Mestieri d'Arte e Design // Rinascimento

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RINASCIMENTO


Haute Joaillerie, place Vendôme dal 1906

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Collezione Frivole Clip-pendente e anelli, oro giallo e diamanti.


“LA BELLEZZA RISIEDE NEI DETTAGLI DELLE STRUTTURE PIÙ GRANDIOSE E PIÙ RAFFINATE.”

ORA ÏTO, CREATORE DI FORME, INDOSSA UN VACHERON CONSTANTIN TRADITIONNELLE.




RIPARTIRE DAL RINASCIMENTO La bellezza è un valore aggiunto, ma è anche un percorso costellato da meraviglie che alla sensibilità, alla percezione della ricchezza e alla varietà della vita, e che accende l’impulso creativo. Favorendo il “Rinascimento”: un modello che in Italia è eredità storica ma anche propensione e tendenza. Ieri, oggi, domani. di Alberto Cavalli I viaggi in Italia di Inigo Jones, del conte di Arundel e di Lord Burlington contribuirono a esportare in Inghilterra lo stile palladiano. Re Francesco I, che accolse Leonardo da Vinci ad Amboise, aveva inviato il suo architetto Jean de l’Orme a studiare le forme costruttive del Rinascimento italiano, perché potesse poi fertilizzare la creatività francese. Goethe formulò la sua teoria dei colori dopo un viaggio a Venezia. Elisabetta I volle che gli alti funzionari del suo regno visitassero le corti italiane e ne apprendessero le strategie politiche e le dinamiche decisionali. L’Italia ha sempre saputo suscitare meraviglia, stupore, ammirazione; era ed è una meta imprescindibile per coloro che cercano la bellezza e l’eccellenza. E che, varcate le Alpi o solcati i mari, trovavano e trovano decine di città d’arte, di scenari naturali lussureggianti, di luoghi in cui la mano dell’uomo è intervenuta sul paesaggio per esaltarne la bellezza e trarne nutrimenti terrestri senza dimenticare quelli, per così dire, celesti. Oggi dobbiamo tornare a guardare all’Italia con quegli occhi, e ad amarla con quello spirito: lo spirito dei Rinascimenti. Perché l’Italia ha conosciuto non uno, ma tanti Rinascimenti. Quello storico e leggendario dei secoli XV e XVI, naturalmente: un periodo che più si allontana temporalmente da noi e più ci ispira e ci affascina, con le sue figure titaneggianti di filosofi, artisti, maestri, condottieri. Ma anche quei Rinascimenti che avvengono ogni volta che qualcuno si innamora della nostra cultura, del nostro territorio, delle nostre arti e dei nostri mestieri: la bellezza italiana rinasce quando uno sguardo attento, in grado di passare dalla visione alla percezione, ridà vita, anima e calore a forme magnifiche che chiedono di essere amate.

Forme plasmate da artefici che ancora oggi inventano le nuove declinazioni del bello: artigiani e designer, architetti e artisti, appassionati e collezionisti. Il Rinascimento esce dalle categorie della storia per diventare un modello che non tramonta mai, e che in Italia trova ogni giorno terreno fertile per svilupparsi e nutrire, con generosità e passione, tutti coloro che all’Italia sanno guardare non come a una miniera da sfruttare, ma come a un vivaio da cui trarre frutti inebrianti e nutrienti. Questo numero di Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture parla di tutti questi meravigliosi Rinascimenti. Che passano dalle botteghe degli artigiani (veri eredi del talento rinascimentale); che emergono dalle collezioni dei musei (ogni oggetto antico è stato contemporaneo, come rivelano le ceramiche dei Farnese); che si inverano negli atelier e nelle aziende del miglior Made in Italy (design e moda, per esempio, qui rappresentati tra gli altri dai Fratelli Boffi e da Dolce & Gabbana); e che permettono di trasformare con arte materiali preziosi (corallo, oro, gemme, pietre dure, legni, marmi, vetro… pensiamo alla Saliera di Benvenuto Cellini) in manufatti che il mondo amerà e conserverà con cura. Cura: ovvero tempo, amore, sollecitudine, attenzione. Questa è la parola che attraversa il giornale che avete tra le mani (mani, come quelle collezionate da un curioso ricercatore!): fare le cose con cura, conservarle con cura, parlarne con cura, prendersene cura. La Fondazione Cologni lo fa da venticinque anni. E ci invita, attraverso le parole del presidente Franco Cologni, a riconoscere che ogni gesto creatore e consapevole è già un atto rinascimentale. Buona lettura! MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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N°21 SEMESTRALE DELLA FONDAZIONE COLOGNI

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indice 5

EDITORIALE

Ripartire dal Rinascimento Alberto Cavalli

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Il collezionista di Mani Marina Jonna In piena luce Alberto Cavalli

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Cuore artigiano Giulia Crivelli

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Album Stefania Montani L’inestinguibile attualità della bottega Stefano Micelli Sovrane maestrie Chiara Maggioni Il laboratorio fiorentino di oreficeria e gioielleria Pestelli. Le cose più belle stanno in equilibrio Elisabetta Nardinocchi I rinascimenti del Corallo Alba Cappellieri Fratelli Boffi. Tra classicismo e sperimentazione Ugo La Pietra Grandi famiglie artigiane artefici di bellezza: I maestri Traversari Maria Pilar Lebole

Le maioliche dei Farnese Valentina Mazzotti

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Da venticinque anni il diavolo veste d’arte e di design Claudio Castellacci

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Chitarre da dinastia Giuditta Comerci

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Lucio Bubacco. L’audacia nel movimento Jean Blanchaert L’alchimista del terzo fuoco. Maurizio Tittarelli Rubboli Anty Pansera

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La terza generazione dei Tallone. Andavano e tornavano le rondini Maria Gioia Tavoni

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Pittura di pietra: l’Opificio delle Pietre Dure Annamaria Giusti

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Preziosissime trame Isabella Villafranca Soissons Massimo Spigaroli e famiglia: “uomini normali che fanno cose normali” ... ovvero straordinarie Andrea Sinigaglia


RINASCIMENTO

IN COPERTINA:

LE OPINIONI

MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE

21/2020

Gianluca Pacchioni, Metaphysical Cube, 2018, cabinet in onice bianco e ottone (foto di Lorenzo Pennati).

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Un dopo in cui le cose dovranno cambiare Ugo La Pietra 14

FONDAZIONE COLOGNI DEI MESTIERI D’ARTE

I.P.

Le arti perdute e più volte ritrovate Dario Scodeller 108

RINASCIMENTO

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Se un giorno d’autunno un viaggiatore… Patrizia Sanvitale

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English version

Apprendere e comprendere Franco Cologni

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96 MESTIERI D’ARTE & DESIGN.

TRADUZIONI

CRAFTS CULTURE

Traduko

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Giovanna Marchello (editing e adattamento) Semestrale – Anno 11 – Numero 21 Settembre 2020 mestieridarte.it

PRESTAMPA E STAMPA Grafiche Antiga Spa MESTIERI D’ARTE & DESIGN.

DIRETTORE RESPONSABILE

CRAFTS CULTURE

Alberto Cavalli

è un progetto della Fondazione Cologni

DIRETTORE EDITORIALE

dei Mestieri d’Arte

Franco Cologni

RobilantAssociati

Via Lovanio, 5 – 20121 Milano fondazionecologni.it © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

CONSULENTE EDITORIALE

Tutti i diritti riservati.

Ugo La Pietra

È vietata la riproduzione, seppur parziale,

DIREZIONE ARTISTICA

di testi e fotografie. REDAZIONE Susanna Ardigò

PUBBLICITÀ E TRAFFICO

Alessandra de Nitto

Mestieri d'Arte Srl

Lara Lo Calzo

Via Statuto, 10 - 20121 Milano

Francesco Rossetti

Publisher: Susanna Ardigò


artigiani della parola

Jean Blanchaert

Marina Jonna

Gallerista, curatore, critico d’arte e calligrafo, da più di trent’anni conduce la galleria di famiglia fondata dalla madre Silvia nel 1957 e da sempre specializzata in materiali contemporanei. Dal 2008 è collaboratore fisso del mensile Art e Dossier (Giunti Editore) diretto da Philippe Daverio. Nel 2018 è stato curatore della sala Best of Europe di “Homo Faber”, alla Fondazione Cini di Venezia.

Giornalista e architetto ha lavorato in diverse redazioni (La Mia Casa, Casaviva, Icon Design e Panorama.it) con una parentesi come autrice e corrispondente di R101. Oltre a sviluppare progetti di interior design, dal 2019 collabora con Interni, Domus, Home USA e The Good Life.

Giulia Crivelli

Claudio Castellacci

Scrive, disegna, legge, fotografa, traduce, cura libri, inventa collane editoriali. Ha lavorato a lungo in California, a Los Angeles, e insegnato al Master di Giornalismo all’Università Cattolica di Milano. Oggi vive a Milano, talvolta in Svizzera.

Lavora al Il Sole 24 Ore dal 2000, seguendo soprattutto l’economia della moda e del design. Appassionata di libri ma ancor di più di animali e piante, in un’altra vita vorrebbe fare la veterinaria o la biologa. Ma in questa vita è felice di essere una giornalista e di seguire settori tanto creativi e stimolanti.

Maria Pilar Lebole

Giornalista, è direttore responsabile della Rivista OMA. Da oltre venti anni è impegnata nella ricerca e promozione dell’artigianato artistico con iniziative e progetti culturali, tra cui mostre, didattica e formazione, elaborati dall’Osservatorio dei Mestieri d’Arte di cui è responsabile per la Fondazione CR Firenze.

Ugo La Pietra

Alba Cappellieri

Professore Ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano. Dal 2014, è direttore del Museo del Gioiello, all’interno della Basilica Palladiana di Vicenza, il primo museo italiano dedicato al gioiello.

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Annamaria Giusti Giuditta Comerci

Ricercatrice e curatrice di eventi culturali, è direttore artistico dell’Associazione Noema per lo studio e la promozione della cultura musicale. È cultore della materia Mestieri d’arte e bellezza italiana al Politecnico di Milano e coautrice de Il valore del mestiere (Marsilio, 2014).

Storico d’arte per il Ministero per i Beni Culturali dal 1976 al 2013, ha diretto il Museo dell’Opificio delle Pietre Dure e la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Specialista dell’arte delle pietre dure, è autrice di numerose pubblicazioni e curatrice di mostre in Italia e all’estero.

Artista, architetto, designer e soprattutto ricercatore nella grande area dei sistemi di comunicazione. La sua attività è nota attraverso mostre, pubblicazioni, didattica nelle Accademie e nelle Università. Le sue opere sono presenti nei più importanti Musei internazionali.

Chiara Maggioni

Storico dell’arte, insegna Storia dell’Oreficeria alla Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università Cattolica di Milano. È autrice di pubblicazioni, progetti di ricerca di taglio multidisciplinare, interventi di divulgazione scientifica e di valorizzazione del patrimonio diffuso.



artigiani della parola

Maria Gioia Tavoni Valentina Mazzotti

Dal 2012 è conservatrice del MIC di Faenza. Dal 2013 è docente in Storia dell’arte ceramica dei corsi ITS e IFTS. Ha partecipato a convegni sulla maiolica italiana (Assisi 2016, Oxford 2017, Torino-Varallo 2019). È membro del gruppo “Condition report” della commissione “Conservazione” di ICOM Italia.

Anty Pansera

Stefania Montani

Giornalista, ha pubblicato tre guide alle botteghe artigiane di Milano e una guida alle botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.

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Dario Scodeller

Architetto, storico e critico del design, è professore associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, dove dirige il Corso di laurea triennale in Design. Ha pubblicato diverse monografie e numerosi saggi sul design, la sua storia e la sua teoria.

Patrizia Sanvitale

Stefano Micelli

Insegna International Management all’Università Ca’ Foscari di Venezia. La sua attività si concentra sulle ragioni del successo della manifattura italiana sui mercati internazionali mettendo a fuoco le connessioni fra innovazione tecnologica, design e saper fare della tradizione.

Storico e critico del design, dalla formazione umanistica, si muove da sempre con impegno “militante” dalle arti decorative/applicate al disegno industriale. Ha curato pubblicazioni, mostre, rassegne e convegni su questi temi. Fa parte della commissione degli Esperti del premio MAM della Fondazione Cologni.

Già ordinaria di Bibliografia all’Università di Bologna, ha insegnato Storia del libro nel master Editoria cartacea e multimediale istituito da Umberto Eco. Ai numerosi saggi si aggiungono, fra le monografie, Circumnavigare il testo (Liguori, 2009); con Paolo Tinti, Pascoli e gli editori (Pàtron, 2012) vincitore del premio Fiorino d’oro; con Alessandro Corubolo, Torchi e stampa al seguito, (Pendragon, 2016).

Elisabetta Nardinocchi

Storica dell’oreficeria e delle arti minori, è direttrice del Museo Horne. Dal 2011 è inoltre curatrice della Casa di Giorgio Vasari a Firenze. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni, collaborazioni a mostre di settore e docenze all’Opificio delle Pietre Dure e all’Università degli Studi di Firenze.

Giornalista, collabora da molti anni con la Fondazione Cologni. Ha vissuto e lavorato a lungo a Los Angeles, prima di stabilirsi a Milano. È un “topo di biblioteca” e ama il profumo della carta. Le filosofie orientali e le discipline olistiche sono, da sempre, la sua passione segreta.

Andrea Sinigaglia

Laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, ha conseguito un master in Cultura dell’alimentazione a Bologna e un MBA presso il MIP. Ha pubblicato: La cucina Piacentina (Tarka, 2016), Gusto Italiano (Plan, 2012) e Il vignaiolo. Mestiere d’arte (Il Saggiatore, 2006). Dal 2004 insegna Storia della Cucina italiana presso ALMA dove, dal 2013, è direttore generale.

Isabella Villafranca Soissons

Torinese, è laureata al Politecnico in Restauro Architettonico e diplomata Restauratore. Appassionata di arte in tutte le sue forme, dopo una lunga esperienza come conservatore a New York e Londra, vive e lavora a Milano; attualmente ricopre la carica di direttore del Dipartimento di Conservazione e Restauro di Open Care - Servizi per l’Arte.


AN APPLE A DAY. AN IWC FOREVER.

R E G I S T R ATI P E R U S U F R U I R E D E L L' E S T E N S I O N E DA 2 A 8 A N N I D E L L A T UA G A R A NZ I A I N T E R N A Z I O N A L E R E G I S T R ATI S U IWC .CO M/M Y IWC

Portugieser Perpetual Calendar. Ref. 5034: Vi piacerebbe un dispositivo in grado di funzionare per secoli e non soltanto fino all’uscita del modello successivo? Il calendario perpetuo di IWC riconosce da solo le diverse lunghezze dei mesi, aggiungendo automaticamente il 29 febbraio se l’anno è bisestile. La sua indicazione delle fasi lunari è così precisa da deviare

dal ciclo effettivo del nostro satellite di un solo giorno ogni 577,5 anni. Questo meccanismo così sofisticato è racchiuso in un orologio da polso dalla bellezza senza tempo, con cassa in oro bianco 18 carati e quadrante blu: una vera icona del design, che anche tra qualche secolo non avrà perso nulla della sua modernità. IWC . ENGINEERING DREAMS . SINCE 1868 .


tradizioni in un territorio costellato da poliedriche diversità è una risorsa già disponibile da cui ripartire per una possibile rinascita non solo economica ma anche culturale: riaffermare

FATTO AD ARTE

il valore e l’attenzione del come e del perché si produce, sul disvalore dell’eccedente sostenuto da un mercato globalizzato.

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La ricchezza di arte e

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Un dopo in cui le cose dovranno cambiare

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OPINIONI

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Nel 1972, anno della grande crisi energetica, Ettore Sottsass, il designer più famoso (all’ingresso del suo studio faceva bella mostra una targa in bronzo con la scritta “Olivetti”), incaricato come curatore del settore design della XV Triennale di Milano, impose di non presentare oggetti ma solo audiovisivi, forse anche influenzato dai discorsi di noi giovani designer radicali. Sembrava quasi immorale aumentare la proliferazione degli oggetti di consumo in un momento di crisi così profonda! Oggi, in questi tempi di “pandemia”, anche gli organizzatori del Salone del Mobile ci invitano a produrre documenti e progetti audiovisivi, in attesa di riprendere “da dove eravamo rimasti”. Ma le cose stanno cambiando profondamente. Dopo, tutti sanno che ci sarà “un dopo”, dopo le cose dovranno cambiare. Dovranno cambiare perché la nostra società, profondamente impoverita, potrà rinascere solo se supererà il modello che sostiene un mercato globale e di comunicazione superficiale; la rinascita dovrà passare attraverso il lavoro “reale”, superando il modello di una società che si arricchisce tramite le speculazioni delle banche e del mercato finanziario. “Diversità contro globalizzazione”: è stato, e lo è ancor di più oggi, un percorso che ha visto, fin’ora, solo pochi di noi impegnati nel tentativo di valorizzare le risorse dei nostri territori, un percorso che necessariamente dovremo sviluppare e sul quale dovremo basare un modello sostenibile di ripartenza. Per uscire dalla grave crisi che ci attende, superata la pandemia, il modello operativo, lo slogan per tutti, dovrà quindi essere “ritorno al lavoro”, ma un lavoro reale. E chi meglio delle nostre eccellenze artigiane potrà segnare la strada di questo possibile “rinascimento”? Le nostre risorse partono da tutto ciò che, nei secoli, è stato sedimentato nei nostri territori: cultura, arte, artigianato, costume, tradizioni, diversità. Il debito che ci porteremo sulle spalle, ancora più pesante di prima, potrà essere affrontato con la “ricostruzione del lavoro”: un lavoro reale e concreto, che coinvolga direttamente le nostre vere risorse. Non sarà autarchia, ma consapevolezza del significato e del valore dell’operare, proprio come è sempre stato all’interno del mondo artigiano. Impareremo anche a consumare meglio, e con maggiore attenzione, rispetto a “come” e “perché” si produce. Le arti applicate e un “design territoriale” diventeranno sicuramente nuovi modelli di produzione e di consumo; potremo “fare” e “vendere”, non solo i nostri paesaggi e le nostre bellezze d’arte storiche, ma anche la nostra capacità di fare impresa e di produrre nel rispetto delle risorse disponibili senza alterarne l’equilibrio. Così, il modello che oggi ci appare come quello a cui fare riferimento per la nostra futura rinascita, è quello della struttura artigiana, nel senso di un luogo di produzione dove il guadagno è il risultato di un lavoro fatto di “cose concrete”. Siamo un Paese con una radicata capacità di risparmiare denaro, e abbiamo dimostrato di aver conservato anche la capacità di “saper fare”. Solo due generazioni fa, tutti gli italiani all’estero erano noti per la loro capacità di cantare, suonare uno strumento, realizzare “cose belle e di valore”. Dobbiamo ritrovare questa nostra eccellenza, partendo dalle Accademie, quelle Accademie che nel Rinascimento dialogavano con il mondo artigiano fornendo cultura e progetto, un intreccio tra saper progettare e saper fare che ha costruito il Paese che meglio ci rappresenta.

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preoccupante svalutazione delle arti applicate ha portato con sé anche una certa indifferenza o inconsapevolezza nei confronti delle tecniche, dei materiali e dei mestieri PENSIERO STORICO

necessari a produrre, creare, sviluppare. Ma proprio all’intelligente lavoro delle mani occorre oggi guardare con interesse e competenza per tornare all’originaria unità, etimologica e di senso, in cui ars è téchne.

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Le arti perdute e più volte ritrovate

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OPINIONI

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«Non sappiamo più distinguere una ceramica da una porcellana, un vetro da un cristallo; perdere le arti significa anche non essere più capaci di conferire qualità agli oggetti dell’ambiente che ci circonda». Così Ugo La Pietra concludeva, nel settembre dello scorso anno, una conversazione alla Fondazione Cini a Venezia. Le storie del design, nel raccontare le innumerevoli iniziative di “recupero” delle arti susseguitesi nell’ultimo secolo e mezzo – dalle Arts & Crafts al New Craft – non rispondono quasi mai alla domanda: quando abbiamo iniziato a “perdere” le arti? Nel 1923, gli ospiti giunti da tutta Europa per la prima mostra del Bauhaus, trovarono ad accoglierli alla stazione di Weimar uno striscione voluto da Walter Gropius con la scritta “arte e tecnica, una nuova unità”. Nell’antichità classica, infatti, queste due parole possedevano un significato comune: sia il termine latino ars che il greco téchne indicavano il saper fare con destrezza e abilità, in senso esteso, dall’ostetrica al ceramista, dal medico al fabbro. Nell’Europa medievale, l’apprendimento delle arti si organizza con regole, canoni e prove d’ammissione (capolavoro o cheuf d’œuvre), per garantire costanza nella qualità dei prodotti. Le corporazioni sono contemporaneamente associazioni di categoria, sindacati e scuole, dove l’arte viene insegnata come mestiere. Nel Livre des métiers (1268) Étienne Boileau enumera a Parigi ben 101 mestieri, ciascuno con un proprio statuto. Fino al Rinascimento, le arti (maggiori e minori) costituiscono ancora un sistema integrato: gli artigiani delle pietre dure, del cristallo, delle porcellane, gli orefici, gli incisori, i tessitori d’arazzi, i fontanieri che realizzano automi idraulici, i cartografi, godono della medesima considerazione sociale di pittori e scultori. Una frattura importante nel sistema delle arti viene generata dalla polemica anti-corporativa delle Accademie nei confronti delle botteghe. È il 1539 quando Paolo III Farnese concede agli scultori romani – che confluiranno progressivamente nell’Accademia di San Luca – di potersi sottrarre dal controllo delle corporazioni. Anche l’Académie royale (1648) nasce principalmente come alternativa ai vincoli imposti dalle communauté des maistres. Prevale il principio dell’ideazione contro la dimensione sperimentale delle botteghe, la conseguenza sarà un generale distacco della cultura artistocratica nei confronti dell’aspetto tecnico delle arti: dai trattati scompaiono progressivamente le descrizioni dei procedimenti. Le arti e i mestieri ricompaiono, a metà Settecento, nelle pagine e nelle tavole dell’Encyclopédie (Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers), ma le dettagliate descrizioni dei procedimenti e i disegni dei laboratori di manufacture documentano un mondo che sta per scomparire. Ufficialmente abolite dalla Rivoluzione francese nel 1791, le arti si dissolvono con l’avvento della libertà d’industria e di commercio sancita da Napoleone, con cui la Francia rincorre in senso liberista quella prima rivoluzione industriale che in Inghilterra è già un fatto compiuto. Nell’Ottocento inizia il “recupero” romantico delle arti e dei mestieri d’arte. John Ruskin, e con lui William Morris, invita a riprendere ad usare le mani, a far rivivere le tecniche perdute. «Non si può essere considerati dei veri poeti – affermava Morris – se non si è capaci con una mano di scrivere con la penna, mentre con l’altra si tesse col telaio».

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L E A R T I P E R D U T E E P I Ù V O LT E R I T R O VA T E

Va ricordato che la nascita delle Arts & Crafts, come sistema di laboratori diffusi nelle campagne, coincide con la prima acuta crisi del capitalismo industriale: illuminante in tal senso The Craftsmanship in Competitive Industry di Charles Robert Ashbee. Ma nella Vienna dei primi anni del Novecento è già polemica aperta se debba essere il progetto a rianimare le arti (come indicava Josef Hoffmann con la sua Wiener Werkstätte) o se, invece, come affermava Adolf Loos (celebre la sua storia del maestro sellaio), il vero design fosse quello degli artigiani, nel cui lavoro in seno alla tradizione egli intravedeva i principi fondativi del moderno. Anche il Bauhaus nasceva, in fondo, nel 1919, dalle premesse romantiche di Morris. Nel celebrarne lo scorso anno il centenario della fondazione come prima scuola di design europea, è passato in secondo piano il fatto che fosse stata inizialmente concepita da Gropius come scuola per maestri artigiani, nel tentativo di unire cultura del progetto e sperimentazione nei laboratori di pietra, legno, ferro, tessuto, vetro, ceramica. L’Italia ha una sua storia particolare di recuperi e distruzioni. Alla Società Umanitaria dobbiamo le scuole d’arti e mestieri, la prima Università delle arti decorative di Monza e anche la stessa Triennale; a Gio Ponti l’azione propulsiva nel far convivere artigianato e design come fondamento qualificante del Made in Italy, al dimenticato Carlo Ludovico Ragghianti il superamento da parte della critica d’arte del pregiudizio sulle arti minori, in cui egli vedeva «la più autentica e perfetta espressione d’arte di molti secoli». Abbiamo perso molto, purtroppo, delle arti e del nostro saper fare nel dopoguerra. «Si parla di ritorno all’artigianato – scriveva Vittorio Gregotti nel 1983 – là dove il mestiere e l’abilità manuale hanno perso negli ultimi vent’anni più di quanto abbiano perso negli ultimi tre secoli». Nel suo capolavoro Dalle arti minori all’industrial design (1972), Ferdinando Bologna ci ricorda che la svalutazione e la rivalutazione delle arti minori sono andate storicamente di pari passo con la svalutazione e la rivalutazione del lavoro umano nell’arte. Bisogna dunque forse riconsegnare al lavoro, alla sua dimensione tecnico operativa, il suo valore sperimentale e formativo. Lasciamo che gli studenti di design usino le mani nei laboratori, taglino, incollino, fresino, incidano, fondano, stampino. Perché mai tutto ciò non può conciliarsi con un futuro digitale e una sana cultura umanistica?

MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Da venticinque anni

Il DIAVOLO VESTE d’ARTE e di DESIGN Nella sua rinnovata veste editoriale, il magazine festeggia i 25 anni della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, per continuare con intraprendenza e spirito di iniziativa la via segnata dal suo fondatore. Con visione e determinatezza, Franco Cologni si è nel tempo prodigato nel sostenere e promuovere la tradizione dei maestri del fare, coloro nelle cui mani è custodita la sapienza dell’artigianato d’eccellenza.

di Claudio Castellacci

MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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La prima volta che l’ho incontrato (al giro di boa del millennio), Franco Cologni era vestito da diavolo. Sì, avete capito bene, da Mefistofele con tanto di cappa, coda, corna, e sembrava divertirsi un mondo. Era sul set fotografico di Maurizio Galimberti per un ritratto che avrebbe illustrato l’editoriale del magazine internazionale Cartier Art (n. 7, “Rouge”, 2003), di cui Cologni era fondatore, editore e direttore. «Il rosso è il colore Cartier», chiosò. Una pausa. «E del diavolo». Il parallelo non faceva una piega, anche se tutto ti aspetti, meno che il presidente esecutivo dell’intero settore gioielleria e orologeria del colosso controllato dalla Societé Financière Richemont – stiamo parlando di Cartier, Van Cleef & Arpels, Vacheron Constantin, Piaget, Baume & Mercier, IWC, A. Lange & Söhne, Jaeger-LeCoultre, Officine Panerai, e altre Maison – ti riceva, per un’intervista, en tant que Méphisto. Ma, come scoprirò col tempo, il motto Serio Ludere, il giocare che ci fa pensare seriamente, gli si attaglia alla perfezione. Franco Cologni è, fra l’altro, un signore che i francesi hanno insignito delle loro più alte onorificenze, e che tra i suoi trascorsi – che vanno dall’attività accademica, teatrale, editoriale e pubblicistica – ha ideato e creato la Fondation de la Haute Horlogerie a Ginevra (di cui è presidente del comitato culturale).

Insomma, parliamo di un Cavaliere del Lavoro che, sopra ogni cosa, è l’orgoglioso presidente della Fondazione che porta il suo nome: la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte che quest’anno spegne 25 candeline, e che, per festeggiare, ha voluto regalare agli abbonati di Elle Decor il giornale che avete fra le mani, la cui finalità è, neanche a dirlo, quella di valorizzare i mestieri d’arte, la creatività, il design. Nel 1995, in Italia, nessuno parlava di “Mestieri d’Arte” (non esisteva nemmeno l’espressione), mentre in Francia, dal 1976, una società pubblica “di incoraggiamento ai mestieri d’arte” (sema, poi diventata inma), voluta fortemente dall’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing, li proteggeva e ne sfruttava il valore inestimabile, non solo in termini economici, ma anche di immagine nazionale. Qui, in Italia, per avere qualcosa di simile si è dovuto aspettare l’intuizione visionaria di un privato che ci ha messo del suo, in tutti i sensi, e che però oggi può vantare di aver raggiunto risultati che un quarto di secolo fa, sembravano fantascienza mecenatistica. L’artigianato è un mondo molto poco frequentato dalla nostra politica. Perché? «Perché per conoscerlo bisogna andare in giro per l’Italia e sa, i politici vanno di fretta, non sono usi a curiosare. L’artigianato è un mondo di nicchia che apparentemente non ha peso

Pagina 18: Franco Cologni

In alto: il maestro liutaio Carlo

Pagina 22: la designer Patricia

Pagina 23: il maestro intagliatore

en tant que Méphisto. Fotografia

Chiesa con l’allieva Ilaria Cazzaniga,

Urquiola con uno dei maestri

e restauratore veneziano Bruno

realizzata da Maurizio Galimberti

durante il tirocinio promosso

ebanisti di Bottega Ghianda:

Barbon. Per il suo talento ha

per il magazine Cartier Art n. 7

nell’ambito del progetto “Una Scuola,

un duo d’eccellenza per l’edizione

ricevuto nel 2018 il titolo di

“Rouge”, 2003.

un Lavoro” (foto di Peter Elovich).

2019 di “Doppia Firma”

MAM-Maestro d’Arte e Mestiere

(foto di Laila Pozzo).

(foto di Susanna Pozzoli).

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U NA F O N DA Z I O N E R I C C A D ’ I N I Z I AT I V E

Oltre a questa rivista, la Fondazione Cologni ha ideato, sostenuto e sviluppato dal 1995 a oggi una serie di progetti originali, finalizzati alla promozione della cultura dei mestieri d’arte; un’azione più che mai necessaria per trasferire nel futuro l’eccellenza del saper fare.

Tutte le iniziative più rilevanti sono consultabili nella costellazione virtuale di siti legati alla Fondazione: “UNA SCUOLA, UN LAVORO. PERCORSI DI ECCELLENZA” Oltre 200 tirocinanti, grazie alla Fondazione Cologni e a una serie di generosi mecenati, hanno potuto lavorare per sei mesi a fianco di un grande maestro artigiano: unascuolaunlavoro.it

“DOPPIA FIRMA. DIALOGHI TRA PENSIERO PROGETTUALE E ALTO ARTIGIANATO” Organizzato con Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship e Living Corriere della Sera, è un evento che ha luogo ogni anno in occasione del Salone del Mobile al fine di valorizzare il dialogo tra artigiani e designer: doppiafirma.com

“WELLMADE” La community degli amanti del bello e del ben fatto: well-made.it

“LA REGOLA DEL TALENTO” Un progetto che valorizza le migliori scuole italiane di arti e mestieri, rintracciabili sul sito di orientamento alla formazione: scuolemestieridarte.it

“MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE” Lo spazio presso la Triennale di Milano, dedicato a mostre tematiche sui mestieri d’arte d’eccellenza: triennale.org

“HOMO FABER: CRAFTING A MORE HUMAN FUTURE” La straordinaria mostra-evento realizzata da Michelangelo Foundation presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, di cui Fondazione Cologni è partner:

EDITORIA E PROGETTI DIVERSI Le collane editoriali pubblicate con Marsilio, le guide e i libri realizzati con Gruppo Editoriale e Idea Books, la collana per ragazzi Storietalentuose con Carthusia, le iniziative didattiche con le Case-Museo di Milano, la partnership con Starhotels nel progetto “La Grande Bellezza”, il sostegno a iniziative culturali quali Artigianato e Palazzo, “ApritiModa”, il Festival dell’Ascensione, e tutti gli altri progetti della Fondazione sono presenti sul sito:

homofaberevent.com

fondazionecologni.it

“MAM – MAESTRO D’ARTE E MESTIERE” Sviluppato insieme ad ALMA (La Scuola Internazionale di Cucina Italiana), è il titolo ufficiale assegnato ogni due anni ai migliori artigiani d’Italia: maestrodartemestiere.it

MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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elettorale, ma ha grande valore. Ma vaglielo a spiegare». Sin dall’inizio la Fondazione ha avviato un’intensa attività di ricerca scientifico-accademica, dando soprattutto spazio alla “cultura” dei mestieri d’arte, grazie principalmente a due collane editoriali pubblicate da Marsilio, che guardano alla grande tradizione del savoir-faire italiano, e insieme alle nuove declinazioni dell’artigianato contemporaneo. Lusso e grande artigianato, ovvero i valori del bello che seduce («Anche i trogloditi si ornavano di gioielli») e del bello intelligente, sono i due fari della carriera professionale del Nostro.

«Per produrre bellezza ci vogliono maestri e i maestri di domani sono gli apprendisti di oggi. Anche Leonardo andò a bottega dal Verrocchio. I ragazzi devono capire che fare l’artigiano non è un ripiego e che Maestro d’Arte lo si diventa non solo per bravura manuale, ma anche per un preciso percorso culturale». E per fare questo Cologni ha aperto, a Milano, la Creative Academy, un master postgraduate in cui selezionatissimi studenti provenienti da ogni angolo del mondo approfondiscono tematiche di design applicato. I più meritevoli sono poi inseriti nel mondo del lavoro all’interno delle Maison facenti capo


alla holding Richemont, il cui presidente, Johann Rupert, insieme a Franco Cologni (e facendo tesoro dell’esperienza della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte) ha istituito nel 2016, a Ginevra, la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship al fine di valorizzare il mondo dei “maestri del fare” a livello internazionale. Insieme, nel 2018, le due istituzioni hanno organizzato a Venezia, alla Fondazione Cini, la mostra “Homo Faber” a cui, visto il successo e l’interesse del pubblico, stanno già lavorando per riproporla nell’autunno del prossimo anno.

Siamo, dunque, alla vigilia di un nuovo umanesimo artigianale? Riuscirà il nostro Paese, se non a eguagliare l’organizzazione francese di cui accennavamo poc’anzi, almeno a starle dietro in modo onorevole? «Guardi, noi e i francesi, in questo campo, abbiamo valori equivalenti, la differenza è che loro hanno potuto avvantaggiarsi di un’intelligenza politica che a noi è mancata. Rispetto a noi, sono avanti di almeno 25 anni». Cologni fa una pausa: «Anche se, a dire la verità, ora sono ventiquattro perché, nel frattempo, venticinque anni fa, siamo arrivati noi!».



album di Stefania Montani


Pictalab

vità. Per questo da vent’anni mi sono

Milano, Via Privata Battista De Rolandi 14 pictalab.com

le, sostenuta nella ricerca dai miei primi

dedicata allo studio del mondo vegetacommittenti, gli architetti Piero Castellini e Barbara Frua». Tra i soggetti ricorrenti si possono trovare piante ad alto fusto, arbusti, rampicanti, piante grasse, intere foreste dipinte con colori nitidi oppure fluo, che trasportano gli osservatori in un mondo di natura e di poesia. Il laboratorio, Pictalab, è un vasto capannone all’interno delle Officine de Rolandi, a Milano, uno spazio industriale del 1925 recentemente ristrutturato. All’ingresso un grande tavolo da lavoro per elaborare i progetti; alle pareti, altissime, tele e carte con i lavori iniziati che pendono dal soffitto come tante scenografie. Ai lati del laboratorio ci sono pennelli, tempere, foglie d’oro, resine, gessi, e un

giana, dove intorno ai forni prendono

mobile pieno di cassetti, con cataloghi

forma gli oggetti più raffinati grazie

e bozzetti. Questa bottega di stampo

alla maestria di Andrea Zilio, uno dei

rinascimentale ospita apprendisti, pittori,

più importanti protagonisti del vetro

gessisti, architetti che si alternano

muranese. Fondata negli anni Settan-

collaborando ai progetti più complessi.

ta da Giulio Ferro, discendente di una

«Dopo aver elaborato il progetto con il

famiglia di maestri vetrai, affiancato

committente e creato il bozzetto,

poi dal figlio Renzo, la fornace ha come

procediamo dipingendo con i colori

primo maestro Andrea Zilio, allievo

direttamente sulle pareti o sulla carta,

di Giulio e cognato di Renzo. Consi-

senza tratteggiare prima un disegno, per

derato uno dei primi al mondo nella

dare maggiore spontaneità all’opera.

soffiatura del vetro non figurativo, Zilio

Molti lavori vengono oggi realizzati su

racconta: «Ho iniziato riproducendo i

pannelli di carta per permettere even-

tradizionali calici di Murano, che trovo

Inventare la realtà, con pennelli e co-

tuali spostamenti in ambienti diversi»,

straordinari: ne ho realizzati anche

lori, per dare vita ai sogni, trasforman-

conclude Orsola. Tra le novità studiate

per un museo in Giappone. Questo mi

do le pareti più anonime in bellissime

dal laboratorio i bassorilievi monocromi,

ha portato ad approfondire le tecni-

scenografie. È questa la mission di una

in gesso, di grande effetto.

che più complesse della lavorazione,

straordinaria artigiana milanese, Orsola

a sviluppare la sensibilità nella scelta

Clerici, che con la socia Chiara Troglio

dei colori, ad avere sempre più padro-

si è specializzata nella decorazione di

nanza nell’uso del cannello. Poi sono

ambienti, prediligendo la natura. Come nella migliore tradizione rinascimenta-

Andrea Zilio

iniziati gli incontri con i grandi artisti e i designer, tra i quali Yoichi Ohira,

Murano (VE), Località Sacca Serenella glassinvenice.it/artisti/zilio-andrea

Ritsue Mishima, Cristiano Bianchin,

Orsola, «sia dai papier peint sia dagli

Nell’Isola Serenella, collegata a Mura-

Emmanuel Babled, Melvin Anderson,

affreschi, primo fra tutti il pergolato di

no solo da un traghetto, c’è un luogo

Peter Pelzel. Un lavoro molto com-

Leonardo al Castello Sforzesco. Entrare

che custodisce gelosamente segreti

plesso che non richiede solo tecnica

in ambienti dipinti è come entrare in

millenari. È la fornace Anfora, uno

ma capacità di entrare nella mente

una fiaba, sentirsi circondati da positi-

spettacolare esempio di bottega arti-

di un’altra persona. Forse la cosa più

le. «Fin da bambina sono stata affascinata dai decori parietali», confida

Michele Burato, Massimo Micheluzzi,


difficile!» Straordinaria è la finezza del

legno», ci racconta. «Posso dire che

lavoro di Zilio, in grado di esaltare in

non mi sono mai stancato: amo il mio

chiave moderna le tecniche tradizionali

mestiere, perché unisce la creatività

con assoluta perizia. «Occorre grande

all’abilità della mano. Ovviamente alla

concentrazione, destrezza e decisione:

base ci deve essere la profonda co-

in questo mestiere non c’è possibilità

noscenza delle tecniche, dei materiali,

di correggere un errore, tocca buttare

degli stili. Ma in quasi cinquant’anni

via e ricominciare». Oltre a creare pezzi

di esperienza ho acquisito un grande

su progetto altrui e proprio, molto ap-

bagaglio di conoscenze che mi ha

prezzati dai collezionisti, ha insegnato

permesso, oltre al lavoro, di insegnare

nell’importante Pilchuck Glass School

restauro del legno, riproduzione di

di Seattle (Usa) e ha collaborato con la

oggetti intagliati, costruzione di com-

Scuola del Vetro Abate Zanetti di Mu-

plementi di arredamento con metodi

rano. Nella sezione Vetri contemporanei

tradizionali, restauro della scultura

del Museo vetrario di Murano è esposta

lignea. È stato importante riuscire a

permanentemente una sua opera.

comunicare ai miei studenti e appren-

Ha ricevuto il riconoscimento di

disti l’amore per il mestiere. Sono loro

MAM-Maestro d’Arte e Mestiere e ha

il nostro futuro, dobbiamo impegnarci

partecipato all’edizione 2018 del

tutti se vogliamo che le tradizioni

progetto “Doppia Firma” con i

di eccellenza, per le quali l’Italia è

designer De Allegri/Fogale.

Jung Gawang Cremona, Via Palestro 28 jungviolinmaker.com

rinomata nel mondo, sopravvivano». Nel vasto spazio del laboratorio, un tempo ricovero di carrozze, ci sono

Jung Gawang è un giovane talento che

Daniele Nencioni

diversi tavoli da intaglio; alle pareti

ha lasciato la Corea nel 2012 per perfe-

tanti modelli e prototipi, campioni

zionare le sue conoscenze nel campo

Firenze, Via Maffia 54/r lorenzonencioni.wixsite.com/intagliofirenze

di lavori eseguiti, strumenti del

della liuteria alla scuola di Cremona:

mestiere quali sgorbie, scalpelli,

le sue doti naturali, lo studio e il lavoro

trapani, raspe, mazzuoli.

intenso, oltre all’incontro con il mae-

Grazie alla sua grande esperienza

stro Francesco Toto, l’hanno portato a

Daniele Nencioni collabora frequente-

diventare un liutaio degno di nota. Fino

mente con studi di architettura e in-

a vincere la medaglia d’oro nel XV Con-

terior design, oltre che con i musei e

corso Internazionale di Liuteria “An-

le soprintendenze. «Tra le esperienze

tonio Stradivari” di Cremona nel 2018,

che più mi hanno stimolato mi piace

con premio speciale della Fondazione

ricordare il restauro dell’Abbazia di

Cologni dei Mestieri d’Arte. Maniaco

Montecassino (ero giovanissimo!) e la

della precisione, fin nei minimi det-

riproduzione di alcuni elementi d’ar-

tagli, Jung è un convinto sostenitore

redo destinati alla ricostruzione della

che la bellezza della forma e la qualità

Reggia dei Romanov, a Mosca, negli

delle vibrazioni rispondano alle stesse

anni Novanta. È stata una bella sfida».

leggi. «Io sono un perfezionista in ogni

La bottega è celebre soprattutto per

particolare del mio lavoro», confida

la realizzazione ad intaglio di sontuo-

Gawang, «perché credo che questo

se specchiere in legno decorato in

sia il segreto della bellezza finale dello

Nel quartiere storico di Santo Spirito

foglia d’oro, di ogni forma e tipologia,

strumento e della qualità del suono.

a Firenze, dietro l’omonima chiesa, c’è

di grande eleganza. Con Daniele da

Un’armonia tra la forma e il suono».

una bottega che dal 1980 realizza e

alcuni anni lavora il figlio Lorenzo,

Nell’atelier che divide con il maestro

restaura straordinarie sculture e opere

Toto, all’interno di un antico palaz-

Daniele Nencioni, grande maestro

che ha ereditato dal padre la passione per il mestiere. Per il suo talento e la sua grande perizia, Daniele Nencioni

d’arte: «Ho iniziato a lavorare a 14 anni

ha ricevuto il premio MAM-Maestro

gli antichi strumenti del mestiere,

come apprendista intagliatore del

d’Arte e Mestiere nel 2018.

prepara la vernice da stendere sulle

di intaglio ligneo. Ne è proprietario

zo nel cuore di Cremona, il giovane artigiano sceglie i legni, li lavora con


superfici. «Scelgo legni stagionati di

nella sua terra natia, veneziana con stu-

almeno 10 anni, con una marezzatura

di classici lei, appassionata d’arte, han-

ben marcata, irregolare: con queste

no iniziato a realizzare non solo opere

caratteristiche le venature risalteran-

su commissione ma anche a sviluppare

no meglio sulla cassa armonica dopo

ricerche sui materiali e sulle tecniche. Il

la stesura della vernice. Una delle fasi

laboratorio è una vera festa per gli oc-

più complesse del mio lavoro» confida

chi: ordinati sugli scaffali lungo le pare-

l’abile liutaio, «è il momento in cui pre-

ti ci sono pietre naturali, marmi, sassi,

paro la vernice. Io utilizzo quella a olio

smalti dalle tante sfumature di colore.

che deve avere delle caratteristiche

Al centro, tavoli da lavoro e ceppi per

ben precise: non essere troppo dura,

il taglio dei materiali. Racconta Laura:

altrimenti impedisce al legno di vibrare,

«I nostri mosaici sono fatti a mano, con

nozioni storiche, cultura e orecchio

bloccandone il suono, ma nemmeno

tecniche, strumenti e materiali partico-

musicale, curiosità da archivista

eccessivamente morbida, altrimenti il

lari. Collaboriamo spesso con designer

nel consultare i documenti storici e

colore del suono risulterà troppo cupo.

e architetti che ci sottopongono i loro

pazienza da certosino per affrontare

E soprattutto deve essere trasparente».

disegni. Oltre a realizzare mosaici per

tutte le fasi del restauro.

Un gioco di equilibri che Jung Gawang

pareti, pavimenti e complementi d’ar-

Ugo Cremonesi ha tutte queste doti, ed

ha appreso molto bene. Per questo

redo, ci siamo specializzati nella cre-

è per questo che è diventato il restau-

i suoi strumenti sono richiesti dai

azione di gioielli in micromosaico che

ratore di fiducia della Curia, oltre a

musicisti di vari Paesi, dagli Stati Uniti

completiamo con inserti di tessere in

ottenere la qualifica di Restauratore di

all’Australia, dalla Cina alla sua Corea.

oro. I soggetti sono astratti, ricordano

Beni Culturali e il titolo per restaurare

paesaggi, fiori stilizzati». Tra le opere

strumenti tutelati dalle Soprintendenze.

realizzate in laboratorio che Mohamed

«Prima di aprire il mio laboratorio

ricorda con maggiore soddisfazione

con Claudio D’Arpino, mio socio dal

c’è un mappamondo ideato per un

1997, ho frequentato i Conservatori di

collezionista con due materiali classici:

Brescia e di Trento, mi sono diplomato

gli smalti e il rame. «I nostri sono tutti

in pianoforte e armonia, ho lavorato in

pezzi unici che nascono da un’antica

una storica ditta di restauro di organi,

tradizione e che sono parte del nostro

specializzandomi nella meccanica, nel

patrimonio culturale. Ma se le rego-

restauro dei mantici, delle tastiere, dei

le della tecnica sono ben precise, la

somieri e nell’uso delle colle animali.

selezione dei materiali e il progetto

Una delle fasi più complesse è il restau-

artistico sono sempre legati alle nostre

ro delle tastiere e dei componenti mec-

scelte, alla creatività e alla sensibilità

canici, che vengono forgiati e battuti

personali. Per noi è importante anche il

a mano in bottega, come avveniva

riciclo: non produciamo scarti, utiliz-

anticamente: gli strumenti da lavoro

ziamo tutto. Recentemente abbiamo

sono uguali a quelli utilizzati dai maestri

ampliato i nostri campi di applicazione

organari dei secoli passati». Il vasto

anche al legno e alle materie plasti-

laboratorio all’ingresso di Soncino, nel

Un angolo di Udine tra i più suggestivi,

che». Laura e Mohamed tengono anche

cremonese, è stato attrezzato per poter

nella zona pedonale del centro storico.

corsi alla Scuola Mosaicisti del Friuli.

lavorare al meglio sugli strumenti:

Carraro Chabarik Mosaici Udine, Via Beato Odorico da Pordenone 4/b carrarochabarik.it

Qui, tra i palazzi d’epoca, si affaccia

insonorizzazione acustica, temperatura

una grande vetrina piena di colori: è la

costante, grandi tavoli da lavoro. «Sono

bottega di Laura Carraro e Mohamed

Ugo Cremonesi

indispensabili ampi spazi perché le

Soncino (CR), Via degli Orfani 2 bottegaorganariasoncino.it

metri, a volte anche più. Dopo aver

a Spilimbergo e hanno poi deciso di

Per essere un buon restauratore di

cumentandoci negli archivi, smontiamo

diventare compagni di vita e di lavo-

organi non bastano le competenze

ogni singolo pezzo, cercando eventuali

ro. Siriano di Aleppo lui, cresciuto con

tecniche, la conoscenza dei metalli e

sovrastrutture e restauri precedenti, per

l’amore per gli antichi mosaici ammirati

l’abilità manuale: occorre avere buone

riportarlo all’originale. Io curo ogni fase,

Chabarik, mosaicisti di grande talento che si sono conosciuti frequentando la storica Scuola Mosaicisti del Friuli

canne arrivano a misurare fino a 5 studiato la storia di uno strumento, do-


dalla progettazione all’armonizzazione

realizzare vasi e piatti murali, decoran-

chi chilometri da Erice, nella provincia

finale e all’accordatura. È un lavoro ap-

doli con personaggi femminili, paesag-

di Trapani, è una bottega delle meravi-

passionante ma che occupa tantissimo

gi della Costiera Amalfitana, delicate

glie dove si possono ammirare oggetti

tempo, mesi per uno strumento. Se non

Madonne, alla maniera di Guido Gam-

in marmo dalle più svariate funzioni.

c’è passione per questo mestiere non si

bone, altra leggenda della ceramica.

Ci racconta il fondatore: «Quando ho

riesce a farlo!». Nel 2016 Cremonesi ha

Diversi artisti vengono da lui in bottega

aperto il laboratorio, negli anni Settan-

ricevuto il premio MAM-Maestro d’Arte e

per dare vita ai loro disegni. «Tra questi

ta, ho voluto riscoprire e riproporre

Mestiere, riconoscimento dell’eccellenza

ci fu il portoghese Manuel Calgaleiro:

le tecniche antiche e i materiali del

artigiana italiana.

devo a lui l’aggiunta di una nuova linea

barocco siciliano, che da sempre mi

alla mia produzione, lo stile “concet-

avevano ammaliato per l’eleganza dei

tuale geometrico”, con smalti colorati

disegni. Come il diaspro e il giallo anti-

Francesco Raimondi

stesi sulle superfici senza l’uso dei pen-

co di Castronovo, all’epoca caduti in

nelli, alla maniera araba». Pezzi straor-

disuso, e gli intarsi policromi a rilie-

L’Archetto, Vietri sul Mare (SA), Via Mazzini 160 francescoraimondi.com

dinari che ricordano i quadri di Picasso

vo. Ho anche iniziato a studiare e a

e Mirò. «In questo periodo sto realiz-

specializzarmi nelle copie di opere

zando delle grandi pannellature, dei

dal Seicento ai primi del Novecento.

tavoli, delle panchine per una delle ville

Quest’area della Sicilia è sempre stata

più belle di Ravello, già appartenuta a

un centro di eccellenza per l’estrazione

Gore Vidal», confida Raimondi. «Amo il

e la lavorazione del marmo: io mi sento

mio Paese: ho sempre viaggiato molto,

parte di questa tradizione». Oltre a

ma sono sempre tornato qui: perché

riscoprire pietre e tecniche dimenti-

le nostre radici sono la nostra storia».

cate, Gaspare Cusenza ha introdotto

Le sue opere sono esposte in molti

delle moderne tecnologie grazie all’a-

musei tra cui il Museo dell’Azulejos di

iuto di suo figlio Rosario, che puntua-

Lisbona, il Museo della ceramica a Fu

lizza: «Utilizziamo macchine digitali

Ping in Cina, il Museo della ceramica di

a controllo numerico, per rendere più

Decoratore per vocazione, Francesco

Faenza. Nel 2016 ha ricevuto il premio

agevole il nostro lavoro, ma gli

Raimondi si è formato nelle principali

MAM-Maestro d’Arte e Mestiere.

scalpelli, le frese, i martelli, le raspe

“faenzere” vietresi, lavorando al fianco

e le subbie restano sempre alla

di grandi maestri. Grazie alla sua stra-

base delle nostre lavorazioni.

ordinaria manualità, precisione, senso del colore, ha sviluppato il suo talento fino a incontrare Giovannino Carrano, «il più grande decoratore che Vietri abbia avuto», come dichiara lo stes-

Gaspare Cusenza Cusenza Marmi

Di qui l’importanza dell’abilità manuale

Valderice (TP), Via Sicilia 137 cusenzamarmi.com

tiene a precisare. Conclude Gaspare

e la conoscenza del mestiere: la centralità è sempre nella mano dell’uomo», Cusenza: «Io definisco il mio mestiere

so Francesco. Raimondi fa tesoro dei

quello di un artigiano evoluto, fusione

suoi insegnamenti e della tecnica del

tra l’artista classico e l’artigiano digita-

maestro che consiste in poche pennel-

le». In laboratorio lavorano dei giovani

late veloci, diversa densità di pressione

artigiani ai quali il maestro ha voluto

esercitata sui pennelli, accostamento

insegnare le tecniche e i segreti del me-

di colori vivaci: lo “stile Vietri”. Quando

stiere, perché la tradizione della lavora-

Carrano scompare, Raimondi diventa

zione del marmo non andasse perduta.

il suo erede nello storico laboratorio di

Cusenza Marmi ha realizzato opere per

Raffaele Pinto, e inizia la produzione di

il Vaticano, per la Sovrintendenza di

pavimenti da sogno, le “riggiole”. «Fu-

Roma, per il Sultano dell’Oman e per

rono anni di grande attività e di sod-

lo Stato del Qatar. È artefice inoltre di

disfazioni», ricorda Raimondi. «Poi alla

Grifoni, leoni alati, meduse. Ma anche

complementi d’arredo per architetti e

morte di Pinto nel 1999 decisi di aprire

fontane da giardino, statue, altari, fonti

designer, tra i quali lo stilista Domenico

il mio laboratorio. Un piccolo spazio

battesimali, mobili, prototipi di archi-

Dolce. Nel 2016 Gaspare Cusenza

nel centro di Vietri, con un piccolissimo

tetti e designer, pavimenti policromi. Il

è stato insignito del premio

arco: l’Archetto, appunto». Inizia così a

laboratorio di Gaspare Cusenza, a po-

MAM-Maestro d’Arte e Mestiere.


Alessandro Fiorentino

questo insegno ai ragazzi a realizza-

con i figli e con i suoi aiutanti. Ogni

re un mobile intarsiato partendo dal

angolo trasuda storia», racconta Me-

Sorrento (NA), Via San Nicola 28 alessandrofiorentinocollection.it

progetto del mobile stesso, attraverso

negazzo. «Si dice che quando il gran-

tutte le fasi di costruzione. Il mio sogno

de artista aveva nostalgia del paese

sarebbe che ogni museo dedicasse

natio, Pieve di Cadore, si sedeva sulla

una sezione a laboratorio artigiano per

soglia (dove oggi c’è il giardino) e

riprodurre pezzi delle sue collezioni

guardava le sue montagne». Nell’ate-

(anche alla luce del design contempo-

lier, dove lavorano anche sua moglie e

raneo) da mettere poi in vendita nel

le sue figlie, ci sono vari ambienti per

book-shop: per promuovere concreta-

le diverse fasi della lavorazione: il suo

mente l’artigianato e dare nuova linfa

regno è la piccola casa all’interno del

agli antichi mestieri che sono parte

giardino dove avvengono le operazio-

integrante della nostra storia».

ni di fusione e di battitura. «Il lingotto viene fuso nel crogiolo all’interno del forno verticale, poi laminato e battuto più e più volte con martelli che pesa-

Alessandro Fiorentino si potrebbe definire un signore rinascimentale dei

Marino Menegazzo

no da 3 a 8 chili, fino a raggiungere

Venezia, Cannaregio 5182 berta-battiloro.com

battiloro. «I fogli vengono tagliati in

la sottigliezza voluta», spiega l’abile piccoli quadrati da 8x8 centimetri e

nostri tempi: colto, amante del bel-

impilati fino ad arrivare a 1000. I pac-

lo, protettore delle arti, impegnato a

chetti possono avere diverso peso, a

diffondere il sapere aprendo labora-

seconda dello spessore delle foglie:

tori e mettendo a disposizione la sua

si va dai 16 grammi fino ai 40». Le fasi

esperienza per le generazioni future.

della lavorazione e della battitura a

La sua abilità nell’arte dell’intarsio è

mano sono numerose: ognuna richie-

nata dopo aver girato il mondo come

de tempo, da 40-50 minuti fino a 2

architetto. «Quarant’anni fa a New York

ore per ogni singolo passaggio. «Le

ho visto una mostra sulle tarsie sorren-

foglie d’oro hanno spessori diversi a

tine dell’Ottocento, molte realizzate

seconda dell’uso a cui sono destinate.

dai viaggiatori del Grand Tour. Sono

L’oro cosmetico e commestibile, per

sempre stato affascinato da questi

esempio, è sottile come una sfoglia,

manufatti che collezionavo da tempo,

quello per le decorazioni artistiche ha

acquistandoli in Francia, Germania,

5 diversi tipi di spessore e ben 18 co-

Inghilterra. Visitando quella mostra ho

lorazioni. Ci sono poi foglie d’oro de-

deciso di imparare l’arte della tarsia in

stinate alle vetrerie artistiche, quelle

prima persona». Così ha preso il via la

Quella del battiloro è un’arte antichis-

per il mosaico, quelle per i restaurato-

sua straordinaria avventura: Fiorentino

sima, tramandata nel corso dei secoli,

ri. E anche foglie d’argento, di rame,

si specializza nell’arte dell’intarsio, ini-

che consiste nel ricavare dall’oro una

di platino». Innamorato del suo lavoro,

zia nel contempo il restauro di Palazzo

impalpabile foglia. Un lavoro straordi-

Marino Menegazzo ha partecipato a

Pomarici Santomaso, lo trasforma in

nario ormai portato avanti da pochis-

“Doppia Firma” nel 2018 insieme alla

museo della tarsia articolato in un per-

simi maestri, e che richiede abilità,

designer olandese Kiki van Eijk.

corso di venti sezioni, destina un piano

passione, dedizione e pazienza. Tutte

a laboratorio dove insegna ai ragazzi,

qualità che Marino Menegazzo ha ac-

provenienti da varie parti del mondo, le

quisito nel tempo, grazie a un ottimo

tecniche della tarsia lignea. «La tarsia

insegnante: suo suocero Mario Berta

non va vista come elemento decorativo

del quale è diventato l’erede spiri-

ma funzionale all’oggetto stesso», tiene

tuale, proseguendo il lavoro nella sua

a precisare l’architetto-artigiano. «Deve

bottega veneziana. «Il nostro labora-

Una villa dei primi del Novecento, sulla

liberarsi dai lacci pittorici e diventare

torio è all’interno di un palazzo sto-

collina di fronte al mare della Liguria.

parte integrante della costruzione. Per

rico dove ha vissuto Tiziano Vecellio

Ma che non si tratti di un’abitazione di

Tessitura Gaggioli Zoagli (GE), Via dei Velluti 1 tessituragaggioli.it


gno del Settecento: uniti, ricci, operati,

aprire un laboratorio di artigianato

negativi e soprarizzi, laminati oro e

tessile specializzandosi nell’antica

argento. «Abbiamo modelli di disegni

arte del pizzo di Cantù, riveduta e

delle diverse epoche e grazie al nostro

corretta. Il loro desiderio era quello

archivio riusciamo a riprodurre i tessu-

di recuperare una tradizione culturale

ti uguali agli originali. Per esempio ab-

che aveva reso famosa nel mondo la

biano riprodotto il damasco per tap-

loro città fin dal Duecento e di ren-

pezzare le pareti del Palazzo Ducale a

derla attuale. Così, dopo aver in-

Modena, i costumi in velluto nero per il

grandito fino a 2/3 centimetri il filato

Shakespeare’s Globe Theatre, i drappi

rispetto a quello utilizzato normal-

del Palio di Siena, il velluto di Genova

mente, hanno realizzato dei gomitoli

per il Castello di Dresda. Grazie alla

giganti che, lavorati con la tecnica del

caratteristica artigianale del nostro la-

tombolo, possono produrre grandi

boratorio, siamo in grado di realizzare

intrecci da utilizzare per rivestire

tessuti su disegno personalizzato». Da

sedute, creare tappeti, arazzi, ten-

qualche anno i Gaggioli hanno elabo-

de e complementi d’arredo. Un’idea

rato alcuni telai meccanici, da affian-

vincente che ha trovato subito dei

care a quelli manuali, per lavorazioni

sostenitori, tra i quali Living Divani e

di velluti uniti e rigati in seta, taffetas

B&B Italia. Il laboratorio di Un Pizzo è

e seta di Zoagli per l’arredamento.

situato all’interno di una vecchia corte nel centro storico della città. Spiega

vacanza lo si intuisce già dal cancello: il ritmo cadenzato e continuo dei telai prepara l’ingresso a una delle realtà artigianali più straordinarie del nostro Paese, la Tessitura Gaggioli. Racconta

Un Pizzo Cantù (CO), Via Carlo Cattaneo, 6 unpizzo.it

Agnese: «Dopo aver acquistato il filato (che può essere di diversi materiali, anche di riciclo) produciamo la corda delle dimensioni volute con un apposito macchinario. Questa è l’unica

Giuseppe: «Mio nonno, del quale porto

operazione meccanica: tutte le altre

il nome, rilevò nel 1932 la Società Anonima Velluti per la quale lavorava

fasi di lavorazione sono manuali. La

e dove venivano prodotti damaschi,

corda viene poi messa sul tombolo

sete e velluti su antichi telai. Da allora,

e viene creato l’intreccio, in base al

grazie alla sua abilità, a quella di mio

disegno della cartina». Le cartine

padre Sergio e all’aiuto di tutta la fa-

vengono preparate con disegni adatti

miglia, la nostra attività ha mantenuto

alle strutture che devono formare,

le stesse caratteristiche di un tempo».

tenendo ben presente la funzionalità

Una tradizione antichissima, che risale

del progetto. «Ci siamo inventate dei

a quando Zoagli era un feudo della

tomboli giganti», racconta Bettina,

famiglia Fieschi, e che venne intensi-

«di circa un metro e venti per sessan-

ficata quando il borgo passò sotto il

ta, sui quali lavoriamo, stando in piedi,

dominio della Repubblica Marinara di

con i fuselli di 25 centimetri. Sembria-

Genova. Da allora le lavorazioni sono

mo Lilliput nella terra dei giganti...».

rimaste pressoché invariate rendendo

Attualmente lo studio collabora con

unici e preziosi i tessuti qui prodotti.

diverse aziende, designer, architetti

«Ancora oggi, come nel Cinquecento,

nella progettazione di nuovi prodotti

il damasco viene tessuto su telai in

e nello sviluppo di prototipi. Allo stu-

legno, rigorosamente a mano», spiega

dio di Un Pizzo anche un’innovativa

Paola Gaggioli, sorella e collaboratrice

tecnica che vuole recuperare il lavoro artigianale dell’intreccio di vimini.

di Giuseppe. «Il prodotto è di qualità straordinaria, avendo 12.200 fili di

Agnese Selva e Bettina Colombo sono

«Lo presenteremo al Salone del

ordito in 60 cm di altezza: 470 fili in

due giovani e intraprendenti designer,

Mobile 2021 insieme a B&B Italia»,

un solo centimetro quadrato». Anche i

provenienti dall’Accademia di Belle

annunciano con soddisfazione le

velluti vengono prodotti su telai in le-

Arti, che sei anni fa hanno deciso di

due estrose creatrici.


In tempi di crisi economica e di calo dei consumi è indispensabile riflettere su un nuovo modello sociale, ancor prima che su paradigmi o prodotti. Un modello che può trovare nella nuova bottega artigiana, tra manifattura urbana e dialogo con l’innovazione, l’erede di quell’ideale rinascimentale che ha consentito l’affermarsi dell’eccellenza italiana. E che deve coinvolgere anche le istituzioni.

OpenDot Fab Lab, hub di ricerca e open innovation fondato a Milano dallo studio di design Dotdotdot (foto di OpenDot).

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bottega L’inestinguibile attualità della

di Stefano Micelli

MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Nel corso di questi ultimi dieci anni la riscoperta di una artigianalità cosmopolita, a cavallo fra tradizione, tecnologia e design, ha spinto molti osservatori a riflettere sull’attualità delle botteghe rinascimentali come riferimento per un nuovo modo di pensare la produzione. Il paragone non è fuori luogo. In quest’ultimo decennio la rete ha fatto scoprire la storia di donne e uomini all’origine di prodotti straordinari, ha consentito di vendere produzioni locali su mercati internazionali, ha facilitato la comunicazione diretta fra domanda e produttori. Abbiamo riscoperto, in Italia e non solo, una coorte di artigiani capaci di prodotti unici rivolti a una committenza preparata e spesso generosa. L’analogia con la bottega rinascimentale consente di andare oltre. Rispetto alla bottega medioevale, caratterizzata da artigiani più attenti alle regole dettate dalla corporazione di riferimento che all’ingegno del maestro, la bottega rinascimentale mette in mostra il talento di figure che spiccano all’attenzione di grandi mecenati. Richard Sennett considera Benvenuto Cellini il prototipo di questa nuova genia di artisti artigiani. Cellini è un uomo con una vita avventurosa alle spalle che tratta direttamente con i reali di tutta Europa. Non è più semplicemente un orafo, dice Sennett. Non è interessato a farsi tutelare dalla sua corporazione. Reclama, con successi alterni, attenzione e rispetto per la propria originalità. In tempi recenti, un numero sorprendente di grandi artigiani italiani (molti nel mondo dell’arredo) ha fatto un percorso simile. In tanti sono stati capaci di proporre la propria specificità attraverso il Web e, grazie alla rete, hanno potuto vendere il proprio prodotto ben oltre i confini nazionali. Il successo di queste imprese non dipende solo dai livelli di qualità e di personalizzazione di cui sono capaci, ma anche dall’interesse crescente della domanda per oggetti in grado di fissare un dialogo e una relazione con chi li ha prodotti. In alcuni casi chi compra è disposto ad accettare qualche difetto rispetto a standard consolidati di qualità pur di ritrovare i segni di una soggettività che si esprime attraverso manufatti unici e irripetibili. Il valore di ciò che si acquista dipende dalla capacità di un oggetto di farsi medium fra culture e sensibilità diverse. Un bene diventa il tramite con una tradizione e, allo stesso tempo, con lo slancio creativo di un produttore di talento. Rispetto alla crisi economica che abbiamo di fronte a noi, è difficile valutare in che misura questa tendenza

possa sostituire un consumerismo saldamente ancorato a logiche consolidate di divisione internazionale del lavoro. È possibile ipotizzare scenari diversi, solo in parte sovrapponibili. Una domanda con poca capacità di spesa potrebbe rapidamente riorientarsi verso beni a basso costo cercando di recuperare potere di acquisto a scapito di un’offerta percepita come troppo impegnativa o addirittura inaccessibile. In un altro scenario, decisamente auspicabile, una rinnovata sensibilità verso la sostenibilità sociale e ambientale potrebbe spingere molti consumatori a orientarsi verso prodotti che hanno una storia plausibile e una faccia in cui riconoscersi. Dietro a queste due ipotesi sull’evoluzione dei consumi si stagliano nitide forme diverse di organizzazione della società. Rilanciare i consumi a basso costo significa affidarsi alla produzione di paesi come la Cina che oggi stanno investendo in modo consistente su tecnologie 4.0 e che, a breve, potrebbero consolidare una generazione di lights out factories in cui il lavoro umano è un fattore residuale. Queste fabbriche sono già oggi una realtà nella produzione dell’elettronica di consumo e potrebbero esserlo presto in altri settori. In questo scenario, l’idea stessa di lavoro potrebbe uscirne fortemente ridimensionata. Diverse sono le implicazioni di un orizzonte in cui trova spazio un’idea di artigianalità rinascimentale portata al contemporaneo. In un contesto che ripropone la maestria e il lavoro come valori da riconoscere, produzione e consumo ritornano a dialogare, le città diventano lo spazio di una manifattura in grado di incrociare la vita di generazioni diverse, botteghe e imprese rilanciano un’idea di apprendimento fondato su luoghi che rinnovano connessioni sociali e culturali. Difficile valutare l’evoluzione della società europea nei prossimi anni. Sappiamo che la crisi sarà lunga e impegnativa. Per quanto riguarda l’Italia, la scelta fra il primo e il secondo scenario non si gioca su generiche prese di posizione a uso di nostalgici della grandezza del paese nel Cinquecento. Si misura, piuttosto, sulla volontà di investire in una scuola capace di sostenere una nuova visione della manifattura. Dipenderà dalla volontà di tanti amministratori locali di ridare spazi alla manifattura nei centri delle città garantendo le condizioni per un artigianato urbano a ridosso di istituzioni culturali e turismo di qualità. Si confronterà con la nostra volontà di supportare, individualmente e collettivamente, un consumo sostenibile che privilegia impegno e cultura.

Pag. 35: il laboratorio di Morelato Ebanisteria Italiana che produce mobili su misura con le essenze più pregiate, in dialogo con il design. Impresa di famiglia sensibile alle nuove espressioni dell'alta manifattura, ben rappresenta l'eccellenza italiana tra tradizione e progettualità (foto di Susanna Pozzoli).

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Nel corso di questi ultimi dieci anni la riscoperta di una artigianalità cosmopolita, a cavallo fra tradizione, tecnologia e design, ha spinto molti osservatori a riflettere sull’attualità delle botteghe rinascimentali come riferimento per un nuovo modo di pensare la produzione.

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Gasparo Miseroni, coppa “a drago”, 1565-1570 circa, lapislazzuli, oro, smalto, rubini, smeraldi, perle, granati. Vienna, Kunsthistorisches Museum (foto: KHM-Museumsverband).


Sovrane maestrie Unione di creatività e metodo, classicità e originalità, complessità tecnica e aggraziata bellezza: in uno dei più importanti cabinet d’arte e di curiosità al mondo, la Kunstkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna, capolavori rinascimentali di diversa concezione progettuale attestano la felice esperienza internazionale del talento italiano, ambito e ricercato dalle corti europee del Cinquecento.

di Chiara Maggioni

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Nel secondo Quattrocento, l’atelier Miseroni seppe rispondere alla crescente richiesta di beni di lusso per la tavola con una proposta del tutto originale, una linea di creazioni che faceva rinascere le antiche lavorazioni glittiche coniugandole a inedite invenzioni formali.

Il fasto delle corti europee del Cinquecento si esprimeva tanto nelle dimore splendidamente arricchite di opere d’arte che nelle sfarzose cerimonie pubbliche e nei ricevimenti. Un ruolo di primo piano era svolto dai banchetti, vera e propria celebrazione permanente dei regnanti e del loro entourage e dimostrazione di lusso e raffinatezza in occasione delle visite di sovrani stranieri o ambasciatori e altre personalità. Nell’atmosfera raccolta della Kunstkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna dialogano dalle rispettive vetrine – accendendo la penombra di riflessi d’oro e di colore – due proposte agli antipodi per concezione progettuale, pur se accomunate da un’eccezionale felicità di ideazione e maestria tecnica: il centrotavola destinato a contenere sale e pepe noto come Saliera di Benvenuto Cellini (1540-1543) e i vasi intagliati in pietre dure delle diverse generazioni dei Miseroni (attivi dal 1460 al 1684), milanesi di origine ma richiesti dalle principali corti d’Europa. La contestualizzazione storica oltre che esistenziale della Saliera ci è fornita dallo stesso Cellini, che, consegnando ai posteri le proprie tumultuose vicende biografiche (Vita, 1558-1562), ripercorre gli anni irrequieti della giovinezza, fornendoci una mappa del suo apprendistato in diverse botteghe orafe della natìa Firenze, e poi a Siena, Bologna, Pisa e infine a Roma; qui l’incontro-chiave con il milanese Caradosso Foppa, orafo e medaglista della corte papale, del quale avrebbe preso il posto con Clemente VII Medici (1524-1534). Più ancora che le occasioni di apprendimento del bagaglio tecnico della professione, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi le sue esperienze formative, sotto il segno dell’antico – i sarcofagi romani del Camposanto pisano, i quaderni con studi di antichità di Filippo Lippi – e dei tre grandi del Rinascimento: Leonardo e Michelangelo sui cartoni delle mai compiute Battaglie di Anghiari e di Cascina in Palazzo Vecchio a Firenze; ancora Michelangelo e Raffaello nelle campagne decorative per i Palazzi Vaticani. Di ritorno a Firenze (1535) aveva potuto studiare anche le tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo e si era confermato nella devozione al “gran Michelagnolo”, «dal quale, e non mai da altri, io ho imparato tutto quel che io so» (Vita, ii, 21). 36

Tutte queste esperienze vengono portate a maturità nella Saliera, richiesta inizialmente dal cardinale Ippolito II d’Este (1539), con la clausola «che arebbe voluto uscir dell’ordinario di quei che avean fatte saliere» (Vita, ii, 2). Cellini stesso ne descrive il progetto, del quale aveva predisposto un prototipo in cera: una complessa allegoria del Pianeta Terra che rivaleggiava con le grandi sintesi figurative che i maestri del Rinascimento avevano affidato alle “arti maggiori”. A Ippolito d’Este e ai suoi periti la realizzazione era apparsa però oltremodo difficoltosa e dai tempi di esecuzione imprevedibili: soltanto un sovrano come Francesco I di Francia, che stava accogliendo presso la propria corte i migliori artisti della nuova generazione – suggerisce il cardinale – avrebbe potuto farsi carico di una committenza di tale impegno. Poi la rivelazione: il sovrano desiderava avere anche il Cellini presso di sé. Francesco I lo accolse effettivamente con calore, gli concesse la naturalizzazione francese, un castello a Parigi e la stessa rendita accordata in passato a Leonardo: il progetto poteva finalmente concretizzarsi. Strepitose le qualità tecniche della Saliera: interamente costituita da lamine d’oro lavorate a cesello – e perciò sbalzata a mano libera e non prodotto di fusione come potrebbe far pensare, a una prima osservazione, la sua perfezione formale – è arricchita da smaglianti tocchi di smalto en ronde-bosse, che coordinano le due figure principali alla miriade di elementi allegorici minori che ricoprono la parte basamentale della composizione. Raffinata l’armonia dell’insieme, con la simmetria intrecciata delle figure, snelle ed elegantemente atteggiate, e la resa accurata e preziosa di ogni più piccolo dettaglio. Nettuno si erge sulle onde trainato da quattro cavalli marini, il tridente nella destra e un ciuffo di alghe nella sinistra; accanto a lui un galeone, con un mascherone grottesco a mo’ di polena, destinato a contenere il sale, nel mare una moltitudine di pesci e crostacei. La Terra siede sul dorso di un elefante, coperto da un drappo blu con i gigli di Francia, offre il proprio latte con la destra e con la sinistra porge fiori e frutti; accanto a lei un tempietto ionico destinato a contenere il pepe, sul cui attico è adagiata la figuretta dell’Abbondanza, mentre sul prato fitto di fiori e frutti si riconosce una salamandra, impresa di Francesco I.


Gasparo Miseroni, coppa con coperchio, 1565-1570 circa, quarzo verde (prasiolite), oro, smalto, rubini, smeraldi, perle, cammei di onice. Vienna, Kunsthistorisches Museum (foto: KHM-Museumsverband).

CRAFTS

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Benvenuto Cellini, Saliera, 1540-1543, oro, smalto, ebano. Vienna, Kunsthistorisches Museum (foto: KHM-Museumsverband).

Ottavio Miseroni, coppa a conchiglia con statuetta di Bacco,

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Girolamo Miseroni, coppa a

1600 circa, diaspro verde

conchiglia, 1600 circa, nefrite,

con venature di agata

oro, smalto, rubini. Vienna,

rossa, oro, smalto. Vienna,

Kunsthistorisches Museum.

Kunsthistorisches Museum.

(foto: KHM-Museumsverband)

(foto: KHM-Museumsverband)


La Saliera si pone dunque come sintesi delle esperienze del Rinascimento, compresa la volontà dell’artista di eternarsi attraverso un capolavoro che rappresentasse la massima espressione del proprio talento – sarà l’ultima prova del Cellini orafo, prima di dedicarsi alla scultura – e insieme intelligente ed empatica apertura al nuovo gusto internazionale che si andava elaborando nel cantiere di Fontainebleau. Davvero non stupisce che la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte l’abbia individuata quale immagine-guida che ne esprime i valori fondanti e la missione.

La base in ebano ospita le personificazioni della ciclicità del Tempo e delle direzioni dello Spazio: le parti del giorno – l’Aurora, il Giorno, il Crepuscolo e la Notte –, che replicano l’archetipo michelangiolesco della Sagrestia Nuova, si alternano alle allegorie dei venti, tema antico ripreso da Raffaello nelle Logge Vaticane; tra gli altorilievi trofei di strumenti di lavoro legati al mondo marino e terrestre. La Saliera si pone dunque come sintesi delle esperienze del Rinascimento, compresa la volontà dell’artista di eternarsi attraverso un capolavoro che rappresentasse la massima espressione del proprio talento – sarà l’ultima prova del Cellini orafo, prima di dedicarsi alla scultura – e insieme intelligente ed empatica apertura al nuovo gusto internazionale che si andava elaborando nel cantiere di Fontainebleau. Davvero non stupisce che la Fondazione Cologni l’abbia individuata quale immagine-guida che ne esprime i valori fondanti e la missione. Tutt’altro percorso, invece, quello dell’atelier Miseroni, che seppe rispondere alla crescente richiesta di beni di lusso per la tavola con una proposta del tutto originale, una linea di creazioni che faceva rinascere le antiche lavorazioni glittiche coniugandole a inedite invenzioni formali, proposta che conquisterà in breve tempo le principali corti d’Europa. Documentati a Milano come orafi nel secondo Quattrocento, acquisiscono fama internazionale come intagliatori di vasi in pietre dure con Gasparo e il fratello Girolamo. Negli anni Cinquanta e Sessanta Gasparo domina incontrastato le committenze di casa Medici, raccogliendo l’ammirazione entusiastica del Vasari: «E Gasparo e Girolamo Misuroni Milanesi intagliatori, de’ quali s’è visto vasi, e tazze di cristallo bellissime, e particolarmente n’hanno condotti per il Duca Cosimo due, che son miracolosi, oltre, che ha fatto in un pezzo di Elitropia un vaso di maravigliosa grandezza, e di mirabile intaglio; Così un vaso grande di lapis lazuli, che ne merita

lode infinita» (Vite, iv, 1568). I vasi in eliotropio e in lapislazzuli per Cosimo I (Firenze, Museo degli Argenti, 1556; Museo di Storia Naturale, ca 1563) incarnano l’invenzione formale principe di Gasparo: la coppa a forma di conchiglia, fortemente asimmetrica, con un animale marino che vi si avvolge attorno quasi confondendosi con essa, in una sorta di ibridazione di forme. Lo stupefacente carattere metamorfico affascinò anche Massimiliano II d’Asburgo che negli anni Sessanta e Settanta richiese loro diversi pezzi (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Il nuovo imperatore Rodolfo II riuscì ad ingaggiare il figlio di Girolamo, Ottavio, poi raggiunto dai fratelli Giovanni Ambrogio, Aurelio e Alessandro, come intagliatore ufficiale della corte (1588), nel frattempo trasferita a Praga. Le creazioni di Ottavio si connotano per linee ancora più sinuose e per il trattamento morbido e sensuale delle superfici; le valorizzano montature in oro, smalti e gemme dell’orafo fiammingo Jan Vermeyen. Dal milieu culturale praghese deriva un nuovo interesse per i valori estetici dei materiali, in particolare per singolari pietre “autoctone” che il sovrano, appassionato cultore delle ricchezze mineralogiche dei suoi stati, faceva ricercare per collezionarle nella sua Wunderkammer. In sintonia con il gusto mitteleuropeo è anche l’introduzione di decori a rilievo dal profilo secco e metallico, del tutto dissociati dalle forme dei vasi stessi. Nelle opere della maturità, infine, le combinazioni/ metamorfosi di elementi naturali sono abbandonate a favore di un’organicità astratta, mobile e indefinibile, come nel bacino in diaspro (Parigi, Louvre) creato per Rodolfo II in occasione del ventennale di lavoro al suo servizio, che era valso ai Miseroni l’elevazione al rango nobiliare. Con la morte del sovrano (1612), anche la fortuna dei vasi in pietre dure sarebbe tramontata spingendo l’atelier, ancora attivo a Praga per due generazioni, a specializzarsi in nuove tipologie di manufatti. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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CAPOLAVORI

Satiro, alzata da tavolo in argento e corniola, raffigurante un satiro che trasporta un cesto destinato a Bacco. Il satiro e la base sono realizzati con la tecnica della fusione a cera persa, tutte le varie parti sono lavorate a lima e cesellate.


Il laboratorio fiorentino di oreficeria e gioielleria Pestelli

LE COSE PIÙ BELLE STANNO IN EQUILIBRIO di Elisabetta Nardinocchi

Solo grazie alla maestria più raffinata e a uno speciale estro creativo è possibile oggi realizzare oggetti preziosi senza tempo, in cui echeggia tutto il fascino dell’antico, ma in una visione contemporanea. Solo reggendosi sulle solide radici dell’esperienza e del sapere tramandati da generazioni è possibile spiccare il volo verso inediti traguardi. Quando, parlando dell’artigianato artistico fiorentino, si sottolinea il senso forte e mai sopito di un’antica tradizione, si esprime non tanto una sensazione, quanto un dato oggettivo e documentabile storicamente, strettamente legato alla volontà di trasmettere e così rinnovare i propri saperi di generazione in generazione. E se questo si può dire dei mestieri artigiani in genere, in alcuni centri di produzione, e a Firenze in modo esemplare, questo si

rende particolarmente manifesto. Fin dai tempi antichi le botteghe d’arte della città sono state ben attente a non disperdere, al di fuori della ristretta cerchia costituita dalla famiglia e dai lavoranti, il proprio patrimonio fatto di utensili, tecniche di lavorazione e modelli (così come di rapporti con i committenti), fino ad arrivare alla consuetudine di far sposare, alla morte del titolare dell’impresa, la vedova al più promettente degli aiuti. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Se quest’ultimo caso non è certo applicabile per il laboratorio di oreficeria e gioielleria Pestelli, certo è che per altre e diverse vie si può ricostruire come una lunga tradizione sia confluita nei locali che ancora oggi lo vedono attivo, sotto la guida di Tommaso Pestelli, negli antichi ambienti di borgo Santi Apostoli, nel centro storico di Firenze. L’insegna della ditta annuncia un’attività avviata nel 1908, quando appunto Edoardo Pestelli (1874-1965), bisnonno dell’attuale proprietario, rilevò un negozio di gioielleria in via Strozzi, specializzandosi nella produzione di raffinati monili e arredi in oro e argento, con lavorazioni a mosaico, pietre preziose e dure, nonché perle e coralli (questi ultimi fortemente caratterizzanti la prima produzione), chiaramente ispirati a forme antiche e tradizionali. Ovviamente, nel condurre la sua impresa, Edoardo Pestelli non si era improvvisato, ma aveva portato con sé esperienze consolidatesi nel secolo precedente. Sua sorella Elvira, infatti, aveva sposato, nel 1893, Gino Marchesini, ultimo erede di una bottega orafa della quale abbiamo notizie fin dal 1784 e che per tutto l’Ottocento si era distinta tra le più importanti, originali e innovative della città, con negozi a Firenze e a Roma, pluripremiata alle esposizioni e soprattutto gratificata da importanti commesse da parte delle case regnanti succedutesi prima al governo del Granducato, poi a quello della Nazione. Nei primi decenni del Novecento la ditta aveva tuttavia conosciuto lutti e momenti di grave difficoltà che l’avevano costretta a vendere i negozi e a trasformarsi in una società a nome collettivo, così da portare Gino Marchesini a tutelare la propria storia lasciando al cognato, già formatosi come orafo, i calchi in gesso, i modelli in piombo, gli stampi in ferro e tre album di disegni, cioè tutto quanto aveva segnato la sua fortuna. Di particolare rilievo appaiono proprio i modelli, visto che l’autore, Camillo Bertuzzi, già al servizio dei Marchesini nel loro momento di maggiore espansione, è da riconoscere come uno degli esponenti più importanti, a livello internazionale, della gioielleria ottocentesca. Questo patrimonio è ancora oggi custodito dalla famiglia Pestelli, e testimonia dell’appartenenza a una storia, a una tradizione che non può essere dimenticata e che ha segnato l’evoluzione del laboratorio per tutto il Novecento. Attorno al 1920 era entrato in “bottega” anche il dotato Francesco (1902-1987), uno dei figli di Edoardo, che diventerà

presto il mandatario generale dell’impresa familiare; a lui seguiranno Luigi, fratello di Francesco, e un secondo Luigi figlio di Francesco, fino all’attuale gestione di Tommaso Pestelli, bisnipote di Edoardo e rappresentante della quarta generazione di questa famiglia di orafi e gioiellieri. Nel frattempo il negozio si era trasferito da via Strozzi a via Tornabuoni, per poi tornare in via Strozzi e approdare infine in borgo Santi Apostoli portando con sé, oltre all’eredità dei Marchesini, un altro fondamentale insegnamento lasciato dai padri: avvalersi sempre e solo di artigiani di grande abilità, capaci di trasferire la propria esperienza e il proprio sapere alle nuove generazioni. Tra questi sono da ricordare l’orafo Ferdinando Ilari, il cesellatore Marcello Rovini, i Tagliaferri padre e figlio, esperti incisori di gemme e incassatori di pietre, e infine Tonino Batacchi, a sua volta maestro e mentore di Tommaso Pestelli. E così Tommaso Pestelli da una parte ha seguito gli insegnamenti dei suoi padri, dall’altra è andato riscoprendo la tradizione fiorentina tardo cinquecentesca fatta di quelle fantastiche figure zoomorfiche che sempre l’hanno affascinato, e ancora vi ha unito l’estro e la creatività che gli vengono dagli studi come scultore e dai suggerimenti della moglie Eva Aulmann, affermata artista nel modo della grafica d’arte. Tra i clienti che hanno segnato la vita della ditta nel corso del Novecento sono da annoverare i Savoia, i reali di Romania, il vice Re d’Egitto, il Vaticano... e ancora, per venire ai nostri giorni, dal 2010 alcune delle più prestigiose realizzazioni Pestelli sono esposte al Museo del Tesoro dei Granduchi in Palazzo Pitti (già Museo degli Argenti). Nel 2011 la ditta è stata riconosciuta Impresa Storica d’Italia e nel 2018 ha ricevuto il premio “DNA Artigiano” per i suoi 110 anni di attività. Le opere che ancora oggi si formano sotto le abili mani di Tommaso Pestelli sono belle e senza tempo, caratterizzate da un’attenta scelta delle pietre e da una lavorazione accuratissima che rende vive le molteplici varianti zoomorfe del suo repertorio, fatto di pesci e ranocchi, civette e polipi. «È il regno del sogno, dell’irrazionale e del mitico – sottolinea l’orafo – che prende forma in oggetti che reputo ben riusciti solo nel momento in cui riesco a bilanciare l’elemento naturale (la bella pietra, il bel colore, le belle trasparenze) con l’elemento dell’artificio che ho plasmato: nessuno dei due deve prevalere sull’altro. Le cose più belle stanno in equilibrio».

«È il regno del sogno, dell’irrazionale e del mitico che prende forma in oggetti ben riusciti solo nel momento in cui riesco a bilanciare l’elemento naturale con l’elemento dell’artificio che ho plasmato: nessuno dei due deve prevalere sull’altro. Le cose più belle stanno in equilibrio». 42


A sinistra: centrotavola Pesci in quarzo fumé, malachite, rubini e argento. I due pesci, ispirati dalle mappe nautiche del Seicento e del Settecento, sono ottenuti con la tecnica della fusione a cera persa. In basso: Albero, coppa in quarzo fumé, quarzo rutilato, con montatura a forma di albero in argento: il tronco, le radici e i rami sono lavorati a martello e cesello.

Nautilus Leone Marino in argento, rubini e conchiglia Nautilus Pompilius: questo pezzo è ispirato alle curiosità da Wunderkammer del Seicento.

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I rinascimenti del

Corallo di Alba Cappellieri

Tra leggenda, magia e tradizione artistica, il corallo è da sempre uno dei materiali più utilizzati in gioielleria e nella produzione di oggetti decorativi e sacri, grazie al colore intenso e alle forme sinuose. Da oltre due secoli, i maestri corallai italiani rinnovano l’antico legame che esiste tra l’uomo e questo straordinario tesoro del mare grazie alla loro creatività e all’altissima qualità artigianale di manufatti apprezzati in tutto il mondo.


Collana in oro e corallo Rubrum, 2001. Opera realizzata a mano dal maestro

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Platimiro Fiorenza sulla tipologia della lavorazione a motivi floreali dell’inizio del XIX secolo (foto di Stanislao Savalli).


Collier Drapée trasformabile in tre bracciali, Oro giallo, corallo, diamanti, Van Cleef & Arpels, 1974 (foto di Patrick Gries/ Van Cleef & Arpels).

Il corallo è tra i pochissimi materiali venerati fin dalla notte dei tempi: non appena l’uomo primitivo ha raccolto un rametto di corallo portato dal mare su di una spiaggia, immediatamente lo ha indossato per decorarsi. Era successo soltanto con l’oro, considerato divino fin dalla sua scoperta. Gli antropologi credono che la meraviglia con cui i nostri antenati hanno accolto entrambi i materiali dipenda dal loro colore: il rosso del corallo rimanda alla linfa vitale del sangue e il giallo dell’oro a quello dei bagliori luminosi del sole, anch’esso fonte di vita. La natura favolosa del corallo nasce con il mito greco per cui l’eroico Perseo, dopo aver decapitato Medusa, depose la testa della terribile Gorgone su degli arbusti che si pietrificarono a contatto con il sangue. La dea Atena rese il miracolo immortale e tutte le alghe del mare si tramutarono nel vermiglio corallo. Alla fascinazione mitologica si uniscono virtù medicinali, terapeutiche e apotropaiche, che fanno del corallo una materia magica, potente, vitale. Gli viene attribuito il potere di allontanare il malocchio, favorire la fertilità, cicatrizzare le ferite, attrarre la fortuna. Come amuleto veniva donato alle balie per facilitare l’allattamento, legato al collo dei bambini per proteggerli dagli spiriti maligni e a quello dei cani per scongiurare la rabbia, ma veniva anche sparso nel terreno per salvare il raccolto dalla siccità o miscelato a pozioni magiche per combattere l’impotenza maschile. I Galli affidavano al corallo la protezione delle loro armi mentre i Mongoli lo usavano per adornare cavalli e pugnali. Nel XV secolo assistiamo al primo dei tre Rinascimenti nella storia del corallo grazie alla sua capillare diffusione simbolica come amuleto, cui si aggiunge l’affermazione come ornamento raro e prezioso. Il corallo era infatti richiesto dalle dame più eleganti di tutta Europa ma anche del continente asiatico (i gioielli di corallo facevano parte della dote delle spose sia in

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Mongolia che in Uzbekistan): nel Tibet, in India e soprattutto in Cina dove, abbinato a perle, turchesi e giade adorna i gioielli di corte fin dal Mille. Nel XV e nel XVI secolo è il protagonista di collane, spille e bracciali, ma anche dei preziosi rosari che accompagnavano gli abiti delle monache. Per la moda rinascimentale la collana a grani di corallo era un elemento indispensabile nei corredi delle giovani spose di qualunque ceto sociale, ma anche il primo gioiello regalato ai neonati come pendente beneaugurante a ornamento delle culle. Più elitario il suo utilizzo nei famosi langouiers, piccoli strumenti, dove il dente di un animale o una particolare pietra venivano incastonati nel corallo e servivano ai re e ai nobili come spia per l’eventuale presenza di veleno nei cibi. Testimonianze preziose dell’importanza di questo affascinante materiale nella sua duplice valenza di gioiello e di amuleto si rintracciano nei dipinti di Cosmè Tura, del Pinturicchio, di Carlo Crivelli, Piero della Francesca o Antonello da Messina l’esempio forse più emblematico è costituito dal bellissimo dipinto votivo della Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna del 1496, dove sulla testa della Vergine pende un enorme ramo di corallo, per commemorare la vittoria e lo scampato pericolo di Francesco Gonzaga nella sanguinosa Battaglia di Fornovo. Le prime industrie di lavorazione artigianale del corallo nacquero nel XIX secolo a Napoli e a Torre del Greco: qui venivano realizzati oggetti meravigliosi che non comprendevano solo i gioielli ma anche galanterie, presepi, piccole sculture, oreficerie e i celeberrimi “cornetti” portafortuna. Torre del Greco diventa così uno dei territori più importanti non soltanto per la pesca del corallo ma anche per la sua manifattura ed è da qui che prende avvio il secondo Rinascimento dell’oro rosso, quello del Neoclassicismo, quando il prezioso materiale conobbe l’apice del suo successo.


Opere in corallo Rubrum di Platimiro Fiorenza. Da sinistra: spilla floreale, 2002; pettorale in oro, argento e diamanti taglio rosa e brillante, 2009 (foto di Stanislao Savalli).

Mascherone in corallo, oro e diamanti di Enzo Liverino, 1970 (foto gentilmente fornita da Liverino1894). Opere in corallo Rubrum di Platimiro Fiorenza. In alto: spilla in oro raffigurante grappoli d’uva, 2013; tiara in oro, brillanti e perline orientali, 2002 (foto di Stanislao Savalli).

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Bracciale Chimères, oro, platino, corallo scolpito, diamanti, smeraldi, zaffiri, smalto verde, blu e nero, Cartier Parigi, 1928 (foto di Nils Herrmann/Cartier).

Insieme a cammei, perle e diamanti il corallo impreziosiva diademi e tiare, i caratteristici ornamenti da testa di impronta neoclassica che ebbero larga diffusione nelle corti napoleoniche di tutta Europa. La ricca decorazione si fondava sul naturalismo delle forme classiche, in particolare sulla composizione di fiori e frutti, considerati per la loro perfetta armonia naturale. La lavorazione torrese del corallo, unita a quella della madreperla, delle conchiglie, della lava e delle pietre dure, fu talmente fiorente per la città che nel 1878 venne istituita la Regia Scuola d’Incisione sul corallo e di Arti Decorative Industriali che ha formato i più bravi maestri corallai. Passata la moda neoclassica il corallo ritorna protagonista dei più bei gioielli dell’Art Déco, stagione artistica che segna il suo terzo Rinascimento e l’ultimo momento di unità, creatività e innovazione nelle arti del Novecento. L’alta gioielleria delle grandi Maison francesi come Cartier, Van Cleef & Arpels, Boucheron, Fouquet, Mauboussin, Lacloche crea capolavori dove il corallo, unito all’onice, ai diamanti e al cristallo di rocca, dona colore e profondità alle geometrie Déco. Esempi interessanti sono il bracciale Chimères del 1928 di Cartier in corallo scolpito e pietre preziose o le spille geometriche che Lucien Hirtz disegna per Boucheron per l’Esposizione parigina del 1925 in onice, corallo e diamanti e lapislazzuli, giada e corallo, fino ai capolavori di Van Cleef & Arpels, come il collier Drapée trasformabile in tre bracciali e i lunghi sautoir. Fu grazie ai gioielli Déco che Torre del Greco divenne la “capitale mondiale” della lavorazione del corallo, consolidando e valorizzando una cultura territoriale di mestiere che tuttora rappresenta la migliore manifattura dell’“oro rosso” nel mondo.

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Tra le famiglie orafe più rappresentative della città la Liverino 1894, Fratelli De Simone e la Ascione, tre imprese familiari che iniziarono l’attività agli albori del XX secolo e che si sono affermate in ambito internazionale per la qualità delle loro manifatture e dei loro gioielli. Aziende che hanno saputo unire la flessibilità del modello familiare con l’attenzione ai mercati internazionali, l’artigianalità con la creatività e la sostenibilità e per questo si sono conquistate la fiducia delle Maison dell’alta gioielleria internazionale oltreché italiane, come dimostra tra gli altri Chantecler, che proprio al corallo torrese ha dedicato gioielli di rara bellezza. Accanto alla tradizione campana troviamo altri territori italiani dedicati alla manifattura del corallo come Genova che, agli inizi del Novecento, fu un importante centro di lavorazione del corallo con le sue botteghe di via San Vincenzo, la Sardegna con Alghero, definita la Riviera del Corallo, e la Sicilia, con le delicate manifatture trapanesi. Tra gli esponenti di spicco della tradizione siciliana la famiglia Fiorenza è dedita alla lavorazione del corallo dal 1921. Oggi Platimiro Fiorenza ha raccolto il testimone dell’alto artigianato trapanese e per questo è stato inserito nell’elenco dei Tesori Umani Viventi tutelati dall’Unesco. A lui si devono gioielli, presepi e sculture in corallo finemente lavorati, come la Madonna di Trapani, in oro, corallo e pietre preziose, attualmente esposta ai Musei Vaticani, ma anche un’acquasantiera in oro e corallo, eseguita per Sua Santità Giovanni Paolo II. Ha inoltre ricevuto il premio MAM-Maestro d’Arte e Mestiere, conferitogli da Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte nel 2018 per il suo straordinario savoir-faire. Riconoscimento speciale attribuito anche al maestro Enzo Liverino nel 2016.



Trumeau decostruito D/Vision.1 di Fratelli Boffi, design di Ferruccio Laviani, 2017. Legno di noce frisé, laccato blu opaco, edizione limitata di 10 esemplari (foto di Giancarlo Caironi).


Fratelli Boffi

tra CLASSICISMO e

SPERIMENTAZIONE

A metà degli anni Ottanta, una brillante regia ha fatto dialogare una realtà artigianale ancora incentrata su una produzione “classica” con i protagonisti del design industriale contemporaneo. Risultato? Un fertile innesto che ha arricchito le imprese di nuovi valori estetici, facendo altresì convergere competenze e specialità distinte verso un'espressione omogenea del talento creativo.

di Ugo La Pietra

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A sinistra: Credenza a plissé di Fratelli Boffi, design di Ugo La Pietra, 1987. Legno di noce massello, finitura in noce naturale color miele, edizione limitata (foto gentilmente fornita da Ugo La Pietra). Sotto: dime utilizzate da Fratelli Boffi per la realizzazione dei manufatti (foto di Giancarlo Caironi).

A sinistra: Ballerina di Fratelli Boffi, design di Ugo La Pietra, 1987. Consolle in legno di noce massello, profilo del piano lavorato a plissé, edizione limitata (foto gentilmente fornita da Ugo La Pietra). Pag. 55: Good vibrations di Fratelli Boffi, design di Ferruccio Laviani, 2015. Questo mobile in legno massello di noce nazionale, alto più di 2 metri, sembra essere stato deformato da una forte scossa, pervaso da movimenti oscillatori. Edizione limitata di 10 esemplari (foto di Giancarlo Caironi).

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Centinaia di sagome, dime, elementi decorativi, lesene, modanature, semilavorati ancora grezzi di mobili classici e in stile… odore di legno intagliato, tornito, piallato… Così era, all’inizio degli anni Ottanta, il grande laboratorio dell’azienda a conduzione familiare dei fratelli Boffi. Nata nel 1928, alla periferia di Lentate sul Seveso, l’azienda produceva mobili classici e in stile, con una chiara aderenza ai canoni dello stile Luigi XV, Luigi XVI e Impero; elementi d’arredo che per decenni hanno riempito i grandi magazzini in Europa e negli Stati Uniti: da Harrods di Londra ai Lane Crawford di Hong Kong, fino a Macy’s e Bloomingdale negli Stati Uniti. Mentre negli anni Sessanta e Settanta cresceva in Italia la disciplina del disegno industriale, i fratelli Boffi continuavano a produrre mobili classici, mantenendo in vita quella “cultura del fare” legata alla tradizione artigianale della lavorazione del legno. Poi nel 1986, con la nascita della fiera Abitare il Tempo a Verona, qualcosa cambiò: iniziai a realizzare, all’interno della manifestazione fieristica, mostre sperimentali nelle quali facevo incontrare la “cultura del fare”, rappresentata dai mobilieri del classico (che non avevano mai collaborato con i progettisti), con la “cultura del progetto”, espressa da designer e architetti (che non avevano mai frequentato le botteghe artigiane). Con la mostra “La casa del desiderio” del 1987, introdussi un allestimento composto da diverse opere di vari autori come Adolfo Natalini, Luca Scacchetti, Marcello Pietrantoni, Vincenzo Pavan e realizzai un’installazione dove venivano messi a confronto alcuni semilavorati di mobili classici con mobili contemporanei che progettai per l’occasione e che furono realizzati dalla Fratelli Boffi.

Una collezione, quest’ultima, che chiamai “Mobili plissettati” e che riprendeva tecniche e lavorazioni classiche, enfatizzando addirittura l’uso delle scanalature, caratteri propri delle colonne di classica memoria. L’installazione aprì così il percorso dal classico al contemporaneo, non solo praticato per la prima volta dai fratelli Boffi, ma successivamente seguito da tante altre aziende e da altri progettisti; un percorso che, in quasi quindici anni, caratterizzò il valore aggiunto di Abitare il Tempo. Alla serie “Mobili plissettati” ne seguirono altre, con opere che vennero esposte in diverse mostre e fiere, in Italia e all’estero: alla fiera di Parigi, ai magazzini Liberty di Londra, ai magazzini Seibu a Tokyo fino al Museo d’arte Decorativa di Parigi. La Fratelli Boffi si arricchì quindi di una nuova immagine: dalla tradizione alla contemporaneità. Questa doppia qualità, dove alla cultura del fare nella lavorazione del mobile classico, ben conservata e praticata, si univa il progetto contemporaneo, rappresentò una forte attrattiva per molti progettisti. Nacquero così numerose collaborazioni con architetti per la realizzazione di oggetti o intere collezioni per alberghi, come quelle progettate da Philippe Starck e Nigel Coats, a cui seguirono progetti di autori italiani conosciuti per il loro impegno di sperimentazione e innovazione nel mondo del design come Ferruccio Laviani e Aldo Cibic. Oggi l’azienda, animata soprattutto dall’architetto Alberto Boffi, ultimo della generazione, si colloca tra le imprese con un alto valore di capacità e disponibilità verso una progettazione che guarda alla committenza sempre più internazionale, senza perdere la propria fisionomia di azienda artigiana legata a un nostro territorio di grande tradizione. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Riproduzione del dipinto Ragazza con l’orecchino di perla di Jan Vermeer (1632-1675). Commesso fiorentino in pietre dure su marmo nero del Belgio.

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Grandi famiglie artigiane artefici di bellezza:

i maestri Traversari La peculiarità che rende pressoché unica questa storica bottega fiorentina è la perizia artigianale dei suoi maestri nel padroneggiare ben tre tecniche dell’arte musiva – il commesso fiorentino, il mosaico in tessere e il micromosaico – perpetuando in poetiche creazioni un’abilità esclusivamente manuale rimasta invariata nei secoli.

di Maria Pilar Lebole

La famiglia Traversari è impegnata nella lavorazione del mosaico a Firenze da quattro generazioni. L’attività fu avviata da Arturo, nell’ultimo quarto del XIX secolo, con una bottega di souvenir di bigiotteria, realizzati in mosaico di pietra, destinati a un’élite di acquirenti, spesso stranieri. Attraverso quei raffinati oggetti i turisti più sensibili conservavano un tangibile ricordo, “in piccolo”, di quanto ammirato e apprezzato durante il Grand Tour italiano:

monumenti, rovine classiche, paesaggi, scene di vita popolare o soggetti botanici come il giglio, l’iris (o giaggiolo) e la rosa, simboli di Firenze. Erano gli anni in cui la cultura artistica italiana riscopriva, sia per la complessa lavorazione sia come espressione figurativa, l’arte musiva di tradizione romana e bizantina, ricercando le originali materie prime, le cave e i luoghi di estrazione, oltre al recupero manuale delle tradizionali tecniche di preparazione e di composizione, rimaste invariate nei secoli. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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L’abilità manuale si univa all’inventiva, alla capacità disegnativa e all’acquisizione di una perizia artigianale che consentiva di operare nel pieno rispetto della composizione delle pietre, delle singole caratteristiche e della potenzialità espressiva determinata dalla compattezza o dalla fragilità, dalle variazioni cromatiche e dalle sfumature modulate dal taglio e dall’incidenza della luce sulle superfici con venature di diversa cromia. Quella maestria e sensibilità, acquisita con il tempo, dava vita a oggetti ornamentali adeguati alle esigenze e al gusto revivalistico di tardo Ottocento, che riscopriva l’arte musiva come espressione artistica capace di sofisticate soluzioni decorative, ma anche in grado di restaurare opere musive danneggiate dal tempo, di integrare le parti mancanti o cadute o anche creare copie perfette di celebri opere pittoriche e di manufatti lapidei, conservati nei musei pubblici e privati, di Firenze. L’arte musiva era, infatti, fortemente radicata in ambito fiorentino, dove sono conservate opere di grande valore come, citando solo alcuni esempi noti, i suggestivi reperti nella chiesa di Santa Reparata, antica cattedrale di Firenze, i mosaici del Battistero, le opere quattrocentesche volute da Lorenzo il Magnifico come la Porta della Mandorla, su disegno di Domenico Ghirlandaio, attraverso un percorso artistico che si dipana nei secoli che ebbe per fulcro le botteghe medicee degli Uffizi, poi divenute, alla fine del XVI secolo, manifattura delle pietre dure o Galleria dei Lavori, trasformata alla fine del Settecento in Opificio delle Pietre Dure, con sede in via degli Alfani. È questo articolato background artistico che fa da sfondo all’attività svolta nei decenni dai Fratelli Traversari: Alfredo e Aldo, succeduti al padre Arturo, trasferirono l’attività a Porta Romana, poi seguiti dalla nuova generazione di Franco, attualmente intrapresa dai figli Daniele, Letizia e da Lorenzo, figlio di Aldo, coadiuvati da qualificati maestri, artefici di un settore artigianale che opera esclusivamente con tecniche manuali. È il materiale altamente selezionato in

gran parte proveniente dall’area fiorentina e toscana, unito alla straordinaria qualità artigianale, a distinguere il prodotto “made in Florence”, prima ancora che made in Italy. Attualmente la famiglia Traversari realizza bigiotteria in mosaico su base di ottone e di argento e mosaici artistici di vario soggetto: botanico e floreale, paesaggistico, o composizioni che sono l’esatta riproduzione di celebri dipinti. I maestri padroneggiano con eccellenza tre distinte tecniche, che tutte necessitano di grande competenza e capacità artistica. Il mosaico in pietre dure naturali (calcedoni, diaspri, lapislazzuli, malachite...) e marmi di selezionata qualità, riprende la tradizione cittadina del commesso fiorentino, ossia di pietre unite per formare un motivo decorativo. Le pietre sono tagliate utilizzando tradizionali strumenti, come l’archetto in legno munito di filo di ferro e polveri abrasive, poi unite e lucidate, dando vita a sfumature cromatiche e giochi di ombre e di luce propri della naturale composizione delle pietre dure. La seconda tecnica impiegata è il mosaico in tessere quadrangolari di vetro, esclusivamente di Murano, di derivazione bizantina, che creano cromatismi modulati dall’incidenza luminosa. Sono impiegati due diversi procedimenti: l’applicazione “al rovescio” delle tessere, fissate su un supporto cartaceo, poi capovolto, e la tecnica “diretta” che, invece, le fissa su una base di stucco. La storica bottega ha inoltre ridato vita alla tecnica tardo settecentesca del micromosaico, o mosaico minuto, utilizzando vetro smalto ovvero pasta vitrea, unita a ossidi metallici di Murano trasformato o meglio filato, con un delicato procedimento di rifusione, in sottili bacchette dette “teghe” per realizzare minuscole tessere. Queste sono disposte verticalmente per disegnare il motivo decorativo prestabilito in base alle diverse tonalità e, infine, pareggiate in orizzontale per ottenere una superficie liscia. Grande tecnica e maestria sopraffina dunque in questo storico atelier fiorentino, che ci riporta alla magnificenza delle botteghe medicee e ci incanta con le sue poetiche e delicate creazioni, frutto di un magistero incomparabile ancora apprezzatissimo in tutto il mondo, fiore all’occhiello della “grande bellezza” italiana.

Grande tecnica e maestria sopraffina che ci riporta alla magnificenza delle botteghe medicee, frutto di un magistero incomparabile ancora apprezzatissimo in tutto il mondo, fiore all’occhiello della “grande bellezza” italiana. 56


Pag. 58: riproduzione della Nascita di Venere di Sandro Botticelli (1445-1510). Vetro e smalto tagliato, cornice intagliata a mano e dorata a mecca. Qui: composizione di fiori con ovale in malachite. Commesso fiorentino in pietre dure su marmo nero del Belgio.

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CHITARRE da DINASTIA

Foto di Dario Garofalo per Italia Su Misura

Rosalba De Bonis nel laboratorio di famiglia insieme al marito Francesco, che da alcuni anni lavora in bottega con sua moglie e testa per primo tutte le sue chitarre.

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di Giuditta Comerci


Rosalba De Bonis tra le fasce di legno con cui costruisce le sue celebri chitarre battenti ci è nata. Nel quartiere della Giudecca di Bisignano, tra il Parco della Sila e quello del Pollino, Rosalba è la discendente di una dinastia secolare che ha mantenuto viva la costruzione di questo strumento e che ne ha sostenuto la presenza sul territorio.

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Nei gruppi folk la chitarra battente ha una inconfondibile sonorità, «come una risata, uno scroscio di pioggia o una cascatella, simile a uno zampillo ininterrotto d’acqua», nota la scrittrice Maria Scerrato. Ma si riconosce subito anche per le sue forme: dimensioni appena ridotte rispetto alla classica, spalle strette, cassa profonda a otto allungato, fondo bombato a fasce bicolore contrastanti. Mantiene anche segni distintivi della sua origine secentesca, dalla rosa traforata in pergamena o legno che chiude il foro di risonanza, a intarsi e decorazioni che spesso riportano i marchi distintivi del costruttore. Oggi è costruita quasi esclusivamente nel sud Italia, Calabria e Puglia in particolare; protagonista della musica di tradizione popolare, fatta di tarante, serenate e canzoni dialettali, sta conoscendo una vera rinascita a opera di alcuni musicisti calabresi consapevoli dell’unicità dello strumento. Cosa ben nota alla famiglia De Bonis, che le chitarre battenti le fa. Dal 1780, quando furono chiamati a Bisignano per rifornire di strumenti la vivace corte dei Sanseverino, il loro laboratorio sarebbe diventato un unicum per persistenza ed eccellenza costruttiva. Agli inizi del Novecento, Giacinto IV De Bonis (1892-1964) decide di promuovere gli strumenti della sua bottega in maniera più ambiziosa. Le sue chitarre battenti sono richiestissime, sia nella versione a cinque cori per musicisti esperti (dieci corde divise in cinque coppie), sia in quella a quattro corde, più popolare. Negli anni Quaranta, i figli Nicola e Vincenzo, dediti alla chitarra classica e alla liuteria antica e d’arte, prendono le redini dell’azienda: la notorietà del loro talento si diffonde in modo talmente rapido che i loro nomi vengono inscritti già dal 1951 nel Dictionaire universel des luthiers di René Vannes. Bisignano diventa luogo di pellegrinaggio per i più importanti musicisti italiani e stranieri e Rosalba, nipote di Vincenzo e Nicola, oggi anch’essa in bottega, ricorda nella sua infanzia un viavai di persone, lingue e dolci. Molti dolci, nel più autentico spirito di accoglienza calabrese. Rosalba cresce tra i profumi dei legni, gli attrezzi di bottega, le discussioni tra i fratelli e tanto suono: perché chiunque arriva prova gli strumenti, ma anche perché Nicola e Vincenzo sono raffinati musicisti e il piacere per il suono sconfina nell’arte musicale tanto quanto in quella liutaria. Si avvicina però agli strumenti di lavoro solo a ventisei anni, dopo aver sognato chitarre dorate da abbracciare: «Sono entrata in bottega il mattino dopo e non ne sono più uscita», ricorda. «Zio Vincenzo aveva un carattere impraticabile: quando ha capito che ero interessata, ha sottolineato che ero femmina, grande d’età e mancina! Per due anni ho solo guardato, senza poter fare domande». I primi ostacoli e pregiudizi arrivano dunque a Rosalba dalle stesse mani preziose che poi, testate le intenzioni

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e la perseveranza, le avrebbero insegnato il mestiere. Decide di studiare alla Scuola Internazionale di Liuteria di Cremona, scoprendo i fondamenti scientifici della tradizione familiare, le specificità tecniche e perfino una “vicinanza” a Venezia fino ad allora solo ipotizzata: i termini calabresi usati per la chitarra battente sono affini ai veneziani e il sistema di assemblaggio del fondo ricorda quello delle gondole. Rientrata a Bisignano, Rosalba si accorge che la chitarra battente è “sua”: «Quando senti che le mani fanno quello che la testa pensa, senza dover immaginare un passaggio o una presa, allora capisci che il mestiere ti è entrato nella carne. Così, la liuteria mi ha cambiata come donna: quello che in me è femminile entra nelle mie chitarre. Le battenti, settantacinque da quando costruisco in autonomia, sono le più note e apprezzate. Ma sono molto legata anche alle classiche». I legni della Sila usati – abete, castagno, noce, pioppo, ciliegio – sono ancora quelli del deposito della precedente generazione. Decine le forme storiche di famiglia a disposizione, così come le corde e la colla, di origine animale: a parte questa, tutti i pezzi sono tenuti insieme da assemblaggi e giunzioni particolari. Le catene (listelle di legno) interne alla cassa hanno specifiche posizioni nelle chitarre De Bonis, per una funzione acustica oltre che di sostegno. La ricerca sulle vernici, che lucidano gli strumenti ma ne influenzano anche il suono, era stata per Nicola una sfida sottile, accurata, e ancora oggi le chitarre De Bonis vengono eccezionalmente lucidate più volte, manico compreso: «Lo strumento deve splendere, come da migliore tradizione italiana, perché deve essere un gioiello in ogni suo aspetto». Le battenti De Bonis hanno raggiunto palcoscenici notevoli, tra i fratelli Bennato e Francesco Loccisano, quest’ultimo ricercatore di suoni e linguaggi innovativi nonché promotore di nuove musiche. Rosalba gli è stata fondamentale, racconta, per tentativi di innovazione strutturale che consentissero allo strumento maggiori virtuosismi esecutivi, leggerezza e stabilità al cambio di clima, in viaggio e sotto i riflettori. «Rosalba mi ha dato l’opportunità di sperimentare, un assist fondamentale», spiega Loccisano, che ha poi raggiunto l’obiettivo finale grazie all’amico liutaio Sergio Pugliesi di Scilla. Oggi Chitarra battente è un corso accademico al Conservatorio di Nocera Terinese e riscontra uno straordinario interesse in giovani chitarristi e compositori: una rinascita inaspettata, anche grazie alla caparbietà di chi ha continuato non solo a costruire questo strumento, ma a riportare in ogni pezzo amore, cura e bellezza. Il metodo e la fama di Nicola e Vincenzo De Bonis innervano il Museo della liuteria a Bisignano, ma soprattutto innervano le mani e lo spirito vivace di Rosalba De Bonis, trentatreesima liutaia della sua dinastia: donna e mancina, nel cuore della Calabria.


Gli strumenti di lavoro (a sinistra) mostrano con immediatezza la totale egemonia della mano nella produzione liutaria dei De Bonis e l’esclusività dell’utensile meccanico. In evidenza, la tavola armonica di una chitarra.

A sinistra: la forma interna di una chitarra battente, consegnata a Rosalba dal celebre zio Vincenzo De Bonis nel 1996. Sopra: il laboratorio di Rosalba De Bonis, nel quartiere Giudecca di Bisignano in Calabria.

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Le

MAIOLICHE dei

FARNESE Sensibili estimatori dell’arte ceramica, i Farnese furono importanti committenti delle più fiorenti botteghe maiolicare del Cinquecento. I servizi delle loro ricchissime collezioni costituiscono ancora oggi un’affascinante rassegna degli stili figurativi in voga nel Rinascimento. Il MIC di Faenza custodisce alcuni pezzi commissionati dai Farnese che, tra tecniche all’avanguardia e segreti del mestiere, raccontano un’eccellenza italiana da riscoprire.

di Valentina Mazzotti

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Nel corso del Rinascimento prelati, principi e notabili di tutta Europa dotarono le loro dimore di splendidi servizi (“credenze”) in maiolica, che spesso furono preferiti al ben più pregiato vasellame in metalli preziosi.

Nel corso del Rinascimento prelati, principi e notabili di tutta Europa dotarono le loro dimore di splendidi servizi (“credenze”) in maiolica, che spesso furono preferiti al ben più pregiato vasellame in metalli preziosi, complice la diffusa opinione che i cibi avessero un «migliore sapore nei piatti di terra che in quelli d’argento», come riferisce Giuseppe Campori nelle sue Notizie storiche e artistiche della maiolica e della porcellana di Ferrara nei secoli XV e XVI (Modena 1871, p. 25). La credenza era dunque la più tipica espressione del vasellame di pregio (“da pompa”) della produzione del XVI-XVII secolo, imbandita sulla tavola in occasione di importanti banchetti per celebrare il fasto e il potere del dignitario e del suo casato, anche attraverso la presenza delle divise araldiche della nobile famiglia. Al fascino delle credenze maiolicate fu particolarmente sensibile il casato dei Farnese, originario della Tuscia, che rivestì un ruolo di notevole rilevanza militare, politica e religiosa nell’Italia del Rinascimento, raggiungendo il suo apice nel 1534 con l’elezione al soglio pontificio del cardinale Alessandro Farnese (1468-1549) con il nome di Paolo III. La ricca e multiforme committenza farnesiana coinvolse le più fiorenti botteghe maiolicare del Cinquecento, soprattutto dell’Italia centrale, come ben documenta un superbo piatto da pompa delle collezioni del Museo Internazionale delle

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Ceramiche in Faenza (MIC), prodotto dagli opifici del comune umbro di Deruta, al centro del quale campeggia lo stemma di Papa Paolo III Farnese ed è dunque collocabile nel periodo del suo pontificato tra il 1534 e il 1549, anno della sua morte. Ancor più rilevante fu il coinvolgimento degli artefici urbinati che realizzarono per la famiglia Farnese importanti forniture di vasellame “istoriato”, di gran successo nel corso del Rinascimento, dipinto con scene mitologiche e di storia antica, spesso abbinate a “grottesche” (o “raffaellesche”) su fondo bianco, desunte dal ricco repertorio di pitture e stucchi degli ambienti ipogei (“grotte” per l’appunto) della Domus Aurea di Nerone a Roma e sfruttate da Raffaello e Giovanni da Udine negli affreschi delle dimore farnesiane e delle Logge Vaticane. Il coinvolgimentodei vasai del ducato di Urbino nella realizzazione delle maioliche per i Farnese è ricordato da Giorgio Vasari nella Vita di Battista Franco (Firenze 18781885, vi, pp. 581-583), che fornì i disegni preparatori delle “storie” per una preziosa credenza commissionata verso il 1548-1550 dal duca Guidubaldo II per il cardinale


Pag. 64: piatto con stemma prelatizio Farnese in maiolica “turchina”, Castelli d’Abruzzo, fine XVI-XVII secolo. Faenza, MIC (foto Faenza, MIC). A sinistra: rinfrescatoio “a navicella” con stemma del cardinale Alessandro Farnese in maiolica “turchina”, Castelli d’Abruzzo, 1580-1589 circa. Faenza, MIC (foto Faenza, MIC).

Alessandro Farnese (15201589), nipote di Papa Paolo III, a conferma delle strette relazioni già consolidate nel 1548 con il matrimonio tra il duca stesso e Vittoria Farnese, sorella del cardinale. A partire dalla metà del Cinquecento il mecenatismo farnesiano si rivolse anche ai maiolicari faentini, artefici all’epoca della fortunata moda dei “bianchi” in stile “compendiario”, connotati dallo smalto bianco latteo di grosso spessore e da esiti pittorici essenziali nella cromia (blu, due toni di giallo e talvolta bruno) e nel segno di estrema finezza grafica. L’apprezzamento per i bianchi di Faenza in Italia e all’estero fu tale che si iniziò a identificare le maioliche con il neologismo faïence, diffusosi in Francia e in tutta Europa a partire dai primi decenni del XVI secolo. Le maioliche bianche non potevano dunque mancare nelle dotazioni farnesiane e nel 1587 ne venivano registrate, presso la corte ducale a Parma, ben quattro per un totale di 162 pezzi. L’apprezzamento dei Farnese per la tipologia “compendiaria” si manifestò anche sul fronte delle maioliche “turchine”,

rivestite da uno smalto dalla colorazione blu lapislazzuli, che connotò la produzione barocca del piccolo centro di Castelli d’Abruzzo. Una credenza in maiolica turchina venne elaborata per il cardinale Alessandro Farnese nel 1574, stando alla data riportata su alcuni esemplari conservati nelle raccolte di Capodimonte a Napoli, decorati in bianco e oro su smalto blu e recanti lo stemma del cardinale. Questo primo servizio fu forse suscettibile di integrazioni successive in considerazione delle differenze stilistiche riscontrabili sui manufatti superstiti, eseguiti a più riprese presumibilmente entro il 1589, anno della scomparsa del cardinale. Appartiene a questo nucleo il sontuoso rinfrescatoio del MIC di Faenza con lo stemma cardinalizio alle due estremità, che gemella con un altro esemplare del tutto simile delle raccolte dell’Ermitage di San Pietroburgo. La foggia della maiolica è animata da baccellature ed elementi modellati in rilievo quali mascheroni e volute, che concorrono a incrementare la fastosità del manufatto in linea con il gusto manierista e barocco dell’epoca. Presso il Museo di Faenza sono conservati anche alcuni piatti turchini con stemma prelatizio farnesiano, per i quali la decorazione più corrente potrebbe giustificare una datazione più tarda, ad attestare una ripresa più seriale di questa fortunata tipologia.

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COLLEZIONI

Fulvio Ronchi all’interno della sua casa: ovunque sono protagoniste le mani, qui esposte sulla libreria e sul tavolo del soggiorno. Accanto a lui, una mano in lamiera di ferro, alta 190 cm, opera dell’artista Guido Scarabottolo.


Il collezionista

Mani di

Migliaia di mani, tra sculture, ex voto, gadget, fotografie e opere d’arte animano la casa milanese di Fulvio Ronchi, singolare globe trotter e cultore delle arti applicate, dando vita a un cabinet de curiosité contemporaneo e ricco di suggestioni.

di Marina Jonna Foto di Filippo Bamberghi

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Fulvio Ronchi più che un collezionista si definisce un comunicatore: «Sono un grafico della rinomata scuola milanese e ho avuto la fortuna di lavorare per grandi aziende che hanno fatto della comunicazione istituzionale il loro successo: parlo, tra le altre, di Olivetti e Fiat. Parallelamente mi sono occupato dell’art direction di diverse mostre, tra cui quelle su Donizetti, Caravaggio e Lorenzo Lotto», racconta con l’entusiasmo che lo contraddistingue. Questo spiega il perché, nella sua vasta e multiforme collezione, le mani scelte sono concepite come una forma d’arte applicata: dei veri e propri veicoli di comunicazione. Per questo collezionista, quasi un giramondo “trovarobe” dalla curiosità insaziabile, la mano è qualcosa di magico e affascinante in tutte le sue manifestazioni, anzitutto come strumento di espressione dell’homo faber in molteplici civiltà e aree del mondo. «La passione è nata trent’anni fa. Avevo realizzato l’Enciclopedia dell’automobile per la Fiat e avevo cercato e raccolto la rappresentazione dell’auto nei contesti più disparati: nel fumetto, nella grafica, nello spettacolo, negli oggetti e nella cultura popolare. Una collezione sfociata poi nella mostra Pop car a Torino. Subito dopo un mio cliente milanese, mobiliere che aveva all’interno della sua impresa diverse maestranze, mi chiese un’idea legata alla sua attività e all’artigianato: ho subito pensato all’occhio e alla mano.

Ai lati, due pollici inclinati verso l’esterno e di uguale dimensione. Spesso è decorata da incisioni, le più caratteristiche quelle della versione musulmana e di quella ebraica, rispettivamente con un occhio aperto (l’Occhio di Allah) e una Stella di David nel palmo. Le cinque dita (hamesh in ebraico) simboleggiano i cinque libri della Torah, o anche la HE, quinta lettera dell’alfabeto, nonché uno dei nomi di Dio. Da qui il viaggio e l’amore per la mano hanno portato Fulvio Ronchi in America Latina, dove ha incontrato la Mano Poderosa, che rappresenta la mano destra di Dio con le dita tese in posizione verticale e il palmo, con stimmate, disposto di fronte allo spettatore. Questa immagine popolare, originaria del Messico e del Brasile, diventa Milagros in Cile ed è spesso raffigurata sui santini religiosi o sui ceri votivi. In Europa invece, Ronchi riscopre, in particolare, quattro speciali declinazioni del tema: gli ex-voto, presenti in moltissimi santuari, tra cui quello di Custoza che ne contiene più di 5000 in cera; i reliquiari, ovvero le mani dei Santi, presenti in Italia, Francia, Spagna e Germania; il Mutuo Soccorso, tipico della cultura popolare, rappresentato da mani che si stringono; la mano in Massoneria, come gestualità e patto di alleanza. Fulvio Ronchi ti travolge letteralmente nei suoi racconti, che passano da un luogo all’altro, da una cultura all’altra,

«L’uomo pensa perché ha le mani», scrisse Anassagora nel V secolo a.C. Ma quest’ultima l’ho tenuta per me». Da qui è iniziata la sua ricerca in giro per il mondo, dove ha viaggiato incessantemente visitando biblioteche, prima, e Paesi, poi, che lo avrebbero portato a indagare i significati della mano che, di volta in volta, incontrava: 47 i luoghi visitati e ben 43 le categorie delle mani rappresentate nella sua inedita e unica collezione. «Le prime raffigurazioni di mani che ho visto riguardavano l’arte preistorica ed erano nelle grotte di Gargas, nel sud della Francia. Subito dopo, seguendo lo stesso filone, ho visitato la Cueva de Los Manos, in Argentina, incisioni rupestri che trasmettono l’archetipo della mano nei suoi significati più ampi: la guerra, il cibo, i rapporti personali. Da qui ho continuato il mio viaggio alla ricerca della mano nelle diverse culture e sono arrivato alla Mano di Fatima, attraversando Egitto, Libia e Marocco, incontrando tantissime variazioni sullo stesso tema». La Mano di Fatima assume diversi nomi (Mano di Alo, o Hamsa o Khamsa) ed è un amuleto antico, legato a religioni e culture diverse, ciascuna delle quali gli ha conferito un significato e una valenza differenti. Ha la forma di una mano con cinque dita, dove l’indice e l’anulare hanno la medesima lunghezza e sono attaccati al medio, appena più lungo. 68

con un orientamento apparentemente non sistematico e non organizzato ma in realtà basato su continue corrispondenze e rimandi, anche attraverso i moltissimi libri della sua biblioteca, che ha letto tutti: da Desmond Morris, maestro nell’indagare le gestualità, a Bruno Munari, con Il dizionario dei gesti degli italiani. E ti trascina anche nella musica, parlando di Guido D’Arezzo, inventore della “Mano Guidoniana”, su cui si basa la melodia barocca. «Consultando diversi libri ho incontrato una miriade di interpretazioni, significati, simbologie della mano, che ho poi diviso in categorie. Da questi studi, da queste suggestioni iniziano i viaggi per scoprire sul campo cosa è rimasto di certe culture: non solo oggetti, opere di artigianato e d’arte applicata, ma anche dipinti, sculture, iconografie». In India l’incontro emozionante con la Mano del Sati, il suicidio d’amore. «Le mogli del Maharaja venivano rinchiuse in una stanza e lasciavano l’impronta della loro mano sul muro prima di immolarsi sulla pira del marito defunto», ci racconta. La sua casa è una vera e propria Wunderkammer, dove a ogni angolo sono esposte le sue mani, straordinarie per le loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche: dalle opere più di valore, come gli archetipi di Giò Ponti, alle mani Pop della


In senso orario (da destra): bacheca con esposte mani in metallo; spilla vintage in bachelite di Lanvin, Parigi; litografia in metallo, Edimburgo. Subito sotto, mano Poderosa in gesso e colori acrilici, Caracas.

Al centro, un insieme della collezione nella libreria del soggiorno. Pipa a due mani in terracotta e ceramica, Vienna; accanto, mano Milagros in latta dipinta, Messico; sopra, simbolo dell’amicizia Italia/Cina, Milano; mano in metallo Omaggio a Gio Ponti, Firenze.

Coca-Cola. Una raccolta fantastica e fascinosa, d’arte e di etnoantropologia, che unisce luoghi e simboli, intorno a una magnifica ossessione: quella per la mano umana, con il suo incredibile mondo di funzioni, simboli e allegorie. Lo strumento attraverso il quale lasciamo una traccia indelebile nel mondo. «Non c’è un ordine cronologico o di significato. La mia collezione racchiude circa 1000 sculture e più di 1500 documenti iconografici. Ne espongo solo

alcune, le altre sono racchiuse in scatole e riposte in attesa di poter realizzare i miei sogni: un museo della mano, quello più pretenzioso, o una mostra o un libro. Sono un comunicatore e la mia raccolta nasce per poter essere raccontata al pubblico». Ma per il momento le sue migliaia di mani riposano indisturbate nel suo cabinet nel cuore di Milano, a formare le quinte di un teatrino fantastico, degno scenario di un Jules Verne contemporaneo. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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In piena

Nell’antico edificio che si affaccia sul Rio dei Vetrai, a Murano, interamente riprogettato per trasferire nel futuro i settecento anni di storia di Barovier & Toso, l’incanto dell’arte del vetro soffiato rende omaggio al talento degli artigiani e all’isola che tutela un patrimonio unico al mondo.

LUCE di Alberto Cavalli

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Sabbia, aria, fuoco. Questi sono gli elementi di cui è costituito il vetro. E ad essi Rinaldo Invernizzi, presidente della leggendaria vetreria muranese Barovier & Toso, ne aggiunge un quarto: il talento. Perché senza il talento, l’abnegazione, l’appassionata creatività dei maestri soffiatori del vetro, che trasformano una materia iridescente e informe in un magnifico oggetto trasparente, la fama dell’isola di Murano non sarebbe esistita. E con i suoi 700 anni di storia, Barovier & Toso (fondata sull’isola lagunare nel 1295) ha sempre seguito passo passo le sorti, le vicende e la progressiva evoluzione di Murano, che in tutto il mondo è simbolo assoluto del vetro artistico soffiato a bocca. Celebrata per i suoi monumentali lampadari a gocce che evocano gli splendori dell’età d’oro di Venezia, e al tempo stesso estremamente attenta alle tendenze contemporanee, Barovier & Toso ha deciso di recente di mostrare al mondo la propria identità nel luogo che è stato testimone della sua nascita e del suo successo: Murano, naturalmente. Qui i maestri soffiatori erano custoditi dalla Serenissima come un segreto di Stato; coloro che accettavano l’offerta di andare all’estero per rivelare i segreti del vetro di Murano venivano perseguiti o – secondo una cruenta diceria - addirittura uccisi dagli emissari della Repubblica

di Venezia. La maestria artigianale costituiva infatti un vantaggio competitivo e un fattore di prestigio nazionale e come tale veniva preservata e protetta. Oggi il vetro di Murano sta senza dubbio attraversando un periodo difficile: assediato da altri tipi di produzione, minacciato dalla carenza di artigiani, continua comunque ad attrarre artisti e designer di talento e tuttavia corre il rischio di perdere il lustro che l’ha contraddistinto per secoli. Per dare nuova vita a una prerogativa riconosciuta in tutto il mondo, che ora però necessita di un’iniezione di energia, Barovier & Toso ha deciso di investire nell’isola che le ha dato i natali aprendo uno spazio spettacolare e senza precedenti, dove narrare la propria storia, ricevere i clienti, celebrare la gloria di Murano. Palazzo Barovier & Toso, che si affaccia sul Rio dei Vetrai, è un luogo unico nel suo genere: su un’area di oltre 900 metri quadri la magia del vetro coesiste sia con la splendida tradizione dell’azienda, sia con le sue luminose (in tutti i sensi) prospettive per il futuro. Interamente riprogettato dallo studio di architettura Calvi Brambilla, Palazzo Barovier & Toso ospita anche straordinarie opere d’arte di Jason Martin, Brigitte Kowanz e Astrid Krogh. «La nostra sede precedente era molto piccola», ammette Rinaldo Invernizzi. «Abbiamo quindi MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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fatto del nostro meglio per trasformare un’esigenza in un’opportunità. L’ispirazione per il Palazzo è scaturita da quattro elementi che io considero i pilastri della nostra azienda. Prima di tutto, la nostra storia: con alle spalle settecento anni di presenza ininterrotta a Murano e nel mondo, abbiamo una vicenda grande e autentica da raccontare. In secondo luogo, il nostro essere veneziani, le nostre radici: ci troviamo infatti nella felice posizione di poter legittimamente vantare questa origine. A ciò si affianca la necessità di catturare sempre uno spirito contemporaneo, lo spirito dei tempi: volevamo sottolineare questo tratto distintivo anche disseminando opere d’arte nello showroom. Un equilibrio delicato ma cruciale tra elementi storici e attuali, che ritengo abbia trovato un’ottima sintesi nelle armoniose proposte dei nostri architetti Calvi e Brambilla. Infine, avevamo l’esigenza di esporre e valorizzare al meglio i nostri pezzi: in realtà, la vocazione ultima di un Palazzo così complesso e articolato è dialogare con i suoi contenuti, porsi per così dire al servizio degli oggetti. E poi, a livello personale, volevo fortemente creare qualcosa di bello, che non fosse mai esistito prima». Particolarmente attiva in Russia, Cina e Stati Uniti, Barovier & Toso (che è comunque presente in oltre ottanta Paesi) dedica questo Palazzo ai suoi clienti speciali, quelli che hanno fatto proprio l’autentico spirito del marchio: uno spirito che si concretizza alla perfezione nel lampadario a gocce Taif che fa bella mostra di sé nell’ingresso – un pezzo monumentale creato nel 1980 per una residenza reale in Arabia Saudita. Il primo piano ospita una serie di spazi monocromi dedicati alle cinque principali tonalità di Barovier: blu, nero, oro, rosso e bianco. Ogni sala propone esempi di ciò che i maestri soffiatori del vetro sono in grado di fare quando reinterpretano la tradizione o quando lavorano fianco a fianco con un designer. Un’esibizione di maestria artigianale che non ha eguali. Un soffiatore può infatti essere considerato un maestro solo dopo anni di esperienza e di pratica: il suo è un lavoro che si apprende sul campo, cercando il più possibile di carpire insegnamenti da chi è più esperto. Barovier & Toso ha scelto di investire per traghettare quest’arte dal mondo di oggi verso

il futuro. A tale scopo forma nuovi apprendisti scegliendoli tra i talenti più promettenti e affiancandoli a maestri soffiatori qualificati, che lavorano da anni nelle fornaci dell’azienda. Maestri che mettono la loro competenza a disposizione di giovani di talento, i quali un giorno prenderanno il loro posto perpetuando nel tempo il loro know-how. Ulteriore e straordinario esempio di questa destrezza, di questa perizia e di questo talento che si riverberano nel contemporaneo, permettendo alla tradizione muranese di esprimersi in forme suggestive e atemporali, è la nuova collezione di lampadari denominata emblematicamente Venezia 1295. La collezione, che comprende 4 lampadari e una lampada da parete, esalta il motivo del “rostrato”: una tecnica inventata direttamente da Ercole Barovier quasi cento anni fa, che permette di esaltare la tridimensionalità degli elementi in vetro e che si innesta nella ricca eredità di scoperte e intuizioni degli “antichi” Barovier. Artigianalità e design, splendore e tecnologia continuano a guidare i visitatori che hanno accesso al piano superiore. Qui, nei saloni coi soffitti dalle travi a vista, sono esposti i grandi lampadari a gocce realizzati in tutti gli stili che Barovier & Toso padroneggia – ossia, una suggestiva linea che si snoda tra il Barocco e il futuro. La presenza di spazi dedicati al ricevimento dei clienti, come un caffè, è indice di come Barovier & Toso sia anche aperta ad accordi con altri marchi per un mercato contract, collaborando con brand della moda, hotel e ristoranti. Luoghi nei quali i magnifici lampadari non sono solo oggetto di ammirazione ma strumento per consolidare l’identità dello spazio. Alla domanda se il Palazzo sia un punto d’arrivo o una nuova partenza, Rinaldo Invernizzi sorride e si riallaccia ai valori del marchio: «Questa è la nostra casa, un posto in cui accogliamo i nostri ospiti per mostrare loro chi siamo e in che cosa crediamo. Crediamo nell’eredità culturale: la capacità di trasmettere da una generazione all’altra la tradizione dell’arte vetraria. Crediamo nella passione: la bellezza, in questo campo, si può ottenere soltanto se metti davvero il cuore in ciò che stai facendo. E crediamo nell’eccellenza, che è ciò che Barovier & Toso garantisce in ogni singola fase del processo creativo e produttivo».

Pag. 72: sospensione New Felci a

Pag. 73: sospensione Hanami,

A destra, in senso orario (dall’alto):

Particolare di un lampadario

sette livelli, vera cascata di luce

in cristallo veneziano trasparente e

lampadario Taif a 76 luci in cristallo

della collezione Rosati dalle linee

composta da foglie in cristallo

bianco: successione di bolle soffiate

veneziano oro, realizzato per il

sobrie. Il lampadario Venezia 1295,

veneziano arricciate alle estremità.

a bocca e lavorate a mano.

palazzo reale di Taif. Un dettaglio della

caratterizzato dallo spettacolare

lavorazione artigianale in fornace.

rostrato tipico di Barovier & Toso.

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MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Cuore artigiano MECENATISMO E IMPRESA

di Giulia Crivelli

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Gli eventi legati alle collezioni di alta moda, alta sartoria e alta gioielleria di Dolce & Gabbana sono un trionfo della perizia artigianale, di quel “fatto a mano” legato alla vocazione originaria che batte nel cuore della maison fin dalle origini. Da 35 anni e oggi ancor di più, la grande manualità della tradizione italiana è al centro del messaggio lanciato dai due stilisti alle nuove generazioni, perché abbiano il coraggio di scegliere la strada emozionante e bellissima del lavoro artigiano.

CRAFTS

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Questa è la nostra casa, un posto in cui accogliamo i nostri ospiti per mostrare loro chi siamo e in che cosa crediamo. Crediamo nell’eredità.

Avete mai avuto il piacere, la fortuna, il tempo di ascoltare un artigiano che racconta come ha creato l’oggetto che state per comprare o che avete commissionato o che magari sta per esservi regalato? È un’esperienza bellissima: ci porta nel mondo di chi lavora stabilendo una connessione tra mente, cuore e mani. Per questo a volte si parla di mani sapienti, ma l’espressione a guardar bene è riduttiva. Non si tratta solo di mani: sono i gesti e i movimenti tutti degli artigiani a essere sapienti. Sentire Domenico Dolce e Stefano Gabbana che parlano delle loro collezioni, nel backstage, a pochi minuti dall’inizio di una sfilata o di un evento è un’esperienza molto simile ad ascoltare un artigiano nella sua bottega. I due stilistiimprenditori amano raccontare il lavoro artigianale, invisibile agli occhi dei più, che c’è dietro ogni abito o accessorio, come se l’avessero fatto loro. In parte, allargando lo sguardo, è proprio così. Primo, perché anche il disegno, lo schizzo, la traduzione di un’idea sulla carta è un atto di artigianalità, oltre che di creatività. Secondo, perché sono Domenico e Stefano a sostenere, incoraggiare, a volte scovare, in giro per l’Italia, le mani sapienti che, di stagione in stagione, senza soluzione di continuità, contribuiscono a dare forma e vita a una collezione. Nel caso di Domenico c’è poi un altro elemento. A ricordarlo sempre è Stefano, sorridendo: «Faceva il sarto ancora prima di nascere: credo che sua mamma abbia lavorato fino a poche ore dal parto ed era proprio una sarta, bravissima. Domenico è artigiano nel Dna e poi per vocazione e formazione». Dolce & Gabbana oggi è uno dei primi cinque gruppi italiani della moda, con un fatturato di circa 1,3 miliardi e, solo nel nostro Paese, dà lavoro direttamente a oltre mille persone. Ma lo spirito dei due fondatori – e questo è la forza del marchio – è lo stesso del 1985, quando organizzarono la prima sfilata. «All’inizio, parliamo di oltre 35 anni fa, avevamo pochi soldi ed era importantissimo usarli bene, dando priorità molto nette. Una di queste era creare uno spazio per le nostre sarte che fosse il più accogliente e luminoso possibile. All’epoca tutto ciò che aveva l’etichetta Dolce & Gabbana era fatto a mano al 100% praticamente sotto i nostri occhi», ricordano Domenico e Stefano. «Oggi questo non accade più, ovviamente, tranne che per le collezioni di pura artigianalità, quelle di alta moda, alta sartoria, alta gioielleria e alta orologeria. Non è pensabile fare tutto a mano non soltanto per una questione di costi e di prezzi finali, ma anche per i tempi che l’artigianalità richiede per sua natura. Il numero di capi e accessori di prêt-à-porter che dobbiamo garantire ai vari canali 76

di distribuzione in tutto il mondo non è compatibile con il numero di artigiani che esistono e che hanno i loro tempi, tempi che non è possibile e non sarebbe giusto forzare». Le collezioni fatte a mano di alta moda (donna) e sartoria (uomo) e di alta gioielleria e orologeria sono un’avventura creativa iniziata nel 2012 e da allora vengono presentate due volte all’anno con eventi itineranti, ma rigorosamente in Italia. Eventi speciali che durano un giorno e sono pensati per regalare ai clienti di tutto il mondo autentiche esperienze di vita e stile italiani. Lo spunto sono vestiti e accessori, ma tutt’intorno Domenico Dolce e Stefano Gabbana – e le migliaia di persone chiamate e dare un contributo – costruiscono una sorta di “mini Italia” fatta di artigiani di ogni tipo e, naturalmente, di unicità enogastronomiche e persino musicali. Qualcosa di queste esperienze e collezioni fatte di pezzi unici si trasferisce comunque al prêt-à-porter. «Pensiamo che in qualsiasi capo o accessorio Dolce & Gabbana, da donna, uomo o per bambini, si percepisca questo spirito artigianale, di fatto a mano, di tradizione tramandata di generazione in generazione. Si percepisce perché è davvero così, per tutto: dagli abiti alle calzature, passando per occhiali, bijoux, gioielli, orologi e persino per le linee di beauty», sottolineano Domenico e Stefano. «È parte del successo e della crescita del nostro brand, è un legame con clienti della prima ora, fino a quelli conquistati più di recente, basato sulla coerenza di fondo. Le nostre campagne di comunicazione riflettono questi tratti, diciamo così, caratteriali, ma se sotto non ci fosse la sostanza non basterebbe». Per concludere, un sogno. Anzi, un auspicio: «Negli ultimi anni, complici forse le tante crisi economiche vissute in Occidente e la situazione occupazionale così difficile nel nostro Paese, abbiamo visto un ritorno di interesse per i lavori artigianali, nei giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Al di là della formazione ricevuta e degli studi compiuti, chi inizia un percorso di professione artigianale capisce quasi subito che si tratta di una strada bellissima e di grande soddisfazione personale nonché economica», spiegano i due stilisti. Ed ecco il sogno: che nasca un passaparola, anche attraverso i social network, che porti i più giovani ad aspirare all’artigianalità. A farla, per così dire, e a possederla. «Ci piacerebbe che tutti desiderassero abiti e accessori che hanno e raccontano una storia e che quindi possono durare nel tempo. A quel punto, davvero, potremmo fare tutto a mano, contribuendo a una sorta di rinnovato Rinascimento, dell’artigianato e della cultura».


A sinistra: Stefano Gabbana e Domenico Dolce (foto Domen/Van de Velde). Sotto: una delle teche allestite presso Palazzo Clerici, a Milano, che nel dicembre 2019 ha ospitato la presentazione dell’alta gioielleria (foto Dolce & Gabbana).

Da sinistra: un abito di alta moda ispirato alla Tosca di Giacomo Puccini, parte della collezione che ha sfilato il 6 dicembre 2019 sul palcoscenico del Teatro alla Scala (foto d’apertura); un momento della lavorazione a mano dei ricami degli abiti di alta moda (foto Susanna Pozzoli); un look della sfilata di alta sartoria del 7 dicembre 2019 alla Biblioteca Ambrosiana, insieme alla collezione di alta orologeria (foto Dolce & Gabbana).

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Nelle sue opere, Lucio Bubacco interpreta liberamente la religione cristiana e la mitologia classica o temi a lui cari come il viaggio e la lotta tra il Bene e il Male. Qui, Baccanale realizzato

TRADIZIONE E CONTEMPORANEO

in vetro a lume.

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Lucio Bubacco L’audacia nel movimento

La lavorazione del vetro a lume, presente in Laguna sin dal Rinascimento, grazie a Lucio Bubacco ha superato usi e concezioni tradizionali per raffigurare “l’impossibile”: la figura umana in movimento. Nelle opere dell’artista e maestro vetraio muranese, figlio d’arte (e di mestiere), il flusso di azioni ed emozioni riprodotte in figure ispirate alla cultura classica e alla mitologia continua la narrazione contemporanea di un viaggio immaginario, che grazie alla pandemia si è concluso con un nuovo, straordinario capolavoro.

di Jean Blanchaert Foto di Diego Lazzarini

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La chiamavano “Madre Bubacco”. Si era trasferita per matrimonio da Mazzorbo a Sant’Erasmo, isola della Laguna Veneta settentrionale detta “l’orto di Venezia”, la più prossima alla terraferma. L’invalidità che il marito si portava appresso dalla Grande Guerra era peggiorata col tempo e gli impediva di lavorare. Madre Bubacco manteneva i quattro figli portando verdure fresche a Tre Porti, sulla costa, vogando da sola alla valesana. Un pomeriggio di novembre inoltrato, sulla via del ritorno, fu colta dalla bora che alzava onde spaventose, cavalloni alti più di due metri. Affondò col suo sàndolo. Fu ritrovata sulla spiaggia, vicino ai remi spezzati. Siamo nel 1932: il destino dei Bubacco cambia per sempre. Quel giorno finisce anche l’infanzia di Severino, futuro padre di Lucio. All’età di otto anni, lui e suo fratello maggiore si devono preoccupare di guadagnare qualcosa per contribuire a mantenere loro stessi e le due sorelline piccole. Tutti i giorni vengono fatti salire su una barca di gente dell’isola che va a lavorare in fornace, a Murano. Partenza alle tre di mattina, ritorno alle cinque di pomeriggio. Sul grande sàndolo remano gli adulti mentre i bambini dormono. Un’ora e mezza all’andata, un’ora e mezza al ritorno. Severino, in vetreria, comincia da garzonetto e in vent’anni diventerà maestro. Col fratello apre una fornace e inventa l’effetto del vetro acquoso: i loro lampadari sembrano bagnati, e per questo vengono chiamati i “fratelli rugiada”. La vetreria ha molto successo, ma chiude a causa dei troppi furti subiti e di una cattiva amministrazione. Nel 1957, sei mesi prima della nascita di Lucio, il maestro Severino decide di partire per cercare fortuna all’estero. Comincerà a farsi conoscere all’Exposition Universelle et Internationale di Bruxelles nel 1958, ma ben presto si affermerà negli Stati Uniti. Celebri erano le sue esibizioni a Philadelphia, negli anni Sessanta, al John Wanamaker Department Store. Severino Bubacco aveva inventato un forno elettrico, conosciuto come “forno con muffola Bubacco”, grazie al quale poteva soffiare e raffreddare il cristallo al piombo lavorandolo come se fosse vetro e senza infrangere i regolamenti di sicurezza che non prevedevano l’uso del fuoco all’interno della magnifica Grand Court del Wanamaker. C’era la coda per aggiudicarsi le sculture realizzate che, grazie all’ingegnoso sistema di raffreddamento, potevano essere consegnate al cliente nel giro di un’ora. Severino Bubacco viaggiò per il mondo per ben quarantun anni tornando però sempre, periodicamente, a Murano, in famiglia. Bubacco senior fu per il figlio Lucio un mito, un esempio assente, una figura guida anche da lontano che suscitò in lui un desiderio di emulazione: Lucio, lo straordinario protagonista della rinascita contemporanea del vetro a lume in Laguna, deve quindi a questa figura ormai 80

quasi leggendaria la sua dedizione a un’originalità che diventa narrazione, fragile ed eterea ma anche incisiva e iconica. Bubacco, quattordicenne, si è accostato dunque al vetro a lume. Per tre anni ha lavorato senza sosta in una grande vetreria realizzando migliaia di piccole sculture che dovevano essere eseguite in un certo modo e alla perfezione. Una volta acquisita la mano perfetta, decide, a diciassette anni, di aprire la sua attività. La scelta del vetro a lume è un motus proprius, che si inscrive nell’inclinazione dei Bubacco all’autonomia, all’indipendenza. Munito del proprio “cannello” chiuso in un astuccio Lucio può viaggiare per il mondo come un flautista, un clarinettista, un oboista solista; può eseguire la propria musica in concerto senza dover collaborare con la meravigliosa ma ingombrante orchestra di una vetreria dove suonano e ballano maestro, aiuto maestro, servente, serventino, garzone e garzonetto. La lavorazione del vetro a lume è una tecnica solitaria. Il maestro si trova a tu per tu col materiale vitreo, che viene scaldato e modellato tramite la fiamma emessa da un cannello di metallo, collegato a una bombola che immette gas e ossigeno. Anche le sue ispirazioni sono il frutto di una visione originale. Il mondo letterario che affascina Lucio Bubacco è infatti un mondo pagano, pre-monoteista, pre-ebraico, pre-cristiano, pre-islamico: si tratta di cultura egizia, greca, ellenistica e romana senza trascurare le incursioni nell’universo cattolico di Dante Alighieri e nella tradizione veneziana della Commedia dell’Arte. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ci ha restituito la visione degli abitanti di Pompei colti dalla lava bollente e pietrificati nell’atto che stavano compiendo. Questo “fermo immagine” Lucio Bubacco lo ripropone in vetro a lume creando figure umane più vive della realtà. I suoi personaggi sembrano sempre in movimento e ci raccontano delle storie: a volte si ha l’impressione di essere condotti da Olimpia, madre di Alessandro Magno e grande maestra di riti dionisiaci, altre volte ci si ritrova in raffinati romanzi erotici tipo Histoire d’O o nelle 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade. Parlare con Lucio Bubacco non è semplice: il suo cervello è come un cavallo da rodeo che lui stesso fa fatica a domare. I pensieri arrivano velocissimi e le parole spesso non riescono a stargli dietro. Si esprime come un fiume in piena, ma quando la conversazione termina ci si ritrova arricchiti di mille notizie, pensieri, nozioni e molto humor. Lucio Bubacco ha come modello il padre, ma non solo: ha infatti appreso dal pittore Alessandro Rossi le tecniche raffinate del disegno anatomico grazie alle quali progetta il suo lavoro, il cui risultato finale, al di là dei dettagli, ci riporta nella Venezia del Rinascimento. Un Rinascimento del terzo millennio.


A sinistra: Ulisse e le sirene, opera ispirata al canto xii

dell’Odissea di Omero. I personaggi in movimento

sono la specialità dell’artista. Sotto: Lucio Bubacco al lavoro nel suo studio di Murano. Tutte le figure delle sue composizioni sono incollate a caldo.

Fuga dal Coronavirus, l’opera più recente del maestro. Dallo stelo a forma di virus dei due calici laterali cercano di uscire i malati intrappolati. Bubacco si ispira alle omeriche Scilla e Cariddi che rendono impervia qualsiasi evasione. Sulla barca, d’ispirazione dantesca, Caronte rema a mo’ di gondoliere e brinda beffardo. L’angelo del Bene, in cima alla coppa, sconfigge i due diavoli portatori di sciagure.

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L’alchimista del terzo fuoco

Maurizio Tittarelli Rubboli Maurizio Tittarelli Rubboli ripropone oggi la difficile arte della maiolica a lustro con una tecnica rivisitata e un orientamento estetico squisitamente contemporaneo. È nella perfezione formale delle opere che ritroviamo l’inconfondibile segno di appartenenza a un’autorevole tradizione familiare e a un segreto ben custodito.

di Anty Pansera


Lustre Experiments, maioliche a lustro realizzate da Dimitri Bähler e Maurizio Tittarelli Rubboli per il progetto “Doppia Firma” 2017 (foto di Laila Pozzo).


Alle spalle e nel DNA di Maurizio Tittarelli Rubboli, la sua bisnonna: Daria Vecchi, pioniera del lustro, protagonista dell’arte della maiolica, ingiustamente dimenticata. Ma anche un’altra figura femminile, sua madre, Ingina (Gina) che con le sorelle portò avanti la manifattura fino alla metà degli anni Cinquanta. Una storia da conoscere, prima di entrare nella tradizione innovata della ceramica a lustro umbra che si deve a Maurizio, il quale ha voluto e potuto aggiungere al cognome paterno quello della storica famiglia materna. Una vicenda che affonda le radici quindici decenni fa: Daria Vecchi (classe 1852), famiglia di artieri in quel di Fabriano, un “talento ceramico” (tanto da riuscire a mantenersi) e Paolo Rubboli, che dal 1873 già sperimenta la maiolica a lustro, sono accomunati anche dalla passione per le terre e dalla ricerca, proprio sui lustri metallici. Dal 1875 apriranno il loro opificio a Gualdo Tadino, nell’ex convento di San Francesco. Dal 1884 si sposta in via del Reggiaro (oggi via Discepoli) dove si trova tuttora. Nei dintorni, cave di argilla, ricca di ferro, e ad abbondare, nei boschi circostanti, la ginestra: indispensabili per ottenere il lustro. Impresa di coppia, dove la figura femminile ha peso e ruolo (maggiore forse dopo la scomparsa del marito nel 1890), sia nella gestione che nell’intraprendente apertura all’innovazione: ed ecco il passaggio dalle maioliche a fondo bianco a quelle a fondo blu cobalto. Un’impresa familiare e una tecnica così segreta che solo Daria e Paolo la praticano, sventato un tentativo di furto del taccuino con le formule degli smalti e dei lustri, che sarà poi tramandato ai figli. Daria si identifica con la ceramica a lustro oro e rubino della tradizione umbra, che per un decennio si realizza solo a Gualdo, e sigla i suoi pezzi D.R. o D. Rubboli (quella D puntata volutamente trascritta a volte a indicare un nome maschile, Dario o Domenico). Nel 1899 le viene attribuita la medaglia d’oro al merito per l’attività industriale alla “Premiata Fabbrica di Majoliche Artistiche Daria Rubboli” all’Esposizione Generale Umbra di Perugia (ma già nel 1878 si annovera la partecipazione all’Exposition Universelle di Parigi). “Maestra del terzo fuoco” (riconoscimento post mortem), continua a proporre un raffinato repertorio di forme: piatti e vasi linguisticamente più ricercati, affiancano servizi e oggetti d’uso; variano i soggetti, seguendo i mutamenti del gusto, i temi sono dipinti in blu, e resta inalterata la qualità degli smalti, a virare felicemente 84

sull’azzurro. Daria mancherà nel 1929, a chiusura di un decennio durante il quale caratterizza l’intera cittadina con una produzione di ceramiche a lustro su scala industriale. Entrano in campo i suoi discendenti: la fabbrica Rubboli, denominata Società Ceramica Umbra, incapperà nella crisi del 1929 e si scioglierà nel 1931. Dal 1934, a causa dei dissapori tra i suoi figli Lorenzo e Alberto, la ditta si scinde in due per qualche decennio. Ora è in scena Maurizio che continua, e brillantemente rinnova, la tradizione di famiglia: intraprende il lavoro di ceramista a 26 anni, a sfatare il mito che vede l’artigianoartista con le mani nelle terre e sul tornio necessariamente da una giovanissima età. Curioso, colto, studioso, gran viaggiatore, oltre che competente e profondo conoscitore di tecnica e regole di cui si è così bene appropriato da poterle e saperle infrangere. È intrigato dal movimento Arts & Crafts ma anche dalle lucentezze di Sutton Taylor e ne ha declinato i variegati stilemi all’insegna di una sua propria mediterraneità. Senza dimenticare (e lo ha scritto) quei «Ceci d’oro di Saffo [che] crescevano lungo le spiagge del mare», quindi la Grecia, né la Ravenna bizantina: «il dolce color d’oriental zaffiro di Dante». Ripropone così, con tecnica antica rivisitata per un “sentire contemporaneo”, una nuova grammatica e sintassi. A caratterizzarlo la sofisticata declinazione dei segreti Rubboli con il “lustro in vernice”, che si concretizza in seconda cottura: la riduzione dell’ossigeno con fumo di ginestra a 650° gli permette giochi di luce e soluzioni che la tecnica mastrogiorgesca non consentirebbe. Per un linguaggio dell’oggi che ridà vigore e originalità a una grande tradizione ceramica, pur non disdegnando la realizzazione anche di manufatti all’insegna dello storicismo della tradizione familiare. In parallelo alla sua attività degli ultimi due decenni, una scelta coraggiosa: l’impegno a tutelare e valorizzare la tecnica della ceramica a lustro di tradizione mastrogiorgesca. Dopo il terremoto del 1997 ha rilevato gli spazi dove sorgeva la storica manifattura (con i forni a muffola del 1884, unici esistenti in Italia), raccogliendo ben 150 pezzi (dal 1853 al 1960) per non disperderli. Ha inoltre fondato nel 2007 l’Associazione culturale Rubboli e dato vita nel 2015, grazie all’amministrazione di Gualdo Tadino, la Regione Umbria e i finanziamenti europei, al Museo Opificio Rubboli (oggi prezioso patrimonio di proprietà comunale).


Pag. 86: piatto con Damask Majolica, presentato a “Homo Faber”: Tittarelli Rubboli evoca e ricrea il tessuto damascato sulla superficie ceramica usando i lustri oro e rubino in contrasto con l’opacità della terracotta. Qui, maioliche a lustro di Maurizio Tittarelli Rubboli. In senso orario (dall’alto): Trumpets, un tributo al maestro inglese del lustro Sutton Taylor; L’amore è un cubo, con applicazione di foglia d’oro; Abbi di me pietà, ispirata a una coppa amatoria della città di Deruta, in Umbria.

In parallelo alla sua attività degli ultimi decenni, Maurizio Tittarelli Rubboli ha fatto una scelta coraggiosa: si è impegnato a tutelare e a valorizzare la tecnica della ceramica a lustro di tradizione mastrogiorgesca. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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La dotazione di caratteri mobili dell’editore Tallone è una delle più vaste e prestigiose al mondo. Qui, oltre al Quirinus e al Triennale, sono presenti il Veltro, il Fluidum e il Normandia filettato (inline Normandia).


La terza generazione dei Tallone

Andavano e onavanroT le Rondini di Maria Gioia Tavoni

Una dinastia di editori di eccellenza che non ha ceduto alle scorciatoie della modernità diventando così l’insigne continuatrice dell’arte gutenberghiana, realizzando libri che conservano tutto il pregio e il lusso “del fatto a mano a regola d’arte”.

Foto di Ottavio Atti

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Parlare dei Tallone, della loro infaticabile presenza nel mondo dell’editoria di nicchia, è spalancare porte in gran parte già aperte. Tutto, o quasi, infatti si sa dell’epica della famiglia il cui capostipite Alberto fondò una casa editrice a Parigi che smosse l’opinione dei grandi letterati e artisti della metà del Novecento, i quali gli riconobbero la capacità di coniugare i piombi dei caratteri di stampa con l’ariosità della pagina e di una mise en texte con pochissimi precedenti di altrettanta qualità. Si sa altresì che Bianca Bianconi, andata sposa giovanissima, piombò con il marito a Parigi segnando la loro storia e quella della loro editoria contribuendo non poco alla prestigiosa affermazione della Alberto Tallone, che col capostipite data al 1938. Di certo non oscuro è poi il loro rientro in Italia nel 1960 dove pure ad Alpignano si affermò l’insuperabile pagina dei Tallone: erano i magici anni del Novecento carichi di notevoli innovazioni per gli editori, accolte dai più importanti fra loro. Mentre il mondo della stampa abbracciava le procedure dovute alle nuove svolte tecnologiche che permettevano un’insperata moltiplicazione delle tirature e il conseguente abbattimento dei costi, i Tallone continuavano a tener desto l’interesse di amatori e collezionisti con i propri libri di stampa manuale. Realizzati con carta al tino delle più preziose

per proseguire con successo la strada aperta dal nonno e tenuta non solo in vita ma perfino rinverdita dal padre e dalla madre: sì perché anche Maria Rosa è una pedina importante della scacchiera di Alpignano. L’educazione dei coniugi Tallone nei confronti dei figli è stata la più formativa possibile e, nel contempo, la più liberale. Il monito è: i cuccioli si crescono perché possano poi reggersi sulle proprie “zampe” e sappiano intraprendere le strade a loro più congeniali. E così infatti avviene dopo solidi studi: la primogenita Eleonora si laurea in Lettere (curriculum archeologico) e si specializza, sempre presso l’Università di Torino, con un master in marketing e comunicazione. La secondogenita Elisa, dopo la laurea in Scienze geografiche, consegue il master in economia ambientale all’Università Bocconi di Milano, mentre il più giovane dei fratelli, Lorenzo, decide di specializzarsi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze in Restauro del Libro. Se si esclude Lorenzo che guarda fin da subito con interesse al mondo della carta anche miniata, le sorelle scelgono dapprima strade molto autonome e diverse. Entrambe si dedicano infatti a lavori lontani dalla famiglia, nei quali si distinguono per le loro capacità intrinseche.

«Oggi, la nuova linfa apportata dalla terza generazione continua a nutrire il saper fare dell’autorevole tradizione di famiglia». qualità, caratteri di stampa speciali disegnati dai più abili punzonisti del tempo, in tirature contenute ma ottenute grazie al mirabile utilizzo del torchio di stampa, i libri del catalogo Tallone di quegli anni s’imposero e vi fecero capo i maggiori letterati del tempo. Da Contini a Bacchelli, da Neruda a Elémire Zolla e numerose altre pregiatissime penne, tutti cedettero al fascino dell’estetica tipografica, facendo della Tallone un crogiuolo di presenze e costituendo un archivio inimitabile di corrispondenza con tutto il mondo. È noto anche del glorioso periodo della vedovanza, iniziato nel 1968, il procedere impavido di Bianca in un lavoro appreso vicino al marito, così come è manifesta la sua capacità di crescere i figli, Aldo e Enrico, finché non fossero in grado di affiancarla e, in seguito, sostituirla. Di Enrico, che dopo la morte prematura del fratello nel 1991 prese le redini della casa editrice, si sa tutto, conoscenza alimentata anche dalla grande capacità del titolare della Alberto Tallone di sapersi imporre all’attenzione pubblica. Enrico sposa Maria Rosa Buri e hanno tre figli nell’arco di pochissimi anni, tutti e tre nella decade degli anni Ottanta. È di loro che si sa molto meno e soprattutto non si conosce, se non dai maggiori affezionati della Casa di Alpignano, come e quando essi si siano affiancati ai genitori 88

Poi, a un bel momento, il richiamo dell’humus senza che né Enrico né Maria Rosa avessero spinto per il ritorno ad Alpignano. Da anni, le specializzazioni individuali dei tre fratelli si tesaurizzano nella Tallone: per Lorenzo, gli studi a Firenze si rivelano di fondamentale importanza perché gli hanno permesso di conseguire competenze cruciali nell’ambito della legatoria, peculiarità molto bodoniana delle edizioni di Alpignano. Elisa, che era andata a lavorare a Milano, ha potuto intervenire negli spazi della Casa, specializzandosi nella composizione manuale e, con l’esperienza maturata, in tutti i procedimenti di stampa, mentre Eleonora ha messo a frutto lo studio della civiltà greco-latina (con una tesi di laurea sul Mausoleo di Augusto) col partecipare alla programmazione del catalogo approfondendo i testi di autori classici e di scavo (ad esempio, Le lamine d’oro orfiche, a cura di Angelo Tonelli, edito nel 2012). I tre fratelli possiedono un vero e proprio patrimonio di eccellenze che consentono ora alla Casa di sostenersi con una gestione familiare completa. E così, richiamandoci metaforicamente ancora a Pascoli, possiamo dire che: «[…] le rondini andavano e tornavano, ai nidi, piene di felicità», perché oggi la Tallone riesce ancora a imporsi grazie anche alle forze giovani che la sorreggono.


In senso orario (da sinistra): Libroinfinito, design di Giulio Iacchetti e Tallone Editore; cofanetti fatti a mano dal design unico per ogni esemplare; l’operazione di cucitura a mano; la collezione Archive of Styles dedicata ai caratteri più creativi della pubblicità, tiratura limitata di 150 esemplari; Lorenzo Tallone durante la fase di preparazione dell’inchiostro tipografico.

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Piano di tavolo con pappagallo e fiori. Manifattura granducale di Firenze su modello di Iacopo Ligozzi, 1615 circa. Firenze, Palazzo Pitti.

Pittura di pietra:

l’Opificio Pietre Dure delle

di Annamaria Giusti

Impiegando le pietre dure come straordinaria tavolozza pittorica, il mosaico fiorentino è un’eccellenza tutta italiana. Ancora oggi nell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, divenuto Alta scuola di restauro, si tramanda una manualità coltissima e sofisticata, memore degli splendori medicei e fiore all’occhiello della conservazione in Italia.


Nel Cinquecento il fascino delle pietre dure si impose nella cultura del Rinascimento e nel gusto sofisticato delle corti principesche. Nei lavori artistici di pietre dure si apprezzava la felice fusione tra Natura e Arte, scaturita dal pregio intrinseco dei materiali e dalla fantasiosa inventiva degli artefici.

Nacquero così vasi di forme bizzarre, cammei, sculture in miniatura e un nuova maniera di lavorare le pietre dure, destinata a lungo e durevole successo. Si trattò del “mosaico fiorentino”, allora e in seguito noto in tutto il mondo con questo nome, perché nato alla corte medicea di Firenze, dove nel 1588 Ferdinando i fondò una manifattura dedicata a quest’arte difficile e costosa, per secoli ammirata e ambita in tutta Europa. Questa speciale pittura di pietra, come il Granduca Ferdinando volle definirla, era in grado di gareggiare con i dipinti quanto a varietà e qualità dei soggetti, grazie alla scintillante tavolozza naturale delle pietre, che a differenza dei colori usati in pittura aveva il pregio di restare inalterata nel tempo. Appunto la scelta delle nuances era essenziale alla buona riuscita del mosaico fiorentino, che si fondava inoltre sull’estrema precisione nel taglio dei profili irregolari delle sezioni lapidee. Queste venivano poi fatte combaciare perfettamente, come in un puzzle di maniacale precisione, suscitando nell’osservatore l’illusione di un’immagine unitaria, quasi si trattasse appunto di un dipinto, e non di un mosaico faticosamente costruito con centinaia di pezzetti di pietre. Per questi scopi ambiziosi serviva una quasi illimitata disponibilità di materiali dalle cromie più varie e sfolgoranti, che i Medici fecero arrivare dai territori più lontani, per disporre di un campionario unico al mondo, al quale attingere per dare vita a magici capolavori lapidei. La potenzialità artistica delle pietre policrome fu messa a frutto sia in veste di fulgido apparato architettonico, nello straordinario Panteon della Cappella dei Principi foderato di pietre dure, che per aulici arredi quali tavoli, pannelli parietali, scrigni, quadri dove il mosaico fiorentino trovava le più fantasiose forme di applicazione. Queste scaturivano dalla collaborazione fra artisti “creativi”, quali i pittori, scultori e architetti attivi per la corte, che progettavano gli arredi e i loro decori, e i maestri di pietre dure della manifattura che li mettevano in opera, instaurando una riuscita collaborazione destinata a garantire per secoli l’eccellenza dei lavori granducali. Arte supremamente aristocratica, per il fasto dei materiali, la lenta e ardua lavorazione, l’aspirazione a creazioni di 92

immutabile splendore, il mosaico fiorentino era fatto per suscitare passioni regali. Che non mancarono di accendersi, grazie anche all’accorta politica promozionale dei Granduchi di Toscana, prodighi di doni che rinnovassero nelle corti d’Europa la fama artistica di Firenze. Molti regnanti non si accontentarono degli omaggi pur sontuosi che arrivavano dai Granduchi, ma vollero creare personali manifatture di corte, rivolgendosi ogni volta a quella fiorentina per “importare” gli specialisti di quest’arte che non ammette improvvisazioni. I mosaici di pietre dure fiorirono così anche presso Rodolfo II d’Asburgo a Praga, nei laboratori dei Gobelins del Re Sole, alle corti borboniche di Napoli e Madrid, consolidando la fama della casa-madre fiorentina. Tanto che all’estinguersi della dinastia medicea, nel 1737, i nuovi Granduchi Asburgo Lorena rivitalizzarono l’antica manifattura, inesausta creatrice di arredi sempre superbi per la reggia fiorentina come per quella viennese. Con l’unità d’Italia, dal 1861 il laboratorio granducale divenne Istituto dello Stato con il nuovo nome di Opificio delle Pietre Dure, mantenendo viva una nobile tradizione che a fine secolo andò declinando, a favore della nuova specializzazione nel restauro delle opere d’arte. È questa l’attuale e vitale fisionomia dell’Opificio, punta di diamante anche in ambito internazionale nell’attività, ricerca e formazione per la conservazione del patrimonio artistico. Ma nel moderno Opificio non ha cessato di battere il suo cuore antico, tuttora vitale in un laboratorio che ha conservato ininterrottamente l’eredità dell’antica tradizione medicea. Qui specialisti di straordinaria manualità sono in grado di restaurare le meraviglie del passato e di ricrearle, con gli stessi semplici strumenti di un tempo, governati da mani infallibili e da occhi che sanno guardare alla magica cromia delle pietre con la sensibilità pittorica di veri artisti. Nella stessa sede di via degli Alfani 78, il Museo dell’Opificio delle Pietre Dure guida il visitatore attraverso i tre secoli di storia della manifattura fiorentina. Negli ambienti suggestivi del Museo, progettati da Adolfo Natalini, ci si trova immersi in una Wunderkammer dove la fantasia della natura e dell’arte si fondono con gusto squisito e tecnica perfetta, per sorprenderci e incantarci ancora oggi.


A sinistra: il maestro delle pietre dure Giancarlo Raddi al lavoro in Opificio; vaso in cristallo di rocca, 1589 circa.

In senso orario (da sinistra): pannello con vaso di fiori, commesso di pietre dure, 1879; particolare del piano di consolle lorenese a commesso di pietre dure, 1760; particolare del piano a commesso di pietre dure con intarsi di argento e granati, inizi del XVII secolo.

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preziosissime

trame

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di Isabella Villafranca Soissons


Nelle complesse e raffinate trame dei tessuti rinascimentali si è edificata e al contempo rivelata l’identità di un’intera epoca, i suoi fasti e splendori. I manufatti tessili hanno comunicato potere politico, prodotto ricchezze commerciali e creato nuove sapienze artigianali. Oggi come allora le opere di restauro richiedono abilità e competenze pari a quelle delle mani che intrecciarono quei fili secoli or sono.

Benozzo Gozzoli (1420-1497), dettaglio dell'affresco Corteo dei Magi, parete con Lorenzo il Magnifico e gli arcieri. Firenze, Palazzo Medici Riccardi (foto Scala, Firenze).

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Intorno al 1460 Benozzo Gozzoli dipinge il suo capolavoro all’interno di Palazzo Medici Riccardi a Firenze: una straordinaria Epifania. Un soggetto sacro che, tuttavia, è un inno al fasto e all’eleganza secolare della corte medicea: i Re Magi mentre si avvicinano a Betlemme – con i rispettivi cortei – partecipano a una signorile caccia con falchi e felini. I gioielli, le pissidi, i lussuosissimi finimenti dei cavalli, le sontuose vesti dei personaggi raffigurati, minuziosamente riprodotti, rendono questo ciclo pittorico una testimonianza tra le più affascinanti del costume e dell’alto artigianato di tutti i tempi. È evidente il rapporto tra pittura ed economia nel Quattrocento; le manifatture tessili sono, infatti, il settore trainante della produzione e del commercio. Non solo a Firenze, ma anche nelle altre capitali di stati signorili quali Genova, Venezia, Milano, Urbino, Mantova, le famiglie al potere sono il motore dell’economia e dell’artigianato manifatturiero di lusso. I ricchi tessuti vengono prodotti per gli arredi delle sontuose dimore, per le Chiese, ma soprattutto per l’abbigliamento di signori, cortigiani, servitori e per le divise da parata delle truppe. L’oro e l’argento rappresentano lo status ai livelli più alti della corte. Anche il funerale diventa un momento per manifestare il potere della dinastia: l’arca è ricoperta di drappi e il defunto è vestito con i suoi abiti più preziosi mentre gli altri vengono donati alla Chiesa che li riutilizza per i paramenti liturgici. Nel Rinascimento i tessili sono utilizzati come strumento di comunicazione politica; recano stemmi, motti, simboli che rappresentano la casata comunicandone il potere. Valgono come moneta sonante, vengono usati come mezzo di pagamento, regalati, dati in dote e lasciati in eredità. Arazzi, lampassi, damaschi, broccati, velluti a due altezze di pelo (alto - basso) vengono realizzati a mano su telai di legno con tecniche di tessitura incredibilmente complesse e raffinate, testimonianza di uno straordinario livello manifatturiero. I filati metallici utilizzati sono composti da una sottilissima lamina d’argento – talvolta dorata esternamente – avvolta a spirale su un filo (anima) generalmente di seta; per realizzarli nascono nuove capacità artigianali foriere di una vera arte, quella esercitata dai battiloro e dalle filaoro. I battiloro sono così chiamati perché – battendo per ore – trasformano un lingottino d’oro in sottilissime foglie che volano via col respiro. I fogli preziosi vengono inseriti tra le pagine di libricini e portati nelle case delle filaoro: fanciulle dalla mano ferma e dalla vista acutissima. Una di loro taglia il metallo con speciali forbici (forfex ab auro) in strisce di qualche micron, l’altra immediatamente le fila con un fuso. Molte tra queste meraviglie tessili hanno sfidato il passare dei secoli e sono ora fruibili perlopiù in collezioni museali e istituzionali, ma a volte appartengono a fortunati e appassionati collezionisti privati. 96

Lo stato di conservazione molto spesso è veramente precario, i pezzi portano i segni dell’invecchiamento dei materiali e dell’utilizzo: sono consunti, polverosi e macchiati. A volte si trovano opere di epoche e tipologia diverse, tagliate e sommariamente assemblate tra loro, ma i restauri sono sempre appassionanti e portano sovente a risultati insperati. Per quanto riguarda il restauro, si parte sempre da uno studio preliminare e, qualora necessario, si svolgono esami diagnostici; successivamente si progetta l’intervento più idoneo per preservare i manufatti il più a lungo possibile. Il restauratore deve saper coniugare una notevole perizia artigianale a conoscenze tecnico-scientifiche che richiedono un continuo aggiornamento. Ad esempio, le nuovissime tecnologie utilizzate nella conservazione permettono una detersione – per alcune tipologie di tessuti – simile a un lavaggio in acqua. Dopo aver eseguito una micro-aspiratura con strumentazione chirurgica, sulla superficie vengono adagiate sottili lastre di gel: questo sistema permette di apportare acqua su materiali che altrimenti non la tollererebbero. Lentamente, i residui che nei secoli si sono depositati tra le trame e gli orditi, vengono assorbiti dal gel che si colora di bruno. A fini espositivi, i frammenti tessili necessitano generalmente di essere montati su un supporto rigido rivestito con un tessuto idoneo alla conservazione; alcune fibre sono così delicate e irrigidite da non poter essere toccate con un ago, quindi la cucitura su un supporto non può essere realizzata. In questi casi si predispone sul nuovo sostegno una sorta di incavo della forma del frammento che viene adagiato come in una culla… con la stessa attenzione e infinita delicatezza... Recentemente, in occasione della magnifica mostra “Domus Grimani” a Venezia, realizzata da Venetian Heritage Foundation con il sostegno della Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmasnhip, ho avuto il privilegio di coordinare un restauro appassionante e impegnativo, svolto dalle abilissime restauratrici tessili dei laboratori milanesi di Open Care - Servizi per l’Arte. Si trattava di un arazzo inestimabile di manifattura medicea, in gran parte realizzato con filo d’argento che ossidandosi si era annerito e aveva determinato una inversione cromatica: ciò che avrebbe dovuto risplendere era diventato nero! È stato svolto un certosino lavoro di fermatura dei filati che, a causa del peso del metallo, si erano distaccati tra loro; successivamente è stato lungamente deterso l’argento. Un intervento molto complesso e delicato, che ha portato il prezioso arazzo della Risurrezione al suo antico splendore… una vera emozione vederlo davvero “risorgere” dal passato in tutta la sua commovente bellezza!


Arazzo della Risurrezione, di manifattura medicea. In gran parte realizzato con filo d'argento, è stato di recente restaurato da Open Care - Servizi per l’Arte che l'ha riportato all'antico splendore.

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Massimo Spigaroli con i culatelli riservati a due celebri committenti, Alain Ducasse e il Principe Carlo d’Inghilterra (foto ALMA).


Massimo Spigaroli e famiglia: “uomini normali che fanno cose normali” ... ovvero straordinarie di Andrea Sinigaglia

La storia si attarda volentieri là dove incontra persone inclini a prendersene cura, a preservarla per continuarne la narrazione. Sulle sponde del Po della Bassa Parmense, c’è uno di questi luoghi: l’Antica Corte Pallavicina è un borgo rinato che ospita oggi la miglior produzione al mondo del prezioso Culatello, un’azienda agricola con animali di antica razza autoctona e terreni trasformati in orti giardino. E un’arte culinaria che esalta le antiche tradizioni di queste terre bagnate dal grande fiume, grazie a un savoir-faire familiare molto speciale.

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«Uno adesso dice: fratello, perché mi racconti queste storie? Perché sì, rispondo io. Perché bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un’anima anche i cani. […] E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali. Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. Del fiume placido e maestoso, sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte in bicicletta. O passi tu sull’argine di notte, e ti fermi, e ti metti a sedere e guardi dentro un piccolo cimitero che è lì, sotto l’argine.» Giovannino Guareschi, Don Camillo

La vicenda degli Spigaroli ci fa comprendere a fondo la granulometria dell’italianità. E lo fa attraverso la forma più alta di insegnamento, ovvero l’esempio, il vissuto. Poche parole, tanti fatti. Si chiama tessuto quell’intreccio di fibre che può assumere una resistenza e una tenuta impensabili. È di questo che parliamo quando guardiamo la storia di questo brano di “mondo piccolo” che da anni si dipana a Polesine Parmense sulle rive del grande fiume. Un’eredità e un progetto. Serve altro per l’ordito di una grande storia? Sì. Serve affectus: quell’attaccamento, viscerale da un lato, pieno di visione dall’altro, che nessuna condizione può generare né costringere se non accolta in piena libertà. È incredibile quello che è sorto anzi ri-sorto a Polesine, nel cuore della Bassa, tra Parma e Piacenza. Massimo Spigaroli e la sua famiglia, partendo dalla ristorazione, hanno esondato grazie alla loro ospitalità e alla voglia di far conoscere a tutto il mondo i luoghi di Giuseppe Verdi e Giovannino Guareschi, ma anche dei loro genitori e compaesani. Una baracca sul Po, un ristorante, un grandissimo prodotto come il Culatello di Zibello e tutta l’arte norcina connessa, tanta nebbia d’inverno e tante, tantissime zanzare in estate, i campi, la gente, un’antica corte signorile, l’umanità che diventa accoglienza e persone da tutto il mondo che attratte, invitate o incuriosite finiscono col visitare questo luogo così eccezionalmente normale. Io, che scrivo questo articolo, onorato dell’incarico, mi ritengo osservatore privilegiato di questa storia. Ho avuto modo di conoscere Massimo Spigaroli quando avevo solo 16 anni: ero un giovane studente di scuola alberghiera e avendo vinto un concorso di cucina, il mio premio, insieme a un altro paio di compagni di classe fu una giornata insieme allo chef Spigaroli. Mi ricordo l’agitazione – mia – e la figura taciturna e decisa ma gentile nei modi e nei gesti del cuoco che avevamo di fronte. Massimo Spigaroli sembra sempre lì a pensare a qualcosa di successivo. È lì, di fronte a te, ma intanto lo vedi che fatica a vivere l’istante immanente, gli sta un po’ stretto, perché già rapito dal seguente. Sembra di sentirlo escogitare, rielaborare e riflettere all’unisono. Forse è per questo che i suoi sguardi sono così densi, non ne spreca nemmeno uno, nemmeno 100

mezzo. Poi c’è la timidezza che spesso è dote dei grandi e non te l’aspetti mai in certe figure così compiute. Negli anni a venire ho avuto modo di visitare l’Antica Corte Pallavicina varie volte, veramente tante, e ogni volta che tornavo con intervalli di circa 3 settimane, massimo un mese, vedevo crescere il progetto. Un luogo recuperato, un campo trasformato in orto, artigiani del territorio ingaggiati per la ricostruzione con materiali autoctoni. È un godimento degli occhi e dell’anima seguire con lo sguardo il sorgere di un borgo. Vedere che da quella rinascita si riaccende tutto il contado, che le persone di quel luogo assistono meravigliate e si rivestono di una dignità nuova che ha già in sé il germe dell’orgoglio di appartenenza, perché lo racconteranno e si racconteranno. La famiglia Spigaroli è un caso paradigmatico di come, appunto, mettendo a fattor comune tutte le potenzialità di un territorio italiano specifico si possa evocarne lo spirito e quello diventa attrattiva per tutti: come ci ricorda lo storico Carlo Maria Cipolla, «fare all’ombra di un campanile cose che piacciono al mondo». In un’epoca come la nostra, assetata di luoghi veri e vividi, l’Antica Corte Pallavicina incarna una meta nella quale alla fine del viaggio il momento dell’arrivo coincide con un sentirsi a casa e questo manda in corto circuito. È un luogo di persone, di cibo buono e di vino frizzante. È un luogo fuori dai tracciati, apparentemente immobile ma posto accanto a un continuo fluire, quello del Po, che ne regola successi e paure, paesaggi e fisionomia, epoche. La vita pacifica degli animali ha il compito di trasmettere subito il ritmo naturale, lento e profondo, screziato solo da qualche verso di pavone: sono gli animali a dimostrarsi padroni della situazione, facendoti sentire ospite ma chiedendoti al contempo di rimanere guardingo. Tutto questo, coreografia, architettura, odori e perfino la paupula era già nella mente di chi ha composto il puzzle raccogliendo a mano le tessere che si squadernavano e le ha messe a nuova vita. Maestro d’Arte e Mestiere, Massimo Spigaroli, direbbero i giapponesi, è un “tesoro vivente”, un patrimonio umano: ma essendo uomo della “Bassa” come direbbe Guareschi ci si accontenta di essere uomini normali che fanno cose normali: e oggi tutto ciò è straordinario.


L’ingresso dell’Antica Corte Pallavicina, relais e ristorante, nella Bassa Parmense (foto ALMA).

BUONO A SAPERSI In quello che può essere definito a buon diritto il Bengodi italiano, il Parmense, una costellazione di vere e proprie eccellenze enogastronomiche ruota intorno all’Antica Corte Pallavicina della famiglia Spigaroli. Ad indicarci alcune delle eccellenze del territorio, piccoli ma grandi produttori di inarrivabile maestria, che valgono assolutamente la visita di ogni gourmand, semplice appassionato o turista per caso è ancora ALMA, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana.

PER IL VINO

PER LA NORCINERIA

Podere Crocetta, Cusa Barlordo 5/6, Zibello PR

Antica Ardenga

L’azienda appartiene alla famiglia Rastelli dal 1600. La vigna è sempre stata presente seppur con diverso sesto d’impianto (pergoletta emiliana). Oggi nei sei ettari vitati vengono coltivati prevalentemente fortana e lambrusco maestri.

Piccoli numeri per grandi sapori: una piccola realtà che produce limitate quantità di splendidi salumi della Bassa Parmense. L’azienda fa parte del Consorzio del Culatello di Zibello, presidio Slow-Food, nonché produttrice di Mariola (cruda e da cuocere) e Spalla Cruda (con e senz’osso), anch’essi presidi Slow-Food.

Località Diolo 61, Soragna PR

P E R L A PA S T I C C E R I A Nuova Pasticceria Lady Via Giuseppe Garibaldi 37, San Secondo Parmense PR

Tre fratelli, Catia, Angelo e Massimo, figli di mamma Anna, pasticcera sopraffina, rilevano nel 1999 uno storico locale della Bassa. Dal 2002 la svolta, dopo un viaggio rivelatore in Sicilia, con la creazione del loro magico “panettone italiano”, da gustare increduli per tutto l’anno, insieme alla miglior pasticceria tradizionale.

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Gian Domenico Serra, con i figli Giovanni, Antonietta e Niccolò, porta avanti la produzione di eccellenza di questa storica azienda agricola. Fiore all’occhiello lo straordinario Parmigiano Reggiano che qui si produce, grazie al controllo di tutta la filiera, dagli ottimi foraggi al prato di erba medica per il riposo delle preziose mucche Brune.

MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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Canto delle balene, carosello portafrutta e centrotavola in ottone realizzato a quattro mani da Ambrogio Carati e Pietro Russo nel 2016 per il progetto “Doppia Firma” (foto Laila Pozzo).


SE UN GIORNO D’AUTUNNO UN VIAGGIATORE di Patrizia Sanvitale

Nell’ambito di un accordo annuale con la Fondazione Cologni, la Triennale di Milano ospiterà presso la Quadreria, dal 20 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021, “Mirabilia. Una Wunderkammer per scoprire i mestieri d’arte milanesi”: qui una selezione di preziosi manufatti contemporanei e rinascimentali permetteranno di scoprire e riscoprire la vocazione all’eccellenza artigianale ambrosiana. Un’eredità che si rigenera quotidianamente nei laboratori, nelle botteghe e negli atelier milanesi, disseminati in tutta la città. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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L’alto artigianato, di tale magnificenza da essere una forma d’arte, è parte del patrimonio genetico di Milano, nelle cui vene scorre un’irresistibile vocazione all’eccellenza in perenne dialogo con i tempi, che sovente anticipa.

Scoprire i segreti dell’eccellenza della cultura rinascimentale lombarda e riscriverne il futuro sulla falsariga della sperimentazione e della perfezione del passato è solo una delle tante missioni della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Fondazione che, negli spazi della Quadreria della Triennale – con cui ha siglato un accordo di fattiva collaborazione – presenta, dal 20 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021 un’esposizione dedicata proprio ai maestri di Milano, la prima di una serie di mostre e di eventi con cui festeggia i 25 anni di attività spesi a dare lustro e a riscoprire generazioni di grandi artigiani e a formarne di nuovi attraverso tirocini, iniziative culturali, scientifiche e divulgative, prima che l’antica conoscenza vada perduta. Ancora oggi Milano ha, infatti, un solido legame «con la stagione leonardesca, intesa non solo come fucina di nuove forme, ma soprattutto come pratica integrata del lavoro artistico e tecnico: un modello in cui il processo creativo prendeva avvio e si nutriva della sperimentazione di nuovi materiali e lavorazioni», scrive Susanna Zanuso, studiosa del Rinascimento lombardo. Proprio al tempo dei Visconti e degli Sforza, Milano e la Lombardia diventano il cuore pulsante di un artigianato di tale magnificenza da essere esso stesso una forma d’arte. Il segreto del successo è racchiuso in centocinquant’anni di “relativa” pace che favoriscono l’apertura di nuovi mercati e le relazioni con le altre corti d’Europa. Fioriscono la manifattura dei battiloro, la tessitura di frixarie e di drappi con trama a fili d’oro; la creazione di gioielli, di impalpabili e preziosi merletti, di accessori, decorazioni, rifiniture per abiti che saranno in voga nelle corti di mezza Europa, precursori delle collezioni dell’Alta Moda italiana; ma anche la produzione di armature con incrostazioni in metallo a effetto policromo, di argenti lavorati a sbalzo, strumenti musicali e mobili intarsiati. E poi di ceramiche, vetrate, ferri battuti, mosaici. Un lascito storico che è diventato via via patrimonio genetico della città, nelle cui vene scorre un’irresistibile vocazione all’eccellenza artigianale in perenne dialogo con i tempi, che sovente anticipa. Ma ritorniamo alla mostra che si tiene alla Quadreria della Triennale di Milano. L’idea di fondo si rifà al concetto espositivo della Wunderkammer – il cabinet d’amateur di rinascimentale memoria – che tradizionalmente ospita, ricorda lo storico Roberto Balzani, una «mescolanza di oggetti naturali, 104

inventati, archeologici, esotici che dà origine a una forma di collezionismo nuovo e a una nuova tradizione culturale», secondo il criterio di horror vacui, in un crescendo d’intensità quasi vertiginoso. «Un viaggio immobile», intimo ed esclusivo, da fare in un rispettoso silenzio, riflettendo sul fatto che oggi nemmeno il più fanfarone dei giramondo potrebbe vantarsi di percorrere, in pochi passi, un cammino artistico a ritroso lungo qualche centinaia d’anni per poi imbattersi negli odierni maestri. Un magico vagare dentro la storia dei circa 40 oggetti presentati – 5 antichi e 35 contemporanei, unici o in serie numerata: interessante notare l’intenzionale sproporzione numerica tra le opere del passato e quelle recenti – ovvero l’eccellenza dell’artigianato della “grande Milano”. Manu-fatti come l’armatura ageminata, vera e propria scultura semovente realizzata a Milano a metà del Cinquecento, in contrapposizione ai “contemporanei” tesori di Buccellati, Pomellato e Vhernier. O come l’Hypnerotomachia Poliphili – stampata a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499 e custodita alla Biblioteca Trivulziana di Milano – che contiene la prima descrizione di un oggetto in cristallo di rocca scolpito, esposta insieme ai vetri artistici di Lilla Tabasso, ai legni di Giacomo Moor, Giordano Viganò e di Bottega Ghianda, alle ceramiche, agli argenti, ai metalli lavorati, alla preziosa scacchiera in corno naturale dei Lorenzi, in un dialogo perenne tra la centralità del talento artigiano e la creatività progettuale. Lasciata la Quadreria e il palazzo della Triennale, il viaggio da “immobile” si traduce in “festa mobile” e segue un percorso cittadino alla scoperta delle arti applicate, dei laboratori e dei workshop sparsi nelle vie di Milano, la cui toponomastica rievoca alcune delle antiche categorie artigiane. Come via Orefici, via Armorari, via Spadari, via Cappellari per finire in Piazza dei Mercanti, dove si svolgevano gli scambi commerciali. Grazie alla Fondazione Cologni, l’autunno 2020 si profila dunque all’insegna dell’“intelligenza della mano”, di quella mano che, troppo spesso, è rinnegata nella produzione industriale, di serie, come qualche tempo fa notava Pierluigi Ghianda, il “poeta del legno”, il legnamè di Bovisio Masciago, paese della Brianza, che fino al 2015 ha lavorato per i più celebri architetti e designer al mondo. Il suo pensiero conferma quello dello storico dell’arte francese Henri Focillon che, nel suo Elogio della mano, scriveva: è «lo strumento della creazione, ma prima di tutto l’organo della conoscenza». Milano insegna.


Sotto, a sinistra: libreria girevole da tavolo in legno di noce e pero, Cini Boeri per Bottega Ghianda, 1989 (foto Gilles Dallière/ Richard Alcock).

Sopra: Metaphysical Cube di Gianluca Pacchioni, 2018. Cabinet monolite di onice bianco con vene di ottone che richiama il Kintsugi, la tradizionale arte giapponese di “riparare con l’oro” (foto di Lorenzo Pennati). Sinistra: Scacchi e scacchiera di Lorenzi Milano, realizzati da corna di zebù e bufalo; la base è impreziosita da una cornice in ebano, profilata in ottone.


P R O G E T T A R E E P R E S E N T A R E M E R AV I G L I A Dal mese di Ottobre 2020 fino alla fine di Settembre 2021 la Quadreria di Triennale di Milano ospiterà “Mestieri d’Arte & Design. Crafts culture”, una serie di cinque mostre affidate alla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte per raccontare l’eccezionale mondo delle arti applicate italiane, dell’artigianato artistico e della cultura del progetto che incontra l’alta manifattura. Uno spazio da lungo tempo sognato da Franco Cologni, presidente dell’omonima Fondazione, e fortemente voluto da Stefano Boeri, presidente di Triennale Milano. E che si porrà in maniera federativa nei confronti del sistema milanese delle arti decorative, legandosi al Castello Sforzesco, alle Case-Museo e ai tanti attori, autori e artefici che ogni giorno celebrano la liturgia produttiva del bello ben fatto. Nel breve dialogo che segue, i presidenti evocano un piano ambizioso e suggestivo: creare, tramite i mestieri d’arte e il design, una nuova etica per la vita quotidiana.

Franco Cologni: Quando è nata la mia Fondazione,

Stefano Boeri: Il dialogo tra cultura del progetto e

nel 1995, non tutti comprendevano cosa fossero i “mestieri d’arte”. Oggi l’area disciplinare dell’alto artigianato, delle arti decorative, delle arti applicate sembra aver trovato nuova energia: ma occorre continuamente riflettere sui suoi perimetri, sulla sua forza, sulla sua contemporaneità. Uno spazio permanente presso Triennale Milano sarà un ulteriore e potente punto di valorizzazione di un mondo meraviglioso e fragile.

trasformazione consapevole della materia è sempre una fonte di ispirazione, e dai Visconti a oggi ha sempre trovato a Milano un luogo eletto per far incontrare la visione artistica con l’intelligenza delle mani. Oggi il mondo dell’alto artigianato diventa ancora più rilevante, anche da un punto di vista culturale: perché rappresenta una autentica forma di sostenibilità produttiva. In questo rispetto per i materiali, per i territori e per il lavoro c’è una piena sintonia tra Triennale e la Fondazione Cologni. E forse, questa vicenda atroce della pandemia ha aperto prospettive nuove che il mondo dei mestieri d’arte ha intercettato: la riscoperta della prossimità, o della vita di quartiere.

Stefano Boeri: Arti applicate, arti decorative, mestieri d’arte… è importante dare uno status formale a queste discipline, che rappresentano da sempre un grande vantaggio competitivo e un giacimento culturale. Sin dal 1923, con la nascita di Triennale a Monza, abbiamo promosso il dialogo tra progetto, arte e manifattura, selezionando e sostenendo un artigianato che lavora sui dettagli, sulla massima qualità, sulla capacità di interpretare al meglio le visioni progettuali. Con questo spazio apriamo un piccolo mondo che racconta e riprende la storia stessa della Triennale. Per noi è un tema di recupero della nostra storia e della nostra identità: non è una aggiunta, ma un riportare dentro il Palazzo di Viale Alemagna un pezzo importante delle nostre stesse origini.

Franco Cologni: Riflettere sulle origini, sui territori, sul desiderio di bellezza che trova risposta nel lavoro eccezionale di donne e uomini di talento, come gli artigiani, è oggi diventata una vera e propria missione culturale per noi. La forza del design, di cui Milano è una capitale internazionale, non sempre ha contribuito a valorizzare il ruolo dell’artigianato: mentre sempre più autori, designer e architetti oggi sentono che il dialogo con l’alta manifattura, consapevole e competente, permette loro di esprimersi al meglio e di firmare i nuovi classici della bellezza contemporanea. Un museo è da sempre un luogo di scoperta e di confronto: lo spazio presso Triennale vuole essere un ulteriore invito al dialogo interdisciplinare.

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Franco Cologni: Con la mostra dedicata ai maestri artigiani di Milano vogliamo sottolineare il valore di un luogo che ha da sempre permesso e sostenuto la cultura dell’eccellenza. Scienza, arte, desiderio della meraviglia: Milano ha la capacità di esigere sempre il meglio da coloro che hanno qualcosa da proporre. Questo ci sembra un messaggio forte da trasmettere alle giovani generazioni: per essere competitivi occorre essere competenti, e apprendere a ricercare quei “maestri” che ci permettono di elevarci, di uscire dalla medietà per raggiungere l’eccellenza.

Stefano Boeri: Triennale vuole affermare che l’artigianato è una forma di lavoro che non rappresenta il passato, ma il futuro: i valori dei maestri d’arte innervano anche una nuova etica della vita quotidiana. Un’etica che ci porta a lavorare in maniera vocazionale sulla qualità, piuttosto che su ciò che è standard. Per noi è una vera gioia avere questa Wunderkammer in Triennale, che con la prima mostra presenta una Milano come capitale di un tessuto più fitto, di un territorio più vasto. Una città che valorizza la struttura profonda del design moderno, con la sua incredibile capacità di interpretare i materiali più diversi. Perché questo deve fare il design: progettare, far evolvere, creare meraviglia.


Sotto: Kit del legnamé, in noce canaletto e ulivo di Giacomo Moor e Giordano Viganò, realizzato per “Doppia Firma” nel 2016 (foto Laila Pozzo). Sinistra: Vaso di Dabbene in argento lavorato a mano, decorato con pietre dure incastonate manualmente. Sotto: Ispirati alle corazze che proteggono il torso umano, le creazioni di Mauro Mori sono chiamate Scudo e sono realizzate in marmo Galacatta, in marmo Nero Belgio e in marmo rosso. (foto Stefano Zarpellon).

Sopra: Cratere delle Muse, in giada antica con bordo e piede in oro giallo modellati a rouches, con zaffiri cabochon, Gianmaria Buccellati, 1981 (foto Fondazione Gianmaria Buccellati). Sinistra: Zolla (fiori di campo), creazione di Lilla Tabasso in vetro di Murano modellato a lume e gesso, pittura, polvere di vetro, filamenti di vetro (foto Roberto Marossi).

Le mostre del ciclo “Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture”. Presso la Quadreria di Triennale, nell'ambito del ciclo “Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture”, si avvicenderanno cinque mostre in dodici mesi. La prima, curata dalla Fondazione Cologni, sarà dedicata ai maestri artigiani di Milano. Sarà poi la volta del dialogo tra Capucci e Rometti, ovvero tra alta moda e ceramica d’eccellenza. Durante il Salone del Mobile lo spazio ospiterà “Doppia Firma”, quinta edizione dell’evento realizzato da Michelangelo Foundation, Fondazione Cologni e Living Corriere della Sera che valorizza il dialogo tra artigiani e designer. E infine due mostre tematiche: una dedicata al vetro e curata da Jean Blanchaert, l’altra incentrata sulla ceramica e con la curatela di Ugo La Pietra.

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ci nutre: a patto però di imparare non solo a vedere, ma anche a comprendere. Solo il riconoscimento consapevole del gesto, dell’ispirazione e della competenza consente infatti di dare valore all’insostituibilità del tocco umano. Educarsi al talento e alla bellezza: la base di un nuovo Umanesimo.

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Nel suo libro Giustizia e Bellezza, lo psicanalista e sociologo Luigi Zoja scrive che nel ricco Occidente la mancanza di cibo non sembra più causare le catastrofi che ancora, nel secolo scorso, mettevano in ginocchio interi Paesi. Se però spostiamo l’attenzione «dal nutrimento per il corpo a quello per lo spirito», scrive Zoja, «osserviamo una denutrizione ormai cronica: quella che riguarda la bellezza. Si tratta di una carestia senza precedenti. La bruttezza è imposta continuamente a chi non l’ha meritata, sotto forma di paesaggi deteriorati, architettura sciatta e utilitarista, oggetti le cui forme non conservano più traccia del lavoro e dell’attenzione umana: cose sempre più brutte, come sono quelle che non hanno mai conosciuto una mano.» Mi ha colpito questo avvertimento sulla carestia da bellezza, che il nostro mondo sembra attraversare nutrendosi principalmente di surrogati. E mi ha emozionato leggere che tra le cause di bruttezza vi è anche l’oblio in cui il tocco umano, così necessario per la creazione di oggetti significativi e preziosi, rischia di cadere: allontanare l’uomo dal suo talento, privarlo della gioia di creare significa contribuire alla denutrizione delle nostre anime. Che invece, come i nostri corpi, se non vengono nutrite deperiscono. Le anime dei grandi artisti erano infuocate, secondo i filosofi. E per nutrire questa fiamma, per mantenerne vigorosa l’incandescenza alchemica, i protagonisti del Rinascimento sapevano quali alimenti fossero necessari (non si dice infatti “alimentare una fiamma”?): la cultura, la poesia, lo studio dei classici, il dialogo con i maestri, la retorica, la musica. Giotto riaccendeva le gestualità degli antichi sarcofagi romani. Giorgione era un ottimo musicista. Botticelli conversava con gli umanisti della corte dei Medici. Giulio Romano sapeva di arti applicate e ricercava i migliori artigiani. Leonardo e Michelangelo componevano rime. Brunelleschi e Donatello avevano imparato a memoria le rovine di Roma. E il papa umanista per eccellenza, Pio II Piccolomini, evocando Cicerone insegnava ad apprendere dai classici ma ricercando sempre la propria originalità: Fugienda est omnis supervacua imitatio (ogni inutile copia, o imitazione, è sempre da evitare con cura). Oggi il nostro desiderio è che l’occhio alato, che Leon Battista Alberti volle su una sua medaglia, sia anche il nostro: osservare, ma anche innalzarsi a nuovi vertici come già i grandi artisti e artigiani del Rinascimento ci hanno insegnato a fare. Mettendo al centro l’essere umano con i suoi talenti e il suo profondo desiderio di bellezza: una bellezza cui ogni uomo desidera contribuire. Da ragazzo frequentai l’Istituto Gonzaga, una scuola privata di Milano: vi trascorsi gli anni del ginnasio e del liceo. Il motto del Fondatore dell’Ordine che da sempre gestisce il Gonzaga, san Giovanni Battista de la Salle, era che “grandi cose sono possibili”. Ed è vero: grandi cose sono possibili grazie alla visione, alla cultura, al talento. Come creare un nuovo Rinascimento partendo dai mestieri d’arte, per esempio. Partendo anzi dall’educazione al lavoro e alla bellezza: entrambi necessari per nutrirci, e per nutrire i nostri desideri di possibilità che diventano progetti, oggetti, soggetti di nuovi sogni.

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LA REALTÀ DI

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D Da sempre l’impegno di Allianz Bank è lavorare per costruire, m migliorare e consolidare il rapporto con i propri Clienti nel tempo All Allianz Bank è la banca multicanale italiana di Allianz S.p.A. che da 50 anni si impegna nel soddisfare la clientela privata interessata ai servizi di investimento, posizionandosi tra le prime realtà del suo settore in Italia per patrimonio in gestione, qualità e valore dei suoi professionisti.

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Allianz SE è internazionalmente riconosciuta tra i principali player nel settore finanziarioassicurativo e detiene una solidità certificata dal rating AA da Standard & Poor’s dal 2007, che la posiziona ai primi posti per affidabilità nel suo comparto. Un’utile tutela e garanzia di fiducia e tranquillità nell’attuale contesto per i risparmi degli oltre 100 milioni di Clienti distribuiti in circa 70 Paesi, i quali ogni giorno affidano un patrimonio complessivo di circa 2.268 miliardi di euro (Fonte Allianz SE al 31.12.2019).

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52 Mld Allianz SE

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ASSET TOTALI AL 31.12.2019

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CONSULENTI FINANZIARI

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80 250 CENTRI DI CONSULENZA FINANZIARIA WEALTH ADVISOR

250 30 FILIALI

CENTRI DI CONSULENZA FINANZIARIA

Fonte: Allianz Bank Financial Advisors

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Fonte: Allianz Bank Financial Advisors


ENGLISH VERSION LET'S RE-START FROM THE RENAISSANCE Alberto Cavalli The travels of Inigo Jones, the Earl of Arundel and Lord Burlington to Italy contributed to bringing back the Palladian style to England. King Francis i, who hosted Leonardo da Vinci at Amboise, had sent his architect Jean de l’Orme to study the constructive forms of the Italian Renaissance, so he could use them to nurture French creativity. Goethe devised his theory on colours after a trip to Venice. Elizabeth i wanted the highest officials in her kingdom to visit Italian courts and learn the political strategies and decision-making dynamics. Italy has always aroused wonder, astonishment and admiration in people. It was, and indeed still is, a must-see destination for those in search of beauty and excellence. Those crossing the Alps or arriving in Italy by boat found dozens of cities of art, luxuriant nature and places where man altered the landscape to underscore its beauty and enjoy its terrestrial and indeed “celestial” fruits. Today we need to go back to looking at Italy with those eyes, to loving it with that same spirit: the spirit of the Renaissances. Because Italy has witnessed not one but many Renaissances. The historical, legendary Renaissance of the 15th and 16th centuries, of course: a period which, the further behind we leave it, the more it inspires and fascinates us, with its towering philosophers, artists, teachers and leaders. But there are also the Renaissances we witness every time someone falls in love with our culture, our territory, our arts and our crafts: Italian beauty is reborn when a keen eye which knows the difference between seeing and perceiving breathes life, spirit and warmth into magnificent forms asking to be loved. To this day, makers continue to invent new ways to interpret beauty. Artisans and designers, architects and artists, enthusiasts and collectors. The Renaissance casts aside its historical connotation to become an evergreen model. A model in which Italy finds fertile terrain to develop itself each day, and to feed, with a generous and passionate hand, all those who see Italy as a hothouse from which inebriating, nourishing fruits can be picked, instead of treating it as a mine to be plundered. This edition of Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture speaks to us of the wonderful rebirths spawned by artisan workshops (the real heirs of Renaissance talent). Renaissances emerge from museum collections (every antique object was once contemporary, as the Farnese ceramics teach us); they are brought about by the ateliers and companies of Italy’s finest manufacturers (design and fashion, for example, represented here by Fratelli Boffi and Dolce & Gabbana, amongst others); and they allow precious materials to be transformed (coral, gold, gemstones, semi-precious stones, wood, marble, glass…) into objects the world will love and care for, like Benvenuto Cellini’s Salt Cellar. Care means time, love, solicitude and attention. This is the word that permeates the magazine you are holding in your hands (hands just like those gathered by a curious collector!): doing things with care, keeping them with care, talking about them with care, looking after them with care. This is what the Fondazione Cologni has been doing for the past twenty-five years. And through the words of its Chairman, Franco Cologni, it invites us to realise that every creative, conscious gesture is in itself an act of rebirth. Enjoy your reading!

AN AFTERMATH THAT DEMANDS CHANGE Ugo La Pietra In 1972, the year of the great energy crisis, Ettore Sottsass, the best-known designer of the day (the entrance to his studio proudly displayed a bronze plaque engraved with the word “Olivetti”) was appointed curator of the design section of the xv Milan Triennale. He decided not to display objects, but only audio-visuals, perhaps under the influence of us radical young designers. It seemed almost immoral to increase the proliferation of consumable objects in a moment of such deep crisis! Today, in these times of pandemic, the organisers of the Salone del Mobile furniture fair are also asking us to produce documents and audio-visual media until we can “pick up where we left off”. But things are changing radically. Afterwards, and everyone knows there will be an “afterwards”, things will have to change. They will have to change because our profoundly impoverished society can rise again from the ashes only if it casts aside the model based on the global market, the model which fattens itself on the speculation of banks, financial markets and superficial communication: a rebirth that will have to involve “real” work. “Diversity versus globalisation”: it has been, and indeed still is, a journey that has seen only a handful of us attempting to put our local resources in the 112

spotlight. A journey we will have to embark on, and upon which we will need to base a sustainable model that gets us back on our feet. If we are to get out of the serious economic crisis that awaits us, once we have come out the other side of the pandemic, our operational model, the slogan for us all, must be “getting back to work”, to real work. And who better than our outstanding craftspeople to show us the way forward in this “rebirth”? Our resources include everything whose sediments have settled in our territories over the centuries, involving culture, art, craftsmanship, custom, tradition and diversity. The debt we will carry on our shoulders, a burden even heavier than it was before, can only be dealt with if we rebuild work: real, tangible work that involves directly our true resources. The result will not be an autarchy. Instead, it will be about awareness of the meaning and value of getting things done, just as it always has been in the world of artisans. We will also learn to consume better, with greater attention for how and why we produce. The applied arts and “territorial design” will undoubtedly become new production and consumption models: we will not just be able to make and sell our landscapes and our historical masterpieces, but also our ability to do business and produce things with respect for available resources, without upsetting the balance. Accordingly, the model which we should be using as a benchmark for getting back on our feet is the artisan structure: a place of production, where earnings are made in exchange for tangible work. Ours is a country with an innate ability to save money, and we have also proven that we have maintained our capability in terms of knowhow. Just two generations ago, Italians abroad were renowned for their ability to sing, to play an instrument, to make “beautiful things of value”. We need to rediscover this excellence, starting with the Academies, which in the Renaissance interacted with artisans, fostering culture and design. A mingling of design and skill that created the nation that best represents us. ART FORMS LOST AND REPEATEDLY FOUND Dario Scodeller “We are no longer capable of distinguishing ceramic from porcelain, or glass from crystal. Losing the arts means not being able to recognise quality in the objects surrounding us.” With these words Ugo La Pietra closed his speech at the Fondazione Cini in Venice last year in September. Stories of design, relating countless initiatives to “recover” the arts over the last century and a half – from the Arts & Crafts movement to New Craft – almost always fail to answer one question: when did we first start to “lose” the arts? In 1923, visitors arriving from all over Europe to the first Bauhaus exhibition were welcomed at the Weimar station by a banner designed by Walter Gropius. It bore the words “Art and technology - A new unity”. In classical antiquity, these two words actually had a common meaning: the Latin term ars and the Greek téchnē were both used to denote dextrous, skilled savoir-faire in a broad sense, from the midwife to the ceramist, from the doctor to the blacksmith. In medieval Europe, the arts were learned in keeping with rules, criteria and admission tests (masterpieces or chefs d’œuvre), to guarantee constant quality of the products. Corporations were trade unions, associations and schools in which art was taught as a profession. In his Livre des Métiers (1268), Étienne Boileau listed no less than 101 crafts in Paris, each with its own statute. Until the Renaissance, the arts (major and minor alike) constituted an integrated system: artisans specialising in semi-precious stones, crystal, porcelain, jewellery, engravers and tapestry weavers, the plumbers who made self-operating hydraulic machines, the cartographers: they all enjoyed the same social standing as painters and sculptors. A major split in the arts system was wrought by the anti-corporation controversy raised by the Academies against the workshops. In 1539, Pope Paul iii granted Roman sculptors – who gradually joined the Accademia di San Luca – the right not to be controlled by the corporations. The Académie Royale was also established in 1648 principally as an alternative to the restrictions imposed by the Communauté des Maistres. The principle of design prevailed over the experimental approach of the workshops: the consequence saw a general distancing of the aristocratic culture where technical aspects of the arts were concerned, and descriptions of the procedures gradually disappeared from treatises. The arts and crafts reappeared mid-way through the 18th century in the pages and tables of the Encyclopédie (Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers), but the detailed descriptions of processes and drawings of the workshops documented a world that was fading away. Officially abolished


ENGLISH VERSION by the French Revolution in 1791, the arts dissolved with the advent of Napoleon’s freedom of industry and commerce, whereupon France set about pursuing the first industrial revolution already achieved in England, but with its own laissez faire approach. The 19th century saw a romantic “return” to the arts and to the métiers d’art. John Ruskin, and with him William Morris, encouraged society to use their hands once again, to revive lost techniques. “One cannot be considered a true poet,” claimed Morris, “unless one can write with a pen in one hand while weaving on a handloom with the other.” It is worth bearing in mind that the birth of the Arts & Crafts movement, as a system of ateliers spread throughout the countryside, coincided with the first real crisis of industrial capitalism: in this respect, Craftmanship in Competitive Industry by Charles Robert Ashbee proved illuminating. But in early 20th-century Vienna there was already hot debate over whether it should be design that revived the arts (as Joseph Hoffmann sustained with his Wiener Werkstatte) or if, as stated by Adolf Loos (renowned for his story of the master saddler), real design is that of artisans. It was in their work, imbued as it was with tradition, that he saw the cornerstone of all things modern. After all, the Bauhaus itself was founded in 1919 on the romantic premises of Morris. In last year’s celebrations to mark the hundred-year anniversary of its founding as Europe’s first design school, what was overlooked is the fact that it was first conceived by Gropius as a school for master craftspeople, in an attempt to bring together the design culture and workshop experimentation with stone, wood, iron, textiles, colour, glass and ceramics. Italy has a particular story of its own where recuperations and destruction are concerned. It is to the Società Umanitaria that we owe the schools of arts and crafts, the first University of Decorative Arts of Monza, even the Triennale itself. We are indebted to Giò Ponti for the bold measures he took to make craftsmanship and design the sound pillars upon which the Made in Italy brand would be erected, and it is down to the forgotten Carlo Ludovico Ragghianti that prejudices held by art critics against the minor arts were overcome. Indeed, they were art forms in which he recognised “the most authentic, perfect expression of art for many centuries.” Unfortunately, we lost a great deal of the arts and our own skill in the post-war period. “People talk about a return to the crafts,” Vittorio Gregotti wrote in 1983, “while craftsmanship and manual skill have lost more in the last twenty years than in the last three centuries.” In his masterpiece entitled Dalle Arti Minori all’Industrial Design (1972), Ferdinando Bologna reminds us that, historically speaking, devaluing and revaluing the lesser arts has occurred in step with the devaluation and revaluation of human work in art. So perhaps we should restore the experimental and formative value of work and its technical operative dimension, and allow design students to use their hands in workshops. Let them cut, glue, grind, engrave, fuse and cast. Why shouldn’t all this be reconciled with a digital future and a healthy, humanistic culture? TWENTY-FIVE YEARS: THE DEVIL WEARS ART AND DESIGN Claudio Castellacci The first time I met Franco Cologni (on the eve of the new millennium), he was dressed as a devil. That’s right, he was disguised as Mephistopheles, with cape, tail and horns, and he seemed to be having a whale of a time. He was on the set of a photo shoot with Maurizio Galimberti, who was to portray him for the editorial of the international Cartier Art magazine (no. 7, “Rouge”, 2003), of which Cologni was founder, editor and director. “Red is the colour of Cartier,” he commented. Pause. “And of the devil.” The analogy was a valid one, but the last thing I expected was for the Executive Chairman of the entire watch and jewellery sector of the behemoth controlled by Societé Financière Richemont – that is Cartier, Van Cleef & Arpels, Vacheron Constantin, Piaget, Baume & Mercier, IWC, Lange & Söhne, Jaeger-LeCoultre, Officine Panerai, and other Maisons – to receive me for an interview dressed as the devil himself. But as I would learn over time, the motto Serio Ludere, meaning “serious play”, couldn’t be more fitting where Cologni is concerned. Franco Cologni is, amongst other things, a gentleman upon whom the French have bestowed one of their highest accolades. His achievements – which range from academic activities to theatre, publishing and advertising – include conceiving and creating the Geneva-based Fondation de la Haute Horlogerie (indeed he is the Chairman of its cultural committee). The man in question has also been awarded a Cavaliere del Lavoro knighthood for his

services to industry. But more than anything else, he is the proud chairman of the Foundation that takes his name: the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, which is celebrating its twenty-fifth birthday this year. To mark the occasion, Cologni decided to gift the magazine you are reading to “Elle Decor” subscription holders. It is a new magazine and, needless to say, it sets out to showcase the métiers d’art, creativity and design. In 1995, nobody in Italy was talking about the “Métiers d’Art” (the expression didn’t even exist), whilst in France, a public company to “encourage the métiers d’art” (first known as sema, then inma) had existed since 1976. The brainchild of then-President Valéry Giscard d’Estaing, it protected craftsmanship whilst harnessing its inestimable value, not just in economic terms, but also in terms of national image. Here in Italy, we only witnessed something similar when an individual with visionary insight channelled his all, in every sense, into the task. And yet, he can now boast results that, a quarter of a century ago, would have sounded like fantasy-patronage. The world of craftsmanship is little frequented by our politicians. Why? “Because if you want to acquaint yourself with it, you need to travel around Italy. And we all know just how much of a hurry politicians are in. They’re not used to looking at things with an enquiring eye. Craftsmanship is a niche area, which seemingly has no electoral clout, although it’s of great value. But you try explaining that.” From the very outset, the Foundation has undertaken considerable academic and scientific research, highlighting above all else the “culture” of the métiers d’art. This was mainly achieved through two book series published by Marsilio, examining the great tradition of Italian savoir-faire, along with the new interpretations of contemporary craftsmanship. Luxury and fine craftsmanship: the values of seductive beauty (“Even troglodytes used to adorn themselves with gems”) and intelligent beauty are the guiding lights of his career. “It takes masters to produce beauty, and the masters of tomorrow are the apprentices of today. Even Leonardo worked as an apprentice for Verrocchio. Young people need to understand that becoming an artisan is not just a last-choice option to fall back on. Craftsmen become masters not just thanks to their manual skill, but also to the cultural nature of the learning process they undergo.” To achieve this, Cologni founded the Creative Academy in Milan. This postgraduate school handpicks students from all four corners of the globe, and allows them to further explore areas of applied design. The most deserving are offered work in the Maisons belonging to the Richemont holding. Its chairman, Johann Rupert, and Franco Cologni drew on the experience of the Fondazione Cologni to establish the Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship in 2016. Based in Geneva, the Foundation’s aim is to showcase the world of “master craftspeople” on an international level. In 2018, the two organisations staged an exhibition at Fondazione Cini in Venice, entitled Homo Faber. Given its success and the interest it garnered amongst the public, the Foundations are already hard at work to hold it again in autumn next year. So, are we at the dawn of a new artisan humanism? Will Italy manage, if not to equal the French organisation, to make a decent attempt at keeping up with it? “To be honest, the French and us, we have equivalent values in this field. The difference is they have been able to reap all the benefits of a political intelligence we didn’t have. They’re at least 25 years ahead of us right now.” Cologni pauses. “Although in actual fact, it’s 24 now, because we came along 25 years ago!” A FOUNDATION BRIMMING WITH INITIATIVE… Besides this magazine, from 1995 the Fondazione Cologni has conceived, supported and developed a series of original projects all aiming at promoting the culture of craftsmaship, a goal essential for ensuring that outstanding knowhow reaches the future. The main initiatives can be consulted in the virtual constellation of websites linked to the Foundation: - “A School, a Job. Training to Excellence” Thanks to Fondazione Cologni and a number of generous patrons, more than 200 apprentices have been able to work alongside a master artisan for six months: unascuolaunlavoro.it - “Double Signature. A dialogue between design and artisanal excellence.” Organised with the Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship and Living Corriere della Sera, this event takes place every year to mark the Salone del Mobile furniture fair, with an end to fostering dialogue between artisans and designers: doppiafirma.com MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION - “MAM – Maestro d’Arte e Mestiere” (Master of Arts and Crafts), developed in conjunction with ALMA (the International School of Italian Cuisine), is the official title awarded every two years to Italy’s finest craftspeople: maestrodartemestiere.it

- “Homo Faber: Crafting a more human future”. An extraordinary exhibition-event staged by the Michelangelo Foundation at Fondazione Giorgio Cini in Venice, of which Fondazione Cologni is a partner: homofaberevent.com

- “Wellmade”. The community of connoisseurs of all things beautiful and well-made: well-made.it - “La Regola del Talento” (The Code of Talent). A project that aims to showcase Italy’s finest arts and crafts schools, which can be visited via the educational orientation website: scuolemestieridarte.it - “Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture”, the space at Milan’s Triennale dedicated to themed exhibitions on the most exquisite métiers d’art: triennale.org

- Marsilio’s series of publications, guides and books written in conjunction with Gruppo Editoriale and Idea Books, a series for youngsters entitled Storietalentuose with Carthusia, the educational initiatives with the Case-Museo house museums of Milan, the partnership with Starhotels for the project entitled “La Grande Bellezza”, support for cultural initiatives such as Artigianato e Palazzo, ApritiModa and Festival dell’Ascensione, and all the Foundation’s other projects, can be consulted at fondazionecologni.it ALBUM Stefania Montani Pictalab Milan, Via Privata Battista De Rolandi 14 Inventing reality with brushes and colours, bringing dreams to life whilst turning anonymous walls into breath-taking scenes: this is the mission of Orsola Clerici, an exceptional Milanese artisan. Together with her business partner Chiara Troglio, she specialises in decorating interiors with natural scenes, in-keeping with Renaissance tradition. “Ever since I was a little girl, I’ve been fascinated by wall decorations,” Orsola explains. “Everything from papier peint to frescoes, particularly Leonardo’s pergola at Milan’s Castello Sforzesco. Walking into a painted environment is like walking into a fairy-tale: you feel surrounded by positivity. So I’ve spent the last twenty years studying the plant world. For this research, I received the support of my first customers, architects Piero Castellini and Barbara Frua.” The subjects she paints are mostly trees, bushes, climbers, cactuses and whole forests, for which she uses clear or even fluorescent colours, which spirit observers away into a world overflowing with nature and poetry. The Pictalab atelier is a huge warehouse in Milan’s Officine de Rolandi, a recently renovated industrial complex dating back to 1925. At the entrance stands a large workbench where designs are drafted. Canvases and sheets of paper with work in progress hang from the high ceiling, like so many set designs. Around the walls of the atelier are brushes, tempera paints, gold leaf, resins, chalk and a chest full of drawers, where catalogues and sketches are kept. A workshop of Renaissance inspiration, it is peopled with apprentices, painters, plasterers and architects who alternate work on the more complex projects. “After working on the outline with the client, and once the sketch has been drafted, we paint the colours straight onto the walls or paper, without outlining a design first. This is to give the work a more spontaneous feel. Now many of our pieces are created on paper panels, so they can be moved to different locations,” Orsola concludes. The atelier’s newest inventions include stunning monochrome plaster bas-reliefs. pictalab.com Andrea Zilio Murano (Venice), Località Sacca Serenella On the island of Serenella, which is connected to Murano only by a ferry, there is a place that jealously guards an ancient secret. It is the Anfora furnace, a spectacular example of an artisan workshop where the most refined objects are created amongst the furnaces by master craftsman Andrea Zilio, one of the most important figures in Murano glass. The workshop was founded in the 1970s 114

by Giulio Ferro, the descendent of a family of master glassmakers, who was later joined by his son Renzo. Yet the master of the furnace is Andrea Zilio, Giulio’s pupil and Renzo’s brother-in-law. Considered one of the world’s leading nonfigurative glassblowers, Zilio explains: “I started out reproducing traditional Murano goblets, which I find amazing: I even made some for a museum in Japan. This involved learning more about the more complicated techniques, and developing greater awareness of the choice of colours, as well as mastering how to use the blowtorch. Then I started meeting great artists and designers such as Ohira Yoichi, Ritsue Mishima, Cristiano Bianchin, Michele Burato, Massimo Micheluzzi, Emmanuel Babled, Melvin Anderson and Peter Pelzel. It’s a very complex work, which not only requires technical skill, but also the ability to get into the other person’s mind. Which perhaps is the most difficult part of all!” Zilio’s work is extraordinarily refined and manages to showcase traditional techniques with a modern take and the utmost mastery. “You need to be able to concentrate, as well as being skilled and a good decision maker: you cannot correct mistakes while you are working, you just have to throw it away and start over.” In addition to creating pieces to his own designs and those of others, which prove very popular with collectors, he has also taught at the renowned Pilchuck Glass School in Seattle (USA) and has worked with the Abate Zanetti Glass School of Murano. One of his works is on permanent display in the Contemporary Glass section of Murano’s Glass Museum. He received the MAM-Master of Arts and Crafts award, and took part in the 2018 edition of the “Doppia Firma” project with designers De Allegri and Fogale. glassinvenice.it/artisti/zilio-andrea

Daniele Nencioni Florence, Via Maffia 54/r In the historical Santo Spirito area of Florence, behind the church of the same name, is a workshop that has been producing and restoring extraordinary carved wood sculptures and works since 1980. The owner is Daniele Nencioni, a true master of this craft: “I started working as an apprentice wood carver at the age of 14,” he explains. “I can honestly say I never get tired of it: I love my work, because it combines creativity and manual skill. Of course you need to have a deep understanding of the techniques, materials and styles. But over almost fifty years, I’ve notched up a wealth of experience and, besides, my work also allows me to teach wood restoration, reproduction of carved objects, furniture construction using traditional methods and wooden sculpture restoration. Managing to transmit my love of my work to my students is important. They are the future, we all need to work hard if we want to ensure the survival of the outstanding traditions for which Italy is universally famous.” Carriages were once parked in the huge workshop, which now houses a number of carving benches, whilst the walls are full of models and prototypes, samples and the tools of the trade, including gouges, scalpels, drills, rasps and mallets. Thanks to his considerable experience, Daniele Nencioni frequently works with architecture and interior design studios, as well as museums and superintendencies. “One of the most stimulating experiences of all, and one I have really fond memories of, was the restoration the Abbey of Montecassino (I was really young!), and reproducing some of the furnishings used to reconstruct the Romanovs’ palace in Moscow, during the 1990s. It was quite a challenge.” The workshop is chiefly known for its carved mirrors decorated in gold-leaf, made in every shape and kind, which feature an elegant profusion of decorative elements. The craftsman makes them to design, with inimitable technical and creative skill, resulting in exquisitely beautiful pieces. For several years now, Daniele’s son Lorenzo, who has inherited his father’s passion for the craft, works alongside him in the workshop. lorenzonencioni.wixsite.com/intagliofirenze

Jung Gawang Cremona, Via Palestro 28 Jung Gawang is a young talented man who left Korea in 2012 to hone his knowledge of violin-making at the school of Cremona. His natural gift for the craft, his studies and sheer hard work, and an encounter with past-master Francesco Toto, helped him become an outstanding craftsman. So much so that he walked away with the gold medal at the “Antonio Stradivari” XV International Violin-Making competition in Cremona in 2018, with a special award presented by the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Fanatical about precision down to the tiniest detail, Jung is firmly convinced that the beauty


ENGLISH VERSION of the form and the quality of the vibrations are dictated by the same laws. “I am a perfectionist in every aspect of my work,” Gawang explains, “because I believe that this is the secret of the final beauty of the instrument and the quality of its sound. It’s about striking the balance between form and sound.” In the workshop he shares with his teacher Francesco Toto, housed in a stately building in the centre of Cremona, the young artisan picks out the wood and works it using the time-honoured tools of the trade. Then he prepares the varnish to be applied to the surface. “I choose wood that has been seasoned for at least ten years, with a clearly visible, irregular grain: these characteristics ensure the veining on the soundboard will be enhanced to best effect once the varnish has been applied. One of the most complex aspects of my work,” the skilled violinmaker confides, “is when I prepare the varnish. I use an oilbased one, which has to have precise characteristics: it shouldn’t be too hard, otherwise it prevents the wood from vibrating and blocks the sound. But it shouldn’t be too soft either, otherwise the tone-colour is too dark. Above all, it must be transparent.” It is a balancing act, which Jung Gawang has learned to perfection. For this reason, his instruments are sought after by musicians from many countries, from the USA to Australia, China and his own country, Korea. jungviolinmaker.com

Carraro Chabarik Mosaici Udine, Via Beato Odorico da Pordenone 4/b In one of the most charming parts of Udine, in the pedestrian part of the old town centre, set amidst historical buildings is the colourful window of a workshop owned by Laura Carraro and Mohamed Chabarik. The two highly talented mosaic artists met at the time-honoured mosaic school, Scuola Mosaicisti del Friuli, in Spilimbergo, and later decided to become partners in life and at work. Mohamed is Syrian, originally from Aleppo, and he was born and raised with a love of the ancient mosaics of his homeland. Laura is Venetian, with a background in classical studies and a passion for art. Together they started working on made-to-order pieces, whilst also researching materials and techniques. Their workshop is a veritable feast for the eyes: natural stone, marble and enamels in countless hues are all displayed on the shelves. In the middle is a workbench, and blocks where the materials are cut. Laura explains. “Our mosaics are made by hand, using special techniques, tools and materials. We often work with designers and architects who send us their designs. We make mosaics for walls, floors and furnishings, but we have also specialised in making micromosaic jewellery, which we finish with gold tile inserts. The subjects are abstract, and bring landscapes or stylised flowers to mind.” One of Mohammed’s creations that he recalls with the greatest satisfaction is a world map designed for a collector and made of two timeless materials: enamel and copper. “Our pieces are all one-offs inspired by an ancient tradition, so they are part of our cultural heritage. But whilst the technique follows precise rules, the materials we choose and the designs are always inspired by our own choices, our creativity and personal insight. Recycling is also very important for us: we don’t generate any waste, we reuse everything. And we recently expanded our fields of application to include wood and plastic materials as well.” Laura and Mohamed also hold courses at the Scuola dei Mosaicisti del Friuli, in Spilimbergo. carrarochabarik.it Ugo Cremonesi Soncino (Cremona), Via degli Orfani 2 Being a proficient pipe-organ restorer takes more than just technical skill, knowledge of metals and manual dexterity. It also takes a thorough grounding in history, culture and a good musical ear, plus an archivist’s curiosity to dig through historical documents, and the patience of a saint when it comes to tackling each stage of the restoration. Ugo Cremonesi has all these gifts, and for this reason he has become the trusted conservator of the Curia, as well as earning the title of Restorer of Cultural Assets and the qualification needed to restore instruments safeguarded by the Superintendency. “Before I opened my workshop with Claudio D’Arpino, who has been my business partner since 1997, I attended the Conservatories of Brescia and Trento, I obtained a diploma in piano and harmony, I worked for a pipeorgan restoration company and I specialised in mechanics, renovating bellows, keyboards, windchests and in using animal-based glues. One of the most complicated phases is restoring keyboards and mechanical components, which are forged and beaten by hand in the workshop, just as they were in the

old days. The tools are the same as those used by master pipe-organ makers centuries ago.” The vast workshop located on the road leading into Soncino, in the province of Cremona, has been fitted to enable him to work on the instruments as well as possible: soundproofing, a constant temperature and large work benches. “You need plenty of space because the pipes can be up to five metres long, at times even more. First we study the history of an instrument and consult documents in the archives. We then dismantle every piece, looking for any previous restoration work, so we can take it back to its original state. I oversee every phase, from planning to final harmonisation and tuning. It is an enthralling job, but it takes up a great deal of time: even months for just one instrument. If you aren’t truly passionate about this craft then you can’t do it!” In 2016 Cremonesi received the MAM-Master of Arts and Crafts award in recognition of his outstanding Italian craftsmanship. bottegaorganariasoncino.it

Francesco Raimondi Vietri sul Mare (Salerno), Via Mazzini 160 A decorator by vocation, Francesco Raimondi trained in Vietri’s main “faenzere”, the town’s ceramic manufactories, where he worked alongside the great masters. His exceptional skill, precision and sense of colour allowed him to develop his talent until his encounter with Giovannino Carrano, “the best decorator Vietri has ever seen”, in Francesco’s own words. Raimondi absorbed Carrano’s teachings, including his technique of applying a few quick brushstrokes with varying degrees of pressure in bright colours, known as “Vietri style”. After Carrano passed away, Raimondi inherited Raffaele Pinto’s venerable workshop and started producing astonishing floors known as “riggiole”. “There was a lot of work in those years, it gave me a real sense of satisfaction,” Raimondi recalls. “Then when Pinto died in 1999, I decided to open my own workshop. A small place in the centre of Vietri, with a tiny arch: hence I called it Archetto.” He thus began making vases and plates for hanging on walls, decorating them with feminine figures, landscapes of the Amalfi Coast and delicate Madonnas in the style of Guido Gambone, another legend in ceramics. A number of artists approached him to bring their designs to life. “One of these was Manuel Calgaleiro, from Portugal: it’s thanks to him that I added a new range, the ‘conceptual geometric’ style, using glazes which are spread over surfaces without using brushes, in the Arab style.” They are exceptional pieces that recall the paintings of Picasso and Mirò. “At the moment I’m making large panels, tables and benches for one of the most beautiful villas in Ravello, once owned by Gore Vidal,” Raimondi reveals. “I love my hometown: I’ve always travelled a lot but I come back, because our roots are what we are about.” His works are on display in many museums including Lisbon’s Azulejo Museum, the Ceramic Museum in Fu Ping, China, and Faenza’s Ceramic Museum. In 2016, he received the MAM-Master of Arts and Crafts award. francescoraimondi.com Gaspare Cusenza – Cusenza Marmi Valderice (Trapani), Via Sicilia 137 Griffins, winged lions and medusas. But also garden fountains, statues, altars, baptism fonts, furnishings, not to mention prototypes for architects and designers, and multicoloured floorings. Gaspare Cusenza’s atelier, just a few kilometres from Erice in the province of Trapani, is a little workshop of wonders, where one can admire marble in all its many forms. The founder explains: “When I first opened the workshop in the 1970s, I wanted to rediscover the materials used for the Sicilian baroque style, and make them available once again. I’d always thought the elegance of its designs were wonderful. Like jasper, and antique yellow of Castronovo, which had fallen into disuse at the time, and raised polychrome intarsia. I also started studying and specialising in copies of works from the 17th to the early 20th centuries. This part of Sicily has always been a centre of excellence where marble quarrying and production are concerned, and I feel I am a part of this tradition.” Besides rediscovering forgotten stones and techniques, Gaspare Cusenza also introduced modern technologies with the help of his son Rosario, who explains: “We use numerical control digital machines to make our work easier, but this craft will always revolve around scalpels, cutters, hammers, rasps and point chisels. Hence the importance of possessing manual skill and knowledge of the craft: the hand is always crucial,” he stresses. Gaspare Cusenza concludes: “I would describe my work as that of an evolved artisan, a combination of the classical artist and digital craftsman.” Young artisans are employed in his workshop, whom the master himself has taught all the tricks of the trade to ensure the traditional marbleMESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION working techniques are not lost. Cusenza Marmi has worked for the Vatican, the Superintendency of Rome, the Sultan of Oman and the State of Qatar. It also produces furnishings for architects and designers including fashion designer Domenico Dolce. In 2016, Gaspare Cusenza was presented with the MAM-Master of the Arts and Crafts award. cusenzamarmi.com Alessandro Fiorentino Sorrento (Naples), Via San Nicola 28 One could say that Alessandro Fiorentino is a contemporary Renaissance man: well-read, a lover of all things beautiful and a protector of the arts, he is also committed to sharing knowledge, opening workshops and putting his experience at the disposal of future generations. His skill in the art of intarsia emerged after travelling the world as an architect. “Forty years ago, while in New York, I visited an exhibition on 19th-century intarsia from Sorrento. Many of the pieces were made by travellers on the Grand Tour. I’ve always been fascinated by these objects and had been collecting them for years: I bought them in France, Germany and England. When I visited that exhibition, I decided I wanted to learn the art of intarsia myself.” So it was that his extraordinary journey got underway: Fiorentino specialised in intarsia, and at the same time started working on the restoration of Palazzo Pomarici Santomaso. He turned it into an intarsia museum divided into twenty different sections, setting aside one floor as a workshop where he teaches the techniques of wood intarsia to young people from far-flung places. “Intarsia shouldn’t be seen as a decorative feature: it is actually a functional part of the object itself,” the architect and artisan explains. “It should release us from pictorial constraints and instead become an integral part of the construction. That’s why I teach my young students how to make a piece of intarsia furniture starting with the design of the furnishing itself, and including every stage of the construction. My dream is for every museum to dedicate a section to an artisan workshop where pieces from its collections (perhaps even inspired by contemporary design) can be recreated, which the museum can later sell in the bookshop. It’s a way of promoting craftsmanship in a practical manner, whilst also breathing life into ancient crafts that are an integral part of our history.” alessandrofiorentinocollection.it

Marino Menegazzo Venice, Cannaregio 5182 Goldbeating is an ancient art handed down through the centuries, and involves turning gold into an extremely thin sheet. Today this extraordinary craft, which calls for skill, passion, dedication and patience, is the preserve of just a handful of artisans. Marino Menegazzo acquired the necessary expertise over the course of time from his exceptional teacher: his father-in-law Mario Berta. Now he has become his spiritual heir, and continues his work in his atelier in Venice. “Our workshop is housed in a historical building where Tiziano Vecellio once lived with his children and his assistants. Every inch of it oozes history,” Marino Menegazzo explains. “It is said that whenever the great artist felt homesick for his hometown of Pieve di Cadore, he would sit in the doorway (where the garden is now) and look at his mountains.” The workshop, where his wife and daughters also work, is divided into different rooms for the various stages involved: his own reign is the little house in the garden, where he melts and beats the gold. “The ingot is melted in the crucible inside the vertical furnace. Then it is laminated and beaten over and over again with hammers weighing between 3 to 8 kilos, until the desired thickness is achieved,” the skilled goldbeater explains. “The sheets are cut into small squares measuring 8x8 centimetres, and are stacked in piles of 1,000. The weight of these piles depends on the thickness of the sheets: from 16 to 40 grams.” The goldbeating involves many stages, and each one takes time, from 40-50 minutes to 2 hours for each step. “The gold sheets come in different thicknesses, depending on what they are going to be used for. Cosmetic and edible gold, for example, is wafer-thin, whilst the sheets used for artistic decorations come in five different thicknesses, and no less than 18 colours. Then there are the gold sheets used by artistic glassworks, those used for mosaics, and those used by restorers. There are also silver, copper and platinum sheets.” Marino Menegazzo loves his work. He took part in “Doppia Firma” in 2018 along with Dutch designer Kiki van Eijk. berta-battiloro.com Tessitura Gaggioli Zoagli (Genova), Via dei Velluti 1 The villa dates back to the early 20th century, and sits on the hills in front of the Ligurian sea. But a mere glance at the gate instantly tells us this is no holiday 116

home, and the looms keep a steady tempo as we prepare to enter one of Italy’s most extraordinary artisan businesses of all, Tessitura Gaggioli. Giuseppe explains, “I was named after my grandfather. He took over Società Anonima Velluti, the company he worked for, in 1932. It produced damasks, silks and velvets on old looms. From that point on, thanks to his skill and that of my father Sergio, and with the help of the whole family, our business has managed to maintain the same characteristics it has always had.” It is a tradition that dates back a long time, to the days when Zoagli was a feud of the Fieschi family, and later intensified when the village came under the rule of the Seafaring Republic of Genova. Production techniques have remained virtually unchanged since then, ensuring the exquisite fabrics made here are unique. “The damask is still made on wooden looms, just as it was in the 16th century. Everything is done by hand,” explains Paola Gaggioli, Giuseppe’s sister, who works alongside him. “The product is of exceptional quality, with a weft of 12,200 threads and a height of 60 cm: 470 threads for every square centimetre.” The velvets are also made on 18th-century wooden looms: plain, loop pile, textured, negative and ciselé, and gold or silver laminates. “We have models for the designs from the different periods, and thanks to our archive we can reproduce fabrics that are identical to the originals. For example, we reproduced the damask for the walls of Modena’s Palazzo Ducale palace, the black velvet costumes for Shakespeare’s Globe Theatre, the banners for the Palio of Siena and the Genova velvet for Dresden Castle. Our workshop is run as an artisan business, which allows us to make fabrics to bespoke designs.” In recent years, the Gaggioli family has produced a number of mechanical looms that are used alongside the hand-operated ones to make plain and striped velvets in silk, taffeta and Zoagli silk for furnishings. tessituragaggioli.it Un Pizzo Cantù (Como), Via C. Cattaneo 6 Agnese Selva and Bettina Colombo are two enterprising young designers who come from the Academy of Fine Arts. Six years ago they decided to open an artisan textile lab, which specialises in the venerable art of Cantù lace, but with a new approach. They set out to recuperate a cultural tradition that had rendered their town famous worldwide since the 13th century, and to bring it up-to-date. So after enlarging the yarn up to 2/3 centimetres, as opposed to the kind usually used, they made giant balls of yarn that they worked using the bobbin technique. They use this to make large woven pieces that can be used to cover seats, make rugs, wall hangings, curtains and furnishings. A winning idea, which instantly found support from Living Divani and B&B Italia, amongst others. The Un Pizzo workshop is housed in an old courtyard in the town’s historical centre. Agnese explains: “After buying the yarn (which can be made of different materials, including recycled ones) we make the cord in the size we want, using a machine made for the purpose. This is the only mechanical operation: all the other stages are done by hand. Then the cord is placed on the bobbin before being woven according to the design on the card.” The cards are prepared with designs that suit the structures they need to form, taking into account the practical purpose of the project. “We have invented giant bobbins,” Bettina explains, “measuring around one metre twenty by sixty centimetres. We work at them standing up, with 25-centimetre spindles. We feel like something out of Lilliput...” At the moment the studio is working with a number of companies, designers and architects on new designs and developing prototypes. UnPizzo is also working on an innovative technique to recuperate hand-crafted basket weaving. “We’ll be presenting it at the 2021 Salone del Mobile with B&B Italia,” say the two creative makers proudly. unpizzo.it

THE WORKSHOP: AS CONTEMPORARY AS EVER BEFORE Stefano Micelli Over the last ten years, interest has been revived in a cosmopolitan form of craftsmanship combining tradition with technology and design. This has prompted many observers to reflect that Renaissance workshops provide a timely reference point for a new approach to production. The comparison is not inappropriate. Over the last decade, the Web has revealed the stories of the men and women behind extraordinary products, and it has made it possible to sell local products on international markets, facilitating direct communication between demand and producers. We have discovered, and not just in Italy, that there are artisans capable of turning out unique products designed for knowledgeable, often generous customers.


ENGLISH VERSION The analogy with the Renaissance workshop can be taken a step further. The medieval workshop employed artisans who paid closer attention to the rules dictated by their corporation than to the creativity of the artisan. The Renaissance workshop, on the other hand, showcased the talent of individuals who caught the eye of wealthy patrons. Richard Sennett considers Benvenuto Cellini the prototype of this new kind of artisan-artist. Cellini was a man who led an adventurous life and dealt directly with royal families all over Europe. As Sennett says, he was not just a goldsmith. He was not interested in receiving the protection of his corporation. It might have entailed highs and lows, but he demanded attention and respect for his original skills. In recent times, a surprising number of Italian artisans (many in the furniture sphere) embarked on a similar journey. Many have managed to offer their skills via the Web, thanks to which they have sold their products outside of Italy. The success of these businesses is not just down to the quality and customisation they can achieve. It is also due to increased interest in objects that can create a dialogue and a relationship with those making them. In some cases, buyers are willing to accept minor flaws, as opposed to consolidated quality standards, in exchange for the subjective hallmark of unique, one-off pieces. The value of what we buy depends on an object’s ability to mediate between different cultures and sensibilities. The item is a go-between, linking tradition with the creative verve of a talented maker. As for the economic crisis we are now facing, it is hard to gauge just how much this trend can replace a form of consumerism still mired in deep-seated approaches to how international work is divided. Various scenarios can be envisaged, though they can only coexist to a certain extent. If consumers have little purchasing power, they might soon revert to low-cost goods in an attempt to regain the ability to purchase things at the expense of goods perceived as being too costly, or even completely out of reach. In another far more preferable scenario, renewed awareness of social and environmental sustainability might well prompt many consumers to opt for products with a plausible history, and a face they can identify with. Both types of consumption evolution conceal radically different business models. Stimulating low-cost consumption means placing ourselves in the hands of countries such as China, which is now making sizeable investments in 4.0 technologies. Soon it will be in a position to consolidate a generation of lights out factories, in which human work is purely residual. These factories already exist for manufacturing consumer electronics, and may soon spread to other sectors. In this scenario, the very concept of work might be drastically altered. There are a number of implications for a future that finds room for a contemporary take on a Renaissance-inspired form of craftsmanship. In a context in which skill and work are again values to be recognised, production and consumption start communicating with one another again. Cities provide the backdrop for a form of manufacturing that brings generations together, and workshops and businesses promote learning in locations that revive social and cultural ties. It is difficult to assess how European companies will evolve in the coming years. What we do know is that this downturn will be long and challenging. As for Italy, the choice between the first and second scenario will not be made thanks to those wistfully reminiscing over the greatness of 16th-century Italy. Instead, it will have to measure itself in terms of the determination to invest in education that can sustain a new vision of manufacturing. It will be down to the willingness of local authorities to grant manufacturing premises permission to operate in city centres, thereby ensuring the right conditions for urban artisanship backed by cultural institutions and quality tourism. It will be reliant on our desire to support sustainable consumption, both individually and collectively, which promotes commitment and culture. SOVEREIGN MASTERY Chiara Maggioni The splendour of Europe’s 16th-century courts was conveyed by residences adorned with breath-taking works of art, and by sumptuous public ceremonies and receptions. A key role was played by banquets: they were permanent, fully-fledged celebrations of the ruling class and their entourage, a display of luxury and refinement held to mark visits from foreign sovereigns, ambassadors and other personalities. In the intimate setting of the Kunstkammer of Vienna’s Kunsthistorisches Museum, two pieces communicate with one another from their respective cabinets, illuminating the shadows with glints of gold and colour. They couldn’t be more different in terms of design, but both share an exceptional conception and

unrivalled technical mastery: they are the centrepiece designed to contain salt and pepper, known as Benvenuto Cellini’s Salt Cellar (1540-43) and the semi-precious stone vases carved by various generations of the Miseroni family (active from 1460 to 1684), Milanese in origin but sought after in Europe’s greatest courts. Historically and existentially-speaking, Cellini himself describes the context of the Saliera, or Salt Cellar. In documenting the tumultuous events of his lifetime for posterity (Vita, 1558-62), he maps out the restless years of his youth, first as an apprentice in various goldsmith workshops in his hometown Florence, then in Siena, Bologna, Pisa and finally Rome, where the key encounter with Caradosso Foppa, Milanese goldsmith and medal maker to the papal court, occurred. Under Clemente vii Medici (1524-34), he would later go on to replace him. More than how he actually came to acquire the tools of his trade, his story reveals his most formative experiences. They include the influence of the ancient Roman sarcophagi of Pisa’s Camposanto, the sketchbooks containing studies in antiquity by Filippo Lippi, and the three great Renaissance masters themselves: Leonardo and Michelangelo, and the cartoons of the never quite completed Battles of Anghiari and Cascina in Florence’s Palazzo Vecchio; and Michelangelo and Raphael, in the decorative campaigns for the Vatican Palaces. After his return to Florence (1535), he was also able to study the tombs of Giuliano and Lorenzo de Medici in the New Sacristy of San Lorenzo, confirming his devotion to the “great Michelangelo”, “from whom, and never from others, I have learned all that I know” (Vita, ii, 21). All these experiences were brought to bear in the Saliera, initially commissioned by cardinal Ippolito ii d’Este (1539), with the proviso “that he wanted something of a departure from the ordinary salt cellars made by others” (Vita, ii, 2). Cellini himself describes the design, of which he made a wax prototype: a complex allegory of Planet Earth, which rivalled the great portrayals the Renaissance masters had hitherto executed using the so-called “major” arts. Yet Ippolito d’Este and his advisors thought it overly difficult to achieve, and the amount of time needed to make it hard to predict. The cardinal suggested that a sovereign such as Francis I of France, who was gathering the finest of the new generation of artists to his court, might embark on such an undertaking. Then came the revelation: the king wanted Cellini with him. Indeed, Francis I gave him a warm welcome, naturalised him French and granted him a castle in Paris, with the same salary once given to Leonardo: the project could finally get underway. The technical qualities of the Saliera were exceptional. It was chiselled entirely freehand from rolled gold - instead of being cast in a mould, as its perfect forms might suggest at first glance. It is enhanced by bewitching touches of encrusted enamel applied en ronde-bosse, linking the two main figures to the myriad of lesser allegorical elements covering the base of the composition. The interwoven symmetry of the slender figures in elegant poses, and the exquisitely accurate execution of every slightest detail, make for a harmonious effect overall. Neptune rides the waves, pulled by four seahorses, a trident in his right hand and a handful of seaweed in the left. Beside him is a galleon with a grotesque mask as figurehead, designed to contain the salt, whilst the sea is positively teeming with fish and crustaceans. The Earth rides on the back of an elephant, covered with a blue standard with the fleur-de-lis of France. With her right hand she offers her milk, whilst the left hand holds out flowers and fruits. Beside her is a small Greek temple for containing pepper, on the roof of which lies the small figure of Abundance, whilst a salamander, the personal emblem of Francis I, can be made out in the meadow full of flowers and fruits. The ebony pedestal features figures depicting the cyclical nature of Time, and the directions of Space: the parts of the day – Dawn, Day, Dusk and Night – replicate the archetype of the New Sacristy after the fashion of Michelangelo. They alternate with allegories of the winds, an ancient theme adopted by Raphael in the Vatican Loggias, while the relief work sees trophies of work tools linked to the marine and terrestrial worlds. So the Saliera summarises the experiences of the Renaissance, including the artist’s desire to immortalise himself in a masterpiece expressing his talent in full, an intelligent and empathic opening to the new international tastes unfolding in Fontainebleau. The Saliera was to be the final test of Cellini the goldsmith before he set about working as a sculptor. It is no surprise that the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte singled it out as the guiding image of its founding values and mission. The workshop of the Miseroni family followed altogether a different path. It set about responding to the increasing demand for luxury tableware with an original approach, which produced a range of creations that revived ancient glyptic techniques. These were teamed with new formal inventions, and an approach that won favour in Europe’s courts in a short space of time. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION First documented as goldsmiths in Milan in the second half of the 15th century, Gasparo and his brother Girolamo rose to international fame as semi-precious stone vase carvers. By the Fifties and Sixties, Gasparo had monopolised orders from the Medici household, earning the enthusiastic admiration of Vasari: “And Gasparo and Girolamo Misuroni, Milanese carvers, of whom we have seen vases and beautiful crystal goblets. In particular they have made two for Duke Cosimo which are miraculous, and they have made a vase of wondrous size and admirable carving from a single piece of heliotrope, and a large vase in lapis lazuli, worthy of infinite praise.” (Vite, 1568, iv). The heliotrope and lapis lazuli vases made for Cosimo i (Florence, Museo degli Argenti, 1556; Museo di Storia Naturale, ca. 1563) display Gasparo’s main formal invention: the shell-shaped cup is markedly asymmetrical, with a marine animal wrapping itself around it, almost blending into it, with hybridised forms. This surprising metamorphic approach also appealed to Maximilian ii of Hapsburg, who requested several pieces in the Sixties and Seventies (Vienna, Kunsthistorisches Museum). The new emperor, Rudolph II, managed to sign up Girolamo’s son Ottavio, who was later joined by his brothers Giovanni Ambrogio, Aurelio and Alessandro. He was hired as official engraver to the court in 1588, which in the meantime had transferred to Prague. Ottavio’s creations feature even more sinuous lines, owing to the soft, sensual approach he adopted on the surfaces. These are enhanced by the gold settings, enamels and gemstones of Flemish goldsmith Jan Vermeyen. Prague’s cultural milieu spawned new interest in the aesthetic value of materials, particularly for singular “autochthonous” stones, which the sovereign, who had a passion for the mineralogical riches of his states, had others seek out so he could add them to his Wunderkammer collection. The introduction of embossed decorative features with a flush metal edge completely separate from the shapes of the vases themselves was in keeping with central-European tastes. Lastly, the works of later years saw him abandoning the combinations/metamorphoses of natural elements in favour of an abstract, mobile, indefinably organic approach, such as the jasper bowl (Paris, the Louvre) created for Rudolph ii to mark twenty years of work in his service, which earned the Miseronis a promotion to the rank of nobility. With the death of the sovereign (1612), the heyday of the semiprecious stone vase passed, prompting the workshop, which remained active in Prague for two more generations, to specialise in new fields. “THINGS OF BEAUTY STRIKE A BALANCE”: THE PESTELLI GOLDSMITH AND JEWELLERY WORKSHOP IN FLORENCE. Elisabetta Nardinocchi When we talk about Florence’s artistic craftsmanship, we tend to stress the continuation of a solid, long-standing tradition. In so doing we are not expressing an impression so much as an objective, historically documented fact, which aims to transmit, and accordingly renew, its knowhow from one generation to the next. Whilst this is true of artisan professions in general, it is particularly apparent in certain production areas, chief amongst which being Florence. From ancient times, the city’s artistic workshops have been careful to ensure they do not let their legacy of tools, production techniques and models (or indeed ties with customers) disperse beyond a close circle of family and workers. So much so that upon the death of a business owner, the widow would often be married off to the most promising assistant. Whilst this in no way applies to the Pestelli goldsmith and jewellery workshop, we can still reconstruct how a longstanding tradition has wound up in the premises where it operates to this day, under the watchful eye of Tommaso Pestelli, in the ancient Borgo Santi Apostoli, right in the very heart of Florence. The company’s sign heralds a business first established in 1908, when Edoardo Pestelli (18741965), great-grandfather of the current owner, took over a jewellery shop in Via Strozzi. It specialised in making refined knickknacks and furnishings in gold and silver using mosaic-work, precious and semi-precious stones, not to mention pearls and corals (the latter featuring heavily in early productions), clearly inspired by traditional forms of times past. Edoardo Pestelli did not, of course, improvise the way he ran his business: he brought a wealth of experience he had notched up in the previous century. His sister Elvira had in fact married Gino Marchesini in 1893. He was the last heir of a goldsmith workshop for which records go back to 1784. Throughout the 19th century, this workshop distinguished itself as one of the most important, original and innovative in town, with shops in Florence and Rome. It won a number of prizes at exhibitions, and was above 118

all gratified by important orders from the households that reigned prior to the Grand Duchy government, and later the Italian nation itself. In the first few decades of the 20th century, the company had, however, been racked by deaths and difficult circumstances that forced it to sell the stores, and turn itself into a limited partnership. This prompted Gino Marchesini to protect his past, leaving to his brother-in-law, who had already trained as a goldsmith, his plaster casts, lead models, iron moulds and three albums of drawings: in short, everything upon which he had built his fortune. The models were of particular importance, as the designer, Camillo Bertuzzi, who was working for the Marchesinis during their phase of greatest expansion, is recognised as one of the leading lights of international jewellery-making in the 19th century. This legacy is still in the hands of the Pestelli family, bearing witness to roots that belong to a history, a tradition that cannot be forgotten, and one that affected how the workshop evolved throughout the 20th century. Around 1920, the gifted Francesco (1902-1987) also joined the atelier. He was one of Edoardo’s sons, and would soon go on to run the family business. He was followed by Luigi, Francesco’s brother, and a second Luigi, Francesco’s son, up to the present-day management of Tommaso Pestelli, Edoardo’s great-grandson, who represents the fourth generation of this family of goldsmiths and jewellers. In the meantime, the shop moved from Via Strozzi to Via Tornabuoni, before moving back to Via Strozzi again. Eventually it ended up in Borgo Santi Apostoli, taking with it not just the legacy of the Marchesinis, but also another key teaching from the fathers themselves: always and only use highly skilled artisans that can pass their knowledge and experience on to future generations. Of these, the most memorable were goldsmith Ferdinando Ilari, chiseller Marcello Rovini, Tagliaferri father and son, expert gemstone engravers and stone setters, and lastly Tonino Batacchi, who was in turn teacher and mentor to Tommaso Pestelli. So it was that Tommaso Pestelli on the one hand followed the teachings of his elders, whilst on the other set about rediscovering Florentine traditions from the late 16th century, including the fantastical zoomorphic figures that had long fascinated him. He then added to these his own creative verve, fostered by studies as a sculptor, and the suggestions of his wife Eva Aulmann, a successful graphic artist. Key customers of the business throughout the 20th century included the Savoy family, the royal family of Romania, the Viceroy of Egypt, the Vatican... Moving towards the present day, some of Pestelli’s most prestigious works have been on show since 2010 at the Museo del Tesoro dei Granduchi in Palazzo Pitti (formerly known as Museo degli Argenti, or the Silverware Museum). In 2011, the company was recognised as a Historical Italian Company, and in 2018 it received the “DNA Artigiano” award, to mark 110 years in business. The works still being created by the skilled hands of Tommaso Pestelli are beautiful and timeless. The stones are carefully selected, and the workmanship is painstaking, bringing the many zoomorphic variations of his repertoire to life. They include fish and frog, owl and octopus, to name but a few. “It is the kingdom of dreams, of all things irrational and mythical,” the goldsmith explains. “They take shape in objects that I only consider successful when I manage to balance the natural element (the beautiful stone, the attractive colour, the pleasing transparencies) with the element of artifice I have moulded: neither must prevail over the other. Things of beauty strike a balance.” THE MANY LIVES OF CORAL Alba Cappellieri Coral is one of a handful of materials revered since the dawn of time: no sooner had primitive man picked up a piece of coral washed ashore on a beach, than he immediately donned it for decorative purposes. The same can only be said for gold, held to be divine ever since it was first discovered. Anthropologists think both materials were viewed with wonder because of their colour: the red of coral recalls lifeblood itself, whilst the yellow of gold evokes the brilliant light of the sun, also a source of life. Coral’s incredible roots lie in Greek legend: the heroic Perseus decapitates the Medusa before laying the terrible Gorgon’s head on bushes, which are turned to stone by the blood. The goddess Athena then makes the miracle immortal, and all the world’s seaweed is turned into crimson coral. The mythological appeal is combined with healing, therapeutic and apotropaic virtues, making coral a powerful, life-giving, magical substance. It was reputed to ward off the evil eye, enhance fertility, help wounds heal and attract good fortune. It was given in amulet form to wet nurses to facilitate breastfeeding, tied around children’s


ENGLISH VERSION necks to keep evil spirits at bay and also to dogs’ necks, to protect them from rabies. Yet it was also scattered on the ground to save crops from drought, or mixed with magical potions to counteract male impotency. The Gauls, for example, entrusted protection of their weapons to coral, whilst the Mongols used it to decorate horses and daggers. The 15th century witnessed the first of coral’s three revivals, when it was widely used as an amulet, and increasingly as a rare, precious ornament. Coral was in fact in demand amongst the most elegant ladies in Europe, as well as in Asia (coral jewels formed part of bridal dowries in Mongolia and Uzbekistan), in Tibet, India and above all China, where it was combined with pearls, turquoise and jade to make jewellery worn at court from the year 1,000 onwards. In the 15th and 16th centuries, coral featured in necklaces, brooches and bracelets, not to mention the exquisite rosaries worn with nuns’ habits. In Renaissance fashion, the coral bead necklace was an essential element of wedding trousseaus for young brides from every social status, not to mention the first piece of jewellery given to new-borns as a good-luck charm to decorate cradles. It was used in the famous langouiers, small instruments in which an animal’s tooth or a particular gemstone were set in coral and used by the king and noblemen to detect poison in food. All bear witness to the importance of this fascinating material in its two-fold guise as jewel and amulet, as seen in paintings by Cosmè Tura, Pinturicchio, Carlo Crivelli, Piero della Francesca and Antonello da Messina. Perhaps the most emblematic example of all is Andrea Mantegna’s breath-taking votive painting of the Madonna della Vittoria dating back to 1496, in which an enormous branch of coral hangs over the head of the Virgin, marking victory and Francesco Gonzaga’s lucky escape at the bloody Battle of Fornovo. The first industries to hand-craft coral were established in the 14th century in Naples and at Torre del Greco: beautiful objects were turned out, including jewellery but also ornaments, nativity scenes, small sculptures, pieces made by goldsmiths and the well-known “cornetti” or good-luck horns. Torre del Greco thus became one of the most important productive districts, not just for coral fishing, but also for its manufacturing. This lead to the second revival of red gold during Neoclassical times, when this invaluable material reached the peak of its success. Along with cameos, pearls and diamonds, coral was used to embellish diadems and tiaras, the characteristic head ornaments of Neoclassical inspiration widely used in Napoleonic courts around Europe. The sumptuous decoration was founded on a naturalist interpretation of classic forms, particularly flower and fruit compositions, which were adopted for their flawless natural harmony. Coral crafting at Torre del Greco, combined with that of mother-of-pearl, shells, lava and gemstones, proved so fruitful for the town that, in 1878, the Coral Engraving and Decorative Arts School was founded to train the very best coral artisans. Once the Neoclassical fashion had died out, coral once again took centre stage in some of the most beautiful piece of Art Deco jewellery. This artistic season marked coral’s third revival, and the last moment of unity, creativity and innovation in 20th-century arts. France’s greatest jewellery Maisons, including Cartier, Van Cleef & Arpels, Boucheron, Fouquet, Mauboussin and Lacloche, created masterpieces in which coral was paired with onyx, diamonds and rock crystal to give colour and depth to Art Deco geometric effects. Interesting examples include a 1930 bracelet by Cartier, with fluted coral beads, or the geometric brooches Lucien Hirtz designed for Boucheron for the 1925 Paris Exhibition, made of onyx, coral and diamonds, and lapis lazuli, jade and coral. Not to mention masterpieces by Van Cleef & Arpels, such as its 1974 Drapée necklace, transformable into three bracelets and long sautoir necklaces. It was thanks to the Art Deco jewellery pieces that Torre del Greco became the “world capital” of coral crafting, consolidating and enhancing the area’s vocation: to this day, it represents the finest centre for manufacturing “red gold”. The town’s most symbolic jewellery families include Liverino 1894, Fratelli De Simone and Ascione: all three businesses opened at the start of the 20th century and went on to make their mark on the international stage thanks to the quality of their workmanship. All have combined the flexibility of the family-run enterprise with a keen eye for international markets, and craftsmanship with creativity and sustainability. As a result, they have won the trust of fine jewellery Maisons both in Italy and abroad, as proven by Chantecler, which dedicated jewels of rare beauty to Torre del Greco’s coral. Other areas in Italy specialise in coral manufacturing. In the early 18th century, the ateliers on Via San Vincenzo in Genoa were a focal point of coral crafts.

Alghero, in Sardinia, was known as the Coral Riviera, while Sicily was famed for the delicate handwork carried out in Trapani. Sicily’s traditional businesses include that of the Fiorenza family, which has focused on coral manufacturing since 1921. Today, the baton of Trapani’s fine craftsmanship has been handed over to Platimiro Fiorenza, who is listed as one of UNESCO’s Living Human Treasures. It is to him that we owe beautifullymade jewellery, nativity scenes and sculptures in coral, such as the Madonna of Trapani in gold, coral and gemstones, currently on display in the Vatican Museums, as well as a gold and coral font made for His Holiness John Paul ii. Thanks to his extraordinary knowhow, the Fondazione Cologni bestowed upon him its MAM-Master of Arts and Crafts award in 2018. An accolade the Foundation also awarded to virtuoso Enzo Liverino in 2016. Coral is culture, beauty and art. It is thanks to our great master coral craftspeople, to the artisan businesses and territories of excellence, that this “blood of the gods” is turned into a fine, unrivalled art form, for which we are admired all over the world. FRATELLI BOFFI: BETWEEN CLASSICISM AND EXPERIMENTATION Ugo La Pietra Countless shapes, templates, decorative elements, beading, semi-finished classic and period-style furnishings, all waiting to be completed… the smell of carved, turned and planed wood… This was how the vast workshop of the Boffi brothers’ family-run business appeared in the early 1980s. Established on the outskirts of Lentate sul Seveso in 1928, the company made classic and period-style furnishings inspired by Louis xv, Louis xvi and Empire styles. For decades, they supplied department stores in Europe and the rest of the world, from Harrods in London to Lane Crawford in Hong Kong, and Macy’s and Bloomingdale’s in the States. Whilst industrial design started to grow in Italy in the 1960s and 70s, Fratelli Boffi were still making classic pieces of furniture, keeping the “craftsmanship culture” of traditional cabinetmaking alive. Then in 1986, when the “Abitare il Tempo” trade fair was established in Verona, something changed. The fair began to host experimental demonstrations that paired the “craftsmanship culture”, represented by classic furniture manufacturers (who had never worked with designers until then), with the “design culture”, represented by designers and architects (who had never set foot in workshops). With the exhibition entitled “La casa del desiderio” held in 1987, I introduced a series of different works by the likes of Adolfo Natalini, Luca Scacchetti, Marcello Pietrantoni and Vincenzo Pavan, and made an installation that juxtaposed semifinished classic furnishings with pieces of contemporary furniture I had designed for the occasion, made by Fratelli Boffi. The latter was a collection I called “Plissé Furniture”, which revived classic techniques and processes, and showcased the use of fluting, a feature of pillars of classical inspiration. The installation opened a path from the classic to the contemporary which was not just adopted by Fratelli Boffi, but was also subsequently pursued by many other companies and designers: a path which, over the course of fifteen years, became the added value of Abitare il Tempo. The “Plissé Furniture” was followed by other series, with works displayed in different exhibitions and fairs both in Italy and abroad: at the Paris fair, in London’s Liberty store, at Seibu department store in Tokyo, and even in the Paris Museum of Decorative Arts. So it was that Fratelli Boffi acquired a new image: from traditional to contemporary. This two-fold quality, whereby the well-preserved culture of traditional cabinetmaking was combined with contemporary design, proved enticing for many designers. The result saw a veritable host of partnerships with architects to make objects or indeed entire collections for hotels, such as those designed by Philippe Starck and Nigel Coats, followed by Italians designers with a reputation for experimentation and innovation, including Ferruccio Laviani and Aldo Cibic. Today, the company is animated by architect Alberto Boffi, the last of the Boffi generation. The company combines outstanding skill with an openness towards design that is increasingly inspired by its international clientele, without losing sight of its original nature: an artisan business deeply rooted in an area of timehonoured tradition. THE TRAVERSARI FAMILY: CREATORS OF BEAUTY Maria Pilar Lebole The Traversari family has been producing mosaics in Florence for four generations. The business was first established by Arturo, in the last quarter of the MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION 19th century, with a workshop that made souvenir jewellery with stone mosaics, aimed at an elite, often foreign clientele. The objects allowed discerning tourists to keep a tangible miniature memento of all the things they had admired on their Grand Tour of Italy: monuments, classical ruins, landscapes, scenes of popular life or flowers such as lilies, irises and roses, the symbols of Florence. In those years, Italy’s artistic culture was rediscovering the complex techniques and figurative expression of traditional Roman and Byzantine mosaics. The search was on for the original quarries, mines and raw materials, along with traditional manual techniques unchanged through the centuries, which were adopted to prepare and compose the mosaics. Manual skill was combined with inventiveness, drawing skills and craftsmanship, which made it possible to create flawless compositions with the stones. These compositions harnessed the characteristics and expressive potential afforded by the compact, fragile stone, by changes in hue altered by cut and the way the light hit the surface, and its veins in different shades. This mastery and responsiveness was acquired over the course of time, and resulted in ornamental objects designed with the needs and revivalist tastes of the late 19th century, which was rediscovering mosaic art as a form of artistic expression offering sophisticated forms of decoration. Yet it was also an art form used to restore mosaic works damaged by the passing of time, or to replace missing or fallen parts, whilst also creating flawless copies of celebrated paintings and stone objects displayed in Florence’s private and public museums. Mosaic art was in fact deeply rooted in the Florence area, where works of great value are preserved. To name just a few well-known examples, they include the stunning remains housed in the Church of Santa Reparata, Florence’s old cathedral, the mosaics of the Battistero, and the 15th-century works commissioned by Lorenzo il Magnifico, including Porta della Mandorla, made to a design by Domenico Ghirlandaio. Following an artistic journey that continued down through the centuries, its focal points were the Medici workshops of the Uffizi which, at the end of the 16th century, went on to become a semi-precious stone workshop, also known as the “Galleria dei Lavori”. This was later turned into the “Opificio delle Pietre Dure” in the late 18th century, and was based in Via degli Alfani. This complex artistic background set the stage for the work done by the Traversari brothers, Alfredo and Aldo, over subsequent decades. They took over from their father Arturo before moving the business to Porta Romana, and were later followed by Franco’s new generation. At present the business is run by his children Daniele, Letizia and Lorenzo, Aldo’s son, with the help of experts in a brand of craftsmanship in which everything is made entirely by hand. The handpicked materials are largely sourced in the Florence area and Tuscany as a whole. Combined with the extraordinary quality of the craftsmanship, they set the product apart as first and foremost “Made in Florence”, then “Made in Italy”. The Traversari family now produces mosaic jewellery on a brass and silver base, and artistic mosaics featuring a variety of botanical and floral subjects as well as landscapes or compositions that are painstaking reproductions of famous paintings. They are true masters of the three different techniques, all of which call for great skill and artistry. Mosaics made of natural semi-precious stones (chalcedony, jasper, lapis lazuli, malachite...) and handpicked marbles recall the city’s tradition in commesso fiorentino, whereby stones are arranged to create a decorative motif. The stones are cut using traditional tools such as a wooden bows with wire and abrasive powders. They are then pieced together and polished, creating colour nuances and light-andshade effects with the natural composition of the semi-precious stones. The second technique uses square glass mosaic tiles, naturally from Murano. The technique is of Byzantine origins, and creates effects that change with the light. Two different processes are used: the “reverse” application of the tiles, which are attached to a paper backing before being turned over, and the “direct” technique, where they are instead fixed to a plaster base. The historical workshop has also breathed new life into the late 18th-century micromosaic or minute mosaic technique, using glazed glass or glass paste combined with Murano metal oxides. This glazed glass is transformed or spun using a delicate process, which recasts it in thin rods known as teghe to make tiny tiles. These are set out vertically in the desired decorative motif according to the various shades used. It is then levelled horizontally to create a smooth surface. Considerable skill and superb mastery are found in this time-honoured Florentine atelier, which takes us back to the magnificence of the Medici workshops. Its delicate, poetic creations are delightful: they are the result of unsurpassed mastery still admired the world over, a jewel in the crown of Italy’s “Great Beauty”. 120

A DYNASTY OF GUITARS MAKERS Giuditta Comerci In folk music groups, the chitarra battente has an unmistakeable sound: “Like a laugh, a shower of rain or a small waterfall, its sound resembles the constant play of water,” as author Maria Scerrato notes. But it is also made instantly recognisable by its shape: only slightly smaller than a classical guitar, it has narrow shoulders, a deep, elongated case in the shape of an hourglass, a rounded back in contrasting two-tone strips. It also maintains the features of its 18th-century roots, from the parchment or wood rosette used to cover the soundhole, to the inlays and decorations, which often bear the hallmarks of the manufacturer. Today, it is almost exclusively made in southern Italy, particularly Calabria and Puglia. A key feature of traditional popular taranta music, of serenades and songs sung in dialect, it is experiencing a rebirth thanks to a number of Calabrian musicians who are aware of just how unique the instrument is. A fact that is no secret to the De Bonis family, which actually makes the chitarra battente. Since 1780, when they were first summoned to Bisignano to supply the lively Sanseverino court with instruments, the history of the workshop and its outstanding instruments have made it one of a kind. In the early 20th century, Giacinto iv De Bonis (1892-1964) decided to embark on a more ambitious approach to promoting his workshop’s instruments. His chitarra battente was highly sought after, both in the five-course version for expert musicians (with ten chords divided into five pairs), and in the more popular four-course version. In the 1940s, his sons Nicola and Vincenzo, who were dedicated to the classical guitar and the artistic production of antique stringed instruments, took over the company. Word about their talent spread so fast that as early as 1951, their names were entered in the Dictionaire universel des luthiers drafted by René Vannes. Bisignano became a place of pilgrimage for the most important Italian and foreign musicians, and Rosalba, Vincenzo and Nicola’s niece, who now also works in the workshop, recalls a childhood full of comings and goings, languages and pastries. Lots of pastries, in keeping with Calabria’s time-honoured tradition of welcoming guests. Rosalba grew up amidst the smell of wood, workshop tools, arguments between the brothers and lots of sounds: because anyone turning up tried out the instruments, but also because Nicola and Vincenzo were themselves superlative musicians, and their love of sound was as much a part of making music as it was making instruments. Yet it was only at the age of twenty-six that she first picked up the tools themselves, after she dreamt of embracing a golden guitar: “I went into the workshop the next morning, and I’ve not left it since,” she recalls. “Uncle Vincenzo was a bit of an awkward character: the minute he realised I was interested, he started stressing the fact that I’m a girl, that I was too old, and left-handed! For two years I just watched without being able to ask any questions.” So it was that the first hurdles and prejudices Rosalba encountered were put up by the same precious hands which, on seeing how committed she was, taught her the tricks of the trade. She decided to study at Cremona’s International Violin-Making school, where she discovered that the family tradition and technical specifications had sound roots. She even learned that there was a “nearness” to Venice which until then had only been a hunch: the Calabrian terms used for the chitarra battente are similar to Venetian ones, and the system used to assemble the strips of wood for the back recall the technique used to make gondolas. On returning to Bisignano, Rosalba realised that the chitarra battente was “hers”: “When you feel your hands doing what the mind thinks, without having to envisage a passage or a grip, then you realise the work has really got under your skin. Making stringed instruments changed me, as a woman: the feminine side of me finds its way into my guitars. I have made seventy-five chitarra battente guitars since I went into business on my own, and they are the best-known and loved of all. Though I am also very fond of my classical guitars.” The wood from the Sila she uses includes fir, chestnut, walnut, poplar and cherry, and is the very same wood still left in the warehouse by the last generation. Dozens of family forms from the past are at her disposal, as are the strings and glue of animal origin: aside from this, every piece is held together with special assembly techniques and joints. The strips of wood inside the body have specific positions in De Bonis guitars: they serve an acoustic purpose, as well as giving support. For Nicola, her experimentation with the varnishes used to polish the instruments was subtle and painstaking. The varnishes change the sound and, as a result, De Bonis guitars are still varnished several times over, neck included:


ENGLISH VERSION “The instrument has to shine, in the finest Italian tradition, because it should be a gem, from every standpoint.” De Bonis chitarra battente guitars have found room on notable stages, including those of the Bennato brothers and Francesco Loccisano, who researches innovation in sound and language, creating new music and refined contemporary compositions. He explains that Rosalba was crucial to his attempts to bring structural innovations that would allow the instrument to achieve greater feats in execution. He has also managed to make a lighter instrument whilst achieving greater stability in different climates while travelling, and under the stage spotlights. “Rosalba gave me the chance to experiment, it was crucial,” explains Loccisano, who managed to achieve the end result thanks to his friend and stringed-instrument maker, Sergio Pugliesi, from Scilla. Today, Chitarra Battente is an academic course at the Conservatorio of Nocera Terinese in the province of Catanzaro, and is proving a runaway success amongst young guitarists and composers. An unexpected revival, thanks also to the perseverance of those who not only continue building this instrument, but also instilling love, care and beauty in every piece. The approach and reputation of Nicola and Vincenzo De Bonis have galvanised the Museo di Liuteria in Bisignano. But above all they galvanise the hands and lively spirit of Rosalba De Bonis, the thirty-third guitar maker of her dynasty: a left-handed woman, working in the heart of Calabria. THE MAIOLICA OF THE FARNESE FAMILY Valentina Mazzotti In the course of the Renaissance, prelates, princes and dignitaries from all over Europe purchased sumptuous majolica dinner sets (credenze, literally sideboards) for their homes. Often they were chosen over the more valuable tableware made of precious metal, not least because of the commonly held belief that food “tastes better in clay dishes than in silver ones”, as Giuseppe Campori stated in Notizie storiche e artistiche della maiolica e della porcellana di Ferrara nei secoli xv e xvi (Modena 1871, p. 25). Between the 16th and 17th centuries, these sets were the most typical form of fine dishware for special occasions. They were used to adorn tables at important banquets, to celebrate the splendour and power of the dignitary and his household, and often also featured the coats of arms of the noble family concerned. The Farnese family, which originally hailed from the Tuscia area, was particularly susceptible to the charm of majolica services. The Farnese house held considerable military, political and religious power in Renaissance Italy, reaching its peak in 1534 with the appointment of Cardinal Alessandro Farnese (1468-1549) as Pope Paul iii. The most flourishing majolica workshops of the 16th century, particularly those located in central Italy, received many and varied commissions from the Farnese family. This is clearly shown by a superb ceremonial plate from the collections of Faenza’s Museo Internazionale delle Ceramiche (MIC, International Museum of Ceramics), produced in the workshops of the Umbrian municipality of Deruta, in the middle of which is the coat of arms of Pope Paul iii Farnese. Accordingly it can be dated to the period of his papacy, between 1534 and 1549, the year in which he died. Urbino’s artisans turned out many works decorated with historical imagery. These sets proved highly popular in Renaissance times, and were painted with scenes inspired by mythology and ancient history. The paintings were often combined with “grotesque” (or “Raphaelesque”) scenes on a white background, inspired by the vast repertoire of paintings and stuccowork found in the underground “grottoes” of Nero’s Domus Aurea in Rome, and later used as inspiration by Raphael and Giovanni da Udine in frescoes for the Farnese residences and the Vatican Loggias. The involvement of potters from the duchy of Urbino to make majolica for the Farnese family is mentioned by Giorgio Vasari in his work Vita di Battista Franco (Florence 1878-1885, vi, pp. 581-583). He made preparatory drawings of the “stories” for an exquisite service commissioned around 1548-1550 by Duke Guidubaldo ii for Cardinal Alessandro Farnese (1520-1589), nephew of Pope Paul iii. This confirmed the close relationship that had been consolidated in 1548 with the duke’s marriage to Vittoria Farnese, the cardinal’s sister. From the middle of the 16th century, the Farnese family also began to commission works from Faenza’s majolica craftspeople. The latter were responsible for creating the popular fashion for “bianchi” or white pieces in a “compendiario” style, featuring a thick milky white glaze and painted features in a limited range of hues

(blue, two shades of yellow and at times brown) applied in fine strokes. Such was the popularity of Faenza’s “bianchi” in Italy and abroad that majolica came to be known with its new name of faïence, becoming well-known in France and all over Europe from the first decades of the 16th century. No Farnese household could be without this “white” majolica, and in 1587 no less than four of these white services were recorded at Parma’s ducal court, totalling 162 pieces. The Farnese’s love of this “compendiario” style was also revealed by the “turchina” majolica, which were fired with a lapis lazuli glaze that featured heavily in the Baroque products made in the small town of Castelli d’Abruzzo. A “turchina” majolica set was made for Cardinal Alessandro Farnese in 1574, based on the date found on a number of pieces housed in the Capodimonte collections of Naples. They are decorated in white and gold on a blue glaze, and bear the coat of arms of the cardinal. This first service may have been added to at a later date, a theory supported by the stylistic differences found in surviving pieces presumed to have been made before 1589, the year in which Cardinal Alessandro Farnese died. The sumptuous rinfrescatoio or cooler housed in Faenza’s MIC belongs to this body of work. It bears the coat of arms of Cardinal Farnese on both sides, and matches another very similar piece found in the collections of the Hermitage in St. Petersburg. The majolica is adorned with pods and embossed elements such as masks and scrolls, which further enhance the lavish appearance of the object, in keeping with the mannerist and baroque tastes of the time. The Museum at Faenza is also home to a number of “turchini” plates with the Farnese prelate’s coat of arms, for which the more common form of decoration might justify a later dating, as this successful style of majolica was later produced in greater quantities. THE HANDS COLLECTOR Marina Jonna “Man is the wisest of animals because he has hands.” Anaxagoras, 5th century B.C. Fulvio Ronchi refers to himself more as a communicator, than a collector: “I am a graphic designer from the renowned Milanese school, and I’ve had the good fortune to work alongside major companies that have successfully embraced corporate marketing, including Olivetti and Fiat, to name just two. At the same time, I have also handled the art direction for a number of exhibitions, including Donizetti, Caravaggio and Lorenzo Lotto,” he says with characteristic enthusiasm. This explains why his vast, multifaceted collection features hands chosen because they were conceived as a form of applied art: they are fully-fledged communication vehicles in their own right. For this collector, an insatiably curious wanderer always on the lookout for “stuff”, hands are something magical and fascinating, whatever form they take, particularly when they are an instrument that represents homo faber in the world’s many civilisations and geographical areas. “It’s a passion that goes back thirty years. I produced the Automobile Encyclopaedia for Fiat, so I dug out and collated portrayals of cars in a wide variety of contexts: in comics, in graphic design, in show business, in objects and in popular culture. The collection was then transformed into the Pop Car exhibition in Turin. Shortly after, one of my Milanese clients, a furniture manufacturer who employed a number of skilled craftspeople, asked me to come up with an idea for his business and craftsmanship: I immediately thought of the eye and the hand. But I kept the latter for myself.” It was the start of a quest that has taken him all around the world, travelling tirelessly to libraries first, then countries that would allow him to delve into the meanings behind the hands he encounters as he goes: he has visited 47 places, and his unique collection numbers no less than 43 different categories of hands. “The first portrayals of hands I saw were from prehistoric art, in the Gargas caves in the south of France. Shortly after, along the same lines, I visited the Cueva de Los Manos, in Argentina, where the rock carvings convey the archetype of the hand with all its many meanings: war, food, personal relationships. From there I continued my journey to discover hands from different cultures, reaching the Hand of Fatima and crossing Egypt, Libya and Morocco, taking in a multitude of variations on the same theme along the way.” The Hand of Fatima goes by different names (it is also known as the Hamsa or Khamsa), and is an ancient amulet linked to a variety of religions and cultures, each of which has given it different meanings and values. It comes in the form of a five-fingered hand, where the index and ring finger are the same MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION length and are joined to the slightly longer middle finger. Two thumbs are on the sides, leaning outwards and equal in size. Often the hand is decorated with engravings, the most characteristic being those of the Muslim and Jewish versions: the former with an open eye (the eye of Allah) and the latter with a Star of David in the palm of the hand. The five fingers (hamesh in Hebrew) represent the five books of the Torah, as well as the HE, the fifth letter of the alphabet, which is also one of the names of God. From there, his passion for hands took Fulvio Ronchi to Latin America, where he came across the Mano Poderosa or All-Powerful Hand. This showed the right hand of God with upright fingers and a palm with stigmata facing the spectator. This popular image originally hailed from Mexico and Brazil, before becoming the Milagros in Chile, where it is often portrayed on religious prayer cards or votive candles. In Europe, Ronchi discovered four particular interpretations of the theme, including ex-voto offerings in many sanctuaries, such as the one at Custoza containing more than 5,000 made of wax; reliquaries of the hands of Saints in Italy, France, Spain and Germany; the Mutuo Soccorso, a popular cultural icon showing two hands shaking; and the hand of Masonry, with its gesture and a pact of alliance. Fulvio Ronchi overwhelms you with his stories, which move from one place to another, from one culture to another in a seemingly haphazard, disorganised manner that is, however, actually based on interconnected references. These also come from the many books in his library, all of which he has read: everything from Desmond Morris, a past-master when it comes to investigating gestures, to Bruno Munari and his Il dizionario dei gesti degli italiani. He also whisks you away into the world of music when telling you about Guido D’Arezzo, the inventor of the “Guidonian Hand” upon which the Baroque melody is based. “While reading books, I came across a myriad of interpretations, meanings and symbols of the hand, and I then divided them up into categories. These studies, this inspiration prompted journeys so I could discover first-hand what was actually left of certain cultures: not just objects, crafts and works of applied art, but also paintings, sculptures and iconographies.” In India he had a moving encounter with the Hand of Sati, the suicide for love. “The wives of the Maharaja were locked up in a room, and they would leave their handprint on the wall before immolating themselves on the pyre of their dead husband,” he explains. His house is a veritable Wunderkammer. His hands are on display in every corner, each made extraordinary by its intrinsic and extrinsic characteristics: from the most valuable works such as Giò Ponti archetypes, to the Pop hands of Coca-Cola, it is a fantastical, fascinating collection of art and ethno-anthropology, which gathers places and symbols together around one exceptional obsession: that of the human hand, with its incredible world of functions, symbols and allegories. It is the instrument we use to leave an indelible mark on the world. “There is no order in terms of chronology or meaning. My collection has about 1,000 sculptures, and more than 1,500 iconographic documents. I only display some of them, while the rest are stored away in boxes until the day I can fulfil my most ambitious dream of all and open a museum of the hand. Or else hold an exhibition, or write a book. I am a communicator, and my collection came about so it could be conveyed to the public.” For the time being, his thousands of hands lie undisturbed in his cabinet right in the heart of Milan, creating the backdrop for a fantastical theatre: a stage set worthy of a latter-day Jules Verne. IN FULL LIGHT Alberto Cavalli Sand, air, fire. These are the elements of which glass is made. To which Rinaldo Invernizzi, chairman of the famed Murano-based company Barovier & Toso, has since added a fourth: talent. Because without the talent, abnegation and passionate creativity of master glassblowers, who transform an iridescent, shapeless matter into a magnificent, transparent object, Murano’s fame would never have existed. And with its 700-year history, Barovier & Toso (established on the island in the Venetian lagoon in 1295) has followed the ups and downs, the fate and the gradual transformation of Murano every step of the way. Murano, the symbol of hand-blown artistic glass renowned worldwide. Celebrated for its monumental chandeliers that evoke the splendours of Venice’s golden age, but extremely attentive to contemporary trends, Barovier & Toso has recently decided to reveal its identity in the very place that has 122

witnessed its birth and its success: Murano, of course. The master glassblowers of the island were guarded as a state secret by the authorities of the Serenissima: those who accepted an offer to go abroad and reveal the secrets of Murano glass would be prosecuted and even murdered by the emissaries of the Republic of Venice. Craftsmanship was a competitive advantage and a national prestige, and as such it was preserved and protected. Today, Murano glass is undoubtedly going through a rocky period: besieged by other productions, threatened by the lack of artisans, it still attracts talented artists and designers, but at the same time it runs the risk of losing its stature. To revamp a world-acknowledged privilege that needs an injection of energy, Barovier & Toso has decided to invest in the island that first spawned the business. To do so, it is opening a spectacular, unprecedented space to narrate its own history, to receive its clients, to celebrate the glory of Murano. Palazzo Barovier & Toso, on the banks of Rio dei Vetrai, is unique of its kind: in an area covering more than 900 square metres, the magic of glass coexists with both the company’s splendid tradition and its bright (in every sense) prospects for the future. Entirely redesigned by the Calvi Brambilla architecture studio, Palazzo Barovier & Toso also hosts spectacular artworks designed by Jason Martin, Brigitte Kowanz and Astrid Krogh. “Our previous premises were very small,” admits Rinaldo Invernizzi. “We tried our best to turn a need into a opportunity. The inspiration for the Palazzo was provided by the four elements I consider the pillars of our company. First and foremost, our history: with our 700 years of uninterrupted presence in Murano and in the world, we have a great and authentic story to tell. The second is our roots: we find ourselves in the fortunate position to legitimately lay claim to our Venetian origin. Then, the necessity to always capture a contemporary spirit, the spirit of the times: we wanted to underline this trait by placing artworks around the showroom. It is a delicate yet crucial balance between historical and contemporary elements, and I think this has been very well distilled in the harmonious design of our architects Calvi and Brambilla. Lastly, we also needed to display our pieces and showcase them properly: in fact, the final vocation of such an articulated and complex building is to be in dialogue with its contents, to place itself at the disposal of the objects. On a personal level, I really wanted to create something beautiful, something that had never existed before.” Barovier & Toso is particularly active in Russia, China and the United States (indeed it operates in over 80 countries), and it dedicates its Palazzo to its most special clients, who truly embrace the spirit of the Brand: a spirit perfectly embodied in the Taif chandelier, hanging at the entrance – a monumental piece created in 1980 for a royal residence in Saudi Arabia. The first floor hosts a series of monochrome spaces, dedicated to the five main colours of Barovier: blue, black, gold, red, white. Every room presents examples of what the master glassblowers can do, both when they reinterpret the tradition or when they work side by side with a designer. It is a display of accomplished craftsmanship without compare. In fact, a glassblower can be considered a true master only after many years of experience and practice. The craft can only be learned on the job, “stealing with your eyes” as much as you can. In order to bridge this art into the future, Barovier & Toso invests in training new apprentices: talents that need to collaborate with skilled master glassblowers, who have been working in the brand’s furnaces for years. Masters who put their expertise at the disposal of young talent, who will one day take their place, perpetuating their knowhow. Craftsmanship and design, splendour and technology take visitors by the hand as they tour the top floor. Here, the rooms with beamed ceilings host large chandeliers in all the styles that Barovier & Toso masters – that is to say, everything ranging from the Baroque to the future. The presence of a bar and a café suggest how Barovier & Toso is also open to partnerships with other brands for the contract market, collaborating with fashion houses, hotels, restaurants. In all these rooms the magnificent chandeliers are not only admired, but actually consolidate the identity of the space. When asked whether the Palazzo is a point of arrival or another starting point, Mr Invernizzi smiles and refers to the brand’s values: “This is our home, a place where we welcome our guests to show them who we are and what we believe in. We believe in our cultural legacy: the ability to transmit the art of traditional glassblowing from one generation to the next for over 700 years. We believe in passion: in this field, beauty can only be achieved if you put your heart into what you are doing. And we believe in excellence, which is what Barovier & Toso guarantees in every single phase of the creative and productive process.”


ENGLISH VERSION ARTISAN HEART Giulia Crivelli Have you ever had the pleasure, the fortune, or indeed the time, to listen to an artisan explain how he or she created the object you are about to buy, or which you have commissioned, or which someone is giving you? It is a wonderful experience: it takes us into the world of the craftsperson, creating a link between mind, heart and hands. This is why we sometimes use the phrase “skilled hands”, but it is something of an oversimplification. It’s not just about hands (or feet): every single gesture and movement of the artisan is skilled. Listening to Domenico Dolce and Stefano Gabbana talk about their collections backstage just a few minutes before the start of a fashion show or event is an experience very much akin to listening to an artisan in his workshop. The two designer-entrepreneurs enjoy explaining the craftsmanship, invisible to the ordinary eye, which goes into every garment or accessory, as if they had made it themselves. Yet if we take a step back, this is actually the case. First, because even the drawing, the sketch, transferring an idea onto paper, is an act of craftsmanship as well as creativity. Secondly, because Domenico and Stefano engage personally in supporting, encouraging, at times actually unearthing skilled hands around Italy; the same hands which, one season after another, bring their collections to life. In Domenico’s case, there is also another aspect, which Stefano likes to recall with a smile: “He was a tailor even before he was born. I think his mother worked until a few hours before the birth, and she was an exceptional seamstress. Domenico is an artisan born and bred, but it’s also down to his vocation and his training.” Today, Dolce & Gabbana is one of Italy’s top five fashion groups. It has a turnover of approximately 1.3 billion, and in Italy alone it employs more than one thousand people. But the spirit of the two founders – and this is the strength of the brand – is just the same as it was in 1985, when they staged their first runway show. “In the beginning, over 35 years ago, we didn’t have much money, so it was crucial to use what we had wisely and with clear priorities. One of which was to create working environments for our seamstresses that were as bright and welcoming as possible. At the time, anything with the Dolce & Gabbana label was made 100% by hand, virtually under our noses,” Domenico and Stefano recall. “That’s no longer the case, of course, except for the haute couture, fine tailoring, high-end jewellery and watch collections. It is impossible to make everything by hand. It’s not just a question of costs and end prices, but also the timeframes that craftsmanship, by its very nature, entails. The number of prêt-à-porter garments and accessories we need to produce for our distribution channels worldwide is incompatible with the number of existing craftsmen and women, people who need a certain amount of time to execute their work, and it would not be right to force them, either.” Their handmade haute couture collections (women) and tailored collections (men), as well as their jewellery and watch collections, are a creative adventure the duo embarked on in 2012. Ever since, they are presented twice a year with itinerant events, which are always held in Italy. These special events last one day, and are conceived to give customers the world over the taste of an authentic experience of Italian style and living. The inspiration is provided by the garments and accessories themselves, but Domenico Dolce and Stefano Gabbana – and the thousands of people called upon to contribute in some way – create a sort of “miniature Italy” of every kind of craftsmanship, not to mention, of course, unique food, wine and music. Yet a part of these experiences and collections of one-off pieces still finds its way into their prêt-à-porter ranges. “We think that any Dolce & Gabbana garment or accessory, whether for women, men or children, reveals this spirit of craftsmanship, of making things by hand, of tradition handed down through the generations. You can perceive it because that’s how it really is, for everything: from the suits to the footwear, not to mention glasses, bijoux, jewellery, watches and even the beauty ranges,” Domenico and Stefano stress. “It is part of the success and growth of our brand. It’s a bond with our customers who have been with us from the very start, right up to the ones we have won over more recently, based on a fundamentally consistent approach. Our advertising campaigns reflect these characteristics, but it wouldn’t be enough if it weren’t founded on real substance.” Last but not least is a dream. Or rather, a wish: “In recent years, perhaps because of the financial crises we’ve been seeing in the Western world and the unemployment situation

in Italy, we have witnessed renewed interest for artisan work in youngsters. Above and beyond the training they are given and the education they receive, anyone embarking on a career in the crafts almost instantly realises it is a wonderful path to take, and one that gives great personal and economic satisfaction,” the two designers explain. Hence their dream: for word to get around, including via social media, encouraging youngsters to aspire to the artisan world. Not just to make things, but to own them as well. “We’d like for everyone to yearn for clothing and accessories that possess and communicate a story, and which can be long-lasting. At that point we really could produce everything by hand, and make a contribution towards a new Renaissance of craftsmanship and culture.” BOLD MOVEMENTS Jean Blanchaert They called her “Mother Bubacco”. When she married, she moved from Mazzorbo to Sant’Erasmo, an island in the north of Venice’s lagoon, known as “the vegetable garden of Venice” and the closest to the mainland. Her husband sustained injuries in the First World War, which worsened over time, preventing him from working. Mother Bubacco maintained their four children by taking fresh vegetables to Tre Porti, on the coast, rowing her flat-bottomed boat on her own. One late November afternoon, on the way back, she was caught by the fierce bora wind which whipped up terrifying waves over two metres in height. She and her sàndolo boat both sank. She was found washed up on the beach near her broken oars. It was 1932, and the fate of the Bubacco family changed forever. That was also the day when Severino, who would later father Lucio, changed. At the age of eight, he and his older brother had to make sure they were bringing home enough to help raise themselves and their two little sisters. Each day, people on the island who worked at the Murano furnace took them on their boat, setting off at three in the morning and returning at five in the afternoon. The adults rowed the large sàndolo boat, whilst the children slept. An hour and a half out, an hour and a half back. At the glassworks, Severino started out as an errand boy, and in twenty years he went on to become a master craftsman. Together with his brother, they opened a furnace and invented the water glass effect: their chandeliers had a wet look, and for this reason they came to be known as the “dew brothers”. Their glassworks was a big success but it closed down due to numerous burglaries and poor administration. In 1957, six months before Lucio was born, Severino decided to set off in search of fortune abroad. He began to make a name for himself at the Brussels Exposition Universelle et Internationale in 1958, but it was in the United States that he experienced real success. His displays at the John Wanamaker Department Store in Philadelphia in the 1960s were renowned. Severino Bubacco had invented an electric kiln, known as the “Bubacco muffle furnace”, thanks to which he could blow and cool lead crystal, working it as if it were glass but without breaking the safety rules, which prevented fire being used inside the Wanamakers’ magnificent Grand Court. A queue of people would line up for his sculptures, which, thanks to his ingenious cooling system, could be handed over to customers in the space of an hour. Severino Bubacco travelled the world for no less than forty-one years though he always returned at regular intervals to his family in Murano. For his son Lucio, Bubacco Senior was a mythical figure, an absent role model, a guide even from afar. Severino stirred Lucio’s desire to walk in his father’s footsteps, and he went on to become a leading light of the contemporary rebirth of lampworking in the lagoon. So it is to this legendary individual that he owes his dedication and an original approach, which becomes a fragile, ethereal story, whilst also maintaining a vivid, iconic style. At the age of fourteen, Bubacco approached lampworking for the first time. For three years he worked ceaselessly in a large glassworks, turning out thousands of small sculptures that had to be made flawlessly and in a certain way. Once he had perfected his technique, at the age of seventeen he decided to open his own business. He opted for lampworking under his own steam, very much in the manner of the Bubaccos who tend to have an independent inclination. Armed with his own blowtorch in a case, Lucio travels the world like a solo flute, clarinet or oboe player. He can play a concert without having to work with the wonderful but cumbersome glassworks orchestra in which the master, apprentice, servant and all the attendant errand boys must play and dance. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION Lampworking is a solitary glassmaking technique. The master finds himself on his own with the glass material, which is heated up and moulded with the flame of a metal blowtorch connected to a tank that supplies oxygen and gas. His inspiration is the result of an original vision. The literary world that fascinates Lucio Bubacco is a pagan, pre-monotheistic, pre-Hebraic, preChristian, pre-Islamic one: it includes the Egyptian, Greek, Hellenistic and Roman cultures, without forgetting incursions into the Catholic universe of Dante Alighieri and the Venetian tradition of the Commedia dell’Arte. The eruption of Mount Vesuvius in 79 A.D. afforded us a glimpse of Pompei’s inhabitants, caught in the flow of boiling lava and turned to stone in the act of whatever they were doing. Lucio Bubacco offers this kind of “freeze frame” in lampwork glass, creating human figures that are more alive than reality itself. His characters always seem to be on the move, and they tell us stories: at times it feels as if we are being guided by Olympia, mother of Alexander the Great and an outstanding teacher of Dionysian rituals. At other times we find ourselves in a refined erotic novel such as Histoire d’O or the 120 days of Sodom by the Marquis de Sade. Talking to Lucio Bubacco is not easy: his brain is like a rodeo horse, which he himself finds difficult to tame. His thoughts come thick and fast, and his words often struggle to keep up. He expresses himself like a river in flood, but when the conversation ends, you find yourself enriched by countless titbits of information, thoughts, notions and a great deal of humour. Lucio Bubacco modelled himself on his father, but he also learned the elegant techniques of anatomical drawing from painter Alessandro Rossi. He uses these techniques to plan his work, the end result of which, above and beyond the details themselves, takes us back to Renaissance Venice. A Renaissance of the third millennium. THE ALCHEMIST OF THE THIRD FIRING Anty Pansera Maurizio Tittarelli Rubboli’s source of inspiration, indeed the origin of his very DNA, is his great-grandmother Daria Vecchi. A pioneer of lustre glaze and a star of the art of majolica, she has been unfairly forgotten. As has another woman, his mother Ingina (Gina) who, together with her sisters, ran the manufactory until the mid 1950s. It is a story worth telling before we dive into the renewed tradition in lustre glaze we now owe to Maurizio, who has been able to add his father’s surname to the historic name from his mother’s side of the family. The origins of the story are 15 decades old: Daria Vecchi was born in 1852 into a family of artisans of Fabriano and became a talented ceramist (so much so she was able to support herself ). Paolo Rubboli had been experimenting with lustre majolica since 1873. They both shared a passion for clay and for research, particularly in metallic lustres. In 1875, they opened their own workshop in the former convent of San Francesco, and in 1884 moved it to Gualdo Tadino in Via del Reggiaro (now called Via Discepoli), where it is still located. The nearby clay quarries are iron-rich, and the surrounding forests are full of broom bushes, essential for achieving the lustre finish. Together the couple ran a business in which she played a key role, to an even greater extent after her husband passed away in 1890. She was involved in running the company, but she also had an enterprising approach to innovation, hence the shift from white-background majolica to a cobalt blue base. A family-run business with a technique so jealously guarded that only Daria and Paolo practised it. There was even a failed attempt to steal the notebook containing the formulas of the enamels and lustres, which was later handed down to their children. Daria identified with traditional Umbrian gold lustre ceramic of the kind only made in Gualdo for a decade. She signed her pieces with the initials D.R., or D. Rubboli (the initial D was at times deliberately transcribed to indicate a man’s name, Dario or Domenico). In 1899, she was awarded a gold medal for merit for her industrial activity in the “Premiata Fabbrica di Majoliche Artistiche Daria Rubboli” at the General Exhibition of Umbria in Perugia, although she had already taken part in the Paris Exposition Universelle of 1878. “A Master of the third firing” (an acknowledgement bestowed after her death), she continued to turn out a refined repertoire of forms: dishes and vases featuring sophisticated expressions were teamed with dinnerware sets and day-to-day objects. The subjects varied, according to the changes in taste, and the themes were painted in blue. The quality of the glazes remained unchanged, tending favourably towards light blue. Daria passed away in 1929. It was the close of the decade that saw the entire town engaged in 124

producing lustreware on an industrial scale. Her heirs took over the Rubboli factory, which was called Società Ceramica Umbra, but it fell foul of the 1929 economic crisis and folded in 1931. In 1934, the company split in two when her sons, Lorenzo and Alberto, had a disagreement that resulted in two separate Rubboli businesses operating for several decades thereafter. Now it is Maurizio’s turn to shine, and he is renewing the family tradition to brilliant effect. He started working as a ceramicist at the age of 26, dispelling the myth that would have artisan-artists tackling clay on the potter’s wheel from a very early age. A well-educated scholar with a healthy dose of curiosity, he is a great traveller, as well as a skilled connoisseur of techniques and rules mastered so well he can now break them. He is intrigued by the Arts & Crafts movement, but also by the vibrancy of Sutton Taylor, interpreting a variety of styles to fit his own more Mediterranean approach. Not forgetting (as indeed he wrote) those “Golden chickpeas of Sappho growing along the seashores” of Greece, nor Byzantine Ravenna: “Dante’s soft oriental sapphire hue.” Accordingly, he has revisited an ancient technique in a bid to create a new grammar and syntax for his “contemporary approach”. It translates into a sophisticated interpretation of Rubboli’s secrets, with the “lustre glaze” applied on the second firing: a reduction in the oxygen with broom smoke at 650° creates light effects and finishes that the technique first invented by Mastro Giorgio could not yield. This present-day language restores vigour and originality to a great ceramic tradition, whilst remaining true to pieces made in the vein of the family’s time-honoured style. Alongside his work of the last two decades, he has also embarked on the challenge to protect and foster the traditional lustre techniques first invented by Mastro Giorgio. In the wake of the 1997 earthquake, he took over the premises housing the venerable manufactory, with muffle furnaces dating back to 1884, the only ones of their kind in Italy. He gathered no less than 150 pieces together (dating from 1853 to 1960) so they would not be lost. He also founded the Rubboli Cultural Association in 2007, and in 2015, together with the administration of Gualdo Tadino, Umbria’s regional authorities and EU funding, he opened the Opificio Rubboli museum: a priceless legacy, which today belongs to the town council. THE THIRD GENERATION OF THE TALLONE FAMILY: THE SWALLOWS CAME AND WENT Maria Gioia Tavoni It need hardly be said that the Tallone family has long maintained a presence in niche publishing. The story of the family whose forefather, Alberto, founded a publishing house in Paris that shook up the world of the 20th-century literati and artists, is well-known. These intellectuals recognised his ability to combine lead typefaces with the levity of paper and a mise en texte of a quality only rarely seen before. History tells us that Alberto’s wife, Bianca Bianconi, not only marked out their own story, but also that of their publishing house, as she played no small part in the success of Alberto Tallone, who first established the house in 1938. It is far from an unknown fact that they returned to Italy in 1960, and Tallone’s typeset again managed to leave its mark at Alpignano. Those were the magical years of the 20th century, when publishers witnessed considerable innovations that were quickly taken up by the greatest amongst them. Whilst the printing world was embracing technological breakthroughs, which made it possible to multiply print runs and lower costs to an extent previously thought impossible, the Tallone family ensured the interest of enthusiasts and collectors ran high with its own hand-printed books. Printed using handmade paper of the finest quality and special typesets designed by the most skilled type cutters of the day, the limited print runs made expert use of the printing press. So it was that the books on the Tallone catalogue during those years blazed a trail, going on to become a reference point for the intelligentsia of the day. From Contini to Bacchelli, Neruda and Elémire Zolla, not to mention countless other prized authors, all yielded to the charm of the typeset. Tallone thus became a hothouse of luminaries, an inimitable archive of correspondence with the world at large. Another well-known fact is that, when she became a widow in 1968, Bianca continued undeterred with the profession she had learned working alongside her husband. She also raised their sons Aldo and Enrico until they were able to work with her, and eventually take over the business. Following the premature death of his brother in 1991, Enrico took over the publishing


ENGLISH VERSION house. Much, if not all, is known about Enrico, not least because of the skill the owner of the “Alberto Tallone” publishing house had when it came to ending up in the media spotlight. Enrico married Maria Rosa Buri, and in the space of a few years they had three children, all born in the 1980s. Little is known about them. Above all, only those closest to the House of Alpignano know how and when they began to work alongside their parents and successfully follow the path opened by their grandfather. A path not just kept alive, but actually rejuvenated by father and mother, because Maria Rosa also became a crucial piece on the Tallone chessboard. Enrico and Maria Rosa gave their children the most formative education possible. Yet at the same time, it was also a very liberal one. The motto was: cubs should be reared so they can stand on their own “paws” and find their way in the world. The firstborn, Eleonora, graduated in Letters (with a curriculum in archaeology) and specialised in marketing and communication at Turin University. The second-born, Elisa, graduated in Geographical Sciences before going on to earn a Master’s degree in Environmental Economics from Milan’s Bocconi University. The youngest of the siblings, Lorenzo, decided to specialise in Book Restoration at Florence’s National Central Library. From the outset, Lorenzo was interested in all things paperrelated, including illuminated works. But the sisters initially set out on very independent and different roads. Both embarked on careers far from the family, in which they distinguished themselves for their innate skills. But then came the call of their roots, even though neither Enrico nor Maria Rosa had prompted them to return to Alpignano. For years now, the individual specialisations of the three siblings have been put to good use at Tallone. The course Lorenzo attended has proven vital because it allowed him to acquire crucial skills in bookbinding, a specialty inspired by Bodoni and used in Tallone publications. Elisa, who had previously worked in Milan, returned to the Tallone premises, specialising in manual composition and applying her experience to every process involved in printing. Eleonora has harnessed her studies in Graeco-Latin civilisation (her degree thesis was on the Mausoleum of Augustus) to help plan the catalogue, making a detailed analysis of classic and archaeological authors and texts (one title, by way of example: Le lamine d’oro orfiche by Angelo Tonelli, published in 2012). The three siblings possess a wealth of outstanding knowledge, which is now allowing the publishing house to sustain itself with its family-run management. So referring metaphorically back to Pascoli, we might say: “[…] The swallows came. And went, joyous about their happy nests.” Because thanks to the young people supporting it, Tallone is continuing to make its mark. PAINTING IN STONE: OPIFICIO DELLE PIETRE DURE Annamaria Giusti In the 16th century, semi-precious stones, which are as old as mankind itself, began to appeal to the culture of the Renaissance and the sophisticated tastes of noble courts. Nature and Art were successfully combined in these artworks in semi-precious stones, a fusion yielded by the exquisite materials and the inventiveness of their creators. It resulted in the birth of vases in bizarre shapes, cameos, miniature sculptures and a new way of working semi-precious stones destined to become a lasting success. It was the “Florentine mosaic”, known by this name then as it is now, because it was first conceived in the Medici court in Florence, where in 1588 Ferdinand i founded a workshop dedicated to this difficult, costly art, admired and sought-after around Europe for centuries. This special “painting in stone”, as Grand Duke Ferdinand referred to it, rivalled painting itself in terms of variety and quality of the subjects, thanks to the dazzling natural palette of the stones. Unlike the colours used in painting, these have the benefit of remaining unchanged over the course of time. The choice of hues was essential for ensuring the success of the Florentine mosaic, which also demanded the utmost precision in cutting the irregular shapes of the stone sections. These were then seamlessly pieced together, like a puzzle of painstaking precision, giving the observer the illusion of a single image resembling more a painting than a mosaic laboriously built using hundreds of fragments of stone. For these ambitious tasks, an almost limitless amount of materials in a variety of dazzling shades was needed. The Medici sourced them in the most far-flung places, creating a range unique of its kind, which could then be used to bring the magical stone masterpieces to life.

The artistic potential of multi-coloured stones was harnessed for splendid architecture, such as in the extraordinary Pantheon of the Cappella dei Principi lined with pietre dure (semi-precious stones), and for furnishings such as desks, wall panels, chests and paintings, with Florentine mosaic finding an always new variety of creative applications. They were the result of collaborations between creative artists such as painters, sculptors and architects working for the court and designing the furnishings and their decorations, and the workshop’s artisans. In using the stones, they created a successful collaboration destined to ensure the excellence of the Grand Duchy’s craftsmanship throughout the centuries. Florentine mosaic is an outstandingly aristocratic art form, designed to arouse regal passions due to the sumptuous materials used, the slow, painstaking production process and the desire to turn out creations of lasting splendour. It was a passion ignited thanks to astute promotion by the Grand Dukes of Tuscany, who gave lavish gifts in the hope they would restore Florence’s artistic reputation in European courts. Many rulers refused to make do with the homages gifted by the Grand Dukes, no matter how sumptuous they were; instead they wanted to set up personal manufactories in their own courts, and in so doing approached Florence to “import” specialists of an art form that cannot be improvised. Semi-precious stone mosaics thus also blossomed in the palace of Rudolph ii of Hapsburg in Prague, in the Gobelins workshops of the Sun King and in the Bourbon courts of Naples and Madrid, thereby enshrining the fame of the Florentine mother-house. So much so that when the Medici dynasty died out, the new Habsburg Lorraine Grand Dukes revived the ancient workshop, a tireless creator of sumptuous furnishings for both the Florentine and Viennese palaces. With the unification of Italy, from 1861 the Grand Ducal workshop became a State Institute with the new name of Opificio delle Pietre Dure, keeping a noble tradition alive, although at the end of the century it went into decline as the new specialisation in restoring artworks gained favour. Indeed this is the present-day form, which the Opificio takes: an international flagship in activities, research and training for preserving artistic heritage. But the ancient heart of the modern Opificio continues to beat with vitality in an atelier that has uninterruptedly preserved the legacy of the ancient Medici tradition. Outstandingly skilled specialists manage to restore the wonders of the past and recreate them, using the same simple tools of the past. Tools governed by infallible hands and eyes that view the magical hues of the stones with the pictorial sensibility of true artists. In the same premises at Via degli Alfani 78, the Opificio delle Pietre Dure Museum takes visitors on a guided tour of three centuries of Florentine manufacturing history. In the evocative setting of the Museum designed by Adolfo Natalini, we find ourselves immersed in a Wunderkammer where the imagination of nature and art are combined with exquisite taste and flawless technique, which continue to astonish and enchant us. PRICELESS WEAVES Isabella Villafranca Soissons In 1460 or thereabouts, Benozzo Gozzoli painted his masterpiece inside Florence’s Palazzo Medici Riccardi. It proved to be revelatory. A sacred painting that was also an ode to sumptuousness, to the centuries-old elegance of the Medici court: while on the road to Bethlehem with their respective caravans, the Three Wise Kings take part in a princely hunt with falcons and big cats. The jewels, the pyxes, the highly luxurious harnesses of the horses, the opulent garments of the individuals portrayed in painstaking detail, make it one of the most fascinating paintings cycles to reveal the customs and fine craftsmanship of the time. The relationship between painting and economy in the 15th century is clear: textile manufactories were the driving force behind production and trade. Not just in Florence, but also in the other capitals of noble states such as Genoa, Venice, Milan, Urbino and Mantua, the ruling families were the force powering the economy and luxury handicrafts. Magnificent fabrics were made for stately residences and churches. But above all they were used to clothe noblemen, courtesans, servants and for the parade uniforms of the troops. Gold and silver conveyed status at the highest levels of court. Even funerals became an opportunity to display the power of the dynasty: the sarcophagus was covered with drapes, and the deceased dressed in his most priceless garments, whilst the rest were donated to the Church, which reused them as liturgical vestments. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION

ORDINARY PEOPLE DOING EXTRAORDINARY THINGS Andrea Sinigaglia

It is a legacy, and a project. Is anything else needed for the weft of a great story? Yes. It takes affectus: an attachment that is ingrained on the one hand, but also full of vision, which no circumstance can generate or force, because it has to be embraced with the utmost freedom. It is incredible what has been brought to life, indeed revived, at Polesine, right in the heart of the plains between Parma and Piacenza. Massimo Spigaroli and his family started out with a restaurant business, but have burst their own flood banks thanks to their hospitality and desire to acquaint the world with the birthplace of Giuseppe Verdi and Giovannino Guareschi, but also the home of their parents and fellow countrymen. A hut on the River Po, a restaurant, a product as outstanding as Culatello di Zibello ham and the craftsmanship that goes into it. The winter fog, and scores of mosquitoes in summer. The fields, the people, a stately residence, a humane, welcoming attitude, and people from all over the world who, whether invited or just drawn to it, end up visiting this exceptionally normal place. I feel privileged to have been asked to write this article. Indeed, I feel privileged to have witnessed its history. I met Massimo Spigaroli when I was just 16: I was a young student at catering school when I won a cooking competition. The prize for me and a couple of my classmates was to spend a day with Chef Spigaroli. I remember how excited I was, and how taciturn and firm but kind-mannered the chef was with us. Massimo Spigaroli always seems to be thinking about the next thing to do. He is right there in front of you, but he is visibly struggling to live that given moment. It’s like he finds it limiting, because he’s already lost in thoughts about the next moment. It’s like you can hear him thinking things up, mulling over them and reflecting all at once. Perhaps this is why it feels so intense when he looks at you: he doesn’t waste so much as half a glance. Then there’s his shyness, which is often the gift of the truly great, and something you never expect to find in those as accomplished as he is. In the years that followed, I had the opportunity to visit the Antica Corte Pallavicina a number of times, many times in fact. I went back at intervals of three weeks, maximum a month, and on each occasion I saw the project grow. A restored building, a field transformed into a vegetable garden, local artisans working to reconstruct the building using local materials. It is a joy for the eyes and the soul to see a small village rise up from the ground. To see this birth rekindle the whole area, as the local people look on in wonder and acquire a new dignity, which comes from a proud sense of belonging, because they will tell others, and each other, all about it. The Spigaroli family is a prime example of how, when you pool all the potential offered by a specific area of Italy, you can evoke its spirit, and that becomes a draw for everyone: as historian Carlo Maria Cipolla reminds us: “Make things the world enjoys in the shadow of a bell tower.” In a period like ours, thirsty for real, vivid places, the Antica Corte Pallavicina embodies a site where the point of arrival actually makes you feel at home, and this throws us off balance. It is a place of people, of good food and sparkling wine. It is a place off the beaten track, seemingly immobile, yet set alongside the constant flow of the River Po, which governs its successes and its fears, its landscape and physiognomy, the times themselves. The peaceful lives of the animals convey the natural, slow and profound pace of life, broken only by the odd screech of a peacock. It’s the animals that are the masters of the situation, the ones that make you feel you are a guest, whilst at the same time telling you to remain on your guard. This choreography, this architecture, these smells, even the peacocks’ screeching, were all in the mind of the person who put together this puzzle, picking up the jumble of pieces and bringing them to life. A Master of Arts and Crafts, the Japanese would say that Massimo Spigaroli is a “living treasure”, a human legacy: but because he is a man of the plains, the “Bassa” as Guareschi calls it, we settle for being ordinary people doing ordinary things: something which, nowadays, is altogether out of the ordinary.

The story of the Spigaroli family reveals the very essence of what it means to be Italian. It does so in the best possible way, guiding by example and experience. This story is more about action than words. When we weave with fibres that achieve unthinkable resistance and strength, the result is a fabric. And that is what we are talking about when we look at the history of this piece of the “Little World”, which has spread for many years along the banks of the great river at Polesine Parmense.

GOOD TO KNOW The Parma area has a well-earned reputation for being Italy’s land of plenty, and a constellation of outstanding food and wine revolves around the Spigaroli family’s Antica Corte Pallavicina. ALMA, the International School of Italian Cuisine, introduces us to just a handful of these gems, crafted by big and small producers of unparalleled skill. A visit is well worth the trip for gourmands, enthusiasts and accidental visitors alike.

In Renaissance times, fabrics were used as a means of political communication. They displayed coats of arms, symbols representing the household and communicating its power. A form of hard currency, they were used as a means of payment, given in gift or as a dowry, and were bequeathed as legacies. Tapestries, lampases, damasks, brocades, velvets with two different pile thicknesses (high - low) were handmade on wooden looms using highly complex, refined weaving techniques that displayed an extraordinary standard of manufacturing. The metallic yarns used were composed of the finest silver lamina, which on occasion was wrapped in gold. These were twisted in a spiral around a thread (core) generally made of silk. The making of these threads yielded new artisan skills that heralded the art form practised by goldbeaters and gold threaders. The goldbeaters were thus called because they would pound small gold ingots for hours on end, transforming them into sheets so fine they could be blown away. These exquisite laminas were then inserted between the pages of small books and taken to the homes of the gold threaders, all young girls with a steady hand and razor-sharp vision. One would cut the precious metal using special scissors (forfex ab auro) into strips just a few microns thick, whilst the other immediately spun them using a spindle. Many of these marvellous textiles have withstood the passing of the centuries. Now they can mainly be seen in museums and official collections. But some also belong to fortunate private collectors and connoisseurs. Often their conditions are precarious. The pieces carry signs of how the materials have aged and been used: they are worn, dusty and stained. At times works of different periods and types are found cut and patched together, but meticulous restoration work often yields unexpected results. As for the restoration itself, this always starts with a preliminary study. Where necessary, diagnostic examinations are carried out. Subsequently work is planned to ensure the most suitable technique is used to preserve the items as long as possible. The restorer must combine considerable artisan skills with technical and scientific knowledge, all of which require ongoing training. For example, the very latest conservation technologies allow certain types of fabrics to be cleaned in a process similar to washing with water. After carrying out micro-aspiration using surgical equipment, thin layers of gel are placed on the surface. This system allows water to be placed on the materials in a way they could not otherwise withstand. Slowly but surely, the residues left in the weave and weft over the centuries are absorbed by the gel, which becomes brown in colour. In order to be displayed, textile fragments generally need to be mounted on a rigid backing covered with a fabric suitable for conservation purposes. Some fibres are so delicate and rigid they cannot even be touched with a needle, so it is not possible to sew them onto the backing. In these cases, a hollow in the same shape as the fragment is carved on the new support. All with the same attention, and infinite delicacy... Recently, for the exceptional “Domus Grimani” exhibition staged by the Venetian Heritage Foundation in Venice with the support of the Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship, I was fortunate enough to coordinate a challenging restoration project carried out by the highly skilled textile restorers of Milan’s Open Care - Servizi per l’Arte laboratories. Commissioned by the Medici family, the priceless tapestry was largely made of silver thread, which had become tarnished to the point that it had changed colour: all the parts that should have glittered had been blackened. Meticulous work went into securing the threads, which, owing to the weight of the metal, had become detached from one another. The silver was then cleaned. It proved a highly complex, delicate intervention, which restored the precious tapestry of the Resurrection to its former glory. Seeing it “resurrected” from the past, in all its moving beauty, proved to be a thrilling experience.

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ENGLISH VERSION Here are a few tips for unmissable experiences, a veritable delight for the senses: For wine Podere Crocetta, Cusa - Barlordo 5/6, Zibello, Parma This business has belonged to the Rastelli family since the 1600s. The vineyard has always been here, albeit with a different layout. Today, Fortana and Lambrusco Maestri are the wines chiefly made from the grapes grown on the farm’s six-hectare vines. For pastries Nuova Pasticceria Lady - Via Giuseppe Garibaldi 37, San Secondo Parmense, Parma Three siblings, Catia, Angelo and Massimo, the children of Anna, a superlative pastry chef, took over a time-honoured shop in this part of Parma’s plains back in 1999. The turning point came in 2002, after a revelatory trip to Sicily, with the creation of their magical “Italian panettone”, a delicacy to be relished wideeyed all year round, along with the very best traditional pastries. For deli meats Antica Ardenga - Location Diolo 61, Soragna, Parma Small in number but big on taste: this small business only makes limited amounts of its superlative deli meats, which are typical of the Parma plains. The company belongs to the Consortium of Culatello di Zibello, which is protected by Slow-Food status. It also makes Mariola (for eating both raw and cooked), and Spalla Cruda (a cured shoulder of ham, available both on and off the bone), which also enjoy Slow-Food status. For cheeses Caseificio Val Serena Strada della Repubblica 21, Gainago, Parma Gian Domenico Serra makes gourmet cheese on his long-standing farm with his children Giovanni, Antonietta and Niccolò. The jewel in their crown is the exceptional Parmigiano Reggiano they make, thanks to their control of the whole supply chain, from the excellent forage to the alfalfa meadow in which the precious brown Brune cows rest. IF ON AN AUTUMN’S DAY A TRAVELLER… Patrizia Sanvitale One of the many missions of the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte is to uncover the secrets of Lombardy’s cultural renaissance, and rewrite its future drawing on the experimentation and perfection of the past. From October to December 2020, the Foundation and Milan’s Triennale have partnered to stage an exhibition in the Quadreria gallery entitled “I Maestri di Milano”. It is the first in a series of events to celebrate 25 years the Foudation has dedicated to showcasing and rediscovering generations of great artisans, as well as to nurturing new artisans through apprenticeships, cultural, scientific and awareness-raising initiatives, in a bid to ensure that traditional knowledge is not lost. Even today, Milan continues to have solid ties “with the season of Leonardo Da Vinci. More than a hothouse of new forms, it is a means of bringing artistic and technical work together. It has provided a model for triggering a creative process, furthered by experimentation with new materials and techniques,” explains Susanna Zanuso, a scholar of the Lombard Renaissance. In the days of the Visconti and Sforza families, Milan and Lombardy became the beating heart of a craftsmanship so magnificent it became an art form in its own right. The secret of this success lay in 150 years of “relative” peace, which prompted the opening of new markets and relations with other European courts. Many activities flourished: goldbeating, the weaving of frixarie and gold thread cloths, the creation of jewellery and of the finest, most delicate lacework, accessories, decorations and trimmings for clothing were to become all the rage in European courts, the precursors of Italy’s high fashion collections. The city also became famous for the production of weaves with multi-coloured metal encrustations, embossed silverwork, musical instruments and inlaid furniture. Not to mention ceramics, glasswork, wrought iron and mosaics. A legacy which has gradually become the genetic heritage of Milan, in the veins of which flows an irresistible vocation for outstanding craftsmanship, always in step, indeed often ahead, of the times. Let us return, though, to the exhibition to be staged at the Quadreria gallery of Milan’s Triennale. The basic idea is inspired by the concept of the

Wunderkammer – the cabinet d’amateur of Renaissance influence. As historian Roberto Balzani reminds us, this traditionally sees “a mixture of natural, invented, archaeological and exotic objects, which yield a new form of collecting, and a new cultural tradition,” in keeping with the concept of horror vacui, in a dizzying crescendo. “An immobile journey” that is intimate and exclusive, to be embarked upon in respectful silence, reflecting on the fact that not even the most globetrotting braggart could boast journeying back through several hundred years of history before winding up with the modern-day Masters. It is a magical wander through the history of the 40 objects on show: five antique and thirtyfive contemporary, one-offs or in numbered series. It is interesting to note the deliberate disproportion between the number of works from the past, and the more recent ones – revealing Milan’s outstanding craftsmanship. These handicrafts include a damascened armour, a self-moving sculpture made for the condottiero-prince Alessandro Farnese in the mid 16th century, juxtaposed with “contemporary” coral cufflinks made by Filippo Villa – “you can’t have a Cabinet of Curiosities without coral.” Or the Hypnerotomachia Poliphili –printed in Venice by Aldo Manuzio in 1499 and kept in Milan’s Biblioteca Trivulziana library – containing the first description of a sculpted crystal object, displayed alongside the mosaics of the Fantini family (the same skilled family that restored the flooring of the Galleria Vittorio Emanuele ii). The result is an ongoing dialogue between the pivotal nature of the craftsman’s talent and creative design. On leaving behind the Quadreria and the Triennale building, the journey goes from being “immobile” to a “mobile celebration” that tours the city in search of the applied arts, ateliers and workshops that are scattered around the maze of alleys in Milan’s historic centre. The names of some of these narrow streets conjure up the crafts of days gone by, including Via Orefici (Goldsmiths’ Way), Via Armorari (Weapon Makers’ way), Via Spadari (Swordsmiths’ Way) and Via Cappellari (Hatters’ Way), winding up in Piazza dei Mercanti or Merchants Square, where trading took place. Thanks to the Fondazione Cologni, autumn 2020 is set to be dedicated to the “intelligence of the hand”: the same hand that all too often is overlooked in industrial line production. It is something once noted by Pierluigi Ghianda, the “wood poet” cabinetmaker of Bovisio Masciago in the Brianza area, who worked for the world’s best-known architects and designers until 2015. His words confirm those of French art historian Henri Focillon; in his work entitled In Praise of Hands, he wrote: it is “the instrument of creation, but first and foremost the organ of knowledge.” A lesson taught by Milan. DESIGN AND PRESENT WONDER From October 2020 to September 2021, the Quadreria at Milan Triennale will be hosting “Mestieri d’Arte & Design. Crafts culture”. In five exhibitions, the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte will be showcasing the exceptional world of Italy’s applied arts, from artistic craftsmanship and the culture of design to fine manufacturing. Franco Cologni, Chairman of the eponymous Foundation, has long dreamed of setting up this space, a desire also dear to the heart of Stefano Boeri, Chairman of the Triennale. Its purpose will be to bring together Milan’s decorative arts system, joining forces with the Castello Sforzesco, the House-Museums and the many key players and artisans who, day by day, religiously celebrate the liturgy of craftsmanship. In the brief dialogue that follows, the two Chairmen outline an ambitious, appealing plan: to harness craftsmanship and design, thus creating a new ethic for our daily lives. Franco Cologni:When my Foundation was first established, in 1995, not everyone understood what the “métiers d’art” were. Today, the field of fine craftsmanship, decorative arts and applied arts seems to have found a new lease of life: but we constantly have to reflect on its boundaries, on its strengths and contemporariness. A permanent site at Milan Triennale will be one more powerful way to sustain and promote this wonderful yet fragile world. Stefano Boeri: Applied arts, decorative arts, métiers d’art… it is important to give a formal status to all these disciplines, which have long represented a competitive edge as well as a cultural resource. Since 1923, when the Triennale was first held in Monza, we have promoted an exchange between design, art and manufacture by selecting and sustaining craftsmanship that focuses on detail, on the utmost quality, and the ability to interpret design to best effect. With this space we are opening up a little world of its own, which tells its story and reflects that of the Triennale itself. For us, it’s all about recuperating our history and our identity: it’s not an addition. We are bringing a crucial part of our origins back inside the Viale Alemagna premises. MESTIERI D’ARTE & DESIGN

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ENGLISH VERSION Franco Cologni: Reflecting on our origins, on local territories, on the desire for beauty fulfilled by the outstanding work of talented artisans has become a fullyfledged cultural mission for us. Milan is an international capital of design, and the strength of the city’s design sphere has not always helped spotlight the role played by craftsmanship. Yet now an increasing number of designers and architects feel that the exchange they have with fine manufacturing (of the conscious, competent kind) allows them to express themselves in full and create new classics in contemporary beauty. Museums have always been about discovery and comparison: the “Mestieri d’Arte & Design” cycle aims to further foster communication between the disciplines. Stefano Boeri: The dialogue between design culture and conscious transformation of matter has long been a source of inspiration. From the Viscontis to the present, Milan has always been a prime mover when it comes to combining artistic vision with the intelligence of the hands. Today, the world of fine craftsmanship has become even more relevant, including from the cultural standpoint, because it represents an authentic form of sustainable production. The Triennale and Fondazione Cologni both share this respect for materials, territories and work. And perhaps the terrible events surrounding this pandemic have opened up new perspectives, which the world of craftsmanship has already intercepted: a discovery of proximity, of neighbourhood life. Franco Cologni: With the first exhibition dedicated to Milan’s master artisans, we are setting out to highlight the value of a place that has always permitted and indeed sustained the culture of excellence. Science, art, design and the desire for wonder: Milan always manages to demand the best from those who have something to offer, and it knows how to turn dreams into projects. This seems to us to be a powerful and important message to pass onto the younger generations: to be competitive, you have to be competent, and must learn to seek out the “masters” who allow us to rise up out of mediocrity and achieve excellence. Stefano Boeri: The Triennale wants to make a statement: craftsmanship is a form of work that represents the future, not the past. The values of master craftspeople also invigorate a new ethic for daily life. An ethic that helps us work to achieve quality with a vocational approach, rather than focusing on what is standard. It’s a real joy for us to have this Wunderkammer at the Triennale, the first exhibition of which presents Milan as a capital of a tightly-woven fabric, which covers a vast area. A city that highlights the deep structure of modern design, with its incredible ability to interpret a wide variety of materials. And that is what design should do: conceive things, make them evolve and generate wonder. The “Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture” exhibitions. At the Quadreria of Milan Triennale, which for one year will be renamed “Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture”, five exhibitions will alternate over the course of twelve months. The first, curated by the Fondazione Cologni, will be dedicated to Milan’s master artisans. This will be followed by a dialogue between Capucci and Rometti, namely between high fashion and fine ceramics. During the Salone del Mobile, the premises will be playing host to “Doppia Firma”, the fifth edition of the event organised by the Michelangelo Foundation, Fondazione Cologni and Living Corriere della Sera, which showcases the exchange between artisans and designers. Last but not least are two themed exhibitions: one dedicated to glass and curated by Jean Blanchaert, the other revolving around ceramics, under the supervision of Ugo La Pietra. LEARNING AND UNDERSTANDING Franco Cologni In his book entitled Giustizia e Bellezza, the psychoanalyst and sociologist Luigi Zoja writes that, in the rich Western World, shortage of food no longer causes the catastrophes that were still bringing entire nations to their knees in the last century. But, Zoja continues, if we shift our attention “from nourishment of the body to that of the spirit, we see a chronic state of malnutrition where beauty is concerned. It is a famine the likes of which have never been seen before. Ugliness is constantly forced upon those who do not deserve it, in the form of ruined landscapes, scruffy, utilitarian architecture, and objects whose forms no longer hold any trace of human work and attention: things that are increasingly ugly, just like those that have never been touched by a human hand.” I was struck by this warning about the famine of beauty our world seems to be experiencing, feeding mainly on surrogates. I was also stirred to read that the causes of ugliness include, amongst others, the oblivion into which the human touch risks falling, in spite of its importance when it comes to making significant, precious objects: putting distance between man and his 128

talent, depriving him of the joy of creating, means malnourishing our souls. Which, just like our bodies, wither away if they are not fed. According to philosophers, the souls of the great artists were aflame. And the protagonists of the Renaissance knew just what nourishment was needed to “kindle this flame”, to keep its alchemy burning bright: culture, poetry, studying the classics, dialogue with the masters, rhetoric and music. Giorgione was an outstanding musician. Botticelli liked to talk with the Humanists of the Medici court. Giulio Romano knew about the applied arts, and sought out the very best artisans. Leonardo and Michelangelo both composed rhymes. Brunelleschi and Donatello had learned the ruins of Rome by heart. Giotto revived the techniques used to make ancient Roman sarcophagi. And the humanist Pope par excellence, Pious II Piccolomini, would evoke Cicero, encouraging people to learn from the classics whilst always seeking originality: Fugienda est omnis supervacua imitatio (all useless copies or imitations are to be carefully avoided). Today we think that the winged eye which Leon Battista Alberti had engraved on one of his medals should also be ours: observing but also soaring to new heights, just like the great Renaissance artists and artisans taught us. Putting human beings first, with all their talent and profound sense of beauty: a beauty towards which every individual wants to contribute. At high school I studied at the Istituto Gonzaga, a private school in Milan. The motto of Saint Jean-Baptiste de La Salle, the founder of the order that has always been running the school, was that “great accomplishments are possible”. And it’s true: great accomplishments are indeed possible thanks to vision, culture and talent. Just like creating a new Renaissance starting from craftsmanship. Or rather, starting from training to work and excellence: both of which are fundamental to nourish us and our desire to transform an opportunity into projects, objects, and the very subject of our dreams.




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