Artigianato 49

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COMITATO PROMOTORE

COMITATO TECNICO E CORRISPONDENTI PER LE AREE ARTIGIANE

Luigi Badiali (Presidente BIC Toscana) Giacomo Basso (Segretario Generale C.A.S.A.) Giorgio Pozzi (Assessore all’Artigianato Reg. Lombardia) Bruno Gambone Francesco Giacomin (Segretario Generale Confartigianato) Demetrio Mafrica

Alabastro di Volterra Sergio Occhipinti Irene Taddei Bronzo del veronese Gian Maria Colognese Ceramica campana Eduardo Alamaro Ceramica di Caltagirone Francesco Judica Ceramica di Castelli Vincenzo Di Giosaffatte Ceramica di Albisola Massimo Trogu Ceramica di Deruta Nello Zenoni Nello Teodori Ceramica di Grottaglie Ciro Masella Ceramica di Palermo Rosario Rotondo Ceramica Umbra Nello Teodori Ceramica di Vietri sul Mare Massimo Bignardi

Giancarlo Sangalli (Segretario Generale C.N.A.)

Di Ugo La Pietra, progetto per un tappeto tuftato a mano.

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Ceramica faentina Maria Concetta Cossa Tiziano Dalpozzo Ceramica piemontese Luisa Perlo Ceramica sestese Stefano Follesa Ceramica di Nove Katia Brugnolo Ceramica di Laveno Marcello Morandini Cotto di Impruneta Stefano Follesa Cristallo di Colle Val d’Elsa Giampiero Brogi Ferro della Basilicata Valerio Giambersio Ferro di Asolo Stefano Bordignon Gioiello di Vicenza Maria Rosaria Palma Intarsio di Sorrento Alessandro Fiorentino

Legno di Cantù Aurelio Porro Legno di Saluzzo Elena Arrò Ceriani Legno della Val d’Aosta Franco Balan Marmo di Carrara Antonello Pelliccia Marmi e pietre del trapanese Enzo Fiammetta Marmo veronese Vincenzo Pavan Mosaico di Monreale Anna Capra Mosaico di Ravenna Gianni Morelli Mosaico di Spilimbergo PiergiorgioMasotti Paolo Coretti Oro di Valenza Lia Lenti Peperino Giorgio Blanco

Pietra di Apricena Domenico Potenza Pietra di Fontanarosa Mario Pagliaro Pietra di Lavagna Alfredo Gioventù Marisa Bacigalupo Pietra lavica Vincenzo Fiammetta Pietra leccese Luigi De Luca Pietra Serena Gilberto Corretti Pizzo di Cantù Aurelio Porro Tessuto di Como Roberto De Paolis Travertino romano Claudio Giudici Vetro di Altare Mariateresa Chirico Vetro di Empoli Stefania Viti Vetro di Murano Federica Marangoni


editoriale Le arti applicate per il design di Ugo La Pietra

L

a sempre maggiore attenzione, da parte di operatori, intellettuali e uomini di cultura, nei confronti delle cosiddette Arti Applicate (o come altri preferiscono chiamarle: arti decorative o artigianato artistico) è ormai un fatto che non può più essere ignorato. La stampa ha dovuto prendere atto della mostra “Artigiano Metropolitano” recentemente presentata a Torino e molte riviste che si occupano di disegno industriale e arredamento hanno recensito (talvolta in modo sbrigativo!) l’avvenimento. Tutto ciò non può che fare piacere a chi, come noi, si impegna da molti anni nella rinascita di quella terza area disciplinare che sta tra l’arte e il design e che, senza rifarmi ad ambigue terminologie, spesso ormai compromesse, ho sempre chiamato: “oggetti fatti ad arte!”. La mostra di Torino, come tutte le altre mostre di ricerca che ho attivato negli anni ’80/’90 (vedi le mostre “Abitare con Arte” a S. Carpoforo a Milano negli anni ’80,

vent’anni sono state fatte per la crescita di questa area disciplinare. A chi giova, di fatto, questa sempre maggiore attenzione alla cultura del fare in una sempre più vivace e colta sperimentazione? Ma certamente si sa a chi giova tutto ciò! Alla disciplina “disegno industriale”, che da sempre ignora di dover attivare al suo interno luoghi ed energie per la ricerca e di volta in volta parassita ambiti artigianale elementi di le mostre “Genius Loci” disciplinari collaterali: progetto innovativo. C’é e “Progetti e Territori” da arte a comunicazione però qualcosa che in ad “Abitare il Tempo” visiva, per finire a questo positivo fenomeno raccogliere a piene mani tra il 1987 e il 1999 a di crescita appare Verona, le mostre tutto ciò che si sperimenta inquietante! Come tutti dedicate alla “diversità” nel mondo delle Arti sanno, questa terza area alla Fortezza da Basso a Applicate. Così nascono disciplinare in Italia Firenze tra il 1998 e il interi padiglioni, nelle non ha istituzioni, non ha nostre fiere di design, 2002, la Biennale di Arti Applicate a Todi, le dieci musei e gallerie, non ha dedicati ai giovani che mercato, non ha autori edizioni di “Territori di fanno la cosiddetta con propria quotazione, Pietra” nel Comune di “autoproduzione”, senza non ha sufficiente Cursi, ecc...), sono rendersi conto che, questi occasioni che hanno fatto informazione (la nostra è ultimi, altri non sono che crescere la consapevolezza la sola testata!); le scuole degli eredi degli “artisti/ sono in quasi definitiva di questa realtà culturale artigiani”, ma che non trasformazione. Così forse trovando altri spazi e produttiva: realtà che ci si dovrebbe domandare finiscono a portare i dà valore alla cultura dove sono finite tutte le del fare, introducendo propri valori e significati esperienze che negli ultimi al mondo del design. spesso nella tradizione

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DESIGN di Franco Poli

Dire che l’industria

è meno umana dell’artigianato potrebbe sembrare una banalità,

L’artigianato è un lusso? Una dichiarazione di profonda riconoscenza del valore dell’artigianato italiano da parte di un eclettico affermato designer

e lo è se pensiamo solamente al rapporto “uomo macchina” oppure a quel ruolo totalmente

Sotto e nella pagina a fronte: allestimento dello spazio “Pizzitutti” (divisione Matteo Grossi) a Parigi e a Francoforte.

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subalterno di un operaio che deve solo eseguire delle operazioni che non decide mai. L’artigianato è sicuramente più umano perché, nel suo fare, il rapporto dell’operatore con la macchina è meno duro e mai esclusivo e l’esecuzione manuale permette ancora qualche grado di decisione e quindi anche qualche soddisfazione individuale. Già solo per questi motivi dovremmo essere tutti a favore del nostro artigianato! Ma possiamo dire ancora di più: è risaputo che nel comparto dell’artigianato e della piccola industria vi è la percentuale più alta di sviluppo e di produzione del nostro paese e se ci interroghiamo sui perché scopriamo che nell’artigianato e nella piccola industria italiana avvengono diffusamente dei processi di invenzione e creatività che non ha eguali e che sono impensabili nell’industria “grande”. Credo fortemente che tutto ciò sia il risultato di un profondo coinvolgimento individuale che emerge da un’ampia cultura “fattiva” tutta italiana. Certo possiamo dire che questa è una varietà produttiva di piccole dimensioni e quindi poco rilevante, ma se il suo grado di diffusione è molto ampio sviluppa dei volumi non trascurabili. Posso dire in più, per esperienza


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A lato: due immagini dell’opera “Ana”, prototipo in cuoio.

personale, che ho trovato solo nella piccola industria e nell’artigianato la disponibilità per la ricerca e la sperimentazione; anche in questo caso dobbiamo distinguere a quale livello la ricerca si possa esprimere nell’artigianato ed ovviamente non può essere quello “aerospaziale” che certamente fa più colpo sulla gente ma non risolve i mille problemi quotidiani delle persone. Perché tutti noi per vivere tutti i giorni usiamo mille oggetti che possono essere prodotti sia industrialmente che, altrettanto bene, artigianalmente. Ma, in questo ambito, dobbiamo chiederci se tutto ciò ha valore anche per l’artigianato artistico e credo che la risposta non possa essere più che affermativa. Dato per scontato che in Italia vi sia una grandissima e storica disponibilità alle cose d’arte e che questo sia un dato che ci viene universalmente riconosciuto, dobbiamo anche dire che a livello istituzionale questa enorme ricchezza non viene sostenuta e comunicata adeguatamente. Migliaia di persone in mille posti diversi dedicano la loro vita e tutte le loro risorse per alimentare delle particolarità produttive che spesso vengono guardate con sufficienza dalla cultura ufficiale al punto tale che in alcuni casi l’artigiano

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In questa pagina, dall’alto: ciotole “Monnalisa” dalla collezione Larius, produzione Pizzitutti (divisione Matteo Grossi), 1999; vasi in vetro, produzione Arcade, 1999. Nella pagina seguente: sedia “Fullerina”, produzione Matteo Grossi, 1995.

“evoluto” ha timore di evidenziarsi per quello che è e tenta di mimetizzarsi comunicando se stesso con il linguaggio dell’industria (che tristezza!). L’invenzione e l’immediatezza anche linguistica del manufatto artigianale produce in chi lo fa e in chi lo usa una adesione ed una comprensione che difficilmente si trovano in altre produzioni e, visto che il nostro mondo rischia di diventare asettico ed incomprensibile, forse la risposta sta proprio nell'artigianato.

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Osservatorio sull’Arte Applicata nel Mobile a cura di Ugo La Pietra

Nella splendida Villa Dionisi, nel cuore del Veronese, è nato un centro studi e ricerche promosso dalla Fondazione Aldo Morelato per la valorizzazione del mobile d’arte.

Motivazioni E’ ormai noto a tutti che il marchio “Made in Italy” non è più vendibile, in quanto qualsiasi prodotto può essere realizzato in altri territori rispetto al nostro a meno che i prodotti siano caratterizzati dal “Genius Loci”, dall’identità di un territorio con tutto ciò che comporta (lavorazione, materiali, tecniche). Così è ormai chiaro che, come la pizza non è italiana ma “napoletana”, il parmigiano è “reggiano”, la malvasia di “Lipari” ecc., così i nostri oggetti e tutta la cultura legata alle Arti Applicate può acquisire “un valore aggiunto” se identificato nella sua “diversità”, contrapponendosi così ad un generico marchio e ancor di più a prodotti sempre più espressione di una globalizzazione culturale e di mercato. La consapevolezza di questa evoluzione passa attraverso la riscoperta delle “Arti Applicate”

e quindi di quell’Artigianato di Tradizione che sviluppa la sua attività nel continuo sforzo di rinnovarsi nelle tecniche e nelle capacità d’impresa. Tutti sanno che in italia per quanto riguarda la lavorazione del mobile sono ormai attivi da tempo tre poli principali: la Brianza (con la tradizione del mobile di Cantù), il Veronese (con la tradizione del mobile di Cerea e Bovolone) e il Pesarese. Ma se per l’area brianzola e del Pesarese si sono costituite negli ultimi decenni una serie di iniziative atte a connotare e valorizzare questo settore produttivo, non si può dire altrettanto per il mobile veneto in genere e quello veronese in particolare. Parlare di Arti Applicate e di Artigianato Artistico nel mobile veneto vuol dire fermarsi ad osservare il territorio attraverso quella sorta di museo diffuso rappresentato dal Sistema delle Ville Venete. Ben 4.000 ville del Veneto censite nel “Catalogo

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In questa pagina: “Cornice Veronese” ad intaglio, legno di cirmolo patinato con una pigmentatura bruna ad imitazione del pregevole bosso.

e Atlante del Veneto”, sostenute nella conservazione dall’Istituto Regionale per le Ville, rappresentano un grande patrimonio culturale. Persa l’originaria funzione di luoghi per la villeggiatura della nobiltà e della borghesia e di centri economici per l’agricoltura, oggi le Ville Venete non sono solo splendide architetture firmate

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Nella pagina a fronte: “Armadio Veronese” dipinto, Bottega dei Porta, settimo-ottavo decennio del XVIII secolo, Verona.

da Palladio, Scamozzi, Falconetto, Paolo Veronese, Giambattista Zelotti, dai Tiepolo, Jappelli o Bagnara, per citare solo alcuni dei grandi artisti che hanno contribuito a formare questo meraviglioso patrimonio veneto, ma anche luoghi in cui è possibile ritrovare la grande tradizione dell’artigianato applicato all’arredamento.


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In questa pagina: “Villa Dionisi”.

La costituzione dell’Osservatorio sull’Arte Applicata nel Mobile relativamente all’area veronese rappresenta un’iniziativa importante avendo tra le proprie attività la prima e più importante che è quella di censire il patrimonio esistente all’interno di queste strutture per poterlo conservare e promuovere. È importante ricordare che purtroppo in Italia non abbiamo ancora strutture che si occupano di design e di arte applicata, non è ancora nato un “Museo del Design”, tanto meno un “Museo di Arti Applicate”. L’unica struttura che si occupa di design con

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Nella pagina a fronte: Aldo Morelato, recentemente scomparso, a cui è dedicata la Fondazione.

particolare attenzione al mobile è il CLAC di Cantù, che svolge un intelligente lavoro di valorizzazione delle proprie risorse storiche: basterebbe ricordare le mostre storiche di Parisi, Paolo Buffa, Carlo de Carli o quelle più recenti come la personale di Ugo La Pietra. Così l’Osservatorio che nasce oggi nel cuore della pianura veronese, all’interno di Villa Dionisi, è sostenuto dalla Fondazione Morelato e ha come interesse e vocazione quello di valorizzare e promuovere il mobile di qualità e di alto valore artigianale dell’area del Veronese.


LA FONDAZIONE La Fondazione Aldo Morelato costituisce per la Morelato s.r.l. un progetto importante, un investimento in cultura e ricerca di grande valenza che trova due ordini di motivazioni. Il primo è interno alla famiglia Morelato che lo sente come un dovuto omaggio al fondatore dell’azienda. Trova il presupposto in un assioma “Impresa vuol dire Cultura”. Ogni impresa rispecchia un modello culturale di pensiero e di azioni produttive, di ricerca e di tecnologie. Nel tempo questo modello si concretizza in documenti, testimonianze e prodotti che rendono unica e distintiva la storia aziendale. Da qui l’esigenza per l’impresa di non disperdere, ma anzi valorizzare, diffondere e approfondire il proprio modello storico, la propria filosofia produttiva che in buona parte la Morelato deve al suo fondatore. Il secondo ordine di motivazioni risiede nella stessa filosofia aziendale della Morelato, nel proprio modo di essere azienda. Una filosofia basata sull’idea che cultura e sviluppo economico siano concetti non solo conciliabili, ma capaci di entrare in un rapporto sinergico che possa accrescere la competitività dell’impresa. Questa convinzione, da sempre ben presente, diventa ancor più importante in un momento come quello attuale in cui per contrastare gli effetti della globalizzazione occorre approfondire i propri legami con il territorio attraverso il recupero della propria storia, della propria identità culturale. Una filosofia i cui risvolti sociali sono ben espressi in un concetto promosso dal Consiglio d’Europa (Trattato di Berlino, 1984): non c’è sviluppo senza crescita culturale. Secondo il principio di “cultural development” o di “cultural aims of development” la cultura è la finalità, non un aspetto, dello sviluppo; in altre parole, lo scopo ultimo dello sviluppo

è di permettere ai cittadini di vivere ad un più alto livello di qualità culturale. L’azienda Morelato si fa carico di questo, accettando dunque un ruolo nella società oltre che nel mercato e partecipando alla crescita sociale e culturale del territorio e della sua comunità. Gli scopi istituzionali La Fondazione Aldo Morelato, che ha sede a Villa Dionisi, villa veneta della pianura veronese (XVIII secolo), è una figura giuridica privata senza finalità di lucro i cui scopi istituzionali in sintesi contemplano: - la salvaguardia e la valorizzazione del complesso monumentale di Villa Dionisi e del suo parco; - la promozione di attività collegate alle Ville Venete e ai valori che rappresentano; - la costituzione di un Osservatorio sull’arte applicata nel Mobile; - la realizzazione di corsi di formazione legati al mobile, quali, ad esempio, l’artigianato artistico e il restauro, professionalità una volta ben radicate nel territorio che rischiano di andare perdute; - la promozione di eventi culturali e l’organizzazione di iniziative, in collaborazione con organismi ed enti italiani o di altri paesi, mirate alla valorizzazione del territorio veronese e veneto a livello nazionale ed internazionale. Il fulcro dell’attività della Fondazione è costituito dall’Osservatorio sull’Arte Applicata nel Mobile, che svolge attività di ricerca e di promozione. La Fondazione Aldo Morelato, con il suo Osservatorio, si propone dunque di diventare un’importante risorsa per lo sviluppo di un’area di produzione del mobile d’arte o che ad esso fa riferimento, uno dei poli più importanti per la lavorazione del mobile in Italia, un distretto fondamentale per l’economia della pianura veronese. Filippo M.Cailotto

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Nelle due pagine: viste della Villa Dionisi, recentemente ristrutturata, aperta alle nuove attività dell’Accoglienza e dell’Osservatorio.

Filippo M. Cailotto

LA SEDE La sede dell’Osservatorio si colloca all’interno della Villa di Cà del lago di Cerea, appartenente alla famiglia Dionisi, che da Cerea mosse i primi passi, sette secoli fa, per assumere al rango di marchesato. Così l’antico casato, come spesso avvenuto nell’ambito della società veneta, volendo possedere con il palazzo di città una o più ville in campagna, arricchì il territorio con la Villa di Cà del Lago. Lo scopo era duplice: esercitare facilmente un diretto controllo sulle terre messe a coltura e nel contempo avere l’opportunità di convocare parenti e amici, notabili e letterati, in una cornice agreste, ma anche di fasto. Anche i Dionisi, uno dei più solidi e antichi casati

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veronesi, realizzarono la loro piccola Versailles. Fin dall’origine la villa era al centro di un’ampia area di coltivazione del riso, in questo senso tutta la struttura partecipava all’impresa agraria. Ma l’attività che si svolgeva nella villa non era solo finalizzata alle coltivazioni del territorio: di fatto il marchese era anche un animatore culturale. La villa quindi é stata per lungo tempo un centro di cultura dove si raccoglievano artisti e letterati, basterebbe ricordare la ricca biblioteca. Il Marchese, oltre ad essere l’animatore di questa attività, é anche l’imprenditore che indicherà a Nicola Marcola, il valente decoratore del complesso della villa (che nasce utilizzando precedenti strutture) i temi sui quali impegnarsi, temi intesi ad esaltare le glorie del casato Dionisi


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a cui si affiancheranno le scene agresti: immagini che non alludono agli ozi, ma ad attività finalizzate ad accrescere e conservare il patrimonio. Una lezione di moralità tenuta viva per molto tempo da molti ecclesiastici della famiglia Dionisi. Non a caso il marchese Gabriele inizia la ricostruzione della villa dalla cappella e mantiene viva la tradizione della famiglia fino all’arrivo a Verona delle armate francesi che segneranno il decadimento della stagione feudale e di tutta quella civiltà di cui la famiglia Dionisi fece parte per tanti secoli. La villa, oltre alla sua struttura fondamentale con un fronte su due piani e alla cappella, nel lungo arco di tempo intercorso dall’inizio della costruzione al completamento della loggia, si arricchì di altri edifici rustici (barche, granai, scuderie, ecc.) indispensabili al buon funzionamento dell’azienda agricola, a cui si aggiunsero interventi sull’ambiente circostante, alla ricerca di un più suggestivo rapporto architettura-natura. Un complesso organismo, quindi, che proprio per la sua potenzialità, attraverso un’attenta ristrutturazione, oggi si apre ad accogliere diverse attività: al piano terra sono stati organizzati spazi per attività di accoglienza (sale, sale da pranzo, cucine, servizi,

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Nella pagina a fronte, dall’alto e da sinistra, gli interni storici della Villa Dionisi: l’alcova; il salone al piano superiore; lo scalone d’onore con affreschi di G. Montanari (1743). In questa pagina, dall’alto: pianta della Villa Dionisi (piano superiore) nella nuova ristrutturazione; interno (piano terra) ristrutturato per l’accoglienza.

rapporto con l’esterno), mentre al piano superiore l’attività dell’Osservatorio trova una giusta definizione attraverso la grande sala centrale (con il grande affresco raffigurante l’incoronazione di un personaggio della famiglia Dionisi eseguito dal Montanari e da Gru) per seminari e incontri, ambienti per le mostre temporanee, altri per la collezione permanente, a cui si aggiungono spazi per gli archivi e per gli uffici, utili all’attività di ricerca e di divulgazione del centro. I corpi esterni (rustici) sono in parte destinati all’accoglienza e in parte verranno adibiti a laboratori della lavorazione del mobile.

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Programmi L’Osservatorio nasce innanzitutto con la volontà di essere l’espressione della cultura materiale in grado di rinsaldare il legame tra memoria storica e proposte contemporanee. L’Osservatorio potrà così definire, attraverso “momenti esemplari”, le diverse espressioni del progetto in rapporto all’evoluzione dell’abitare: oggetti, installazioni, opere “con significato” in grado di aiutarci ad esplorare e definire le tappe della nostra società. L’Osservatorio nasce, quindi, nella consapevolezza che il visitatore potrà porsi, rispetto alle opere, come “attento osservatore” degli sviluppi e trasformazioni dello spazio domestico e collettivo. Attento osservatore anche perchè, nella maggior parte della società, vi è stata una continua frequentazione (ed uso) dei “modelli ambientali” e degli “oggetti” proposti. Così, l’Osservatorio, potrà esemplificare il rapporto tra opere e società in modo diretto, attraverso alcune categorie formali e tipologie ambientali, in una rappresentazione del ruolo sociale e culturale dell’artigianato (idee del progettista e capacità dell’artefice di cogliere i suoi suggerimenti), in rapporto all’evoluzione dei vari gruppi sociali. L’attività quindi dell’Osservatorio sarà orientata a promuovere il “mobile” attraverso: - la conservazione (collezione permanente);

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- la promozione (mostre temporanee, seminari, laboratori didattici, pubblicazioni tematiche); - lo studio e la ricerca dei materiali (prove di laboratorio, tecniche e lavorazioni, essenze); - l’archivio (documentazione storica, censimento sul territorio, pubblicazioni). Conservazione I materiali raccolti, riferiti a opere di alto valore artigianale, saranno organizzati attraverso opere in cui è possibile trovare un legame con la tradizione. In questo senso gli oggetti sono raccolti con riferimenti al mobile di tradizione facendo riferimento a tre distinzioni: “Riedizioni”, “Citazioni”, “Allusioni”. I tre modelli così proposti esemplificano con chiarezza: 1) la realizzazione di oggetti classici, riprodotti fedelmente e che possiamo sinteticamente chiamare “riedizioni”; 2) la realizzazione di oggetti che fanno riferimento ai modelli originali filtrati da “interpretazioni” o da “citazioni” modificandoli in rapporto a nuove esigenze culturali, produttive e d’uso; 3) la realizzazione di oggetti che fanno riferimento a modelli classici, guardando al passato come a un grande serbatoio di nozioni capaci di stimolare nuove idee con “allusioni”, usando cioé la memoria come una delle grandi categorie in grado di sollecitare il pensiero progettuale.


Ricerca sui materiali Una delle particolari carenze del territorio individuato è la mancanza di centri di ricerca e di laboratori in grado di rilasciare certificati relativi alle normative europee, in questo senso verranno attivati laboratori in grado di fornire questi servizi oltre che assistenza e conoscenza in rapporto ai diversi materiali, alla loro qualità ecologica e alle diverse tecniche ancora in uso. Archivio L’archivio rappresenta la possibilità di consultare, attraverso un particolare sito internet, in una sorta di “museo diffuso” distribuito sul territorio: aziende, laboratori, artigiani, designer, istituzioni, storia, tradizioni, itinerari.

Promozione L’Osservatorio ha nel suo programma attività divulgative e promozionali che vanno dalle mostre di collezioni di oggetti di autori (maestri ebanisti), di raccolta di opere riferite a diverse tematiche, ai laboratori didattici per la crescita culturale degli operatori del settore a seminari in grado

di far crescere: la consapevolezza del ruolo delle Arti Applicate dell’area produttiva del Veronese. Il rapporto con altre aree produttive fino a strumenti divulgativi come pubblicazioni periodiche e a tema. Il primo evento di questa attività sarà la presentazione della nuova collezione “Zero” dell’azienda Morelato.

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La nuova collezione “Zero” L’azienda Morelato, una società che da diversi anni si è fatta conoscere a livello nazionale ed internazionale per la produzione di mobili caratterizzati dalla rivisitazione di stili “classici” si presenta con una nuova collezione che dopo il ’700, ’800 e ’900 parte da “Zero”. Di fatto, dopo il ’900, la Morelato, con questa collezione, intende proporre oggetti che, al di sopra degli stili, appartengano alla nostra contemporaneità. Oggetti quindi capaci di farsi riconoscere come opere in grado di esprimere il meglio della cultura che si sta sviluppando nel nostro tempo. Le caratteristiche di questa collezione, rispetto a ciò che da sempre è stato proposto dalla Morelato (che ha ideato e prodotto i suoi oggetti attraverso il proprio Centro Studi),

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è l’introduzione della figura del designer. Possiamo quindi sintetizzare che questa collezione si caratterizza, oltre che per la contemporaneità dei modelli, per la progettualità di diverse figure di designers; a ciò si deve aggiungere che sono oggetti finalizzati allo spazio domestico (area affettiva: soggiorno, pranzo, letto), oggetti realizzati con materiali ecologici, oggetti costruiti con attenzione innovativa nel rispetto della tradizione della lavorazione del mobile (tecniche e procedimenti artigianali), oggetti con forme essenziali e rassicuranti. La collezione è firmata da Ugo La Pietra, Umberto Riva, Franco Poli: designers di grande esperienza e sensibilità, che hanno al loro attivo un’intensa attività progettuale caratterizzata da una forte attenzione nei confronti dei materiali tradizionali e delle tecniche artigianali.


Nella pagina a fronte: scrittoio di Franco Poli.

In questa pagina, nella colonna di sinistra: scrittoio e libreria di Franco Poli. Nella colonna di destra: letto di Ugo La Pietra.

Presentata in anteprima presso il Museo Minguzzi a Milano in occasione del Salone del Mobile, sarà oggetto della prima mostra che l’Osservatorio organizzerà presso la sede di Villa Dionisi. Le proposte quindi, pur tenendo conto delle tecniche produttive e finalità commerciali della Morelato, si differenziano attraverso i diversi linguaggi dei tre designers. Così tavoli e tavolini di Umberto Riva si presentano con strutture che esaltano gli oggetti attraverso l’articolazione di piani orizzontali e verticali, mentre le proposte di Ugo La Pietra (letto matrimoniale, sistema di contenitori e libreria)

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evidenziano la sua attitudine verso forme semplici con la possibilitĂ di complicare, attraverso la loro aggregazione, le varie tipologie arredative; infine i mobili di Poli esaltano, in forme essenziali, le possibili strutture ricavate dalla giustapposizione di volumi primari. In tutte le soluzioni proposte i vari autori hanno rivolto una particolare attenzione ai dettagli e ai materiali, caricando gli oggetti in modo sobrio ed essenziale anche di valori decorativi.

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Nella pagina a fronte: libreria semplice e doppia di Ugo La Pietra. In questa pagina: tavolino e tavolo di Umberto Riva.

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QUADERNO N.1 - Aprile 2003 - Osservatorio sull’Arte Applicata nel Mobile - Villa Dionisi, Cà del Lago, Cerea (VR), tel. 0442 365250 Estratto da Artigianato tra Arte e Design n. 49 aprile/giugno 2003 - Edizioni Imago International s.r.l. - Milano (Italy)

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MOSTRE di Roberto De Paolis

Biennale a Vallauris

Nella cittadina provenzale di Vallauris-Golf Juan si è tenuta dal 29 giugno al 29 settembre 2002 la XVIIIa Biennale della Ceramica d’Arte di Vallauris uno tra gli appuntamenti mondiali più celebrati dai ceramisti di tutto il mondo

L’

ultima edizione della Biennale Internazionale, sotto l’alto patronato dell’UNESCO, ha visto la partecipazione di 483 artisti provenienti da 48 nazioni. Delle 821 opere in ceramica sottoposte alla selezione della giuria ne sono state selezionate 145 per l’esposizione finale. A 14 di queste sono stati conferiti premi e menzioni speciali offerti dagli Enti e Associazioni culturali che hanno promosso l’iniziativa. La storia della Biennale risale al 1966 quando i ceramisti residenti a Vallauris, località già nota perché in essa vi operò negli anni ’50 Pablo Picasso -che proprio qui, sulla volta della cappella interna al castello, realizzò “La Guerre et la Paix”- decisero di far assurgere la loro cittadina a centro mondiale della ceramica, con l’istituzione di un concorso che, a livello nazionale, selezionasse i migliori artisti e artigiani operanti in Francia (decoratori, vasai, ceramisti d’architettura, ecc.). L’iniziativa coinvolse le maggiori personalità artistiche del tempo tra cui André Malraux e lo stesso Picasso, finché nel 1968 la Biennale ed il concorso divennero di rilevanza internazionale. Come le precedenti, questa edizione, potendo contare sulla sinergia di enti promotori, commissioni e comitati organizzatori a livello locale e nazionale nonché ateliers d’art, accademie e fondazioni, basandosi su una giuria composta

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Nella pagina precedente, dall’alto: opere di Peter Beard e Hans Hedberg. In questa pagina, dall’alto e da sinistra: opera di Lana Tiknesa, Fausto Salvi e Gabriella Sacchi. Nella pagina a fronte, dall’alto: opere di Marie Laure Gobat e Sophie Combres.

da personalità di primo piano nel mondo dell’arte e della cultura, ha permesso di confrontare e scoprire le opere dei più grandi ceramisti dei 5 continenti, con particolare riguardo ai giovani. La giuria testimonia un’ampia rappresentatività internazionale: A. Halle (Francia), conservatore al Museo Nazionale della ceramica di Sèvres; J. Mansfield (Australia), ceramista, editrice di riviste sulla ceramica e vice presidente dell’Accademia Internazionale della ceramica; S. Nagasawa (Giappone), professore e ceramista; T. Franks (Gran

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Bretagna), professore e ceramista, presidente dell’Accademia Internazionale della ceramica; C. Carle, (Argentina), ceramista. La giuria, nella relazione finale, ha sottolineato come un piccolo villaggio, quale è Vallauris, sia riuscito a suscitare un interesse così rimarchevole nel mondo, con un successo paragonabile soltanto ad altre due manifestazioni analoghe ormai consacrate alla ceramica contemporanea: la Biennale di Faenza in Italia e la Triennale di Nyons in Svizzera, dedicata all’arte della porcellana. I ceramisti di Vallauris, lontani dall’essere soddisfatti del successo commerciale locale e degli effetti turistici, aprono un confronto non comune nel mondo dell’artigianalità artistica, come invece solitamente accade tra artisti plastici, pittori, scultori, contribuendo a far uscire la ceramica da quella concezione riduttiva che la relega allo statuto di arte “utilitaria”. Il gran numero di opere pervenute ha consentito di selezionare un livello eccellente di ceramiche, scartandone alcune per incongruità con il bando (produzioni folcloristiche, decorazioni a smalto su porcellana); l’internazionalità della giuria ha permesso di rispecchiare la diversità delle provenienze culturali degli artisti. Un riconoscimento a parte è stato riconosciuto ai giovani artisti. La ceramica è un'arte “tecnica”, che richiede una lunga formazione: pertanto si è avuto riguardo per i giovani che, non ancora in possesso della maestria tecnica, hanno rivelato una profonda creatività. Nel catalogo (Editions de l’Abival), oltre alla storia della Biennale, sono raccolte tutte le opere selezionate e premiate ed è inserita una selezione di quelle delle Biennali dal 1966 al 2000, che oggi formano la collezione permanente del Chateau-Musée de Céramique d’Art de Vallauris.

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MOSTRE di Anty Pansera

I

n una casa-museo dal DNA rinascimentale, la dimora ferrarese di Marfisa d’Este, fiera rappresentante della sua famiglia, unica rimasta in città in momenti difficili, sono state raccolte particolari e preziose memorie, testimonianze del mondo femminile cittadino tra Ottocento e Novecento. “Foeminilia, memorie ferraresi” è il titolo della raffinata mostra che alcuni mesi orsono ha animato le sale della Palazzina, oggi patrimonio dei Musei Civici di Arte Antica. Ideata dal Soroptimist International Club di Ferrara, progettata e curata dallo storico dell'arte Chiara Toschi Cavaliere, ci ha riportato ad un dimenticato “universo donna”; e “cose di donna” è la traduzione che potremmo fare del titolo, un neologismo coniato in un ormai lontano medioevo da un’intellettuale e scienziata di assoluta modernità, Hildegard von Bermersheim. Le “cose di donna” che possiamo incontrare in questo percorso -sia pur legate a questa “piccola” città dal grande passatodi fatto potrebbero essere scovate e riproposte -al di là di alcune “particolarità” localisotto l'ombra di ognuno dei mille campanili italiani. Dalla devozione alla vanità, dalla maternità al momento del gioco e a quello del viaggio (da intendersi anche o soprattutto quello “di nozze”, unico momento d’evasione per molte): in queste cinque stazioni sono proposti oggetti assolutamente

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“Foeminilia”

A Ferrara nella rinascimentale casa museo di Marfisa d’Este la mostra "Foeminilia, Memorie Ferraresi" ci ha riportati ad un dimenticato “universo donna” legato a questa piccola città dal grande passato


Nella pagina a fronte: immagini di due sale della mostra.

esemplari, per tipologia e qualità (manifatturiera e formale). Scovati e selezionati dalla curatrice, sono stati prestati dalle Soroptimiste ferraresi e dalle loro amiche, custodi di un passato che troppo spesso è celato nei cassetti o dimenticato in soffitta. E se alcuni “prodotti” possono certo essere comuni ad altre realtà geografiche, anche internazionali (le bambole di biscuit della Simon & Halbing o di celluloide col marchio “tartaruga” della Rheinesche Gummi und Celluloid Waren Fabrik, nei rari esemplari di passaggio tra gli antichi materiali e quelli tecnologicamente più avanzati), altri sono significativi per questa area dalle alte tradizioni artistiche rinascimentali: come le versioni ottocentesche dei deschi da parto, vassoi dipinti per portar cibo alle puerpere, divenuti zuppierine in porcellana o argento per il rinfrancante consommé, dono dei suoceri in occasione della nascita… del figlio maschio. E se in cucina -all’insegna della casalinghitudine- si sprecano mestoli, mattarelli, grattugge, macinini, o nel salottino agolai d’avorio, ditali e forbicine d’oro, alcune padrone di casa amavano portare in cintura l’ormai dimenticata -chi se ne ricorda più?chatelaine, possibilmente d’argento finemente intarsiato, decorata a volte con smalti e pietre preziose che prende nome dal portachiavi appeso in vita dalle mogli dei castellani medievali. E, ancora, lenzuola con ricamato “buon sonno”; curiosi lumi

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In questa pagina e nella precedente: una selezione di oggetti presentati alla manifestazione, testimonianze del mondo femminile cittadino tra Ottocento e Novecento.

da notte con teiera (base in porcellana con lucina ad olio e bricco in cui rimane caldo qualche infuso fino al mattino); il "pappagallo" da donna dalla straordinaria forma anatomico/ergonomica… Manine congiunte e statuine da cassettone, Gesù Bambini

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di cera avvolti in strette fasce di seta, altarini casalinghi, rosari di granate, corniole, semi di pianta di ricino…librini da preghiera dalle straordinarie -e spesso curiosissime- rilegature, santini ad ago e in carta ritagliata (il tema della devozione) a fare da contrappasso a specchi

di ogni dimensione e tipo, attrezzi per arricciare ed acconciare i capelli, corsetti, reggiseni e mutandine nei loro particolari packaging , gioielli preziosi e sfiziose bigiotterie, borsette a sacchetto -le ridicules-, “equipaggiamenti” di ombrellino parasole, manicotto e guanti… campanelli per scandire gli orari richiamando le signorine delle case chiuse: tutti segnali del composito repertorio legato alla vanità. E si arriva al tempo libero e al viaggio, anche per “trovare se stesse”… beauty cases, allora, e valigie: a dominare Vuitton, ma non manca una borsetta in coccodrillo e argento firmata Tiffany del 1807. Poi le testimonianze del corredo… di volo della più giovane aviatrice italiana, la studentessa ferrarese Laura Gaia: inevitabile il riferimento -e la suggestione- alle imprese del celebre conterraneo Italo Balbo. Un’impresa non facile, questa di Chiara Toschi Cavaliere: trovare e rimettere in scena come attori i piccoli oggetti femminili d'antan che ci hanno anche fatto scoprire archetipi dimenticati, come l’orologio da occhiello, l'allarga guanti, il micro revolver da palmo "Le protecteur" per brutti incontri. Un’impresa e un patrimonio che per fortuna non andranno dispersi: tra poco, infatti, potremo ripercorrere questo percorso, sia pur virtualmente, su un Cd-rom o in rete, sul computer di casa.


MOSTRE di Marcella Biserni

Mostra della Ceramica di Monte San Savino

Dal 7 al 22 giugno ritorna l’importante manifestazione espressione della forte e qualificata tradizione della ceramica nella Provincia di Arezzo con un progetto innovatore rispetto alle scorse edizioni

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opo alcuni anni di interruzione l’importante appuntamento viene ripristinato grazie a Federimpresa Arezzo in collaborazione con Camera di Commercio di Arezzo e Comune di Monte San Savino. “Questa zona ha una forte e qualificata tradizione nella lavorazione della ceramica -spiega Araldo Giannoni, presidente della categoria dell’artigianato artistico di Federimpresa-. Ci è sembrato quindi giusto ridare vita ad una manifestazione che trova nel Cassero di Monte San Savino il suo naturale contesto, ospitando, appunto, il museo della ceramica”. L’edizione 2003, dal 7 al 22/6, “Sarà di carattere prettamente artistico. In mostra verranno esposte le opere di 10 artisti di livello nazionale, tra cui Bruno Gambone, Marcello Fantoni, Riccardo Gori, Ceramiche Giotto, Anna Giotto, Ceramiche Orietta Lapucci, una collezione di Zulimo Aretini, alcune opere di Giulio Busti dal museo di Deruta e antiche ceramiche di Catrosse, risalenti alla tradizione di Cortona. Ospiteremo anche le Ceramiche d’Arte della Bottega Rossicone di Milano, ottenute grazie alla collaborazione del Centro Studi Internazionali Baldassarre Castiglione e dell’Atelier Fuoriclasse”. All’arte verrà abbinata la promozione: infatti, nel week-end 7/8 giugno, ci sarà anche la mostra mercato, della ceramica e della pietra lavorata, nei locali del palazzo comunale e nel centro storico savinese. All’esposizione portante, si aggiunge un progetto innovatore rispetto al passato, ovvero ospitare ogni anno una tipologia diversa della categoria dell’Artigianato Artistico

piatti d’artista in ceramica (cm. 52) della Bottega Rossicone di Milano, dall’alto e da sinistra: Aligi Sassu, Saverio Terruso, Emilio Tadini, Ernesto Treccani.

aretino. L’intento è quello di creare sempre maggiori legami tra le principali manifestazioni concernenti i settori dell’Artigianato Artistico ed i corrispettivi comitati organizzativi della provincia di Arezzo e non solo. Federimpresa e Camera di Commercio intendono infatti valorizzare il complesso delle lavorazioni artistiche e quest’anno, grazie alla collaborazione del comitato organizzativo della Mostra della Pietra Lavorata di Castel San Niccolò, sarà appunto la volta della pietra, altro materiale tipico della provincia aretina, che verrà

rappresentato da 5 opere poste nei giardini pensili del Comune. Infine il 7 giugno, in occasione dell’inaugurazione della Mostra, verrà presentata la Guida dell’artigianato artistico nella provincia di Arezzo. “E’ il frutto di un lavoro lungo e significativo che abbiamo condotto sul territorio e che segue la mappatura della categoria del 2001. Arezzo ha consolidate tradizioni che possono essere non punti di arrivo ma di partenza per rilanciare mestieri e lavorazioni che non devono essere perduti”.

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mostre di Massimo Bignardi

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irò subito, fugando ogni dubbio, che non ho pregiudizi verso la superstizione, né tantomeno credo, come avverte Luciano De Crescenzo, che “essere superstiziosi porti male”. L'inquieta e al tempo stesso ironica presenza, nel senso dato da Calvino al valore dell'ironia, in questi giorni nel mio studio invaso dagli ottantasette corni, realizzati da altrettanti artisti italiani e raccolti dall'Associazione Arte e Apotropia, ha sobillato la fantasia, riproponendo da diversa angolazione un quesito, che ora trova un ulteriore appiglio o, se si vuole un pretesto, al quale dare una possibile risposta. Certo è, cedendo alla seduzione delle forme dell'arte, che a guardarli si finisce per credere alla loro forza e, come recita il venditore ambulante di amuleti, per “convincersi dell'utilità”. L'utilità non è quella di un effettivo risultato scaramantico, tanto da disporsi al di là delle certezze del nostro credo umanistico (tecnologico), in direzione, cioè, dell'imponderabile, delle energie che muovono nel nostro quotidiano, agendo attraverso la capacità di trascrizione che i segni, di qualsiasi natura, hanno. Viene subito da chiedersi: cosa c'entra la credenza o meno con questi "oggetti", proposti oggi in bella mostra, con la vanità e la spregiudicatezza di forme, perché no anche, di nuovo design

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Oggetti propiziatori

Da un rinato interesse per la superstizione in mostra ottantasette nuovi corni realizzati da altrettanti artisti italiani per la collezione dell’Associazione Arte e Apotropia di Como

dell'apotropaico? Una prima risposta la offre il progetto che per anni ha inseguito l'associazione comasca: un progetto già manifesto nel nome assunto, ossia Arte e Apotropia, legando fra loro, (è forse questa la chiave?) i termini ovvero le ritualità di due pratiche entrambe inscritte nella sfera del magico. Rilievo che stabilisce il carattere di questa raccolta. Innanzitutto essa dà la misura di

quanto la creatività contemporanea abbia, al di là dei territori linguistici, una sua vitalità di corpo propiziatorio, elevato contro il sortilegio, le ombre del malefico (che non è solo il negativo) celato dalle figure della quotidianità. Essa offre, quindi, oggetti disposti al fascino della superstizione, facendo leva sulla magia della pratica dell'arte, aperta, in senso positivo, alle contrarietà che si


Nella pagina a fronte: “Corno” di Bruno Gambone. In questa pagina: “Corno” di Ignazio Moncada.

annidano nel presente, contro quanto accade nelle scure pieghe del nostro tempo. Oggetti d'arte (o fatti ad arte) che possono assumere, spingendosi sino al paradosso, il significato di oggetti iniziatici, d'incontro (inteso come inizio di un duello) con l'ignoto, con il malefico, con l'irrazionale: l'incontro è, comunque, con la nascosta figura che nell'opera si mostra, si libera acquisendo un corpo e una materia. Questa raccolta nata “occasionalmente” e accresciutasi in tempi diversi, come precisa Angela Corengia, esprime il desiderio mai negato dell'artista, di attraversare con il bagaglio del nomade il mondo della superstizione, portando con sé la volontà rigeneratrice e protettiva dell'arte o, meglio, il suo destino a "costruire" immagini e corpi per il tempo, quello futuro, traducendo i segni e le forme in forze capaci di confrontarsi (contrapporsi) al "malefico", ai suoi "nascosti" raggiri, alle metamorfosi e ai suoi misteri. Tutto ciò pensato con la sottesa vocazione di disegnare una traccia all'imprevedibilità del destino. Sono forme, quindi, ideate quali varianti di un percorso, tali da iscriversi, così, nel vasto universo degli oggetti apotropaici. Oggetti divenuti figure di rituali che si danno, al contatto ideale (simbolico), quali scorciatoie, cioè, di “un modo -osservava qualche anno fa Cecilia Gatto Trocchi, antropologa culturale, sulle pagine di un rotocalco nazionale- con cui

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In questa pagina, dall’alto e da sinistra: “Corni” di Aldo Spolti, Michele Peri, Crescenzio Del Vecchio, Giordano Montorsi. Nella pagina a fronte, dall’alto: “Corni” di Enzo Cucchi, Carla Accardi, Lucio del Pezo.

ci si propone di aggirare gli ostacoli o i problemi della vita quotidiana”. È una sorta di tutela, conclude l'antropologa, che “ci fa sentire meno indifesi di fronte all'imponderabile”. Il corno è, nella sfera del simbolico, l'evidenza della potenza virile, del dominio (ossia propria di chi domina), tradotta ed esemplificata nella sua forma più naturale: vale a dire l'arma di difesa, di aggressione, di penetrazione e al tempo stesso indistruttibile. Spiega Pierre Grison, nella specifica voce del dizionario dei simboli, che il corno, dal quale traggono la forma "raffigurativa" i cuòrni partenopei, significava “eminenza, elevazione” lambendo i territori dello spirituale. In tal senso il repertorio della storia dell'arte offre molti riferimenti: esempi sono le "corna" sul capo del michelangiolesco Mosè, o il piccolo amuleto di corallo rosso che Crivelli dipinse nelle mani del Bambino, della celebre "Madonna della rondine", oggi alla National Gallery di Londra. Non v'è dubbio che a sollecitare l'immaginario dei nostri artisti vi sia stata una giusta dose di autoironia, maggiormente evidente nelle opere realizzate dalle giovanissime presenze. A detta degli astrologi, ma anche degli studiosi di occultismo, quelli che viviamo sono anni difficili, nei quali si muovono energie negative: sono anche anni segnati, diversamente dall'ottimismo ideologico che aveva animato i

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decenni Sessanta e Settanta, da una vera e propria favorevole congiuntura, quindi, di ritorno a credenze e a pratiche contro il "malocchio" o maleficio. In parole povere è lo strisciante fascino della superstizione, infiltratasi lentamente nel nostro tempo, ad occupare quelle certezze (o tali apparivano) offerte dal progetto dell'ideologia. Il "rinato" interesse per la superstizione non deve meravigliare più di tanto. All'alba degli anni Sessanta, nelle pagine introduttive de "La terra del rimorso", Ernesto De Martino faceva rilevare come tale condizione corrisponda alla paura di smarrire la presenza “nei momenti critici del divenire storico”. L'interrogativo iniziale volge, dunque, verso altri lidi, lasciando le rive calme di una rigenerazione mitica dell'oggetto apotropaico, per infilarsi nei sentieri più contorti, meno agibili di una condizione del presente, della difficoltà di prefigurare un orizzonte e, più in generale, di confrontarsi con la inquieta congiuntura storica e sociale che questi primissimi anni del terzo millennio fanno registrare. L'azione degli artisti appare ben evidente; non è stata solo quella di disporre "nuovi oggetti" all'immaginario apotropaico, anche se l'accattivante sottotitolo di questa mostra ci spinge in tali territori, né di fornire forme della contemporaneità ai rituali dell'indolenza, in pratica a quella negativa sacca ove - suggerisce ancora la Gatto Trocchi si registra un “progressivo scollamento dalla realtà”. Si tratta, bensì, di agitare le forze della creatività, accendere il desiderio della scoperta, guardare in direzione dell'ignoto (proprio di ciascun opera) e, quindi, di concedere margini ad ulteriori tracciati dell'irrazionale. È il desiderio di muoversi in un territorio ove la realtà e

l'imponderabile non hanno precisi confini, ove la forza del simbolico scardina ogni irruenza del poetico e i segni, finanche quelli dello spazio "virtuale", si legano ad itinerari ancestrali, a tracciati di una mitografia dell'oscuro. “Nella mia lunga vita di artista racconta Roberto Murolo sollecitato da Mario Franco a partecipare con una dose d'ironia alla "trama" di questa mostra - di

cornetti me ne hanno regalati molti, (e i cornetti debbono essere regalati!) d’oro, d’argento, di corallo ed anche di materiali meno nobili, di pasta d’avorio, d’osso, di plastica… Ma proprio perché sono tanti io non ne porto mai nessuno e quando c’è qualcosa o qualcuno che penso mi possa dar fastidio – per esempio il solito gatto nero, diciamo così - allora…mi gratto. Nessuno se ne accorge”.

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MOSTRE

di Paolo Coretti

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a mostra, curata da Ugo La Pietra, organizzata attraverso una serie di opere progettate per l’occasione da circa 40 autori, si è inserita all’interno della tematica relativa alla 66a edizione dell’aprile 2002 dedicata al Brasile. Una delle immagini che ha sempre sollecitato la nostra fantasia, tra le tante che caratterizzano questa nazione, è il carnevale di Rio, con tutto il suo fascino di musica, colori, immagini e il comportamento collettivo. Tra le varie espressioni di questa ritualità, il “travestimento” rappresenta l’aspetto più importante per ciò che è lo sviluppo e la liberazione della creatività individuale. La pratica della modifcazione e del travestimento di un “soggetto” è quindi il tema sviluppato con la collaborazione di vari autori e artigiani in omaggio a questa tradizione brasiliana. Il tema “Travestire, camuffare, alterare, nascondere la vera identità di un oggetto per recuperare, nel sistema, un’altra posizione o per aggiungere altri significati”. La partecipazione dell’uomo, che tende a riaffermare la necessità della vita attraverso partecipazione e uso dello spazio, si scontra ogni giorno con i rigidi sistemi all’interno dei quali si trova ad operare; l’impossibilità di agire direttamente sulla realtà che lo circonda si esprime spesso in tentativi disorganici, contradditori.

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L’oggetto travestito

La mostra progetto promossa da Firenze Expo&Congress ha rappresentato l’evento centrale della 66a edizione della Mostra Mercato Internazionale dell’Artigianato tenutasi come sempre alla Fortezza Da Basso di Firenze


Nella pagina a fronte: l’oggetto travestito di Ugo La Pietra: dalla serie “Attrezzature urbane per la collettività: abitare è essere ovunque a casa propria”, paletti e catene convertiti in oggetti di arredo domestico, 1979.

L’OGGETTO TRAVESTITO a cura di Ugo La Pietra

In questa pagina, dall’alto: copertina del catalogo; allestimento di Ugo La Pietra con grande tavolo rivestito in ceramica (1993) e portavasi in ceramica realizzati da Alessi (Caltagirone, 2000).

La ricerca di nuovi ambiti di agibilità e creatività dovrebbe portare l’individuo verso la manipolazione e quindi la trasformazione dei propri atteggiamenti comportamentistici. In effetti, spesso, egli si limita ad interventi riduttivi, come quello di trasformare il proprio aspetto fisico usando il camuffamento. E così ci si traveste spesso per recuperare un’altra posizione e per comunicare altri significati. La pratica che ogni individuo sviluppa quotidianamente per comunicare il proprio ruolo, la propria mansione, la propria ideologia, la condizione sociale, la generazione, l’integrazione,

l’emarginazione, ecc... è spesso alterata da sistemi visivi e formali (moda, chirurgia estetica, travestimenti, ecc...) aprendo un’infinità di linguaggi capaci di confondere i codici, tali da nascondere la vera identità, di un individuo. Questo percorso all’interno del comportamento quotidiano è riconducibile a ciò che spesso avviene nel mondo degli oggetti. La storia del design è ricca di esempi in cui l’oggetto subisce

un processo di modificazione (attraverso il progetto intenzionato o mediante l’uso e la manipolazione) che lo porta a cambiare immagine. La riconversione progettuale Fin dai primi anni ’70 Ugo La Pietra ha sviluppato all’interno degli oggetti (vedi Riconversione progettuale per gli oggetti di arredo urbano, Triennale di Milano, 1979) una sorta di riprogettazione e di trasformazione degli stessi. Tavoli, sedie, poltrone, letti, armadi, lampade, venivano così realizzate con attrezzature normalmente usate per la segnaletica urbana (paletti, basi di cemento, catene, paline metalliche, ecc...). La trasformazione dell’oggetto, o comunque il suo camuffamento, è quindi una pratica che è stata spesso sviluppata per decodificare, e modificare, attraverso l’oggetto, i rapporti tra individuo e ambiente. La modificazione può essere di due tipi: trasformazione che ne altera l’identità, mantenendo la tipologia originaria (camuffamento), o trasformazione che, oltre a far perdere l’identità

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L’oggetto travestito di Nello Teodori: “Vagone caffettiera”, realizzazione di Minelli e Vincenzo & C. (Gubbio).

L’oggetto travestito di Alessandro Vicari: “Pane toscano, pane della libertà”, con inserimento di ferri in cioccolato.

L’oggetto travestito di Monica Ferrigno e Davide Dameno: “La mucca controllo di qualità”, il latte ricerca le proprie origini.

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L’oggetto travestito di Jonny dell’Orto: copriplacca “Tempietto della luce”, realizzazione in gesso della Fabbrica di Dedalo (Milano).

L’oggetto travestito di Elelù (Elena Cilia e Lucio La Pietra): lampada

L’oggetto travestito di Masayo Ave: “Portafiore” e “Miss Universo”, rivestimento realizzato con tecnica manuale tradizionale “Shibori-tie and dye” da Izet Baeza, artista tessile messicana.

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L’oggetto travestito di Giammaria Colognese: complementi d’arredo” realizzati dalla Ditta DI.U.M.A. (Verona).

L’oggetto travestito di Giusto Bonanno: lampada “Mezzo di luce”.

L’oggetto travestito di Ugo La Pietra: “Lampada CD”, realizzata da Promet (Paullo).

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originaria, propone l’oggetto in una diversa tipologia. Nella mostra sono state presentate da La Pietra diverse opere che esprimevano questo duplice percorso: dal tavolo mediterraneo (un lungo tavolo in legno rivestito, sul piano, da un grande paesaggio mediterraneo in ceramica), al CD che si trasforma in un oggetto luminoso radiocentrico, dalla palina stradale (usata per la segnaletica) modificata in una spettacolare lampada a stelo. Oggetti, quindi, che perdono la loro identità per entrare in un nuovo sistema con nuovi significati. Un percorso progettuale ed un esercizio molto utile ai progettisti interessati a ridare all’oggetto la funzione di comunicare, Sopra e a lato: L’oggetto travestito di Paolo Coretti con Livio Bisaro: “porta sale e porta pepe: uovo” e “porta robe da tavolo Ciribiri: basco” realizzati da P.M.D. di Nimis (UD). Sotto: L’oggetto travestito di Alfredo Gioventù: “Sotto vaso sotto bosco”in grès con stampatura foglie di quercia in porcellana.

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Sopra e a lato: l’oggetto travestito di Isabella Taddeo: “dissuasore di sosta che diventa seduta urbana” , gommapiuma lavorata a mano. Sotto: l’oggetto travestito, di Ugo La Pietra: portabottiglie “Limoncello di Vietri sul Mare” realizzati da Francesco Raimondi.

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L’oggetto travestito di Francesco Raimondi: contenitore d’acqua tradizionale camuffato in brocca zoomorfa.

L’oggetto travestito di Anna De Plano: lampada “Punto” produzione Segno, travestita in lampada “Light”, realizzata con due ciotole-contenitore da Guzzini.

di decodificare e di trasgredire per superare ciò che è stabilmente acquisito e codificato, e nello stesso tempo molto utile anche ai consumatori (e quindi nel caso di questa mostra ai visitatori), esercitando su di loro stimoli per superare le mode che spesso favoriscono conformismo, aspirazione classista e falsa coscienza. L’operazione consisteva nel fotografare una serie di attrezzature urbane, che ci ricordano ogni giorno vincoli, ostacoli, separatezze e violenze della città, quindi riprogettare dette attrezzature modificando la loro fisionomia e tipologia: da strutture di servizio della città a strutture di servizio per lo spazio domestico. L’operazione, attraverso

progetti e opere realizzate (vedi “paletti e catene”, “Arcangeli metropolitani”, ...), indicava che la riappropriazione dell’ambiente da parte dell’individuo, doveva passare attraverso la distruzione della barriera che ancora oggi esiste tra le due categorie (spazio interno/spazio esterno). Così, per indicare meglio che non solo lo spazio domestico deve essere abitabile (secondo lo slogan “Abitare è essere ovunque a casa propria”!), ma anche lo spazio pubblico, La Pietra trasformava gli oggetti urbani, che esprimevano violenza e separatezza, in sofisticati oggetti d’arredo domestico. L’oggetto travestito di Bruno Gambone: vaso “Il Grido” modificato dal vaso “Donna Africana”, realizzato dall’autore.

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STORIA di Adriano Gatti (Foto Federico Meneghetti)

In una società che cerca di

contrapporre alla globalizzazione dei mercati le diversità e le caratterizzazioni dei prodotti legati a particolari luoghi, tradizioni e culture, la Sardegna rappresenta l’esempio più emblematico. C’è chi ha scritto che “l’artigianato della Sardegna è sardo”. Non è una tautologia ma la constatazione di una realtà regionale tutta particolare. Di fatto, in tutte le nostre regioni, l’artigianato d’arte è caratterizzato da forme, colori, stilemi in parte

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Artigiani di Sardegna

Un recente volume promosso dall’ISOLA documenta la ricchezza della creatività artistica nella tradizione dell’artigianato sardo

regionali autoctoni e in parte recuperati da una serie di contaminazioni di aree vicine, ma anche da culture lontane attraverso i continui scambi commerciali e culturali, ma anche di conquista e sovrapposizione di culture diverse. Diversamente, come nelle lingue, nei rituali e nelle arti, la Sardegna è veramente un’isola, un territorio che ancora oggi fa riferimento solo alla sua memoria. Un’altra caratteristica propria di questa regione è che tutto

l’artigianato si configura come “arte del popolo”, nelle sue espressioni più semplici come nelle più elaborate. Un artigianato artistico che, negli ultimi decenni (dal 1957), attraverso la presenza dell’Istituto Sardo per l’Organizzazione del Lavoro Artigiano, con la collaborazione di artisti ed esperti sardi quali Eugenio Tavolara e Ubaldo Badas, ha favorito e potenziato lo sviluppo tecnico, artistico e commerciale salvaguardando qualitativamente


Nella pagina a fronte: “Arazzo” di Mògoro In questa pagina, dall’alto: cuffietta tradizionale; particolare di tappeto.

il livello dei prodotti. Testimone ne è il recente volume “Artigiani di Sardegna - Manos de Oro” di Manlio Brigaglia, promosso dall’ISOLA, in cui vengono presentate le diverse lavorazioni ancora presenti nella regione sarda, lavorazioni di materiali in stretto rapporto con le risorse del territorio. In particolare prendiamo in esame, in questo servizio, materiali come la lana, il legno, il sughero, il giunco e il cuoio. Così in Sardegna, terra di vasti

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Dall’alto: lavorazione del sughero; particolare del telaio tessile; particolare di scialle ricamato di Oliena.

pascoli e grandi greggi di pecore, la filatura, una delle più antiche attività, si collega proprio alla pastorizia, un’attività che da sempre caratterizza questa cultura. Ed è proprio la tessitura a farci riconoscere, più di ogni altro manufatto, l’identità sarda per segni, colori e tecniche utilizzate: - nel nord della Sardegna i tappeti realizzati da Ittiri, Villanova Monteleone, Ploaghe, Bonorva, le coperte di Pozzomaggiore; - in Gallura i tappeti prodotti da Aggius e Calangianus;

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Dall’alto: pipe in radica di Sassari; cestini in rafia di Castelsardo; cestino di giunco di San Vero Milis.

- nella sardegna centro-occidentale quelli prodotti nel Montiferru Santu Lussurgiu e S. Vero Milis; - nel Brigadu i tappeti e le coperte di Samugheo fino agli arazzi di Mògoro in Marmilla. Tappeti e arazzi realizzati con varie tecniche: “a fiamma” con sistemi raffinati come “in punta d’ago”, “a licci” di lana e cotone o le tessiture “a calice” e i tradizionali “a pibiones” (acini), piccoli e preziosi capi d’opera che escono dai telai portando colori, trame e simboli

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dell’immaginario domestico. Trame arcaiche che si tessono nei telai, ma che con la stessa disinvoltura le donne di Castelsardo intrecciano in una tessitura vegetale per la realizzazione di cestini. Così, mettendo a frutto tutto ciò che la terra forniva, l’artigiano sardo ha saputo intrecciare “la palma nana”, l’asfodelo, la paglia di grano, i giunchi. Così, dai tessuti ai contenitori in giunco, anche altri oggetti per la casa erano fatti a mano, come utensili e mobili in legno. Si aggiungono le inquietanti e terrificanti maschere di legno dette semplicisticamente carnevalesche: chiare, scure, nere, policrome, accuratamente intagliate, le maschere sono le immagini stesse degli spiriti arcani. Nella tradizione molti oggetti sono completati attraverso l’uso del cuoio: per le cinture, per sostenere i campanacci, per i vari contenitori

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In questa pagina, dall’alto: lavorazione della pelle; sellaio. Nella pagina a fronte, dall’alto: cassapanca di Cagliari e Isili.


Desideriamo ringraziare l’Editrice Italia Turistica di Padova per la gentile concessione delle immagini tratte dalla preziosa pubblicazione “Artigiani di Sardegna-Manos de Oro”, 2002 (testo M. Brigaglia, foto F. Meneghetti).

della caccia, per le selle dei cavalli e per tante finiture sempre artisticamente lavorate. Così in sintesi possiamo, attraverso queste opere, rilevare la straordinaria capacità, da parte dell’artigianato sardo, di lavorare i materiali come il legno, il giunco, il tessuto di lana e il cuoio sapendo modulare dei motivi figurativi e cromatici con estrema cura e con una intensa abilità nella semplificazione delle varie figurazioni.

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AUTORI di Osvaldo Valdi (Foto Pasquale Avoglio)

Il giudizio universale di Josif Droboniku

Una maestosa rappresentazione di un soggetto dell’iconografia cristiana secondo la più classica tradizione del mosaico monumentale bizantino

Josif Droboniku, nato in Albania,

realizzò il primo mosaico in Italia nella chiesa di Santa Sofia d’Epiro nel 1991. A questa opera ne seguirono tante altre: tutti soggetti religiosi realizzati seguendo la grande tradizione del mosaico monumentale di tradizione bizantina. Dall’Albania all’Italia, il suo itinerario è ricco di opere e, proprio qui in Italia, Josif Droboniku in collaborazione con la moglie e le figlie ha creato il laboratorio Arberart dove progetta e realizza icone e mosaici. Dal 1990 vive a Lungro (CS) in stretto rapporto con le comunità italo-albanesi da molti anni radicate sul nostro territorio. In questi ultimi anni ha eseguito grandi pitture murali e mosaici in molte chiese della Diocesi

di Lungro, dove vive da otto anni. Inoltre ha realizzato opere per molte iconostasi di chiese delle Diocesi di Fascineto, S. Benedetto Ullano, Marri di S. Benedetto Ullano, Plataci, Falconara Albanese, Sofferetti, il grande mosaico della cupola centrale della Cattedrale di Lungro, che presenta la maestosa figura del Cristo Pantocratore, e, sempre nella stessa cattedrale, il mosaico dell’abside della cappella del Battistero, oltre ai mosaici di S. Andrea, dei Quattro Evangelisti, del Credo, degli angeli e cinque mosaici all’interno del Vima, realizzando complessivamente circa 300 mq. di nuovi mosaici. Droboniku ci stupisce ancora e sempre più attraverso la recente

Sotto: Josif Droboniku al lavoro, alle sue spalle, in alto a sinistra, il bozzetto dell’opera.

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opera del tempio della cattedrale di San Nicola di Mira di Lungro: “Il giudizio Universale”. Un’opera monumentale in mosaico, di 90 mq, realizzata secondo quei modelli consolidati che gli “ortodossi” hanno sempre voluto mantenere intatti al di sopra dell’evoluzione della storia dell’arte; ed ecco quindi le figure distribuite in vari ordini, in base alla loro importanza e significato religioso: il vertice della composizione è Cristo in gloria nella mandorla fiammeggiante, cui tutti i piani convergono, affiancato dalla Vergine e da S. Giovanni Battista. Cristo, al centro del grande mosaico ci appare sotto la forma della Deisis che significa “intercessione fatta in giustizia”, quindi la Vergine e S. Giovanni Battista presentano al Signore, come in una corte di giustizia, le domande dei fedeli. Tutto il racconto evangelico viene quindi descritto e rappresentato: dagli apostoli agli strumenti della Passione, da Adamo ed Eva fino, in una successiva fascia, ai patriarchi e profeti, ai gerarchi, ai giusti, ai martiri. Un fiume di fuoco prende con sé i peccatori, altri personaggi, altri simboli in una continua ed incalzante successione di citazioni, dai vari vangeli fino al Paradiso. Una grande opera costruita seguendo le linee architettoniche e strutturali della chiesa, capace di suscitare stupore, meraviglia, timore e bisogno di preghiera.


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AZIENDE di Isabella Taddeo

Arte e Cuoio é il marchio

che produce nel Pesarese, area di grande tradizione artigianale, oggetti in cuoio. Il materiale usato è conciato al vegetale con estratti di corteccia di castagno e mimosa. La caratteristica di questi oggetti è da ritrovare nella speciale lavorazione al taglio vivo, nell’estrema cura praticata nella selezione dei migliori pellami, nella ricerca progettuale innovativa. Animata da Enrico Tonucci, che ha progettato molta parte della produzione, e arricchita recentemente da oggetti d’arredo disegnati anche da Enzo Mari, oggi Arte e Cuoio presenta una nuova collezione firmata da Ugo La Pietra. Profondo conoscitore delle produzioni artigianali artistiche, l’architetto-designer-artista ha saputo affrontare questa progettazione utilizzando la sua sottile ironia, mettendo in evidenza forme rigorose, emozionali nel colore, razionali nell’uso. Sono contenitori (cesto grande, cesto piccolo) e vassoi che nascono dall’incontro di due elementi in cuoio diversi in altezza, in larghezza e nel colore, dalla cui unione deriva la forma. Le due parti in cuoio vengono unite con filo di Danimarca passante, per costruire contenitori che in modo coerente formano la Collezione “Diversi”.

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Arte e Cuoio

Forme rigorose e razionali nell’uso nella nuova collezione di oggetti in cuoio progettati da Ugo La Pietra realizzati con tecniche e lavorazioni artigianali


Nelle pagina a fronte: Disegni preparatori per la collezione “Diversi” di Ugo La Pietra.

Una Collezione che é destinata ad arricchirsi di altre forme e soggetti, capaci di esaltare il materiale e la capacità dello stesso di strutturarsi attraverso la giustapposizione di diverse parti collegate tra di loro con incollaggio e cuciture. Oggetti che attraverso la scomposizione delle parti e dei colori ritrovano una nuova forma e nuove espressioni decorative.

In questa pagina: Cesto Grande, Cesto Piccolo e Vassoio in cuoio bicolore.

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MATERIALI

& TECNICHE

Le tecniche dei maestri IL MERLETTo DI GORIZIA di Paolo Coretti

origini e storia dell’arte del “fare merletti” in Friuli Venezia Giulia nelle città di Gorizia e Idria Tra le città di Gorizia e quella di Idria (attualmente in Slovenia) esiste una antica competizione riguardo il primato dell’arte del merletto. Entrambe, infatti, rivendicano la priorità circa l’origine locale di tale arte, anche se é piuttosto probabile, che il “fare merletti” sia stato importato nel Friuli orientale nel corso del XVI secolo e che abbia avuto modo di diffondersi omogeneamente nel territorio della Repubblica Veneta che -a quel tempo egemone- comprendeva le Venezie ma anche l’Istria e la Dalmazia. In questo contesto, a Gorizia, nel 1672, risulta essere di certo significativa la presenza, presso il monastero delle Orsoline, di madre Angela Aloisio, proveniente da Liegi -città dove fioriva l’arte del merletto a tombolo- e della madre superiora Caterina Lambertina de Paoli Stravius che, anch’essa originaria di Liegi, era giunta a Gorizia proveniente da Praga, città nella quale aveva trascorso un lungo periodo impegnandosi nella fondazione di un nuovo convento. E’ grazie alla cultura diffusa nella regione di provenienza delle due religiose e alle loro esperienze maturate nelle capitali europee che, nel momento in cui, nel monastero delle Orsoline, si organizzarono i primi insegnamenti dell’arte del merletto e venne costituita la cosiddetta “scuola di fuori” aperta a tutte le ragazze della città, a Gorizia si iniziò a realizzare pizzi che, per i loro influssi fiamminghi e boemi, si distinsero immediatamente da quelli italiani e veneti e, fin da su-bito, vennero privilegiati i merletti del tipo Fiandre (Aver-sa, Binche e Valenciennes) realizzati con tombolo e fuselli e vennero collocati in secondo ordine i merletti veneziani che, a quel tempo, venivano eseguiti principalmente ad ago. D’altra parte, la tradizione vuole che ad Idria, quasi nello stesso periodo, la moglie boema di un dipendente della fa-mosa miniera di mercurio, abbia portato in città l’arte del merletto a tombolo ed abbia diffuso tale arte tra le donne del luogo modificando -anche in questo caso- la cultura italiana o veneta del pizzo a vantaggio di quella cultura boema che, quasi contemporaneamente, si diffondeva nel goriziano grazie alle madri orsoline. In entrambi i casi, quindi, sia a Idria che a Gorizia, l’arte del merletto venne importata da regioni lontane e, innestandosi sulla tradi-zione preesistente nei luoghi ed innovando tale tradizione in maniera radicale, acquisì una certa originalità nel lin-guaggio espressivo e nelle tecniche e, pur nelle diversità che le due scuole seppero esprimere, ebbe modo di mostra-re nel tempo una significativa specialità. Nel corso del 1700 la realizzazione

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di merletti si sviluppò nella regione in ma-niera tale da costituire una delle realtà produttive più rap-presentative del luogo. Più raffinata quella di Gorizia, per-ché destinata ad una clientela facoltosa, a nobili ed eccle-siastici che utilizzarono il merletto nell’abito e nella casa, nei paramenti e negli arredi sacri. Con minori pretese qua-litative, invece, la produzione di Idria, realizzata con mate-riali più grezzi e rivolta verso il mercato rurale, quello dei contadini benestanti e del clero di campagna, ma anche al mercato delle regioni con termini come la Slovenia e la Croazia. La maggior capacità produttiva della zona di Idria, comunque, -dovuta alla presenza di un altissimo numero di merlettaie che abitualmente operavano a domicilio e che, alla bisogna,


MATERIALI Nella pagina a fronte, in testa: tombolo con fuselli e incrociafili. Sotto, dall’alto e da sinistra: “Diana cacciatrice”, anni ’20, merletto a fuselli in filo ecrù; lavoro montato su tombolo con fuselli; merletto concentrico della scuola di merletto, 4° anno; fuselli di diverse tipologie deformati dall’uso, XVIII-XIX sec, Monastero di Sant’Orsola di Gorizia; opera di allieve della scuola di merletto, 2° corso; particolari tradizionali, 5° corso della scuola di merletto; paramento liturgico, scuola di Fagagna.

& TECNICHE In questa pagina, dall’alto e da sinistra: due centri rotondi eseguiti con filo Muliné; cartoncini gialli provenienti da Vienna; cartoncino giallo e relativo cianotico del merletto; “Azzurra-Alba maxima” e “Fiori di perle”, inserti d’abbigliamento in merletto di seta con nastri di Alcantara e perle di fiume di varie pezzature; paramento liturgico eseguito dalla scuola di Fagagna; bracciale, merletto a fuselli in filo d’oro e filo di rame di medio spessore, Gorizia 1991/92.

si riunivano in gruppi commisurati all’impor-tanza delle commissioni- consentì al merletto d’Idria e, di conseguenza al merletto di Gorizia, di diffondersi rapida-mente in Europa e di ottenere prestigiosi riconoscimenti presso le case reali d’Italia, Austria e Spagna fino a che, nel 1873, nell’ambito dell’Esposizione Mondiale di Vienna, fu-rono esposti con successo i merletti del goriziano e, successivamente, grazie al successo ottenuto in tale esposizione, nel 1876, con il patrocinio e con gli auspici del Ministero del Commercio di Vienna, fu aperto il primo corso di merletto a Idria. Nel frattempo, nel Friuli post-unitario, in un ambiente culturale ancora sospeso tra il dubbio per aver a-derito frettolosamente ad una Italia per molti versi ancora sconosciuta e la paura di aver perduto i privilegi e certe modernità che appartenevano al mondo mitteleuropeo, in un ambiente economico che, pur prospettando molte op-portunità di innovamento e nuovi agi, stagnava ancora tra un sistema preindustriale rozzo ed arretrato ed una vita nei campi attraversata da mille carestie e colpita endemicamen-te dalla pellagra, una signora americana di New Orleans, Cora Slocomb (1860-1940), andata in sposa al conte Detal-mo Savorgnan di Brazzà e trasferitasi in Friuli, sulle dolci colline di Brazzacco, ebbe la voglia ed il coraggio di fon-dare le Scuole cooperative di Brazzà per merletti a fusello. La finalità sociale che mosse e stimolò Cora Slocomb (“Le classi che stentano, bisogna che siano circondate da amore da quelle che godono”, “Le scuole di merletti a fuselli di Brazzà sono istituite allo scopo di dare un mezzo di sussistenza alle donne senza distoglierle dai lavori di cam-pagna e dalle faccende domestiche”) determinò l’inizio di un’attività artigianale che nel Friuli di mezzo non era mai esistita; formò centinaia di merlettaie che, se viste assieme a quelle di Gorizia e di Idria, costituivano un enorme com-parto produttivo collocato nel territorio senza quasi solu-zione di continuità; diffuse l’arte del merletto a fuselli nel mondo (significativa e di grande successo a questo propo-sito fu la mostra del merletto friulano tenutasi a Chicago nel 1893) e pose le fondamenta della scuola del merletto di Fagagna che, aperta nel 1892, proseguì senza interruzioni fino al 1970, superando indenne le tribolazioni delle guerre e delle diverse occupazioni straniere e continuando anche la “missione” che si era prefissata la scuola di Brazzà anche quando quest’ultima, nel 1921, chiuse i battenti. Tornando a Idria, invece, il grande successo del merletto sui mercati internazionali e le sempre più numerose esportazioni in Europa ma anche in Nord America ed in Australia, resero indispensabile l’organizzazione di nuovi corsi di merletto anche nel Friuli orientale: a Cormons, Gradisca e Ruda e, perdurando l’interesse nei confronti di questa speciale arte, dopo la Ia guerra mondiale, le ormai Regie Scuole di Mer-letto aprirono i corsi anche a Chiapovano, Isola d’Istria e Plezzo. Nel 1945, invece, l’esito nefasto della guerra e il ridisegno dei confini tra Italia e l’allora nuova Repubblica Federativa

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MATERIALI di Jugoslavia, tolse al Friuli la città di Idria e, di conseguenza, la zona nella quale erano sorte le numerose scuole del merletto a tombolo. Tutto ciò, al fine di conservare la tradizione del fare merletti, che nel Friuli orientale si era ormai consolidata nei secoli, determinò la necessità di aprire a Gorizia un corso di merletti che, nel 1946, fu compreso nella Scuola Statale che, tutt’ora presente ed attiva sul territorio friulano rimase alle dipendenze del Ministero Pubblica Istruzione fino al 1979, anno nel quale la gestione della Scuola Merletti di Gorizia divenne di competenza della Regione Friuli-Venezia Giulia. I materiali e gli strumenti Quelli fondamentali sono filo, tombolo, fuselli e spilli. In origine, il filo era esclusivamente di lino e, prima che la So-cietà Agraria Goriziana si industriasse a promuoverne coltivazioni nell’area friulana (a detta degli agronomi del tempo si poteva coltivare un lino “pari del più bello di Crema, avendo anzi le filla più lunghe di quello”) la fibra di provenienza romagnola e turca veniva rifornita dai commercianti del porto di Trieste e, solo in alcuni casi, e per le lavorazio-ni più grezze, proveniva dalle piantagioni di Carinzia. At-tualmente, accanto al filo di lino -ancora utilizzato soprattutto per le riedizioni dei merletti tradizionali e sempre prodotto con una torsione verso sinistra o del tipo a “S”- vengono usati fili di lana e di seta, quasi sempre di colore bianco e, in alcuni casi, fili colorati di cotone. Il tombolo è un cuscinetto trapuntato di forma cilindrica lungo circa 40 cm. e di 20 cm. di diametro, riempito di segatura finissima e ben battuta e rivestito generalmente con una stoffa di co-lore verde. Il tombolo, sul quale verrà realizzato il merletto in ogni sua parte, viene abitualmente appoggiato su un ce-stino di vimini che, oltre a costituire un agevole sostegno dell’oggetto cilindrico, ne consente la rotazione nel corso della lavorazione. I fuselli sono costituiti da elementi di legno di varia essenza, di lunghezza variabile tra 12 e 15 cm. costruiti artigianalmente secondo le modalità del lavoro da eseguire e le abitudini della merlettaia che deve utilizzarli, e portano in sommità una spoletta sulla quale viene avvolto il filo. Gli spilli, di ottone nichelato con testa arrotondata, servono per fissare sul tombolo il disegno che, realizzato generalmente su carta eliografica o in modo tale da non sporcare il filo con inchiostri o altre impurità, costituisce la guida geometrica per la costruzione del merletto. La lavorazione L’esecuzione di un merletto non può essere disgiunta dalla realizzazione di un disegno che, definito nei minimi dettagli, rappresenta per la merlettaia un vero e proprio progetto. Di conseguenza, il disegno selezionato per la riproduzione, viene analizzato in ogni sua parte, per poter individuare in esso le eventuali difficoltà esecutive, per potere scegliere i percorsi più agevoli per la riproduzione e, soprattutto, per poter stabilire il numero dei fuselli che, nel corso dell’esecuzione, dovranno essere utilizzati. Prima di iniziare l’esecuzione del merletto, comunque, è sempre indispensabile avvolgere il filo sui fuselli in senso antiorario, procedere alla saldatura che serve a regolare lo scivolamento del filo, accoppiare tra loro i fuselli e disporli da un lato del tombolo in relazione agli spilli. I movimenti che ne seguiranno e che consentiranno la costruzione del merletto saranno soltanto due: il giro incrocio (una torsione a giro) e l’incrocio giro incrocio (una torsione a giro incrociato). Nel caso dei merletti “concentrici”, la lavorazione procede prevalentemente in senso antiorario e, solo eccezionalmente, in senso orario. La motivazione di tale modalità esecutiva è data dal fatto che, lavorando in senso antiorario, risulta più

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& TECNICHE facile la realizzazione dei punti base e il procedere del lavoro risulta meno impedito dalla presenza degli spilli che, fissati sul tombolo, fungono da riferimento durante l’esecuzione. Per abitudine, il disegno viene letto e scomposto in anima centrale, primo contorno ed area esterna di chiu-sura e, data tale suddivisione, nel caso dei merletti concentrici, la costruzione si conclude riportando al centro il filo e andando a saldare con l’uncinetto tale filo all’anima centra-le del merletto. Resta inteso che i punti principali che, per consuetudine, vengono utilizzati sono: punto tela, punto catenella e mezzopunto ai quali, di volta in volta, si aggiungono i punti Fiandra, Bruxelles e Gorizia, (quest’ultimo nel dopoguerra) con un certo nazionalismo di ritorno, divenne alternativo al punto d’Idria. Le applicazioni La produzione del merletto si rivolge, oggi, al mondo della moda e dell’abbigliamento, con applicazioni decorative quali colletti, polsini, orli, bordure e anche abiti interi. Si applica anche alla cultura domestica nella realizzazione di centrini, centrotavola, sottopiatti e tendaggi di varie dimensioni e qualità e, senza dimenticare il mondo liturgico, viene utilizzato anche nel campo della creazione artistica, in pannelli decorativi, oggetti e anche gioielli. L’attività artigianale E’ possibile in casa. Con gli strumenti di sempre: tombolo, fuselli, filo (il più adatto) e spilli. Può essere svolta individuale o in gruppo nella ricerca, purtroppo sempre più difficile, di mercati e occasioni per proporre il prodotto finito. Le scuole La Scuola Merletti di Gorizia ha sede in via Roma 14 e, oltre che in sede, opera in una quarantina di sedi staccate nella Provincia di Gorizia, Trieste, Udine e Pordenone. L’attività della scuola prevede due programmi distinti di studio: il primo, articolato in tre anni, è rivolto agli adulti e, con le specifiche caratteristiche di un corso di divulgazione, prevede l’apprendimento della tecnica del fare merletto nelle varie specialità della tradizione locale; il secondo, molto più complesso, si sviluppa lungo sei anni e, articolato come un corso di studio per maestra merlettaia, è teso al conseguimento del competente diploma di insegnante. Nell’ambito delle attività culturali e scolastiche finalizzate alla diffusione della tecnica del fare merletto ed alla sua valorizzazione, è bene ricordare che, nel Comune di Fagagna, presso il Museo della Vita Contadina “Cjase Cocèl”, una sala espositiva é dedicata alla famosa Scuola Merletti di Fagagna. Si tratta della ricostruzione storica dell’ambiente nel quale operavano le merlettaie fagagnesi tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900. Nella sala, che comprende quindici posti a sedere con quindici tomboli a fuselli, sono esposti numerosi indumenti originali realizzati a merletto (scialli, abiti, colletti, ecc.) e sono conservate anche le campionature delle differenti lavorazioni tradizionali. Oggi, a rappresentare la Scuola Merletti di Fagagna è appunto questa ricostruzione storica che, periodicamente, in occasione di manifestazioni che si svolgono annualmente nel museo, si anima di nuova vita grazie a due maestre fagagnesi che prestano tempo ed esperienza per dare dimostrazione ai visitatori dell’operare delle merlettaie di sempre. Il futuro Difficile se condotto da solo nel solco della tradizione. Più facile e più ricco di cose positive se affiancato alla ricerca di nuovi disegni, di nuovi sistemi di produzione e se rivolto al mercato dell’arte e del design. L’augurio è quello di sempre: innovare la tradizione per trarre da essa nuove energie per migliorare la vita che, in maniera troppo frettolosa, occupa le fessure del nostro tempo.


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AREE REGIONALI OMOGENEE

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AREE REGIONALI OMOGENEE

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S E G N A L A Z I O N I

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SS EE GG NN AA LL AA ZZ II OO NN I I

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S E G N A L A Z I O N I

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SS EE GG NN AA LL AA ZZ II OO NN I I

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CALENDARIO  DELLE  MOSTRE

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CALENDARIO  DELLE  MOSTRE

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