ArtApp 17 LA PORTA

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La porta EDITORIALE

di Edoardo Milesi

ArtApp Numero diciassette - Anno VII Registrazione al Tribunale di Bergamo del 29/01/2009 n. 3/2009 Direzione, Redazione, Amministrazione Via Valle del Muto, 25 24021 Albino (Bg) - Italy T +39 035 772 499 F +39 035 772 429 team@artapp.it | www.artapp.it Direttore editoriale Edoardo Milesi Direttore Responsabile e Art Director Aurelio Candido Coordinamento redazionale Elena Cattaneo, Laura Cavalieri Manasse Impaginazione e grafica Beatrice Balini, Cristian Carrara Comitato scientifico Massimo Agus, Sonia Borsato Barbara Catalani, Arialdo Ceribelli Giovanni Cutolo, Donato Di Bello Marco Del Francia, Paola Di Giuliomaria Alessandra F. Ferrari, Salvatore Ligios Saverio Luzzi, Gianriccardo Piccoli Michelangelo Pistoletto, Carlo Pozzi Dominique Robin, Ilaria Rossi Doria Silvana Scaldaferri, Elisabeth Schneiter Benno Schubert, Sandra F. Semerano Michele Tavola, Ettore Vadini

Filippo Balbi, Ritratto del monaco certosino Fercoldo, Roma, Chiostro di Michelangelo, 1855

Ci sono molti pericoli nel nostro mondo: tra questi un fraintendimento della democrazia, cioè la terribile idea che la gente debba essere in grado di fare in tutto e per tutto ciò che vuole. In verità senza responsabilità non può esserci libertà.

Hanno collaborato a questo numero Simona Auteri, Leone Belotti Vanna F. Bertoncelli, Marta Coccoluto Sandra Maria Dami, Lucia Fava Maria Gabriella Frabotta, Angela Galli GianMaria Labaa, Luigi Mangia Michele Manigrasso, Stefano Mavilio Alberto Mazzocchi, Carlotta Monteverde Alberto Nacci, Franca Pauli Nicoletta Prandi, Beatrice Rebussi Paolo Riani, Lucio Rosato Sofia Steffenoni, Andrea Tomasini Nicola Valente, Clara Verazzo Raul Wittenberg, Giorgio Zorcù Crediti fotografici Archivio Amani Onlus, Donato Aquaro Leonardo Aquilino, Dean Barkley Pietro Basoccu, S. Bonnefille Margherita Busacca, Aurelio Candido Nick Carter, Jason deCaires Taylor CACT Lanzarote, Gustave Doré Thalassini Douma, David Hockney Joey Kuhn, Francisco Leonardo Archivio Olivari, Jason Pay Fondazione Antonio Presti Giuseppina Riggi, Michele Ruffaldi Santor Marco Sibillio, Archivio Terzocchio Andreas Trepte, Fabrizio Troccoli Traduzioni Franca Pauli e Nabila Yakub per MyTalk Ltd Stampa EUROTEAM green advanced printing Via Verdi, 10 - Nuvolera (Bs) © 2016 edizioni|archos All rights reserved È vietata la riproduzione totale o parziale del contenuto di questa rivista senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. No part of this magazine may be reproduced in any form without the written authorisation by the Publisher.

Karl Popper

…gli uomini lodano il giorno, io fuggo il sole e in una tana tenebrosa getto l’anima. Yukio Mishima

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erché La Porta? Perché è il passaggio che accoglie o il limite da non valicare, il luogo della separazione e assieme dello scambio. Dalla porta passa il viaggiatore e sulla porta il mercante mostra ciò che ha da vendere. La porta della città era il luogo degli scambi commerciali. I beduini, i nomadi si accampavano all’esterno delle mura e attraverso la porta vendevano le loro merci. All’interno c’era il mercato cittadino, fuori quello dei forestieri. La sera la porta si chiudeva lasciando fuori l’altro. La porta chiusa evoca solitudine, intimità, esclusione, lontananza; aperta profanazione, accoglienza, inclusione, prossimità.

Per il cristiano la porta della chiesa è il passaggio tra il mondo terreno e quello con Dio, per questo è pesante, cieca, di grande dimensione, incorniciata da complessi portali. È la porta che contrassegna il luogo della fede e oltrepassandola l’uomo, intero di spirito e carne, si lega a Dio. Oltre la porta il contenitore, dentro il contenuto, il mito. Il diffondersi dei rituali legati al simbolismo della porta come luogo di “passaggio” ha sancito — per la relazione che intercorre tra soglia e divinità — la sacralizzazione dell’ingresso. Al contrario le porte di produzione contemporanea inseguono leggerezza e trasparenza. Spariscono nelle trame dei muri, scorrono leggere, sono in vetro, non vogliono esistere come porte, ma come diaframmi termici o acustici perché la separazione tra il pubblico e il privato è sempre più esile, eppure stiamo perdendo il senso della collettività, siamo tutti molto più estranei di quando, robuste e pesanti, le porte erano visibili e confinavano i nostri spazi. Nella moschea, nella chiesa, nella sinagoga come nel tempio zen la religione dell’uomo


EDITORIALE ha la necessità di chiudere fuori dalla porta l’infinito. Da una parte (fuori) l’ambito terreno, estraneo e perciò ostile, rappresentato dal caos, dall’altra (dentro) il luogo chiuso della sicurezza. La porta quindi come difesa dall’infinito, aprirla tuttavia significa conoscerlo. Il nome del complesso musicale dei Doors deriva dal titolo di un saggio di Aldous Huxley The Doors of Perception ripreso a sua volta da William Blake: “se le porte della percezione fossero spalancate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è: infinito”. La porta quindi come varco per la creatività, sgombrarla significa attivare un rapporto panico con quello che realmente è. Oltrepassare quella soglia significa ridurre la funzione di filtro che il nostro cervello esercita per limitare esperienze che ritiene inutili alla sopravvivenza dell’individuo. Huxley riconosceva alla mescalina la capacità di aprire quella porta, lo farebbe inibendo l’assimilazione di glucosio da parte del cervello. L’attenzione viene distolta (per effetto della sostanza psichedelica) dai costrutti culturali consueti della quotidianità e ridiretta verso diverse forme di interesse. Huxley ritiene che qui si possa formare una sorta di esperienza mistica, un grado diverso e più elevato di consapevolezza e di percezione. Nei secoli molti tra scienziati, psicologi, filosofi e artisti hanno cercato di dare risposte agli stati di nebbia della nostra mente, oltre la soglia della nostra piena percezione cosciente, nell’ignoto della mente, nel mezzo tra la vita e la morte, ai confini tra il sonno e la veglia, tra sogno e realtà, tra memoria e oblio. Insomma proprio sulla porta della nostra psiche potrebbero celarsi risposte scientifiche e interpretazioni artistiche in grado di svelarci nuovi poteri. Quali vantaggi non ci è dato sapere perché quella è proprio la porta attualmente più chiusa. E poi esistono le porte morali che nel tempo si aprono e si chiudono per lo più a seconda

delle convenienze economiche. Il biologo Richard Dawkins paragona la porta morale della lotta contro gli allevamenti intensivi alla battaglia condotta due secoli fa contro lo schiavismo. E già Pitagora non ammetteva soluzione di continuità tra uomini e bestie e considerava il consumo di bistecche alla stregua del cannibalismo. Oggi nel bel mezzo di nuove migrazioni culturali l’Italia, prima fra tutti gli stati del mondo ad abolire la pena di morte (col Gran Ducato di Toscana nel 1786) continua a costruire e vendere migliaia di mine giocattolo per impedire ai bambini di stati, che con la loro economia potrebbero incrinare la nostra, di diventare adulti produttivi. La porta rappresenta anche l’inizio e la fine del nostro destino, il luogo da dove partire e dove arrivare. “Qui nessuno poteva ottenere di entrare poiché questa entrata è riservata solo a te. Adesso vado e la chiudo...” dice il guardiano della porta del tribunale al viandante di Kafka (Il processo cap. IX) che per tutta la vita cerca di corromperlo per passarla. La soglia del tempo e la soglia della realtà rappresentano il limite e il punto di contatto tra due mondi, come la soglia della vecchiaia indica una condizione esistenziale “se non di vecchiezza, la detestata soglia evitar non impetro”, recita Giacomo Leopardi. «Siamo alle soglie del XXI secolo» abbiamo ripetuto per tutti gli anni novanta, e a fine autunno diciamo «L’inverno è ormai alle soglie». Porte spazio-temporali aperte dalle testimonianze orali, scritte, audiovisive, archeologiche che ci mettono in comunicazione con l’altro ancora vivo, vissuto fino a poco fa, morto da migliaia di anni. Porte continuamente aperte, chiuse e riaperte a seconda delle nostre necessità esistenziali. Personalmente credo nella storia così come lo scienziato Ernst Mach, esponente dell’empiriocriticismo, la intendeva “[…] vi sono due modi per

conoscere la realtà che ci circonda: uno è quello di assuefarsi ai dubbi, agli enigmi della realtà sino al punto di non percepirli più come tali. L’altro consiste nello sforzo di chiarirli con l’aiuto della storia. La storia ha fatto tutto e la storia può cambiare tutto”. È certamente troppo presto per saperlo e anche per dirlo, ma ho la sensazione che siamo quasi fuori dalla spessa porta tra il secolo scorso e l’attuale. Tra quello che, con la seconda rivoluzione industriale, ha prodotto il mondo contemporaneo caratterizzato dalla sovranità della tecnica, e uno nuovo, forse nascente, dall’unico modo possibile di interpretare la libertà e cioè attraverso la responsabilità. Dove lo spazio pubblico deve tornare a essere collettivo e a disposizione di chi è in grado di servirsene e i nuovi obiettivi da raggiungere sono legati a cosa serve davvero a noi e agli altri.

In copertina: Orco, la figura più celebre e simbolo del Parco dei Mostri - Sacro Bosco di Bomarzo, Viterbo. Un grande faccione di pietra con la bocca spalancata dalla quale si accede a una camera scavata nel tufo. Data la forma dell'ambiente, le voci di coloro che vi entrano sono amplificate e distorte, creando un effetto spaventoso. Foto © Archivio Terzocchio, 2013


DOORS There are many dangers in our world: one of them is a misunderstanding of democracy that is the terrible idea that people should be able to do everything and anything they want. In truth, there can be no freedom without responsibility. Karl Popper

Yet the light shines and man praises the day. I flee the sun and in a dark lair I toss my soul. Yukio Mishima

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hy Doors? Doors can be a welcoming passage or a limit we cannot cross. A place of separation or of exchange at once. A traveller passes through a door, and on a door a merchant shows what he has to sell. City gates were once places of trade. Bedouin nomads camped outside city walls and sold their goods through their gates. Within the walls lied the city market. Outside, that of strangers. At night, gates were closed to leave “others” outside. A closed door may evoke solitude, intimacy, exclusion, distance. An open door may mean desecration as well as hospitality, inclusion, proximity. For Christians, the church door is the passage between the earthly world and the divine one. This is why it is heavy, blind, large and framed in complex portals. This gate marks a site of faith and, when walked past, humans made of spirit and flesh bind with God. Beyond the door, the container. Inside the content, myth. The spread of the rituals associated with the symbolism of the door as a place of “transition” has ratified the sacralisation of the act of entering in the relationship between threshold and divinity. On the contrary, contemporary doors seek lightness and transparency. They are made of glass and almost disappear into wall textures, flow lightly and do not intend to exist as simple doors but rather as thermal or acoustic diaphragms. This is because the separation between the public and the private sphere is becoming increasingly frail, and yet we are losing our sense of community. We are all more strangers than when robust, heavy and very visible doors bordered our spaces. In mosques, churches, synagogues as much as in Zen temples, human religion has the need to shut out the door to infinity. On the one side (outside), the earthly context, alien and therefore hostile, represented by chaos. On the other (inside), an enclosed place of security. Door as a defence from the Infinite. To open them, however, is to know. The name of The Doors rock band comes from the title of an essay in Aldous Huxley’s The Doors of Perception, taken up in turn from William Blake: «If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is, Infinite». Doors as channels for creativity. To clear them means to activate a panic relationship with what really is. To cross that threshold means to reduce the filtering function that our brain exercises in limiting experiences it considers unnecessary to the individual’s survival. Huxley recognized mescaline’s ability to open those doors by inhibiting the brain’s assimilation of glucose. This psychedelic substance diverts the attention away from the cultural constructs of everyday life and redirects it toward different forms of interest. Huxley believes that there, a sort of

mystical experience can take place. A different and higher degree of awareness and perception. Over the centuries, a number of scientists, psychologists, philosophers and artists have tried to explain the cloudiest states of the human mind beyond the threshold of our full conscious perception, deep in the unchartered territory of the mind. Exactly between life and death, on the border between sleep and wake, dream and reality, memory and oblivion. Right on the doors of our psyche, some scientific answers and artistic interpretations may be hiding that can reveal new powers never imagined before. Which benefits we do not know yet, because that is precisely the door that presently is the most tightly closed. Then we have moral doors, which open and close over time, mostly depending on the economic advantages they bring. Biologist Richard Dawkins compares the moral door of the fight against factory farming to the battle fought two centuries ago against slavery. Pythagoras already recognised the continuity between man and animals and considered the consumption of steaks as cannibalism. Today, in the midst of new cultural migrations, Italy — the first nation in the world to abolish death penalty (in the Grand Duchy of Tuscany, in 1786) — continues to manufacture and sell thousands of toy mines thus preventing the children of other nations from becoming productive adults and disrupt current economy. Doors also represent the beginning and end of our very destiny. The place wherefrom we leave and whereat we arrive. «No one else could ever be admitted here, since this gate was made only for you. I am now going to shut it», says the court guardian to Kafka’s wayfarer (The Trial, chapter 9, In the Cathedral), who has been trying all his life to bribe him and finally passes it. The threshold of time and the threshold of reality represent the limit and the point of contact between two worlds, just like the threshold of old age indicates an existential condition, «but I, if I cannot avoid crossing the hateful threshold of old age...», says Giacomo Leopardi. «We are at the threshold of the 21st century», we used to say in the nineties. In late autumn, we say, «winter is at the door». Space-time doors are opened through oral testimony. Written, audio-visual, archaeological doors that put us in communication with those living or those who lived until recently or have been dead for thousands of years. Doors constantly opened, closed and reopened according to our existential needs. I personally believe in history as well as in what scientist Ernst Mach, an exponent of empiriocriticism, intended: «[...] there are two ways of comprehending the reality around us: one is to get used to the doubts and riddles of reality to the point of not perceiving them as such anymore. The other consists in the effort to clarify them by the aid of history. History has created everything and history can change everything». It is certainly too early to know and say it, but I feel we are almost out of the thick door between the last century and the present. Between that which, during the second industrial revolution, produced a contemporary world characterized by technical sovereignty, and a new one perhaps just dawning, from the only possible way of interpreting freedom, that is through responsibility. Where public space must go back to being collective and available to those who can use it and where the new goals to be achieved are related to what truly serves others and us.

LA PORTA di Magda Szabò

con Maria Paiato e Maria Pilar Pérez Aspa

E se la chiave fosse accettare qualcuno per com’è, evitando completamente la tentazione di cambiarlo? Se conoscere una persona avesse come rischio quello di poterla amare meglio, saremmo disposti a rischiare? Due donne, distanti, opposte, lontane per vita, educazione, gusti, strato sociale che il caso mette molto vicino. Una un’isola, l’altra un continente. Una antica come una statua, l’altra moderna e libera. Danzano, si studiano, si rispettano e finiscono per conoscersi. Di quella conoscenza molto vicina all’amore.

dal 12 al 15 gennaio 2017 ATIR - Teatro Ringhiera Milano, Via Pietro Boifava 17


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iò che resta della Cattedrale di Norcia è un’immagine simbolo di un disastro che ha alimentato nuovamente il dibattito su prevenzione e ricostruzione post-sisma, diatriba tra conservazione e progetto contemporaneo, rinnovando retoriche sempre più intensamente cavalcate, oggi come mai, anche attraverso la rete e i social. A fronte di ingenti risorse stanziate per il funzionamento della macchina dei soccorsi, per l’alloggiamento e l’assistenza agli sfollati, per supportare e risarcire le attività produttive e i cittadini colpiti, è evidente l’assoluta necessità di maggiori investimenti in termini di prevenzione, ma più profondamente è arrivato il momento di intervenire in maniera seria sul patrimonio ereditato e che scarsamente sappiamo manutenere e aggiornare ai cambiamenti del tempo. Questioni che nell’ultimo decennio hanno accelerato il passo delle ricerche specialistiche e di settore e allo stesso tempo hanno lanciato un allarme a tutte le competenze che si interessano di territorio, dalla sua manutenzione alla sua modificazione attraverso l’azione integrata del progetto. Ci sono enti di ricerca e università che stanno lavorando seriamente su questi temi, ma che fanno registrare una scarsa ricaduta dei risultati sul territorio, vista la resistenza di politiche, burocrazie, mancanze e lentezze, in un paese troppo spesso fuori tempo… fermo su una soglia. Ma la possibilità di un futuro ha resistito: la porta dell’edificio simbolo di Norcia è ancora lì e questa volta non ci sono state vittime. Questa porta è la testimonianza che siamo chiamati ad entrare con coraggio nel luogo del conflitto e a dare risposte convincenti perché alla domanda di nuovi spazi in cui rappresentarsi, si sta sostituendo, sempre più, la domanda di luoghi sicuri. È nostro dovere lavorare culturalmente e progettualmente, traguardando l’obiettivo di resilienza, attraverso metodi di costruzione aggiornati allo spirito del tempo, consapevoli e capaci di innervare di maggior sicurezza l’anima dell’architettura, al di là del linguaggio e dei messaggi espressi. E allora coraggio, entriamo! Non sarà necessario bussare… per chi ha voglia di futuro, la porta è aperta. Michele Manigrasso

a prima riflessione è sui restauri della basilica nella seconda metà del ‘900 (1950, 1975, 2000) e la mancata messa in sicurezza antisismica. La seconda riflessione è sulla forza della facciata trecentesca che riesce a stare in piedi anche perduti gli appoggi, sulla bellezza del suo rosone e del gruppo scultoreo nella lunetta ogivale che sormonta il portale. La terza riflessione è sul ricostruire “com’era, dov’era”: potrebbe essere invece l’occasione per un progetto di reinterpretazione contemporanea, attraverso un concorso internazionale. Carlo Pozzi

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l crollo delle navate della Basilica di San Benedetto a Norcia oltre che provocarmi profondo sgomento e tristezza sembra comunicarci un messaggio da parte dei mastri costruttori che l’hanno costruita… «Noi l’abbiamo realizzata con le nostre mani e con materiali poveri (pietra e malta); essa rappresenta un importante luogo di culto, segno della presenza divina sulla terra, e l’abbiamo costruita così bene che è resistita per tanti secoli ai vari terremoti che ci sono stati. Voi (cioè noi, N.d.A.) che appartenete a quella generazione più evoluta


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ra la domanda legittima è: ricostruire dove e come era prima, rientra nel lavoro dell’architetto? Per Borges, nella sua breve Storia dell’Eternità, creare e conservare si congiungono nel costruire: “I teologi affermano che la conservazione di questo mondo è una perpetua creazione e che i verbi conservare e creare sono sinonimi del cielo”. Louis Auguste Blanqui nel suo L’Eternité par les astres scrive: “L’universo è nello stesso tempo la vita e la morte, la distruzione e la creazione, il cambiamento e la stabilità, il tumulto e il riposo.

Esso si snoda e si riannoda senza fine, sempre lo stesso, con esseri sempre rinnovati... Nell’insieme e nei dettagli l’universo è eternamente trasformazione e immanenza...” Così il vero lavoro dell’architetto non è né quello dell’inventore o del conservatore o del costruttore, ma far sì che tutte queste cose abbiano un’anima. L’architetto, contrariamente all’ingegnere, non si occupa di oggetti, ma dell’uomo attivando processi in grado di trasformare lo spazio modificato in luogo di relazione tra gli esseri viventi e le cose. Edoardo Milesi

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tecnologicamente, che siete riusciti a sbarcare sulla luna, che avete a disposizione i materiali più innovativi e potete contare sui saperi dell’evoluzione costruttiva di tanti secoli, siete riusciti nel difficile compito di farla crollare sotto l’effetto di un evento naturale che da sempre caratterizza quest’area… vergognatevi e che la presenza della facciata rimanga da monito a chi si occuperà della ricostruzione… una porta serve per dividere lo spazio esterno da quello interno... in questo caso quello interno è sacro...». Nicola Valente

a tenacia della trecentesca facciata della Basilica di S. Benedetto mi ha lasciato sgomenta. La perdita quasi totale di un edificio monumentale, simbolo storico-artistico della città di Norcia e dell’intera comunità, evidenzia la fragilità di un patrimonio sottoposto nei secoli non solo ai danni provocati dal terremoto, ma anche di altri accidenti, a cui si unisce la naturale azione disgregatrice del tempo. È ampiamente condivisibile il bisogno di poter tornare, nel più breve tempo possibile, a seguito di eventi traumatici, alla situazione preesistente, quale che essa fosse. Atteggiamento che può trovare una spiegazione sul piano psicologico, quale metabolizzazione di un lutto conseguente a una tragedia, ma non sul piano culturale e operativo. È possibile replicare la forma di un’opera ampiamente danneggiata, consapevoli però che stiamo producendo un falso sia storico, sia artistico. Inevitabilmente, tuttavia, all’indomani del sisma è serpeggiato il ricorso alla ricostruzione “com’era, dov’era”, così come, sul fronte opposto, l’invocazione al linguaggio contemporaneo a tutti i costi, sia nei confronti di manufatti monumentali sia per il tessuto edilizio dei centri storici, proponendo ampie sostituzioni con architetture contemporanee. Le diverse posizioni in campo, a cui la storia ci ha abituato, rimandano a un concetto fondamentale: il progetto di restauro è un progetto architettonico con finalità conservative. Non implica in nessun caso l’immobilismo o il passatismo. Ciò premesso, fondamentale sarà l’ascolto delle stratificazioni storiche, recepite con ordine e metodo, attraverso l’analisi di ciò che resta dei manufatti architettonici per desumere un approccio metodologico pertinente al singolo caso, con esplicito richiamo ad Ambrogio Annoni e al restauro “caso per caso”, cioè derivato dalle indicazioni fornite dall’edificio su cui si interviene. Clara Verazzo


S OM M AR IO ED IT ORIALE

PR IM O PIANO Norcia 30102016

AR T E

Il rito dell’accoglienza e della bellezza di Carlo Pozzi

AR CHIT ET TUR A La porta di Zumthor di Simona Auteri

S CIENZ A Aprire le porte della mente di Alberto Mazzocchi

SENSI

Il silenzio di Alberto Nacci


12 | Un muro fatto di mare

70 | Le vie dell’Albero Cosmico

di Maria Gabriella Frabotta

di Angela Galli

14 | La porta nel mito: Hermes e Giano bifronte

72 | Margate, porta del mare di Franca Pauli

di Marta Coccoluto

76 | Porte... e le maniglie?

22 | La porta in faccia. Incontro con Felice Levini

di Sofia Steffenoni

78 | Ogni porta ha una storia

di Carlotta Monteverde

DANZA

di Luigi Mangia

28 | Separazioni e contiguità

80 | Ogni amore ha il profilo perfetto

di Andrea Tomasini

Sandra M. Dami intervista Giorgio Ghiotti

32 | Interconnessioni

Orfeo Rave di Laura Cavalieri Manasse

83 | La porta stretta

di Vanna Francesca Bertoncelli

di Leone Belotti

38 | La porta dell’anima

86 | Apoftegmi

di Nicoletta Prandi

88 | Libri

40 | ArtApp Artist Contest Loriano Bigi - Sguardi

54 | La porta. La soglia. La chiave. Il ponte di Stefano Mavilio

60 | Filo verde come una soglia di Lucio Rosato

STORIE

FOT OG RAFIA Eduardo Fiorito, porte aperte sul mistero del sacro

Ritorni di Beatrice Rebussi

di Raul Wittenberg

T EATR O

Porte in scena di Giorgio Zorcù

VIAGG I Porte si aprono su stanze della mia memoria di Paolo Riani

AR CHIT ET T UR A Parla amico, ed entra di GianMaria Labaa

CINEM A

Aprite pure quella porta di Lucia Fava


Il rito dell’accoglienza e della bellezza Due porte che evocano significati diversi: la Porta di Lampedusa, Porta d’Europa, e la Porta della Bellezza a Catania di Carlo Pozzi

Porta di Lampedusa Porta d’Europa, Mimmo Paladino, Lampedusa. Foto © S. Bonnefille


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l tema di una porta definita da un intervento artistico, una porta aperta sul nulla, sul vuoto dello spazio e del cielo del Mediterraneo, che fa lui da sfondo di lapislazzulo, viene affrontato da Mimmo Paladino, artista campano già affermato con le sue inquietanti figure di pietra e i suoi cavalli incastonati in montagne di sale: realizza la Porta di Lampedusa – Porta d’Europa, promossa dal Comune di Lampedusa, da Amani – organizzazione non governativa a favore delle popolazioni africane, Arnoldo Mosca Mondadori, Alternativa Giovani e la Comunità di Koinonia, col patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – Ufficio Italia, del Ministero dell’Interno, della Regione Sicilia e della Regione Puglia. Alla realizzazione hanno collaborato: Collegio di Milano, Fondazione O’Scia, Ceramica Gatti, Michelangelo Lombardi Costruzioni Srl e la Holding Turismo che, attraverso una donazione, ha contribuito alla costruzione dell’opera. L’isola, terminal di molte disperate migrazioni africane, in fuga da povertà e da guerre, ospita così un’opera d’arte dedicata alla memoria dei troppi migranti che hanno perso la vita in mare e che a Lampedusa non sono riusciti a arrivare, annegati a qualche miglia da Malta o a qualche miglia da Tripoli. Un monumento di quasi cinque metri di altezza e tre metri di larghezza, realizzato con ferro zincato e una speciale ceramica refrattaria, costruita in un laboratorio di Faenza e poi assemblata a Paduli, inaugurato il 28 giugno 2008. Un’opera civile e laica consegnata alle future generazioni, ma già capace di risvegliare nel mondo contemporaneo, spesso distratto e troppe volte aizzato contro i migranti, un sentimento di riflessione e di meditazione sul senso della vita e della morte. Un “faro simbolico”, una porta puntata verso l’Africa, orientata verso il villaggio di Al Zuwara, al confine fra la Tunisia e la Libia, da cui era partito un peschereccio fradicio, affondato con 140 morti a bordo: testifica una strage senza testimoni, spesso senza sepoltura o con sepoltura anonima e siglata solo con un numero progressivo e la scritta “extracomunitario”. La contrada Cavallo Bianco è attraversata

da un sentiero polveroso che sale dal vecchio porto, scavalca una collina e si getta in mare. Della scelta del sito Paladino dice: «L’artista non dovrebbe celebrare ma raccontare. Ho provato a spiegare qualcosa che avesse a che fare con un esodo forzato, qualcosa di comprensibile a tutti i popoli. Per questo ho voluto la porta il più lontano possibile dal centro abitato e il più vicino possibile all’acqua e quindi all’Africa». L’inaugurazione è stata accompagnata da una poesia scritta ad hoc da Alda Merini: Una volta sognai di essere una tartaruga gigante con scheletro d’avorio

che trascinava bimbi e piccini e alghe e rifiuti e fiori e tutti si aggrappavano a me, sulla mia scorza dura. Ero una tartaruga che barcollava sotto il peso dell’amore molto lenta a capire e svelta a benedire. Così, figli miei, una volta vi hanno buttato nell’acqua e voi vi siete aggrappati al mio guscio e io vi ho portati in salvo perché questa testuggine marina è la terra che vi salva dalla morte dell’acqua.

Sopra: Antonio Presti, Porta della bellezza , Librino, Catania Foto © G. Riggi


28 giugno 2008, inaugurazione Porta di Lampedusa Porta d’Europa © Archivio Amani Onlus

Il quartiere si chiama Librino e, con i suoi circa 70.000 abitanti, è parte della periferia di Catania, caratterizzato dal degrado e da una delinquenza che ha il suo centro nel “Palazzo di Cemento”, vero e proprio covo mafioso, nonché area di smistamento dei principali atti criminosi (spaccio di droga, omicidi, traffico illegale di armi, ricettazione). Tutto ciò nonostante una “nobile” nascita contrassegnata dai progetti di Luigi Piccinato e Kenzo Tange. Nel 2009 arriva a compimento l’operazione di riqualificazione artistica fortemente voluta da Antonio Presti, artista e mecenate siciliano, presidente della Fondazione Fiumara d’Arte, che con dieci anni di preparazione e partecipazione popolare ha posto le basi per la realizzazione della Porta della Bellezza, sequenza di 9.000 formelle in terracotta e 13 opere monumentali realizzate da artisti e giovani studenti da loro coordinati. Le opere, abbinate ad altrettanti testi poetici, sono state applicate su cinquecento metri di un muro di cemento armato, lungo tre chilometri che attraversa il quartiere, tagliandolo in due. Con l’intervento di un’arte partecipata, il muro si trasforma in porta, simbolo di passaggio e di cambiamento. Il progetto è stato realizzato grazie alla partecipazione delle scuole elementari, medie e degli oratori del quartiere, che accolgono diecimila studenti. Gli artisti e i poeti hanno lavorato per più di due anni direttamente nelle scuole. Le forme di terracotta sono state modellate e firmate

dai giovani autori, protagonisti di un percorso etico e artistico mirante a cambiare la storia e l’identità del quartiere. Il tema sviluppato è stato quello della Grande Madre, una riflessione sul ruolo femminile nella società contemporanea, mutuato dall’esperienza antica di un’entità basata su caratteristiche propriamente femminili come la riproduzione, la fertilità, il nutrimento, la trasformazione e la crescita, riallacciandosi alla stagionalità del mondo naturale: un tempo ciclico legato ai raccolti, alle fioriture, al movimento degli astri sulla volta notturna, al ciclo di morte e di nascita. Attraverso questa iniziativa la Fondazione mira a risvegliare nella popolazione di Librino il valore della condivisione, della pratica artistica collettiva, il senso della bellezza. L’obiettivo è quello di far maturare una coscienza comune di rispetto e amore per il proprio territorio e di recuperare e divulgare impegno civile e educazione alla cittadinanza. La Porta della Bellezza si arricchirà, anno dopo anno, di altri interventi artistici in terracotta che verranno a completare progressivamente tutta la lunghezza del muro. Successivamente, il Museo d’Arte Contemporanea continua coinvolgendo i condomìni e i negozi del quartiere. Grazie all’ausilio di artisti di fama internazionale (registi, fotografi, videomakers), diverse facciate cieche dei palazzi di Librino e alcuni negozi accoglieranno i lavori artistici, segnando così l’apertura del Museo Terzocchio Meridiani di Luce.

The ritual of welcoming and beauty by Carlo Pozzi

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ateway to Lampedusa – Gateway to Europe by artist Mimmo Paladino, a civil and secular work dedicated to future generations. Already powerful enough to awaken a contemporary world too often distracted and pitted against migrants. A sense of reflection and meditation on the meaning of life and death. A symbolic beacon, a gateway pointed at Africa, oriented towards the village of Al Zuwara on the border between Tunisia and Libya, from where a soaked fishing boat left only to later sink with 140 passengers on board. A work that testifies a massacre that has no witnesses, mostly no burial or the anonymous burial of corpses labelled with serial numbers and the non-EU code. The Porta della Bellezza (Door of Beauty) in Catania, Sicily. A sequence of 9,000 terracotta tiles and 13 monumental works by a selfcoordinated group of young artists and students. The works relate to a number of poetic texts and appear on a 500-metre strip of concrete wall along three kilometres, cutting the neighbourhood in two. Through this participatory art project, the wall turns into a door, a symbol of transition and change. This installation was built by Antonio Presti, Sicilian artist and patron and the President of the Fiumara d’Arte foundation.


by Matter of Stuff

AR CHIT ET TUR A

La Porta di Zumthor I suggestivi interni della Cappella Bruder Klaus di Peter Zumthor, a Wachendorf, in un campo agricolo privato a trecento chilometri da Colonia, eretta in onore del Santo patrono svizzero Bruder Klaus foto e testo di Simona Auteri

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i sono luoghi che rimangono impressi nella mente. Ce ne sono altri che vengono vissuti con così tanta intensità che lasciano traccia e memoria non solo nella mente, ma in tutte le cellule del corpo: la sensazione di fastidio della luce accecante agli occhi ormai abituati al buio, il cigolio di una porta di metallo che si apre pesante nel silenzio profondo di una spiritualità intima, l’odore di terra umida, il freddo del ferro sotto le mani e la sensazione di incerto equilibrio dovuta alla consapevolezza del fango sotto le scarpe nel lungo percorso a piedi. Così è stata la mia esperienza della Cappella Bruder Klaus di Peter Zumthor, in una remota località tedesca. A Wachendorf, in un campo agricolo privato a trecento chilometri da Colonia, si erge la cappella in onore del Santo patrono svizzero Bruder Klaus. Un sentiero di dieci minuti a piedi la separa dal parcheggio: da qui la cappella appare come una torre rettangolare, una silhouette di forma ambigua, una curiosità che necessita investigazione. Il pellegrinaggio sul sentiero per la cappella impedisce la sua visione diretta fino alla curva finale, per poi svelarla quando la torre appare posizionata sulla vetta, somma di quella visuale. Una seduzione per anticipazione. Ma la forma della cappella di Wachendorf si risolve quando nell’approcciarla si materializza come una torre risolutamente non rettangolare, ma di cinque facce, la prima delle quali ospita la porta, la barriera fisica che separa l’esterno geometrico della cappella e il suo interno ben contrastante.

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La cappella è fatta di calcestruzzo, la sua struttura costruita dai contadini locali che hanno gettato ventiquattro strati di cemento nel corso di ventiquattro giorni attorno a casseri composti internamente da un tepee di tronchi di betulla ed esternamente da pannelli di legno. Una volta completato il getto è stato dato fuoco agli alberi, dei quali non si ha più traccia se non negli interni corrugati e carbonizzati della cappella. La cappella è ancorata al terreno, i suoi muri sono della stessa materia trovata nel letto del fiume e nella foresta vicino. Il plinto di cemento sulla quale la torre si erge è anch’esso parte del terreno, e consente il lusso di sedersi per assorbire i raggi tiepidi del sole. Tutto nella cappella è ancorato saldamente al terreno. Tutto, tranne la porta. Ogni cosa nella porta, la sua materialità, dimensione, sensazione al tatto (un triangolo isoscele di tre metri di altezza di acciaio liscio e pesante, cigolante) è espressione di un accenno, da parte dell’architetto intento a dimostrare che la porta non stia solo a significare il passaggio tra esterno e interno, o l’entrata a un mondo interiore, piuttosto l’entrata in un mondo a sé. La porta non è ancorata alla cappella. Non ci sono connessioni visibili, e la sua prua pesante si muove senza frizione, senza gravità e senza altro contatto se non quello della mano che afferra la maniglia. Una volta entrati, la porta si richiude, tagliando completamente al di fuori


Lì, finalmente, pervade una conoscenza più intima e senza i confini dell'intelletto Zumthor‘s door by Simona Auteri

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ome places stay in your memory forever. Others you experience with such intensity that they leave their trace not only in your mind, but also in each cell of your body. The discomfort of the blinding light in your eyes when in darkness, the creak of a metal door opening heavily in the midst of an intimate silence, the smell of the wet ground, the coldness of iron on your hands, the feeling of uncertain balance due to a muddy path underneath your feet. This was my experience of the Bruder Klaus Chapel by architect Peter Zumthor, in a remote village of Germany. The Chapel is anchored to the ground, its walls made of the same material found in the nearby riverbed and forest. The plinth at the base of the Chapel is also part of the ground. The concrete plinth supporting the tower is also part of the ground. Everything in the chapel is firmly anchored. Everything but the door, an isosceles triangle of three metres of smooth, heavy, squeaky steel. Everything in it – its material, size and tactile feel – is the expression of the architect’s desire to show that it is not only there to represent a transition between outside and inside or one into an inner world, rather the entry into a world of its own altogether.

il mondo esterno, la sua luce, i suoi suoni: un boccaporto chiuso con risoluzione. Il meccanismo di connessione della porta alla struttura della cappella è un’asta conficcata nella terra, distaccata dal resto dell’edificio, separata da poche molecole di spazio. Nell’entrare e uscire attraverso la porta non c’è alcun contatto con la forma materiale della cappella stessa, solo con l’acciaio freddo e il terreno morbido. In questo modo la cappella è resa allo stesso tempo intima e monumentalmente distaccata, ancorata a terra, e allo stesso tempo trascende la sua posizione nello spazio. La porta prende parti singolari, quelle di un portone inaspettatamente e inspiegabilmente sempre socchiuso. Difficile da aprire, una volta aperta,

mostra con disarmante sincerità, l’oscurità totale di quanto c’è dentro. Con gli occhi che pian piano si abituano, ci si addentra nel buio e si leggono i dettagli dell’interno, le cui pareti ondulate e bruciate sono costellate da lacrime di vetro che portano dentro la luce esteriore e ricordano la rugiada, o forse la resina dei tronchi che un tempo costituivano i casseri interiori della struttura. La soglia è prolungata e continua una volta che la porta ci si è richiusa alle spalle. Quando la mente e il corpo hanno smesso di apprezzare la ricerca conoscitiva dello spazio, ormai si è giunti al centro della cappella. Lì, finalmente, pervade una conoscenza più intima e senza i confini dell’intelletto: è qui che l’anima percepisce la sacralità dello spazio e la sua solitudine confortante.



La porta in faccia Incontro con Felice Levini La soglia come dispositivo di cesura netta tra due luoghi: quello dell’arte contro quello del visitatore, una costante nelle opere dell’artista romano, come limite invalicabile oltre il quale non è dato sapere di Carlotta Monteverde

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e non fosse da sistemare il materiale rientrato dall’auditorium, dove si è da poco conclusa l’ultima mostra dell’artista, lo studio di Felice Levini sarebbe quasi sgombro: tutto è riposto e imballato con cura; solo veloci indizi testimoniano i passaggi di una carriera quarantennale. Appesi alle pareti tre grandi quadri in lavorazione; di fronte all’ingresso Armadio, Torre, Babele Balbuziente (2009), baule-museo portatile che contiene al suo interno la riproduzione in miniatura di interventi passati, mentre l’esterno è disseminato di scritte. Tra la scrivania e il centro della stanza, infine, temporaneamente collocate le tende, i cartoni con le mani in resina e gli altoparlanti di Corpi Semplici II

Felice Levini, Astratti Furori, 2014 © Leonardo Aquilino Courtesy De Crescenzo & Viesti

Non si può dedurre dalla calma delle nostre parti la tranquilla monotonia dell’Universo, la mostra, appunto, presso AuditoriumArte. «I megafoni sono il luogo del comunicare, del sentire, del caos, e rimandano a esso attraverso suoni e parole confuse o in lingue diverse; c’è la commistione di un’epoca che si dà all’unisono e nello stesso tempo con forti contrasti, dovuti proprio all’amplificazione distorta. E per terra una scacchiera, la strategia, dove ci si confronta, nel gioco della vita, nel gioco della morte». A far da contraltare, durante l’esposizione (a cura di Anna Cestelli Guidi e in collaborazione con RAM Radioartemobile), a questa visione “mondana”, una seconda sala: un tempio

o ricovero con drappi bianchi a scandire lo spazio; mani, a coppie, sporgenti dal muro; e un bagliore intermittente. «Lì viene donato qualcosa, oppure preteso o preso, perché l’apertura delle dita può significare che siamo noi a doverci sdebitare. È il motivo per cui mi interessa il battito di ciglia della luce che si accende e si spegne. Un cuore pulsante, vedere e non vedere». Suddiviso in un dentro e un fuori, in uno spazio pubblico e contingente, e uno intimo, privato, il progetto è debitore, in parte, a Astratti Furori, tenutosi presso la galleria De Crescenzo & Viesti nel 2014. «Ho ripreso il lavoro della porta dove già ho voluto inserire un’idea di pietà e dove ho messo tre scacchiere sul muro». Prosegue: «Un portone grande che si apre e chiude. Qualcosa che ti conduce altrove, da un al di là a un al di qua; non sai più qual è l’entrata o l’uscita e filtra una fortissima luce bianca, impalpabile. Dove ti trovi? Sei nel vero o nel falso? Non è dato sapere, né tantomeno ci puoi passare, altrimenti ti fai male, finisci in un’altra dimensione, nell’opera». Sebbene di porte vere e proprie Levini ne abbia “costruita” solo una, la soglia come dispositivo di cesura netta tra due luoghi, quello dell’arte contro quello del visitatore; come meccanismo di disorientamento nel cortocircuito tra invito e esclusione; come limite invalicabile oltre il quale non è dato sapere, è una costante nei suoi interventi. Non c’è, opera del 2004 allestita per la prima volta alla Fondazione Volume!, è un cubo all’interno del quale l’ennesima scacchiera, una sedia, e l’immagine di Giovanni Paolo II di spalle con la scritta che richiama il titolo, sono tenuti a debita distanza dall’osservatore attraverso un oblò. Nell’accampamento militare meticolosamente ricreato al Museum


Chi è | Felice Levini Nato a Roma nel 1956, dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti, Felice Levini dà vita nel 1978, assieme ad altri colleghi, allo spazio autogestito di S. Agata dei Goti. Contemporaneamente compare nella prima collettiva, Artericerca ‘78, al Palazzo delle Esposizioni. Cooptato da Renato Barilli

per il “gruppo” dei Nuovinuovi (con Enrico Barbera, Bruno Benuzzi, Antonio Faggiano, Marcello Jori, Luigi Mainolfi, Luigi Ontani, Giorgio Pagano, Giuseppe Salvatori, Salvo e Aldo Spoldi), espone nel 1980 nella mostra omonima alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Bologna, alla quale segue Anniottanta (1985). Nel 1986 e nel 1996 è invitato alla XI

Moderner Kunst Stiftung Ludwig Wien (1997), se si entra nella tenda, nel rifugio protettivo contrapposto alla brutalità della guerra, si incappa nel vuoto più totale; anche i quadri presentano piani diversi: c’è sempre un altrove da osservare ma mai raggiungibile. È paradossale, infine, la ricerca di Levini: ti sollecita, ti trasporta in territori inesplorati, ma poi, sul più bello, ti sbatte letteralmente la porta in faccia, lasciandoti in bilico su un abisso di interrogativi e nonsense. «Il fare la pittura è un’azione di movimento, performativa, non c’è un definitivo; il dipinto non è chiuso nella sua compiutezza, è soltanto un’indagine all’interno di una superficie. È una sfida con me stesso per trovare qualcosa che possa essere letto in modi differenti. Nei quadri riporto una storia dove non c’è più un soggetto preciso ma la processualità di una vita oppure dei riferimenti a eventi passati, e allora chi vi è di fronte trova dei nessi, delle pieghe.

e XII Quadriennale di Roma. Nel 1988, invece, è alla Biennale di Venezia, a Aperto 88 (Arsenale), dove ritorna nel ’93 per La Coesistenza dell’Arte; e nel 2000 alla Bienal de Habana, Cuba. Il 2013, infine, è l’anno dell’importante personale alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e delle rassegne Ritratto di una città. Arte a Roma 1960-2001 al

In alto e sotto: Corpi Semplici II, 2016 © Marco Sibillio

MACRO e Anni Settanta a Roma, al Palazzo delle Esposizioni. Ha esposto, tra gli altri, al Musée de la Ville de Paris, al Centre d’Art Contemporain di Montreal (Canada), al MOCA di Los Angeles, al Musée d’art moderne de Saint-Étienne Métropole, a Madrid, Londra, New York, Atene, Bruxelles, Santiago, Zagabria, Mosca, Ankara e Belgrado.


Farmacia, 1996 Martiri e Santi, L'Attico © Thalassini Douma

Slammed door A conversation with Felice Levini by Carlotta Monteverde

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he alphabet that painter Felice Levini put together over four decades of work consists of signs, symbols with clear-cut and simplified contours or crumbled in myriads of dots. Silhouettes, letters, words, mottoes. Elements found in one painting after another, kaleidoscopic reiterations that, since his first presentation, abandoned the twodimensionality of the picture. As he said, «Back in 1978, the exhibition at Sant’Agata dei Goti was entirely environmental. A photograph of King Louis XVI with two torches, a cloth of blue velvet with a feather and, on the opposite wall, the inscription “the king, the king...” gradually fading. Nothing else. For me, space is such in ideal terms and I can do anything I want in it. This is why I started using everyday materials such as canvas but also transparent plastic, performance, wallpaper... I wanted to find my own freedom of action in the first place, as there is no longer a standard reference point as there was in the 60s. Another chapter opens characterized by a multifaceted thought, definitely plural.» In order to “demolish the idea of tranquillity and systematicity of painting”, the visionary pages written by Levini design “a perception of the world as a sphere where everything floats. […] Well, this was my dream. To unlock art’s core problem, to find more forms and contents to it, more things to include in it. Or, to take out of it, and play with these two possibilities”.

È un reinventare delle parole». Aggiunge: «È un gioco di illusione: se vi entri ne puoi uscire in un altro modo o con dei dubbi o con una nuova visione. È creare perplessità, non dare una risposta: aggiungere a un problema un altro problema. La risposta non c’è mai, anzi non ci deve essere». “L’immaginazione al potere ha proclamato il suo conformismo. Esprimo la mia dissidenza e riaffermo con azione a distanza il potere dell’immaginazione. Ora più che mai, né intimo né nostalgico” è la frase che campeggia sul muro della galleria L’Attico per la mostra Martiri e Santi (1996), assieme a una casetta con l’insegna “Farmacia” e a un giaciglio sospeso da terra su cui è sdraiata una donna dai capelli biondi. Una sorta di manifesto per l’artista, che dagli anni ’80 rivendica un approccio “raffreddato” alla creazione. Levini si è formato sul finire dei ’70, in un’epoca di ritorno alla pittura, ma “di pancia”, espressionista, abbandonando un

atteggiamento distaccato e laterale del fare arte. Con le “sillogi” Azione a distanza e Né intimo né nostalgico, ne rifonda il linguaggio come operazione concettuale, attraverso la sottrazione, l’allontanamento, «vedere le cose da un binocolo rovesciato». Come “processo antiromantico”. E l’alfabeto che in quattro decenni è andato ricostruendo si compone di segni, simboli dai contorni netti e semplificati oppure sbriciolati in miriadi di puntini; silhouette, lettere, parole, motti. Elementi che si ritrovano di dipinto in dipinto, caleidoscopiche reiterazioni che, fin dalla prima presentazione, abbandonano la bidimensionalità del quadro: «Già nel ’78 la mostra a Sant’Agata del Goti era tutta ambientale: una fotografia del re Luigi XVI con due torce accese, un drappo di velluto blu e una piuma appoggiata, e sulla parete di fronte la scritta “il re, il re…” che moriva man mano. Nient’altro». Spiega: «Per me lo spazio è uno spazio idealizzato e dentro

vi posso fare qualunque cosa; per questo ho iniziato a usare materiali usuali come la tela ma anche plastiche trasparenti, performance, carta da parati… volevo trovare una mia libertà d’azione. Non essendoci più un punto di riferimento standard, come negli anni ‘60, si apriva un altro capitolo, connotato da un pensiero multiforme, plurale». Nell’intento di «demolire l’idea di tranquillità, sistematicità, del fare la pittura» le pagine “visionarie” scritte da Levini hanno progettato una percezione del mondo come dentro a una sfera dove tutto galleggia. «Ecco, questo era il mio sogno — dice — sbloccare il problema dell’arte, trovare più forme e contenuti, più cose da mettere dentro. Oppure, al contrario, togliere. E giocare con queste due possibilità».


Il silenzio Le relazioni possibili tra suoni e immagini che permettono di scoprire che il Silenzio è una porta, una condizione privilegiata per trasformare le emozioni in immagini e viceversa di Alberto Nacci

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a nostra mente elabora i pensieri attraverso le immagini: lo ha dimostrato Freud negli anni ‘20 del secolo scorso. Ma la qualità dei nostri pensieri va al di là dei consueti criteri di percezione della realtà: i nostri pensieri possono infatti avere una dimensione sinestetica (ovvero offrire sensazioni che coinvolgono tutti i cinque sensi) per formare immagini che raggiungono la sfera emotiva fino ad arrivare al nostro subconscio. In ogni momento della giornata siamo sollecitati dalla realtà esterna e immagazziniamo un numero altissimo di esperienze sensoriali che si collocano nella nostra memoria in attesa che qualcosa (o qualcuno) le richiami alla memoria. Ciò che consideriamo “esterno” è ancora dentro di noi e acquista un valore soltanto quando ci sono le condizioni favorevoli per “emergere”. Il passaggio fra dentro e fuori implica l’attraversamento di una porta e il Silenzio è questa porta come condizione privilegiata per trasformare le emozioni in immagini e viceversa. Quando parlo di

immagini non faccio riferimento soltanto a ciò che ha una dimensione visiva: anche un suono ha una sua immagine. Un profumo o una sensazione tattile possono generare immagini che ci portano lontano nel tempo e nello spazio. Occorre però ampliare il concetto di immagine per approdare al termine visione. E le visioni costituiscono il codice interpretativo delle emozioni. Ogni esperienza sensoriale si deposita nel nostro subconscio lasciando una traccia che può essere più facilmente interpretata, se le condizioni ambientali sono favorevoli. Il Silenzio è una condizione ambientale che favorisce questo processo: cioè agevola il passaggio fra dentro e fuori, proprio come una porta che permette di accedere da un ambiente a un altro indipendentemente da ciò che é dentro e ciò che è fuori. Il Silenzio ha un ruolo importate nel processo creativo. Nel mio progetto artistico Architetture del Silenzio ho chiesto a importanti esponenti della cultura contemporanea di spiegarmi quale può essere il significato del Silenzio.

Silence by Alberto Nacci

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very sensory experience is stored in our subconscious and leaves a trail that can be easily traced back, especially when environmental conditions are favourable. Silence is an environmental condition that promotes this process. It facilitates the switch between the inside and the outside, just like a door providing access from one environment to another regardless of what is inside or outside of it. Silence has a significant role in the creative process. In the art project Architetture del silenzio

(Architectures of Silence), I asked a few leading figures of contemporary culture what is the meaning of silence. Astronomer Margherita Hack once told me that the word “silence” produced in her the image of the iron tone of colour. According to architect Vittorio Gregotti, «It is the space between sounds. An architect designs the spaces between architectural structures. Individuals travel the distances between designed structures and the voids inbetween are the place where they live».


Margherita Hack mi ha detto che la parola Silenzio produce in lei l’immagine del colore del ferro. Potrebbe essere una suggestione onomatopeica e ne ho la conferma quando mi ha detto che «fuori dall’atmosfera terrestre non ci possono essere suoni e che i cosiddetti suoni dell’Universo sono delle elaborazioni tecnologiche delle onde elettromagnetiche di cui non potremmo ascoltare alcun suono perché... manca il “veicolo” che dovrebbe condurle al nostro orecchio: in assenza di aria il suono non può essere trasmesso, pertanto i suoni dell’Universo sono una bufala!» Questa spiegazione mi piace. Penso infatti che il Silenzio abbia le caratteristiche dei Postulati di Euclide: si possono descrivere ma... non è possibile dimostrarne l’esistenza: nessuno riuscirà mai a tracciare una retta come “insieme infinito di punti allineati su uno stesso piano”. Possiamo soltanto immaginarla. Anche il Silenzio, come assenza di suoni, possiamo soltanto immaginarlo, perché noi siamo produttori di suoni (il cuore

che batte, l’aria che attraversa i nostri polmoni, il sangue che scorre nelle nostre arterie...). Ma ci offre la possibilità di entrare a contatto con la parte più profonda del nostro Io. Questo è un elemento problematico per molti individui. Infatti il Silenzio “si rompe” soprattutto se ci costringe a guardare laddove preferiamo non vedere. Tutti gli intervistati di Architetture del Silenzio hanno confermato che è tutt’altro che “assenza di suono”. Potrebbe invece essere ragionevole pensare che nel Silenzio i nostri pensieri diventano più “densi”, carichi di significato. Nel mio workshop Il Colore dei Suoni propongo un ascolto guidato di suoni naturali (da una goccia d’acqua, alla pioggia, al temporale, poi un ruscello che diventa fiume per arrivare al mare). Durante l’ascolto di questi suoni i partecipanti sono invitati a lasciare una traccia dei loro pensieri su grandi fogli (parole, disegni, colori, graffi che esprimono le visioni generate dall’ascolto dei suoni) che successivamente vengono descritti e talvolta spiegati dai

partecipanti. Ciascuno dei suoni proposti è separato dagli altri da pochi minuti di Silenzio. E accade sempre che durante il Silenzio aumenti la produzione dei segni che vengono lasciati sui grandi fogli. Il Silenzio contribuisce ad aprire una porta per accedere ai pensieri che spesso sono condizionati da fenomeni esterni che inibiscono le visioni generate spontaneamente dal nostro cervello. Il Silenzio è una risorsa per l’umanità perché dà significato a ciò che l’uomo realizza. Nelle interviste del progetto Architetture del Silenzio, l’arch. Vittorio Gregotti dice «...è lo spazio fra i suoni, e l’architetto si occupa di progettare gli spazi fra le strutture architettoniche. Gli individui percorrono le distanze fra le strutture progettate, e le pause fra queste strutture sono il luogo da abitare». Il vuoto e il pieno (come il dentro e il fuori) sono categorie del nostro pensiero che trovano una giustificazione nella ricerca continua di una porta che ci permetta di passare da una condizione all’altra.


Orfeo Rave Uno spettacolo di danza e teatro che indaga sulle ragioni per cui Orfeo si è voltato, perdendo per sempre l’amata Euridice di Laura Cavalieri Manasse foto di Donato Aquaro

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rfeo ed Euridice, uno dei miti più belli dell’età antica narra la storia di un uomo e una donna che sono sposi felici, lei muore morsa da un serpente mentre fugge dalle bramosie di Aristeo. Orfeo impazzito dal dolore decide di scendere nell’Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Gli dei concedono a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio la preceda e non si volti a guardarla fino a quando non siano giunti alla luce del sole. Sulla soglia tra i due regni, però, l’uomo si gira, la moglie muore per la seconda volta e svanisce alla vista del marito. Questo mito è stato studiato e scandagliato in tutti i suoi aspetti da molti studiosi: dagli antichi Ovidio, Erastotene e Virgilio ai più recenti Pavese o Bufalino e, a maggio di quest’anno è stato portato sulla suggestiva scena del Padiglione Blu della Fiera

di Genova dal regista teatrale Emanuele Conte che ha condiviso con la coreografa e ballerina Michela Lucenti la progettazione di Orfeo Rave, uno spettacolo che ha unito due realtà artistiche: il Teatro della Tosse di Genova e Balletto Civile, gruppo nomade di performer che hanno condiviso un modo diretto di fare teatro, fortemente visivo e coinvolgente. Evento d’apertura del numero zero del Festival di danza Genova Outsider Dancer, Orfeo Rave ha presentato una coreografia complessa e molto fisica, che si è mossa sulle musiche di Tiziano Scali e Federico Fantuz, mentre gli attori hanno recitato i testi di Elisa D’Andrea, autrice di una sceneggiatura che ha riscritto in modo attuale la trama del mito. «Siamo agli inferi — racconta — la morte, narratrice, ci accoglie, mentre gli altri personaggi, molto quotidiani e reali, si esprimono come se riportassero le loro


Una cella del carcere di Halden in Norvegia

Orfeo Rave by Laura Cavalieri Manasse ph. Donato Aquaro

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he tragic love story of Orpheus and Eurydice was brought to the suggestive Blue Pavilion stage of the Fiera di Genova by theatre director Emanuele Conte. With choreographer and dancer Michela Lucenti, Conte co-designed Orfeo Rave, a show combining two artist collectives: the Teatro della Tosse of Genoa and the Balletto Civile, a so-called nomadic group of performers who share a direct way of interpreting theatre that is highly visual and engaging. Orfeo Rave was the opening act of the pilot edition of the Genova Outsider Dance Festival. It presented a complex and very physical choreography on a soundtrack by Tiziano Scali and Federico Fantuz. Actors acted out the scripts by Elisa D’Andrea, the author of a screenplay who rewrites the plot of the myth of Orpheus and Eurydice in a contemporary style and turns it into a contemporary ritual. Both the performers and the audience participate in a rave where different languages meet in physical interaction, in a unique collective experience of live music, scenic elements sculpted by stage lights and new technologies that are an inspiring counterpoint to the dance and drama.

testimonianze sull’incontro con Orfeo». Si assiste perciò alla scena del matrimonio con Apollo, Ade e Persefone, quindi il momento corale con Tantalo, fino al baccanale da cui parte il rave. Emanuele Conte spiega: «In un prebaccanale, affidato a un dialogo tra Ermes e Bacco, emergono le ragioni per cui Orfeo si è voltato perdendo per sempre l’amata. È qui che si svela il taglio dello spettacolo. È sceso agli inferi e poi, a un passo dalla meta si gira. Perché lo fa? Gli uomini temono più l’amore che la morte». Parafrasando Pavese, Ermes dice: “ma tu davvero credi all’amore sentimentale?” E prosegue “No, lui si è girato perché in realtà è andato alla ricerca di sé e per trovarsi doveva lasciare una parte di sé ormai perduta, tra cui l’amore”. Conte continua: «Il nostro Orfeo è un uomo. Gli uomini hanno più paura dell’amore che della morte, perché nell’amore temono di

perdere se stessi. Da qui la domanda che muove il nostro spettacolo: e se Orfeo non fosse sceso nell’Ade per riportare in vita Euridice, ma per ritrovare una parte di sé che non esisteva più? Forse Orfeo cercava il suo stesso dolore, quando lo ha trovato, non ha potuto fare altro che voltarsi, per lasciarlo andare, gettandosi alle spalle quella parte di sé che era morta insieme a Euridice, per levarsi di dosso l’uno, ha dovuto rinunciare anche all’altro». Una scelta umana che, però, ha come epilogo un’espiazione. Così le baccanti mettono in atto la loro terribile vendetta: Orfeo ha svelato l’illusione dell’amore e sarà fatto a pezzi per aver rivelato la propria verità. Il rave prende forma. La potenza della musica e la forza delle immagini restituiscono al presente l’archetipo e lo trasformano in emozione e il pubblico, accolto dalla Morte, diviene l’elemento vivente di una scrittura complessa


[…] Ma lei camminava alla mano del dio, impedita nel passo dalle lunghe bende funebri, insicura, lieve e senza impazienza. Lei era dentro se stessa come una donna in attesa e non pensava all’uomo che camminava innanzi né alla strada che risaliva alla vita. Lei era dentro se stessa […] Lei era ormai sciolta come una lunga chioma e perfusa come pioggia caduta e spartita come una grandiosa provvista. Lei era già radice. E quando all’improvviso il dio la fermò e dolorosamente, ad alta voce, pronunciò queste parole: «Si è girato», lei

arricchita da una danza fisica e coraggiosa. Il testo ha un linguaggio e una collocazione contemporanea, dove Ade e Persefone sono due anziani di oggi, davanti alla TV, la morte è Euridice stessa, Ermes è un medico patologo e gli inferi sono una specie di obitorio. Nei nove quadri di cui si compone lo spettacolo il movimento, la musica e le videoproiezioni creano l’ambiente nel quale agiscono attori e ballerini. Gli undicimila metri quadrati del primo piano del padiglione sono stati attraversati da un pubblico numeroso e di tutte le età, tra piani inclinati sospesi a mezz’aria, pareti di plastica, cancellate di ferro, ponteggi, panche di legno e lettini da obitorio, in un allestimento

non comprese nulla e disse piano: «Chi?» Ma, oscuro e distante davanti alla soglia luminosa, stava qualcuno il cui volto non si poteva riconoscere. Stava fermo e guardava come, sulla traccia di un sentiero, con uno sguardo pieno di tristezza il dio messaggero si girava in silenzio per seguire l’ombra, la quale già stava tornando indietro per la stessa via, il passo impedito dalle lunghe bende, incerta, leggera e senza impazienza... Rainer Maria Rilke, Orfeo Euridice Ermes, 1904, trad. di Giaime Pintor

scenico che ha trasformato lo spazio, lasciando intatta la natura del posto. Le coreografie di Michela Lucenti si sono amalgamate con gli spettatori, offrendo loro le scene e il vuoto, in una serie di danze che hanno mischiato generi e stili diversi di balletti: break dance, contemporaneo e classico. Questo spettacolo è riuscito a portare il mito alla dimensione di un rito contemporaneo: artisti e pubblico hanno partecipato insieme a un rave dove i linguaggi si sono incontrati, i corpi si sono mescolati e l’esperienza è diventata unica grazie alla musica dal vivo, gli elementi scenici scolpiti dalle luci e le nuove tecnologie che hanno fatto da contrappunto


alla danza e alla recitazione. Dopo il grande successo di Orfeo Rave, il Teatro della Tosse prosegue l’indagine sul mito di Orfeo ed Euridice portando in scena dal 26 ottobre al 6 novembre 2016 Eurydice di Jean Anouilh. Emanuele Conte firma la regia dell’opera ambientata in periodo contemporaneo e l’amore tra i due protagonisti, nato nel buffet di una stazione ferroviaria, è il terreno su cui si gioca lo scontro inconciliabile tra realtà e ideale, tra maschile e femminile, che condannerà entrambi alla morte. Il tono lirico delle battute tra i due amanti crea una magica sospensione della realtà. Dopo l’amore visto attraverso gli occhi di Orfeo, ora l’altra faccia della medaglia. Ecco Euridice.

ORFEO RAVE Spettacolo di Emanuele Conte e Michela Lucenti Produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Balletto Civile Testi: Elisa D’andrea ed Emanuele Conte Regia Emanuele Conte e Michela Lucenti Impianto scenico Emanuele Conte Coreografie Michela Lucenti Costumi Daniela DE Blasio e Bruno Cereseto Luci Cristian Zucaro Musiche originali

ed elaborazioni musicali Tiziano Scali e Federico Fantuz Video Luca Riccio Assistente alla regia Alessio Aronne Collaborazione drammaturgica e scenografo assistente Luigi Ferrando Con Michela Lucenti Maurizio Camilli, Enrico Campanati, Pietro Fabbri, Susanna Gozzetti, Maurizio Lucenti, ‘Ngoni Demian Troiano e con Fabio Bergaglio, Ambra Chiarello, Giovanni

Leonarduzzi, Alessandro Pallecchi, Emanuela Serra, Giulia Spattini, Natalia Vallebona, Jaskaran Anand, Alberto Galetti, Giuseppe Claudio Insalaco, Antonio Marino, Marianna Moccia, Arabella Scalisi Direttore di scena Roberto D’Aversa Macchinisti Carlo Garrone, Fabrizio Camba, Kyriacos Christou Elettricisti Matteo Selis, Davide Bellavia, Giovanni Coppola Fonico Tiziano Scali Attrezzista Renza Tarantino Sarta Umberta Burroni


Ritorni di Beatrice Rebussi


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amminavo, e sentivo un rumore, come se la mia testa fosse conficcata sopra un manico di scopa e sussultasse a ogni passo. Dopo quella botta ero certamente morto, ma nulla apparentemente era cambiato se non dentro ai miei pensieri. Pensavo cose diverse soprattutto in modo diverso: mio padre, le mie sorelle, il mio intestino non occupavano più spazio dentro la mia testa. Mi ricordai di quante volte Brigida mi chiedeva quanto pensassi a lei soprattutto quando eravamo lontani e mi resi conto che, come nei sogni, la mia mente poteva ospitare tutto questo e molto di più senza occupare alcuno spazio. Continuavo a camminare, andavo senza fatica verso una spiaggia dove il rumore del mare sprigionava allo stesso tempo profumo di sabbia, sale e schiuma e il suo sapore era una cosa morbida, non calda né fredda e nemmeno appetitosa. Fu allora che mi accorsi che il mio sguardo era concentrato su un punto abbastanza vicino che tuttavia era impossibile da identificare perché cambiava continuamente. Il camion uscì improvvisamente da quella curva che non avevo visto e l’urto contro il mio corpo fu così rapido, forte e caldo da impedirmi di capire cosa stava succedendo. Non fu così la volta precedente, avevo solo 33 anni, ero una donna alla guida della mia Mercedes Pagoda del ’49 grigio-argento, allora non esisteva ancora la vernice metallizzata.

Comebacks by Beatrice Rebussi

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s I walked, I heard a noise as if my head were stuck on a broomstick and shuddered at every step. After the blow, I was certainly dead. Nothing had apparently changed though, except in my thoughts. I was thinking different thoughts and especially in a different way. My father, my sisters or my intestine did not occupy any space inside my head, anymore. I remembered of how many times Brigida asked me how much I had been thinking of her, especially when we were apart, and realized that, as in dreams, my mind could accommodate all this and even more without taking up any space at all. I kept walking effortlessly towards a beach where the sound of the sea gave off the scent of sand, salt and foam at the same time, plus the taste of something soft, not hot or cold or tasty. It was then that I realized that my eyes were focused on a close enough point, but it was impossible to identify it as it was constantly

L’incidente contro il pulmino della scuola non mi uccise sul colpo e, ai margini della strada, sotto l’auto rovesciata, con entrambe le gambe rotte e un rivolo di sangue che mi usciva dall’orecchio, avvertii il freddo che si stava impossessando del mio corpo immobile e sempre più rigido. Fu per questo che passai tutta la vita successiva a evitare il freddo. Rinacqui dentro il corpo di un bambino solo sei anni dopo e, anche se a livello inconscio, mantenni alcune memorie della mia precedente vita. Certamente l’ansia di voler recuperare quella vita spezzata troppo presto mi fece correre incontro a questa nuova senza mai un momento veramente di quiete. Ero sicuramente morto, ma non solo camminavo in mezzo alla gente, potevo sentire i loro odori e i loro profumi. Una anziana signora, incerta sotto il suo peso, eccessivo per la sua altezza, avanzava verso di me, potevo sentire e vedere l’odore rancido di cipolla uscirle dai pori assieme al fiato pesante e denso. Incrociandomi pareva non mi vedesse, ma dietro a lei una giovane donna mi salutò con un sorriso. Era forse per quella mia breve vita precedente come donna che in questa appena passata non avevo mai sofferto mali d’amore non corrisposto. Mi era sempre stato facile toccare le corde più sensibili dell’altro sesso, sia per farmi ben volere che per farmi odiare o anche solo per farmi evitare. Il sorriso della giovane donna, non bella,

changing. The lorry suddenly came out from a curve I had not seen clearly enough and the impact against my body was so fast, strong and hot that it prevented me from understanding what was really going on. It was different from the time before. Back then I was only 33. A young lady driving a 1949 silver-grey Mercedes Pagoda. That was before metallic car paint came out. The crash against the school bus did not kill me on the spot and, on the roadside under the overturned car – both legs broken and a trickle of blood coming out of my ear – I felt the cold taking over my motionless and increasingly rigid body. That was the reason why I then spent all following lives avoiding the cold. I was born again into a baby body only six years later and, although subconsciously, I kept a few memories of my former life. Certainly, my anxious wanting to restore that broken life too soon made me run towards a new one and never really enjoy a moment of quiet. I was definitely dead, yet not only was I walking among the living, but I could

ma allegra e dolce assieme, suscitò in me un incredibile entusiasmo che in un attimo saturò tutto il mio corpo accompagnato da una strana vibrazione ondulatoria che mi attraversò. Partendo dal mio fondo schiena lo scodinzolio risalì tutto il mio corpo fino al collo, ma, come dire, in un senso più orizzontale che verticale. Fu così che passando accanto alla vetrina di una pasticceria e guardandovi distrattamente attraverso, invece di vederne riflessa la mia immagine vidi, più o meno all’altezza di dove avrebbe dovuto riflettersi il mio stomaco, solo una coda, dritta, rasata e di due colori: la punta di circa quindici centimetri nera e poco più sotto, prima della probabile attaccatura alla sua schiena, nocciola chiaro. Al momento non mi curai né della coda né della mia figura che mancava il riflesso e proseguii verso il mare. Era ancora presto, sulla spiaggia il bagnino stava sistemando le sedie a sdraio blu, le apriva e dopo averle asciugate dalla rugiada le piazzava a due a due sotto gli ombrelloni perpendicolari al mare anche se sapeva che gli ospiti del residence le avrebbero spostate per inseguire il sole il cui tragitto era parallelo alle onde del mare. Fu quando, arrivato sull’arenile e il bagnino parandosi davanti a me senza dire una parola tentò di spaventarmi che, imbarazzato da questo suo stupido movimento, dalla mia bocca, invece della solita voce, usci una specie di guaito.

also hear and smell them. An elderly lady advanced unstably towards me because of a disproportionate weight for her height. I could see and feel a rancid smell of onion exuding from her pores and a heavy, dense breath. As she crossed me, she seemed not to see me, but the young woman behind her greeted me with a smile, instead. It was perhaps because of that previous short life of mine as a woman that I had never suffered the pains of unrequited love. I had always been good at touching the most sensitive chords of humans of the opposite sex and make them love me, hate me or even just avoid me. The smile of the young woman, not particularly beautiful but surely cheerful and sweet, ignited some incredible enthusiasm in me and saturated my whole body with a weird wavy vibration. This sort of wagging feeling started in my lower back and climbed all over my body up to my neck, but more horizontally than vertically, so to speak. So, I passed by the window of a bakery and casually looked through it. Instead of seeing

my usual self reflected, I saw a sort of a tail more or less at the height at which my stomach would normally be. Just a tail, straight, smooth and of two colours. The tip was black and a few inches long. Slightly underneath and before the point where it would join my back, it was light brown. At first, I did not really care about the tail or the fact that my figure was not being reflected, and went on walking towards the sea. It was still early morning. The lifeguard was arranging blue deck chairs on the beach. He would open them and free them from the morning dew and then place them two by two under the umbrellas, perpendicular to the sea, although he knew that the residence guests were later going to move them to chase the sun, whose ride was parallel to the waves of the sea. When I arrived on the strand, the lifeguard stood silently in front of me to try to scare me. He looked embarrassed by the stupidity of his own gesture and my mouth, instead of the usual voice, produced a kind of yelp.


Sara Donzelli in La Regina dei banditi, PIM Spazio Scenico - Milano (2007), foto Š Margherita Busacca


Porte in scena Tre spettacoli teatrali che utilizzano una porta come elemento cardine, emblema scenico per rappresentare la violenza, la cura e la fine di Giorgio Zorcù

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icordo una foto di Peter Brook sul palco delle Bouffes du Nord, mentre tiene un seminario. Accanto a lui solo una porta aperta. La porta, la soglia, sono simboli potenti in teatro. Mi accorgo che tre spettacoli del nostro repertorio hanno proprio una porta al centro della scena. Il primo è La Regina dei banditi. Volevamo esplorare il tema della violenza e del riscatto. Come reagire davanti a una violenza subita? Cosa è giusto e cosa ingiusto fare? La scintilla dell’idea arrivò per caso. Incontrammo in un bar di Milano Federico Bertozzi, un amico attore e drammaturgo che non vedevamo da tempo; lui guardò Sara, attrice della compagnia, ed esclamò: «Ma sei uguale a Phoolan Devi!». Era appena tornato dall’India e si era appassionato a quella storia. Phoolan era nata in un villaggio sperduto nella giungla, apparteneva alla casta più bassa e per di più era femmina; fin da bambina subì molestie e soprusi, ma si ribellava e questo non era sopportato dai capi. Fu data sposa a 11 anni a un marito anziano e violento, ma dopo poco riuscì a fuggire e tornò al villaggio; come donna maritata e abbandonata divenne preda di chiunque e precipitò in un abisso di stupri, reazioni e vendette, finché fu venduta a una banda di fuorilegge. In poco tempo diventò il loro capo e a 16 anni guidava 40 banditi. Vendicava le violenze sulle donne con le esecuzioni dei colpevoli nelle piazze dei villaggi. Diventò un fenomeno nazionale, inseguita da tutte le polizie, finché decise di arrendersi. Dopo undici anni di carcere, data la sua grande popolarità, un partito di sinistra le offrì la candidatura in Parlamento e fu eletta per due legislature. Nel luglio 2001, all’uscita della seduta del mattino venne uccisa a colpi di pistola. Aveva 38 anni, e ad oggi non sono ancora stati scoperti i mandanti. Divenne una leggenda e un simbolo del movimento delle donne e delle caste basse. Eccola la nostra storia! Paradossale, come solo la vita sa esserlo, ci permetteva di

esplorare a tutto tondo luci e ombre. Chiedemmo un testo a Federico, che ci restituì una narrazione in terza persona, ma costellata di monologhi intimi in cui Phoolan parlava in prima persona e confessava i suoi stati d’animo profondi. Come rendere teatrali quei passaggi? Qui arrivò l’idea della porta: sarebbero avvenuti sotto un portale indiano al centro della scena, come un reperto archeologico sepolto nella giungla. In quel frame si sarebbe stagliata l’icona di Phoolan nella sua progressiva vestizione di guerrigliera; lì sotto sarebbero avvenute le sue trasformazioni. Intorno agiva la narratrice. Lavorammo intorno a questa idea sia con l’acting che con le luci e i passaggi musicali. Le prove ci riservarono una sorpresa. Nella scena della violenza col marito, sotto il portale, Sara iniziò a tremare tutta, come se nel suo corpo passassero le sofferenze di tutte le donne del mondo. Il tema iniziale passava in second’ordine: questa era la nuova urgenza, il colore più forte che emerse alla fine, la violenza degli uomini contro le donne. Quell’esperienza fu talmente forte che ci rimase il desiderio di approfondire il tema con un nuovo spettacolo. Dopo molte letture ci colpì l’analisi di Barbablù fatta da Clarissa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi. Seguendo la pista scoprimmo La camera di sangue di Angela Carter, che aveva fatto di Barbablù una versione contemporanea horror-neogotica, ambientata in un castello della Bretagna in mezzo alle maree. Su tutto c’era l’immaginario simbolista di fine ‘800 e aleggiava la figura di Gilles de Rais, il nobile del ‘400 considerato il primo serial killer della storia, che ispirò Perrault per la fiaba e successivamente Huysmans per il romanzo Là-bas (L’abisso), Georges Bataille, che scrisse sul suo famoso processo, e Pasolini per il film Salò o le 120 giornate di Sodoma. La cosa interessante era il punto di vista della donna-vittima, che in una lunga introspezione soggettiva svelava gli aspetti più profondi della psicologia femminile:

Doors on stage by Giorgio Zorcù

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he door and the threshold are powerful symbols of theatre. I noticed that three shows in our entire repertoire feature a door at the centre of the scene. One show is called La regina dei banditi (The Queen of Bandits) and explores the themes of violence and redemption and our reactions as victims of violence. We staged the life of Phoolan Devi, the legendary Indian female hero. The show was set underneath a classic Indian portal at the centre of the scene as an archaeological find buried in the jungle. The Bloody Chamber by Angela Carter features a horror-neogothic version of Bluebeard, set in a castle in tidal Brittany. A door is central to the story. Its peak is in fact the revelation of a forbidden door, behind which lurks the secret of a man who wants and does not want to be discovered. The door of the unspeakable, of the most profound and violent intimacy. An all-male Pandora’s box. This project certainly marked our lives, because it implied a long exploration of the concept of violence. We came to the decision and the urgency to work on the issue of care. In Palermo, we met with Lina Prosa, the playwright who had written for us La stanza del tramonto, Appunti sulla vita ordinaria di un mammifero (The Sunset Room, Notes on the ordinary life of a mammal). The door appears right in the initial caption: “A brother and a sister find themselves, after years of separation, behind the closed door of the room of a hospital. From the shadow come the breath and the singing of their dying mother”. Behind the door, their dying mother: the door of an unspeakable change of state. The mystery of mysteries.


Sara Donzelli in tre momenti diversi di La camera di sangue”, Teatro degli Industri Grosseto (2009), foto © Michele Ruffaldi Santor

l’ingenuità e l’ambizione della giovane donna, i sentimenti contrastanti di attrazione e repulsione, fino al terrore finale. Al centro della storia c’era una porta: l’acme era infatti lo svelarsi della porta proibita, dietro la quale si celava il segreto di quell’uomo, che voleva e non voleva essere scoperto. La porta dell’indicibile, dell’intimità più profonda e violenta, un vaso di Pandora tutto maschile: quella di una stanza di tortura, con le tracce di tutte le precedenti spose uccise. La porta in scena questa volta era un fascio di luce, stagliato nei dardi cangianti delle altre luci, che si riflettevano su specchi dorati e si rifrangevano sul grande tulle bianco che faceva da fondale. Al di là del telo, un pianista accompagnava l’azione, e proprio un pianista cieco, nella storia della Carter, era l’unica protezione di lei, l’altra faccia del maschio violento. Anche questo spettacolo segnò le nostre vite, perché c’era stato un lungo attraversamento dell’argomento Violenza. Si arrivò alla decisione, all’urgenza, di lavorare sul tema della Cura. A Palermo avevamo conosciuto Lina Prosa, autrice di teatro e fondatrice del Centro Amazzone, un luogo straordinario dedicato alle donne colpite da tumore e operate al seno che univa Mito, Scienza e Teatro. Ci aveva fatto leggere il suo Lampedusa Beach, che avevamo trovato bellissimo. Era la persona giusta a cui chiedere un testo; dopo tre anni di frequentazione e laboratori ci restituì La stanza del tramonto. Appunti sulla vita ordinaria di un mammifero; lo spettacolo avrebbe debuttato a Bologna dopo altri tre anni di prove e studi scenici. Nel frattempo lei, dopo il successo della sua Trilogia del Naufragio alla Comédie-Française di Parigi, era diventata famosa, ed è oggi l’autrice italiana più tradotta e rappresentata all’estero. La porta appare subito, nella didascalia iniziale: «Fratello e Sorella stanno dietro la porta chiusa della stanza di un ospedale. A volte proviene dalla stanza un forte odore di alcool insieme al canto della madre segnato da una voce rauca e struggente». Lina ci aveva restituito un testo sulla Cura e sulla Fine, o sulla Cura della Fine. Dietro la porta c’era una madre che muore: la porta dell’indicibile e del cambiamento di stato. Il mistero dei misteri.



Margate, porta del mare Un quartiere popolare trasformato in zona abitativa di pregio, con il conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni di Franca Pauli

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a 18 mesi abito a Margate, nella contea del Kent. È l’antica Meregate, letteralmente “porta del mare”, un luogo esposto alla piena furia del Mare del Nord [Wikipedia]. Fondata per i villeggianti della Londra vittoriana e poi trascurata e in declino per decenni, oggi è ancora ufficialmente denominata area disagiata, tuttavia in rapidissima ripresa. Margate è una città bella come poche, accogliente, piena di carattere e storia e ora in pieno fermento, con alcune cicatrici piuttosto evidenti che tuttavia porta come un distintivo. È abitata dalla gente più varia, con un livello medio di amabilità oltre ogni statistica. Un posto in cui qualsiasi cosa pare possibile e succede rapidamente ed efficacemente. Per vocazione storica, è un luogo di nuovi inizi e di potente guarigione. In seguito a un grave esaurimento nervoso, Thomas S. Eliot trovò riparo a Margate durante un periodo di stacco dalla sua vita borghese e dal suo posto sicuro alla Lloyds Bank e qui ritrovò soprattutto il filo logico del suo pensiero.

Sulla spiaggia di Margate collego il nulla al nulla. Le unghie rotte di mani sporche. La mia gente, gente umile che non si aspetta nulla. [La Terra Desolata, 1922] Cent’anni dopo, lo stesso mare porta a molti la stessa intuizione. È una rivelazione mista a forza di cambiare le cose per il meglio e un dilemma che ha un nome quasi nuovo e sembra un bene e un male insieme: la gentrificazione. Ora Margate è la frontiera di un’onda umana di creativi, pendolari e spaesati purosangue e Northdown Road nel quartiere di Cliftonville la sua arteria maestra. Gli hipster e i cosiddetti DFL (Down From London) coesistono con immigrati da ogni parte del mondo, adorabili vecchiette inglesi e famiglie proletarie extra large. Alcuni di noi riabitano vecchi edifici, altri aprono nuove attività, altri ancora semplicemente spendono a Marghetto il proprio budget del venerdì sera. Solo essendo qui, ognuno di noi agisce in qualche modo da

rigeneratore di un’economia che ormai pareva persa e, in alcuni casi, di un tessuto sociale che solo pochi anni fa sembrava ormai perso. Rimane il fatto che noi tutti atterriamo qui sedotti da immobili molto economici ma pieni di stile e dal profumo di una nuova occasione e che pare che i creativi siano l’avanguardia dei grandi investitori, quelli che dove passano non cresce più un filo d’erba. La gentrificazione ha un ciclo preciso e infallibile. Parte sempre da zone malfamate che costano poco. Shoreditch o Brixton a Londra, l’East Village o Williamsburg a New York, i Navigli o la Bicocca a Milano. Noi outsider ci entriamo, riabitiamo, affittiamo, rianimiamo e aggiustiamo gli immobili, togliamo via la vecchia patina e iniettiamo nuovo stile e contenuti. Investiamo dei budget medio-piccoli, ma tanto olio di gomito e buona volontà. Siamo per lo più liberi professionisti 30/40enni dell’arte e dei media, artisti o artigiani con la missione di fabbricare prodotti di qualità con in mente la questione della


sostenibilità. La birra artigianale, gli arredi upcycled, i vestiti vintage, la musica indipendente, il cibo sano e spesso ricercato, i cosmetici fatti a mano. Scriviamo, dipingiamo, ci esprimiamo e facciamo tutte quelle cose che sembrano superflue e invece sono importanti per tutti. Apriamo ristorantini e social club con lo spirito con cui si fondavano i complessini negli anni sessanta. Quando il quartiere torna al suo splendore, il valore degli immobili sale a dismisura. Chi vende, incassa, si sposta altrove e cede il passo alla finanza. Ma la classe operaia che abita lì da sempre? Quelli che quando la città soffriva chiedevano invano aiuto che possibilità hanno, a questo punto? Chi non riesce a saltare sulla giostra della rigenerazione non ha altra scelta se non di spostarsi o essere spostati sempre più ai margini, in qualche nuovo ghetto da cui un giorno sarà spostato ancora. Dalla rigenerazione alla disperazione nel giro di giorni. Essermi conquistata il mio piccolo territorio qui è una sensazione veramente buona e scoprire questa dinamica

è stato uno shock. Ora osservo e cerco di collegare questo nulla al mio nulla. Devo venirne a capo perché credo solo in ciò che funziona solo ed esclusivamente per tutti, nessuno escluso. Come aggirare questo vecchio ciclo e spendere le nostre energie a beneficio di chi ci ha accolto così generosamente? La soluzione c’è, ne sono certa. Perché non beneficiare tutti da questo incontro assurdo tra così tante persone che sembrano capitate qui per caso e soprattutto la comunità che ha fatto di Margate la bellezza che è e il luogo dove stiamo vivendo, ognuno, il proprio sogno. Gente umile che non si aspetta nulla. La stessa ovunque, da sempre in credito di occasioni. Ci sono ancora immersa in questo dilemma, ma ne verrò fuori. Intanto estendo la riflessione ai miei compagni di frontiera e mi rinvigorisco pensando a quel che ha detto la mia amica Jemma: «Margate è diversa da qualsiasi altro posto. Qui qualcosa di diverso potrebbe realmente succedere». Shanti Shanti Shanti

Margate, gate of the sea by Franca Pauli

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months ago I moved to Margate, Kent. The ancient Meregate. Literally “gate of the sea”, a spot exposed to the full fury of the North Sea (Wikipedia). Established as Victorian London’s holiday resort and later forgotten for decades, it is now officially denominated a deprived area, however undergoing an extremely rapid regeneration. Margate is stunningly beautiful, a welcoming town full of character and history now back in full swing, with a few obvious scars she wears like a poppy of pride. People of the most varied of backgrounds live here with a degree of amiability beyond statistics. Things of all kind happen quickly and effectively here. By historical vocation, Margate is a place of powerful healing and new beginnings. Thomas S. Eliot found refuge here as he fled from his safe job at Lloyds Bank and a bourgeois lifestyle. And this is where he restored the logical thread of his thoughts.



On Margate Sands I can connect Nothing with nothing. The broken finger-nails of dirty hands. My people humble people who expect Nothing. (The Waste Land, 1922) One hundred years later, the same sea brings many the same clarity. A revelation mixed with a sense of power to change things for the better and a dilemma that has an almost new name and sounds like good and evil at once: gentrification. Margate is now the frontier of a human wave of creatives, commuters and miscellaneous purebreed outsiders and Northdown Road in the Cliftonville quarter is its master artery. Hipsters

and the so-called DFLs (Down From London) coexist with immigrants from all over the planet, amiable old ladies and working class king-size families. Some of us re-occupy old buildings, start businesses or just spend their Friday night cash in Marghetto and spread the word. By just by being here, we all in some way hopefully contribute towards regenerating an economy and a social fabric that only a short while ago may have seemed lost. Fact remains that we all land here seduced by cheap properties that exude style and the scent of a second chance and some say creatives are the unaware vanguard of big investors. Those guys who are said to not let any grass grow on the spot where their horses tread. Gentrification has a precise, quite infallible cycle. It starts in rough neighbourhoods that cost little. Shoreditch or Brixton in London, the East Village or Williamsburg in New York, the Navigli or the Bicocca in Milan. We outsiders walk in, re-occupy and fix places, wipe away the patina, party, do business and inject new style and content. We spend small-medium budgets and big amounts of elbow grease and good will. We are mostly 30/40-years old art and media freelancers, artists or artisans with a mission manufacturing quality stuff with the sustainable thing in mind. Craft beer, upcycled furniture, vintage clothes, independent music, healthy and even sophisticated food, handmade cosmetics. We write, paint, perform and do all the things that seem not to be really needed yet are. We open restaurants and social clubs with the spirit one would start a band in the sixties. Once the neighbourhood has been cleaned up and made fancy again, the value of property

skyrockets. Those who sell, collect, move elsewhere and give way to the finance people. But what about the working class who has lived there forever? Those who were crying in vain for help when the town was forgotten and in pain. Those who don’t manage to jump on the regeneration ride have no other choice but to move or be displaced to increasingly marginal ghettoes, only to be displaced again and again in the future. Exit regeneration, enter desperation.Conquering my tiny territory here feels incredibly good and discovering this gentrification dynamic quite like a shock. Now I watch and think and try to connect this nothing with my nothing. I need to figure this out. I’m always and only in for the win/win. How do we bypass this trite cycle and spend our energy also to the benefit of those who have welcomed us here? I know that there is a solution. Why can’t we all benefit from this funky encounter of so many random people and especially the community that has made Margate the beauty it is and the place where we live The Dream. Humble people who expect nothing. The same everywhere, always in credit of opportunities. As I am still immersed in this dilemma, I share it with my frontier fellows hoping for their feedback and, in times of doubt, I reinvigorate myself as I think of my friend Jemma’s words: «Margate’s different from any other place. Something different could really happen here». Shanti Shanti Shanti.


Giorgio Ghiotti

Ogni amore ha il profilo perfetto Un giovane poeta romano che si descrive e racconta la sua arte di Sandra Maria Dami

Da bambino chiudevo le porte con tutti i paletti possibili per lasciare l’ombra di fuori, il pericolo dentro. Eppure passava da sotto col vento e io inutilmente chiedevo per te una sentenza mortale. Ora lascio al di fuori del sogno Il tuo viso regale con paletti doppi, doppie mandate e chiavistelli. Non sapevo che come uno spettro avresti passato le porte, vinto le sbarre piegato la sorte per altra via laterale. Ogni amore ha il profilo perfetto. Giorgio Ghiotti, Estinzione dell’uomo bambino, Giulio Perrone Editore, 2015

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a porta della Poesia apre uno spazio ma non lo impone. Possiamo entrarvi o rimanere sulla soglia ad ascoltare incantati. Giorgio Ghiotti è un giovane autore la cui parola ha il potenziale dei veri incantesimi, è un poeta che di poesia ne ha letta tanta e tanta ne porta dentro di sé. Non a caso è stato definito da Vivian Lamarque “un poeta innamorato di poeti”. I libri sono parte di te, li scrivi, ne leggi tanti e ben scelti. Disegnano la porta del tuo destino. Con chi e da che cosa è nato l’amore per la lettura e la scrittura? L’amore per la scrittura è nato da quello per la lettura. E quello per la lettura è nato due volte. La prima, con le filastrocche di Gianni Rodari, le sue storie al contrario, poi con i libri di Geronimo Stilton e di quel genio assoluto e inarrivabile che è stato Roald Dahl. Lui amava moltissimo i bambini, era una creatura buona, e a me la bontà ha sempre affascinato di più della cattiveria, perché non è vero che la cattiveria è più complessa come a volte si crede. Spesso è solo stupida. La seconda nascita è stata in seconda elementare, in una scuola di un bel quartiere di Roma. Mia nonna Silvana mi aveva insegnato a leggere e scrivere prima della maestra di italiano, perché lei era a sua

volta maestra, una di quelle speciali che ti ricordi anche da vecchietto. Così portavo a scuola i libri che leggevo a casa, dividendo il tempo della ricreazione tra i giochi con gli altri bambini e qualche pagina di lettura. Alla maestra questa cosa non andava bene, non ho mai capito perché, mi strappava i libri di mano e li buttava nel cestino. Ora mi sono preso qualche rivincita con me stesso (niente vendette, sarebbe una cosa stupida). L’amore per la scrittura ha seguito la passione del ragazzino che non ci sta, si ribella, va a riprendersi il libro dal cestino e continua a leggere, e sul primo biglietto di Natale della sua vita (Natale 2000, lo so perché lo conservo in un cassetto della mia scrivania) scrive: “Ora che so scrivere inizia una strada di parole”. Giuro che a sei anni scrissi proprio questo. Estinzione dell’uomo bambino, una raccolta di poesie intensa, un oscillare fra il tuo presente di giovanissimo poeta e un passato già grande. «Ogni amore ha il profilo perfetto» è l’ultimo verso di una poesia inserita in questa raccolta. Potente sembra attraversarla tutta e come uno spettro passa le porte, vince le sbarre, piega la sorte per via laterale. Il poeta finalmente lo scrive come un’esplosione di libertà

e consapevolezza. Il poeta sei tu… che cosa è per te la poesia, questa in particolare? Che domanda enorme. Ti posso dire di questa poesia, delle porte interiori che ho aperto, riaperto, lasciate accostate per scriverla. Di tutte le porte che non ho chiuso, mai, perché non mi piacciono le affermazioni apodittiche, figuriamoci le azioni definitive. Niente è una volta per tutte, almeno nella letteratura, e in poesia uguale, anche per questo la amo. Credo che nella poesia ci debba essere un movimento del pensiero che parte da un punto e arriva a un altro. Per questo amo così tanto la poesia di Patrizia Cavalli, di Mariangela Gualtieri, e poi, infinitamente, Vivian Lamarque, che è proprio come le sue poesie: perfetta sotto ogni punto di vista. Le piacciono gli alberi di Natale, le piace la musica classica (a chi lo dice!). Le voglio un gran bene. Gaston Bachelard nel suo libro La Poetica dello spazio afferma che «la Porta è tutto un cosmo del Socchiuso… un’immagine principe, l’origine di un sogno in cui si accumulano desideri e tentazioni, la tentazione di aprire l’essere nel suo intimo, il desiderio di conquistare tutti gli esseri


reticenti». Cosa ne pensi e qual è il tuo sogno? Mi piace questa “poetica del Socchiuso”, dell’intravisto, del desiderato. È forse l’immagine più precisa della porta. Escluso il desiderio di conquistare tutti gli esseri reticenti. Non bisogna convincere tutti, sarebbe un lavoro inutile e noioso. Il mio sogno è continuare ad ascoltare il mio compagno che suona Cimarosa sul suo bel pianoforte a tre quarti di coda, mentre io rispondo a questa bellissima intervista nella stanza accanto. È continuare a leggere bei libri, e questi ultimi mesi mi stanno regalando gigantesche soddisfazioni (Candore di Mario Desiati, Noi tre di Mario Fortunato, Storia umana della matematica di Chiara Valerio, La storia dei mie denti di Valeria Luiselli, il nuovo di Cognetti che so già meraviglioso). È leggere i versi di due straordinari poeti giovani che mi onorano quotidianamente della loro amicizia: Ivonne Mussoni e Davide Maria Quarracino. Ho risposto con tre sogni anziché uno. Sotto sotto sono un vanaglorioso. «La porta mi fiuta, esita», un solo verso di Jean Pellerin riporta al valore della soglia dove si arriva, si parte, soffermiamo curiosità e paura, esitiamo a trovare la chiave

per chiudere o la maniglia per aprire. Con la tua giovanissima età da quale soglia vorresti guardare il mondo? Dal maggior numero di soglie possibili, per fare miei il maggior numero di punti di vista sul mondo. Quando penso alla soglia, mi torna in mente la bellissima scena del libro La luce prima di Emanuele Tonon in cui sua madre, appena qualcuno suona il campanello, subito corre a spalancare la porta. Il figlio si arrabbia perché è pericoloso, e fa fare un buco basso altezzamamma perché lei possa accertarsi, dallo spioncino, che sia sicuro aprire. Ma lei continua a non usarlo, a spalancare la porta fiduciosa. E non ha mai preso un granchio. “Ha fatto porto in casa”. Se penso a questa espressione, subito mi viene in mente il film Le fate ignoranti di Ozpetek. Un manipolo di sconclusionati amici che condivide un appartamento e organizza feste, ospita persone, condivide ogni cosa. Che meraviglia rivedere quel film in quest’epoca di muri, di barriere, di diffidenza, di individualismo. Se è vero che la materia determina la forma, con quale costruiresti la porta sul tuo futuro? Con ferro battuto, perché sia bella, elegante, e perché lo sguardo possa sempre spingersi oltre e il vento soffiarci attraverso.


Giorgio Ghiotti

Chi è | Giorgio Ghiotti Giorgio Ghiotti è nato nel 1994 a Roma. Ha pubblicato: Dio giocava a pallone (Nottetempo), Estinzione dell’uomo bambino (Perrone), Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone), Rondini per formiche (Nottetempo). A fine novembre è uscito Via degli Angeli (Bompiani), scritto con Angela Bubba. Scrive sulle pagine culturali dell’Unità.

Each love has the perfect profile by Sandra Maria Dami

T

he door of Poetry opens a space and imposes nothing. We may walk in or even just remain on the threshold and listen, spellbound. Giorgio Ghiotti is a young poet with words that evoke true spells. A poet, great reader and bearer of poetry within. Not surprisingly, he was described by Vivian Lamarque as “a poet in love with poets”. Books are part of you. You write them and read many, all carefully chosen. They trace the contour of the gate to your fate. From whom and wherefrom come your love for reading and writing? My love for writing came with that for reading. That for reading is twice born. The first time, it came with the rhymes by Gianni Rodari and his reverse stories, and then with the books of Geronimo Stilton and the absolute and incomparable genius of Roald Dahl. He loved children very much and was a benevolent creature. I have always been fascinated by goodness more than by wickedness. To me, evil is not any more complex than good, as is sometimes believed. It is actually often just

stupid. The second birth of my love for writing happened in second grade, when I was attending a school in a nice neighbourhood of Rome. My grandmother Silvana had taught me how to read and write before I learned to with my teacher. She was a teacher herself and one of the special ones you never forget. I used to take with me the books I was reading at home and spend recess playing with my mates and reading a few pages. My teacher did not approve of this and I never understood why she wouldn’t. She would pull the books from my hands and throw them in the bin. Now I'm finally taking my revenge. Just with myself, beacuse retaliation would be stupid. My love for writing follows the passion of the boy who opposes this authority and gets his book back from the bin. And goes on reading. On the first Christmas card of my life — that was in 2000, I still have it in my desk drawer — I wrote, «Now that I can write, I have a road of words in front of me». I wrote this when I was six, true story. Estinzione dell’uomo-bambino (Extinction of man-child) is a collection of intense poetry between your present of a very young poet and an already great past. “Every love has the perfect profile” is the last verse of the last poem in the collection. It seems to go all through poetry in a powerful way. Like a ghost, it passes its doors and barriers and forces fate to move to the side streets. The poet finally writes as in an explosion of freedom and awareness. And the poet is you. What is poetry for you, Giorgio, and what does this poem mean to you in particular? That’s a huge question... I could tell you about this poem, of the inner doors I opened, reopened and left ajar so I could write it. I can tell you of all the doors I did not close at all, ever, because I’m not a fan of apodictic statements, let alone final actions. Nothing is ever once and for all, at least in literature, and the same applies for poems. This is also why I love poetry. I believe in poetry there must be a movement of thoughts that starts in one point and goes all the way to another point. This is why I love so much the poetry by Patrizia Cavalli, Mariangela Gualtieri, and I adore Vivian Lamarque. Because she is just like her poems, perfect in every way. She likes Christmas trees, she likes classical music (tell me about it!). I love her so much... In his book The Poetics of Space, Gaston Bachelard states that Door is the whole cosmos of the idea of left ajar. A cardinal image and the origin of a dream that contains desires as well as temptations and the temptation to open one’s being to its most intimate dimension. The desire to conquer all reticent beings. How do you see this and what is your dream? I like this idea of the “poetics of the left ajar”, of what is just glimpsed or desired. It is perhaps the most accurate picture we can have of the idea of

Door. I exclude the desire to conquer all reticent beings. It is not our job to convince anyone, it would be an unnecessary and tedious thing to do. My dream is to continue to listen to my partner playing Cimarosa on his beautiful boudoir grand piano while I reply to your interesting questions in the room next door. And to go on reading good books like the ones I have read in the last few months with great satisfaction Candore (Candor) by Mario Desiati, Noi tre (Us Three) by Mario Fortunato, Storia umana della matematica (Human History of Mathematics) by Chiara Valerio, La storia dei miei denti (The Story of My Teeth) by Valeria Luiselli and the new Cognetti, which I'm sure will be wonderful. My dream is to read the verses of two extraordinary young poets who honour me with their friendship: Ivonne Mussoni and Davide Maria Quarracino. I replied with three dreams instead of one… I am a cocky chap, after all. «The door scents me, it hesitates...» just this one verse by Jean Pellerin brings us to the threshold where we arrive, we start from and linger with curiosity and fear. We hesitate finding the key to close or the handle to open. Considering your very young age, from which threshold would you want to be looking at the world? From the largest possible number of thresholds and conquer as many points of view on the world as I can. When I think of a threshold, I always think of the beautiful scene from La luce prima (The Prime Light) by Emanuele Tonon, when his mother rushes to open the door whenever anyone rings the doorbell. The child is angry because that might be a dangerous thing to do. He drills a peephole in the door at the exact height of his mom’s eyes for her to be able to make sure it is safe to open. But she still doesn’t use it and opens the door wide open because she fears nothing. And she’s never wrong. “My home is a harbour!” This expression reminds me of the film Le fate ignoranti (The Ignorant Fairies) by Ferzan Özpetek. An improbable handful of friends sharing a flat and hosting parties and people in total sharing mode. How wonderful to go back to that film in this era of walls, barriers, distrust and individualism. If it is true that the material determines the shape, what would the door to your future be made of? Wrought iron. I want it to be beautiful and elegant so my eyes will always be able to look further and the wind will blow through it.


Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Luca, XIII, 24

«M

a io so cosa significa!», avevo protestato. Tra le mani brandivo il romanzo di Gide. «Davvero? E cosa sai?», aveva ribattuto Monsignor P., la voce velata d’ironia. Con un lieve tocco mi aveva guidato in uno di quegli stretti vicoli che tagliano e cuciono il tessuto urbano della Roma barocca. Pareva divertito dalla mia ingenuità. Anche nel modo di sorridere, come in ogni suo gesto o parola, esprimeva una specie di eleganza virile, un’aggressività controllata, da gentiluomo che tiene al guinzaglio un animale feroce. Sorrideva, ma i suoi occhi grigi ti fissavano con la potenza nuda di chi ti entra nella psiche col piglio del dominatore. Appena girato l’angolo, ci eravamo fermati davanti a una piccola e polverosa libreria apostolica. «Mio giovane amico, se tu conoscessi davvero l’origine, e il senso occulto di quel versetto... potresti ben perdere la retta via!», disse. Mi ero sentito avvampare la faccia. «La porta stretta ‘è’ la retta la via!», avevo quasi declamato, calcando la “è” come un filosofo esistenzialista. Dovevo essere piuttosto comico, nel tentativo di dare una zavorra intellettuale ai miei diciott’anni. E lui, condiscendente, mentre si stringeva per farmi entrare nella piccola libreria, a bassa voce, quasi salmodiando: «Facilior est dromadi fibulam accedere, quam diviti intrare in regnum cæli.» Sapevo che la vexata quaestio del cammello nella cruna dell’ago (paradosso? metafora? errore di trascrizione? di traduzione?) era una delle “controversie” che l’avevano reso celebre. Il seme dell’indagine filologica era stato lanciato.

La porta stretta La porta della virtù, del coraggio, della verità, anche a costo dello scandalo, del sacrificio e del martirio di Leone Belotti

Io ero allora un ragazzino diversamente abile (crescendo mi sarei normalizzato). Al liceo la mia intelligenza era motivo d’imbarazzo sia per i compagni che per i professori. Avevo conosciuto Monsignor P. vincendo in primavera i campionati studenteschi di latino della comunità europea, a Magonza. Poi ero stato selezionato per i test d’ingresso alla Normale di Pisa e li avevo superati. Ma non avevo ancora deciso il mio futuro. Ero attirato sia dalle facoltà umanistiche che dalla ricerca scientifica. Così avevo accettato l’invito e l’ospitalità di Monsignor P. che, dichiaratamente, intendeva “traviarmi” verso una carriera di super-topo da Biblioteca Vaticana. Sono passati più di trent’anni, ma


ricordo ogni cosa di quelle giornate romane. Ero spaventato dal potere della sua mente, attirato dal suo sguardo, dalla voce, dalle mani. Doveva avere più di cinquant’anni, nonostante l’aspetto da quarantenne. «Ti condurrò alla porta stretta» mi disse nel retro di quella libreria da preti. Scelse per me una decina di volumi e alcuni opuscoli e, nel consegnarmeli, mi congedò così: «Hodie demotica, cras ieratica». L’indomani, pensai, mi avrebbe portato nella Biblioteca Vaticana. Invece mi portò fuori Roma, alle Catacombe. Era il tramonto, gli ultimi turisti stavano uscendo. Il custode gli consegnò le chiavi e se ne andò. «Seguimi» disse, e ci inoltrammo nei cunicoli. Non ero molto lucido. Avevo dormito pochissimo avendo letto tutta la selezione “demotica”, con “la verità sui più noti segreti della Chiesa”: vangeli apocrifi, Rotoli del Mar Morto, donazione di Costantino e riunioni misticoorgiastiche dei primi cristiani. Ero pronto a tenere una dissertazione sulla capacità della Chiesa di falsificare fatti, parole, testi, documenti relativi alla sua stessa storia. Camminammo alcuni minuti, facendo diverse svolte, chiudendoci alle spalle diversi cancelli. Infine ci ritrovammo in una camera cubica, scavata nel tufo, simile a una tomba etrusca, con giacigli di pietra sui quali erano posati eleganti cuscini damascati. «Guarda» disse accendendo un faretto e dirigendolo sulle pareti. Sette porte strette erano incise nella roccia, istoriate da figurine scurrili in stile pompeiano e da iscrizioni in gran parte abrase. Facilmente decifrabili, i nomi delle sette “porte strette”: partum, basium, fellatio, cunnilingus, penetratio, inculatio, dissolutio. Ripetuta in ogni porta: effundete per strictam ianuam intrare. Ricordo dei frammenti: cum tumida labia tibi adferentes in spatio alitus (il bacio); verga virescit liquente vagina (la penetrazione) deinde infimo ano anelans contra naturam pulseris usque conculcata membra per idem motum spasimantes (si capisce). «Avanti, mio giovane amico, aspetto un’ipotesi!». Il mio cervello girava a mille. Di getto dissi: «Sappiamo che tra i primi cristiani c’erano patrizi viziati in cerca di svaghi eroticoreligiosi... questo aspetto orgiastico scompare in seguito alle persecuzioni: l’eros è bandito e, quando poi i padri della chiesa “creano” i vangeli, ogni riferimento sessuale viene bollato come apocrifo, oppure purificato, è il caso della porta stretta, in origine orifizio corporale, in seguito astratta porta della virtù.» «Ottima sintesi! Ma la porta stretta è più di

The narrow door by Leone Belotti Make every effort to enter through the narrow door. Luke, 13:24

«I

know what it means!», I argued. I was brandishing André Gide’s novel in my hands. «Really? So what do you know about it?», rebutted Reverend P. with some veiled irony in his voice. With a light touch, he invited me into one of those narrow alleys that cut and sew up the urban fabric of Baroque Rome. He seemed to find my naivety quite amusing. Even in his way of smiling and in every gesture or word of his, he expressed a kind of manly elegance, the controlled aggressiveness of a gentleman who holds a wild animal at the leash. He was smiling, but his grey eyes were staring at me with the naked power of a man who can penetrate your psyche thanks to the skills of a dominator. Just around the corner, we had stopped in front of a small, dusty Apostolic Library. «My young friend, if you really knew the origin and occult sense of that verse... you may well lose your way», he said as I felt my face blush. «The narrow door is the right way», I almost declaimed, emphasizing the is as an existentialist would. I must have been rather comical in my attempt to give some intellectual ballast to my eighteen years of age. And he – condescending, as he clasped my shoulder to get me into the small library – said in a low, almost chanting voice: «Facilior est dromadi fibulam accedere, quam diviti intrare in regnum cæli». I knew that the vexed question of the camel through the eye of the needle (paradox, metaphor, clerical error, wrong translation?) was one of the disputes that had made him so famous. The seed of philological investigation had thus been sown in me. I was then still a young boy with a disability that eventually healed as I grew up. At college, my level of intelligence was a cause of embarrassment for both my school mates and my teachers. I had met Reverend P. the spring I had won the European Community Latin School Championships in Mainz and passed the admission tests to the Scuola Normale of Pisa. However, all decisions about my future had still to be done. All I knew was I was attracted by both humanities and scientific research. I had accepted the invitation and hospitality of Reverend P., who allegedly intended to corrupt me towards a career as a super bookworm at the Vatican Library. This was more than thirty years ago, but I still remember every detail about those days in Rome. I was terrified by the power of his mind and attracted by his gaze, voice and hands. He must have been in his fifties although he looked forty at most. «I will take you to the narrow gate», he said to me as we were standing in the back of that priest sort of library. He picked for me about ten volumes and a few brochures and dismissed me as he handed them to me and said, «Hodie demotica, cras ieratica». The next day, we were going to visit the Vatican Library. He took me out of Rome, instead, to the Catacombs. It was at sunset, the last tourists were leaving. The guardian handed him a bunch of keys and left. «Follow me», he said and we ventured together through the tunnels. I was not clearly aware of what was going on. I had slept very little, having read all of the demotic selection with “the truth about the bestknown secrets of the Church”. The apocryphal gospels, the Dead Sea Scrolls, the Donation of Constantine and

the mystic-orgiastic assemblies of the early Christians. I was more than ready to give a dissertation on the Church’s ability to falsify facts, words, texts and documents relating to its very history. We walked for a few minutes, took several turns and shut several gates behind us. Finally, we found ourselves in a cubic chamber dug in tuff that reminded of an Etruscan tomb. It had a few stone beds on which someone had thrown a few elegant damask pillows. «Look», he said, lighting a spotlight and directing it onto the walls. Seven narrow doors were carved in stone, stained with scurrilous figures in Pompeian style and mostly abraded inscriptions. The names of the seven narrow gates were still easily decipherable: partum, basium, fellatio, cunnilingus, penetratio, inculatio, dissolutio. On every door, the inscription: Effundete per strictam ianuam intrare. I still remember a few fragments: cum tumida labia tibi adferentes in spatio alitus (kiss). Verga virescit liquente vagina (penetration). Deinde infimo ano anelans contra naturam pulseris usque conculcata membra per idem motum spasimantes (self-explanatory). «Come on, my young friend, I’m waiting for your hypothesis!» My brain was spinning at full speed. Without thinking, I said, «We know that early Christians were mostly spoiled patricians in search of mere eroticreligious entertainment. This orgiastic aspect disappeared because of persecution.


un orifizio: è l’orgasmo. Tutte le sette porte, compresa la nascita e la morte, sono esperienze d’orgasmo». Monsignor P. continuò così: «Avevo la tua età, mio giovane amico, quando conobbi Andrè Gide. Prima de La porta stretta aveva scritto L’immoralista. Poi avrebbe scritto I sotterranei del Vaticano e infine I falsari. Fu Monsignor T. a condurlo qui, dove ora siamo noi. Era il 1947, l’anno in cui ebbe il premio Nobel». Spiegò che Monsignor T. e Gide decenni prima lo avevano abbracciato e baciato al modo dei Templari, a suggellare l’affidamento del segreto della porta stretta. «E adesso anche tu sai», concluse e aprì le braccia verso di me. Mi cinse delicatamente le spalle, mi sfiorò con le labbra il volto, quindi mi strinse a sé... La cosa più spaventosa, nel rendermi conto dell’approccio sessuale, fu la delusione spirituale. Ricordo anche un istante di paura, animalesca, nel chiedermi se la mia forza fisica potesse reggere la sua. Ma non ci fu

alcuna violenza. «Un segreto tra me e te. Pensi di poterlo tenere?» disse. «Sì» risposi. Quella sera stessa raccolsi le mie cose, andai alla Stazione Termini, tornai in Lombardia e diventai architetto. Non vidi mai più Monsignor P. Nella primavera dello scorso anno leggo la notizia della sua morte. D’impulso decido, parto, vado al funerale. In treno inizio a mettere su carta appunti, ricordi. Nel corso della cerimonia funebre, un volto che conosco ma non riconosco mi colpisce, due file avanti, di lato. Comincio a osservarlo. Anziano, il volto un intrico di rughe, il corpo massiccio, un vero etrusco. E capisco, ricordo. Molti anni prima avevo diretto i lavori di restauro di una pieve in Toscana, lui era uno degli artigiani. Grande scalpellino, bottega da generazioni, i nonni famosi tombaroli. Lo stavo guardando quando l’officiante recitò: «la porta stretta della virtù, del coraggio, della verità, anche a costo dello scandalo, del sacrificio e del martirio» e vidi la sua smorfia sardonica. Dopo la funzione lo avvicinai. «Abbiamo fatto diversi lavori per Monsignore. I lavori di “riproduzione” li faceva mio padre, lasciandomi i trattamenti di rifinitura per invecchiare il risultato». «Iscrizioni di carattere erotico, in stile pompeiano?» Qualcosa balenò nel suo sguardo impassibile da etrusco. Disse: «In certi casi ci pagava molto bene, ma con l’impegno alla riservatezza». Seguii il corteo al camposanto. Fu sepolto nella nuda terra. E mentre ritiravano le funi, un flashback, James Joyce, l’Ulisse: «le corde dei becchini come il cordone ombelicale, ecco la porta stretta, il mistero da cui proveniamo, e a cui torneremo». E come un SMS mi arrivano nella memoria frammenti dell’ultima porta (dissolutio – regressio ad terrae matris uterum) e della prima: partum - quasi ex utero eiectum in vitam penetris per abruptam vocem. Ecco la “morale stretta” di questa storia: anche in un falso, scritto da un uomo falso, con cuore falso, in una lingua morta, puoi trovare autentica poesia.

Chi è | Leone Belotti (Val Calepio, 1966) è un multi-writer. Inizia nel 1984 come copy ghost nella Milano da bere, studia lettere e filosofia, pubblica racconti, pamphlet, romanzi rosa e per ragazzi. Lavora per studi di arch comunicazione; nel 2006 crea Calepio Press (ADVzero, Badante Alighieri) e dal 2013 fa parte della redazione di CTRL Magazine. Oggi è story teller per Radici Group e strategic planner per Multi.

The Eros was banned and later, when the fathers of the Church created the Gospels, all sexual reference was either branded as apocryphal or purified. So the instance of the narrow gate – originally the bodily orifice, later an abstract gate of virtue». «Good synopsis! However, the narrow gate is more than an orifice: it is the orgasm. All seven doors, including birth and death, are experiences of orgasm.» And, he continued, «I was your age, my young friend, when I met André Gide. That was before he wrote The narrow gate and after he had written The immoralist. Later, he wrote The Vatican cellars and, finally, The Counterfeiters. It was Reverend T. who took him here, exactly where we are now. It was 1947, the year he was awarded the Nobel Prize in Literature». He explained that Reverend T. and André Gide had held him and kissed him the way the Templars did decades before to seal the custody of the secret of the narrow gate. «And now, you know», and as he finished, he opened his arms to me and gently clasped my shoulders, touched my face with his lips and held me increasingly tighter. The most frightening thing was, as I realised a sexual approach had truly taken place, the shock of spiritual disappointment. I can also remember a scary, bestial moment when I asked myself whether my physical strength could stand his. There was no physical violence. «A secret between you and me. You think you can keep it?», he asked. «Yes», I replied. That same evening I gathered my things, went to Termini train station and returned to Lombardy to become an architect. I never saw Reverend P. again. Last spring, I read the news of his death. On impulse, I decided to go to his funeral. Already while still on the train, I began writing down a few notes and memories. During the funeral service, I was struck by a face I knew but could not recognize at first. It definitely struck me, two rows ahead, to the side. I took a good look at it. An elderly man with a maze of wrinkles on his face and a massive Etruscan build. Then it came to me and I remembered him clearly. Many years before, I had directed the restoration of a church in Tuscany and he was one of the artisans involved. A master from an ancient dynasty of stonemasons whose grandparents were also known to be grave robbers. I watched him as the officiant recited the narrow door of virtue, courage and truth even at the cost of scandal, sacrifice and martyrdom and noticed a sardonic grin on his face. After the service, I approached him. «We did several jobs for the Reverend. My father did the copying work and let me do the finishing, the aging effect.» «Erotic inscriptions in Pompeian style?», something flashed in his impassive Etruscan gaze. He said, «In some cases he would pay us very well, but we had to strictly commit to confidentiality». I followed the procession to the cemetery. The reverend was buried in bare earth. As the undertakers were retreating the ropes, I had a sudden flashback. It was James Joyce’s Ulysses,«the ropes of the gravediggers are umbilical cords. There is the narrow gate, the mystery from which we come and to which we shall return». And, as sorts of phone texts, a swarm of memory fragments came back to me from the last of the gates (dissolutio, regressio ad terrae matris uterum) as well as from the first one (partum quasi ex utero eiectum in vitam penetris per abruptam vocem). And here is the narrow moral of my story: authentic poetry can be found even in fake inscriptions in a dead language written by a fake man with an empty heart.



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