La prigione EDITORIALE di Edoardo Milesi
Forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la gelosia.
ArtApp Numero sedici - Anno VII Registrazione al Tribunale di Bergamo del 29/01/2009 n. 3/2009
Salomone nel Cantico dei Cantici
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Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading, illustrazione di Giò Ponti, Modernissima Milano, 1923
Direttore editoriale Edoardo Milesi Direttore Responsabile e Art Director Aurelio Candido Coordinamento redazionale Elena Cattaneo, Laura Cavalieri Manasse Impaginazione e grafica Cristian Carrara Comitato scientifico Massimo Agus, Sonia Borsato Barbara Catalani, Arialdo Ceribelli Giovanni Cutolo, Donato Di Bello Marco Del Francia, Paola Di Giuliomaria Alessandra F. Ferrari, Salvatore Ligios Saverio Luzzi, Gianriccardo Piccoli Michelangelo Pistoletto, Carlo Pozzi Dominique Robin, Ilaria Rossi Doria Silvana Scaldaferri, Elisabeth Schneiter Benno Schubert, Sandra F. Semerano Michele Tavola, Ettore Vadini Hanno collaborato a questo numero Sara Alaimo, Vanna Francesca Bertoncelli Giovanna Brambilla, Marta Coccoluto Sandra Maria Dami, Marco Del Francia Maria Gabriella Frabotta, Angela Galli Salvatore Ligios, Silvia Lombardi Saverio Luzzi, Michele Manigrasso Franca Marini, Marcella Marone Matter of Stuff, Stefano Mavilio Carlotta Monteverde, Barbara Noferi Nicoletta Pardi, Elena Pasqualoni Franca Pauli, Carlo Pozzi, Michele Tavola Antonella Anna Tolentino Crediti fotografici Gloria Bazzoni, Studio Bonon, Chiara Canali Dario Colombo, Ginevra D’Archi Disney ® Pixar, Frank Daum, Maia Eos Funky Fresh Factory, Team Gallery-NY Laveronica Arte Contemporanea Don McCullough, Millo, Alberto Mirimao Maurizio Mucciola, Stijn Nieuwendijk Mario Palumbo, Waldo Pepper Alberto Pizzoli/AFP/Getty Images Andrea Puggioni, Julian Stallabrass Madushanka Soysa, Bob and Roberta Smith Cheryl Hanna-Truscott, Stefano Vaja Traduzioni Franca Pauli e Ed Targett per MyTalk Ltd Stampa EUROTEAM green advanced printing Via Verdi, 10 - Nuvolera (Bs) © 2016 edizioni|archos All rights reserved È vietata la riproduzione totale o parziale del contenuto di questa rivista senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. No part of this magazine may be reproduced in any form without the written authorisation by the Publisher.
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uando ho scelto il tema della prigione lo pensavo più semplice, in fondo ognuno di noi nella vita si è sentito più volte prigioniero di scelte rivelatesi sbagliate o di luoghi non disposti a essere abitati, o ancora dei propri sentimenti in contraddizione con i nostri ideali. Se abitare significa creare relazioni con l’ambiente che ci circonda, sia esso artificiale o naturale, essere prigionieri significa non potere abitare. Abitare innesca, infatti, processi interattivi con le persone, l’ambiente e il territorio. L’arte dell’abitare consiste in uno scambio vitale, nella capacità di adattare il corpo e la mente all’ambiente circostante, consentendoci di evolvere. Per disporre il proprio corpo a questa evoluzione è necessario un mondo dove questo possa muoversi ed esprimersi con senso. Perché la mente possa muoversi libera ci serve allenamento poiché, molto più pigra del corpo, tende ad appoggiarsi ai luoghi comuni, a congedarsi, a disinteressarsi. Tende a una progressiva cecità che riduce la nostra percezione delle cose anche quando sono ben in vista. Imprigionare i migranti entro quelli che riteniamo essere i loro confini o farli vagare nel mondo, escludendoli da quello che
riteniamo solo nostro, è la prigione che ci rinchiude. Significa ridurre l’interesse per il mondo e quindi il grado di vitalità che dovrebbe esserci proprio. Non c’è dubbio che nel nostro paese, come nel resto d’Europa, possediamo un patrimonio immobiliare pubblico (di uso collettivo) superiore alle nostre necessità e che, non sapendo come utilizzarlo, lo trasformiamo in musei di qualsiasi cosa. Ogni nostro lavoratore mantiene 2 pensionati e la fertilità delle donne italiane è scesa al 27%. Il nostro è un paese destinato a morire di vecchiaia. Perché allora non invitare, come del resto già i Romani avevano fatto nel 212 d.C., i migranti a stabilirsi da noi con le loro famiglie? La prigione è quel guscio che ci impedisce di vivere l’ambiente in cui siamo, di godere dell’osmosi tra natura e artificio, tra il macrocosmo e il microcosmo. Caratteristica del prigioniero è non avere voce sociale e, poiché la coscienza senza voce perde di esistere (Jacques Derrida), allora prigione è anche perdita di coscienza oltre che della sola libertà fisica. La prigione ha a che vedere col corpo o con la mente, ma quando il nostro corpo può diventare prigione della mente e viceversa? Probabilmente è l’automobile la più subdola e diffusa prigione che, costruendo attorno a noi un microcosmo impermeabile, ci impedisce di percepire fisicamente odori, espressioni e stati d’animo, isolando anche la nostra mente da quelle che ci circondano. Considerata, alla sua apparizione, il mezzo per conquistare una libertà individuale, rispetto alle dinamiche della collettività, ha trasformato il nostro modo di porci rispetto al territorio e soprattutto alla città. Proprio il Movimento Moderno, considerandola strumento del progresso, ha lasciato che entrasse nelle nostre città medievali e rinascimentali trasformando strade e piazze da luoghi d’incontri
e relazione in semplici infrastrutture di comunicazione tra parti disgiunte di un’urbanità perduta. Sono le automobili, che a tutti i costi abbiamo voluto fuori dall’uscio di casa, il vero corpo estraneo delle nostre città e questo perché inquinano l’aria che respiriamo, ci impongono livelli sonori impropri, ritmi e modi di abitare artificiali, ci impediscono di comprare sotto casa quello che ci serve, favoriscono la delinquenza e la rapina, fanno ogni anno più morti degli accadimenti criminosi, impongono nella nostra vita una vera e propria dittatura cui inconsciamente e tristemente ci siamo abituati e adattati.Ascoltando la lectio di David Grossman alla Milanesiana, mi sono reso conto che la gelosia ossessiva è la peggiore prigione nella quale possiamo rinchiuderci. Un qualcosa di così soggiogante da cui risulta difficile liberarsi. Grossman tuttavia ne sottolinea anche l’aspetto creativo: “quando la persona gelosa da equilibrata e posata si trasforma in un inventore di storie immaginarie, complesse e grandiose, il cui scopo è creare ripetutamente, talvolta nella maniera più assurda e folle, presunte situazioni in cui l’oggetto della sua gelosia incontra l’amante…” La gelosia ci porta a creare, con tutto il potere della nostra immaginazione, un giardino dell’Eden da cui saremo scacciati. È questo che succede ai carcerati recidivi? Il carcere come autopunizione e come gesto creativo di cui l’uomo ha bisogno per stare o non stare con gli altri uomini. La società, tuttavia, non isola solo i criminali, ma anche i diversi, quegli uomini, quelle donne, quei bambini assolutamente inoffensivi, eppure non conformi alle logiche di decoro, di convivenza civile e di buon costume che la comunità dei benpensanti adotta silenziosamente, nel tempo, come difesa della propria quieta sopravvivenza, riducendo inesorabilmente la propria capacità di produrre cultura. Sappiamo che il razzismo è in realtà generato dal bisogno dei deboli di individuare il diverso per aggrapparsi a un’identità necessaria per riconoscersi vivi. Eliminare e allontanare l’altro non accettato diventa così una difesa alla debolezza e all’insicurezza. In Italia la legge quadro 180, quella di Franco Basaglia che impose la chiusura dei manicomi, ha 36 anni e ancora quei luoghi, dove per decine di anni si sono stratificate terribili sofferenze, sono in grado di produrre cultura solo ospitando artisti capaci di mediare la vita vissuta in quelle prigioni di uomini, donne, bambini, handicappati, matti e malati col nostro indifferente quotidiano. È come se nell’inferno dei manicomi, dove le relazioni umane sono state trattenute da
camicie di forza, catene e letti di contenzione, senza sorrisi, carezze e gioie, l’umanità, dimenticata fino alla morte, chiedesse di uscire dai muri, dai pavimenti, dagli scarichi. In quel caso la prigione è stata annullata regolamentando il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici e allora perché non farlo per i tossicodipendenti? Qual è la differenza che impone di nuovo una prigione ai malati? In Italia non più del 10% dei detenuti sono criminali, il 30% sono stranieri irregolari, il resto tossicodipendenti ed emarginati confondendo così il carcere con l’ospedale (hospitale). La prigione che detiene, isolandolo, il nostro nemico sociale è il carcere. Dove la persona viene rinchiusa recidendo bruscamente un vissuto di anni costruito, nel bene e nel male, da infiniti attimi di emozioni, sentimenti, conflitti, amori e stupori che di colpo si congelano nella memoria e diventano attesa. Una vita sospesa, che lì dentro si consuma in un abitare fatto di relazioni non volute, violente, imposte. In Italia la legge che obbliga a far lavorare i carcerati in modo che siano produttivi e in grado di trovare un’occupazione una volta fuori è totalmente disattesa. È possibile che una struttura così artificiale e organizzabile, un così importante bagaglio umano a totale disposizione della
PRISON “For love is as strong as death, its jealousy unyielding as the grave.” Song of Solomon
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hen I chose Prison as the theme for this issue, I imagined it less complex; a much simpler topic. Perhaps everyone in life has felt imprisoned by choices that later prove wrong, by places that are not meant to be lived in, or even by feelings that contradict certain ideals. If to live means to create relationships with one’s surrounding environment – be it natural or artificial – to be a prisoner literally means not to be able to live. To “live a place” is to trigger an array of interactive processes with its people, its environment and its topography. The art of living lies in a vital exchange: the ability to adapt the body and the mind to the surrounding environment, thus allowing us to evolve. Preparing one’s body for such an evolution requires an environment, a “world” in which the body can move and express itself in ways that are meaningful. We need a great deal of training before our mind can move and wander freely, because it is much more sluggish than the body and tends to lean on old clichés, to leave, say goodbye and ignore. The mind yields to a progressive sort of blindness that reduces our perception of things, even when they lie right in front of us, in plain sight. To imprison migrants in those we believe to be their own borders or to force them to hopelessly wander around the world, or to exclude them from what we believe is only ours, is the very prison that confines ourselves.
It means reducing our interest in the world, and thus a degree of vitality in it. There is no doubt that, in Italy and elsewhere in Europe, the public commons far exceed these countries’ needs and that, not knowing how to use them, all kinds of locations are at some point turned into museums. Each taxpayer meanwhile supports two pensioners, and the fertility of Italian women has dropped to 27%. Italy as a country is destined to die of old age. Why not invite migrants to settle in Italy with their families, as the Romans did back in 212 AD? A prison is a shell that prevents humans from experiencing the general environment; from enjoying the osmosis between nature and artifice, between the macrocosm and the microcosm. The main feature of a prisoner is that of not having a social voice, because “a voiceless conscience ceases to exist” (Jacques Derrida). Therefore, prison also equals a loss of conscience, besides the loss of mere physical freedom. We know prison has to do with the body and the mind, but when can our body become the prison of our mind and vice versa? Cars are probably the subtlest and most widespread form of prison: minute cages that create around us a waterproof microcosm; one that prevents us from physically perceiving smells, expressions, moods and isolates our minds from the other minds around us. Initially considered the means of a conquered freedom from old social dynamics, the automobile has transformed our perception of territory and especially that of the city. The Modernist movement of architecture considered cars as a tool of progress and therefore let them enter our medieval and renaissance towns, transforming the streets and squares from social places into mere infrastructure for transportation between disjointed parts of urban networks – that by then had already been lost. The cars we have wanted at all costs to be parked right at the threshold of our homes are the authentic foreign body in our cities. They pollute the air we breathe, impose abnormal sound levels on us, artificial rhythms and ways of living that prevent us from simply buying what we need at the shop downstairs while encouraging crime and robbery – car accidents cause far more deaths than crime – and imposing a veritable dictatorship on our lives, one we have unconsciously and sadly become accustomed and adapted to. Listening to a conference by David Grossman at the Milanesiana, I also realise that obsessive jealousy is the worst prison in which we can lock ourselves. Something so overpowering from which it is extremely difficult to free oneself. Grossman, however, also emphasises its creative side, “when a jealous person turns from a wise and steady one to the inventor of imaginary, complex and grandiose stories, the one whose purpose is to create repeatedly, and sometimes in the most absurd and wild alleged circumstances of the love encounters of the object of their jealousy”. Jealousy leads the entire power of our imagination to create a Garden of Eden from which we will be later driven out. Is this what happens to recurrent prisoners? Is prison seen here as self-punishment or as a creative gesture a person needs, to be or not to be with other people? Society, however, does not only isolate criminals but misfits in general, those absolutely harmless men, women and children who do not comply with the criteria of respectability, civilness or morality that a right-thinking community tacitly adopts over time as a defence device for its own peaceful survival, thus relentlessly reducing its capacity to produce culture. We know for a fact that racism is generated by the weak’s need to identify the misfits and cling to an identity they need in order to
società, non riesca a essere culturalmente produttivo, ma al contrario rappresenti un consistente costo sociale? È di questi giorni la notizia che in un dibattito pubblico tra alcuni detenuti del carcere di massima sicurezza di New York e gli studenti di Harvard, il team dei carcerati ha avuto la meglio sui super secchioni della prestigiosa Università del Massachusetts, argomentando in modo molto più originale la propria tesi, forse proprio perché non intrisa di benpensantismo di maniera, ma costruita su dolorose esperienze personali piuttosto che su astratte teorie. Cesare Beccaria all’inizio del Settecento nel suo trattato Dei Delitti e delle Pene, afferma che “non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa” (cap. XX). E allora qual è esattamente lo scopo del carcere? Punire, mortificando con la pena di un isolamento più o meno lungo dalla società con la quale è stato infranto un patto, o correggere quel comportamento risultato difettoso nell’ingranaggio sociale per poi rimetterlo in funzione? Sono due modi diversi di progettare il carcere per l’architetto consapevole che il suo mestiere è quello di trasformare gli spazi in luoghi di relazione, renderli abitabili nella consapevolezza che la forza dell’abitare non sta nella costruzione, ma risiede nei principi dell’ascolto e del dialogo che l’architettura non può ignorare. Quindi nel primo caso applicherà a rovescio le peculiarità del luogo, negando l’architettura dell’abitare e nel secondo conferirà ai suoi spazi quei poteri performativi in grado di agire contemporaneamente sui comportamenti di tutti coloro che li frequentano, poiché, come nei luoghi di culto, l’azione acquista potere se è collettiva.
In copertina: Foto © Pietro Basoccu, 2010 Vedi servizio a pagina 30
recognize their own being alive. To remove and delete their unaccepted neighbours is a defence mechanism that proves their weakness and insecurity. In Italy, the framework law No 180 promoted by Franco Basaglia imposed the closure of mental hospitals, 36 years ago. Those same places where unspeakable suffering had been stratifying for decades are now spaces where new culture in generated, even by simply hosting artists that know how to mediate between our ordinary daily lives and those that these disabled, mentally or otherwise ill men, women, children, people have lived in those prisons. It is as if the hell of mental hospitals – where human expression is restrained by straitjackets, chains and cage beds, and where smiles, tenderness, joy or humanity are forgotten until death – had been literally imploring to be let out through the walls, floors and drains of those buildings. In that instance, the prison was closed and replaced by compulsory treatment and by instituting public mental health services. Why not do the same about drug addiction? What difference here may justify imposing prison on the sick? In Italy, no more than 10% of prisoners are criminals: 30% are illegal aliens and the rest are drug addicts and marginalised people. The prison is again being confused with the hospital. Prison is the place where the enemies of society are kept isolated, where some people are forcibly locked up, where the life experience they had built over the previous years, for better and for worse, through endless moments of emotion, feelings, conflicts, love and amazement are suddenly, brutally severed, frozen and moved to the memory area of their experience to become sheer waiting. Lives suspended and consumed in prison along an existence made of unwanted, imposed, violent relations. In Italy, the law that requires prisoners to work in order to keep productive and to find an occupation once released, is absolutely disregarded. How could such an artificial, organised structure and such a significant human asset socially available fail to be culturally productive and rather represent a significant social cost? It is recent news that, during a public debate between the inmates of a high security New York prison and a group of Harvard students, the inmates team won over the super geeks of the prestigious Massachusetts university, even thanks to their presenting their essays in more original ways, perhaps because they were “fresher” and not soaked in conformism, but based on painful personal experience rather than on abstract theories. In the early ‘700, Cesare Beccaria stated, in his treatise On Crimes and Punishment, that “there is no freedom when the law permits a man in some cases to cease to be a person and to become a thing” (Chapter 20). So, what exactly is the purpose of prisons? To punish and mortify through the penalty of a more or less long isolation from the society with which he or she has allegedly broken a covenant? Or to correct a behaviour that does not fit into the overall social gear to then restart it? An architect can have two possible approaches to designing a prison, if aware that his or her profession is about transforming spaces into places of relations; to make them liveable in the certainty that the power of living lies not in the building itself, but in the principles of listening and dialogue that architecture can never ignore. Therefore, in the first instance, they will reverse-apply the peculiarities of the place, thus denying the architecture of living, whereas in the second, they will give the space the performative powers that can affect simultaneously the behaviour of all those who live in them, because, just as in the places of worship, action acquires power when it is collective.
EVENTI
Daniela Novello
Il giorno imperfetto Un progetto espositivo dedicato al rapimento, ai cinquantacinque giorni di prigionia e all’omicidio di Aldo Moro. “[...] Il giorno imperfetto parla della nostra storia recente ed è dedicato agli ultimi cinquantacinque giorni di vita dell’Onorevole Aldo Moro. Daniela Novello affronta uno dei momenti più terribili della storia repubblicana e lo fa con i propri strumenti espressivi, che non sono quelli dello storico o del cronista ma quelli dell’artista. Chi visita l’esposizione non scopre una sola notizia in più di quanto già non si conosca sul ‘caso Moro’, ma ha un impatto empatico con la vicenda e con i suoi protagonisti che nessun saggio storico, per quanto dettagliato e approfondito, può restituire.” Michele Tavola
Dal 10 Maggio all’1 Luglio 2016 Milano, Casa della Memoria Via Federico Confalonieri, 14 a cura di Michele Tavola e Daniela Bini
S OM M ARIO ED IT ORIALE
ARTE Quale liberta? di Carlotta Monteverde
ARCHITETTURA
UmanitĂ norvegese Il carcere di Halden di Carlo Pozzi
TEATRO
Santo Genet Commediante e Martire di Antonella Anna Tolentino
FOTOGRAFIA
Pietro Basoccu
INTERVISTA Miklo nel Mondo Libero di Franca Pauli
Cattivi di Salvatore Ligios
20 | Roa e le ali della libertà
56 | Dove la diversità fa la differenza di Vanna Francesca Bertoncelli
di Michele Tavola
28 | La prigione di merletto
66 | Fotografare Cuba 56 anni dopo
di Marta Coccoluto
VIDEOARTE Il sogno di Fahed di Franca Marini
36 | Oltre il muro... la prigione dei sogni e delle idee di Barbara Noferi
di Marcella Marone Cinzano Pittaluga
70 | La prigione della Solitudo di Maria Gabriella Frabotta
72 | Il mare negli occhi
37 | Città labirinto di Michele Manigrasso
52 | Qui non si vendono valigie
di Stefano Mavilio
74 | Prigioniero di un romanzo, libero di scrivere
di Nicoletta Pardi
di Sandra Maria Dami
76 | Alessandro Vignali: un artista che non scende a patti di Saverio Luzzi
82 | Un caso clinico, un caso umano o semplicemente un uomo? di Elena Pasqualoni
84 | Racconti dal Sahara di Angela Galli
86 | Gate: da cancello a passaggio di Giovanna Brambilla
88 | Libri
S CULTURA
PSICOLOG IA
L’arte spezza le catene?
Fight, Flight, Faint, Freeze Le quattro F della Paura
Laura Cavalieri Manasse intervista Rodolfo Lacquaniti
di Sara Alaimo
ARTE
ARCHITETTURA
N.O.F. nella cattedrale della follia
I concetti sono al tempo stesso una risorsa e una vera e propria prigione
di Marco Del Francia
di Edoardo Milesi
T EATRODANZA
S T OR IA
Danza libera tutti!
La prigione dei segni
di Silvia Lombardi
di Matter of Stuff
Quale libertà? Cosa significa Libertà? L’autrice cerca la risposta a questa domanda nel mondo dell’arte contemporanea, tra i grandi artisti che hanno dedicato le loro opere più famose alla ricerca della soluzione a questo complesso quesito di Carlotta Monteverde
Tehching Hsieh, One Year Performance, Cage Piece, 1978-1979
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Tehching Hsieh, One Year Performance, Time Clock Piece 1980-1981. Foto © Julian Stallabrass
Tehching Hsieh, One Year Performance, Rope Piece 1988-1984
ehching Hsieh (Nan-Chou, Taiwan, 1950; a New York dal 1974) è diventato leggenda per le sue One Year Performance, cinque azioni della durata di un anno ciascuna che si sono svolte tra il 1978 e il 1986: logoranti tour de force fisici ed emotivi, in cui ha fiaccato, tormentato, disciplinato, talvolta anche negato la propria mente, il corpo, i sensi, la propria intimità ed infine la propria stessa natura di artista. Sebbene il suo lavoro indaghi, si focalizzi sul tempo (dell’esistenza), molta della forza che ne deriva proviene dall’aver reso manifesti i conflitti tra limiti, condizionamenti e volontà congeniti all’essere umano, dall’aver dimostrato le contraddizioni insite nel concetto medesimo di libertà. In One Year Performance 1978 - 1979 (Cage Piece) Hsieh si rinchiude in isolamento in una gabbia attrezzata nello studio newyorkese. Solo un letto, un lavandino e un secchio. Per 365 giorni non legge, non scrive, non ascolta la radio e non guarda la tv. In One Year Performance 1980 1981 (Time Clock Piece) timbra a ogni ora del dì e della notte un cartellino. A documentare il gesto, un fotogramma impresso dopo ciascuna singola obliterazione; si priva del sonno e della possibilità di allontanarsi dal loft. One Year Performance 1981 - 1982 (Outdoor Piece) lo vede all’addiaccio per 4 intere stagioni: si vieta di entrare in qualsiasi posto coperto, che sia un edificio, un mezzo di locomozione, una grotta o una tenda. Gli anni 1983 - 1984 sono quelli di Rope Piece: rimane legato con l’ausilio di una corda di pochi metri alla performer Linda Montano. Sempre. Due sconosciuti che per dodici lunghi mesi condividono ogni istante dell’esistenza. Infine con One Year Performance 1985 - 1986 (No Art Piece) frustra la sua stessa indole e si proibisce di fare, aggiornare, osservare e discutere di arte. Per essere semplicemente in vita. Nella mostra Gradi di libertà, ideata e prodotta dalla Fondazione Golinelli per il MAMbo di Bologna nell’autunno 2015, su progetto di Giovanni Carrada, a cura di Giovanni Carrada e Cristiana Perrella, tra le opere esposte vi è Time Clock Piece. Nella scheda del catalogo dedicata al lavoro si legge: “Può la libertà essere esercitata come forma autoimposta di costrizione individuale?” “Nella radicalità di tale operazione, Tehching Hsieh rivendica una forma di controllo assoluta sul proprio corpo, contravvenendo ai processi naturali che regolano i bisogni fisiologici
Sopra: Ryan McGinley, Coco’s cliff, 20082009, C-Print 274.3 x 182,9 cm Collezione privata. Courtesy artista e Team Gallery, New York A destra: in alto, Ai Weiwei, Toilet Bowl Flowers 2014, Alcatraz, San Francisco, CA. Foto © Don McCullough Sotto, Ai Weiwei, Stools, 2014, Berlino. Foto © Maia Eos
di un uomo e quindi, paradossalmente, esercitando una forma di libertà estrema, svincolata dagli automatismi ai quali inconsciamente siamo sottoposti”. La domanda è questa: siamo davvero così sicuri di essere sempre consapevoli e di saper riconoscere tutte le sovrastrutture, i condizionamenti, volontari e involontari, che vincolano costantemente le nostre pretese di autodeterminazione? Esclusi i casi limite di privazione fisica, detenzione, oppressione e palese restrizione di diritti, quanti altri elementi interferiscono con le nostre scelte? Il lavoro di Hsieh, d’altronde, ci insegna che anche il corpo è un ostacolo, e che la linea che divide prigionia e libertà è molto più sottile di quanto possiamo ipotizzare. A cosa servono dunque gli artisti? A indicarci, a svelare, dove noi siamo in fallo, disattenti, i meccanismi perversi che ci tengono legati. Ritornando alla mostra, che è parte, nonché sesto appuntamento del ciclo “Arte
scienza e conoscenza” (dal 2010, a cadenza annuale) è suddivisa in sei sezioni, che analizzano da più punti di vista il concetto qui sviscerato, i suoi presupposti e i dispositivi che ne minano le basi. Abbiamo già scoperto l’esistenza di “schiavitù” biologiche che decidono i ritmi della nostra vita grazie al lavoro dell’autore taiwanese, ma ve ne sono molte altre ancora. Come le sottili e costanti manipolazioni “subliminali” di moda, pubblicità, superstizioni, riti, preconcetti, spesso legati al substrato socioculturale cui si appartiene. Spetta alle fotografie delle performance di Vanessa Beecroft e ai wall drawing di Dr. Lakra mettercene in guardia. O le numerose, non sempre manifeste manovre per alterare tutele e privilegi acquisiti, in agguato ad ogni angolo: Nasan Tur, con i suoi equipaggiamenti per scioperare o parlare in pubblico ci dimostra che la libertà è la condizione per la libertà. Con Ryan McGinley e Halil Altindere comprendiamo che l’adolescenza è l’età
Sopra: Ai Weiwei, Sunflower seeds, 2010, Londra Tate Modern Galley. Foto Š Waldo Pepper A sinistra: Bob e Roberta Smith, The nest 2005, battiscopa e cartelloni dipinti. Courtesy the artist
Which freedom? by Carlotta Monteverde
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he exhibition Degrees of freedom was conceived and produced by the Golinelli Foundation for the MAMbo museum of Bologna in the fall of 2015. Designed by Giovanni Carrada and curated by Cristiana Perrella Carrada, the project poses the question can freedom be exercised as a self-imposed form of individual constraint? Are we really sure of always being aware and able to recognize all the superstructures and voluntary and involuntary conditionings that constantly constrain our claims of self-determination? If we were to exclude the most extreme cases of physical deprivation, detention, possession, oppression and blatant restriction of rights, how many other elements would continue to interfere with our choices? And what, therefore is the artist’s role? To show us and reveal where we are inattentive and wrong and to detect the perverse mechanisms that keep us tied down. The exhibition is part, of as well as the last section, of the cycle called Art, Science and Knowledge. The exhibition is divided into six sections that analyse the concept being investigated from various different points of view along with the assumptions and devices that undermine its very foundations. We have already discovered the existence of instances of biological slavery that set the rhythm of our lives thanks to the research conducted in Taiwan, but many more are yet to be revealed. As the subtle and constant manipulation of subliminal fashion, advertising, superstition, rituals and preconceptions often linked to the socio-cultural substrate to which we belong.
A desta: Ai Weiwei, Trace, 2014, Alcatraz, San Francisco. Foto © Stijn Nieuwendijk
Sotto, da sinistra: Ai Weiwei, Vasi, 2009, Mori art Museum, Tokyo. Foto © Maurizio Mucciola Ai Weiwei, Straight, 2008-2012, Brooklyn Museum, NY. Foto © Frank Daum
Igor Grubić 366 Liberation Rituals, 2008-2009, serie di azioni nello spazio pubblico. Courtesy l’artista e Laveronica arte contemporanea, Modica (RG)
cruciale in cui si formano le premesse per la nostra futura emancipazione; Cao Fei, Bob and Roberta Smith e Igor Grubić parlano invece dell’importanza dell’arte, base di apprendimento dunque autodeterminazione, e la portano in luoghi da cui essa è spesso espulsa; infine il video di Ryan Trecartin ci segnala le trappole insite nelle moderne tecnologie digitali, fonti, se bene usate, di immensa autonomia. Aprono e chiudono rispettivamente la mostra l’Inno di libertà di Susan Hiller, Die Gedanken sind frei (I pensieri sono liberi), e I traditori della libertà di Pietro Ruffo. Prima di concludere l’articolo, però, vorrei soffermarmi ancora su un’ultima figura, Ai Weiwei, approcciando brevemente altri due argomenti: artista e attivista, le opere e le azioni che compie e realizza sono il più delle volte al servizio della lotta e dell’impegno sociali; cinese, il contesto da cui proviene è quello di repressione e controllo, da parte della autorità, sulla produzione e libertà di espressione. Ricordo solo gli eventi che hanno fatto parlare di lui nei mesi appena trascorsi: l’accusa di censura nei confronti della Lego per avergli rifiutato grandi quantitativi di mattoncini (ottobre) risoltasi di recente con il cambio di politica aziendale del colosso danese; la controversa fotografia nella posizione di Aylan Kurdi e l’attività sull’isola di Lesbo dove ha in cantiere un memoriale per rammentare i profughi vittime del mare.
Ai Weiwei inizia la propria carriera artistica nel gruppo The Stars: è il 1979 e gli intenti sono quelli di “contestare” il Realismo Socialista fondando la pittura su nuovi presupposti. A New York dai primi anni ‘80, rientra in patria nel 1993, e nel 1994, 1995 e 1997 pubblica The Black Cover Book, The White Cover Book e The Grey Cover Book, tracciando e incoraggiando l’avanguardia artistica cinese, scopo anche della fondazione del China Art Archives and Warehouse al termine dei ‘90. Il 2000 è un anno importante: organizza Fuck Off, “contro-biennale” in polemica con la terza edizione di quella ufficiale di Shangai, poi fatta chiudere, dove espone gli storici Study of Perspective e Dropping a Han Dynasty Urn, ma è nel 2006 che apre il famoso blog, oscurato nel 2009. Ai è anche architetto: con il suo Fake Design progetta oltre 70 edifici; partecipa con Herzog & de Meuron (2003) all’ideazione dello Stadio di Pechino per le Olimpiadi del 2008, Olimpiadi che successivamente contesta e boicotta pubblicamente. Con il terremoto nel Sichuan e le indagini compiute con gruppi di volontari per scoprire i nomi di ogni bambino morto si apre un nuovo capitolo: opere come quelle presentate al Mori Art Museum di Tokyo e alla Haus der Kunst di Monaco, con gli zainetti bianchi e neri o colorati, o Straight (2008–2012), distesa di tondini di ferro estratti dalle costruzioni collassate durante il sisma, intense e poetiche,
si accompagnano sempre più di frequente a ritorsioni, pestaggi, controlli, censure sul blog... fino all’arresto nel 2011 (per reati fiscali), alla detenzione per 81 giorni in una località segreta, al sequestro del passaporto, restituitogli solo durante l’estate 2015. Per farla breve: tra gli artisti maggiormente significativi degli ultimi anni, Ai Weiwei ha parlato al mondo della Cina contemporanea, delle sue tradizioni e problematiche, miscelando consapevolmente estetica occidentale, storia orientale e lotta sociale, impegnandosi quotidianamente per il diritto di espressione, e pagandone le conseguenze con la limitazione della propria autonomia personale. Con questo ultimo tassello, narrandone le vicende, chiudiamo la nostra indagine sulle molteplici sfaccettature che la parola libertà può assumere nei diversi contesti. Esercitare, garantire e progettare spazi di sovranità sono prerogative, doveri e desideri di ogni cittadino, e variano costantemente di tempo in luogo. Gli esempi di Tehching Hsieh, degli artisti esposti nella mostra di Bologna e di Ai Weiwei, le loro opere, sono risposte altrettanto efficaci a un’unica domanda: cosa significa libertà oggi.
Santo Genet Commediante e Martire Progetto di laboratorio teatrale della Compagnia della Fortezza nella Casa di Reclusione di Volterra di Antonella Anna Tolentino, foto di Stefano Vaja
L’
incontro tra Armando Punzo, drammaturgo e regista teatrale italiano, Direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra e del Festival VolterraTeatro, con un gruppo di detenuti del carcere di Volterra, avvenuto ormai oltre venticinque anni fa, ha dato luogo alla più lunga e importante esperienza di teatro in carcere in Italia e non solo. La lungimiranza e l’influenza della Compagnia della Fortezza, che nasce come progetto di Laboratorio Teatrale nella Casa di Reclusione di Volterra nell’agosto del 1988, dipende in larga misura dal fatto che il teatro di Punzo, diversamente da altri tipi di teatro sociale, mette in primo piano il valore artistico e la professionalizzazione degli artisti/detenuti, piuttosto che l’aspetto rieducativo e risocializzante delle persone coinvolte. Una connotazione imprescindibile di questa compagnia è l’orientamento verso
l’esito artistico del lavoro fatto attorno al teatro come rito: evento che trasforma chi lo esegue e chi vi partecipa. È un invito a violare i limiti del ruolo che la società impone. Il modo suggerito per uscire dal ruolo è quello di trasformarsi e la trasformazione è sempre un’esperienza traumatica, dal momento che comporta il crollo dei punti di riferimento e lo sconvolgimento della quotidianità. La lingua prescelta negli spettacoli è una lingua discriminata rispetto a quella ufficiale come il dialetto, soprattutto quello napoletano, ed esprime la cultura e i valori delle classi sociali più marginali a cui i detenuti appartengono. Lo spettacolo portato sulle scene è Santo Genet ispirato all’opera popolata da emarginati, reietti e fuorilegge di Jean Genet, turbolento autore francese che frequentò il carcere a più riprese. L’intera produzione dello scrittore
è stata spunto di riflessione sulle questioni che interessano la compagnia, veicolo di bisogni e sentimenti che esigono di trovare un’espressione. L’intervento sui testi presi in considerazione è stato molto libero: sono stati tagliati, scombinati, rielaborati in un mondo in cui pare che si sia già detto tutto e in tutti i modi, dove la parola può trovare nuovi significati solo attraverso la ricombinazione: la componente verbale interagisce, poi, efficacemente con tutti gli altri segni della scena. Lo spettacolo è stato concepito per la messa in scena all’interno del carcere di Volterra e per gli altri teatri tradizionali in cui è stato portato, sono stati necessari alcuni adattamenti, come per la rappresentazione all’interno del Teatro Tieffe Menotti di Milano. Santo Genet inizia ancor prima di cominciare, ossia quando il pubblico scende le scale che dall’ingresso del teatro
conducono alla sala. La lenta processione viene fermata da alcuni attori che recitano, pesantemente truccati e travestiti, alcuni monologhi. Uno dei tre recita disteso in una teca di vetro, vestito da sposa. Con questo espediente Punzo ha voluto ricreare quella compenetrazione tra spazio destinato agli spettatori e spazio scenico già sperimentata presso il carcere di Volterra, nonché adibire a luogo teatrale uno spazio non destinato alla rappresentazione. L’ingresso alla sala avviene attraverso una galleria di statue viventi: detenuti, disposti in doppia fila e vestiti da marinai, simbolo erotico per lo scrittore francese. Muovono le loro braccia indicando punti lontani, facendo mostra di scagliare frecce, congiungendo le
mani in preghiera. La loro fisicità è prorompente: sono corpi tatuati, muscolosi, pieni di cicatrici e tatuaggi. Ed ecco anche qui la figura di Punzo, vestito con un lungo abito nero, alto cilindro in testa e un serto di rose rosse attorno al collo, officiante di questo rito, precede gli spettacoli con sguardo fra il rapito e l’inquietante, accompagnandoli ai posti. Come tutti gli altri personaggi che affollano la scena, anch’egli è pesantemente truccato e reca in mano un libro con un grande cuore rosso in copertina. Durante tutto lo spettacolo leggerà alcuni brani, mentre sul palco si susseguiranno i monologhi dei vari fantasmi usciti dalle opere di Genet. La suggestiva scenografia contrappone a una
sorta di cimitero monumentale, con colonne e sarcofagi di marmo, una scena ipertrofica: abat-jour, fiori, tende di velluto, specchi dorati, icone e crocifissi e un piano davanti al quale siede il musicista Andrea Salvadori, che con le sue note accompagna i personaggi nei loro monologhi. Il contatto fisico fra attori e spettatori è molto stretto, anche se non come in carcere. Attori e attrici invitano gli spettatori a danzare un valzer, mentre lo spettacolo si conclude con il pubblico che lancia fiori - precedentemente distribuiti sul palco, agli attori. Armando Punzo traduce un mondo di decadenza morale, che tanto attirava e cui apparteneva il poeta francese, in un universo pregno di solidarietà. Le storie raccontate,
Chi è | Antonella Anna Tolentino Studentessa al secondo anno della magistrale in Filologia moderna, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, appassionata di teatro, fotografia e arte, nel 2014 si è laureata in Lettere con una tesi intitolata: Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza. Analisi dello spettacolo Santo Genet (2014). Quando non è curva sui libri sogna di vivere a New York e lavorare per una stimolante galleria d’arte contemporanea, senza perciò rinunciare definitivamente alla sua Puglia.
del resto, sono un tentativo di espiazione che mira a condurre i personaggi verso la perfezione morale, ovvero la santità. Si tratta di un fine dichiarato dallo stesso Punzo nei panni di Irma: “se la santità è il mio fine non riesco a dire cosa sia. Il mio punto di partenza è la parola che porta alla perfezione morale, di cui non so nulla. Non potendo definire né la santità né la bellezza, voglio costruirla in ogni atto”. La bellezza dell’universo in cui Punzo ci introduce non è però pacificante, allo stesso modo la santità non esclude la degradazione. Si può piuttosto affermare che in questa rappresentazione gli opposti convivano e si esaltino vicendevolmente, sia a livello estetico che etico: lo stile kitsch non
compromette l’eleganza dell’insieme, il lato oscuro dei personaggi fa brillare più intensamente la luce che essi serbano dentro di sé. Lo spettatore rimane stordito e disorientato, bombardato da note discordanti, ma tutte appartenenti alla sinfonia della vita. Un’esperienza liberatoria e dolorosa perché momentanea. Come tutti gli spettacoli della Compagnia della Fortezza, Santo Genet parla di liberazione e di trasformazione. E la trasformazione è innanzitutto il risultato di un’operazione di tipo culturale. Per Punzo, però, la cultura non è qualcosa da concepire in termini astratti: per lui soltanto attraverso l’azione, o meglio l’azione artistica, che di cultura si nutre, è possibile cambiare le cose.
Il contatto fisico fra attori e spettatori è molto stretto, anche se non come in carcere Saint Genet, Actor and Martyr by Antonella Anna Tolentino
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he encounter of Armando Punzo – Italian playwright, theatre director and art director of the Teatro di San Pietro di Volterra and the Volterra Teatro Festival – with a group of inmates of the Volterra prison took place over 25 years ago and gave rise to the longest and most significant theatrical experience that ever happened in Italian jails and beyond. The foresight and influence of the Compagnia della Fortezza – a theatrical workshop launched in the Volterra detention centre in August 1988 – largely depends on the fact that Punzo’s dramatic work, unlike other types of social theatre, focuses on the artistic content and on the professionalization of artists and inmates rather than on its educational and socialising effect on the people involved. Saint Genet speaks of liberation and transformation, where transformation is the primary result of a cultural project. According to Punzo, culture should never be conceived in abstract terms but only through real action – or rather the artistic action that feeds on culture – because only then it has the power to bring change.
Oltre il muro... la prigione dei sogni e delle idee Piombino, principale polo dell’industria siderurgica toscana, sede di grandi siti industriali che hanno contribuito alla crescita demografica e modificato gli assetti sociali di Barbara Noferi
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ra nata nel secolo scorso, non per abitare ma per produrre, creare, vendere, fare business. Inserita come appendice del contesto urbano di Piombino, nel tempo si è “integrata” ed è stata accettata pian piano da tutti. Come una delle tante persone immigrate arrivate nel nostro paese e oggi integrate, dopo aver superato enormi difficoltà, anche lei ce l’ha fatta. Tutti si sono abituati a vederla, capirla, come una “vecchia signora”, con i suoi tanti difetti e i suoi pregi. Giovane e attiva in passato, con lo scorrere del tempo si è ammalata, ha perso la sua forza e ora giace quasi addormentata, inerme, avvolta da un torpore che nessuno sa se potrà finire. Dorme, sonnecchia, la “vecchia signora”, prigione dei sogni e delle idee.
Foto © Andrea Puggioni
Molti le hanno dedicato l’intera vita, sacrificando e abbandonando aspirazioni diverse, interessanti, ma forse meno sicure. Giovani divenuti oggi tecnici specializzati, che guardandosi indietro, a volte rimpiangono di non aver tentato di inseguire i propri sogni. Chi varca quel muro, purtroppo diventa un suo ostaggio, per otto ore o più, carcerati in tuta blu si muovono a ritmi intensi. Quello che conta è impegnarsi duramente, per tenerla viva, accontentarla sempre, gli uomini non contano, né i loro pensieri, i loro sentimenti. Questo viene chiesto e questo deve essere rispettato. In quelle dure ore di lavoro non si pensa ad altro e così passano gli anni, giorno dopo giorno la stessa routine. Dopo cosa rimane? La grande soddisfazione di aver dato una sicurezza ai propri figli, un futuro stabile alla propria famiglia, era il posto fisso tanto agognato, ma quei sogni di bambino? La prigione se li è presi, li ha strappati con forza dal cuore. Ora la “vecchia signora” sta male e il dispiacere è comunque di tutti, perché lei molto ha tolto ma molto ha dato. L’industria, le acciaierie, prigione oltre quel grande muro, realtà così odiata, ma spesso unica fonte di sostentamento. Amore e odio quindi, per una realtà urbana dedicata al lavoro, prigione di sogni e di idee che nessuno però è mai riuscito a condannare fino in fondo.
Beyond the wall... the prison of dreams and ideas by Barbara Noferi
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iombino, a small suburbian town in Tuscany, is home to a large steel industry compound that has been offering steady employment to hundreds of local residents, many of whom have spent their entire professional life there. What is now left of all this? The great satisfaction of having provided security to one’s children, a stable future for one’s family through the coveted tenure, but what about those childhood dreams? She, the prison, has taken them. She has forcefully ripped them right out of their heart. And now the old lady is sick and everybody is sorry for her, nonetheless, because she has taken away dreams as much as she has provided security. The industry and the steel mills beyond that tall wall – the prison so hated yet the sole source of sustenance. Love and hate for an urban context dedicated to work, a prison of dreams and ideas that all, however, have ever failed to condemn once and for all.
Chi è | Barbara Noferi Nata a Piombino, laureata in Conservazione dei Beni Culturali, da sempre ama scrivere e lo fa come giornalista pubblicista. Collabora con Il Tirreno e spera in nuove collaborazioni. Si diverte a inventare favole per bambini e nel 2002 ha pubblicato il libro I fiori della Signora Ada. La vita senza i suoi animali sarebbe vuota e monotona.
URBANISTICA
Città labirinto La metafora del labirinto dal mito greco, per analizzare l’urbanistica delle città contemporanee, la loro capacità di accogliere o spaesare i cittadini che le abitano di Michele Manigrasso
Non posso legarti ma provo a tenerti, Millo, 2012
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a Città labirinto è una prigione che ci allontana dalla nostra vera natura. Ci disorienta, ci porta in una dimensione atopica, in cui l’abitare non è più un diritto autentico e personale. Ci fa perdere coscienza dello spazio che attraversiamo. È una città che sottrae senso al camminare, tempo al pensiero; uccide il prossimo. Nel mito greco, il labirinto è una prigione da cui non si può fuggire, nell’Eneide nasconde l’entrata dell’Ade. L’arte tantrica vede nel labirinto l’aspetto mentale dello spirito. L’antico dedalo egizio, invece, rifletteva la struttura dell’universo. Il labirinto non è il risultato del caos, non è un sinonimo di disordine, ma un dispositivo, costruito ad arte per imprigionare, confondere e annientare l’avversario. Fin dall’inizio si pone come artificio e progetto; Dedalo è ricordato come un grande architetto. Il labirinto è la prima architettura complessa che organizza un luogo circoscritto, separandolo intenzionalmente da
ogni riferimento con lo spazio esterno e il contesto (Rosario Pavia, 2002). L’edificio fatto costruire da Minosse per imprigionare il Minotauro è un grande interno organizzato in un intrico di strade, incroci, in sequenze di stanze. Terminata la costruzione, Dedalo con il figlio Icaro, vi si trovarono prigionieri; per loro, l’unica via d’uscita fu il cielo. Omero, nel descrivere lo scudo di Achille, parla di Dedalo come del creatore di un piazzale per le danze; il labirinto, prima di essere una costruzione, era probabilmente uno spazio aperto dove, attraverso il movimento della danza, ci si appropriava istintivamente del senso della vita. Il filo di Arianna, usato da Teseo per riconquistare l’uscita dopo l’uccisione del Minotauro, non era altro che una fune che consentiva ai danzatori di muoversi in sintonia, guidati da un capofila, seguendo un andamento a spirale, avanzando continuamente e sinuosamente per poi, in un punto e in un momento ben definiti, cambiare direzione
La costruzione di uno spazio pubblico dove poter camminare, osservare, sostare, incontrare, vuol dire rompere l’opacità dell’indifferenza
e tornare indietro. Il rito danzante esprime la circolarità della vita e della morte. Il mito del labirinto accostato alla città, è più che attuale: prende l’aspetto di una strategia cartografica per condurci attraverso la complessità della città contemporanea, muoverci all’interno di essa, riconoscerne gli spazi, vincerne le paure e individuare modalità di resistenza al senso di disorientamento spaziale, liberarci dalla prigione dell’atopia. Le nuove forme dell’urbano appaiono, infatti, senza struttura, senza disegno. La città si pone come un intreccio senza centro, senza regole, […] come un dispositivo che respinge lo sguardo d’insieme, riportando costantemente l’attenzione sul luogo in cui si è (Hubert Damisch, 1996). È questa estraniazione, questa assenza di centro e di orientamento spaziale a fare della città contemporanea un nuovo labirinto che assume caratteri più inquietanti se, nella sua opacità scorgiamo l’ombra del mostro, il male oscuro del ‘900, con la sua violenza, la sua infamia, la sua follia d’intervento. Lo spaesamento è oggi qualcosa che non ha a che fare con un sentire passivo e neutro: lo spaesamento è la consapevolezza di non abitare più in nessun luogo. È la perdita dell’attraversamento come esperienza creativa dello spazio, come percezione delle differenze e riconoscimento dell’altro. La metropoli contemporanea, nonostante il suo ritmo accelerato, l’esplosione della comunicazione telematica e la velocità dei suoi mezzi di trasporto, nega l’attraversamento, non solo sul piano culturale, ma materialmente, impedendo il movimento, il transito, il camminare (Rosario Pavia, 2015). Le grandi infrastrutture impongono il loro dominio, il loro spazio non ha relazioni intenzionali, non è integrato nella città, nel territorio: è uno spazio derealizzato direbbe Françoise Choay. La dilatazione della città ha trasformato le strade in corridoi per le auto, il sottosuolo in tunnel per i collegamenti dei treni metropolitani; le arterie a scorrimento veloce tagliano la città, la separano, la frammentano; i percorsi pedonali hanno perso la loro continuità. Lo sguardo dell’uomo blasé è imprigionato, mediato dai vetri delle auto, dei treni in corsa. Forse bisogna partire proprio da qui, dal movimento lento dei corpi negato e frustrato, circoscritto e controllato nello spazio chiuso dei parchi a tema e dei centri commerciali, annullato fisicamente nell’abitacolo delle nostre auto, la più subdola e diffusa prigione che, costruendo attorno a noi un microcosmo impermeabile, ci impedisce di percepire fisicamente odori,
espressioni e stati d’animo, isolando anche la nostra mente da quelle che ci circondano (Edoardo Milesi, 2016). Partire da questa negazione e ritornare a riflettere sulla capacità di orientamento del nomade, sulla sua sapienza antica di interrogare il territorio e riconoscere nelle sue pieghe il tracciato da seguire. Si aprono nuove possibilità per la città. Il filo di Arianna è per noi una metafora che pone al progetto il tema dell’attraversamento consapevole, secondo un itinerario narrativo, un palinsesto di accadimenti spazialmente leggibile. È un tracciato che interconnette luoghi e nodi complessi; restituisce il senso dell’orientamento e la comprensione delle strutture urbane. È quella guida che dilata il tempo, lo rende spazio, che ridona libertà di scelta, senza paure. La costruzione di uno spazio pubblico dove poter camminare, osservare, sostare, incontrare, vuol dire rompere l’opacità dell’indifferenziazione, interrogarsi sulla nostra condizione passiva che non percepisce più i conflitti e la presenza dell’altro. Significa anche riportare al centro della progettazione il corpo e la sua sensorialità. Vuol dire fare del nostro sguardo, del nostro movimento nello spazio, del nostro abitare, esperienze di libertà, autentiche perché incise nelle nostre impronte digitali, labirintiche ma uniche… capaci di testimoniare noi stessi e di dare soluzione all’enigma. L’ultima delle città del mondo che ho visitato è San Paolo. Labirinto unico, incredibile sintesi di vita, di densità, di volumi e costruzioni accatastate le une alle altre. Questo accavallarsi di strati e sovrapposizioni rappresenta la vera identità della città, o meglio delle molte città che si avvicendano e si inseguono senza soluzione di continuità. È una città con un’energia assurda, con un’intensa attività culturale, in cui tutte le tribù urbane coesistono. La mancanza di personalità si è trasformata nella personalità della città” (Isay Weinfeld, 2009). Quando sei a San Paolo sei immerso in un groviglio di fili che tessono relazioni fisiche e immateriali di forte complessità. Tutto ti gira intorno; genti e auto, in un labirinto di colori, forme, suoni, frastuoni... caos. San Paolo è una città che ti danza intorno; sulla base, una melodia che va da sé, alla continua ricerca di un direttore d’orchestra, che stenta a salire sul podio. Nessuno ti chiede chi sei. La città ti accoglie senza chiederti nulla, gli altri non sono altro che paesaggio. San Paolo ti accetta e ti imprigiona; non puoi far altro che arrenderti alla sua energia… e iniziare, con gli occhi rivolti al cielo, la tua personale e libera danza.
… e finestra e finestra e finestra e finestra e finestra e altra porta e altra porta altra porta altra porta. Fino al duro infinito moderno con il suo inferno di fuoco quadrato, e poi la patria della geometria si sostituisce alla patria dell’uomo Pablo Neruda
Sopra: Dal labirinto al cielo San Paolo, 2015. Foto © Gloria Bazzoni A sinistra: Twister Millo, 2011
Labyrinth city by Michele Manigrasso
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he labyrinth City is a prison that takes us away from our real nature. It confuses us and takes us on an atopic dimension, in which living in a place is no longer an actual personal right and makes us lose consciousness of the space we cross. This city subtracts meaning from the act of walking and time from that of thinking. It kills our neighbour. In Greek mythology, the labyrinth is a prison from which you cannot escape. The labyrinth myth associated with that of the city is sure enough more than appropriate. It takes on the appearance of a mapped strategy that will lead us through the complexity of the contemporary city and will let us move within it, help us recognize its spaces, win our fears and identify possible modes of resistance to our sense of spatial disorientation and eventually free us from the prison of atopia. However, the new shapes of urban structures show no structure or schemes whatsoever. The city stands as a centreless plot without any rules to it, “[...] a device that repels any possible overview and brings constant attention back to the place where you are”. (Hubert Damisch, 1996). It is this estrangement and absence of central or spatial orientation that makes the contemporary city a new labyrinth. Disorientation has now nothing to do with a passive or neutral attitude, but is the awareness of not living anywhere, anymore. It is the loss of the experience of crossing the space as a creative action, as the perception of differences and the recognition of our neighbour.
N.O.F. nella cattedrale della follia N.O.F. ovvero Nannetti Oreste Fernando nel corso della sua degenza forzata in un manicomio ha utilizzato una particolare espressione artistica: con la fibbia del suo panciotto incise l’intonaco del reparto “Ferri”, producendo un libro-graffito lungo quasi 200 metri di Marco Del Francia foto di Cristina Guerrieri
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ura fatiscenti e cortili abbandonati, panchine consunte, calcinacci, vetri da finestra rotti, pareti stonacate, portoni semiaperti e l’inquietante sensazione che i degenti ancora vi vagassero: così si presentò ai miei occhi di ventenne il manicomio di Volterra quando lo visitai per la prima volta. Un condominio particolare, in stato di abbandono fin dagli anni ’80, i cui inquilini vi abitarono non per libera scelta (a loro non era consentito scegliere), ma sottostando a precise disposizioni date da chi, a quegli “stabili”, davano motivo di esistere. Costruzioni realizzate con criteri architettonici che ubbidivano ai principi di custodia coatta: mura di cinta provviste di reti metalliche altissime; enormi cancelli a sbarrare l’ingresso; finestre con inferriate; gli spazi interni disposti in modo da rafforzare il senso di separazione e isolamento. Il tutto immerso, paradossalmente, in ettari di bellissimo verde. Sono tornato nel manicomio più volte e proprio in questa prigione ho conosciuto la storia di N.O.F., ovvero Nannetti Oreste Fernando, che qui trascorse circa 35 anni. In questa cattedrale della follia, come l’ha definita Vittorino Andreoli, N.O.F. sembra uscire dalla penna di Victor Hugo, abitandovi come Quasimodo in Notre-Dame. Solo che in questo caso il senso di abbandono, di isolamento e del diverso non è frutto di fantasia, ma di pura e drammatica realtà. Nel corso della sua degenza forzata, in un ambiente che annulla
Il senso di abbandono, di isolamento e del diverso non è frutto di fantasia, ma di pura e drammatica realtà
l’individualità e reprime il proprio io, Nannetti è riuscito a comunicare il suo essere nel mondo tramite una inconsapevole espressione artistica. Per più di venti anni, ogni giorno, approfittando dell’ora d’aria concessa, con la fibbia del suo panciotto N.O.F. incise l’intonaco del reparto ‘Ferri’, producendo un ‘libro-graffito’ lungo quasi 200 metri per un’altezza media di oltre un metro. Esaurito l’intonaco, proseguì sul passamano in cemento di una scala lunga un metro per un palmo di larghezza; infine, munito di carta e penna, produsse qualcosa come 1600 lavori. Agli inizi degli anni ‘80, grazie a Mino Trafeli (e al foto racconto di Pier Nello Manoni), scultore e insegnante volterrano, cominciò la ‘riabilitazione’ sociale di Nannetti come artista, lui che probabilmente neanche sapeva di esserlo; lui che su quell’intonaco, semplicemente, proiettava il suo mondo fantastico fatto di immaginari deliri, unica, poetica salvezza dalla assoluta e isolante spersonalizzazione del manicomio. Se per Quasimodo il rifugio era rappresentato dai suggestivi antri di Notre-Dame e dall’amore per Esmeralda, N.O.F. trovò in una particolare tela l’isola dove riparare da un naufragio mentale totale. Un graffito che, per forza espressiva, sembra gridare la voglia e il diritto di vivere del suo autore, seppure senza sofferenza alcuna. Il meticoloso e paziente lavoro d’incisione si traduce in un enigmatico linguaggio cifrato accompagnato da ingenue figure. Un linguaggio leggibile, ma dal significato
incomprensibile: «Io Signor N.O.F. (4) Ho dichiarato tutto ciò che vi è scritto Nucleare Orientale Francese = Nannetti Oreste Fernando Grado Colonnello Astrale Titolo Imperatore di Francia comprese le sue Colonie… Io sono un Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale, questo… e la mia chiave Mineraria, sono anche un colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre… questa è la mia spiegazione Nucleare del Signor Nanof, N.O.F. (4) detto lo Scassinatore Nucleare.» Nannetti si sente al centro di un sistema telepatico di cui si fa interprete: un ponte che lo collega con lo spazio e i suoi pianeti fino al centro della Terra e i suoi minerali. Inutile cercare ipotetiche interpretazioni. Scriveva Michelucci: «Quando vado in una clinica psichiatrica e vedo il vecchio ambiente con le inferriate, le finestre sbarrate e dentro questi pazzi che non fanno nulla, mi chiedo come posso intervenire io come architetto per la loro sorte, come posso togliere un’inferriata… Ma risolvo veramente il problema della libertà di questi uomini? No, non ho questa facoltà. Intuisco però che una possibilità c’è (…) avvicinandomi al pazzo, avvicinandomi a un carcerato, a uno che è a letto malato, semplicemente trovando in me un argomento che possa interessare e l’ammalato e il pazzo e il carcerato, ho pensato che realmente si supera un muro, che questo fa veramente buttar giù i muri costruiti…». Nannetti aveva imboccato la strada giusta, trovandosi però da solo ‘l’argomento’.
Quando vedo il vecchio ambiente con le inferriate,le finestre sbarrate mi chiedo come posso intervenire io come architetto per la loro sorte
Di quel libro-graffito oggi non sono rimaste ormai che poche pagine. Grazie alla sinergia tra l’Associazione “Inclusione Graffio e parola”, il Comune di Volterra, l’Asl 5 proprietaria della struttura, la Sovrintendenza ai Beni Architettonici di Pisa e la Regione Toscana, prima che la tela di N.O.F. sparisse del tutto, circa otto metri dell’opera sono stati recuperati ed esposti nella biblioteca Lombroso di Volterra. Nel 2001 ho ripercorso e riletto le vicende dei manicomi d’Italia, dei tanti Nannetti vegetati negli ospedali psichiatrici, tra reclusione e impotenza, attraverso un intervento di Marina Abramovic nel Padiglione Charcot di Volterra. Diviso in piccoli gruppi, il pubblico entrava nell’edificio indossando apposite scarpe: sotto i tacchi erano applicate delle calamite e nel seguire il percorso, una lastra metallica che percorreva i corridoi dell’ospedale, avvertii tutta l’angoscia del netto contrasto fra l’impulso mentale all’azione e i limiti fisici imposti dai magneti attratti dal pavimento. Negli anni, artisti e scrittori hanno colto non solo la potenzialità artistica di N.O.F. inserito nel filone dell’Art Brut, ma anche un importante aspetto: il padiglione, il cortile, il graffito diventano chiave di lettura per interpretare e vivere un senso di isolamento che non è stato solo quello di Nannetti e dei suoi compagni, ma è quello forse di molti individui della città contemporanea, che – come notava anche Michelucci - offre spazi per la follia collettiva, ma nessuno per il delirio individuale.
N.O.F. in the cathedral of folly by Marco del Francia
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ack in the 80’s, I visited the mental asylum of Volterra, Tuscany, and in this prison I learned about N.O.F., a.k.a. Nannetti Oreste Fernando, a patient who spent there about 35 years of his life. In this cathedral of folly, as Vittorino Andreoli named it, N.O.F. sounds like a character from Victor Hugo’s dramas, a man who lived at Volterra just like Quasimodo lived in NotreDame, only that, in his case, the sense of abandonment, isolation and discrimination were not the result of imagination but of pure and tragic reality. During his forced stay in an environment that wipes individuality away and represses one’s own ego, Nannetti found his way to communicate his being into the world through unconscious artistic expression. For over twenty years, every day, he spent his yard time carving walls with the buckle of his waistcoat. N.O.F. carved the plaster of the walls of the Ferri ward to create a sort of a graffiti book on
nearly 200 metres of wall by an average height of over one metre. Once he had carved all the plaster, he went on to the concrete railings of the one meter long stairs by the width of a palm. When he was finally given plenty of pens and paper, he went on to produce some 1,600 works. Over the years, many artists and writers have grasped not only the artistic potential of N.O.F. – who is now considered an official member of the Art Brut movement – but also an another significant aspect: the pavilion, the courtyard and the graffiti became keys to the interpretation and the experience of the sense of isolation that not only Nannetti and his companions had to endure, but also of that of perhaps many individuals of contemporary cities, which – as also Michelucci pointed out – offer plenty of space for collective madness, but none for individual delirium.
Qui non si vendono valigie Il reportage fotografico da Belene (Bulgaria) testimonia le vestigia di una città violentata da una centrale nucleare e da un ex campo di concentramento foto e testo di Nicoletta Pardi
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o rotto la mia valigia: così ho cercato una bottega o un supermercato per acquistarne una nuova. Niente, a Belene nessuno vende valigie. Tanto dove si va? Chi è riuscito è già emigrato all’estero. Restano solo i vecchi, dietro le porte, a crescere i figli di chi forse mai tornerà. Belene non è Svištov, a un soffio di chilometri, o Sofia che si raggiunge in tre ore. Qui niente università e neppure centri commerciali, in questa strana città della Bulgaria settentrionale, a due passi dalla Romania, sulla riva destra del Danubio. L’antica Dimum, roccaforte dell’Impero Romano, è, come dice padre Paolo Cortesi, un prete italiano che ci vive da anni: “…una città violentata dalla centrale nucleare e dall’ex campo di concentramento”. Girando per le strade mi accorgo che le architetture mi pesano addosso con i loro volumi angoscianti, modificano la percezione
del tempo, logorano gli abitanti giorno dopo giorno. Sette-ottomila appartamenti vuoti, occhi ciechi su un progetto fallito (quello di una centrale nucleare sempre in fase di progettazione), banche chiuse, strade infestate da buche, circonvallazioni inutili, attività chiuse. C’è una pizzeria che dà lavoro ad alcuni giovani e d’estate funziona bene, ma è il solo posto vivo, assieme a qualche bar e tabaccheria. Intorno, villaggi in disfacimento, natalità in decrescita. Duemila pensionati, mille minorenni, un altro migliaio di persone tra i 18 e i 60 anni. Nel 2014 quindici nati e 160 morti. Belene muore, mentre la sua morfologia urbana fa i conti con gli errori del passato e l’ignavia nel presente. L’antica terra grassa, nera e limacciosa pronta da coltivare è arata da cooperative in trasferta dalla capitale. I vecchi kolchoz son lì ad aspettare di diventar musei e fino a poco tempo fa non
A sinistra: Dove sei Boris? Sotto: E noi
c’era neppure un forno. Sui pergolati delle case di paglia e terra, grappoli di uva secca parlano di mani che non li accarezzano da tempo; dai tetti dei casermoni del centro svettano parabole sibilanti parole ingannatrici come quelle del gatto e della volpe nella favola di Pinocchio. Di gatti ce ne son tanti per le strade, così come cani smilzi e affamati che pasteggiano gli avanzi di cibo rimasti sulle tombe del cimitero aperto giorno e notte. Gli annunci funebri in ciclostile attaccati agli alberi con nastri neri. Cavalli e asini brucano l’erba dei condomini vuoti, topi e serpentelli si nascondono tra l’erba infestante che cresce dappertutto. I guardiani delle case “fantasma” ricevono uno stipendio, che, seppur misero, rappresenta una certezza. Gli spazi percepibili appaiono disorientanti e l’angoscia che si sente è quella della mancanza di punti forti su cui orientarsi. Forse potrebbero
Belene muore, mentre la sua morfologia urbana fa i conti con gli errori del passato
rappresentarlo le chiese, ortodosse e cristiane, ma non bastano. “Viviamo in un’epoca di perdita di senso e di un’incerta paura. Una paura lenta…” scrive Georgi Gospodinov, scrittore e poeta bulgaro di grande talento. Una prigione morale e materiale, quindi, con sbarre fatte d’inquietudine. Giovani se ne vedono pochi a Belene (a parte i militari in servizio e il personale del carcere), parecchi girano i pollici in attesa di un lavoro, bloccati dai disagi economici, fantasmi che si muovono tra case avvilite dall’incuria, cresciute in fretta con il miraggio di uno sviluppo economico mai decollato. Prima dell’89, più di due terzi dei bulgari non erano mai usciti dal Paese, poi, per necessità, hanno cominciato a emigrare. Oggi tanti non hanno neppure la forza di farlo. La parola “rassegnazione” ha preso il posto di prigione.
La centrale nucleare Il progetto di costruire una centrale nucleare a circa sette chilometri da Belene è un’eredità del periodo comunista. Alla fine degli anni ’80 ne era stata avviata la costruzione poi bloccata nel 1990, a causa della grave crisi economica seguita alla caduta del regime. Due anni dopo il progetto veniva accantonato, successivamente ripreso e interrotto di nuovo per mancanza di investitori. Un balletto assurdo fino alla chiusura definitiva del cantiere della Centrale Atomica decisa dal Parlamento bulgaro nel 2012. Il programma faraonico che ha illuso la popolazione per una trentina di anni, promettendo 10 mila posti di lavoro e prosperità per tutti, si è riaffacciato però l’anno successivo in primavera, quando il Governo cercava di riavviare i lavori con il miraggio di un impianto capace di rispettare le più rigide norme di sicurezza dopo
Sopra: Lungo la centrale
l’incidente di Černobyl’. “Garantirà energia stabile per i cittadini per i prossimi 50 anni e, grazie alla centrale, la Bulgaria manterrà il ruolo predominante nel mercato energetico dell’intera area” assicurava il Primo ministro. Decisione contestata a gran voce dagli ecologisti per il grave impatto ambientale e persino dagli economisti vista la difficoltà oggettiva di recuperare 2,5 miliardi di euro da investire. Protetta da reti e con risibili divieti di fotografare perché ritenuto obiettivo sensibile, la centrale mostra oggi il rugginoso decomporsi di strutture pericolosamente insicure. Solo un ricordo, oramai, il solco dei binari del treno e l’ombra di ciò che doveva essere un porto lungo il fiume, mentre si continuano a spendere milioni di euro all’anno per pagare guardiani e fantomatici impiegati degli uffici semivuoti di un “mostro”, compreso, oltretutto, nel Parco Naturale Persina.
Il gulag Sull’isolotto collegato alla terra ferma da un breve ponte galleggiante, funziona un carcere di massima sicurezza. In mezzo a una natura d’imperiosa bellezza si possono vedere i resti degli edifici del campo di concentramento per i prigionieri politici
del regime comunista che funzionò dal 1949 al 1989. Commovente il Secondo Blocco (ne esistevano cinque) da cui passarono 30 mila “nemici del popolo”, non solo religiosi (pastori protestanti, sacerdoti cattolici, monache e suore), ma intellettuali, giornalisti, politici, dissidenti di ogni ceto sociale. Prima di loro sull’isola transitarono gruppi di deportati ebrei, che, spostandosi con tende mobili, costruirono argini e furono impiegati nei lavori di manovalanza. Una sorta di via crucis popolare, ultimo passo per circa 3 mila persone. Molti morirono di stenti e probabilmente furono gettati nel fiume, ma anche per altri non ci sono tombe su cui piangere. Neppure il monumento con i nomi delle vittime (tra cui omosessuali, zingari e prigionieri comuni) è finito. La lista non completa rappresenta forse motivo di dissidio e intanto quel dito di cemento rimane lì, con la sua inutile tensione verso il cielo, come a testimoniare il grumo di dolore che non accenna a sciogliersi. “Non esiste spazio vuoto tra cielo e terra recita un antico testo ebraico - bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini…”. Qui, hanno voci di sirena.
A sinistra: Ingresso blocco 2 Sotto: Ponte galleggiante
Chi è | Nicoletta Pardi Nata a Bergamo, giornalista, collabora con quotidiani, riviste e periodici nazionali e locali. Appassionata delle altre culture, ha realizzato pubblicazioni dedicate ai Berberi, all’India, Yemen ed Etiopia. Ha curato l’organizzazione, con testi critici, di mostre d’arte e fotografia. Fotografa per passione, negli ultimi anni ha esposto i suoi lavori in sedi diverse, tra cui i Musei diocesani di Bergamo e di Gaeta, oltre a mostre personali a Marghera, Milano, Napoli. Oggetto della sua indagine sono spesso temi particolari, tra cui un’ampia e approfondita indagine fotografica sui cimiteri ebraici in Marocco. È autore del libro su Bergamo “Certi silenzi” edito nel 2015.
Intanto quel dito di cemento rimane lì, con la sua inutile tensione verso il cielo, come a testimoniare il grumo di dolore che non accenna a sciogliersi
No suitcases sold here by Nicolatta Pardi
B
elene is not Svishtov, only a few kilometres away, nor is it Sophia, which you can reach in three hours. There are no universities or shopping malls here, in this peculiar city of northern Bulgaria on the right bank of the Danube, a stone’s throw from Romania. Belene is the ancient Dimum, a stronghold of the Roman Empire, and, as Father Paolo Cortesi, an Italian priest who has lived here for years, said, “A town that has been raped by the concentration camp, first, and the nuclear plant, later”. Walking the streets here, I notice that this architecture feels overwhelming, with its distressing volumes, and changes the perception of time for the local people to wear them out, day after day. Seven to eight thousand empty apartments, the eyes blind to the failure of a major project (that of a nuclear power plant in a perpetual design phase), banks closed, roads infested with potholes, unnecessary detours, closed down shops. There is a pizza place that creates some occupation for young people and does well during the summer, but it is the only place alive, along with a few bars and tobacco shops. All around, villages in decay and a declining birth rate. Two thousand pensioners, a thousand minors, another thousand people between 18 and 60 years of age. In 2014, 15 births and 160 deaths. Belene is dying, while its urban morphology comes to terms with past mistakes and present lethargy. The ancient black, silty loam ready to be cultivated has been ploughed by some cooperatives from the capital city. The guardians of the ghost buildings get a salary that as miserable as certain. The perceptible spaces here appear confusing and the anxiety you sense is that of a lack of strong points on which to navigate. Perhaps the Orthodox and Christian churches could offer some, but they appear not to be enough. “It is an age of loss of meaning and of an uncertain sense of fear. It is a slow sort of fear...”, so writes Georgi Gospodinov, a Bulgarian writer and poet of great talent. A moral and material prison whose bars are made of anxiety.
Dove la diversità fa la differenza Le donne in carcere. Un’istituzione, quella carceraria, fatta dagli uomini per gli uomini. Madri recluse con i loro neonati, madri lontane dai figli. Donne che dal carcere si occupano lo stesso di qualcuno di Vanna Francesca Bertoncelli foto di Cheryl Hanna-Truscott
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on ci si vuole addentrare nell’accidentato terreno dei gender studies domandandosi se donne si nasca o si diventi ma, limitandosi a un’osservazione sul campo, si nota che il pianeta carcere è particolarmente sensibile alla diversità. Di colore, di etnia, di cibo, di religione, di genere. Le differenze incominciano dai numeri. In Italia su circa settantamila detenuti, le donne sono tremila. Già al momento di comminare la pena detentiva, si nota un atteggiamento in qualche modo protettivo nei confronti della donna deviante, e l’ergastolo viene dato nella misura rispettivamente del 23% dei casi agli uomini e del 9% alle donne. Le differenze non finiscono qui. Si ritrovano nelle strutture, negli spazi come negli arredi, negli orari, nelle mansioni come nel rapporto con gli agenti della polizia penitenziaria. Un complesso di elementi che fa la differenza. La tanto agognata, quanto discussa, parità di genere viene meno in carcere. Qui la differenza si vede, si tocca. In carcere le donne urlano la loro diversità. La donna si trova a vivere in un’istituzione, quella
carceraria, fatta dagli uomini per gli uomini. Qui tutto è a misura d’uomo. Le donne reclamano il diritto alla diversità, alla specificità femminile. Il grembo. Quel quid che fa la differenza. Il grembo contiene e dalla funzione del contenere derivano molte cose: lo stare piuttosto che l’andare, il costruire piuttosto che il demolire, il custodire piuttosto che il trasformare, il dare piuttosto che il levare, il prendersi cura. Come nella vita, anche lo stare in carcere si accompagna, per la donna, a un altrove di spazio e di tempo. È quello che si può definire il pensiero emozionale bi-locato. La donna è qui, in carcere ma è anche altrove: a casa, al lavoro, a fare compere, con il compagno malato, con i figli. Le donne sembrano non poter prescindere dall’occuparsi di qualcuno, di qualcosa, nella gioia e nel dolore, in prigione e in libertà. Donne, semplicemente donne. Storie di vita diverse, ma in qualche modo sempre difficili. Dove la difficoltà, spesso, è sub-liminale. Donne abusate, tossicomani, prostitute, immigrate, nomadi. In carcere la diversità, con tutto ciò
Where diversity makes a difference By Vanna Francesca Bertoncelli
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emale inmates live in institutions that were often made by men for other men and where all things were designed on a male scale. They claim their right to their diversity and female specificity. Differences emerge clearly already in the figures. In Italy, 3,000 of total population of 70,000 inmates are women. Already at the sentence stage, a somewhat protective attitude of the deviant woman can be observed and life sentence is pronounced in 23% of the male cases and only 9% of the female ones. However, differences do not end here. They are found in structures and spaces, in furniture, daily schedules, in tasks such as, for instance, the relationship with the penitentiary agents. A set of factors that makes a considerable difference. Gender equality here is not as sought-after and discussed as it is outside of prison walls. Here, this difference is tangible and definitely visible. Incarcerated women scream for their own diversity. Mothers whose young children live with them in prison. Innocent detainees who must prepare to leave their mother as they grow up, because they will not be allowed to keep them close. Attachment syndromes and overall pain constantly hover in those buildings along with depression and anxiety over the fate of children they will not see grow up.
Prison Nursery Una serie di ritratti documentario di Cheryl Hanna-Truscott inziato nel 2003 per sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni delle donne detenute in stato di gravidanza e le loro famiglie all’interno del Washington Correction Center for Women a Gig Harbor - USA con la speranza di portare questa popolazione invisibile e senza voce nella coscienza pubblica. www.hannatruscott.com
Chi è | Vanna Francesca Bertoncelli Nasce in Sardegna, si laurea in Filosofia a Siena e vive tra la Sardegna e Grosseto dove da circa quarant’anni svolge attività libero professionale come psicologa-psicoterapeuta occupandosi di disturbi di personalità nell’adulto. Da anni porta avanti, con l’Università di Siena (sede di Grosseto) e con il Comune di Grosseto, un progetto su “la memoria e l’identità” in un’ottica che vede la collaborazione di discipline diverse a seconda dell’argomento trattato: lo sport, il writing urbano, la conservazione dei dati, l’arte pubblica, le barriere architettoniche, la qualità dell’abitare. Il suo interesse per la qualità della vita in rapporto alla qualità della progettazione con particolare riferimento alle aree urbane trova concretizzazione, anche con la partecipazione dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, nella psicologia applicata alla progettazione urbanistica e architettonica. Il mare, la musica, la civiltà della tavola sono le sue passioni.
Mandi e Gabriel
Amanda e Dionicio
Mandy e Hallynn
che comporta, si fa sentire. Donne madri. In prigione i figli piccoli vivono con le madri. Innocenti detenuti. Quelli ormai grandicelli, lontani perché le madri non possono tenerli accanto. Aleggiano dolore e sindromi da attaccamento, ansia e depressione per la sorte di figli che non vedono crescere. Figli in sospeso. La manualità femminile. Elemento prezioso in altri tempi e in altri luoghi, in prigione può divenire essenziale per la sopravvivenza e insieme alla cooperazione è fattore fondante per il troppo parlato reinserimento sociale. Anche in prigione, per la donna, è il sentimento l’elemento caratterizzante. Il primo impatto con il carcere è sempre devastante. Per la donna lo è ancora di più. La vita cambia. Il tempo, nell’attesa, si ferma tra smarrimento, ansia, depressione. Mancano le piccole cose, i gesti quotidiani, la cura del corpo, il trucco, il contatto fisico, l’amore, i figli, le relazioni. Ma il carcere può divenire occasione di scoperta. Scoperta di sé, dell’altro, della vita che troppo spesso la donna vive come prigione del corpo e della mente.
Carceri d’invenzione, acquaforte, Tavola I, II edizione, 1761
I concetti sono al tempo stesso una risorsa e una vera e propria prigione L’autore si interroga sui danni che l’architettura può produrre alle città, alla natura, all’uomo, alle relazioni tra gli uomini di Edoardo Milesi
Alla pagina 353 della Storia della stampa antica di Giorgio Milesi, mio zio così descrive le 16 incisioni che Piranesi produsse tra il 1745 e il 1750: “complesse nella struttura architettonica, realizzate con una tecnica altissima, offrono scene disturbanti dove lo scardinamento degli spazi e delle prospettive è aperta sfida ai valori tradizionali dell’architettura.” Mio padre e suo fratello hanno iniziato a collezionare stampe antiche molto prima che queste acquistassero un valore di mercato importante. Tornavano da Londra con interi il tempo anche rappresentando delle azioni. Credo che il capolavoro delle carceri stia libri e, benché molto piccolo, ho proprio nella capacità di Piranesi nel descrivere un luogo in cui la relazione tra un ricordo preciso delle Carceri uomo e spazio è soprattutto materica, forse l’unica possibile, lasciandolo totalmente d’invenzione di Piranesi, che mi privo di voce, che è proprio la caratteristica dell’ossessione della prigione. Raggiungere soffermavo a scrutare sin nei tutto questo attraverso l’artificio del disegno in grado di mostrare proporzioni minimi particolari scoprendo sbagliate mediante calcoli esatti è più che geniale, soprattutto denota una capacità ogni volta nuovi dettagli. Non descrittiva che solo una gigantesca passione per l’architettura può provocare. ho mai riconosciuto in quei Marguerite Yourcenar parla delle carceri di Piranesi come la descrizione di un incubo disegni l’idea del carcere e non proprio per la capacità, attraverso artifici prospettici, di negare contemporaneamente solo per la mancanza di sbarre spazio e tempo: la negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, l’ebbrezza e grate, ma per l’architettura dell’impossibile raggiunto e superato… Per tutta questa raffinata e profonda densa che in quelle incisioni sintesi penso che le Carceri d’invenzione non siano la rappresentazione dell’artista si rappresenta. Del carcere se incisore, bensì il progetto per una prigione tipo dell’architetto Giovan Battista proprio hanno la segretezza, Piranesi. Quello che lui forse riteneva il luogo adatto per la pena. la capacità di inquietare Da allora, ancor più adesso che sono architetto da 35 anni, mi chiedo come e soprattutto di fermare deve essere il luogo adatto per una pena.
Concepts are a resource and an authentic prison at the same time by Edoardo Milesi
A
few months ago, I found myself dealing with the case of a young Ghanese immigrant who fell awkwardly while at work. That happened most probably without any fault on his part, other than that of underestimating the weightiness of the bureaucracy of Italian justice, the mechanical network of a legal system that is deaf, blind, atemporal and above all totally aloof of the relationships that link people with one another. Therefore, for the first time, I had the experience of entering a prison. I waited and passed the suspicious entry filter, felt the heavy and noisy turning of the key in the keyhole that opened absolutely useless doors and closed them immediately after my passage with the same identical and artificial noise. The prison of Bergamo was built during the anni di piombo (literally “the years of lead”, late 60’s until early 80’s) and is considered a high security jail. However, the closing of doors is still entrusted to one single key the guard ritually keeps and picks from his pocket when he gets a signal from those who are supervising my visit to my friend Amin. During the visit, we sit at a skimpy round table in an unadorned and aseptic room alongside other seven identical small green tables, around which sit prisoners who talk, at times quite excitedly, with their wives and girlfriends. My eyes are only a few centimetres from his, swollen with tears. It is summer, the guards and I are the only Italians in the room. Almost all inmates, and many of the women, too, are thoroughly and sophisticatedly tattooed. The air we breathe is heavy and my discomfort makes me want to ask the guards if I may leave at the end of my visit, but before the end of my time, despite the fact that the guards insist on informing me, by signs, through the bulletproof glass, that I am allowed to stay a little longer. As often happens to me, I wonder whether architecture does also matter in such places in which living is denied or where it is of such temporary nature to become actual non-living. Or, on the contrary, whether the real punishment here lies in the denial of the architecture that is needed to even seek a good and pleasant way of living.
Pietro Labruzzi (1738-1805) Ritratto di Giovan Battista Piranesi, 1779, olio su tela, cm 71x58. Musee du Louvre
La negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, l’ebrezza dell’impossibile raggiunto e superato
Mi chiedo come deve essere il luogo adatto per una pena
Sopra: Carceri d’invenzione, acquaforte, Tavola X, II edizione, 1761 A destra: Carceri d’invenzione, acquaforte, Tavola V, II edizione, 1761
Un luogo dove indurre al pentimento di un malfatto senza obbligare, dove cercare nuove e diverse occasioni per cancellare, ricominciare, anche solo riflettere. Quali le caratteristiche per poter (liberamente) scegliere tra una meditazione solitaria e un aiuto esterno, una cura, una terapia, una rieducazione radicale. Per una situazione del tutto fortuita mi sono ritrovato qualche mese fa a occuparmi di un giovane immigrato del Ghana caduto maldestramente e probabilmente senza colpa, se non quella di aver sottovalutato la burocrazia della giustizia italiana, nella rete di un sistema giuridico meccanico, sordo, cieco, atemporale e totalmente disinteressato ai rapporti tra gli uomini. Ho così, per la prima volta, assaporato l’esperienza di entrare in un carcere. Attendere e passare il diffidente filtro d’ingresso, sentire le pesanti e rumorose mandate delle chiavi nelle toppe che aprivano porte assolutamente inutili e le richiudevano subito dopo il mio passaggio con sempre identico e artefatto rumore. Il carcere di Bergamo è stato costruito durante gli anni di piombo ed è ritenuto di massima sicurezza, tuttavia la chiusura delle porte è ancora affidata alla chiave unica del secondino che la toglie ritualmente dalla tasca solo dopo l’autorizzazione verbale di chi mi piantona per la visita all’amico Amin. Il mio colloquio avviene seduti a uno striminzito tavolino tondo, i miei occhi sono a pochi centimetri dai suoi gonfi di lacrime, in una saletta disadorna e asettica accanto ad altri 7 identici piccoli tavoli verdi attorno ai quali siedono carcerati che discutono, alcuni anche animatamente, con le loro donne. È estate, con le guardie sono l’unico italiano, quasi tutti i detenuti e molte donne sono abbondantemente e ricercatamente tatuati, l’aria è pesante e il mio disagio mi porta a chiedere di andarmene alla fine del mio colloquio, ma prima della fine del tempo accordatomi nonostante le guardie insistano nel comunicarmi a segni, al di là del vetro blindato, che posso rimanere ancora un po’. Tutto diverso dalle carceri di Piranesi, ma la negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio sono in quel posto assolutamente presenti e dense nonostante l’assenza dell’architettura, la banalità della tecnica. E allora, come spesso mi accade, mi chiedo se l’architettura è importante anche per i luoghi dove l’abitare è negato o talmente provvisorio da non esserlo o al contrario la vera pena sta nel negare l’architettura in quanto ricerca di un buon uso e di un bell’uso dell’abitare.
Torno ora da un importante consesso di architetti italiani, quasi tutti accademici, al quale sono stato invitato con uno dei miei ultimi lavori. Due giorni in cui decani, pietre miliari, monumenti più o meno antichi si incontrano e parlano in modo totalmente improduttivo di come è bella la loro bella architettura senza mai toccare l’argomento del buon uso. Solo un anziano relatore ha posto il dubbio sull’opportunità, per l’architettura, di abbandonare gli aggettivi bella e brutta sostituendoli con intelligente e stupida, ma nessuno l’ha preso sul serio. Fare architettura si impara soprattutto a bottega, in cantiere, stando in mezzo a tutti gli attori e i destinatari interessati, eppure in Italia le università, contrariamente al resto del mondo, non reclutano liberi professionisti e questo per una ragione precisa perché «la scienza normale, quella coniugata nell’accademia, quella insegnata nelle università costituisce un rassicurante luogo chiuso. Una vera e propria gabbia concettuale nella quale sono custoditi modelli e paradigmi che permettono di dare al sapere una struttura unitaria, ma che al tempo stesso escludono quella creatività che solo nei periodi di crisi paradigmatica emerge con forza. Il sapere sistema, ma al tempo stesso limita e costringe l’esperienza dentro i confini dei suoi paradigmi» (Artemisio Gargantini). La scienza deve andare oltre e in questo andare oltre la filosofia come ricerca ed elaborazione concettuale ha un ruolo fondamentale. Conoscere è un ripensare continuamente. I concetti sono al tempo stesso una risorsa e una vera e propria prigione. Per pescare in un’altra atmosfera carceraria rileggo La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Ho un libriccino ingiallito che mi ha prestato Ilaria Marvelli, editato da Modernissima-Milano nel 1923, illustrato da Gio Ponti e stampato da Società Anonima Arti Grafiche Monza. Racconta del carcere di Reading, appunto, dove Wilde fu detenuto. Racconta di un uxoricida condannato a morte che lui incontra ogni mattina finché viene alla fine giustiziato. Oscar Wilde conclude il breve scritto con le stesse parole con cui l’aveva iniziato “ciascuno uccide la cosa che ama: lo sappiamo tutti: taluni fanno questo con sguardo d’odio, altri con carezzevoli parole, il vile con un bacio, il coraggioso con la spada”. Può l’architetto, scoprendo i danni che un’architettura solo accademica e solo teorica può fare alle città, alla natura, all’uomo, alle relazioni tra gli uomini, ucciderla? E se decide di farlo lo farà con sguardo d’odio, con carezzevoli parole, con un bacio o con la spada?
Danza libera tutti! Dal teatrodanza di Pina Bausch e dalla danzaterapia di Maria Fux si sviluppano oggi le emergenze comunicative del teatro sociale di Teatro Babel e del Teatro della Ribalta di Silvia Lombardi
L
a danza usata come linguaggio universale, mezzo di espressione puro che travalica i significati delle parole, le abilità fisiche, i limiti cognitivi e del corpo, insieme di gesti che superano i concetti culturali e che unifica al di là delle diversità. Una delle più grandi rivoluzioni culturali del XIX secolo è stata la nascita della danza moderna, definita anche danza libera perché svuotata dai manierismi accademici del balletto e lasciata alla ricerca delle sue origini nel gesto istintuale. Alla fine degli anni ’70 si afferma il teatrodanza, un progetto artistico che affianca elementi recitativi alle coreografie, assegnando precise finalità drammaturgiche al gesto. Il Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch e i suoi danzattori sono una delle più celebri e fortunate esperienze di teatrodanza: le performance da loro create rappresentano oggi, per chi lavora nella ricerca teatrale, un’importante tradizione espressiva con cui confrontarsi. La forza di linguaggio non verbale della danza è alla base anche della danzaterapia, forma di riabilitazione e di cura teorizzata dall’argentina Maria Fux all’inizio degli anni ’70. Teatrodanza e danzaterapia sono due ramificazioni della danza moderna, realizzazione dell’assioma che la danza libera dalle prigioni del corpo e dall’inadeguatezza espressiva della parola, diventando
linguaggio capace di rispondere alla necessità di rappresentare gli stati emotivi interiori, talvolta inconsci. In questo solco si muovono alcune ricerche di teatro sociale oggi in Italia. Teatro sociale si definisce quella pratica che dà voce, attraverso una drammaturgia, a un gruppo di persone e che le coinvolge nella rappresentazione delle tematiche che le rende ‘comunità’. Molte esperienze di teatro sociale vengono fatte all’interno di gruppi accomunati da una diversità. Una delle esperienze di scrittura drammaturgica contemporanea italiana è il Teatro della Ribalta, fondata nel 2009 a Bolzano da Antonio Viganò e Michele Fiocchi, diventata nel 2013 “Accademia Arte della diversità - Teatro la Ribalta”, la prima compagnia teatrale professionale costituita da uomini e donne in situazione di “handicap” che hanno scelto, dopo 8 anni di attività di diventare professionisti. La compagnia è portatrice di una sua poetica originale e personale: una gestualità che si fa danza, un’estetica essenziale e raffinata nel campo della sperimentazione e della ricerca teatrale. In “Personaggi”, in “Minotaurus”, ne “Il suono della caduta”, in “Nessuno sa di noi” la danza, grazie alle coreografie di Julie Anne Stanzak, una delle ballerine provenienti proprio dalla compagnia di Pina Bausch, diventa “narrazione poetica” senza discriminazione verso il corpo del performer.
Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei movimenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più cosa fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio, con parole, con immagini, atmosfere, che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre. Pina Bausch
Non mi interessa come danzi, ma il perché danzi. Pina Bausch
PAROLE DENTRO | Teatro Babel
Grazie alle capacità della Stanzak di “vedere oltre”, trovare le motivazioni affinché quel corpo, con il suo muoversi nello spazio si faccia danza, gli attori portatori di disabilità in scena sono semplici attori, diventano mezzo di espressione. Di “Nessuno sa di noi”, la coreografa Julie si muove accanto a Matteo Peretto, artista con sindrome di down, il regista Antonio Viganò dice: “Non era facile immaginare un duo con due corpi così diversi: uno allenato, costruito per la danza, con un patrimonio fisico e culturale importante come è quello di Julie Stanzak; l’altro, di Mattia, un corpo che si fa danza per necessità, con codici diversi, con una “sua personale narrazione”. Il rischio era che fossero impari in scena. La sfida è stata trovare l’equilibrio: il solo incontro di quei corpi diversi poteva essere la narrazione dello spettacolo. ”In queste esperienze il teatro afferma la necessità di esprimersi, urla il diritto di esistere, sostiene la lotta per il dovere di esporsi in una società, la nostra, in cui il diverso viene quotidianamente ghettizzato, relegato in una prigione di silenzio e inattività. Questo è il teatro che porta lo spettatore a una riflessione profonda verso ciò che è normale e talvolta scontato, scuote le certezze in cui ognuno di noi si crogiola e porta a un contatto più reale con le ‘emergenze’ dell’essere umano, in un’emersione della propria identità e dell’urgenza di comunicare oltre i limiti.
Dance, dance, outs in free! by Silvia Lombardi
D
ance used as a universal language, a means of pure expression that goes beyond the meanings of words, physical skills, cognitive or bodily limits. Gestures that outdo cultural concepts and unify beyond diversity. One of the most radical cultural revolutions of the nineteenth century has been the birth of modern dance, also called free dance as it is devoid of the mannerism of the academic ballet and free to research its origins in instinctual gestures. At the end of the 70’s, the tanztheater is established as an art project integrating recitative elements in choreographies by assigning gestures for specific dramatic purposes. Pina Bausch’s Tanztheater Wuppertal with her actor-dancers is one of the most celebrated and successful experiences of tanztheater. The performances they created represent today a major expressive
tradition for those who work in theatrical research to confront. The non-verbal power of the dance language is also the basis of dance therapy, a form of rehabilitation and care theorised by Argentinian María Fux in the early 70’s. Tanztheater and dance therapy are two ramifications of modern dance, the realisation of the axiom according to which free dance releases us from our bodily prison as well as from the inadequate expression of words and becomes a language capable of responding to the need to represent our most inner, even unconscious, emotional states. In this same groove, some theatrical research is presently being developed in Italy. It is known as social theatre, a practice that gives voice through drama to a group of people and involves them in the representation of the issues that make them a community.
La danza libera dalle prigioni del corpo e dell’inadeguatezza espressiva della parola A destra: PAROLE DENTRO | Teatro Babel | Ricerca drammaturgica di Lorena La Rocca (regia) e Alessandro Boussalem (assistente alla regia). In scena Fabiano Angioni, Maria Beccaria, Chiara Cavallo, Marta Di Giulio, Aldo Falsetti, Lina Ficarra, Francesco Fissolo, Simone Gallizio, Sara Lomanto, Federica Morra, Adriana Muscau, Pierluigi Patrignani, Evaluna Petronella, Antonietta Pusceddu, Simone Zamarian. Voce narrante Maria Beccaria Sotto: NESSUNO SA DI NOI | Accademia Arte della diversità - Teatro la Ribalta | Regia Antonio Viganò, consulenza drammaturgica Alessandro Serra, coreografie Julie Anne Stanzak. In scena Julie Anne Stanzak e Mattia Peretto
Altro esempio di forza comunicativa e distruzione delle certezze è la ricerca che affronta Teatro Babel, nato a Torino nel 2013 all’interno del Laboratorio teatrale permanente del Centro Afasia CIRPFondazione Carlo Molo Onlus, sotto la guida dell’artista Lorena La Rocca, un progetto teatrale che sintetizza al meglio come il gesto possa diventare tessuto drammaturgico capace di liberare la necessità comunicativa del performer: in scena attori afasici e studenti-attori in formazione. Gli spettacoli sono un’attività artistico-culturale nata da persone che hanno terminato la riabilitazione e che condividono la voglia di mettersi in gioco per narrare storie. Un lavoro di gruppo che nel gennaio 2016 è
sfociato nello spettacolo “Parole Dentro” progetto artistico, in collaborazione con SCT Social and Community Theatre Centre Università di Torino, in cui si indagano i limiti e le risorse che derivano dall’ascolto del silenzio e che cerca, nel quotidiano, un’afasia emotiva comprensibile a tutti, così che il pubblico possa riconoscersi in quella fatica di dire con le parole, vissuta ogni giorno dalle persone afasiche. Difficoltà di ascoltare e di ascoltarsi, parole imprigionate dell’inabilita di pronunciarle, parole sprecate dalla capacità indistinta e inconsapevole di poterle pronunciare anche senza conoscerne il peso: giovani attori normodotati nella sperimentazione del diverso, nella formazione alla terapia,
attori adulti, anziani, afflitti dal disturbo del linguaggio conseguente a danni cerebrali, nell’espressione del sé, nell’affermazione della propria necessità espressiva. Spettacoli come questo hanno la forza estetica della distruzione delle certezze a favore della ricostruzione del senso comune, opere teatrali non descrivibili con i codici della critica teatrale borghese, non codificabili con paragoni a estetiche consuete, per la loro forza espressiva capace di scardinare le convinzioni dello spettatore. Spettacoli capaci di generare catarsi sia per il performer che per lo spettatore, fino a una purificazione istintuale nel fare e nell’osservare attraverso lo smarrimento.
La prigione dei segni di Matter of Stuff
P
alazzo Steri a Palermo, costruito da Manfredi I dei Chiaramonte nel ‘300, quindi dimora vicereale, e infine sede della Procura Generale, è stato “segretamente” tra il 1601 e il 1782 il quartiere generale e carcere dell’Inquisizione. In questo luogo si sono consumate torture disumane. Prigionieri rinchiusi in loculi bui e affollati. Piccole stanze testimoni di un costante susseguirsi di uomini e donne, reclusi a vita per delitti spesso minori o addirittura innocenti. Frati e suore, scienziati scomodi, poeti, pensatori, precursori, uomini liberi e nemici della chiesa ortodossa, ma anche poveri, bestemmiatori, falsari, bigami, omosessuali,
Dal recente restauro di Palazzo Steri a Palermo emerge un patrimonio unico che è insieme opera d’arte e accusa verso le ingiustizie inflitte, per quasi due secoli, dall’Inquisizione
colpevoli di magia nera e atti sacrileghi. Molti di loro, spinti dalla disperazione e appigliati a vane speranze, hanno lasciato sulle pareti delle celle un segno, un brandello della loro storia e del loro passaggio. L’ultimo epitaffio prima di camminare verso la morte o di imbarcarsi su una delle galere nel mezzo del Mediterraneo o, per i più fortunati, prima di ricevere le debite frustate e il taglio della lingua. Un’umanità azzittita e annichilita che sfogava la propria libertà repressa incidendo sulle pareti di questo antico palazzo memorie, dipinti, poesie, carte geografiche, preghiere e scanzonate prese in giro. Un modo per condividere il proprio dolore, il proprio sprezzante odio, le loro speranze
e i propri amori. Sono stati i recenti restauri a far emergere questo patrimonio unico al mondo che è insieme opera d’arte e accusa verso le ingiustizie. Una narrazione lunga due secoli, scandita ogni 30 anni da una generosa mano di pittura, che permetteva ai carcerieri di coprire tutti i disegni e le opere realizzate fino ad allora, l’ultimo gesto di violenza verso prigionieri ormai ridotti a nullità. Attraverso un impeccabile tour guidato, cella dopo cella, le giovani volontarie e non retribuite guide dello Steri, disvelano a visitatori attenti i messaggi in codice e le storie dei protagonisti più incisivi di quasi 200 anni d’Inquisizione. I disegni sono stati datati anche grazie allo studio dei
Un modo per condividere il proprio dolore, il proprio sprezzante odio, le loro speranze e i propri amori
diversi strati di vernice bianca che a cadenza regolare venivano stesi sulle pareti delle celle. Le progressive stratificazioni d’intonaco infatti hanno permesso di raggruppare trentennio dopo trentennio le diverse opere murarie. Incrociando quindi queste informazioni con la documentazione d’archivio dell’inquisizione in Spagna, è stato possibile ricostruire l’identità e le storie di numerosi condannati. Un appassionato lavoro di ricerca, che ha ricostruito le storie personali di centinaia di individui. Persone che, per procurarsi gli strumenti per disegnare, grattavano a mani nude il pavimento di cotto o facevano pericolosi patti con i propri aguzzini. I carcerieri infatti mercanteggiavano gessetti e colori in cambio di beni, fino ad estorcere anche possedimenti terrieri. Sui muri dello Steri si incontra un giovane soldato che racconta la sua avventurosa storia di guerra, un dettagliato resoconto degli schieramenti della battaglia di Lepanto. Una donna incriminata per adulterio che confessa la sua storia d’amore prima di essere giustiziata. Nascosti tra le tollerate immagini sacre ed estratti biblici si incontrano uomini che deridono i propri carnefici con scanzonate caricature e beffe. Disegni che ribaltano i ruoli, che assolvono i condannati e trasformano i giudici nei colpevoli, in grottesche espressioni di ignoranza e chiusura mentale. Scritte che ironizzano sulla condizione dei prigionieri stessi come: state allegri, o carcerati ché se piove vi trovate in luogo riparato.
The prison of signs by Matter of Stuff
T
he Palazzo Steri of Palermo was built by Manfredi 1st of Chiaramonte in the 1300’s as a vice-regal residence and later home to the Attorney General’s Office. Between 1601 and 1782, it was home to the secret headquarters of a prison of the Inquisition. In this place, inhuman torture was perpetrated. Prisoners were held in dark, overcrowded niches. These small rooms witnessed a steady succession of men and women accused of often minor crimes or even innocent yet imprisoned for life. Brothers and sisters, controversial scientists, poets, thinkers, precursors, free men and enemies of the orthodox Church, but also poor people, blasphemers, forgers, bigamists, homosexuals and ordinary people convicted of black magic and sacrilegious acts. Out of despair and clinging onto vain hopes, many of them left their sign on the walls of their cells, a trace of their history and passage. Their last epitaph before walking towards death or boarding onto one of the galleys sailing the Mediterranean Sea. For the luckier ones, before receiving the prescribed number of lashes and cutting of the tongue. A humanity silenced and annihilated, who poured out their repressed freedom by carving their memories on the walls of this ancient palace. Paintings, poems, maps, prayers and even unconventional satire. A way of sharing their pain, their contemptuous hatred, their hopes and love.
Molti dei disegni ritrovati sono immagini sacre, soprattutto riguardanti la passione di Cristo e i martiri. Iconografie etichettate dagli inquisitori come parte del processo di penitenza, ma che per i loro esecutori rappresentano l’identificazione della propria condizione con il calvario di Cristo e dei Santi, che morirono per la loro fede. Prigionieri che ancora alimentano la speranza di salvarsi: ogni peccato al fin giustizia aspetta. Uomini spesso credenti, ma non devoti a una versione integralista della religione cattolica che per i giudici era l’unica “vera fede” superiore alle altre. Segni che raccontano di un periodo buio della storia umana, che parlano di fede, di vita e di morte e che ancora dopo secoli lasciano attoniti chi li osserva. Il più famoso dei detenuti resta Diego La Matina, un frate che uccise il suo torturatore e a cui Sciascia ha dedicato “Morte dell’Inquisitore“. Un eroe che ha sfidato l’inquisizione a più riprese, denunciando le sue atrocità e definendola un’istituzione che mortificava la dignità umana. Diego La Matina, come tanti prigionieri, era spesso torturato senza sosta, così da costringerlo ad ammettere le proprie colpe. Proprio durante una di queste sedute Diego uccise il suo torturatore, fracassandogli il cranio con le stesse catene che lo imprigionavano. Diego era stato rinchiuso allo Steri come eretico, ma non si conoscono i dettagli di questa condanna, in quanto i documenti dell’epoca vennero bruciati durante un rogo pubblico appiccato dalla stessa Inquisizione, prima della sua abolizione. Si racconta che si fosse ribellato a ingiustizie sociali e che per quattro volte fosse stato rilasciato, fino all’arresto finale. Il destino del frate terminò sul rogo. Questa ricostruzione è stata possibile attraverso i verbali degli interrogatori e le testimonianze di cronisti del tempo. Durante la sua lunga attività in Sicilia, il Sant’Uffizio inquisì circa 8.000 persone, di cui il 21% donne. Di costoro solo 714 furono assolti, 588 vennero bruciati sul rogo e il resto sottoposti a torture e pene coercitive di varia natura. Visitare questo luogo ci ricorda quanto l’integralismo religioso sia spesso giustificazione per crimini efferati e quanto l’arte possa congelare un dolore collettivo, rendendolo tanto attuale, anche dopo secoli.