovanni Boldini, Telemaco Signorini e Federico Zandomeneghi, per citare solo alcuni nomi. Entro il 2012 il Novecento sarà invece racchiuso tra le mura di Palazzo Beltrami, con una lista di circa 2.700 capolavori ad argomentare le avanguardie del periodo a cavallo tra le due guerre con Balla, Carrà, Depero, De Chirico, De Pisis, Funi, Mafai e Tosi, e il secondo dopoguerra con l’Informale di Burri, Corpora, Scialoja e Tancredi, il Movimento Arte Concreta (Dorfles, Munari, Reggiani), il Gruppo degli Otto (Afro, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Birolli e Vedova), il Gruppo T, il Gruppo N, l’Arte Povera (Boetti, Merz), la Pop Art (Schifano, Rotella) e la Nuova Figurazione. Un posto di riguardo è stato adibito anche per artisti di più giovane generazione e di cui il Gruppo ha prestato attenzione sin dagli esordi. Si parla di Vanessa Beecroft, Stefano Arienti, Silvio Wolf e Alberto Garutti. Non mancano le sculture di Martini, Marini, Arnaldo e Giò Pomodoro, alcune opere grafiche di Burri, Capogrossi e Fontana, e nemmeno un pizzico di internazionalismo con autori come Picasso, Kandinskij, Matta e Warhol, parte integrante della raccolta. Anche la casa di Alessandro Manzoni rientra nel piano di valorizzazione e recupero dei tesori della città. Infine non poteva mancare la pianificazione di un ciclo di convegni presso Palazzo Marino e il Centro San Fedele in onore del 150° anniversario dell’Unità d’Italia con la rassegna “Vincitori e Vinti.

“PROGETTO CuLTuRA INTEsA sAN PAOLO” sI PROPONE quINDI COME PROMOTORE DELLA CONsERvAzIONE DEL PATRIMONIO

L’Italia del Risorgimento”. Sempre per l’autunno è in programma a Torino la mostra fotografica “L’Italia e gli italiani. I fotografi della Magnum nel 150° dell’Unità”, percorso a tappe dello storico viaggio alla base della formazione educativa delle classi sociali più abbienti d’Europa. Il Gran Tour, neologismo adottato per la prima volta da Richard Lassels, verrà documentato in 300 scatti contemporanei di quelle stesse mete che nel tempo hanno modificato le sembianze ma non la loro importanza. “Progetto Cultura Intesa San Paolo” non investe solo nel proprio patrimonio privato, ma anche in quello pubblico di tutto il Paese occupandosi della sua conservazione in collaborazione con gli organismi competenti quali le Soprintendenze archeologiche e storico-artistiche nazionali, restaurando finora più di 600 opere e 150 tra chiese e musei. “Restituzioni” per l’appunto è l’operazione sorta nel 1989 per iniziativa dell’allora Banca Cattolica del Veneto. Una vasta gamma di iniziative rendono dunque concreto e tangibile quel museo 'virtuale' di cui il sito internet www.artgate-cariplo.it raffigura la parte di pertinenza della Fondazione Cariplo (partner del progetto) e che si evolverà nelle sezione artl@b per la promulgazione dell’educazione artistica dei giovani studenti delle scuole italiane, affidando a loro il compito di cimentarsi nell’attività interpretativa e critica della raccolta. “Progetto Cultura Intesa San Paolo” si propone quindi come promotore della conservazione del patrimonio dell’intera collettività, ma anche divulgatore dello stesso e della ricca collezione di cui si avvale. Questo a dimostrazione del fatto che anche in Italia, come suggerisce lo stesso Ministro per i Beni e le Attività Culturali Giancarlo Galan, presente alla conferenza stampa svoltasi il 22 giugno a Milano, è possibile recuperare i finanziamenti privati volti all’arricchimento culturale della società attuale a partire da quella che l’ha preceduta e in funzione di quella che la succederà.


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fuNDRAIsING:

COME TI ATTIRO IL MECENATE: uNA quEsTIONE DI METODO

Iniziamo con un dato: - 14,6%. A tanto ammonta, nel nostro paese, il calo delle erogazioni liberali a favore della cultura da parte di imprese, enti e privati registrato tra il 2008 e il 2009 (fonte: MiBAC). Un dato allarmante vista la cronica mancanza di fondi che attanaglia le nostre istituzioni culturali. E lo scenario si fa ancora più drammatico se entriamo nel dettaglio. A subire il crollo maggiore, infatti, sono le elargizioni da parte di enti non commerciali e privati - che storicamente rappresentano lo zoccolo duro del mecenatismo a livello internazionale - passate dai 29,3milioni del 2008 ai 22,6 del 2009 ossia il 22,9% in meno, contro il 7% di quelle riferibili a imprese ed enti commerciali. Come se non bastasse, inoltre, sono in caduta libera anche gli investimenti delle fondazioni di origine bancaria che, secondo i dati dell’ufficio studi del MiBAC, sono calati, dal 2007 al 2009, del 22% passando da oltre 524milioni a 408. Problema congiunturale o strutturale? Inutile cercare alibi, il nostro paese sembra cronicamente inabile a raccogliere fondi privati da destinare alla cultura e i casi Della Valle sono più che altro delle eccezioni. Un problema antico e, in larga parte, culturale. Già agli inizi del Novecento, Guido Biagi, storico bibliotecario della Laurenziana di Firenze, lamentava d’altronde la grande differenza tra 'Les amis du Louvre', che spendevano del proprio per arricchire il Museo di cui erano amici, e gli 'Amici dei monumenti' che “si limitavano a prodigare ai monumenti un’amicizia ardente sì, ma del tutto platonica”. Eppure qualcosa in più per cambiare i 'costumi' potrebbe essere fatta, visto che anche da noi, come abbiamo visto nello scorso numero di ArsKey, i mecenati non mancherebbero a patto di saperli attirare. La realtà ci dice, invece, che dal 2000, anno dell’approvazione della legge n. 342, in Italia non si mette mano alle agevolazioni fiscali per il mecenatismo culturale. Legge, peraltro, che pur segnando una svolta nel rapporto tra pubblico e privato in materia di beni culturali, incoraggia più la filantropia imprenditoriale che quella individuale risultando, alla resa dei conti, approssimativa, incompleta e con ampi margini di incertezza sul fronte della deducibilità delle erogazioni. E anche le recenti parole del ministro Giancarlo Galan che, in occasione della presentazione del progetto di restauro del Colosseo, ha dichiarato di voler portare dal 20% al 2% l’Iva sulle sponsorizzazioni hanno tutto il sapore della boutade alla base della quale non c’è un progetto concreto di attrazione degli investimenti privati. Una proposta che peraltro privilegia, una volta di più, le elargizioni delle imprese quando andrebbero stimolate quelle dei singoli donatori e anche le cosiddette sponsorship in kind, ossia le donazioni sotto forma di fornitura di beni o servizi.

di nicola Maggi

GRAzIE ALLA LEGGE AILLAGON, APPROvATA NEL 2003, I MECENATI fRANCEsI POssO OGGI GODERE DI uNA D ETRAzIONE fIsCALE PARI AL 66% DELLE DONAzIONI TOTALI, NEL LIMITE ANNuO DEL 20% DEL REDDITO LORDO, CON L'OPPORTuNITà DI sPALMARE su CINquE ANNI LE DETRAzIONI D'IMPOsTA ECCEDENTI

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Lucas Cranach detto il Vecchio, “Le Tre Grazie” (1531) Olio su tavola Collezione privata © 2010 Museo del Louvre / Harry Brèjat

Immaginare che il governo vari un piano sistematico di attrazione degli investimenti privati in cultura risulta, d’altronde, assai difficile in un paese dove il fenomeno del mecenatismo è monitorato in modo parziale e discontinuo. Una conoscenza approfondita sarebbe, invece, fondamentale per supportare e promuovere la relazione tra cultura e imprese sul modello di quanto fa l’Art&Business inglese. Ma l’Italia sembra essere anche una nazione dove, a tutti i livelli, si ha una scarsa familiarità con gli strumenti del mestiere. In primo luogo il fundraising, come dimostra il proliferare, negli ultimi tempi, di corsi e seminari su questo tema, dedicati proprio alle pubbliche amministrazioni. Strumenti che, affiancati da un’adeguata riforma fiscale potrebbero cambiare, e non di poco, lo stato delle cose. Ne è una dimostrazione quanto è accaduto negli ultimi dieci anni in Francia, nel Regno Unito e in Australia. Grazie alla legge Aillagon, approvata nel 2003, i mecenati francesi posso oggi godere di una detrazione fiscale pari al 66% delle donazioni totali, nel limite annuo del 20% del reddito lordo, con l'opportunità di spalmare su cinque anni le detrazioni d'imposta eccedenti. Un’altra legge, passata nel 2008, ha dato la possibilità alle organizzazioni no-profit di raccogliere fondi privati per le loro donazioni. Soluzione che ha creato, in soli due anni, 500 nuove elargizioni. - 93 -


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Adesso i nostri cugini d’oltralpe si stanno muovendo con sicurezza nel campo del fundraising e i risultati non mancano. Se in Italia si arranca per trovare finanziatori per il recupero dell’area archeologica di Pompei, in Francia in poche settimane sono riusciti a mettere insieme 7mila donatori singoli e varie imprese per l’acquisto delle “Tre Grazie” di Lucas Cranach il Vecchio entrate oggi nelle collezioni del Louvre. Un successo dovuto anche a una campagna web che ha visto il lancio di un apposito sito pensato per incoraggiare le persone a prendere parte all’acquisizione del capolavoro. A dimostrazione di come le nuove tecnologie, se usate bene, possono aiutare anche nel campo del fundraising. Anche se nel 2010 si è registrato un calo del 3% rispetto al 2009 (fonte: Art&Business) nelle elargizioni liberali, il Regno Unito rimane sempre la best practice europea per eccellenza in questo campo. Mentre nel nostro paese veniva approvata la legge 342, il governo inglese delineava un nuovo regime fiscale per le donazioni individuali e il sostegno dato da privati e aziende al settore culturale. Oggi le organizzazioni noprofit possono richiedere un rimborso del 22% delle spese sostenute che l’ente fiscale inglese dà all’istituzione culturale che ha beneficiato della donazione, generando così una maggiorazione del valore dell’elargizione stessa. Tutte le forme di sponsorizzazione, inoltre, sono deducibili dal bilancio aziendale, siano esse in denaro o in servizi, e questa deducibilità, in particolari casi, può arrivare a essere addirittura illimitata. Partendo dalla consapevolezza che se un governo non ha i mezzi economici per soddisfare la crescente domanda di finanziamenti proveniente dal mondo della cultura è logico che collabori con il settore privato, il governo australiano, ha dato vita a un sistema di incentivi fiscali che ha permesso di mobilitare le risorse private necessarie. Un cambiamento monitorato costantemente e supportato dai vari dipartimenti governativi, incluso il Council for the Arts - l'organo consultivo per il finanziamento delle arti - che ha fondato nel 2003 l’Artsupport Australia il cui compito è quello di accrescere la filantropia culturale e che in pochi anni ha permesso un incremento del 59% nelle donazioni passate dai 46,6milioni di dollari del 2005 ai 74,4 del 2009. Per una volta, comunque, l’Italia non è il fanalino di coda. In termini di approssimazione nell’affrontare il tema del mecenatismo culturale, infatti, il nostro paese è in buona compagnia nella vecchia Europa. Basta, d’altronde, dare un rapido sguardo all’edizione 2011 del Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe e si scopre che nella maggior parte dei paesi

PARTENDO DALLA CONsAPEvOLEzzA CHE sE uN GOvERNO NON HA I MEzzI ECONOMICI PER sODDIsfARE LA CREsCENTE DOMANDA DI fINANzIAMENTI PROvENIENTE DAL MONDO DELLA CuLTuRA è LOGICO CHE COLLAbORI CON IL sETTORE PRIvATO

europei non solo non sono reperibili informazioni in materia ma non esistono neanche piani governativi e talvolta neanche leggi - per promuovere le donazioni in arte e cultura. E questo vale per l’Albania ma anche per la Danimarca o la Spagna. Una situazione caotica che ha spinto il Parlamento Europeo a commissionare all’Institute for International Relations una ricerca con l’obiettivo di colmare l’assenza di una linea comune, di dati e di una conoscenza dei diversi approcci adottati degli Stati membri. Questo per creare una base sulla quale poter aprire un dibattito sul tema e trovare una soluzione a una mancanza di fondi per la cultura che ormai caratterizza tutte le economie mondiali. In attesa delle indicazioni comunitarie, però, sarebbe bene cominciare a guardarsi intorno e ad agire con metodo per recuperare il tempo perduto. Come per le leggi elettorali non si tratta, qui, di scopiazzare il modello francese, quello inglese o quello australiano ma di capire la ratio che sta alla loro base e quali gli strumenti adottati dalle best practice internazionali per attirare investimenti. È quello che, ad esempio, stanno facendo in Nuova Zelanda dove, nel 2009, il ministro dei beni culturali ha creato la Cultural Philanthropy Taskforce con l'obiettivo non di eliminare i fondi pubblici ma di far crescere la 'torta' di quelli privati. Un progetto che ha molto da insegnarci sul fronte del metodo. La Taskforce ha lavorato per quindici mesi a stretto contatto del ministero, studiando le best practice di tutto il mondo e confrontandosi con le realtà (organizzazioni e privati) del proprio paese, individuando delle linee guida per lo sviluppo del mecenatismo. In base ai dati raccolti dall'indagine il governo ha quindi fatto la sua parte: direttamente, attraverso borse di studio, e indirettamente, creando un ambiente fiscale favorevole per le donazioni. Terminata questa fase è iniziato il coinvolgimento degli operatori del settore. “Il sostegno del governo - ha spiegato Peter Biggs, presidente della Taskforce, nel corso del suo report finale - può essere solo una parte di una strategia globale per il settore culturale”. L'attenzione si è quindi spostata sulla necessità di dar vita a un'iniziativa in grado di aiutare le istituzioni culturali a sviluppare la propria capacità di fundraising in modo che ogni elemento che costituisce il 'sistema' sia in grado di camminare da solo. Detta con Oscar Wilde: “Il successo è una scienza: se si hanno le condizioni si ottiene il risultato”. Forse è giunto il momento, anche in Italia, di creare le condizioni.


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DIRITTO DELL’ARTE:

PubLIC ART IN PubLIC PLACEs. INTERvIsTA AI DuE GIuRIsTI DELL’ARTE ALEssANDRA DONATI E GIANMARIA AjANI di Annalisa Pellino

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Quali sono le regole con cui l’arte in the Public Places è costretta a confrontarsi? Abbiamo intervistato i due giuristi dell’arte Alessandra Donati e Gianmaria Ajani, ideatori e organizzatori del primo convegno in Italia dedicato al diritto dell’arte contemporanea. Abbiamo parlato dell’inadeguatezza delle categorie giuridiche rispetto allo sdoganamento della classica idea di artista e di opera, questione particolarmente cogente quando in ballo è il senso stesso dell’arte nei luoghi pubblici. Con una serie di esempi, i due giuristi ci hanno aiutato a comprendere i livelli di conflittualità che possono essere generati da un mancato adeguamento delle categorie giuridiche, ma anche dall’assenza di un’azione mediatrice soddisfacente.

Annalisa Pellino: Innanzitutto, perché il diritto incontra l’arte contemporanea? Alessandra Donati e Gianmaria Ajani: L’arte non sopporta limiti, mentre il diritto pone regole e limiti. L’arte contemporanea concorre a rappresentare e definire l’identità sociale e culturale del nostro tempo. Il diritto, nazionale e sopranazionale, rappresenta e definisce le regole per la gestione dei rapporti sociali, nei diversi luoghi in cui agiamo. Sono dunque vari e di diversa intensità gli incontri tra il diritto e l’arte contemporanea. Si tratta poi di incontri la cui valenza assume un significato diverso da paese a paese. In generale possiamo dire che al giurista esperto di arte contemporanea oggi appare evidente l’inadeguatezza delle categorie giuridiche create e conosciute dal diritto per regolamentare il mondo dell’arte: si tratta infatti di categorie classiche che erano state suggerite da un’arte classica e che ben si adattavano a un modo di esprimere la creatività centrato sulla figura dell’artista-soggetto, e sul suo prodotto-oggetto. Oggi, il ritardo del diritto appare in modo evidente non solo quando ci si soffermi a osservare la trasformazione delle modalità espressive dell’arte contemporanea, che assume sovente connotati effimeri e ibridi, rispetto ai quali il diritto mostra il suo imbarazzo. A.P: È proprio di questo imbarazzo che si è ampiamente discusso nel primo convegno sui diritti dell’arte contemporanea - il DAC - che ha avuto luogo presso la GAM di Torino nel maggio del 2010, giusto? A.D. e G.A: Si, questa prospettiva si trova espressa nell’introduzione al testo che raccoglierà i contributi al convegno, in corso di pubblicazione con l’editore Allemandi. Si confronti ad esempio l’inadeguatezza delle regole che disciplinano l’intervento dell’artista nel luogo pubblico con la nuova concezione di arte pubblica. L’arte nei luoghi pubblici ha acquisito una nuova funzione scendendo dal piedistallo della celebrazione del potere politico, modificando le proprie icone e trasformandosi in connettore sociale nel tessuto urbano (pensiamo all’esempio della metropolita-

quALI DEvONO EssERE LE NuOvE MIsuRE INDICATE DAL DIRITTO PERCHé GLI AbITANTI DI uN LuOGO, IN quALITà DI PROPRIETARI DELLO sPAzIO uRbANO, RIEsCANO AD APPROPRIARsI DI uN’OPERA E RICONOsCANO CHE uNA NuOvA IDENTITà è sTATA DIsEGNATA PER IL 'LORO sPAzIO'?

na di Napoli). Come ha ben detto Lorenza Perelli, nel suo testo “Public Art”, siamo ormai lontani dai tempi in cui la scelta dei committenti si concentrava sulle opere di artisti-scultori importanti, da quando il programma “Art in the Public Places” ideato nel 1967 dal National Endowment for the Arts (NEA) si proponeva di dare ai cittadini accesso all’arte migliore del momento, fuori dai musei - e così Calder e Picasso nelle piazze di Chicago, o ancora Calder a Grand Rapids nel Michigan -. Oggi il modello è cambiato. Tuttavia, la reazione dei cittadini ai nuovi 'postmonumenti' è spesso negativa, di rifiuto. Oggi è il giudice che è chiamato a decidere del destino di queste opere. Si crea così tensione tra diritto e arte nei luoghi pubblici. Ecco allora che il loro incontro si configura come soluzione a una situazione di conflitto. Ci si deve allora chiedere se le regole che disciplinano la scelta delle opere d’arte nei luoghi pubblici siano adeguate: quelle regole che, schematizzando, prevedono che il monumento o la scultura, scelti dalla pubblica amministrazione per abbellire un luogo pubblico, vengano imposti al cittadino che vive quello spazio pubblico. E, dunque, quali devono essere le nuove misure indicate dal diritto perché gli abitanti di un luogo, in qualità di proprietari dello spazio urbano, riescano ad appropriarsi di un’opera e riconoscano che una nuova identità è stata disegnata per il 'loro spazio'? Spesso accade che la nuova disposizione sia percepita come imposta, soprattutto in assenza di informazione, partecipazione, coinvolgimento, quando invece l’artista pone il suo centro creativo direttamente nel luogo pubblico in cui interviene. È pertanto urgente che si trovi un nuovo terreno di incontro tra il diritto e l’arte. A.P: Quindi un primo cortocircuito deriva dalla difficoltà di conciliare le esigenze di un’ arte - e di chi la fa - che non conosce limiti e il diritto che invece lavora con regole e definizioni. Ma siamo sicuri che questo valga anche nel caso dell’arte pubblica? Non è forse questa già limitata (positivamente) di suo? Mi - 95 -


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riferisco ai limiti e alle costrizioni di cui parla Alberto Garutti, intesi come motivo di ‘avanzamento e costruzione’. A.D. e G.A: Sono gli artisti stessi a dirci che i limiti di carattere quantitativo, imposti dal diritto dell’urbanistica, possono rappresentare una sfida. “Le leggi e i regolamenti con i quali ogni intervento nello spazio urbano si deve confrontare” - dice proprio Garutti “non sono per me limitazioni o impedimenti […] i vincoli e i limiti mi interessano moltissimo perché contengono delle sfide, e le costrizioni sono spesso motivo di sperimentazioni e avanzamenti. […] mentre nella città l’artista deve andare verso lo spettatore, nello spazio specializzato dell’arte chiedo allo spettatore di assumersi la responsabilità critica del suo stesso sguardo. L’opera […] nello spazio pubblico, si deve necessariamente integrare con il paesaggio sociale e fisico delle città e del territorio così come quello immateriale delle leggi e delle norme che regolano le relazioni tra la politica, le istituzioni e le persone”. Il diritto regolamenta vari aspetti dell’arte contemporanea e, per quanto concerne l’arte nei luoghi pubblici tocca due aspetti di questa arte: uno attiene all’impatto dell’opera nello spazio pubblico attraverso l’individuazione di limiti di tipo quantitativo per l'elaborazione dell’opera - diritto dell’urbanistica - l’altro attiene alla destinazione delle risorse, articolando criteri per l’aggiudicazione dei bandi di concorso per la realizzazione di opere d’arte nei luoghi pubblici e, dunque, inserendo nei bandi parametri di accettazione non solo di tipo etico, ma anche estetico. A.P: Ad esempio? A.D. e G.A: Pensiamo, ad esempio, al rispetto del “Canon of American Art” o alla considerazione del valore della decenza, individuati nelle Guidelines del National Endowment for the Arts come condizione necessaria per l’accettazione dell’opera nel luogo pubblico; o ancora al principio espresso dal decreto di epoca fascista, del 1938, che ha istituzionalizzato il contributo del 2% all’arte definendola “abbellimento dell’edificio pubblico”. Inoltre sulla base dei casi giudiziari che dagli anni Sessanta in poi si sono preposti al giudice, si è articolata una serie di criteri volti a formulare i principi di base che l’arte pubblica deve rispettare. Si è venuto, così a creare un regime dell’arte nei luoghi pubblici diverso e più articolato rispetto all’arte libera che si esprime nei luoghi tradizionalmente preposti a ospitarla. Regime che pone limiti e parametri che tuttavia l’arte non sopporta o non dovrebbe sopportare. A.P: Ma c’è un modo per superare questo gap? A.D. e G.A: Perché l’arte nello spazio sociale resti libera e venga, al contempo, accettata dal pubblico è necessario che il diritto proponga nuove misure: piuttosto che rafforzare i parametri di accettazione delle opere nello spazio sociale, è oggi necessario dare maggior peso a un concetto, quello di informazione del pubblico, unito al riconoscimento di una più rigorosa responsabilità dell’artista che interviene nello spazio pubblico e del committente pubblico. Ed è significativo che gli stessi artisti individuino nelle due parole 'informazione' e 'responsabilità', la nuova misura di cui si deve dotare il diritto che regolamenta l’arte pubblica. A.P: Porre dei limiti dunque non significa censurare l’artista? Se ne può dedurre che l’arte pubblica è comunque libera (per l’artista) e allo stesso tempo democratica (per la società civile)? A.D. e G.A: L’arte nei luoghi pubblici deve essere libera, ma l’artista deve misurarsi con il fatto che il luogo nel quale interviene appartiene a tutti. Ciò significa che è necessario insistere sul tema della responsabilità dell’artista che modifica con la propria opera lo

sONO NuMEROsI I CAsI, DECIsI DAL GIuDICE, DI ARTE PubbLICA RIfIuTATA, PER I MOTIvI PIù DIsPARATI, DETTATI DA RAGIONI ETICHE, EsTETICHE E ANCHE PRATICHE

spazio pubblico. Se pensiamo alle pagine di Suzanne Lacy in ”Mapping the Terrain: New Genre Public Art” e poi a Rosalyn Deutsche nel suo “Evictions: Art and Spatial Politics”, o ancora a Nicolas Bourriaud, a Grant Kester, a Miwon Kwon, a Claire Bishop e anche ad Anna Detheridge con il suo intervento “Arte pubblica in Italia: lo spazio delle relazioni”, il compito del diritto appare chiaro. È attribuendo maggior peso all’informazione del pubblico da un lato, e rafforzando la responsabilità dell’artista e del committente dall’altro, insieme al riconoscimento di un importante ruolo da attribuirsi a un mediatore culturale artistico, che il diritto può aiutare a promuovere, questa nuova concezione di arte pubblica, quella di arte sociale, rispettando il carattere democratico dell’opera d’arte pubblica. A.P: Fatto sta che in questo ambito il livello di conflittualità resta abbastanza alto, o quanto meno considerevole, dato anche il numero e la varietà degli attori in gioco. Ci potreste fare qualche esempio di conflittualità che ha richiesto l’intervento del giurista? A.D. e G.A: Sono numerosi i casi, decisi dal giudice, di arte pubblica rifiutata, per i motivi più disparati, dettati da ragioni etiche, estetiche e anche pratiche. Se volgiamo l’attenzione al contenzioso giudiziario - che ci dà la misura della conflittualità - notiamo che i casi di contesa si verificano in buona misura quando il committente è pubblico. Non solo perché quanto più l’opera è aperta al pubblico, cioè quanto maggiore è la fruibilità, tanto più frequenti sono i conflitti - il che è ovvio - ma soprattutto perché quando il committente è di natura pubblica, il cittadino è più sensibile all’irritazione e propenso alla severità critica, in quanto aumenta il senso di proprietà dell’opera. Tale sensibilità, che volge alla recriminazione, finisce per incidere sul grado di identificazione del fruitore-tax payer con l’opera. Alcuni esempi fra i più noti: nel 1989, quasi 10 anni dopo essere stata installata, l’opera “Tilted Arc” di Richard Serra è stata rimossa dalla Federal Plaza in Lower Manhattan, perché ostacolava l’attraversamento della piazza, costringendo i pedoni a girarci intorno; nel 1991, sempre New York, cinque giorni dopo l’inaugurazione le statue di John Ahearn che erano state poste davanti alla Police Station nel Bronx vengono tolte a seguito delle proteste dei cittadini, irritati dall’enfatizzazione quasi caricaturale dei tratti tipici dell’afro-americano; nel 2005, a Rotterdam, la statua di Paul McCarthy “Santa Claus” è stata spostata dalla piazza del teatro municipale, perché considerata offensiva per le sue allusioni falliche, e collocata in un museo; lo stesso destino anche per l’opera “Arco di trionfo” del collettivo austriaco Gelitin a Salisburgo, che è stata nascosta da una copertura, perché la sua presenza è stata giudicata non consona alla visita istituzionale di Carlo d’Inghilterra. In tutti questi casi il rifiuto da parte dei cittadini ha certamente coinvolto motivi estetici ed etici. A.P: Questo per quanto riguarda l’arte cosiddetta 'rifiutata', mentre per quella distrutta o dismessa per iniziativa della stessa amministrazione pubblica? A.D. e G.A: Generalmente questo avviene per questioni pratiche: ad esempio pochi mesi fa il City Council di Phoenix UK, ha deciso la demolizione del “Time Clock Zone” di Françoise Schein - si noti che questo era vissuto dai cittadini come un luogo speciale - per far posto a un 'Big TV Screen' in vista dei giochi olimpici del 2012. Ma l’artista si è opposto facendo causa e la sentenza ha sancito la conservazione dell’opera. A.P: In USA, Gran Bretagna, Francia e Germania si parla di Public art già negli anni Sessanta e Settanta,


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per indicare sculture e installazioni collocate all’esterno e in spazi pubblici, nell’ambito di programmi promossi dalle pubbliche amministrazioni ai fini della riqualificazione urbanistica. Poi il termine ha assunto altre connotazioni tanto che la critica anglosassone ha trovato altre diciture per definirne meglio gli intenti. Ad esempio Community art e Social art. Credo che questo tipo di definizioni sia indicativo del senso e della funzione dell’arte rispetto al corpo sociale. Cosa ne pensate? A.D. e G.A: Non entriamo in questioni di critica d’arte, non è il nostro ruolo, sottolineiamo però che anche per noi giuristi è importante definire gli interventi di arte pubblica come interventi di arte nello spazio sociale perché vogliamo che il diritto, preso atto del nuovo modo di concepire l’arte pubblica, organizzi una disciplina adeguata a promuoverla. La nuova connotazione assunta dall’arte pubblica come arte per e nello spazio sociale è il motivo che ci ha portati a riflettere su di un nuovo ruolo del diritto in questo contesto. Il nostro intervento al convegno organizzato lo scorso maggio a Parigi dall’Unesco e dedicato a “Il destino dell’arte pubblica” intendeva affermare la necessità di individuare nuove regole per dare spazio al nuovo modo di concepirla: il diritto deve prendere atto dell’evoluzione della concezione dell’arte nei luoghi pubblici che da 'arte pubblica' è divenuta oggi, piuttosto, 'arte nello spazio sociale'. L’intervento dell’artista contemporaneo nel luogo pubblico, infatti, è soprattutto volto a influire sullo spazio sociale come luogo dove si definiscono e accadono le relazioni sociali: bisogna allora abbandonare la locuzione 'arte pubblica' per sostituirla con quella di 'arte nello spazio sociale' che meglio la definisce. A.P: Ritenete che questa sostituzione, e con essa la consapevolezza che la presuppone, sia un fenomeno già in atto oppure che i tempi non siano ancora maturi? A.D. e G.A: Questa prospettiva è già espressa nel testo del “Manifesto del diritti dell’arte contemporanea” che noi giuristi abbiamo redatto insieme alla critica d’arte Anna Detheridge, al collezionista Gianni Bolongaro, e agli artisti Luca Bertolo, Chiara Camoni, Ettore Favini, Maddalena Fragnito, Linda Fregni, Alessandro Nassiri e Antonio Rovaldi. Il testo del manifesto verrà presentato a Milano il 10 novembre 2011 presso l’Accademia di Brera. Abbiamo infatti già programmato un convegno che sarà organizzato dall’Università di Milano-Bicocca e da quella di Torino (da noi rappresentate) insieme a Anna Detheridge, fondatrice di Connecting Cultures. Si tratta dell’approfondimento del discorso iniziato a Torino nel 2010 con il DAC I, con l’intento di favorire una migliore comprensione del ruolo dell’arte nella sfera pubblica. Sarà questa l’occasione per presentare anche uno studio che abbiamo condotto su alcuni 'modelli di contratto degli artisti' - come ad esempio 'contratto per mostre', 'contratto di esclusiva con galleria': si tratta dei classici tipi di contratto che disciplinano la circolazione delle opere d'arte e che gli artisti concludono quasi sempre verbalmente - ogni giorno. Abbiamo ritenuto importante formalizzare queste prassi in un testo scritto che delinei in modo chiaro i diritti degli artisti, per favorire l'avvio di buone pratiche nel mercato dell'arte contemporanea. A.P: Tornando all’arte pubblica, ci sono delle priorità che il legislatore può preventivamente definire? Tipo il diritto della cittadinanza ad avere un servizio rispetto a quello dell’artista a veder garantita la sua libertà espressiva? A.D. e G.A: I casi citati in precedenza ci mostrano che i conflitti si risolvono solitamente con censure, spesso parziali: l’opera viene spostata dalla via pubblica e

IL DIRITTO DEvE PRENDERE ATTO DELL’EvOLuzIONE DELLA CONCEzIONE DELL’ARTE NEI LuOGHI PubbLICI CHE DA 'ARTE PubbLICA' è DIvENuTA OGGI, PIuTTOsTO, 'ARTE NELLO sPAzIO sOCIALE'. L’INTERvENTO DELL’ARTIsTA CONTEMPORANEO NEL LuOGO PubbLICO, INfATTI, è sOPRATTuTTO vOLTO A INfLuIRE suLLO sPAzIO sOCIALE COME LuOGO DOvE sI DEfINIsCONO E ACCADONO LE RELAzIONI sOCIALI

inserita nel museo oppure coperta agli occhi di coloro che, senza avere scelto, ci si potrebbero imbattere. È interessante osservare come spesso i conflitti si risolvano escludendo che l’oggetto rifiutato sia considerato come opera d’arte. Spesso, cioè, il giudice non riconosce l’aura di opera d’arte all’oggetto non gradito o non capito dal pubblico. Pensiamo al già citato e notissimo caso di Richard Serra. Il conflitto tra l’opera e il pubblico e la rottura tra l’artista e i committenti hanno segnato a tal punto il sistema americano che, come appena ricordato, il giudice ha bandito dal regno della speciale tutela del diritto d’autore le opere pubbliche site specific. Ciò significa che un artista che crei un’opera site specific nel territorio nord americano non potrà opporsi alla decisione della pubblica amministrazione che scelga di spostare l’opera in un luogo diverso da quello in cui l’artista l’ha creata, per il solo fatto che lo spostamento snaturi l’essenza della sua opera e leda dunque il diritto dell’autore. Si tratta di un tema interessante, che meriterebbe di essere approfondito, ma che in questo contesto diventa troppo tecnico. Quanto alle priorità, ce ne sono di sicuro: per questo è necessario innanzitutto chiarire quale sia la concezione di arte pubblica che la pubblica amministrazione vuole promuovere. È sufficiente leggere le Guidelines proposte dalla città di Vancouver, per comprendere quanto sia importante il ruolo attribuito all’arte nello sviluppo del tessuto sociale della città. L’analisi di queste linee guida ci fa capire innanzitutto quanto varia la definizione della funzione dell’arte pubblica sia in relazione al momento di adozione di tali documenti, sia in relazione alle condizioni del luogo in cui queste operano. A.P: E in Italia? A.D. e G.A: Se guardiamo invece alla nostra definizione di arte pubblica ci accorgiamo che siamo fermi all’idea di arte come abbellimento di un edificio. È su questo piano che il diritto deve cambiare. Non moltiplicando le regole, ma la policy sottesa al finanziamento dell’arte pubblica, e dunque il significato dell’intervento dell’artista nelle città. A.P: C’è una terza via al legislatore e al giudice? Individuabile ad esempio nei meccanismi di mediazione, per limitare il livello di conflittualità e di reciproca incomprensione, (dell’amministratore rispetto alle esigenze del territorio, dell’artista rispetto al pubblico, del pubblico rispetto alle intenzioni creative dell’artista)? A.D. e G.A: Meglio prevenire. Perché l’arte pubblica diventi arte nello spazio sociale, un ruolo chiave deve essere riconosciuto a un mediatore culturale artistico, come molte realtà già ci hanno dimostrato. L’attività come quelle dei Nouveaux commanditaires in Francia, Nuovi Committenti con a.titolo in Italia, Modus operandi in Inghilterra, il Kunst in de buurt di Ghent, ce lo hanno dimostrato ampiamente. Queste associazioni hanno lo scopo di metter fine a quel processo di imposizione da parte della pubblica amministrazione di opere d’arte nello spazio di proprietà del cittadino. È importantissimo il ruolo svolto da queste figure di mediatori culturali artistici: l’idea è quella di sviluppare progetti di arte pubblica intesa come elemento qualificante della vita dei cittadini. La comunità sulla quale l’opera viene a incidere viene informata fin dal momento del concepimento dell’opera e poi coinvolta nella sua realizzazione. Queste sono le realtà che possono funzionare oggi perché il cittadino possa appropriarsi dell’opera d’arte comprendendo il nuovo significato dato al suo spazio.

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arskey/Politiche Culturali| Mercato cinese

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MERCATO:

è LA CINA IL NuOvO LEADER GLObALE

Occhi puntati su Hong Kong. È qui che ormai si scrive la storia del mercato dell’arte. Le aste cinesi non sembrano, infatti, conoscere botte d’arresto e hanno surclassato Europa e Stati Uniti nei ranking internazionali, posizionando la Cina al primo posto nel marcato globale dell’arte. Come se non bastasse, più della metà degli artisti presenti nella Top 10 mondiale delle aste sono cinesi. “Se la crisi del 2008 ha colpito duramente la maggior parte dei mercati del mondo e per una forte ripresa, in particolare per quanto riguarda l’arte contemporanea, si è dovuto attendere il 2010 spiega Anders Petterson, direttore della ArtTactic Ltd -, l’Asia ha ricominciato a correre fin da subito”. “Le difficoltà economiche affrontate dall’Europa e dagli Stati Uniti - prosegue Petterson - hanno rallentato i loro rispettivi mercati a differenza della rapida crescita registrata, in primo luogo, in Cina dove l’arte contemporanea sta attualmente vivendo un secondo boom”. Basta guardare alcuni dei risultati delle aste di aprile da Sotheby’s e Christie’s per rendersene conto. Hong Kong: Sotheby’s e Christie’s a colpi di record L’appuntamento con “The Ullens Collection – The Nascence of Avant-Garde China da Sotheby’s” (3 aprile) ha visto tutti e 105 i lotti offerti venduti e un risultato in valore che ha dello strabiliante: 54,7milioni di dollari contro una stima iniziale che andava dai 12,5 ai 16,7mln. Il miglior risultato di sempre per una singleowner sale di arte contemporanea cinese. E un altro record è stato incassato da Sotheby’s il giorno successivo con l’asta di arte moderna e contemporanea del sudest asiatico, che ha totalizzato 13,8milioni di dolla-

di nicola Maggi

Zeng Fanzhi, "The Leopard"

IN CINA L’ARTE CONTEMPORANEA sTA ATTuALMENTE vIvENDO uN sECONDO bOOM

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ri: il triplo della stima iniziale (4,6mln) e un vero e proprio record mondiale per la categoria. Protagonista dell’asta: l’artista filippino Ronald Ventura, il cui dipinto “Grayground” è stato aggiudicato, dopo una lotta che ha visto coinvolti ben 15 offerenti, per oltre 1milione di dollari, ossia venticinque volte la stima iniziale. Un rialzo che rappresenta un primato mondiale non solo di categoria ma per le aste d’arte in generale. Infine l’appuntamento con l’“Arte cinese del XX secolo”, l’asta ha totalizzato 30mln di dollari, raddoppiando la stima iniziale, ossia il più alto risultato di sempre per la sede di Hong Kong della casa d’aste londinese. Agli straordinari successi di Sotheby’s ha risposto Christie’s a fine maggio con un’altra serie di risultati di altissimo livello. La aste serali e diurne di arte contemporanea asiatica del 28 maggio scorso si sono chiuse con l’82% dei lotti venduti e un 92% in valore per un totale di 97,8milioni di dollari di cui 63,3 realizzati nella sola evening sale: il più alto risultato di sempre per questa categoria. Una pietra miliare per il mercato caratterizzata dallo straordinario record di “The Leopard”, opera dell’artista cinese Zeng Fanzhi, battuta a 4,6mln di dollari: nove volte la stima iniziale. Un’aggiudicazione che ha visto la lotta tra 10 offerenti e conclusasi con uno scrosciante applauso quando il martello ha battuto. La Cina ha superato Stati Uniti e Europa - Il successo registrato nelle aste primaverili da Sotheby’s e Christie’s è solo l’ultimo esempio di un exploit che ha portato, in pochissimi anni, il mercato cinese dell’arte al primo posto sulla scena globale dopo cinquanta anni di dominio incontrastato delle piazze europee e


arskey/Politiche Culturali | Mercato cinese

statunitensi. Un risultato strabiliante se si pensa che, di norma, i mercati impiegano molto di più a svilupparsi. La Cina, invece, in soli tre anni è salita dal terzo posto alla vetta della classifica, relegando la Francia al quarto posto e superando New York e Londra che, fino a qualche tempo fa, erano considerate irraggiungibili. Grande sconfitto di questa lotta: il mercato europeo che, nonostante abbia triplicato i risultati passando dai 1,3miliardi di dollari del 2002 ai 3miliardi del 2010, ha perso costantemente strada nell’ultimo decennio. Se nel 2003, infatti, in Europa veniva venduto l’80% dei lotti di arte aggiudicati nel mondo e generato il 55% dei ricavi, oggi questi sono il 33% e i lotti venduti solo il 66%. Gli Stati Uniti si sono mantenuti abbastanza stabili sul fronte delle opere battute all’asta (14-16%) ma hanno decisamente ceduto il passo per quanto riguarda i ricavi, passando dal 47% del 2004 al 30% del 2010. Il calo dei mercati occidentali e la rapida crescita di quelli orientali ha così riconfigurato lo scenario globale del mondo delle aste con la Cina che, con 3miliardi di dollari di ricavi nel 2010, rappresenta oggi il 33% della torta, seguita dagli Stati Uniti (30%), dal Regno Unito (19%) e dalla Francia (5%). Le cose vanno un po’ meglio per l’Occidente se si stringe il campo: New York è ancora la prima piazza in termini di ricavi (2,7mld di dollari nel 2010) seguita da Beijing (2,3mld), Londra (1,8mld), Hong Kong, Parigi, Shanghai e Hangzhou. Se nel successo del mercato cinese è possibile intravedere, comunque, lo zampino occidentale, anche nella classifica globale delle case d’asta la Cina, con Poly International, si trova al terzo posto. Pur vedendo Christie’s e Sotheby’s nelle prime due posizioni, infatti, la Top10 mondiale è quasi tutta cinese con la Poly al terzo posto seguita da China Guardian e Beijing Hanhai Art Auction. Solo al sesto grandino troviamo Phillips de Pury, tallonata però da altre auction house cinesi. Tutti in Cina: la nuova Eldorado dell’arte - La crescita esponenziale del mercato dell’arte cinese fa gola a molti. In particolare a chi vende arte contemporanea, segmento ancora minoritario se confrontato con quello degli old masters. “Tutti stanno mandando il proprio personale in Cina o aprono una sede a Hong Kong. commenta Matt Carey-Williams della Haunch of Venison in un’intervista rilasciata a The Art Newspaper - Vogliono esserci quando il 'rubinetto' sarà aperto perché allora ci sarà un mercato immenso da conquistare”. Come sempre accade nei mercati emergenti, anche in Cina i nuovi ricchi hanno cominciato la loro carriera di collezionisti acquistando opere di artisti locali storicizzati. Questo, da un lato, per una sorta di patriottismo - sponsorizzato anche dal Governo -, dall’altro, perché più in linea con i loro parametri estetici. Con l’evolversi dei gusti questi collezionisti cominceranno sicuramente a guardare

PuR vEDENDO CHRIsTIE’s E sOTHEby’s NELLE PRIME DuE POsIzIONI, INfATTI, LA TOP10 MONDIALE è quAsI TuTTA CINEsE CON LA POLy INTERNATIONAL AL TERzO POsTO sEGuITA DA CHINA GuARDIAN E bEIjING HANHAI ART AuCTION

anche oltre le proprie frontiere e allora è facile prevedere un vero e proprio boom anche per l’arte contemporanea internazionale, in parte preannunciato dal crescente successo che qui stanno riscuotendo i giovani artisti locali. Un successo che, dati i numeri di questo mercato, sta influenzando pesantemente anche i ranking mondiali dei risultati d’asta: più della metà della Top10 internazionale relativa agli artisti contemporanei è composta, infatti, da cinesi e anche se Jean-Michel Basquiat o Andy Warhol sono ancora i giganti del mercato, non ci sarà da attendere molto per vederli sorpassati dai loro rivali orientali, spinti dai nuovi miliardari asiatici. La Cina e l’arte contemporanea: un rapporto controverso - La partecipazione della Cina alla 54° Biennale di Venezia la dice lunga su quale sia il rapporto tra il paese asiatico e l’arte contemporanea. Scorrendo i nomi degli artisti chiamati a rappresentare l’arte del proprio paese alla kermesse veneziana, infatti, non solo non si trova nessun blockbuster e questo sarebbe il meno, visto che il successo in asta non è per forza sinonimo di alta qualità artistica - ma dei cinque selezionati dal curatore Peng Feng solo uno non proviene dall’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino, la più grande istituzione cinese ma anche la più vicina ai dettami del governo. Una partecipazione quanto mai 'istituzionale', dunque, che non vuol tenere conto delle altre importati realtà artistiche del paese, come l’Accademia dello Zhejiang o del Sichuan dove hanno studiato, ad esempio, artisti come Zhou Chunya o Zhang Xiaogang e da cui stanno per uscire le nuove promesse del futuro. Una sorta di censura che, con il silenzio, tenta in modo un po’ pasticciato di far dimenticare cosa succede nel paese: dal caso Ai Weiwei - il cui studio è stato demolito dopo l’arresto - alla chiusura delle mostre di artisti non allineati, fino allo sfratto della colonia artistica di “Weihai Road 696” a Shanghai. A far da contraltare a questa presenza 'ufficiale' il padiglione Fuoribiennale. Qui, sotto la guida del curatore indipendente Wang Lin, l’altra Cina dell’arte contemporanea, quella degli artisti non allineati di cui proprio Ai Weiwei può essere considerato il capostipite. Due spazi e un solo paese, prigioniero delle sue contraddizioni ma molto incline a chiudere un occhio quando si tratta di affari. Basti pensare che all’ultima edizione di Art HK - principale fiera asiatica di arte contemporanea e una delle più importanti al mondo - diverse gallerie hanno presentato opere proprio di Ai Weiwei sfruttando la libertà concessa dal governo cinese a Hong Kong.

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arskey/economia | Aste in Cifre

A CURA dI ARSVAlUe.COM Artista Adami Valerio

Titolo e anno

Tecnica e dimensioni

ASte In CIFRe

Base d'asta / stima

Aggiudicazione

Casa d'aste / data

Burlesque

Olio su tela - cm. 146x114

35.000

35.000 Meeting Art (VC) - 05/06/2011

Baj Enrico

La chevre et l'oiseau, 1989

Olio, acrilici, passamaneria e collage su tela - cm. 50x60

20.000

25.000 Meeting Art (VC) - 05/06/2011

Balla Giacomo

Automobile in corsa, 1925 ca

Tempera su carta applicata su tela - cm. 77x119,5

350.000 - 450.000

370.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Boccioni Umberto

Busto di signora con grande cappello, 1911 Olio su tela - cm. 80x80

550.000 - 800.000

560.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Boetti Alighiero

Una parola al vento, due parole al vento…, 1989

Arazzo - cm. 84x25

Boetti Alighiero

Senza titolo, 1988

Arazzo - cm. 107x102

350.000 - 450.000

410.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Botero Fernando

Uomo seduto, 1980

Acquarello su carta - cm. 166x115

220.000 - 300.000

220.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Bueno Antonio

Marinaretto

Olio su masonite - cm. 40x30

Burri Alberto

Annotarsi 2 n. 7, 1987

Acrilico e pietra pomice su cellotex - cm. 150x200

Capocchini Ugo

Maternità, 1929

Olio su tela - cm. 120x155

Capogrossi Giuseppe

Superficie 470, 1962

Olio su tel - cm. 146x97

250.000 - 350.000

285.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Castellani Enrico

Superficie bianca, 1967

Acrilico su tela estroflessa e introflessa - cm. 140x182

300.000 - 400.000

400.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Castellani Enrico

Superficie bianca, 1964

Olio su tela estroflessa e introflessa - cm. 59,5x69,1

100.000 - 150.000

180.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Castellani Enrico

Superficie seta, 1960

Seta a rilievo - cm. 80x60

120.000 - 180.000

150.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Celiberti Giorgio

Composizione, anni '60

Olio e collage su tela - cm. 91x144

Colacicchi Giovanni

Allegoria della commedia della musica, 1948

Olio su tela riportata su tavola cm. 180x358

Conte Diego

L'enigma di bazar

Opera su base lignea

Dadamaino

Volume, 1959

Idropittura su tela - cm. 50x40

De Chirico Giorgio

Ruines estranges (Contemplatori di rovine), 1932-34

Olio su tela - cm. 91x71

400.000 - 600.000

520.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

De Chirico Giorgio

Archeologi, 1961

Olio su tela - cm. 80x60

400.000 - 600.000

300.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

De Chirico Giorgio

Piazza d'Italia con Arianna

Olio su tela - cm. 50x70

140.000 - 200.000

260.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

De Chirico Giorgio

Venezia, Isola San Giorgio, metà anni '50 Olio su tela - cm. 40x50

110.000 - 120.000

94.000 Pananti (FI) - 16/06/2011

Dorazio Piero

Verdino, 1962

Olio su tela - cm. 162,5x130

100.000 - 150.000

145.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale, 1963-64

Olio, lacerazione e grafiti su tela cm. 55,2x46

350.000 - 500.000

580.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale. Attesa, 1964

Cementite su tela - cm. 46x38

300.000 - 400.000

390.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale, 1961

Olio, graffiti e squarcio su tela cm. 65x53,7

150.000 - 200.000

190.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale - Attese, 1964-65

Idropittura su tela - cm. 45x37

180.000 - 250.000

320.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale, 1964-65

Idropittura su tela - cm. 27x22

200.000 - 300.000

300.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Fontana Lucio

Concetto spaziale (Forma), 1963

Olio, squarcio e graffiti su tela (verde) - cm. 73x60

350.000 - 450.000

410.000 Pandolfini (FI) - 14/06/2011

48.000

8.000 - 10.000 250.000 - 350.000 15.000 - 20.000

18.000 - 24.000 30.000 - 35.000 3.000 19.000

55.000 Poleschi (MI) - 19/05/2011

9.500 Pananti (FI) - 27/05/2011 480.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011 14.000 Pananti (FI) - 27/05/2011

Sant'Agostino (TO) 18.000 13/06/2011 28.000 Pananti (FI) - 27/05/2011 5.300 Iori (PC) - 16/07/2011 19.000 Poleschi (MI) - 19/05/2011


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*i prezzi di aggiudicazione non sono comprensivi dei diritti d’asta

Gallizio Pinot

Vascello fantasma o le pix d'or de la victoire, 1961

Tecnica mista su tela (olio, pigmenti metallici) - cm. 80x140

Germanà Mimmo

Tre alberi, 1989

Gianquinto Alberto

25.000

35.000 Meeting Art (VC) - 02/06/2011

Olio su tela - cm. 70x90

2.400

3.000 Eurantico (VT) - 26/06/2011

La lancia, la luna, la candela, 1969

Olio su tela - cm. 92x65

2.500

3.300 FidesArte (VE) - 08/06/2011

Hartung Hans

P1971-7, 1971

Inchiostro e pastelli su cartone cm. 50x73

15.000

28.000 Meeting Art (VC) - 02/06/2011

Leger Fernand

Nature morte polychrome, 1949

Olio su tela - cm. 33x45,8

Ligabue Antonio

Leopardo, 1951

Olio su faesite - cm. 48,9x68,6

50.000 - 70.000

122.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Lilloni Umberto

Vendemmia in giardino, 1940

Olio su compensato - cm. 150x200

18.000 - 22.000

18.000 Pandolfini (FI) - 14/06/2011

Manzoni Piero

Base magica, 1961

Legno, feltro e targhetta metallica - cm. 61x79,5x79,5

150.000 - 200.000

240.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Marini Marino

Piccolo cavaliere, 1946

Scultura in bronzo - cm. 52,5

580.000 - 700.000

600.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Matta Sebastian Echaurren

Assediare il giorno, 1967

Olio su tela - cm. 208,5x208,5

140.000 - 170.00

140.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Migneco Giuseppe

Senza titolo

Olio su tela - cm. 60x80x7,1

Morandi Giorgio

Natura morta, 1960

Olio su tela - cm. 25x30

380.000 - 480.000

400.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

Morandi Giorgio

Natura morta, 1942

Olio su tela - cm. 25x35,5

280.000 - 350.000

280.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Music Antonio Zoran

Cavallo azzurro, 1950

Olio su tela - cm. 59,5x80

120.000 - 180.000

145.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

Paladino Mimmo

Senza titolo, 2001

Olio su tavola - cm. 58x48

Pistoletto Michelangelo

Figura su fondo nero II, 1961 ca

Olio su tela - cm. 170x150

Pomodoro Arnaldo

Tavola dei disegni, 1954

Scultura in bronzo - cm. 45x53x12

Rosai Ottone

Chitarrista, 1927

Olio su tela - cm. 168x118

Rosai Ottone

Teatro di varietà, 1955

Olio su masonite - cm. 50x70

Rotella Mimmo

Idillio in Marocco (Casablanca), 2004 Decollage - cm. 95x125

24.000 - 32.000

Savinio Alberto

Senza titolo - Natura morta con orologio, 1926-27 Olio su tela - cm. 55x46

180.000 - 250.000

200.000 - 280.000

7.000

40.000 120.000 - 180.000 30.000 180.000 - 250.000 30.000

220.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011

7.000 Capitolium (BS) - 13/06/2011

40.000 Poleschi (MI) - 18/05/2011 120.000 Christie's (MI) - 24/05/2011 30.000 Meeting Art (VC) - 18/06/2011 220.000 Farsettiarte (PO) - 28/05/2011 30.000 Meeting Art (VC) - 12/06/2011 Sant'Agostino (TO) 19.000 13/06/2011 180.000 Sotheby's (MI) - 25/05/2011

Senza titolo, 1956

Tecnica mista su cartoncino - cm. 69x104

Scarpitta Salvatore

Mas dos (Dos mas), 1959

Bende e tecnica mista su tavola cm. 74,5x84,5

Spoerri Daniel

Tischfuch, 2009

Scultura-volume - cm. 81,5x50,5

16.000

17.000 Poleschi (MI) - 18/05/2011

Tozzi Mario

Il missile, 1961

Olio su tela - cm. 65x83

35.000

35.000 Meeting Art (VC) - 12/06/2011

Tozzi Mario

Le atlete, 1970

Olio su tela - cm. 92x73

35.000 - 40.000

57.000 Pananti (FI) - 16/06/2011

Uncini Giuseppe

Architetture n. 189, 2005

Cemento e ferro - cm. 76x54,5x12

35.000 - 45.000

Sant'Agostino (TO) 28.000 13/06/2011

Vasarely Victor

Stri-ond-vall, 1974

Acrilico su tavola - cm. 76x76

30.000 - 40.000

38.000 Pandolfini (FI) - 14/06/2011

Vigliaturo Silvio

Angeli e diavoli

Scultura in vetro e oro - cm. 68x21

Zigaina Giuseppe

Donna con carro, 1956

Olio su tela - cm. 60x80

15.000 - 20.000

14.000 Pananti (FI) - 16/06/2011

Senza titolo, 2003

Inchiostri, vernici e tecnica mista su cartoncino - cm. 70x100

25.000 - 35.000

Sant'Agostino (TO) 20.000 13/06/2011

Scanavino Emilio

Zorio Gilberto

24.000 100.000 - 150.000

7.000

24.000 Poleschi (MI) - 19/05/2011 130.000 Christie's (MI) - 24/05/2011

10.200 Iori (PC) - 21/05/2011


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recensioni

MUSeI Abano Terme GALLERIA COMUNALE AL MONTIRONE PAOLO RADI. OLTRE LA PITTURA: PRESENZA TRA MATERIA E LUCE. OPERE 2003-2011 chiusa il 4 settembre 2011 di Chiara Miglietta

Paolo Radi, “Senso interno”, 2011 Una quiete irreale, dove le opere non dominano sulla superficie, ma si amalgamano in un segno fluido, monocromatico, dove non c’è posto per il colore, dove la materia diventa armonica e prende quasi forma organica. “Oltre la pittura: presenza tra materia e luce”, è la personale di Paolo Radi (1966, Roma) presso la Galleria Comunale di Arte Contemporanea al Montironi di Abano Terme, nel padovano. Le due curatrici Antonietta Fioretto e Chiara Vernier presentano la fase più recente della sua ricerca, l’ultima produzione dell’artista dal 2003 al 2011. Trasparenti o opache, le linee sensuali di Radi, mutanti, ibride, non appartengono alla pittura e non definiscono una scultura, ma una leggera appendice dello spazio. La delicatezza della forma scivola, si rigonfia, si allunga, dando luce al nucleo materico, a nuovi spasmi, donando di volta in volta un effetto mutevole di vuoto o pieno a seconda della linea. Col gioco volumetrico delle forme e delle ombre generate, si sviluppano sagome astratte originando silenti percezioni. È il fruitore stesso a percepire l’opera e ad interiorizzarla, con le sue emozioni, le sue sensazioni, attraverso l’illusione ottica e l’esperienza sensoriale che solo la materia può generare, trasformandosi in forme sempre nuove. Dall’acrilico al pvc, dal legno alla resina, sono tutti elementi che l’artista utilizza per plasmare un unicum. Il persplex, più resistente e trasparente del vetro, duttile, plasma-

e

gli

articoli

bile, permette all’artista di creare scrigni sinuosi, auree luminose, alterando così il piano bidimensionale. “Senso interno”, “Abitare l’ombra”, “Vuoto percepito”, “Limite custodito”, “Invisibile”, “Introverso”, sono i titoli delle opere, che descrivono perfettamente il concetto claustrofobico e intimo dell’opera stessa. L’inconsistenza tonale si mimetizza e lascia spazio al concetto, alla sottile e pacata emozione che rende equilibrato l’insieme, senza mai eccedere. Impossibile per Radi, sconfinare nel decorativismo, contiene le sue opere nella sterile architettura, nella luce rarefatta dello spazio e nella elasticità della forma, alla ricerca costante e crescente del rigore estetico attraverso il gioco equilibrato della pittura, della materia e della luce.

Bologna MAMBO - MUSEO D’ARTE MODERNA DI BOLOGNA ZIMMERFREI - CAMPO | LARGO chiusa il 28 Augusto 2011 di Fulvio Chimento Il Mambo di Bologna accoglie la prima mostra istituzionale del gruppo ZimmerFrei, evento curato da Stefano Chiodi. Le opere, realizzate appositamente per il museo bolognese. I lavori testimoniano la multiforme attività del gruppo formato nel 2000 da Massimo Carozzi, Anna de Manincor e Anna Rispoli: video, installazioni, ambienti sonori, fotogra-

ZimmerFrei, “Tomorrow in the question”, (2009-2010). Installazione: serie di 12 stampe digitali montate su legno. Countesy: Monitor, Roma fie, dispositivi ottici e luminosi compongono le tappe di un’esplorazione del paesaggio naturale, della città – dai centri storici alle periferie – e dell’universo sociale contemporaneo, in cui vengono individuati di volta in volta luoghi, immagini, narrazioni, tonalità emotive inattese, in un percorso articolato in modo chiaro e leggibile. ZimmerFrei si immerge nel presente per portarne alla luce la com-

di

attualità

su

www.teknemedia.net

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plessità, le zone d’ombra, le stratificazioni di tempi e spazi, le storie e la potenza simbolica che lo abita. La mostra è annunciata all’esterno da un’insegna al neon che gioca sul nome del gruppo (“stanze libere” in tedesco): un invito alla scoperta, grazie a uno spioncino che consente agli spettatori di sbirciare dentro il museo. All’ingresso, quattro monitor trasmettono altrettanti video della serie "Panorama": Roma, Bologna, Atene, Harburg, sono le città di cui le immagini ci offrono una visione inconsueta e suggestiva, grazie al particolare metodo di ripresa time-lapse con il quale è possibile ‘comprimere’ in pochi minuti un’intera giornata. Nell'ambiente centrale del Mambo una grande rete è sospesa a mezz'aria, mentre la luce di alcuni riflettori ne proietta a terra l'ombra, costituendo un reticolo cartografico che allude a un territorio segreto. La rete, secondo quanto afferma il curatore Stefano Chiodi, "diventa un dispositivo per rimodulare lo spazio, per smaterializzarlo, per trattenere nelle sue maglie il paesaggio che si genera al suo interno". Una mostra sul paesaggio appunto, ma non solo esteriore: la rete rappresenta l'interiorità, il ritorno a casa dopo il viaggio nelle altre sale del museo, il luogo da cui le percezioni hanno origine e senso. Il percorso prosegue con "LKN Confidential", un film documentario di 40 minuti, girato in una strada di Bruxelles: rue de Laeken/Lakensestraat. La telecamera mette in evidenza la decadenza commerciale di questo spazio urbano che, conclusa la belle époque degli anni Sessanta, sembra essersi assestato in un tempo lento in cui convivono botteghe tradizionali, prostitute, spacciatori, negozi per collezionisti. L'opera indaga il paesaggio dei retrobottega degli esercizi commerciali, il film entra ed esce da questi luoghi privati chiedendosi cosa resti della vita dei personaggi una volta terminato il loro lavoro. Il percorso prosegue con alcuni lavori fotografici, tra cui due gruppi di immagini che i visitatori possono disporre in sequenza libera. Il primo, intitolato "Tomorrow is the question" (2009-2010) è stato realizzato a Coney Island, sulla spiaggia di Brooklyn, all'estremo sud di New York, di fronte alle architetture fantastiche di un vecchio Luna Park. Viene qui ritratta una famiglia della comunità ebraica Chabad-Lubavitch: un giovane padre con camicia e cappello d'altri tempi, i figli che giocano sul bagnasciuga o appesi al collo di una giovane madre che vaga sulla spiaggia accanto a un'altra figura dal viso dipinto come un imperscrutabile Joker. Vengono qui indagati i confini estremi della

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città, che attraverso la decadenza delle architetture mette in scena una civiltà ormai al tramonto. Significato simile anche per la seconda serie di fotografie, scattate alla periferia di Roma, dal titolo "I giorni del cane" (2007-2011). I lavori propongono una sorta di "pastorale": terra, cielo, cani, gatti, pecore, abusivismo edilizio. Il padrone del gregge sorveglia dalla sua macchina blindata i pastori moldavi che accudiscono le bestie. È un mondo che si evolve senza regole, in cui l'elemento naturale diventa marginale, relegato in disparte, fino a venire assorbito dal caos generato dall'uomo contemporaneo, e a cui neanche l'immagine riesce a restituire un ruolo dominante. La mostra termina con "Fino all'orlo colmi di figure" (2006-2011), opera collocata su un supporto semovibile che presenta sui due lati l'immagine di un gregge che bruca accanto a un uomo sdraiato di cui si vede solo parte del corpo. Le foto sono state scattate in Barbagia, durante la residenza di ZimmerFrei al Museo Man di Nuoro nel 2006. Il carrello arriva al Mambo in versione ingigantita, sotto forma di cartellonistica ambulante, "feretro diretto verso una destinazione ancora ignota", come scrive il curatore. "campo | largo" è una mostra che indaga il nostro sguardo esteriore, e che ha come oggetto d'analisi l'osservatore: l'artista stesso nel momento in cui si rapporta al mondo del visibile. I luoghi scelti e le prospettive delle città rappresentate hanno in comune un forte senso di desolazione. L'assenza di un centro sembrerebbe implicare l'estensione estrema verso un confine possibile: la poetica dell'abbandono in questo caso non determina appigli consolatori, ma mette in luce divergenze e devastazioni barbaricamente umane. Il paesaggio colto ai margini denuncia la conclamata assenza di una visione pura, nel mondo esteriore quanto sulla retina di chi quotidianamente lo osserva. Il campo largo trasforma l'artista in un osservatore neutrale del mondo, e questa assenza di giudizio che prelude all'apatia, è una delle caratteristiche maggiormente indicative dell'uomo contemporaneo.

Gallarate MAGA - MUSEO D’ARTE DI GALLARATE ROBERTO FLOREANI - ALCHEMICA fino al 25 settembre 2011 di Laura Luppi Presso lo spazio del Museo MAGA di Gallarate (Va) è in corso la personale di Roberto Floreani dal titolo “Alchemica”. Il termine adottato per la sintesi concettuale del progetto espositivo non deve ingannare,


perché non vi è nulla di esoterico nella ricerca pittorica anteposta alla sua realizzazione, ma una sorta di presentazione di un percorso finalizzato alla creazione di un mondo estetico dalle forti valenze spirituali. Una spiritualità questa che non può prescindere però dal sostrato materiale costituito dalla tela e dai colori utilizzati per il compimento dell’intento metafisico, oltre che fisico, a fondamento dell’arte stessa. Un binomio ben lontano dall’accezione dicotomica tradizionale se si considera la cultura orientale a cui Floreani si è avvicinato sin dalla giovane età e da cui attinge costantemente per la sua condotta di vita. Le arti marziali, discipline volte alla conciliazione del corpo e della mente, soggiacciono infatti in ogni opera della sua personale produzione e di quella elaborata per allestire le sale del Maga, senza mai dimenticare la componente occidentale di pertinenza natale. Occidente e Oriente in un incontro segnico sancito dalla circolarità, cardine dell’impresa stessa. Il cerchio non come simbolo ma come forma, la cui valenza rimanda inevitabilmente all’energia cosmica, all’armonia del creato oltre alla continuità del tempo concepito non in senso lineare ma ciclico, alla fluidità di una geometria che non identifica un inizio e una fine, ma sancisce un eterno movimento rotatorio privo di ogni impedimento. Questo elemento per così dire primordiale, timbro peculia-

prio dal tema della circolarità, di forte impatto visivo fin dal suo immediato concedersi nel trittico di grandi dimensioni “Aurora Occidentale – La materia e il mago”, posta di fronte all’ingresso della prima sala. L’opera in questione, il cui titolo si ricollega a un precedente lavoro del 1983, è parte integrante della sezione dedicata alla serie ideata per la personale allestita presso il Padiglione Italia della 53ma Biennale di Venezia (2009), curata da Luca Beatrice. ‘Aurora’ intesa come nuova fase feconda per coniugare energia e creatività, ascolto e azione, comprensione dell’essere e interazione con esso. ‘Occidentale’ il retroterra di cui è innegabile il legame culturale ma anche letterario a cui ispirarsi. La letteratura europea infatti occupa un ruolo privilegiato nella formazione educativa e culturale di Floreani, sulla quale dirige riflessioni individuali confrontandosi con autori come Filippo Tommaso Marinetti ed Ezra Pound, oltre a filosofi come Nietzsche, Heidegger e Rilke. Letture fertili da cui ricavare tracce di vissuto condiviso per approdare in sensazioni, emozioni, paure, problematiche per mezzo delle quali adottare poi soluzioni pragmatiche. Il pensiero come centro di un corpo in relazione con un mondo esterno da cui carpire stimoli, immagini, iterazioni, accumulando inevitabilmente ricordi. La memoria, fondamento e compimento dell’individuo nel suo rapportarsi a sé e a agli altri; il pensiero, luogo del suo manifestarsi. Il concatenarsi di elementi geometrici fluttuanti in uno spazio eterico quasi ieratico, circoscritto da fondi neutri a volte chiari e a volte scuri, riporta lo spettatore in una sorta di campo immateriale della meditazione, di ascolto privo di parole, figurazioni, suoni. Il ritmo della scena è interrotto a tratti da segmenti rettangolari Roberto Floreani, “Alchemico VII° (zebrano)”, 2011 di colore arancio per le opere più note concentrate nella terza seziore dell’artista di origini veneziane, ne, e di un acceso magenta (definito riconduce inevitabilmente a quel ‘alchemico’) per i 12 lavori appositadivenire dell’essere a cui il mutamen- mente studiati per la personale al to si antepone fondendosi con l’atto MAGA, raggruppati nella seconda creativo, demiurgico, diciamo pure sezione. Comune denominatore resta alchemico. Un’alchimia non legata a il nero, steso nelle primissime fasi di una pratica magica dunque, bensì sovrapposizioni fluide e celato dalle concreta, fisica, reale, appartenente al successive cromie in un continuo mondo sensibile da cui Floreani rac- togliere e mettere, nascondere e svecoglie gli ingredienti per la produzio- lare. Materia solida e materia liquida ne artigianale di una gamma di colori non sono poli opposti dell’evoluzione ricavata con la tecnica rinascimentale del processo demiurgico di Floreani, della manipolazione delle terre secon- ma elementi in perpetuo dialogo di do una manualità dalle connotazioni cui l’uno costituisce il motivo d’essere quasi rituali. La metodica illustrata dell’altro in perfetta sintonia con la nella videoproiezione curata da concezione orientale della compleGIART, e fruibile nell’ultimo spazio mentarietà delle forze Yin e Yang, da dedicato alla personale, svela un’in- cui scaturisce il perfetto equilibrio nata predisposizione dell’artista verso universale, quello stesso equilibrio il fare nel senso più appropriato del auspicato nella composizione formale termine. Vicino alla tradizione conta- delle tele. Ancora Oriente, ancora dina propria delle zone di provenien- Occidente, le cui tracce si rivelano nel za nonché teatro della sua infanzia, background storico-artistico cui Roberto Floreani si relaziona alla tela Floreani si sente più legato, quello come fosse terra fertile per la molte- delle correnti d’avanguardia dei primi plice stratificazione di componenti del Novecento tra cui la Scuola del liquide, stese e lasciate colare al fine Bauhaus e la corrente futuristica itadi far affiorare ciò che permane all’o- liana. Più affine al dinamismo di rigine, le forme concentriche princi- Umberto Boccioni e Giacomo Balla pio e compimento dell’intera pratica rispetto alla staticità e per certi versi artistica. Le 27 opere presenti in rigida compostezza di Kandinskij. mostra e suddivise in tre spazi esposi- Un’astrazione che nella sintesi del tivi tra loro collegati, sono infatti segno non toglie intensità comunicacaratterizzate nella loro essenza pro- tiva ma aggiunge vigore espressivo

alla materia plasmata. Da “Moresco Alchemico” (2010-2011) a “Candido Alchemico” (2010-2011) la successione dei formati verticali compensa l’alternanza di quelli orizzontali di “Concentrico (Mitomacchina)” (2006) e “Alchemico VII (Zebrano)” (2011), razionalizzando le pareti espositive e donando bilanciamento all’atmosfera di insieme. Le formelle a rilievo di terracotta e ceramica, assolute anteprime della mostra, completano il viaggio esplorativo nell’intimità di Roberto Floreani, la cui ambizione artistica spinge l’introspezione umana dalla funzione autoreferenziale all’indagine dell’anima entro e oltre i confini del tangibile.

Milano PAC- PADIGLIONE D’ARTE CONTEMPORANEA MATERIA PRIMA. RUSSKOE BEDNOE - “L’ARTE POVERA” IN RUSSIA fino all’11 Septembere 2011 di Francesca Caputo

ideologiche e di radicale protesta, in questo senso “[…] il loro gesto è stata una rinuncia consapevole. Contro il prevalere del glamour, del kitsch e del lusso, l’artista sceglie materiali e forme grezze”, sottolinea Guelman. Al contrario, continua il curatore, “Russkoe Bednoe ha avuto inizio perché gli artisti russi, che non avevano possibilità, né tecniche, né materiali paragonabili a quelle che avevano gli artisti in occidente, si sono resi conto di quanto fosse ricca la natura dei materiali poveri; ne hanno scoperto la bellezza, la possibilità della protesta, la tradizione, l’ascetismo. E hanno colto, mi sembra, l’identità russa”. La scelta di materiali poco costosi e di recupero, in questi artisti russi, è stata piuttosto dettata dalle necessità reali di reperire altrimenti la materia per il fare artistico, poiché le radici storiche del loro lavoro affondano negli anni delle privazione e degli sconvolgimenti sociali, che sono divenuti elementi portanti delle loro opere che indagano il precario equilibrio tra la natura, e gli sconfinati paesaggi della Russia e lo sviluppo tecnologico, sovente incontrollato. Ad accogliere il visitatore, nel cortile del PAC, sono le due installazioni lignee di Nikolay Polissky (che continuano al piano superiore con le foto delle installazioni di Polissky nei villaggi russi), formate da impalcature ed enormi ingranaggi di Legno, realizzati dall’artista in collaborazione con gli abitanti di piccoli villaggi russi semi-abbandonati che, grazie a un’arte pubblica collaborativa e relazionale, sono reintegrati nella società. Con loro Polissky costruisce torri di viti, palazzi con legna da ardere, piramidi di fieno che sfidano la vastità del paesaggio russo. Sempre nel cortile esterno del PAC, spicca l’installazione di Aleksandr Brodsky, “Rotunda” (2010), tra i più noti e affermati artisti russi del nostro tempo, è un edificio sferico in legno, completamente bianco, una casa senza mura, sostituita da tante porte – assemblate da vecchie porte recuperate dal Museo di Perm - che la rendono vulnerabile e insieme accogliente, simile a un tempio. Brodsky crea

Una ricognizione importante per la comprensione degli sviluppi dell’arte contemporanea in Russia, a partire dalla seconda metà del XX secolo, è in scena fino all’11 settembre 2011 al PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano), nell’anno dedicato allo scambio culturale Italia-Russia. L’occasione per esplorare gli universi visivi e i mondi creativi di 23 artisti contemporanei, tra le figure più importanti della vivace scena russa, è offerta dalla mostra collettiva “Materia prima. Russkoe Bednoe – ‘l'arte povera’ in Russia”, curata da Marat Guelman (in passato potente mecenate di una delle prime e più note gallerie della Russia postsovietica e oggi direttore del Museo di Perm). Un viaggio, attraverso un centinaio di opere, che declinano con modalità differenti – dall’installazione alla scultura, alla video arte, dalla pittura alla fotografia, tra cui un omaggio al fotografo Aleksandr Sljusarev e alla sua visione metafisica, recentemente scomparso – il tema fondante dell’esposizione, ovvero l’utilizzo di materiali semplici, spesso materie prime di cui è ricca la Russia, come il petrolio, il legno, il carbone e il ferro, ma anche materiali trovati, desueti, riciclati, che gli artisti interrogano per annullare le nette demarcazioni esistenti tra artificiale e naturaAleksandr Brodsky, “Organetto” 2006 le, allacciando un dialogo con gli elementi primari, facilmente reperibili ed eco- malinconiche metafore della realtà nomici. È questo il dato che accomu- contemporanea e il destino dell’uomo na artisti differenti per generazione e moderno, in cui sovente predomina il poetica, riunti in una delle antologi- senso di perdita come nelle sculture che fondamentali dell’arte russa degli di argilla cruda esposte in mostra su ultimi venti anni. Come allude il sot- cui applica videoproiezioni: “Furgone totitolo della mostra, vi è in questi psichedelico”, dal progetto artisti così eterogenei la scelta di lavo- Futurofobia 1997/2008; “Organetto” rare con materiali poveri. Ma, come (2006), con una distesa sconfinata e evidenziato dal curatore, sostanziali desolante di grigi palazzoni in cemensono le differenze con il movimento to, che ricordano case popolari in italiano dell’Arte Povera. cemento dell’ex Unione Sovietica e Innanzitutto perché non fanno parte allo stesso tempo la metafora di una di una tendenza unitaria, formalizzata qualsiasi megalopoli avvolta nella da uno specifico manifesto, ma solitudine invernale, ma non appena soprattutto a essere antitetiche sono il fruitore interagisce con l’opera, le istanze che hanno spinto gli artisti girando la manovella, la neve inizia a russi all’utilizzo di materiali poveri. cadere fitta e si sente una melodia, Negli anni Settanta, infatti, gli artisti così che la città di cemento appare italiani furono guidati da motivazioni come una visione in uno scrigno


magico e la città si accende di nostalgia struggente. La stessa capacità di raccontare, con una speciale intonazione, la perdita del passato e la capacità di raccoglierne i resti per trovarvi l’armonia, si ritrova in “Il penultimo giorno di Pompei” (1997) e nei light boxes della serie Finestre e Fabbriche (2009), in legno, vetro, tempera. Oltre a Brodsky, sono presenti anche altri maestri russi come Anatoly Osmolovsky che trasfigura il legno delle icone russe in monumentali fette di pane nero; nella serie “Pane” del 2007-2008 (il cui polittico era presente a Documenta di Kassel nel 2007). Le opere degli artisti affermati dialogano con quelle dei giovani, tutti uniti dalla personale declinazione e strutturazione della materia. Dalle calde trasparenze del sapone nella Stanza d’ambra (2010) del Mylo Group, alla fauna di scheletri di animali creati con vecchi utensili recuperati dal duo di Olga & Aleksndr Florensky, coppia con base a San

Antonio Nunziante, “Visione” Pietroburgo, dai pneumatici che modellano gli oggetti e i teschi di Vladimir Kozin, alla “Scatola musicale” (2008) semplice box di legno di Yury Shabelnikov (2008), da cui si diffonde una toccante melodia fino a Resycle con “Il vento in testa” (2008), un fungo atomico in polietilene entro un pallone trasparente che ricorda il profilo di un volto, a testimoniare l’insensatezza dell’uomo. Merita di essere ricordato, per la straordinaria suggestione che è capace di evocare, l’opera il “Tritacinema” (2004) di Sergey Teterin, che offre allo spettatore una performance multimediale, in cui ruotando un vecchio tritacarne sovietico con cui il fruitore può ‘macinare’ una selezione di vecchie pellicole dei fratelli Lumière, frammentandole e ricomponendole attraverso la velocità data alle sequenza. Invece con le sue videoproiezioni entro tre scatoloni di cartone, c'è chi combatte un incontro di pugilato, chi si lamenta con chi lo guarda perché vuole uscire, chi si riduce agli impulsi primari defecando, mangiando e accoppiandosi. La ricognizione dell’arte contemporanea russa presentata al PAC, offre uno spaccato dell’ampia gamma di idee artistiche sviluppatesi nell’ex Unione Sovietica, il cui spessore è stato premiato alla Terza Biennale d’Arte Contemporanea di Mosca (settembre 2009). L’ampia antologica “Russkoe Bednoe” dopo aver inaugurato nel 2008 Museo d’Arte Contemporanea di Perm ha riscosso ampio consenso internazionale: una selezione di opere è stata ospitata al Grand Palais di Parigi nel giugno 2010 e, dopo l’esposizione al PAC di Milano, sarà esposta al PS1 del MoMA di New York.

Roma CHIOSTRODELBRAMANTE ANTONIO NUNZIANTE VISIONE ULTERIORE

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chiusa il 31 luglio 2011 di Matteo Antonaci Si intitola “La Visione Ulteriore” la mostra che il Chiostro del Bramante di Roma, dal 30 Giugno al 31 Luglio, dedica ad Antonio Nunziante. Curata da Giovanni Faccenda, la mostra ospita un’importante selezione di opere del pittore affiancandole a lavori inediti realizzati per l’occasione. Reduce della recente rinuncia alla partecipazione nell’attuale Biennale di Venezia e dopo i successi ottenuti con le mostre “Dal Caravaggio e Böcklin, De Chirico, Nunziante”, il pittore cinquantenne, formatosi tra Torino e Firenze, torna ad indagare i suoi temi più cari articolandoli, attraverso il linguaggio pittorico, nel recupero nostalgico di una ‘bellezza’ formale a cui l’arte contemporanea sembra aver rinunciato da tempo. Da qui il richiamo costante ai grandi artisti del passato (dai già citati Caravaggio, Böcklin e De Chirico, per arrivare ad Hopper e Dalì) di cui le opere esposte sembrano essere incarnazione. Meta-pittura, forse, ovvero riflessione sul linguaggio pittorico e sulle possibilità della visione che caratterizzano tale sintassi. Come scrive il critico d’arte Antonio Paolucci, Nunziante utilizza “la lingua che gli hanno consegnato le accademie, i libri, i musei, e che ha approfondito, sperimentato, perfezionato nel suo lavoro, fino a farla propria, fino a padroneggiarla come una lingua madre, fino a trasformarla nel suo modus-operandi”. Paesaggi immaginari e onirici, piccole stanze in cui ombre dialogano silenziosamente con l’architettura di finestre e la bianchezza di tele lasciate essiccare al sole (“Dialoghi Silenziosi”). La luce, sempre intensa, avvolge gli elementi galleggianti nello spazio della tela, ne sospende il movimento elevandoli in una dimensione eterea e sognante. In “Visione Ulteriore”, l’opera che dà il titolo alla mostra, le onde crespe del mare accolgono una piccola barca, che, immobile, guarda sullo sfondo una torre luminosa, circondata da vortici di grigia nebbia, nella cui pietra sembra custodito un universo mortale ma paradisiaco: pioppi, acque chiare che scorrono rapide, come fonte di vita. Citazione esplicita de “L’isola dei Morti” di Böcklin, la torre appare, dunque, come quel punto prospettico in cui convergono vita e morte, immaginazione e bellezza. Immobile, la barca, chiazza di vernice su cui viaggia l’artista, indica un percorso senza possibilità di evoluzione temporale, paralizzato dalla contemplazione (di un passato irraggiungibile o inetto a significare nella contemporaneità?). Non a caso l’isola dei morti e la pittura di Böcklin, alla quale Nunziante somma venature surrealiste, ed elementi romantici, ritorna imponente nella maggior parte delle opere esposte. Appare su tele ritratte immobili all’interno di enormi e vuote sale di musei (“Mistero al crepuscolo”), in cui riecheggia il silenzio e nelle quali l’artista stesso si ritrae in un dialogo costante tra presente, passato e futuro. La necessità contemplativa (artistica, naturale, metafisica), fil rouge nelle opere dell’artista, si manifesta attraverso il continuo richiamo di una

bellezza tecnica, votata alla classicità e ad antichi valori offuscati da nebbie ma ricercati continuamente dai fasci di luce. In questa ricerca, nel bisogno di quella sospensione del tempo utile alle necessità dello sguardo, si colloca la pittura e l’opera dell’artista, l’immaginario storico (o storicizzato), nascosto dalle macerie del tempo, è riportato a galla e riutilizzato attraverso un lirismo atto ad analizzare le motivazioni della propria stessa azione artistica.

Roma GNAM - GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA GIACINTO CERONE 1957-2004 fino al 23 ottobre 2011 di Marianna Dell’Aquila Tra le grandi mostre romane che caratterizzano la programmazione artistica del 2011 nella Capitale, emerge (e non con poca forza) la prima retrospettiva dedicata allo scultore italiano Giacinto Cerone alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Aperta fino al 24 ottobre 2011, la mostra offre al pubblico la raccolta di sculture realizzate dall’artista dal 1957 al 2004. Disposte nei saloni centrali della Gnam, le opere offrono nel loro insieme un quadro generale, ma dettagliato, dello stile dello scultore melfitano. Uno stile difficilmente collocabile all’interno di movimento artistico o di qualche corrente intellettuale, ma che mostra quanto Giacinto Cerone fosse affascinato soprattutto dalle mille potenzialità dei materiali e dalla possibilità di plasmarli testandone tutte le possibili combinazioni. La sperimentazione attuata da Cerone nella creazione delle sue sculture non si limita alla ricerca dei materiali, ma si estende alla ricerca di nuovi metodi e nuove possibilità di lavorazione, approdando anche a modalità piuttosto inusuali. La mostra dunque si compone di molte opere realizzate dallo scultore in gesso, legno e marmo. Tra le decine di scultore in esposizione tuttavia risaltano (anche ad occhi meno esperti) quelle in plastica, la cui forza visiva ed emotiva non risiede solo nelle forme assolutamente inusuali, ma anche nei colori. L’impatto più impressionante si ha soprattutto con le sculture realizzate in moplen, un derivato della plastica che Giacinto Cerone utilizzò soprattutto negli anni Settanta. Sfruttando la malleabilità del materiale sottoposto a surriscaldamento, lo scultore ne studiò tutte le possibilità di modellamento e deformazione arrivando a creare delle forme assolutamente originali e fuori da ogni schema accademico. L’allestimento dedicato al maestro è caratterizzato anche dall’alternanza tra sculture di piccole dimensioni, come quelle in ceramica della serie “Soffincielo” e di “Fiumi del Vietnam”, a quelle enormi realizzate negli anni Ottanta. Si tratta di un ciclo di opere in legno e gesso appartenenti al cicli “Calici piangenti”. Alla base dello studio di questi materiali e delle loro possibilità di modellazione c’è soprattutto la volontà dello scultore non solo di dichiarare un certo richiamo alle colonne classiche, ma soprattutto di affrontare un discorso approfondito sul rapporto tra la scultura e lo spazio in cui essa è inserita. Ancora gesso nelle opere dei cicli “Santi contrari”, mentre la ceramica è di nuovo protagonista in “Tappeti”, un ciclo di sculture che riprendono le forme di alcuni vegetali come le spighe e i carciofi. La mostra Giacinto Cerone 1957-2004 si

inserisce nel programma dedicato alle monografie dei grandi artisti italiani già da tempo avviato dalla Gnam. Proprio in questa prospettiva, il lavoro di ricerca e di approfondimento su Giacinto Cerone si arricchisce ancora di più di significato perché si avvale del contributo dell’Archivio Giacinto Cerone (da sempre impegnato nella valorizzazione e nella promozione dell’opera dello scultore), ma anche del sostegno di galleristi, amici e collezionisti, che hanno voluto rendere omaggio all’artista. Ma la Gnam questa estate offre al pubblico anche un’altra occasione imperdibile per immergersi nella grande arte italiana. Infatti sarà aperto fino al 23 ottobre 2011 il secondo appuntamento con “Attraverso le collezioni della Grandi Nuclei Arte Moderna”. In mostra, per la prima volta integralmente, troviamo le opere presenti negli archivi della Gnam di Giacomo Balla, Filippo De Pisis, Mario Mafai, Arturo Martini, Roberto Melli, Giorgio Morandi, Pino Pascali, Enrico Prampolini, Antonietta Raphael, Medardo Rosso e Mario Sironi. La Gnam infatti prosegue con il secondo appuntamento dedicato all’esposizione delle opere di sua proprietà che per motivi logistici di solito non hanno spazio nelle esposizioni permanenti. Ma la grande ricchezza di questa seconda parte dell’esposizione sta soprattutto nella possibilità di visionare non solo le opere complete dei grandi artisti italiani, ma soprattutto i disegni, i bozzetti e le stampe che documentano l’evoluzione e la ricerca artistica di ognuno di essi. Un’occasione unica e speciale per attraversare le circa dieci sale della galleria d’Arte Moderna e osservare quelle che sembrano a tutti gli effetti delle piccole retrospettive dedicate ai grandi maestri italiani. Colpisce su tutte la raccolta delle opere di Giacomo Balla al quale sono state dedicate circa due sale del piano superiore. “Espansionismo dinamica velocità” e “Trasformazione forme spiriti” sono tra le opere più affascinanti del grande maestro futurista.

Roma MAXXI EXPANDED VIDEO chiusa il 5 giugno 2011 di Marianna De Padova Expanded video è il titolo dell’evento che per la prima volta presenta in Italia opere di Jacob TV, Masbedo, Martha Colburn e People Like Us (aka Vicki Bennett). Sede della mostra espositiva è il Maxxi di Roma; mentre le perfomance musicali sono ospitate presso l’Auditorium Parco della Musica. Il video è al centro dei filoni narrativi proposti e il gioco d’interpretazione del nome dell’esposizione è evocativo di un processo di comunicazione visiva: “Expanded video”, espandendosi nel video o espandersi del video: l’esperienza che lo spettatore vivrà è annunciata, sia che esso si senta avvolto nel video espanso, sia che consideri il video come una nuova finestra aperta sul mondo. In entrambi i casi il punto fermo sembra essere sempre lo stesso: l’esperienza ‘astratta’ nel fruire la singola opera, che però non rifugge dalla realtà. Una realtà che non prescinde dalla politica, dal sociale e dall’economia del mondo contemporaneo, con le sue contraddizioni e problematiche. Con linguaggi espressivi diversi, gli artisti danno la propria interpretazione, così che l’esperienza ‘astratta’ dello spettatore si


trasformi in un momento di riflessione molto concreto. Particolarità di questo evento, infatti, è la contaminazione o meglio fusione, tra l’arte musicale e quella visiva. Un incontro in cui lo spettatore trova nei due medium d’arte (video e musica) un punto d’incontro, in cui l’immagine visiva si fonde alla musica, che non solo è descrittiva dell’opera, ma la compenetra, completandola. Il ritmo serrato del fluire della storia, raccontato dai media senza pietà, seguendo solo le leggi della comunicazione spettacolo, è alla base del lavoro di Jacob TV, The News, a reality opera. Qui al Maxxi è rappresentata in anteprima una selezione dell’opera che nel 2012 sarà presentata all’Andy Warhol Museum di Pittsburgh. The News, a reality opera, parte dal 2001 e raccoglie alcune tra le immagini più significative passate dai media in questi dieci anni. Un lavoro che non solo ci parla di comunicazione, ma anche di storia, di eventi, che quindi ci appartengono e che hanno contribuito a creare la realtà in cui viviamo. Stesso filone anche per Martha Colburn, con “Dolls VS Dictators”, che però si focalizza sul materiale che documenta l’uccisione di dittatori nel corso della storia. Ma non si tratta di un racconto di pura documentazione, ma di una contaminazione visionaria, in cui la tecnica dello stop-motion inserisce bambole e marionette; ne nasce uno scenario surreale, in cui lo spettatore perde il senso della realtà, domandandosi se quelle bambole non siano una rappresentazione neanche troppo velata dell’impossibilità dell’uomo comune d’interagire con i grandi eventi della storia. Ma la storia non è il solo punto focale con cui Martha Colburn racconta il nostro tempo: in “Cosmetic Emergency”, l’artista si chiede come e perché la nostra società sia tanto ossessionata dall’apparenza, dall’essere belli, dall’immagine che gli altri devono avere di noi. E’ una risposta indagatoria la sua, composta come un puzzle palpitante di immagini tratte da vecchi film, documentari e dipinti che raccontano l’idea della bellezza per codificare una risposta univoca. Non la frenesia della bellezza, ma il rapporto tra uomo e donna, che pure risente fortemente di questa ossessione - è alla base del lavoro di Masbedo, “Teorema di incompletez-

Giacinto Cerone, “Maára” za”. Eternamente in conflitto, uomini e donne, ma stretti in un indissolubile rapporto d’interdipendenza; un rapporto che nel nostro mondo contemporaneo è vittima dell’assenza d’intimità. Un tavolo con oggetti in vetro abbandonati, rotti da grida e spari, in una Islanda di sfondo. La scelta di questa terra come scenario non è casuale: terra di contrasti forti, solo il rispetto delle regole e dei limiti vi mantiene l’equilibrio, un equilibrio che qui viene rotto dagli spari. Anche

l’opera del musicista People Like Us, “Live Excerpts”, prende spunto da film, documentari o immagini d’archivio, che vengono scomposte e ricomposte, stravolgendo gli schemi narrativi cinematografici a cui siamo abituati. Nell’opera sono presenti cinque brani musicali live, tratti dalla principale discografia dell’artista.

Venezia PEGGY GUGGENHEIM COLLECTIONS ILEANA SONNABEND RITRATTO ITALIANO

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fino al 2 ottobre 2011 di Angiolina Polimeni A Venezia è protagonista l'arte contemporanea. Ad inaugurare l’importante stagione espositiva veneziana ed in diretta contemporanea con la Biennale, la Fondazione Guggenheim con sede presso la Cà Venier dei Leoni, ospita fino al 2 ottobre la mostra: “Ileana Sonnabend, un ritratto italiano”. La mostra, il cui filo conduttore è l'Italia vista dagli occhi degli artisti sostenuti dalla ‘più grande gallerista del XX secolo’, è stata organizzata dal direttore della Sonnabend Gallery di New York e figlio adottivo della stessa Ileana, Antonio Homem e dal direttore della Collezione Peggy Guggenheim, Philip Rylands. La scenografia entro la quale si muove l’esposizione è la casa di un’altra celebre donna dell’arte contemporanea, l’estrosa collezionista americana Peggy Guggenheim che sino alla sua morte visse in questo splendido palazzo settecentesco che ha accompagnato le sorti della nota famiglia di dogi e procuratori Venier e della marchesa Luisa Casati, musa di importanti artisti ed intellettuali del secolo scorso. La mostra si concentra su una serie di lavori di artisti italiani ed internazionali, appartenenti alla complessa e vasta Collezione Sonnabend, la cui arte rimanda alla cultura, alle tradizioni ed ai paesaggi d’Italia. Trait d’union è la grande passione di Ileana Sonnabend per il bel paese, espresso nel corso di un’intera vita dedicata al collezionismo. Attraversando le sale della Fondazione si possono infatti ammirare circa sessantadue opere: dipinti, sculture, fotografie ed installazioni appartenenti a quarantasette grandi maestri scoperti precocemente da Ileana. A diretto confronto vi sono le avanguardie italiane degli anni Sessanta, dalla Scuola di Roma all’Arte Povera di Giovanni Anselmo, Calzolari, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio ma anche esponenti della Pop Art italiana quali Tano Festa e Mario Schifano, senza dimenticare Lucio Fontana, Piero Manzoni, Luigi Ontani e Mimmo Rotella. In questo lungo elenco non mancano artisti americani quali Jim Dine, Koons, Lichtenstein, Morris, James Rosenquist, Cy Twombly e fotografi internazionali come Bernd e Hilla Becher, Candida Höfer e Hiroshi Sugimoto. Un singolare e ricchissimo insieme di lavori di altissimo livello direttamente legati al nostro paese come accade con l’opera di Robert Rauschenberg e Bruce Nauman mentre Robbins o Anselm Kiefer trascrivono profonde suggestioni derivanti dalla complessità di questa terra che ispira anche John Baldessari, Philip Haas e Rona Pondick. Durante quest’interessante visita si può incontrare il dipinto dal quale deriva il logo prescelto per l’esposizione: il ritratto-

icona della gallerista realizzato da Andy Warhol nel 1973, un’opera che consegna alla nostra memoria il volto di una sorridente donna matura la cui vivacità intellettuale traspare da un intenso sguardo. Ribattezzata dai media, ‘Regina dell’Arte’, Ileana Sonnabend è nata a Bucarest nel 1914 da una ricca e influente famiglia. Il padre, importante uomo d’affari e consigliere del Re Carlo II di Romania, ha trasmesso alla figlia un profondo amore per la cultura consentendole di seguire liberamente i suoi più profondi interessi che si muovevano verso l’arte classica, in particolare italiana; interesse successivamente rivolto verso ogni forma di espressione artistica a lei contemporanea seguita con una profonda attenzione anti-dogmatica. Giovanissima compagna diciassettenne del triestino Leo Castelli, al quale chiede un Matisse al posto dell’anello di fidanzamento; nel 1935 si trasferisce con il marito a Parigi ed apre una galleria d'arte insieme a René Drouin. Emigrati a New York nel 1941, Ileana diviene abituale frequentatrice, insieme a Castelli, della casa-museo di Peggy Guggenheim da loro considerata una donna sensazionale, capace di segnare indelebilmente il corso della storia dell’arte. Negli anni Cinquanta e Sessanta iniziano a collezionare opere dell’olandese Piet Mondrian e dell’action painter Jackson Pollock. Al 1957 risale invece il folgorante esordio della loro prima galleria a New York ove espongono lavori appartenenti a Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes

quale espressione artistica indipendente, non più condizionata ed influenzata dai movimenti europei. Nel 1971 decide di trasferire la sua galleria newyorkese nel quartiere di Soho: una scelta che evidenzia la sua influenza ed il suo potere nell’arte contemporanea poiché genera una specie di migrazione del mondo dell’arte. “Singing Sculpture” fu la performance degli inglesi Gilbert&Gorge che la gallerista sceglie per inaugurare il nuovo spazio espositivo. A Ileana Sonnabend, morta nella città di New York il 24 ottobre del 2007 va il merito di aver consacrato l’espressionismo astratto alla storia, collezionando l’arte emergente del suo tempo senza alcun pregiudizio, caratteristica che le consentì di muoversi senza difficoltà tra Arte Concettuale, Arte Povera, Minimalismo, performance, NeoEspressionismo, Neo-Geo, Transavanguardia e nuova fotografia. Oggi, questa mostra, ne consacra la grandezza. Bisogna ricordare che, a rendere tangibile il profondo amore che nutrì verso l’Italia, vi sono le donazioni per gli spazi museali del Mart di Trento e Rovereto e del Madre di Napoli, formato da più di quaranta opere in comodato a tempo indeterminato derivate dalla sua eccezionale collezione.

FOndAzIOnI Milano FONDAZIONE STELLINE RAMIRO. REALTÀ DI DUE MONDI chiusa il 2 luglio 20011 di Aurora Tamigio

Gregory Holm, “Martha selfportrait”

Oldenburg o ai neodada Jasper Johns e Robert Rauschenberg. Nel 1959 Ileana si separa da Castelli nella vita e nella professione per sposare Michael Sonnabend, un vecchio amico conosciuto alla Columbia University che lei frequenta quando l’ex marito si arruola nell’esercito americano. In questi anni, successivi alla separazione, dopo una breve ma intensa esperienza parigina nella quale promuove i lavori di artisti americani e di alcuni giovani italiani quali Schifano, Pistoletto Zorio, Merz, Anselmo, Kounellis e altri, apre una propria galleria a New York nella zona di Chelsea, continuando con successo nella sua attività. Dal 1960, Ileana e Michael consolidano il loro legame con l’Italia; facendo tappa costante tra Napoli e Roma e tornando ogni anno a Venezia per le vacanze estive, riescono a mantenere e coltivare una fitta rete di conoscenze tra le quali si ricordano: Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Gian Enzo Sperone e Giuseppe e Giovanna Panza. Sostenitrice della partecipazione di Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964 che vince il Gran Premio della Pittura, la figura di Ileana si inizia a definire come quella di un personaggio chiave nella nascita e definizione dell’arte americana

Quelle di Angel Ramiro Sanchez sono opere che sembrano provenire da un altro tempo, da un qualche nuovo ‘rinascimento privato’ di cui l’artista venezuelano-naturalizzato italiano si fa portavoce. Ispirato dai grandi musicisti e scrittori del Romanticismo tedesco, rapito dalla pittura veneta del Cinquecento e fiero delle sue origini sudamericane, Ramiro è un pittore quasi unico nel suo genere. La mostra “RAMIRO. Realtà di due mondi”, alla Fondazione Stelline di Milano dal 10 giugno al 2 luglio 2011, ospita, tra dipinti e disegni, 31 opere del pittore venezuelano, ricostruendo i diversi momenti della sua produzione. L’esposizione, la prima monografica in Italia, pone maggiore attenzione sui lavori più recenti, quelli compresi tra 2010 e 2011, ma si propone anche come prima retrospettiva, inquadrando la crescita artistica e i cambiamenti di stile di Ramiro Sanchez. Come suggerisce il curatore John T. Spike, docente al College of William & Mary di Williamsburg, Virginia: “uno sviluppo interessate della visione di Ramiro si rileva nell'ampio studio su carta per il dipinto “Canto de la Tierra” del 2006 e nel ritratto “Valentina” di straordinaria intimità, del 2007. Di “Canto de la Tierra” alla mostra si conserva un bellissimo studio a carboncino con nudo di donna che, specie se confrontato con Valentina, di un anno più recente, offre un perfetto esempio della lunga riflessione di Ramiro sulla rappresentazione del nudo femminile e della sua raffigurazione nello spazio. “In Valentina” continua Spike “il pittore crea la serenità dello spazio e dello spirito che definiscono la giovane


donna, attraverso i toni smorzati, eppure profondi, del rosso e del verde che utilizza per il tappeto su cui lei si trova”. Procedendo nell’esposizione si nota come l’elaborazione della figura nuda si sia evoluta nel tempo in senso sempre più classicista: in “Disguise” e “They say that love has a bitter taste... but what does it matter?”, entrambi del 2008, i corpi sono più morbidi e i colori più delicati, come in certe ultime opere di Tiziano o del Tintoretto. Lo stile di Ramiro non ha niente a che vedere con le innovazioni dell’arte contemporanea: le sue opere sono composizioni perfette di linee precise, nudi levigati e ritratti intensi carichi di espressività. Come “Venezia” (2011), dove i lineamenti latini della fanciulla rappresentata non permettono al ritratto di sfuggire all’idealizzazione: la figura, rappresentata su uno sfondo che mostra inequivocabilmente la laguna, potrebbe essere lei stessa un’allegoria di Venezia. Nei ritratti di Ramiro i colori sono carichi e intensi e le figure, anche se simboliche, sono dotate di una naturalezza che le rende vive, realistiche. Particolarmente interessanti sono gli sviluppi dell’arte sacra. Anche nelle scene desunte da episodi biblici, Ramiro pone in primo piano la rappresentazione delle emozioni umane. Gli anni di studio presso le chiese fiorentine e l’esperienza maturata grazie a lavori di consulenza negli edifici sacri vicino a Maracaibo ( in mostra è presente il progetto del 2009 per la decorazione di una cupola), hanno condotto il pittore venezuelano ad elaborare una sua personale rappresentazione del sacro. Una delle opere in questo senso più significativa è di certo “A tu lado quiero estar” (2010). La scena rappresentata, una Crocifissione, presenta una composizione di grande originalità: nella parte alta della tela è raffigurata la parte finale della croce con i piedi di Cristo inchiodati e, in basso, straziati dal dolore, i personaggi dell’iconografia convenzionale (la Madonna, Maria Maddalena, San Giovanni) ritratti come comuni fedeli. Il dramma della Crocifissione si tramuta per Ramiro in un dramma della contemporaneità dove lo spettatore partecipa al dolore del personaggi, rappresentati con grande realismo: l’iconografia della Madonna e della Maddalena non sono fedeli alla tradizione ma presentano abbigliamento e fisionomie che le rendono più simili a donne di oggi. La quantità di studi e particolari inerenti quest’opera mostrano l’importanza che lo stesso artista vi attribuisca all’interno della sua produzione, rivelando un lungo processo creativo e riflessivo e al tempo stesso la grande capacità di riproporre in chiave moderna il tema per eccellenza dell’iconografia sacra. A questo scopo la grande abbondanza, all’interno della mostra, di schizzi, bozzetti e disegni preparatori sembra essere forse l’aspetto più interessante di questa esposizione milanese in quanto restituisce un’immagine di Ramiro come di un’artista in senso tradizionale e rende conto della sua preparazione classica, tutt’altro che convenzionale. Nato a Maracaibo nel 1974, Angel Ramiro Sanchez giunge in Italia all’età di 19 anni, dopo una formazione musicale in Venezuela. Studia all’Accademia di Belle Arti di Firenze (città dove tuttora vive e lavora), ottiene importanti riconoscimenti presso la Florence Academy of Art, diretta da Daniel Graves, e dal 1997

ne diviene insegnante per la sezione di pittura. Ramiro e Daniel Graves collaborano anche presso lo studio di quest’ultimo, dove insieme portano avanti un’operazione di recupero delle tecniche pittoriche tradizionali. La mostra “RAMIRO. Realtà di due mondi” è organizzata dalla Fondazione Stelline in collaborazione con l'Ambasciata presso la Santa Sede e il Consolato del Venezuela a Milano. L’esposizione ha inoltre il patronato del Comune di Milano e del Concilio Europeo dell'Arte.

Torino FONDAZIONE 107 TRANSAFRICANA fino al 16 October 2011 di Francesca Berardi Dal 17 giugno “Transafricana” non è più solo la rete di strade che mette in collegamento i territori e le culture del continente, ma anche un nuovo progetto curatoriale di Achille Bonito Oliva, che partendo da Torino si propone di portare in varie sedi italiane e europee una selezione di opere di artisti africani contemporanei. Entrati nel grande spazio di via Sansovino, affacciandosi sulla sala centrale, si notano immediatamente due particolari: un allestimento che mette in risalto i colori e la vitalità solitamente associati all’idea di ‘Africa’, e la predominanza, che poi si scoprirà essere presenza esclusiva, di dipinti e sculture. Il lavoro curatoriale, e il gioco di parole tra ‘Transafricana’ e ‘Transavanguardia’, si impone già dal primo sguardo. Ad aspettarmi una guida d’eccezione, Federico Piccari, presidente della Fondazione 107. All’apertura dello spazio, nel 2009, aveva portato a Torino opere di artisti provenienti dall’Asia centrale postsovietica. La mostra si intitolava “A Est di Niente”, ed è considerata ancora oggi una delle esposizioni più importanti e significative per questo genere di arte in Europa. La coraggiosa intenzione di dare spazio a nomi di artisti non ancora consumati dai circuiti dell’arte contemporanea occidentale è stata poi confermata con la mostra “In Difesa” e con “Transafricana” raggiunge un altro importante traguardo. Per cominciare chiedo a Federico com’è nato questo nuovo progetto. “La mostra è nata da un contatto con la Fondazione Sarenco”, spiega. “Io conoscevo bene Sarenco, un artista molto bravo e importante, un poeta visivo di grande spessore, che tra l’altro ha partecipato a “In Difesa”. La sua fondazione ha una sede a Malindi e si occupa esclusivamente di arte africana. Dei novanta artisti africani con cui lavorano, Achille Bonito Oliva ne ha scelti sei. Il curatore, pensando anche alla Transavanguardia, ha voluto portare all’attenzione l’opera di artisti che lavoravano già all’inizio degli anni Ottanta, e che propongono un’alternativa a una certa estetica globalizzata. Tutti i protagonisti della mostra vivono e lavorano in Africa. Alcuni viaggiano molto per lavoro, perché ormai sono molto conosciuti, come per esempio Esther Mahlangu, ma altri non sono mai usciti dal Paese. Sono molto legati al loro territorio, al segno tribale, alle origini. Bonito Oliva ha voluto in qualche modo recuperare questo aspetto. Come era successo all’inizio del secolo scorso, quando era diffuso l’interesse per le forme d’arte delle origini, ora la necessità potrebbe essere la stessa”.

A questo proposito, nel testo di presentazione alla mostra, il curatore riflette su come oggi non abbia più senso guardare all’arte africana con un occhio di ‘recupero esotico’, di superiorità, considerandola un serbatoio di spunti formali per rinnovare un linguaggio artistico esaurito. Oggi abbiamo gli strumenti per un approccio sereno e oggettivo, capace di cogliere che gli artisti africani contemporanei “hanno una coscienza, una consapevolezza che prima, quelli che erano considerati degli artisti naif non potevano avere.” Armati di questo sguardo, iniziamo allora con la visita. Ci troviamo di fronte alle numerose sculture di terracotta che animano il cuore della sala centrale, a quello che Federico chiama il ‘bosco di Seni Camara’. Sono tutti lavori singoli, che proprio come accade per gli alberi di un bosco, creano un insieme armonioso e organico affermando la propria particolarità. “Seni Camara è uno di quegli artisti di cui ti parlavo prima”, racconta, “che non è mai uscita dal suo territorio. Lei è nata e vive da sempre a Casamance, un area di guerriglia in Senegal, e parla un dialetto che gli stessi senegalesi faticano

nea e uguale a se stessa. Il tema è sempre quello della maternità. Seni Camara non ha avuto figli, e sceglie di rappresentare delle famiglie, formate da forme asessuate, che rappresentano delle linee genealogiche”. Il fatto che Seni Camara non sia mai uscita dal suo Paese, non implica che non abbia avuto importanti contatti diretti con il mondo dell’arte occidentale. Semplicemente gli ha avuti a casa propria. “Seni Camara, George Lilanga e Esther Mahlangu, hanno fatto parte della mostra Magiciens de la terre del 1989 al Centre Pompidou curata da Jean Hubert Martin” racconta Federico. “Le sculture di Seni Camara erano esposte di fronte alle opere di Louise Bourgeois, la quale come vede i suoi lavori, ne resta molto colpita e decide di andare a cercarla. La raggiunge in Senegal e rimane ospite da lei per un mese. Alla fine scrive una lettera, poi pubblicata in diversi libri, in cui racconta di questa straordinaria artista africana confinata in un territorio di guerriglia. Questo ha sicuramente contribuito a far conoscere Seni Camara e il suo lavoro in tutto il mondo”. Volgendo le spalle al magico bosco della scultrice senegalese ci troviamo di fronte alle opere di George Lilanga, l’unico artista in mostra non più in vita. “Lilanga, originario della Tanzania, nasce come artista Makonde, che per lo più sono scultori di ebano”, mi spiega. “Lui è stato considerato un po’ sacrilego perché si è dedicato anche alla pittura e comunque perché usava dipingere l’ebano, pratica in genere non consentita. Le sculture in mostra sono tutte ricavate, per sottrazione, da tronchi di questo legno molto duro, e pesano moltissimo, più di 100 chili”. Il soggetto ricorrente nelle coloratissime composizioni scultoree e pittoriche di Lilanga, sono gli shetani, spiriti dispettosi di cui l’artista intendeva esorcizzare la preAngel Ramiro Sanchez, “Venezia, mi Venezia”, 2011 senza. Federico mi fa notare la connessione con il lavoro di Keith Haring. a comprendere. Ha imparato a pla- “Haring stesso non ha mai nascosto di smare le sculture dal nonno, anch’egli essere stato in qualche modo influenscultore, ma è molto raro che questa zato da Lilanga, dopo aver visto i suoi pratica si tramandi alle donne, perché lavori in occasione di una mostra a in genere non possono plasmare. NYC alla fine degli anni Settanta”. Ancora oggi, quando arrivano i guer- Anche Lilanga ha partecipato alla riglieri, viene distrutto tutto quello mostra del 1989 al Centre Pompidou che ha costruito, quasi come fossero ed è piuttosto conosciuto in occidenoggetti peccaminosi. Lei plasma que- te. “Con il suo lavoro riusciva a mansta terra che poi cuoce in un rituale tenere tutto il suo villaggio, una famiall’aperto, in un grande forno che ha glia allargata”, mi racconta Federico. costruito nel mezzo di un bosco. Non Ah già, il denaro. La carica spirituale permette a nessuno di assistere a que- dei lavori in mostra mi aveva fatto sto rituale, un procedimento molto dimenticare per un attimo che sono difficile perché chiaramente non sono oggetti commerciabili. Gli chiedo forni specifici e le sculture arrivano a allora se in Africa ci sia un mercato pesare 60-80 chili. È proprio questa interno che funziona, o se passi tutto cottura che dona alle sculture una da Europa e Stato Uniti. “In Africa colorazione particolare, mai omoge- vivono persone, in effetti molte di ori-


gine occidentale, che hanno potere di acquisto e comprano arte africana attraverso alcune gallerie locali e manifestazioni consolidate come la biennale di Dakar, o quella più recente di Malindi”. La grande parete fondo della sala centrale è interamente occupata da una serie di dipinti circolari di Lilanga. Sembrano bolle d’acqua sospese nell’aria, e allo stesso tempo terra che ribolle. Mi fanno pensare alla natura in fermento. La mia guida d’eccezione conferma l’intuizione: “Con questa mostra abbiamo voluto anche sottolineare l’idea del colore e del caos, della varietà, che sono i caratteri dell’Africa. Ma carattere dell’Africa è anche la sopravvivenza di un equilibrio tra uomo e natura. Un’idea che anima le tele di Kivuthi Mbuno, l’artista keniota di cui scopro subito un aneddoto curioso”. È stato il cuoco di Karen Blixen, l’autrice de La mia africa. Lei ha saputo cogliere il suo talento e ora è un artista affermato. Mbuno mette sulla tela quella che è l’Africa, un luogo in cui uomo e natura sono ancora in equilibrio. Ormai ha quasi Settanta anni e lavora ancora. Trovo la sua pittura molto rassicurante”. Mbuto tratta di questa coesistenza immaginando l’incontro tra animali con tratti antropomorfi e uomini capaci di assumere espressioni animalesche, in un contesto in cui la natura e i suoi colori esplodono di vita. Proseguiamo la visita davanti alle opere di Esther Mahlangu, artista sudafricana scelta come testimonial dei recenti mondiali di calcio. “Per un anno gli aerei della British Airways hanno volato con la coda decorata dai colori del suo progetto. In altre occasioni ha anche dipinto la FIAT 500 e la BMW”. Anche Ester Mahlangu ha avuto modo di collaborare con uno dei nomi più conosciuti dell’arte contemporanea occidentale, firmando con Sol LeWitt un affresco per la Biennale di Lione. “Guardando i suoi lavori verrebbe da parlare di astrazione”. Continua Federico, “ma lei non fa astrazione, fa decorazione. Questo ci tiene molto a precisarlo, perché la decorazione delle case è una delle attività tradizionali per le donne della sua terra d’origine ”. Colorare le pareti esterne delle abitazioni era un modo per accogliere più calorosamente gli uomini che tornavano stremati dalle lunghe battute di caccia per sfamare le numerose famiglie. “I dipinti che vedi in mostra sono per esempio un lavoro unico di dieci metri. La decorazione di una parete in un certo senso. Ester Mahlangu indossa sempre vestiti tradizionali, si copre con una mantella di feltro direttamente sul corpo nudo ad ogni stagione. Adorna completamente il capo con perline, porta bracciali sul collo e braccia. Nei suoi quadri si riconoscono le forme di oggetti di uso comune, oggetti semplici, come ad esempio le lamette da barba. Anche la tecnica è assolutamente tradizionale. Dipinge con le piume della gallina, invece del classico pennello. Le forme geometriche sono tutte realizzate a mano libera, senza l’aiuto di strumenti. Dipinge molto lentamente, in una pittura che diviene anche meditazione, contemplazione della durata del tempo”. Ci spostiamo verso un’altra stanza della Fondazione e ci troviamo di fronte alle opere del Mikidadi Bush, artista originario della Tanzania, di religione animista. “Mette sulla tela le storie, i miti della sua tradizione. Storie che venivano tramandate solo oralmente vengono così illustrate”, mi spiega. Mi

viene in mente una citazione che avevo letto su un libro di Arte Africana, scritto da uno dei massimi esperti in Italia, Ivan Bargna. Parlando del rapporto tra oralità e scrittura, Bargna ricordava una celebre frase di Amadou Hampaté Bâ, secondo cui “ogni negro che muore è una biblioteca che brucia. Quella di Bush è una pittura meticolosa”, continua Federico. “Sono scene complesse, quasi delle narrazioni. È un modo per fissare i racconti nel tempo, la cultura visiva, fatta per immagini, che si è imposta in occidente, in un certo modo sta prendendo piede anche in Africa”. Nelle sue opere Bush racconta sia i miti della tradizione che l’incontro/scontro di queste antiche credenze con l’Africa di oggi. Particolarmente significativa in questo senso è una grande istallazione che dialoga con un dipinto avente lo stesso soggetto: in primo piano si riconosce uno stregone, essere dalla sessualità marcata ma incerta, dall’espressione animalesca e fattezze mostruose, che viene schernito e assaltato dalle nuove generazioni di africani. I ragazzi sono vestiti all’occidentale, con i jeans e le infradito, e affermano la volontà di prendere la distanza dalla magia e dalla stregoneria. Un uomo in uniforme, l’autorità, ha ancora interesse a tenere in vita questo passato, e prova a difenderlo. Ma lo stregone sembra avere i giorni contati. L’Africa contemporanea e le

zione di artisti che ancora crede nel potere dell’arte, nel sacro potere di fare “apparire”, di dare forma ad esseri che ne sono privi, come gli spiriti, o che l’anno persa, come gli antenati. L’arte consente e conserva la presenza, fissa nella storia l’inafferrabile scorrere del tempo dell’uomo e della natura. Il colore non mira alla rappresentazione della realtà, ma la trasforma, la rende più bella, sprigionando energie nuove. E di energia, nuova, pulita, ne sentiamo più che mai il bisogno.

Modena FONDAZIONE FOTOGRAFIA INTERNATIONAL DEPARTURES 2011 - GATE 11, SPECIAL, AIR chiusa il 17 luglio 2011 di Fulvio Chimento La programmazione della Fondazione Fotografia non conosce soste: dopo il grande successo ottenuto con "Quattro", che ha portato nelle sale espositive dell'ex Ospedale Sant'Agostino circa 40.000 visitatori, hanno potuto osservare "International Departures", appuntamento conclusivo della stagione espositiva 2010-2011, caratterizzato, ancora una volta, da una forte vocazione internazionale, e interamente dedicato ai giovani artisti. La rassegna presenta tre diversi progetti attivati dalla Fondazione Fotografia nel corso del 2010: "Gate 11", mostra

Nadia Pugliese, “Kidron Valley”, 2010, c-print Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

sue questioni irrisolte sono anche il tema che anima tutta l’opera del più giovane artista in mostra, il keniota Peter Wanjau. “È stato il primo artista scelto da Bonito Oliva e non è difficile intuire perché”, spiega. Sia il segno che il colore ricordano la Transavanguardia. Il disegno centrale non può non far pensare a Clemente. Wanjau lavora anche come assistente sociale e deve affrontare quotidianamente alcune delle più drammatiche problematiche dell’Africa contemporanea. Nel suo lavoro denuncia in modo schietto e dissacrante questioni legate a terrorismo religioso, povertà, siccità, infibulazione, aids, fino agli abusi della politica estera. Emergono tutti gli aspetti tragici dell’Africa contemporanea, che coesistono con il colore, la vitalità e l’immensa tradizione che determinano la sopravvivenza di una straordinaria autenticità. E che hanno creato una genera-

dedicata agli studenti di fotografia dei più prestigiosi istituti di formazione europei, "Special", programma di acquisizioni legato alla collezione di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, e "Air", scambio di residenze d’artista. Ne risulta una collettiva di 19 artisti, alcuni dei quali espongono già nei circuiti dell'arte contemporanea, mentre altri si affacciano per la prima volta in un prestigioso luogo istituzionale. "Gate 11" è un progetto (II edizione) nato in collaborazione con dieci istituti europei di alta formazione in ambito artistico e videofotografico, ognuno dei quali ha selezionato un artista partecipante. Tra le istituzioni coinvolte spiccano il Royal College of Art di Londra, lo Scotland's Centre for Photography di Edimburgo, la Finnish Academy of Fine Arts di Helsinki e la Zurich University of the Arts di Zurigo.

"Special" (III edizione), è invece un programma annuale di acquisizioni dedicato ai giovani artisti italiani: legato alla collezione fotografica della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, prevede la selezione attraverso un bando di concorso di alcuni giovani autori i cui progetti sono sostenuti in fase di realizzazione e acquisiti nella collezione di fotografia. In occasione di "International Departures" la Fondazione Fotografia presenta al pubblico le opere delle sei artiste che hanno vinto la scorsa edizione del concorso: Margherita Cesaretti, Serena Clessi, Valentina Lapolla e Nadia Pugliese per "Special Italia"; mentre le promettenti under 30 Cristina Panicali, fotografa, e Angelica Porrari, videoartista, sono state selezionate con merito per "Special Emilia Romagna" e andranno seguite con interesse nei loro sviluppi artistici. Il terzo progetto intitolato "Air", acronimo di Artist in residence, sostiene la mobilità internazionale dei giovani artisti. A partire dal settembre 2010, la Fondazione Fotografia ha infatti avviato un programma di residenze d’artista in collaborazione con Stills Gallery - Scotland’s Centre for Photography di Edimburgo. Ognuno dei due centri ha messo a disposizione, per un periodo di otto settimane totali, risorse, archivi, servizi d'accoglienza, attrezzature, documentazione e informazioni a supporto dell’artista ospitato. In questo primo scambio sono stati coinvolti tre giovani italiani: Gianni Ferrero Merlino, Massimiliano Gatti e Paolo Monti. ‘Small communities, small places?’ è l’interrogativo proposto loro alla partenza: con massima libertà espressiva, gli artisti sono stati invitati a dare una possibile interpretazione al tema delle micro-comunità nell’epoca tecnologica della globalizzazione, con progetti fotografici, video, testi o installazioni. "International Departures" costituisce un'occasione interessante anche per i collezionisti a caccia di giovani promesse. Storicamente, infatti, Modena è una città a cui la fotografia italiana deve molto (Ghirri, Guerzoni, Vaccari, Barbieri) e, per strane alchimie che si verificano nel mondo dell'arte, è probabile che nuovi talenti tornino a far capolino partendo proprio dal centro emiliano. I fruitori dell'evento espositivo avranno dunque modo di osservare alcuni dei più promettenti artisti europei.

GAlleRIe Albania ZETA GALLERY, TIRANA, ALTERNATIVE TIRANA chiusa il 20 luglio 2011 di Aurora Tamigio Nell’ambito del progetto Arcipelago Balkani, ideato da Claudia Zanfi e realizzato in collaborazione con l’Ufficio Cultura della Comunità Europea, il collettivo internazionale Alterazioni Video (Milano/ Berlino/ NYC), presenta in anteprima assoluta, all’interno della prima personale a Tirana dal titolo “Alternative Tirana”, una collezione di oltre 500 Polaroid che hanno per soggetto l’Albania e la sua capitale. La mostra, a cura di Claudia Zanfi (direzione aMAZElab Milano) e Edi Muka (direzione TICA, Tirana), in collaborazione con Biennale di Tirana/TICA Art Center, nasce in seguito al viaggio,


compiuto a Tirana, nell’estate 2010, da alcuni degli artisti del collettivo. Durante questo viaggio essi hanno avuto modo di approcciarsi alla realtà albanese non tanto in veste di fotografi ma con gli occhi del viaggiatore che si trova in una terra straniera e sconosciuta. Gli artisti di Alterazioni

chiama Facebook: alcuni degli artisti del collettivo hanno navigato per le pagine del social network e vi hanno estrapolato foto che gli stessi utenti albanesi hanno pubblicato sulle loro pagine. In mostra è presente quindi non solo un punto di vista ‘turistico’, ma anche quello della cittadinanza

Alterazioni Video “Alternative Tirana“ 2009, Video hanno tentato di rendere lo stupore e la distanza che intercorre tra il visitatore e il luogo visitato, quello stato di ‘osservazione attiva’ che colpisce chiunque si trovi per la prima volta in una terra che non è la propria. Chi non ha viaggiato per Tirana, ha scelto di seguire un’altra strada. Ancora una volta questa ‘strada’ si

locale. Gli artisti di Alterazioni Video che espongono ad “Alternative Tirana” sono Paololuca Barbieri Marchi, Alberto Caffarelli, Matteo Erenbourg, Andrea Masi e Giacomo Porfiri. Attraverso due videoproiettori passano, una dopo all’altra, le loro fotografie, veri e propri ritratti di viaggio.

Panorami cittadini, vedute naturali, spiagge, ritratti di famiglia, matrimoni, piccoli scatti di vita quotidiana riescono a raccontare un paese ancor più della grande fotografia monumentale. L’immagine che emerge è quella di una città ‘in costruzione’, un ritratto sincero di una realtà di contraddizioni, di bei palazzi sullo sfondo di baracche, di bambini in riva al mare circondati di spazzatura e di coraggiose bandiere europee sventolate in mezzo al nulla. La tecnica - decisamente innovativa l’idea di riproporre la Polaroid - non lascia spazio a filtri, non c’è tentativo di indorare la pillola né di mostrare compiacimento per la povertà o per la bellezza. In occasione della mostra, presso la Zeta Gallery di Tirana, il collettivo ha realizzato un ciclo di sculture inedite ispirate alle architetture e ai luoghi della città insieme ad un intervento nello spazio pubblico. L’architettura è infatti uno dei punti su cui si è focalizzata l’attenzione delle macchine fotografiche: i palazzi e gli edifici di Tirana tra ristrutturazioni sommarie, consolidamenti e ‘abbellimenti’ di ogni genere hanno generato in città una forma di ‘eclettismo’ tutto particolare che ha reso Tirana una capitale unica nel suo contesto. Durante l’opening dell’evento, tenutosi lo scorso 25 giugno, ha avuto luogo il Lavash special parti, una performance in cui gli spettatori sono stati invitati a portare la propria auto nei pressi della galleria e a partecipare ad un ‘lavaggio di gruppo’. Il collettivo, insieme al collettivo Tirana Ekspres, metteva a disposizione il necessario per la pulizia. ‘Party’ come festa, ma anche come ‘partito’: lo scopo dell’azione non era ovviamente

quello di lavare delle auto, ma di lanciare un messaggio di sensibilizzazione verso l’ambiente (durante l’evento erano presenti striscioni come ‘Per un’Albania pulita’) e verso la situazione politica, giunta ormai ad un punto in cui ‘pulirsi’ dalla corruzione e dagli sbagli del passato è fondamentale. Le foto scattate durante la performance sono ora esposte negli ambienti della Zeta Gallery, il progetto futuro è quello di produrre con esse alcuni poster ed una collezione di magliette commemorative. Alterazioni Video (Milano/ Berlino/ NYC) è un collettivo fondato a Milano nel 2003. Tra le sedi più prestigiose in cui il gruppo di artisti ha esposto c’è la 52a Biennale di Venezia, Manifesta 7 a Rovereto, Performa 09 a New York, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, Palazzo Rosso a Genova, la Moderna Galerija a Lubiana.

Errata corrige: nell'articolo “A Venezia si accendono i riflettori su un mondo di arte contemporanea” di Francesca Berardi è stato scritto Pietro Baratta invece di Paolo Baratta. Nell'articolo “150 anni di storia della critica d'arte italiana” l'autore è Fulvio Chimento e non Fulvio Cimento. La redazione si scusa.

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di Francesca Berardi

“GIllO dORFleS, ARte e CRItICA del SeCOndO nOVeCentO” Alla scoperta del pensiero di Gillo Dorfles, l’angelo della critica che ha segnato l’arte italiana del secondo Novecento. Antonello Tolve (Melfi, 1977) sceglie “un’intervista come introduzione” per aprire il suo ultimo volume “Gillo Dorfles, Arte e critica del secondo Novecento”(ed. La città del Sole, Napoli, 2011), invitando da subito il lettore a un dialogo con una delle personalità più significative nel panorama artistico italiano dell’ultimo secolo. Un’intervista che in poche battute suggerisce il percorso del libro: attraverso i temi cruciali della riflessione dorflesiana che storicizzano il divenire dell’arte italiana del secondo Novecento, scandendone e segnandone i momenti e le svolte cruciali, verso l’acquisizione degli strumenti utili a intuire le derive più contemporanee della critica d’arte. Elaborando un sintetico quadro sulla formazione di Dorfles, Tolve mette da subito in evidenza di quali strumenti fosse armato agli albori della sua carriera. Prime fra tutti un’instancabile curiosità e un’apertura alle diverse forme del linguaggio artistico, stimolate e nutrite dal fervido e autentico ambiente culturale. E poi un approccio all’arte pratico, manuale, caratterizzato dalla preoccupazione per la tecnica, che solo chi 'agisce' l’arte, può comprendere. È così che negli anni Quaranta Dorfles inizia a dedicarsi alla pittura, per poi continuare, nel corso della sua carriera di critico, pensatore ed estetologo, a essere un 'pittore clandestino', come ricorda Angelo Trimarco nella postfazione del libro riportando alla memoria il titolo della mostra a lui dedicata a Milano nel 2001. Partendo da queste premesse, l’autore ricostruisce e contestualizza con

e

gli

articoli

di

attualità

lucidità il pensiero di Dorfles dalla sua prima affermazione, ovvero dalla fondazione nella Milano dell’immediato dopoguerra del Movimento per l’Arte Concreta. Un’avventura durata un decennio, partita nel 1948 in collaborazione con altri artisti, (Monnet, Munari e Soldati) per reagire alla staticità in cui era arenata la pittura in Italia in quegli anni, esprimendo l’esigenza di rinnovare le forme d’arte tradizionali, per aprire la strada al delinearsi di discipline come il design industriale, generate da un nuovo, più diretto e fluido rapporto tra arte e società. Individuando e approfondendo i principi fondanti del MAC, insieme alle sue evoluzioni e diramazioni transnazionali, fino alla sua conclusione, l’autore accompagna il lettore lungo un percorso determinante per comprendere le macro questioni al centro del dibattito artistico degli anni seguenti e le premesse dell’inarrestabile apertura dell’arte verso l’uomo, la società e la vita quotidiana, così come di un nuovo, più labile ed elastico rapporto tra le tecniche, la multimedialità. Fin da questa prima parte del suo libro, Tolve riconosce i punti chiave del pensiero dorflesiano scorrendo i titoli dei suoi innumerevoli scritti e individuando tra di essi quelli che ne segnano il percorso in maniera emblematica. Non perdendo mai di vista le parole di Dorfles, l’autore crea un ritmico e coerente dialogo tra il pensiero teorico del suo protagonista, che si è evoluto incessantemente negli ultimi cinquant’anni, e il tempo della storia. Al 1952, nel pieno periodo dell’avventura del MAC, risale il “Discorso tecnico delle arti”, un’esplicita messa in discussione del radicato pensiero idealista di Benedetto Croce, che escludeva dalla riflessione sull’arte il suo aspetto pratico. Dorfles segna così ufficialmente l’apertura alla concezione dell’opera d’arte come di un oggetto da ricondursi all’uomo, alla sua mano e all’utilizzo del linguaggio. Il “Discorso tecnico delle arti” apre la strada alla pubblicazione, nel 1959, a “Il divenire delle arti”, un testo che affronta l’intrinseca questione dell’obsolescenza, affermando l’impossibilità

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di stabilire in campo artistico norme che possano considerarsi valide e stabili in ogni epoca. La formulazione della dinamica tra divenire e obsolescenza, segue infatti di poco la riflessione alla base de “Le oscillazioni del gusto”, che elegge oscillazione e asimmetria a categorie fondamentali per osservare e interpretare l’arte contemporanea. In questo senso si delinea un netto confine tra l’attività dello storico dell’arte, fermo a dati storicizzati già elaborati, destinati all’obsolescenza appunto, e l’approccio critico, dotato di una certa sensibilità, capace di percepire l’arte non solo da un punto di vista specialistico, ma anche popolare e personale. Mettendo in campo testi come “L’intervallo perduto” (1980) e “Preferenze critiche” (1993), Tolve traccia quindi quel ramo del pensiero dorflesiano che tra gli anni Ottanta e Novanta ha formulato alcuni dei principi che animano l’approccio critico all’arte. Preoccuparsi di stabilire un intervallo nell’osservazione di un’opera, determinare uno spazio di riflessione, diviene necessario per affrontare la situazione adiastemica (priva di diastemi, spazi tra elementi) del contemporaneo. Lo spazio intervallare rende possibile una valutazione oggettiva, che isola l’oggetto dai miti e dalla moda del suo tempo, per preparare il terreno al pensiero soggettivo, critico, condizionato dal gusto e dalla vita, ma in ogni caso autentico, capace di scegliere e stabilire preferenze. È proprio la mancanza di questo approccio, unita alla predominanza della legge del mercato e alla nascita di figure alternative, come quella del curatore, che sta causando l’eclissi della critica d’arte. Dorfles, nella sua straordinaria capacità di definire il presente pulsante, è arrivato così a parlare di critica della acritica, denunciando la crescente assenza di studio, ricerca e capacità critiche e interpretative. Un’attitudine che assomiglia sempre di più a una regola, denunciata e combattuta, tra gli altri, dall’attività di riviste d’arte nate negli ultimi anni con l’intento di dare voce a un pensiero autentico e critico. Una regola che trova una felice eccezione anche in questo libro.


dal 22 settembre 2011 al 29 gennaio 2012

a cura di Julia Peyton-Jones, Hans Ulrich Obrist, Gunnar B. Kvaran con Giulia Ferracci, Assistant Curator MAXXI Arte, organizzata in collaborazione con Serpentine Gallery, Londra e Astrup Fearnley Museum of Modern Art, Oslo, Norvegia

sponsor della mostra

London e con MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

Via Guido Reni 4 A - Roma socio fondatore

con il contributo di

www.fondazionemaxxi.it partner

partner tecnologico

partner delle attivitĂ didattiche

institutional XXI

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MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma


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