MESTIERI D’ARTE & DESIGN Poste Italiane S.p.A-Sped. In Abb.Post.- D.L353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1,comma 1 DCB Milano - Aut.Trib. di Milano n.505 del 10/09/2001 - Supplemento di Arbiter N. 157/XIII
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Mestieri dArte Design TRADIZIONI
In un opificio di Amalfi, la famiglia Amatruda produce la carta a mano come sei secoli fa, verificandone la qualità foglio per foglio
DISTINZIONE
I tessuti di alta sartoria ispirano gli orologi Vacheron Constantin
AUTENTICITÀ
In Giappone il fascino di un oggetto sta nella sua imperfezione
CREATIVITÀ
La cultura portoghese plasmata dall’estro di Joana Vasconcelos
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Editoriale
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SIAMO GENTE DI CARTA I LIBRI NON MORIRANNO Ci hanno avvertito che prima o poi avremmo letto un romanzo solo su ebook, ma i temerari hanno continuato a investire tempo e denari nelle pagine da sfogliare Velina, da parati, adesiva, da cucina, termica, patinata, da lucido, da forno. Siamo gente di carta, scrive l’inglese Ian Sansom nel libro L’odore della carta. Una celebrazione, una storia, un’ elegia. La carta è intorno a noi, fa parte di noi: i libri, le lettere, i quotidiani, ma anche i certificati, i fazzoletti, i biglietti da visita, gli imballaggi, le bustine del tè... Eppure, negli ultimi anni, come un mantra, ci hanno ripetuto che gli ebook avrebbero soppiantato i volumi cartacei. Figuriamoci i giornali... Effettivamente tra il 2008 e il 2012 le vendite dei libri digitali sono aumentate del 1.260%. Tuttavia, i temerari come me, testardamente insofferenti alle mode e all’ottusa coercizione del gregge, non hanno mai smesso di investire tempo, passioni e denari nella carta. Folle? Forse. Ma sembra che il tempo cominci a darmi ragione: ho letto che Amazon starebbe per aprire tra i 300 e i 400 bookstore negli Stati Uniti. Sì, librerie piene di scaffali, con tonnellate di libri fatti di pagine, di carta. A gennaio il New York Times aveva pubblicato i dati di un’inchiesta secondo cui la vendita degli ebook sarebbe calata del 10%, a vantaggio del mercato cartaceo.
permette di raggiungere il fine ultimo: donare qualità ed emozione al lettore. Ma ancora più importante è la carta che andrà a comporre il giornale: chi conosce i miei prodotti editoriali sa che la grammatura e la sua qualità sono per me una priorità assoluta. Basta sfogliare i magazine in edicola per rendersi conto che tanto scontato non è. Ci sono riviste che costano anche 5 euro e si presentano con pagine ruvide, dove il colore si impasta, rende più difficile la lettura dei testi e vanifica nelle immagini il lavoro dei fotografi. Non parliamo poi dei giornali di gossip, che sembrano stampati sulla carta igienica. È con piacere, dunque, che dedico la copertina di questo numero a una storica cartiera italiana, quella della famiglia Amatruda, di Amalfi. Come me non si è arresa al progresso, ha continuato a credere in valori ritenuti imprescindibili. E quando negli anni più difficili della prima metà del ’900, con l’avvento dell’industrializzazione sistematica, le cose sembravano volgere al capolinea, non si sono arresi. E sono riusciti a sopravvivere, pensate un po’, grazie alla cassata siciliana! Riuscirono, infatti, a mantenere in vita l’attività di famiglia per merito della briglia, carta di colore bianco in uso presso le pasticcerie meridionali e negli studi legali. Oggi continuano a produrre come una volta, dedicando molta attenzione al controllo qualità, eliminando le impurità a mano, foglio per foglio.
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Non mi stupisce. Al di là dei numeri, che non hanno mai influenzato le mie convinzioni, mi sono sempre chiesto come potremmo rinunciare all’odore della carta, al piacere di sfogliare un libro o una rivista ben fatta. Forse altre persone, come me, si sono accorte che non può confluire ogni cosa nel tritatutto virtuale... Anche se sono il due di picche dell’editoria, continuo a fare giornali come 45 anni fa (del resto, anche il due di picche è carta... da gioco). Un servizio nasce prima nella zucca, ovviamente, ma poi si materializza innanzitutto su un foglio bianco, schizzando le pagine che lo comporranno: i rapporti spaziali, i pesi delle fotografie e delle parole dialogheranno rispettando i principi dell’assonometria cavaliera, che ho imparato a scuola, con le squadre di legno e la matita in mano, davanti anche allora come oggi... a un foglio di carta. Solo in un secondo tempo, il servizio andrà in pasto al computer. È l’etica che determina l’estetica e ci
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Passando dalle trame dei libri a quelle dei tessuti, la collezione Métiers d’Art Élégance Sartoriale di Vacheron Constantin ci offre su questo numero un illustre esempio di mestiere d’arte nel mestiere d’arte: il quadrante di questi meravigliosi orologi è stato decorato dai maestri artigiani della Maison ginevrina ispirandosi alle più preziose drapperie di alta sartoria. Gessati, tartan, windowpane, tweed e principe di Galles. Mentre il sotto-quadrante in madreperla è stato decorato con motivi che ricordano i bottoni delle camicie, o le pochette che spuntano dalla giacca. La celebrazione dell’eleganza, della passione maschile per l’eccellenza sartoriale, qui anche al polso.
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Nuove strade per la scoperta dei nostri mondi
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TRADIZIONI
In un opificio di Amalfi, la famiglia Amatruda produce la carta a mano come sei secoli fa, verificandone la qualità foglio per foglio
DISTINZIONE
I tessuti di alta sartoria ispirano gli orologi Vacheron Constantin
AUTENTICITÀ
In Giappone il fascino di un oggetto sta nella sua imperfezione
CREATIVITÀ
La cultura portoghese plasmata dall’estro di Joana Vasconcelos
In copertina, il controllo di qualità delle carte Amatruda,eseguito foglio per foglio (foto di Francesco Squeglia).
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Editoriale SIAMO GENTE DI CARTA I LIBRI NON MORIRANNO di Franz Botré
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Botteghe Libri Premi Iniziative Fiere Mostre ALBUM di Stefania Montani
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Valori da difendere IL COSMO NELLO SCRIGNO di In Jae Jeong
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I protagonisti del design DOLCE PIETRA di Raffaella Fossati
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Talenti da scoprire L’UNICO DEL GLOBO di Akemi Okumura Roy Gesti sapienti DIMENSIONE PARALLELA di Giovanna Marchello
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Tesori viventi TATAZUMAI, IL POTERE DI UN OGGETTO di Anthony Girardi
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Imprese C’ERA UNA VOLTA LA CARTA di Alberto Gerosa
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Dialoghi generativi MI È VENUTA UN’IDEA di Alberto Cavalli
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Artefici contemporanei SEMPLICE È PER SEMPRE di Giovanna Marchello Tradizioni territoriali RINASCIMENTO MADE IN NAPLES di Rosa Alba Impronta Decoratori di attimi PRECISIONE SARTORIALE di Alberto Cavalli Musei d’avanguardia L’ALTRO MOMA di Simona Cesana Eventi speciali LA TECNOLOGIA NELLE MANI DEGLI ARTIGIANI di Alessandra de Nitto Maestri d’arte L’ANIMA COME UNA PIUMA di Julie El Ghouzzi Lavorazioni di stile LA MATERIA CHE TRASFORMA di Raffaele Ciardulli Formazione IL DONO DI UN GESTO di Susanna Pozzoli Cattedrali del design COME UNA FAVOLA di Maria Cristina Didero
Opinioni 16 19
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Fatto ad arte di Ugo La Pietra CRAFT ALL’ITALIANA UN SOLCO DA COLMARE Pensiero storico di Daniele Fano LA RIVOLUZIONE DELL’EDUCAZIONE PASSA DALLE PIATTAFORME
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Ri-sguardo di Franco Cologni LA CRESCITA DEL PAESE È GIÀ NELLE NOSTRE MANI ORA USIAMO LA TESTA!
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Collaboratori
A RTI G I A NI D E L L A PA R O L A GIOVANNA MARCHELLO
ROSA ALBA IMPRONTA
Cresciuta in un ambiente internazionale tra il Giappone, la Finlandia e l’Italia, appassionata di letteratura inglese, vive e lavora a Milano, dove si occupa da 20 anni di moda ed è specializzata in licensing.
Nata a Napoli, laurea in Giurisprudenza, è nel cda della MAG JLT, società di brokeraggio assicurativo. Dal 2001 col marito Davide de Blasio ha seguito varie collaborazioni con artisti vicini all’azienda Tramontano, da qui l’idea della Fondazione TramontanoArte che ha curato progetti legati all’arte visiva e alla musica.
ANTHONY GIRARDI
JULIE EL GHOUZZI
Fotografo e giornalista specializzato in ceramica contemporanea e mestieri d’arte, scrive per i giornali francesi Ateliers d’Art e La Revue de la Céramique et du Verre. Collabora inoltre con la galleria Mercier et Associés di Parigi, specializzata in architettura, design e arti applicate dagli anni 50 ai 70.
Avendo ottenuto un master in filosofia alla Sorbona e all’Università di Bologna, e un master in storia dell’arte, nel 2007 assume la direzione del Centre du luxe et de la création di Parigi, think tank e do tank tra i più importanti, dedicato ai protagonisti del lusso e dei mestieri d’arte.
MARIA CRISTINA DIDERO
ALBERTO GEROSA
Curatore indipendente e giornalista freelance, ha lavorato per oltre dieci anni con Vitra Design Museum e ha ricoperto il ruolo di Direttore della Fondazione Bisazza dal 2011 al 2014. In qualità di design curator collabora con diverse istituzioni in Italia e all’estero.
Laureatosi in estetica a Ca’ Foscari, è docente a contratto di letteratura russa all’università di Vienna. Giornalista professionista, è stato direttore del periodico d’arte Goya e collabora con riviste specializzate in strumenti di scrittura e orologi, tra cui anche Penna.
STEFANIA MONTANI
RAFFAELE CIARDULLI
Giornalista, ha pubblicato due guide alle Botteghe artigiane di Milano e una guida alle Botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.
Di solida cultura classica, per 18 anni è nel Gruppo Richemont, per 11 come direttore marketing di Cartier in Italia, poi presso Chantecler, Stefan Hafner, Roberto Demeglio. Oggi mette a frutto la sua esperienza in marketing e comunicazione come consulente e formatore nell’ambito di progetti didattici di alto profilo.
AKEMI OKUMURA ROY
SUSANNA POZZOLI
Dopo essersi occupata della comunicazione per grandi brand del lusso, lascia Tokyo e il natio Giappone per seguire a Londra il marito, fotografo inglese. Lavora ora come corrispondente per numerosi media nipponici.
Fotografa con esperienze internazionali di residenze, lunghi soggiorni e mostre prestigiose, si dedica allo studio e alla rievocazione di storie e luoghi raccontati con uno stile personale. I suoi progetti alludono con grazia a preziose realtà nascoste. La fotografia è il suo strumento per una ricerca artistica approfondita.
MESTIERI D’ARTE & DESIGN Semestrale – Anno VII – Numero 13 Aprile 2016 Direttore responsabile ed Editore: Franz Botré Editor at large: Franco Cologni Direttore creativo: Ugo La Pietra
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Vicecaporedattore: Andrea Bertuzzi Grafica: Francesca Tedoldi
Stefania Montani, Akemi Okumura Roy, Susanna Pozzoli
Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Direttore generale: Alberto Cavalli Editorial director: Alessandra de Nitto Organizzazione generale: Susanna Ardigò
Immagini: Katherine Dutiel, Anthony Girardi, Henrik Kam, Joe Kramm, Giuseppe Millaci, Maria Teresa Musca, Choongho Park, Aurelia Raffo, Colin Roy, Francesco Squeglia
Hanno collaborato a questo numero Testi: Simona Cesana, Raffaele Ciardulli, D&L Servizi editoriali (revisione testi), Maria Cristina Didero, Julie El Ghouzzi, Daniele Fano, Raffaella Fossati, Alberto Gerosa, Anthony Girardi, Rosa Alba Impronta, In Jae Jeong, Gianmarco Luggeri, Giovanna Marchello,
Mestieri d’Arte & Design è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Via Lovanio, 5 – 20121 Milano © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte.
Tutti i diritti riservati. Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.
Pubblicazione semestrale di Swan Group srl Direzione e redazione: via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano Telefono: 02.31808911 info@arbiter.it
PUBBLICITÀ A.MANZONI & C.
Via Nervesa 21, 20139 Milano tel. 02.574941 www.manzoniadvertising.com
www.arbiter.it www.fondazionecologni.it www.mestieridarte.it
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Fatto ad ar te
CRAFT ALL’ITALIANA UN SOLCO DA COLMARE Mentre in tutta Europa cresceva un ambito disciplinare che creava opere uniche o quasi, nel nostro Paese abbiamo coltivato per decenni il disegno industriale, più convenzionale seppur stimato in tutto il mondo. Oggi c’è ancora un grande divario
Per molti decenni, mentre in Italia coltivavamo la disciplina «disegno industriale», studiata e apprezzata in tutto il mondo, in Europa (ma anche negli Stati Uniti e in Giappone) cresceva un ambito disciplinare a noi quasi totalmente estraneo: il «craft», un’area culturale che conosceva bene il valore del progetto unito a quello del fare. Questa formula, basata anche e soprattutto sul fare artigianale, produceva opere uniche o quasi e quindi lontane dalle convenzioni che hanno accompagnato per decenni il nostro design industriale. Così da una parte (in Italia) si affermavano i «campioni» di questa nostra disciplina, metà architetti e metà designer (come Zanuso, Magistretti, Albini, Mangiarotti…), inizialmente unici e assoluti detentori di questa pratica progettuale, dall’altra il craft si arricchiva di scuole, istituzioni, musei, gallerie, collezionisti e autori con quotazioni sempre più crescenti. Due aree che si sono sviluppate per tanti anni in modo parallelo e autonomo. Poi, lentamente, anche da noi nacquero le prime scuole di disegno industriale che presto persero la parola industriale, e ci furono i primi avvicinamenti del progetto verso l’area artigianale: così iniziò il lento accostamento al craft europeo.
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Si incominciò a parlare della possibilità dell’esistenza del pezzo unico, della piccola serie e sembrò che anche noi, nel momento in cui la produzione del mobile in serie entrò in crisi, potessimo appartenere a quella grande area disciplinare, artistica e produttiva che in
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molti altri Paesi europei era radicata da tempo. Si parla sempre di più di artigianato colto, di autoproduzione, di cultura del fare, ma di fatto ci rendiamo conto di essere ancora molto lontani dalla realtà del craft europeo; sfogliando le riviste internazionali che si occupano di arte applicata non si nota la presenza di autori italiani, nelle fiere specializzate (dove un oggetto di ceramica di alta fattualità costa dai 20 ai 30mila euro) non troviamo opere dei nostri ceramisti (che sognano da tempo di vendere una propria opera almeno a 4mila euro). Di fatto, osservando bene la nostra produzione rispetto a quella che caratterizza il craft europeo, troviamo una profonda differenza: la maestria fattuale, esercitata da tanti anni, connota gli artisti internazionali come più bravi e competitivi, mentre anche i nostri più bravi creativi sono eredi di decenni impostati sulla cultura del design e quindi meno bravi dal punto vista fattuale e decisamente più concettuali. C’è un profondo solco che ancora deve essere colmato tra noi e loro, anche perché da noi è difficile parlare di sistema mancando i laboratori didattici, le istituzioni, i musei, le gallerie specializzate e quindi una diffusa pratica che coinvolge un grande strato sociale che pratica il collezionismo, visto che si parla sempre di più di opere uniche o quasi. A quando un seminario per parlare di queste cose e fare il punto sull’evoluzione del nostro design? L’ultimo convegno, durato quattro giorni, dal titolo Fatto ad arte, lo realizzai alla Triennale di Milano nel 1996.
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Pensiero storico
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LA RIVOLUZIONE DELL’EDUCAZIONE PASSA DALLE PIATTAFORME Un portale per le scuole virtuose che vogliono investire nelle proprie abilità. Un progetto ambizioso sostenuto dalla Fondazione Cologni che approfondiamo dialogando con il Premio Nobel per l’Economia Michael Spence DANIELE FANO: Sto lavorando attualmente a un progetto sostenuto dalla Fondazione Cologni, un «kit d’informazioni» che ogni scuola o istituto di formazione dovrebbe utilizzare per i propri corsi. Il kit sarà basato su tre pilastri più uno: selezione/orientamento, qualità dell’infrastruttura e degli insegnanti, risultati dopo la fine degli studi, oltre all’abilità nell’interazione con i soggetti coinvolti e i cambiamenti nel mercato del lavoro. Questo kit sarà una base che ciascun istituto sarà in grado di utilizzare per segnalare le proprie qualità. Le scuole che raggiungeranno determinati standard potranno entrare in un portale dedicato a coloro che vogliono investire nelle proprie abilità e ai datori di lavoro che potrebbero voler ricercare istituti capaci di formare candidati idonei. MICHAEL SPENCE: Vedo diverse sfide nel progetto. La prima: gli standard degli istituti formativi devono essere costanti nel tempo. Credo che da questo punto di vista qualche correlazione con un coinvolgimento a livello pubblico sarebbe positiva. Una volta assicurato un grado minimo di continuità, il fattore più potente sarà rappresentato dal sostegno dei datori di lavoro. DF: Tracciare la continuità sarà in effetti una delle pietre fondanti del progetto. L’idea è di costruire dei gruppi per classi di studenti e seguirli nel tempo. Un’altra questione delicata è
che nessuno, nemmeno le scuole migliori, sono contente di essere sottoposte a una valutazione. MS: Vero. La rivoluzione della valutazione nell’educazione superiore è cominciata negli Stati Uniti nei tardi anni 80: è stata condotta dai media perché aumentava le vendite di riviste e giornali, ed era d’interesse generale. Gli istituti hanno finito per essere più o meno costretti a divulgare le proprie informazioni, incluse quelle provenienti dagli studenti stessi. Se un istituto non divulgava i propri dati, veniva escluso dalle liste. Adesso l’informazione si sta spostando on-line. Le piattaforme sono delle soluzioni molto potenti. I cinque più recenti investimenti di successo di private equity orientati alla crescita sono stati realizzati in piattaforme. Perché? Le piattaforme sono importanti per due ragioni. La prima è il pubblico: a causa della struttura del network, «fanno il mercato» dell’informazione. Secondo, e più importante, è che le parti sono coinvolte in giochi ripetuti (il «gioco ripetuto» studia la reiterazione delle scelte strategiche nel tempo, ndr) dove accumulano una quantità di informazioni l’una sull’altra, in situazioni dove (si prenda il caso di Airbnb) l’assenza di informazioni può riguardare tutte e due le parti. Per questo le piattaforme cercano di risolvere enormi problemi informativi tramite l’effetto reputazione, o come lo chiamano alcuni «effetto fiducia». Si può anche chiamare segnalazione, ma in realtà si tratta di
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* Daniele Fano, economista e manager, ha studiato a Siena e a Harvard, lavora attualmente nel campo dell’occupazione e del capitale umano. Michael Spence ha ricevuto il Premio Nobel per l’economia nel 2001 per i suoi contributi sull’istruzione e sul lavoro. Tra i suoi interessi più recenti i temi della crescita, dell’informazione e delle nuove tecnologie.
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risolvere il problema in una maniera differente. DF: Combinando tra loro una varietà di segnali? MS: Sì. Nel mercato del lavoro, come ho studiato molti anni fa, i gap e le asimmetrie permangono e sono reali. Comunque, il punto è che in molti casi in un contesto di giochi ripetuti la struttura degli incentivi può cambiare fino quasi a risolvere il problema dei segnali. Una volta che i giochi ripetuti hanno confermato la validità di un segnale, tutti coloro che arriveranno dopo ne trarranno beneficio. Alcune piattaforme come LinkedIn permettono alle persone con determinate abilità di vedersele riconosciute, cioè possono segnalare che hanno acquisito determinate abilità e ciò costituisce un importante incentivo ad acquisirle. DF: E riguardo a problemi più generali nel mercato del lavoro come la disoccupazione e la sottoccupazione? MS: Io credo che la globalizzazione abbia sostanzialmente fatto il suo corso in termini d’impatto sulle economie sviluppate; riguardo la tecnologia, invece, la storia è completamente diversa e possiamo dire che è più vicina a cominciare a dispiegare i propri effetti di quanto lo sia a esaurirli. Come possiamo dirlo? Un primo elemento è la stampa in 3D, che è produzione localizzata, relativamente efficiente, e legata alla domanda invece che alla domanda prevista: non esistono scorte invendute nei magazzini. Un secondo elemento è la robotica. Nel mio corso mostro agli studenti quello che i robot possono fare ora e non potevano fare cinque anni fa, come assemblare un rasoio. Il terzo elemento è una serie di salti di qualità nell’intelligenza artificiale. Gli scienziati hanno capito che le macchine possono imparare a fare qualcosa tramite il riconoscimento di modelli, usando l’accesso a database giganteschi dove, per esempio, possono analizzare milioni di sedie e
imparare come riconoscerle. Questo ha prodotto dei sorprendenti incrementi riguardo quello che le macchine possono fare oggi: cose come la traduzione delle lingue. Un settore relativamente vicino è quello dell’analisi dei big data, che fa uso di grandi database e potenza di calcolo per identificare schemi e regolarità che sarebbero altrimenti difficili o impossibili da individuare. DF: Per cui, quale potrebbe essere una chiave per il nostro progetto? MS: La chiave, per il progetto che stai cercando di costruire, è quella di avere una componente in grado di anticipare le tendenze nella domanda delle abilità richieste. Occorre incoraggiare l’acquisizione di abilità complementari ai trend in evoluzione. Se si sa già che qualche specifica innovazione sta per essere implementata, allora è possibile preparare in anticipo le abilità necessarie. Un piano per la creazione di capitale umano supportato da un’adeguata infrastruttura attrarrà alla fine sia il settore dei beni commerciabili sia quello dei beni non commerciabili: entrambi avranno bisogno di competenze altamente qualificate. La definizione di un insieme appropriato di competenze sta cominciando a essere percepita come la sfida più grande in America, forse perché altre sfide sono state, almeno parzialmente, già affrontate. In Europa, guadagnare un vantaggio su questo terreno potrebbe rappresentare un progresso. Più ci penso e più sono convinto che la prossima versione della microeconomia sarà radicalmente differente e vedrà i mercati come dei network. Sono sicuro che avremo tutti bisogno di un apparato concettuale completamente differente che vedrà nei flussi di informazione l’elemento centrale e nelle connessioni l’elemento che consentirà di strutturare i flussi stessi.
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Un piano per la creazione di capitale umano supportato da un’adeguata infrastruttura attrarrà il settore dei beni commerciabili e non
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dal 1882 la tradizione dell’Alta Gioielleria Italiana
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di Stefania Montani
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ALBUM COSTANZA ALGRANTI via Guglielmo Pepe 20-28, Milano Un laboratorio showroom all’Isola, uno dei cuori pulsanti dell’artigianato e del design milanese. È qui che da circa 20 anni Costanza Algranti ha allestito il suo quartier generale con un progetto davvero innovativo: dare una seconda vita a materiali di recupero quali grondaie, converse in rame, corrimano in legno di vecchi ponteggi, lastre di ferro trovate nelle fabbriche in disuso. Costanza disegna, progetta, dà vita alle sue idee: ogni creazione è un pezzo unico, perché unico è il materiale con cui viene costruita ogni cosa. La sua grande capacità sta nel vedere in questi materiali abbandonati il potenziale della loro essenza, l’anima. E dar loro nuova vita trasformandoli in tavoli, lampade, mobili da cucina, sedie, cornici. Straordinari i suoi interventi sul rame: dopo aver aperto a mano grondaie e converse, le appiattisce col martello, poi, munita di spazzole, porta in superficie i disegni e le colorazioni lasciate dal tempo e dagli agenti atmosferici, fissando il tutto con flatting e cera d’api. A questo punto le lastre sono pronte per rivestire le superfici di tavoli e armadi, sulle quali vengono fissate con una serie di chiodi che formano quasi il disegno di un’impuntura. Costanza Algranti ha ricevuto il premio Green Culture Awards 2012 dedicato alle energie rinnovabili. Con lei lavora il nipote Pietro al quale ha saputo trasmettere la sua passione per il mestiere. costanzaalgranti.it
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ALBUM artigiani FALEGNAMERIA BENJAMIN CINA & FILS route du Clovelli 14 Crans-Montana (Svizzera) Nel centro della cittadina svizzera di Montana, in un grande chalet che si articola su più livelli, c’è una falegnameria di tradizione aperta negli anni 50 da Benjamin Cina. L’eredità del suo saper fare è stata raccolta dai tre figli, Stéphan, François e Lionel che, diventati a loro volta ebanisti, hanno saputo mantener viva e sviluppare l’attività paterna. Nell’ampio locale vicino all’ingresso, una grande varietà di legni stagionati, prevalentemente abete, cirmolo, noce, è appoggiata alle pareti. Al centro sono posizionati i macchinari per tagliare, segare, piallare e rifinire il legno meccanicamente, nelle prime fasi di lavorazione. Nel laboratorio confinante, invece, ci sono lunghi tavoli da lavoro: qui, con gli attrezzi del mestiere quali sgorbie, lime, martelli, vengono effettuati i lavori di rifinitura a mano, con grande abilità. Tutto può essere ordinato su misura: dalle librerie a parete alle cucine corredate di ripiani e pensili, dai piccoli tavolini per l’hi-fi ai pannelli copricalorifero, dalle ringhiere per scale e terrazzi fino alle boiserie per rivestire intere stanze. I fratelli Cina sono anche abili nell’eseguire restauri su mobili danneggiati dal tempo, comprese sedie e poltrone. cinabsa.ch
DESRUES BIJOUX ZA du pré de la Dame Jeanne Plailly (Francia) Un nome di tradizione, molto rinomato in Francia: è quello della maison Desrues, fondata nel 1929 nel cuore di Parigi da Georges Desrues, che aveva rilevato l’attività dall’artigiano Chandelier. La sua specialità era confezionare bottoni e bijoux per gli abiti di sartoria in città, e ben presto le sartorie più esclusive e i nomi della moda divennero suoi clienti, prima fra tutti Madeleine Vionnet e poi Christian Dior, Jeanne Lanvin, Yves Saint Laurent e Coco Chanel, che gli affidò l’intera produzione dei suoi accessori e finì col rilevarne l’attività nel 1984. Negli ultimi anni la produzione
èd divenuta sempre più ampia tanto ch che i proprietari hanno deciso di sposta l’atelier in locali più spaziosi, a stare no di Parigi. Oggi, nel modernisnord sim edificio a Plailly nell’Oise, sono simo cir 200 gli artigiani specializzati che circa sco scolpiscono, cesellano, smaltano, doran anche con l’aiuto di sofisticati rano, ma macchinari, gli accessori con le rifinit niture più raffinate per marchi quali Ch Chanel, Louis Vuitton. Sempre con str straordinaria creatività: otto volte all all’anno vengono presentati un centina di modelli nuovi che vanno danaio gli orecchini ai gemelli, dalle collane co perle alle fibbie delle cinture, dai con bo bottoni gioiello alle catene. I materia Dalle pietre dure agli smalti, riali? da metalli dorati alle gourmettes, dai ag strass. agli desrues-paris.com
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CRIZU corso Magenta 31, Genova per Da sempre una grande passione i i libri, per la texture delle pagine, per i caratteri. E una rara abilità nel restauro della carta. Poi in una galleria di New York l’incontro con un libro cinese ritagliato al suo interno e trasformato in scultura... Da qui scocca la scintilla e inizia l’avventura di Cristina Corradi Bonino, che decide di dedicarsi alla metamorfosi dei libri, quelli destinati al macero, facendoli rivivere in una nuova veste, mantenendone però l’integrità. Nessun taglio, solo tante pieghe che trasformano ogni volume in scultura, in lampada, in complementi d’arredo. Delle vere opere d’arte, ovviamente pezzi unici perché unici sono i libri che vengono utilizzati. Di questo bellissimo progetto ha raccolto il testimone la figlia di Cristina, Anna Bonino, abilissima nella tecnica appresa dalla madre e pervasa dalla stessa passione. Nel laboratorio di Genova avvengono le fasi di piegatura e «messa in piega», mentre a due abili artigiani è affidato il compito di realizzare le basi in legno delle singole creazioni e le teche in plexiglas. Recentemente ai libri scultura è stata affiancata anche una linea di gioielli, in edizione limitata, quali orecchini e collane. Composti da pagine alle quali vengono alternati vari materiali: perle, pietre dure, cristalli. Queste creazioni sono interamente realizzate a mano in atelier e possono essere ordinate on-line. crizu.it
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COSTRUTTORI DI VALORE. IL RUOLO STRATEGICO DEL SAPER FARE ITALIANO a cura di Maurizio Dallocchio con Alessandra Ricci e Matteo Vizzaccaro (Marsilio). Questa ricerca, voluta da Fondazione Cologni e sostenuta da Vacheron Constantin, sottolinea il legame tra i mestieri d’arte, la creazione di valore e la crescita economica. Uno studio approfondito sulla valorizzazione, la formazione, la creazione di piattaforme di sostegno che possano supportare il modello di business dell’artigianato d’eccellenza.
PHILIP TREACY 69 Elizabeth Street, Belgravia (Londra) «Ogni cappello che ho realizzato ha sempre iniziato a prendere vita nella mia mente come una fotografia. Io posso immaginarlo già sulla testa della modella, in tutte le angolazioni, prima ancora di prendere in mano il materiale e iniziare il lavoro». Così spiega la passione per il suo mestiere Philip Treacy, uno dei più innovativi e geniali creatori di cappelli degli ultimi 20 anni: irlandese di nascita ma londinese d’adozione, ha creato modelli per Alexander McQueen, Givenchy, Karl Lagerfeld, Chanel, Valentino, Ralph Lauren e Donna Karan. I suoi cappelli sono stati indossati da personalità del mondo dello spettacolo e dell’aristocrazia, compresa la famiglia reale inglese in occasione delle nozze del principe William. Oltre all’incredibile abilità manuale che gli consente di modellare le fibre più varie, Treacy non pone limiti all’utilizzo dei materiali, purché il risultato sia armonioso. Così nel suo atelier di Belgravia si possono trovare la seta, il plexiglas, il feltro, la pelle, i cristalli Swarovski, le perle. Grazie alla padronanza delle tecniche di un antico mestiere e alla genialità e modernità della sua ispirazione, Philip Treacy propone sempre nuove forme. Straordinariamente uniche. Per i suoi meriti è stato recentemente insignito del titolo di membro onorario dell’Ordine dell’Impero Britannico. philiptreacy.co.uk
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ABITARE CON ARTE di Ugo La Pietra (Corraini Edizioni) Il volume bilingue ripercorre ricerche e opere dell’autore dagli anni 60 a oggi nell’ambito delle arti applicate e del design. Dalla Sinestesia delle Arti al Sistema Disequilibrante, dal Neoeclettismo all’Abitare il tempo, mette in evidenza il contributo che Ugo La Pietra ha portato all’evoluzione del design, anche grazie ai continui scambi tra le varie discipline, contribuendo in modo significativo all’evoluzione delle arti applicate. THE GENTLEMAN OF STYLE di Michele Bönan (Assouline) Architetto e interior decorator, Michele Bönan paragona ogni sua impresa a una scenografia. Il volume, in lingua inglese, è corredato di bellissime immagini, e illustra i suoi interventi in alcune delle abitazioni più esclusive del mondo, compresi yacht, grandi alberghi, ristoranti. Dagli esordi con la casa del tennista Adriano Panatta ai raffinati alberghi quali il J.K. Place a Capri, il Marquis Faubourg Saint-Honoré a Parigi. GASTONE RINALDI DESIGNER ALLA RIMA a cura di Giuseppe e Jacopo Drago (Capitolium Art) Il libro, bilingue, contiene documenti originali dall’Archivio Gastone Rinaldi, designer padovano dalla notevole vivacità creativa, collaboratore e amico di grandi personaggi quali Ponti, Zanuso, De Lucchi, Mollino, Gardella, con lui protagonisti del design italiano. Oltre ai complementi d’arredo, ai mobili, ai letti, alle librerie, spiccano le numerosissime sedute da lui progettate. La sedia DU30 nel 1954 ottenne il Compasso d’ Oro. LOUIS VUITTON. THE SPIRIT OF TRAVEL/ L’ÂME DU VOYAGE Patrick Mauriès e Pierre Léonforte (Flammarion) Il libro presenta gli uomini, i luoghi, gli oggetti, la rivoluzione tecnica ed estetica che hanno fatto del mondo di Louis Vuitton l’anima del viaggio nella pura tradizione umanistica. Dai fasti del Secondo Impero all’Asia, dal baule bombato alle collezioni di Nicolas Ghesquière, dall’emblematico monogramma alle ultime creazioni. In edizione inglese o francese. MADE IN MILANO LE BOTTEGHE DEL CINQUECENTO Autori vari (Franco Maria Ricci) Uno straordinario volume, edito col supporto di Cariparma Crédit Agricole, che illustra la maestria delle botteghe artigianali all’epoca dei Visconti e degli Sforza, famose per l’eccellenza dei loro prodotti. Una Milano capitale del lusso che forniva le corti da un capo all’altro dell’Europa. Dalle sete preziose agli argenti sbalzati a mano, dai vetri alle pietre dure.
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CREMONA MONDOMUSICA Cremona, CremonaFiere 30 settembre - 2 ottobre 2016 La più grande vetrina a livello mondiale delle eccellenze nel settore degli strumenti musicali artigianali. Cremona, patria dei più celebri liutai, quali Stradivari, Amati e Guarneri, è riuscita a tenere viva nei secoli la sua tradizione musicale unica al mondo e a riproporla oggi sul palcoscenico internazionale, triplicando le sue manifestazioni. Tanti e di altissimo livello gli eventi collaterali, i corsi, gli incontri, i concerti. Utile la nuova App CRFiere che consente anche di individuare gli espositori più rispondenti alle proprie esigenze. cremonamondomusica.it
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ARTIGIANATO & PALAZZO Firenze, Palazzo Corsini 12-15 maggio 2016 XXII edizione della mostra mercato dedicata all’artigianato declinato nei mestieri più diversi. Dall’intreccio di canne e foglie lacustri alla gioielleria, dal cesello dell’argento alla forgiatura del ferro, dalla molatura del vetro alla lavorazione della pelle, dall’intaglio del legno alla tessitura. Con largo spazio dedicato ai giovani e ai lavori artigianali innovativi, la manifestazione si propone di promuovere le eccellenze del saper fare a livello internazionale. Tra le innovazioni, Artigianato & Palazzo ha lanciato Blogs&Crafts, un’iniziativa con lo sguardo rivolto al futuro, per sensibilizzare i giovani all’artigianato e alla comunicazione, offrendo loro un’opportunità in più di crescita. artigianatoepalazzo.it
LONDON CRAFT WEEK Londra, 3-7 maggio 2016 Eccezionali savoir faire da tutto il mondo sono i protagonisti dell’evento lanciato con successo lo scorso anno, di cui Vacheron Constantin è partner fondatore. 130 eventi che attraversano la città per condurre i numerosissimi visitatori in un viaggio alla scoperta di botteghe nascoste, artigiani sconosciuti ma anche famosi maestri, atelier, gallerie, negozi e marchi del lusso. Sarà possibile assistere alla magica esperienza della vera creatività, toccare con mano la qualità e vedere la maestria di artisti e maker. londoncraftweek.com 2
100% DESIGN Londra, Olympia Conference Centre 21-24 settembre 2016 Mobili da interno e da giardino, illuminazione, cucine, bagni. Brand e designer internazionali emergenti, complementi bio ed eco sostenibili, nomi storici e marchi appena nati. Tutto un quartiere di Londra si anima per parte-
PARIS DESIGN WEEK Parigi, 3-10 settembre 2016 Eventi diffusi su tutta la città per la manifestazione che vede coinvolta Parigi dai Docks-Cité de la Mode et du Design al Marais-Bastille, da BarbèsStalingrad all’Opéra-ConcordeEtoile. La sesta edizione dell’evento internazionale, coordinato da Maison et Objet, ospita le aziende e i creativi di tutto il mondo presentando le loro ultime creazioni: per cinque giorni la manifestazione promette di offrire interessanti nuovi sguardi sulla decorazione, sul design, sull’arte di vivere. maison-objet.com
cipare a questa quattro giorni di eventi dedicata all’arredo. Oltre all’esposizione negli stand ci sono seminari condotti da tante icone internazionali del mondo dell’architettura e del design. 100percentdesign.co.uk
SALONE DEL MOBILE Milano, Rho Fiera 12-17 aprile 2016 Un palcoscenico interessante e sempre nuovo con un’offerta di prodotti e servizi di altissima qualità: questa la 55a edizione del Salone del Mobile che a Milano Rho Fiera è come sempre al centro dell’attenzione internazionale. Protagoniste anche tre mostre collaterali e un cortometraggio di Matteo Garrone (proiettato all’interno di uno dei Padiglioni). Tornano anche le biennali EuroCucina con l’evento collaterale Ftk (Technology For the Kitchen) e il Salone internazionale del bagno. Evento in città collegato direttamente con il Salone del Mobile è «space&interiors», organizzato dalla biennale internazionale di architettura
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ALBUM premi iniziative PR AVENIR MÉTIERS D’ART PRIX Anche quest’anno è in atto il conAnc cors corso promosso in Francia dall’Inma (Ins (Institut National des Métiers d’Art) che premia l’inventiva, il talento e la man manualità dei giovani artigiani con men meno di 26 anni, aiutandoli a concret cretizzare i loro progetti. Il concorso è realizzato re con il supporto di Fondati dation Michelle et Antoine Riboud et Banque Populaire. Le modalità per partecipare, riservate agli studenti delle scuole di formazione e agli istituti tecnici francesi, si trovano on-line sul sito: institut-metiersdart. org/actions/prix-avenir-metiers-dart-inma. Le candidature saranno aperte fino al 15 giugno 2016.
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ed edilizia Made expo, al The Mall, nel cuore del Porta Nuova Design District: superfici, pavimenti, porte e finiture d’interni vengono presentati in un allestimento suggestivo a cura dello studio Migliore+Servetto Architects. Al Salone Satellite si possono incontrare le innovative produzioni dei giovani designer selezionati. Con una App per iPhone, iPad e i più diffusi dispositivi Android. salonemilano.it
ASSOCIAZIONE STUDIO DI TESSITURA PAOLA BESANA È nata una nuova associazione senza fini di lucro che vuole promuovere e trasmettere il saper fare legato alla tessitura. Paola Besana, tessitrice, designer e artista tessile, studiosa di textile e telai etnici, è indiscussa maestra in quest’arte. Recentemente ha istituito corsi e seminari per i vari livelli di abilità. Tra i corsi già in programma quello di tessuti lanciati a due blocchi, di teoria tessile, di tappeti con telai a pedali, di tessuto doppio a quattro licci e accenno al pelo strisciante. Previsto anche un seminario di progettazione del tessuto e dell’oggetto tessile. Per ciascun corso l’allievo avrà a disposizione, oltre a un telaio personale, i filati necessari, riceverà dispense con bibliografia e indirizzi utili e potrà consultare i testi della biblioteca personale dell’artista, che conta circa 1.500 volumi sulla tessitura nel mondo. paolabesana.it
HOMI Milano, Rho Fiera 16-19 settembre 2016 Il Salone degli stili di vita si presenta con 10 satelliti per 10 settori: Arredo casa, Benessere, Tessuti, Fragranze e cura personale, Moda e gioielli, Regali, Arredo bimbi, Giardini ed esterni, Hobby, Concept lab. Un percorso dinamico, una nuova idea di fiera da scoprire, che ruota intorno alla persona, ai suoi stili, ai suoi spazi: la casa a 10 dimensioni. homimilano.com 3
MOSTRA INTERNAZIONALE DELL’ARTIGIANATO Firenze, Fortezza da Basso 23 aprile - 1 maggio 2016 Firenze da 80 anni ospita i più grandi maestri artigiani in una magnifica location, la cinquecentesca Fortezza da Basso. Anche quest’anno tradizione e nuove tendenze vengono rappresentate da creazioni uniche, realizzate da artigiani provenienti da varie parti del mondo. mostraartigianato.it SALONE DELL’AUTO Torino, Parco del Valentino 8-12 giugno 2016 Cinquanta auto di ultima generazione selezionate ed esposte all’aperto nel magnifico scenario del Parco del Valentino. parcovalentino.com/salone-auto-torino
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Kartell. Il nuovo museo, che alternerà mostre temporanee alla collezione permanente, ha una superficie di 5mila metri quadri ed è stato progettato dallo studio di architettura Lhoas & Lhoas. adamuseum.be IDA, ITALIAN DESIGN AGENCY È nata Ida, acronimo per Italian Design Agency, una start-up con base a Londra che intende promuovere la creatività e il saper fare italiano. L’idea appartiene a tre giovani, che si sono conosciuti all’Università Luiss di Roma: Federico Baldelli, Francesco Santilli e Dario Martelli; e ruota intorno a due perni: «I am a designer» e «I want to hire a designer». Una lunga lista di iscritti a Ida, una scoperta di talenti creativi: finora sono 1.500 le candidature, 200 i migliori selezionati. italiandesignagency.com
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NUOVO MUSEO A BRUXELLES È stato inaugurato a dicembre a Bruxelles il nuovo museo Adam (Art and Design Atomium Museum) con la collezione permanente Plasticarium, una straordinaria raccolta di oltre 2mila oggetti di design in plastica degli anni 60, collezionati dall’ingegnere belga Philippe Decelle. Tanti i designer famosi autori delle opere esposte: Joe Colombo, Eero Aarnio, Ettore Sottsass, Marco Zanuso, Richard Sapper, Anna Castelli Ferrieri,
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ALBUM mostre L’EMPREINTE DU GESTE Parigi, Les Arts Décoratifs 29 marzo - 3 aprile 2016 In occasione delle Giornate Europee dei Mestieri d’Arte, Vacheron Constantin e l’Institut National des Métiers d’Art organizzano presso Les Arts Décoratifs una mostra in cinque sezioni per valorizzare i gesti di 18 grandi artigiani. Passione, creatività, capacità di invenzione, senso della bellezza e valore del dialogo saranno i protagonisti di un’esposizione d’eccezione. lesartsdecoratifs.fr 1
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EERO AARNIO Helsinki, Design Museum 8 aprile - 25 settembre 2016 Una grande retrospettiva dell’opera dell’eclettico designer finlandese. Professore e architetto d’interni, a 83 anni Eero Aarnio continua la sua carriera vulcanica che l’ha reso famoso in tutto il mondo. Il Museo del design di Helsinki gli rende omaggio mettendo in mostra le lampade, i tavoli, le poltrone, le famose sedie in vetroresina: Ball, Bubble, Tomato, Pastil, Formula (sotto), che hanno costellato di successo la sua carriera, insieme a molti disegni e schizzi preparatori. designmuseum.fi
tivi della società contemporanea, scelti dal filosofo Francesco Cataluccio e tratti da opere filosofiche e letterarie. Le stanze, progettate con funzioni e destinazioni d’uso differenti, sono immaginate da Umberto Riva, Alessandro Mendini, Manolo De Giorgi, Lazzarini e Pickering, Marta Laudani e Marco Romanelli, Andrea Anastasio, Fabio Novembre, Duilio Forte, Elisabetta Terragni, Carlo Ratti, Francesco Librizzi. triennale.org 2
STANZE. NUOVI PAESAGGI DOMESTICI Milano, Triennale di Milano, «Curva» 2 aprile - 12 settembre 2016 Una mostra di grande respiro, curata da Beppe Finessi: in 11 stanze l’architettura degli interni viene messa in scena e interpretata da altrettanti grandi progettisti che si confrontano sui temi più significa-
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TISSUS INSPIRÉS PIERRE FREY Parigi, Les Arts Décoratifs Fino al 12 giugno 2016 In concomitanza con la mostra sulla carta da parati Faire le mur!, il museo celebra gli 80 anni di creatività di Pierre Frey, editore francese di tessuti e wallpaper. In esposizione i suoi disegni e gli studi per le creazioni che lo hanno reso celebre in tutto il mondo, nate anche dalla collaborazione con numerosi artisti. lesartsdec lesartsdecoratifs.fr VESTAE Milano, A Albergo Diurno Venezia 12-17 aprile ap 2016 I 20 stud studenti della Creative Academy, la scuola internazionale di design del gruppo Richemont, diretti da Eligo, c creano una collezione dedicata al benessere utilizzando spugna, sapone e tessuto a nido d’ape. Sviluppato con Fondazione
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Cologni dei Mestieri d’Arte, sostenuto da Van Cleef & Arpels e in collaborazine con il Fai, Vestae è un progetto che permette l’incontro tra la cultura del progetto e il saper fare artigianale. creative-academy.com MANUS X MACHINA. FASHION IN AN AGE OF TECHNOLOGY New York, The Metropolitan Museum of Art; 5 maggio - 14 agosto 2016 L’Istituto del costume esplora l’impatto delle nuove tecnologie sulla moda e analizza in questa interessante esposizione in che modo i designer si avvalgano della mano e della macchina nella creazione dell’alta moda e del prêt-à-porter d’avanguardia. La mostra propone una nuova visione in cui mano e macchina, spesso presentate in contrasto, sono invece insieme protagoniste, in egual misura. Con oltre un centinaio di capi, a partire da un abito di Worth del 1880 fino a una creazione di Chanel del 2015, si esplora il percorso della haute-couture attraverso l’emergere della distinzione tra lavoro manuale e meccanico, e la comparsa dell’industrializzazione e della produzione di massa. Lungo il percorso, interessanti ricostruzioni di atelier di moda, di laboratori per il ricamo, piume, plissettature, lavoro a maglia, pizzi, pelletteria, tessitura. A fianco le nuove tecnologie tra cui la stampa 3d, il taglio laser, la termo-sagomatura, la modellazione al computer, la maglieria circolare,
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29 la saldatura a ultrasuoni. Le gallerie conterranno una serie di workshop in-process, dove i visitatori potranno vedere la creazione di capi 3d stampate nel corso della mostra. metmuseum.org 3
MATERIA PRIMA, LA CERAMICA DELL’ARTE CONTEMPORANEA Montelupo Fiorentino Fino al 30 giugno 2016 Montelupo Fiorentino ospita una mostra sulla ceramica che coinvolge tutta la città in un percorso che tocca piazza Vittorio Veneto, piazza Centi, le antiche mura, l’argine del fiume Pesa, la vecchia fornace del Palazzo Podestarile, il pozzo dei lavatoi e piazza 8 Marzo 1944. Il progetto, organizzato dalla Fondazione Montelupo onlus a cura di Marco Tonelli, comprende opere realizzate appositamente da artisti contemporanei quali Ugo La Pietra, Hidetoshi Nagasawa, Fabrizio Plessi, Gianni Asdrubali, Loris Cecchini, Bertozzi & Casoni e Lucio Perone, insieme agli artigiani e alle maestranze locali. Contemporaneamente, nel Palazzo Podestarile, vecchia sede del museo di Montelupo, si tiene una mostra di carattere storico che focalizza l’eredità lasciata da Leoncillo (di cui ricorre il centenario della nascita) a una serie di artisti che, come lui, hanno utilizzato la ceramica come espressione d’arte. All’interno del Palazzo Podestarile, anche Project
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Room, una sezione di Materia eria Prima dedicata ai giovani artisti ti under 35. Con il contributo del Centro entro per l’arte contemporanea Luigi gi Pecci di Prato e nell’ambito del progetto Cantiere Toscana Contemporanea. poranea. museomontelupo.it FASHION FORWARD.. TROIS SIÈCLES DE MODE ODE (1715-2015) Parigi, Les Arts Décoratifs 7 aprile - 14 agosto 2016 Parigi conserva una dellee più importanti collezioni di moda al mondo con oltre 150milaa capi, formata dall’unione di due archivi: quello storico del Musée des Arts Décoratifs, fondato nel 1864, e quello dell’Union Française des Arts du Costume (Ufac), creato nel 1948. Nel 1986 Pierre Bergé, appoggiato poggiato dall’industria francese dell tessile, tessile crea al suo interno il Musée des Arts de la Mode. In occasione dei 30 anni dalla fondazione di quest’ultimo, il museo festeggia con un’esposizione di circa 300 pezzi tre secoli di moda per uomo, donna, bambino. Dai costumi settecenteschi ai capi firmati da Elsa Schiaparelli e Balenciaga, borse, scarpe, accessori compresi. Straordinario l’allestimento, che vuole riprodurre lo scenario e gli ambienti delle diverse epoche in cui erano stati creati i modelli. Con sfondi in boiserie del XVIII secolo e papier peint di Zuber. lesartsdecoratifs.fr
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ENGINEERING THE WORLD: OVE ARUP AND THE PHILOSOPHY OF TOTAL DESIGN Londra, Victoria & Albert Museum 18 giugno - 6 novembre 2016 Ove Arup (1895-1988) fu uno dei più geniali ingegneri del secolo XX, pioniere di un approccio multidisciplinare al design. La mostra vuole mettere in evidenza la sua filosofia, rivelando le sue teorie sul lavoro, sulla collaborazione in un team, sul confronto tra architettura tecnologica e allo stesso tempo umanistica, sul benessere. Con grande documentazione di progetti, immagini, maquette. vam.ac.uk 4
UNDRESSED: A BRIEF HISTORY OF UNDERWEAR Londra, Victoria & Albert Museum 16 aprile 2016 – 12 marzo 2017 La mostra vuole esplorare la funzione degli indumenti intimi nelle diverse epoche, tra praticità, eleganza e sex appeal. Dagli ottocenteschi corsetti per creare il vitino di vespa alle settecentesche stecche di balena per sostenere le gonne più vaporose, fino ai body e ai reggicalze di pizzo degli ultimi decenni del secolo scorso. Attraverso due secoli di storia, dal 1750 ai nostri giorni, vengono esposti capi da uomo e da donna, con invenzioni che hanno cambiato la moda ma anche il nostro modo di vivere. vam.ac.uk
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Sopra, il maestro coreano Myung Bae Park esegue il Somok, tradizionale lavorazione del legno attraverso la quale si ottengono magnifici mobili e oggetti d’arredamento. Nella pagina a fianco, un assortimento di zelkova, pregiato legno antico di più di 500 anni, che passa attraverso vari processi di lavorazione per garantire longevità ai componenti dello Ham.
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Il cosmo nello scrigno di In Jae Jeong
foto di Choongho Park
IN OCCASIONE DEI SUOI 260 ANNI DI STORIA, VACHERON CONSTANTIN HA SOSTENUTO LA CREAZIONE DI UNO HAM, UNA PREZIOSA SCATOLA CHE NELLA TRADIZIONE COREANA RIASSUME L’ETERNA DIALETTICA TRA CIELO E TERRA
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Il cielo come un cerchio, e la Terra come un quadrato: una concezione cosmica suggestiva e antichissima, profondamente radicata presso molte popolazioni dell’Estremo Oriente. Cheon Won Ji Bang: è questa la definizione che in Corea viene utilizzata per descrivere questo dialogo tra forme, che diventa anche simbolo potente di vita e di generatività. Nella simbologia tradizionale coreana è possibile trovare numerosi riferimenti a questa filosofia, nel vestiario della dinastia reale Chosun così come nell’architettura e negli oggetti d’arte applicata locale. Fra questi, uno dei più rappresentativi è sicuramente lo Ham, che nella lingua coreana significa «scatola preziosa»: si tratta infatti di uno scrigno di legno, realizzato e decorato a mano, che poggia su un disco in ottone incorniciato
Rimanda alla concezione cosmica che descrive, tra i popoli dell’Estremo Oriente, il cielo come un cerchio e la Terra come un quadrato da una base quadrata. L’eterna dialettica tra cielo e Terra e il perdurare del tempo si riassumono in queste forme elementari, e questi concetti universali si materializzano nello Ham. Nel 2015 la Fondazione per il Patrimonio culturale coreano e il ministero nazionale della Cultura e del Turismo in collaborazione con Vacheron Constantin, la più antica Maison di alta orologeria al mondo, hanno lanciato un progetto
per la realizzazione di uno Ham. L’occasione è stata il 260° anniversario dalla nascita del marchio ginevrino; l’obiettivo quello di salvaguardare un’importante tradizione dell’artigianato artistico nel mondo, causa in cui Vacheron Constantin è da sempre impegnata. Il compito è stato affidato alle mani sapienti di tre eccellenti artigiani coreani appositamente selezionati: Myung Bae Park, artigiano del legno, Dae Hyun Sohn, esperto di laccatura e verniciatura, e Moon Yeol Park, maestro nella lavorazione dei metalli. Tramite loro, la quintessenza della tradizione coreana ha potuto riflettersi in ogni singolo componente dell’oggetto. L’idea generatrice del progetto ha preso forma attraverso il dialogo tra la Maison, la Fondazione e i maestri. Si è partiti prendendo ispirazione dal design di
Sopra, dettagli delle giunzioni fra i componenti in legno dello Ham; il maestro Moon Yeol Park lavora sul cardine ornamentale (a destra), inciso con il Jeong, il cesello tradizionale coreano, e decorato con motivi che invocano la buona sorte. Nella pagina a fianco, gli attrezzi del mestiere di Moon Yeol Park, simili a quelli usati tradizionalmente dalla famiglia della dinastia reale Chosun.
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SAPIENTI MANI LO HANNO CREATO: UN ARTIGIANO DEL LEGNO, UN ESPERTO
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DI VERNICIATURA E UN MAESTRO NELLA LAVORAZIONE DEI METALLI
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una confezione di orologi ma alla fine si è giunti a qualcosa di più radicato nella tradizione della dinastia Chosun, il Bo Rok: il cofanetto in cui vengono custoditi gli Ham che contengono il sigillo reale. Il lavoro degli artigiani è durato più di un anno e si è articolato in tre fasi, corrispondenti ai principali processi impiegati. Il primo è il Somok, una tradizionale tecnica di finitura che ricerca l’insita bellezza del materiale evidenziando la venatura naturale del legno, la cui età non deve essere inferiore ai 500 anni. Ot-Chil indica invece la laccatura e la verniciatura tipica coreana, che richiede più di 30 passate di resina per ottenere una raffinatissima qualità e per evitare che le superfici si curvino. E infine il Dusoek, la lavorazione del metallo attraverso cui sono state create le cerniere della sca-
L’ispirazione è nata dal design di una confezione di orologi ma poi si è giunti a qualcosa di più radicato negli usi della dinastia Chosun tola e le decorazioni riportanti simboli di buon auspicio per i possessori del prezioso oggetto. Il disco in ottone alla base è stato invece ottenuto attraverso il Danjo, la tecnica di forgiatura che permette di realizzare lastre sottilissime e perfettamente uniformi. Il prodotto è stato presentato il 3 settembre 2015 a Seoul, capitale della Corea del Sud. «Il progetto Ham è stato il nostro modo speciale di festeggiare i 260 anni del
marchio», afferma Christian Selmoni, direttore artistico di Vacheron Constantin, «e andremo avanti nella nostra missione di supporto e salvaguardia dell’artigianato artistico coreano». Seo Dosik, direttore della Fondazione per il Patrimonio culturale coreano, ha poi aggiunto: «Gli artigiani della Maison d’alta orologeria di Ginevra e i maestri del nostro Paese hanno qualcosa in comune: l’impegno nella creazione di un’opera d’arte applicata attraverso un lungo e appassionato lavoro. In questo processo il tempo è un elemento fondamentale». A Seoul è stata anche allestita una mostra, che sarà riproposta in seguito in altre città del mondo, con lo scopo di presentare la bellezza insista in questo prezioso oggetto e di tramandare la filosofia, la visione e il significato che esso rappresenta.
Sopra, il maestro laccatore Dae Hyun Sohn e una fase preliminare del suo lavoro, in cui il legno viene coperto con un panno di canapa. A destra, lo Ham nella sua completezza, realizzato su invito della manifattura Vacheron Constantin. Nelle pagine precedenti, le mani del maestro Myung Bae Park in primo piano.
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Oggetti in alabastro di Ugo La Pietra disegnati negli anni 90 e ora rieditati come esemplari unici dalla Galleria Fatto ad Arte di Milano; sullo sfondo, l’Arco della Pace meneghino. In alto, illustrazione realizzata da Ugo La Pietra (fattoadarte.com).
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RAFFINATO COME IL MARMO PREGIATO, TRASLUCIDO COME LE PIETRE OPALINE, TRASPARENTE QUASI COME IL VETRO. UNA MOSTRA A MILANO SVELA I SEGRETI DELL’ALABASTRO DI VOLTERRA APPLICATO ALLE OPERE CONTEMPORANEE GRAZIE ALLE RICERCHE DI UGO LA PIETRA E ANGELO MANGIAROTTI
di R affaella Fossati
foto di Aurelia Raffo
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In questa pagina, vasetto «Cactus» di Ugo La Pietra con richiami alle radici e alla natura. A fianco, opera di Angelo Mangiarotti disegnata negli anni 80. Dalle venature scure e dalla traslucenza si riconosce la variante «scaglione» dell’alabastro, scavata fin dall’antichità.
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È da sempre la realtà di Volterra, la materia che determina la vita e l’attività di questo centro nel cuore della Toscana. Con la civiltà etrusca, lo splendore della città è coinciso con lo sviluppo della lavorazione dell’alabastro
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Dedicare un’approfondita ricerca all’alabastro di Volterra e mostrarne i risultati in una mostra con opere contemporanee, anche se ormai entrate nella storia, realizzate con questo affascinante materiale, rappresenta per me e per la mia galleria una scelta culturale e identitaria. La scelta è identitaria perché inserita nel solco della ormai ventennale attività della Galleria Fatto ad Arte (che apre, con l’occasione di questa mostra, dal 7 aprile al 7 maggio, una nuova sede in via della Moscova 60 a Milano), che attraverso diverse iniziative culturali e commerciali ha promosso negli anni il rinnovamento dell’artigianato artistico italiano di tradizione. La scelta è culturale perché la
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mostra in questione vuole far conoscere, attraverso una serie di oggetti riferibili alla nostra migliore tradizione del fare, l’opera di due tra i più rappresentativi protagonisti della scena del design internazionale: Angelo Mangiarotti e Ugo La Pietra. Due maestri che significativamente hanno scelto, in momenti diversi ma nello stesso periodo storico (tra gli anni 80 e 90), l’alabastro di Volterra per dar forma alla propria ricerca artistica e progettuale. Una materia che li ha in ugual modo, e non stupisce, affascinati e ispirati perché l’alabastro è molte cose: stratificazione storica e culturale, trasparenza e compattezza, fragilità e solidità, duttilità nella lavorazione, preziosità,
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Sembra fatto per le mani creatrici dell’uomo: lavorabile con semplici attrezzi simili a quelli utilizzati per il legno, diventa duttile fra le abili dita dell’artista artigiano, trasformandosi facilmente in molteplici forme
variabilità nelle molteplici naturali venature, luce e ombra. Con uguale intento e approccio progettuale Mangiarotti e La Pietra sono andati a Volterra a lavorare insieme ai maestri artigiani per dare forma al proprio linguaggio espressivo e spingere la lavorazione in territori sconosciuti e imprescindibili da chi oggi voglia confrontarsi progettualmente con questa straordinaria materia. Opere purtroppo poco conosciute, pezzi unici, che sono stati raccolti negli anni dalla galleria Fatto ad Arte, restaurati e ricatalogati grazie al contributo prezioso della Fondazione Mangiarotti, dell’Archivio Ugo La Pietra e di Alessandro Corda di Ali Alabastri Italiani che
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ha operato, insieme agli altri artigiani coinvolti (Cooperativa Artieri Alabastro, Giorgio Pecchioni) un accurato lavoro di restauro, che ci ha consentito di utilizzare per alcuni rifacimenti lo «scaglione di Volterra», ovvero l’alabastro usato in origine da Mangiarotti e La Pietra e da molti anni non più escavato. Guardiamo dunque questi oggetti che non sentono lo scorrere del tempo, ben sapendo purtroppo che sempre più difficile sarà trovare chi li realizzi con la maestria di una volta, ma sperando che gli stimoli offerti da questa mostra possano far ancora incontrare creatività e arte manuale senza le false rappresentazioni di un’Italia che non esiste.
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A destra, alzatina «Bonsai» di Ugo La Pietra. A lato, opera di Angelo Mangiarotti. Diverso l’approccio alla materia: teso a esaltare le forme scultoree e la purezza del materiale Mangiarotti, in cerca delle potenzialità espressive con un forte legame alla domesticità La Pietra.
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di Akemi Okumura Roy
foto di Colin Roy
(t raduzione dall ’originale inglese di Giovanna Marchello)
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IAN LAWSON
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L’UNICO DEL GLOBO L’HARRIS TWEED È IL SOLO TESSUTO AL MONDO REGOLAMENTATO E TUTELATO DA UN SUO STATUTO. PER OTTENERE IL MARCHIO DI GARANZIA DEVE ESSERE FATTO CON PURA LANA VERGINE IN UN REMOTO ARCIPELAGO SCOZZESE
AUTENTICITÀ, QUALITÀ E REPUTAZIONE Secondo quanto disposto dall’Harris Tweed Act del 1993, il tessuto deve essere fatto a mano dagli abitanti delle Ebridi Esterne, e all’interno delle loro case. Deve essere impiegata solo pura lana vergine tinta e filata all’interno del territorio delle Ebridi Esterne. Solo i tessuti che sono ufficialmente riconosciuti autentici e genuini possono portare il marchio di certificazione Harris Tweed (a sinistra).
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Clò Mòr, grande panno, è il nome gaelico di un celebre e straordinario tessuto, denominato Harris Tweed, ancora oggi prodotto esclusivamente a mano nel remoto arcipelago delle Ebridi Esterne, al largo della costa occidentale della Scozia. Nel 1993, il Parlamento del Regno Unito emanò l’Harris Tweed Act, facendone l’unico tessuto al mondo a essere regolamentato e tutelato da un proprio statuto: l’atto istituì la Harris Tweed Authority, l’ente di controllo che ha preso il posto
La Harris Tweed Authority concede il marchio Orb solo dopo rigorosissimi controlli. Fino alla metà dell’800, il tweed veniva tessuto dai contadini per coprire il fabbisogno della famiglia. Fu Lady Dunmore, che dal defunto marito, il VI Conte di Dunmore, aveva ereditato una proprietà proprio sull’Isola di Harris, a incoraggiare la nascita di un’industria di cui aveva intuito il potenziale. Dei tre stabilimenti ancora esistenti, il maggiore è Harris Tweed Hebrides, a
maschile di alta gamma, ma sono stati aperti anche nuovi segmenti di mercato, tra cui arredamento d’interni, accessori, calzature, fast-fashion e moda femminile di lusso. Harris Tweed è usato da numerose griffe della moda mondiale, tra cui Alexander McQueen, Chanel, Saint Laurent, Ermenegildo Zegna, Margaret Howell, J Crew, Rag and Bone, Vivienne Westwood. Nel 2009 e 2011, l’azienda è stata votata Textile Brand of the Year agli Scottish Fashion Awards promossi da
della Harris Tweed Association creata nel 1909. Un globo sormontato da una croce di Malta, il famoso Orb, costituisce il marchio di garanzia dell’Harris Tweed (uno dei più longevi del Regno Unito, la cui registrazione risale al lontano 1910), che protegge, conserva e certifica la genuinità di questo prodotto in tutto il mondo. Per essere autentico, l’Harris Tweed deve essere fatto con pura lana vergine tessuta a mano nella casa del tessitore, e tutte le fasi di lavorazione devono avvenire nelle Ebridi Esterne.
Shawbost, che copre circa il 75% dell’intera produzione delle Ebridi Esterne. La vecchia fabbrica è stata chiusa nel 2005, all’apice della crisi, ed è stata rilevata nel 2007. L’impegno del team manageriale ha dato un forte impulso all’attività dello stabilimento: sono state introdotte importanti innovazioni sia in campo creativo sia commerciale, e la Harris Tweed Hebrides è diventata un’azienda estremamente dinamica. Molti rapporti di collaborazione sono stati stretti con aziende specializzate nell’abbigliamento
Vogue.com e ha ricevuto riconoscimenti importanti per la produzione e l’esportazione, tra cui quelli di Uk Fashion and Textile Company of the Year 2013 e di Scottish Exporter of the Year 2015. L’unicità dell’Harris Tweed risiede nel fatto che la tessitura viene eseguita in casa, mentre lo stabilimento si occupa di lavaggio, mescola, cardatura, filatura, roccatura, tintura, rammendatura, finissaggio e certificazione. Margaret Macleod, direttore dello sviluppo presso Harris Tweed Hebrides, spiega che tutta l’in-
CLÒ MÒR, GRANDE PANNO Sopra, il tessitore Norman Mackenzie. Lavora su un telaio Hattersley (a destra): introdotto negli anni 20, fu creato per la tessitura a mano; non va a elettricità, ma è manovrato con un pedale azionato dal tessitore. Oggi la maggior parte dell’Harris Tweed viene prodotto su un telaio Griffith a doppia altezza (nella pagina a lato), introdotto negli anni 90 per soddisfare la richiesta commerciale di un tessuto più leggero e alto.
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dustria tessile si basa su tre elementi che non possono operare singolarmente: la Harris Tweed Authority, gli stabilimenti e i tessitori. La crisi che ha travolto quest’industria alla fine del ’900 si è portata via un’intera generazione. Fortunatamente le cose stanno cambiando e, come succede con tutte le pratiche artigianali, l’impegno personale e l’insegnamento dei maestri hanno dato i loro risultati. Oggi ci sono circa 150 tessitori accreditati, 19 dei quali sono sotto i 30 anni.
gna, realizza e vende il proprio tweed in modo autonomo. «Quando lavoro senza fermarmi riesco a tessere 3 o 4 metri all’ora», racconta. «È un’attività che trovo divertente e rilassante». Dopo la tessitura, Mackenzie porta la pezza dalla rammendatrice e infine allo stabilimento, dove viene lavato e finito, ispezionato e marchiato con l’etichetta Orb. «È il mio sangue», dichiara. «Sono nato in una famiglia di tessitori e da piccolo ho passato tanto tempo a os-
insegnanti specializzati. Anche le fasi di lavorazione che avvengono nello stabilimento sono molto creative, e anche questo rende speciale l’Harris Tweed. La formazione degli addetti avviene affiancando gli apprendisti agli esperti. Ken Kennedy, capo disegnatore a Harris Tweed Hebrides, spiega che ogni singola fase della produzione è importante e che è necessario essere a conoscenza di quello che avviene in ciascuna divisione, per poter ottenere quello speciale amal-
La maggior parte viene da famiglie di tessitori delle Ebridi Esterne. Quasi tutta la produzione di Harris Tweed viene realizzata su telai Griffith, a doppia altezza, introdotti negli anni 90. Da questi telai si ricava un tessuto più morbido, leggero e con più varietà di disegni. Un tempo il più diffuso era il telaio Hattersley del 1920, sui quali si tessevano pezze da 75 centimetri d’altezza. Norman Mackenzie è un tessitore indipendente, nato e cresciuto sull’isola di Lewis, che continua a usare uno di questi vecchi telai. Dise-
servare e imparare. Amo vedere il telaio che lavora. Mi resterà nelle vene finché vivo. Sono molto affezionato a questo raro telaio Hattersley, con il quale tengo viva la tradizione della pezza in singola altezza. Allo stesso tempo, tessendo faccio un po’ di esercizio fisico, che non fa mai male!». Mackenzie insegna ai giovani a tessere. In passato, le tecniche di tessitura venivano tramandate all’interno della famiglia, ma da quando queste competenze stanno scomparendo è stato necessario introdurre corsi con
gama di tradizione e innovazione che contraddistingue la produzione di Harris Tweed Hebrides. Lo stabilimento di Shawbost ha circa 90 addetti. Oltre un terzo ha meno di 30 anni, e sono tanti i giovani che inviano il loro curriculum. Nel 2015, l’azienda è stata accreditata dall’organizzazione Investors in Young People in riconoscimento dell’impegno profuso nella formazione dei giovani: contribuendo così a salvare, preservare e trasmettere i valori tradizionali unici dell’Harris Tweed.
I CARATTERI DISTINTIVI DELLA TRADIZIONE A sinistra, Angela Smith sta apprendendo i segreti del tweed da Ken Kennedy, capo disegnatore alla Harris Tweed Hebrides; a destra, la navetta in legno con cui veniva passato il filo di trama su un vecchio telaio Hattersley a singola altezza. Nella pagina a lato, il tessuto viene controllato da un ispettore della Harris Tweed Authority: solo così può ottenere il marchio recante un globo sormontato da una croce maltese («Orb»).
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di Giovanna Marchello
L’ARTISTA JOANA VASCONCELOS DECONTESTUALIZZA E REINTERPRETA OGGETTI DI USO COMUNE E LAVORAZIONI DEL RICCO PATRIMONIO ARTIGIANALE DEL PORTOGALLO
DIMENSIONE
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«Valquíria Enxoval» (2009) esposta nella Galleria delle Battaglie a Versailles, nel 2012, in una mostra dedicata ai lavori dell’artista. Questa grande opera tessile è stata realizzata con tecniche che vanno dal ricamo su feltro al pizzo lavorato a tombolo, alle lavorazioni all’uncinetto.
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Sopra, «Gary» (2015), maiolica ricoperta di pizzo in cotone lavorato nelle isole Azzorre. Sotto, un ritratto di Joana Vasconcelos nel suo studio. A fianco, sopra, le opere sono assemblate da artigiani che lavorano presso il suo studio a Lisbona. Sotto, «True Faith» (2014), in lana lavorata all’uncinetto e montata su tela; esposta alla Manchester Art Gallery.
JOANA VASCONCELOS: Vivendo e lavorando in Portogallo, il patrimonio culturale è entrato in modo del tutto naturale nel mio lavoro. Sono sempre attratta dalle pratiche artigianali, da qualsiasi luogo provengano. Attraverso l’osservazione critica del mondo che ci circonda, traggo ispirazione dalle cose di tutti i giorni. Gran parte del mio lavoro incorpora il concetto di «domestico»: è naturale quindi che attinga a prodotti e lavorazioni tipici del Portogallo. Entrando in contatto con le pratiche locali, ho cominciato a sviluppare una rete di collaborazioni con gli artigiani sul territorio. Seguendo questo percorso, mi sono focalizzata su particolari ricami in feltro e lavorazioni all’uncinetto tipici della zona di Nisa, nell’Alentejo, e su sofisticati pizzi in cotone lavorati all’uncinetto sull’isola di Pico, nelle Azzorre. GM: Prodotti e lavorazioni tradizionali portoghesi sono il fine o il mezzo, nella sua arte? JV: Sono gli strumenti per mezzo dei quali sviluppo idee e concetti che desidero esprimere, impiegandoli in una prospettiva contemporanea. Attraverso il mio lavoro, preservo queste tecniche ancestrali, ma do loro vita nuova. Le lavorazioni tipiche si esprimono in forme abbastanza convenzionali, mentre attraverso il mio lavoro le sollecito ad ampliare i loro orizzonti, attraverso il colore, la dimensione e nuove e
ALFREDO CUNHA - LUÍS VASCONCELOS / COURTESY UNIDADE INFINITA PROJECTOS
L’artista portoghese Joana Vasconcelos ha conquistato la ribalta internazionale con opere che affascinano e colpiscono, divertono e stupiscono, commuovono e coinvolgono e non lasciano mai indifferenti. Nel suo mondo niente è ridotto, minimale, accennato: attingendo a tutto ciò che è quotidiano e familiare, Joana Vasconcelos lo espande in una dimensione parallela dominata dal colore, che portando con sé un messaggio profondo e universale, parla direttamente alle emozioni. Oggetti di uso comune e lavorazioni tipiche del patrimonio artigianale portoghese vengono decontestualizzati e reinterpretati, con grande attenzione ai valori di autenticità e originalità che rappresentano. Il suo atelier, nella zona del porto di Lisbona, è una bottega delle meraviglie dove una cinquantina di collaboratori tra artigiani, carpentieri, elettricisti, pittori, architetti, ingegneri e fotografi, cuciono, tagliano, ricamano, assemblano e illuminano il suo mondo fantastico. Ricordandoci che, come scriveva José Saramago nel suo Viaggio in Portogallo, «la fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro... bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini». GIOVANNA MARCHELLO: Il patrimonio culturale portoghese è un tema centrale nelle sue opere. Come è nata questa intuizione?
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Sopra, «Mistress» (2015). Sotto, Joana Vasconcelos al lavoro. A lato, «Coração Independente Vermelho» («Cuore indipendente rosso», 2005): l’opera, che misura quasi quattro metri in altezza, è realizzata con posate in plastica colorata e si ispira ai cuori in filigrana d’oro tipici di Viana do Castelo. (joanavasconcelos.com).
e la produzione di Nisa, salvandoli dall’abbandono annunciato dall’indifferenza delle nuove generazioni verso i valori di un patrimonio unico e insostituibile. Spostando questi singoli oggetti dalle loro funzioni abituali e sovvertendo la loro dimensione domestica, reinterpreto, in una luce contemporanea, i valori estetici che si manifestano attraverso tecniche diverse e temi caratteristici del lavoro artigianale di Nisa. GM: Queste collaborazioni danno loro la possibilità di avere un approccio più contemporaneo al lavoro, generando così un rinnovato interesse di pubblico verso una produzione che sarebbe relegata a un ruolo di mero folclore? JV: So che gli artigiani si confrontano con l’artista con un misto di curiosità e sospetto. Ma se comprendiamo e rispettiamo il loro mestiere, la loro arte, il risultato finisce per conquistare il pubblico. Uno degli effetti più importanti di queste collaborazioni sta nel fatto che i creativi possono mettere in risalto la loro identità, differenziarsi e spiccare in mezzo ai loro pari; questo permette, parallelamente, di mantenere vitale un prezioso bacino di memoria e creatività. Sfruttando la possibilità, data dalla globalizzazione, di rivendicare e al contempo divulgare ciò che è locale, i prodotti di questi mestieri possono essere apprezzati da un pubblico nuovo e, di conseguenza, evolversi nel tempo.
MATT CROSSICK/PA WIRE | COURTESY HAUNCH OF VENISON, LONDON - LUÍS VASCONCELOS / COURTESY UNIDADE INFINITA PROJECTOS
originali interpretazioni... Nelle mie opere, la funzione formale sia delle tecniche sia dei prodotti è quella di essere strumenti e materia, analogamente alla pittura per il pittore o alla pietra per lo scultore. Utilizzo oggetti riconoscibili per crearne di nuovi, avviando un dialogo che va ben oltre la loro natura locale. Non si tratta quindi di una relazione diretta, ma della creazione di nuove possibilità. Prendiamo ad esempio il modo in cui uso l’uncinetto: quello che mi interessa non è la sua natura territoriale, bensì l’ambiguità che emerge nella duplice funzione di protezione e restrizione, il pizzo come seconda pelle che al contempo decora e limita. In termini pratici, li vedo come elementi decorativi, come i pezzi di un puzzle. GM: Quali delle sue opere rappresenta al meglio questo rapporto? JV: Sicuramente la serie delle «Valchirie» e, in particolare, Valquíria Enxoval (Valchiria Corredo nuziale), del 2009, un’opera che ho sviluppato con gli artigiani di Nisa, una piccola città nella zona dell’Alentejo nota per la sua produzione artigianale. Sospesa al soffitto, questa grande massa tessile, strana e bizzarra, sembra aleggiare sopra gli spazi dove abita, come nobile materia destinata a «compiti divini». Il destino di Valquíria Enxoval è forse la creazione di un «corredo» capace di interpretare l’artigianalità
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ESTETICA DELL’IMPERFEZIONE Sopra, i vasi-contenitori realizzati da Yoko Terai, artista della ceramica, sono stati ispirati da antichi oggetti di design giapponese. Nella pagina a fianco, il ceramista Masanobu Ando ha creato questa serie di piatti, presentata presso la galleria Selene di Fukutsu, nella prefettura di Fukuoka. Il cucchiaio è opera di Yuki Sakano, artista del metallo.
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TATAZUMAI IL POTERE DI UN OGGETTO
L’ARTIGIANATO CONTEMPORANEO GIAPPONESE DEFINISCE UNA BELLEZZA IMPERFETTA CHE DÀ SPAZIO ALLA CREATIVITÀ DI COLORO CHE LA CONTEMPLANO
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Le pratiche onorate dal tempo, e da lungo tempo praticate, sono da sempre le più rilevanti quando in Giappone si parla di mestieri d’arte. Se per esempio si considera la ceramica, le scuole che si distinguono sono due: una più tradizionale, riconducibile all’attività dei cosiddetti Tesori nazionali viventi; l’altra più popolare, celebrata e sacralizzata all’inizio del XX secolo dal movimento Mingei del filosofo Soetsu Yanagi. Se invece si analizza il craft contemporaneo, la situazione è decisamente diversa. Assai meno conosciuta, la produzione artigianale non tradizionale è stata influenzata da un movimento di rottura chiamato Sodeisha: nel 1948 un gruppo di ceramisti, guidati da Yagi Kazuo, Yamada Hikaru e Suzuki Osamu, ha posto fortemente in discussione l’accademismo estetico e formale di Soetsu Yanagi, e abbandonando le forme e le tecniche tradizionali in favore di opere scultoree concettuali si è volontariamente affrancato da ogni tipo di funzionalità. Keisuke Iwata e Masanobu Ando erano allora dei giovani studenti di arte: l’argilla era già il loro materiale d’elezione. Questa idea di rottura li affascina, e li porta a sognare di diventare scultori liberati dal peso della storia, in un Giappone in piena evoluzione e molto segnato dall’influenza americana, dove soffia un vento nuovo.
testo e foto di Anthony Girardi (traduzione dall ’originale francese di Alberto Cavalli)
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58 dustrial Art. Ryuji Mitani, celebre creatore di oggetti in legno, la definisce come il potere che un oggetto posato su un tavolo ha di modificare l’atmosfera, di creare un sentimento di calma e indurre al silenzio le persone presenti. Keisuke Iwata lo trova nelle piccole variazioni, che fanno sì per esempio che l’argilla da un giorno all’altro risponda o resista in maniera diversa, lasciando apparire delle forme, delle linee invisibili che fino a un attimo prima non c’erano. Il maestro vetraio Hideki Yokoyama ogni mattina annota nel suo carnet la pressione atmosferica e il tasso di umidità, elementi che influenzeranno le
Rifuggendo la fissità estetica e gerarchica propria dell’artigianato popolare, si punta a ristabilire i legami tra gli artisti, i clienti e la natura
La creazione di opere scultoree non ha cessato di costellare il loro percorso. Ma Iwata e Ando hanno anche saputo percepire, nel mutevole clima del Giappone post-bellico, il vuoto lasciato nell’artigianato tanto dall’influenza del Mingei quanto da un design industriale in piena crescita. Il craft contemporaneo giapponese, anche conosciuto come Life Industrial Art, mira quindi soprattutto a ricreare i legami esistenti tra gli artisti o i maestri, gli utilizzatori (o i clienti) e la natura. Lontani dalla fissità estetica e gerarchica dell’artigianato popolare, questi maestri hanno prima di tutto cercato di ritrovare nell’oggetto il piacere dell’uso; senza rifiutare alcuna influenza, si ispirano anche alla propria esperienza, al bisogno di creare manufatti che si adattino al quotidiano, che siano pratici e che riflettano uno stile di vita. Masanobu Ando associa per esempio la pratica della Life Industrial Art a una cerimonia influente come quella del tè, ispirata dallo Zen: come ogni minimo dettaglio del quotidiano deve rivelare una grande profondità, così le frontiere tra il visibile e l’invisibile, tra il vuoto e il pieno devono essere cancellate. Trasposta sull’oggetto, questa filosofia definisce un’estetica della non perfezione, della non simmetria e dell’accidentale: una bellezza imperfetta lascia infatti spazio alla creatività della persona che la contempla o che utilizza il manufatto. Sobrietà, minimalismo e assenza di ostentazione diventano così le caratteristiche in cui si riconosce l’artigianato contemporaneo, per arrivare a ciò che viene definito Tatazumai: una parola intraducibile che potrebbe essa stessa riassumere il manifesto della Life In-
RIFLESSI DI UNO STILE DI VITA Dall’alto, Masanobu Ando, ceramista e maestro della cerimonia del tè, è uno degli ispiratori della filosofia Tatazumai; una caraffa creata da Keisuke Iwata (in basso), ceramista e co-fondatore del movimento contemporaneo. A fianco, prima della cottura nel forno a legna, Toshihisa Ishihara ricopre gli oggetti con uno speciale composto per ottenere una superficie porosa come la terracotta.
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61 Un manufatto posato su un tavolo ha la capacità di creare tranquillità e indurre le persone presenti al silenzio
sue forme. Non si trova il Tatazumai in oggetti nati dalla ripetizione, ma nella possibilità di liberare la forza della forma nell’istante esatto in cui si manifesta. Il saper fare si affina e diventa a poco a poco una scienza del sensibile, riservando una grande importanza alla natura dei materiali che ogni oggetto rivela. Il Tatazumai è dunque un vero stile di vita, che si traduce nella ricerca di un’estetica totale: è questo, senza dubbio, che seduce la giovane generazione di artigiani che si cercano nell’oggetto del quotidiano, che sia utile o contemplativo. Il ritorno della tradizione alla filosofia che l’ha vista nascere, più che alle regole che ne sono seguite, ha permesso al craft contemporaneo di inserirsi in maniera stabile nel mondo dei mestieri d’arte giapponesi, e di rispondere ai bisogni di una generazione che nei tumulti della nostra epoca ricerca una forma di semplicità in un quotidiano armonioso. Una ricca rete internazionale di gallerie sostiene gli esponenti di questo movimento, e partecipa alla diffusione della sua estetica: nell’ottobre del 2013, per esempio, la galleria Mercier et Associés ha accolto l’esposizione Objet (mono, in giapponese), che ha presentato sette ceramisti contemporanei giapponesi (Masanobu Ando, Keisuke Iwata, Eiji Uematsu, Toshihisa Ishihara, Seiko Wakasugi, Yoko Terai e Tamiko Ishihara) sotto la direzione dell’artista Michiko Iwata. Il progetto ha dato luogo ad altre esposizioni, in Giappone e in Francia. O ancora, il brand giapponese Muji, celebre per il design minimalista e razionale, ha tenuto a battesimo nel settembre 2015 l’esposizione intitolata proprio Tatazumai, che ha messo insieme i sei artisti della Life Industrial Art: Ryuji Mitani (legno), Keisuke Iwata (ceramica), Masanobu Ando (ceramica), Kazumi Tsuji (vetro), Akiko Ando (tessuto) e Michiko Iwata (scatole e oggetti). Questi luoghi di incontro e scambio hanno saputo riunire tutte le discipline del craft contemporaneo, e hanno favorito emulazione e scambi fertili. Che siano fatti di legno, metallo, vetro, argilla o tessuto, gli oggetti del craft contemporaneo giapponese non hanno bisogno di parole: in loro presenza si percepisce una forte emozione, e un desiderio irresistibile di averli. Segno evidente della forza del Tatazumai.
PERCORSI ALTERNATIVI Dall’alto, Ryuji Mitani è un artista del legno, figura di spicco nel mondo dell’artigianato contemporaneo; piccole bottiglie di vetro realizzate dall’artista Hideki Yokoyama nella sua bottega (in basso). Nella pagina a fianco, vaso-scultura realizzato dal ceramista Takeshi Omura; ispirandosi a vecchi giocattoli giapponesi, usa il mimetismo visivo del metallo per creare oggetti insoliti ma funzionali.
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Nessun complice migliore della luce naturale per il controllo di qualità delle carte Amatruda, eseguito foglio per foglio al piano superiore dell’opificio. A lato, come si presenta l’antica cartiera a ponte sul fiume Canneto a chi proviene dal centro di Amalfi.
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C’ERA UNA VOLTA
Ad Amalfi, in un antico opificio a ponte sul fiume Canneto, la famiglia Amatruda continua a produrre fogli a mano, mantenendo sostanzialmente invariati i procedimenti. Come nel Medioevo
di Alberto Gerosa
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foto di Francesco Squeglia
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Un grazie alla cassata siciliana. È infatti anche merito dello squisito dessert insulare se la cartiera Amatruda è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni. Negli anni più difficili della prima metà del ’900, allorché l’industrializzazione sistematica e lo sviluppo di più moderne arterie commerciali penalizzavano pesantemente la sempre più isolata Amalfi, Ferdinando Amatruda e suo figlio Luigino (quello stesso Don Luigi che in età matura sarebbe divenuto il beniamino degli editori più raffinati) riuscivano a mantenere in vita l’attività di famiglia per merito della briglia, carta di colore bianco in uso presso le pasticcerie meridionali nonché negli studi legali. Anche oggi, in piena epoca di posta elettronica ed e-book, rimanere a galla non è facile; per fortuna ci sono ancora l’editoria di lusso e le partecipazioni, che in qualche modo hanno rimpiazzato i dolci della Trinacria e le cartelle degli avvocati. Fedele all’insegnamento di Don Luigi e alla storia della famiglia Amatruda, legata alla produzione di carta fin dal XV secolo, la figlia Antonietta perpetua il mestiere di famiglia con rigore filologico, coadiuvata in questo dalla sorella Teresa, dal cognato Lucio e dal nipote Giuseppe Amendola, oltreché da un pugno di maestranze legate all’azienda da decenni. In effetti, la produzione della carta a mano nell’antico opificio a ponte sul fiume Canneto è rimasta sostanzialmente invariata rispetto ai procedimenti in uso nel Medioevo per ottenere la «bambagina», come si era soliti designare un tempo la carta di cenci da queste parti. Ora come allora ci si avvale dell’acqua che dai rilievi dell’entroterra amalfitano scende attraverso la Valle dei mulini per dare luogo a impasti di cotone o cellulosa il più possibile liberi da impurità. A testimonianza dell’attività plurisecolare dell’opificio sono le antiche torri, ovvero vasche a forma d’imbuto mu-
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nite di un tappo; opportunamente sollevato mediante catena, questo convogliava l’acqua verso la ruota e l’albero motore che azionavano i martelli chiodati per la riduzione in poltiglia degli stracci accumulati in apposite vasche note come «pile». Oggi come secoli addietro gli artigiani formano i fogli e ne determinano la grammatura immergendo nell’impasto una tela di fili in bronzo fittamente intrecciati (alcuni fili andranno a determinare i contorni della filigrana) e incorniciati da una bordura in pino marittimo, detta cassio. E proprio come in passato, l’operaio ponitore provvede poi a trasferire il foglio sul feltro e a ripetere l’operazione fino a quando si è formata una pila di fogli alternati a feltri, che verrà successivamente pressata per eliminare l’acqua eccedente. Segue poi la fase dell’asciu-
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Dall’alto, lo speciale forno a telai; la rimozione di un’impurità durante il controllo di qualità. A fianco, un artigiano in forza alla cartiera Amatruda dal 1990 immerge la tela e il cassio nel tino contenente l’impasto, per poi depositare sul feltro il foglio formatosi sul reticolo di bronzo. Si notino le diverse filigrane sulle due tele.
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Dall’alto, lo spandituro con le «tese» tradizionalmente adibite all’asciugatura dei fogli; un espositore con alcuni campioni della vasta produzione Amatruda. A fianco, uno scorcio del locale più antico dell’opificio, con la macchina ottocentesca per la forma in tondo e, sullo sfondo, lo sgabello con i feltri e il maglio per la lisciatura (amatruda.it).
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gatura, che ancora oggi ha luogo nello stanzone ottocentesco noto come spandituro, situato al piano superiore e ben ventilato grazie alla presenza di finestroni. Ai caratteristici telai o «tese» in fil di ferro zincato usati un tempo per stendervi i fogli ancora umidi si affianca ora il forno a emissione di aria calda, armato pure esso di telai. La sequenza tradizionale delle ulteriori fasi di lavorazione prevedeva il collaggio mediante pelli animali bollite, un’apposita pressatura e la lisciatura finale mediante ‘o maglietto, speciale martello dalla testa liscia. Presso Amatruda sono nondimeno in uso ulteriori metodi di lavorazione; la successione dei macchinari di epoche diverse da un locale all’altro dell’opificio è una sorta di compendio dell’evoluzione dell’industria della carta. Passiamo così dall’innovazione
seicentesca nota come macchina olandese, dove lo spappolamento dei cenci è affidato a un cilindro dotato di lame, per arrivare al tamburo in tondo, introdotto nell’800. Quest’ultimo riprende il principio della produzione manuale, sostituendo alla tela un cilindro anch’esso costituito da un intreccio di fili bronzei e in grado di realizzare fogli continui adagiati su un ponitore in feltro, pressati da un rullo in granito e raccolti da un «manganello» ligneo. Amatruda possiede un macchinario originale ottocentesco di questa tipologia, realizzato in ferro; per la produzione in tondo attuale la cartiera opta tuttavia per una replica più recente, dove le uniche differenze sono date dalla struttura in acciaio (più affidabile di quella in ferro, cagione della presenza d’impurità sui fogli), dal vibrovaglio al posto della vasca di sedimentazione e, soprattutto, dalla produzione dei fogli uno a uno, senza sfrangiature innaturali dovute a strappi. Il risultato sono carte dei formati più disparati (si va dai biglietti da visita ai fogli 70x100) e qualità difficilmente eguagliabile, come constatato dallo stesso Massimo Cacciari, che di carta e libri se ne intende parecchio... Candidi fogli che nondimeno raccontano in modo quanto mai eloquente la terra in cui vedono la luce, con la sua natura, le sue acque e il suo sapere artigianale diretto erede delle tecniche che i mercanti amalfitani appresero circa un millennio fa dagli Arabi, venuti a loro volta a conoscenza del segreto della carta nell’ambito dei loro commerci lungo le sconfinate vie carovaniere dell’Asia. Peccato solo che Antonietta Amatruda e i suoi parenti non commercializzino i loro fogli ottenuti dall’aggiunta nell’impasto di fiori di campo (borragine, sambuco, bocche di lupo, fiori di cipolla dall’effetto madreperlaceo...), raccolti a maggio nei boschi circostanti l’opificio... Beh, chissà che non ci ripensino!
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Dialoghi generativi
In queste pagine, da destra, il designer Matteo Zorzenoni con Piero Nason della storica vetreria muranese Nason Moretti. Dal loro incontro sono nati dei vasi caratterizzati da una tecnica rara e delicata, che la visione del progettista ha reso contemporanei.
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SEDICI PEZZI FIRMATI DA NOTI DESIGNER E STRAORDINARI ARTIGIANI ITALIANI. AL SALONE DEL MOBILE ARRIVA LA COLLEZIONE «DOPPIAFIRMA» di Alberto Cavalli foto di Laila Pozzo
Mi è venuta
UN’IDEA di Susanna Pozzoli
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DoppiaFirma è il suggestivo ed efficace nome scelto da Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, Living e yoox.com per identificare una delle collezioni più attese del Salone del Mobile: sedici pezzi firmati da noti designer insieme a straordinari artigiani italiani, commissionati ad hoc ed esposti alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tra le auguste mura del palazzo voluto dal cardinale Federico Borromeo, a pochi metri da squisiti capolavori della pittura e della letteratura e idealmente posti sotto il peso splendido e oneroso del Codice Atlantico di Leonardo, esposto nella Sala Federiciana, gli oggetti di DoppiaFirma intessono una narrazione che non teme la distanza tra il bello e il nuovo. La finalità è quella di «valorizzare un dialogo che rende generativo ogni progetto: quello tra la visione del designer e la maestria dell’artigiano», come ricorda Franco Cologni, presidente dell’omonima Fondazione. «Dinamiche e interlocutorie, le loro competenze riportano al centro della scena creativa mestieri rari, nascosti, spesso dimenticati, grazie a oggetti realizzati ad hoc. In questa raffinata rarità, il cui tratto autoriale è appunto garantito dalla doppia firma dei protagonisti, c’è una scintilla meravigliosa: in un momento in cui tutto si duplica, si estrae, si sintetizza con leggerezza, la mente e la mano dell’uomo ripropongono invece con entusiasmo il tema della preziosità delle risorse». Eccellenza artigianale e talento creativo, dunque, di nuovo e ancora in dialogo: ma la scelta dei materiali, e soprattutto delle tecniche degli artigiani, rende questo dialogo alquanto originale. Gli atelier selezionati per il progetto, infatti, si distinguono per lavorazioni rare, spesso complesse, o per un savoir-faire che si vena del carattere dell’unicità: proprio queste caratteristiche hanno ispirato ai designer una sperimentazione sinora mai attuata, per arrivare a oggetti plausibili e straordinari al tempo stesso. Come ha sottolineato Francesca Taroni, direttore responsabile di Living, DoppiaFirma non è «una semplice celebrazione delle abilità individuali ma una collaborazione, un reciproco mettersi in gioco per consentire alla tradizione di modernizzarsi e di parlare un linguaggio contemporaneo». Linguaggio che yoox.com, partner e sostenitore dell’iniziativa, non solo parla ma addirittura padroneggia: internet e il digitale, terreni d’elezione per il gruppo fondato da Federico Marchetti, sono infatti il luogo ideale dove può avvenire uno scambio fertile tra mestiere d’arte e design. Uno scambio che ha l’ambizione «di collegare mondi apparentemente lontanissimi», come ha spiegato lo stesso Marchetti; «sognare, e poi mettere in pratica le idee, per innovare. Preservare l’eccellenza della creatività e dell’alta artigianalità. Valorizzare, difendendola, la bellezza». Come quella che scaturisce dall’unione di due brillanti menti creative e dalla loro DoppiaFirma. La selezione dei designer è stata effettuata da Living: ci sono nomi celeberrimi come Michele De Lucchi, Ugo La Pietra, Marco Zanuso jr., Giorgio Vigna e Francesco Simeti. «Ma ci sono anche giovani talenti che si sono distinti per la loro attitudine a sperimentare con la materia», ricorda Francesca Taroni; «come Giacomo Moor, autore di arredi in legno che realizza personalmente, o Matteo Zorzenoni che spazia dal cemento al vetro». E l’elenco dei sedici è un piccolo gotha della creatività di oggi: Pietro Russo, Eligo, Matteo Cibic, Davide Aquini, Lorenzo Damiani, Germana Scapellato, oltre ai team di Analogia Project, Studiopepe e Studio Blanco.
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Il designer Giorgio Vigna e il maestro vetraio Claudio Tiozzo hanno ripensato radicalmente la storica tecnica della murrina.
Fabio Pozzoli, specialista nell’intreccio artigianale del midollino e delle fibre naturali, con Domenico Rocca e Alberto Nespoli di Eligo.
La Fondazione Cologni ha rintracciato gli atelier di alto artigianato che si sono posti in dialogo con i designer, investigando le diverse possibilità espressive dei materiali e delle tecniche: vetro, bronzo, pietra ollare, alabastro, carta, ma anche il lustro e il bucchero per la ceramica, il ricamo prezioso a Lunéville, lo smalto traslucido a gran fuoco, l’ebanisteria. Nomi leggendari quali Pino Grasso (ricamo), Gabriella Gabrini (smalto), Antica Stamperia Carpegna (stampa a ruggine), atelier Bianco Bianchi (scagliola) o Ceramiche Biagioli
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Il maestro Daniele Papuli, specialista nella lavorazione della carta, ha reinterpretato le iconiche casette di Michele De Lucchi.
Sara e Valerio Tamagnini dello Studio Blanco (al centro) hanno lavorato con la scagliola insieme a Elisabetta e Alessandro Bianchi.
Ugo La Pietra e Giovanni Mengoni hanno realizzato una piccola collezione di pezzi con l’antica e rara tecnica del bucchero.
Arianna Lelli Mammi e Chiara Di Pinto di Studiopepe con Emanuele Francioni dell’Antica Stamperia Carpegna (stampa a ruggine).
(ceramiche a lustro) si affiancano a nuovi protagonisti del craft, come Daniele Papuli (carta) o FabsCarte (carte d’arredo dipinte a mano); a laboratori di alto livello quale quelli di Fabio Pozzoli (cesteria) e di Giovanni Mengoni (bucchero); al network della Cooperativa Artieri Alabastro di Volterra; e a botteghe blasonate come quella dei Gadda (ottone), dei Lucchinetti (pietra ollare), dei Carati (bronzo) o di Giordano Viganò (ebanisteria). La realizzazione degli oggetti in vetro è affidata a Nason Moretti e Claudio Tiozzo. Nell’idea della
doppia firma «si cela un messaggio rivoluzionario: quello del valore del dialogo tra artista e artigiano, tra creativo e maestro d’arte, tra chi evoca un’ispirazione nutrita di visionarietà e chi la traduce in un correlativo oggettivo meraviglioso, testimone di un genius loci che solo la mano dell’uomo sa rendere visibile», conclude Cologni. «DoppiaFirma è quindi uno sguardo che spazia dal design ai mestieri d’arte, e dalla sperimentazione all’alchimia del pensiero: perché è dallo scambio di idee che nasce l’energia che alimenta la nostra vita».
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SEMPLICE È MADE IN FRANKFURT La collezione lanciata in occasione del 50° anniversario della gioielleria è anche un omaggio che Marc-Jens Biegel dedica alla sua città. La linea Louisa (in queste pagine) prende il nome da un parco che si trova nella zona meridionale della capitale finanziaria tedesca. La luce che si rifrange sulle sfaccettature di un verdissimo peridoto richiama le chiome degli alberi mosse dal vento.
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A FRANCOFORTE SUL MENO, BIEGEL È UN PORTO SICURO PER I CULTORI DEL BELLO. TRA ALTA GIOIELLERIA SU MISURA, COLLEZIONI PRÊT-À-PORTER, CREAZIONI DI DESIGNER DI FAMA INTERNAZIONALE, ALL’INSEGNA DELLA LINEARITÀ
PER SEMPRE di Giovanna Marchello
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LE COLLEZIONI SONO DISEGNATE DA MARC-JENS OPPURE SVILUPPATE DA A Francoforte sul Meno, la gioielleria Biegel è un fulgido esempio di alta artigianalità al servizio di tradizione e design. L’attività fu avviata nel 1964 da Werner Biegel, un mastro orafo figlio di un tagliatore di diamanti della regione di IdarOberstein, la capitale tedesca delle pietre preziose. Oggi il negozio si trova nella centralissima Börsenplatz, dove la sede della Borsa di Francoforte è simbolicamente segnalata dalla statua bronzea del Toro e dell’Orso. La gioielleria Biegel si è specializzata nella produzione di alta gioielleria su misura per una nutrita clientela locale e nella realizzazione di personalissime collezioni prêt-à-porter. Ma è stato grazie alle innovazioni introdotte dal figlio di Werner, Marc-Jens, che la gioielleria Biegel si è conquistata una posizione di rilievo internazionale anche nelle creazioni di design. Marc-Jens Biegel entrò nel mondo dell’oreficeria facendo il suo apprendistato proprio al fianco del padre, alla fine degli anni 80. Successivamente proseguì gli studi nella progettazione di gioielli, essendo curioso di esplorarne le potenzialità anche oltre il punto di vista dell’artigiano. «Mi resi subito conto che non facevo molti progressi, perché gli insegnanti stessi venivano dal mondo della gioielleria», spiega. «Ottenni così una borsa di studio alla Kingston University, in Inghilterra, presso la facoltà di design dell’arredamento e
del prodotto, dove hanno studiato molti designer di talento, tra cui Jasper Morrison, James Irvine, venuto a mancare nel 2013 a Milano, e altri grandi designer inglesi». Rientrato a Francoforte, Marc-Jens si persuase che era necessario un cambiamento perché, in un mondo in rapida trasformazione, la gioielleria sembrava congelata nel suo status quo. «Un gioiello è sempre l’espressione molto personale della propria individualità, ma all’epoca non esisteva niente per un pubblico dai gusti più contemporanei. Mi chiesi: “Che aspetto avrebbe un gioiello disegnato da un designer di prodotto, qualcuno che normalmente crea mobili, ad esempio”? Non capivo perché nessuno ci avesse mai pensato prima, mi sembrava un’idea tanto ovvia. Decisi che sarei stato il primo a realizzarla!», ride, ripensando a quei giorni. «Con questa idea in testa, nel 2002 ho creato il progetto che battezzai Bodysign: una contrazione tra Body, perché si indossa, e Design. Volevo realizzare gioielli con materiali preziosi, perché questa era la nostra specialità, e non mi interessava lavorare con materiali alternativi come la plastica». Marc-Jens Biegel si rivolse a tre designer tedeschi che stavano già collaborando con importanti aziende italiane e internazionali di arredamento e illuminazione. Uwe Fischer disegnò Molekular, una creazione in oro e perle ispirata alla struttu-
ALLA CONFLUENZA DI DESIGN E TRADIZIONE Sopra, anello della linea Oyster disegnata da Saskia e Stefan Diez per la collezione Bodysign: una sottile lamina d’oro, ripiegata su se stessa, trattiene la perla come le valve di un’ostrica. A lato, Marc-Jens Biegel (in alto) ha disegnato anello e orecchini della linea Panaurea (in basso): la superficie lucida e opaca dell’oro mette in risalto le radiose perle australiane e i citrini color miele, creando nuance dai toni ambrati.
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MODELLI ORIGINALI DEL PADRE WERNER, CHE AVVIÒ QUESTA ATTIVITÀ NEL 1964
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«CERCO UN’IDEA LINEARE CHE SI TRADUCA IN UN GIOIELLO ESSENZIALE» ra della molecola. Konstantin Grcic ideò Grand Prix, una linea basata su un anello da catena di forma allungata, un elemento che viene proprio dall’industria del mobile. Mentre Axel Kufus ebbe l’intuizione di Loop, un semplice nodo in oro a 24 carati che in effetti è un pezzo molto difficile da realizzare, in quanto l’oro puro, estremamente morbido, deve essere meticolosamente forgiato a mano con tre diverse misure di martello. «Bodysign attirò l’attenzione della stampa e si vendeva anche piuttosto bene, ma sapevo che dovevo far conoscere i miei prodotti a un pubblico più ampio di quello che passava davanti alle mie vetrine». Biegel decise così di presentare il suo progetto alla Fiera del mobile di Colonia, coinvolgendo altri designer internazionali: Ronan e Erwan Bouroullec, Shin e Tomoko Azumi e il compianto Hannes Wettstein. «Si rivelò un’idea vincente, che rivoluzionò la nostra azienda. Dopo il lancio a Colonia, nel 2003, nuovi orizzonti si spalancarono di fronte a noi. Ricevetti moltissima attenzione anche da parte della stampa, e diversi musei mi invitarono a partecipare ad alcune mostre: la Triennale di Milano, il Museum für Moderne Kunst di Francoforte, Art
Institute Chicago, il V&A. Nel corso degli anni, ho coinvolto altri designer nel progetto, tra cui Tom Dixon, Alfredo Häberli e giovani all’inizio della loro carriera, come Benjamin Hubert, perché cerco un approccio sempre molto contemporaneo». Le creazioni di design sono solo una parte della produzione Biegel. «L’anno scorso abbiamo festeggiato i 50 anni di attività con la collezione Made in Frankfurt, un omaggio alla mia città. Tutti i pezzi sono creati da me o sviluppati da vecchi disegni di mio padre, e realizzati da mio cugino, che è il mastro della nostra bottega orafa interna, situata proprio nel cuore del nostro negozio». La collezione più recente è dedicata ai diamanti e porta il significativo nome di Härte 10 (Durezza 10): eleganti montature a tensione, solitari e fedine di brillanti. «È fondamentale creare gioielli dal disegno il più semplice possibile. Può suonare strano, perché quando si parla di preziosi si pensa subito a oggetti ricchi e altamente decorativi. Ma non è il mio stile. Quello che cerco è un’idea semplice che si traduca in un prodotto dall’aspetto essenziale. La difficoltà sta proprio nel farlo apparire così semplice! È questo che mi ispira: creare gioielli che rendano felice chi li indossa per molto, molto tempo».
IL TORO E L’ORSO In alto, la gioielleria Biegel si affaccia sulla Börsenplatz, di fronte alla sede della borsa di Francoforte. Nel mezzanino, proprio nel cuore del negozio, si trova il laboratorio interno dove il mastro orafo realizza tutti i gioielli insieme a due collaboratori. Al centro, l’anello della linea Loop, disegnata da Axel Kufus per la collezione Bodysign, è in oro puro a 24 carati forgiato a mano.
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COME FOGLIE AL VENTO In questa pagina, gli orecchini della linea Louisa, disegnata da Marc-Jens Biegel. Le tormaline dalla Namibia e i peridoti dalle montagne del Kashmir creano vivaci riessi di verde. I diamanti incastonati al centro brillano come gocce di rugiada nel ricco fogliame di una lussuosa foresta (biegel.biz).
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Tradizioni territoriali
In questa pagina, la sede del progetto Made in Cloister: particolare della struttura di epoca borbonica, raro esempio di archeologia industriale, al centro del chiostro del ’500 di Santa Caterina a Formiello a Napoli. A lato, dettaglio delle lunette affrescate poste sotto il porticato (madeincloister.it).
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Rinascimento
Naples made in
A NAPOLI IL CHIOSTRO DELLA CHIESA DI SANTA CATERINA A FORMIELLO È STATO SOTTRATTO AL DEGRADO PER DIVENTARE UN LUOGO D’ARTE, DESIGN E ARTIGIANATO
di Rosa Alba Impronta
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Made in Cloister è un sogno che sta divenendo realtà: il sogno di alcune persone di buona volontà (Davide De Blasio, Antonio Martiniello e Rosa Alba Impronta), appassionati visionari, che si sono dati l’obiettivo ambizioso di sottrarre al totale degrado il magnifico chiostro rinascimentale della chiesa di Santa Caterina a Formiello, a Napoli, per riconvertirlo in un luogo destinato ad arte, design e artigianato, all’insegna di tradizione e innovazione, recupero storico e visione pienamente contemporanea. Luogo unico, raro esempio di convivenza tra rinascimento e archeologia industriale, il chiostro è rimasto abbandonato per 150 anni e sono state proprio la sua straordinaria storia e la sua posizione a definire la mission del progetto di riconversione e riqualificazione urbana: recuperare una parte del patrimonio culturale della città di Napoli per destinarla al rilancio delle tradizioni artigianali, qui fortemente radicate, rinnovandole con spirito attualissimo attraverso la realizzazione di progetti con artisti e designer internazionali. Il chiostro di Santa Caterina a Formiello fa parte del grande complesso monumentale del Lanificio, a ridosso di Porta Capuana, considerato tra i più importanti esempi di architettura rinascimentale della città. Il complesso venne requisito alla Chiesa nell’800 da Ferdinando di Borbone, che
ne sostenne la trasformazione in opificio per la produzione di lana e di divise militari. Da quel momento il chiostro e l’area, denominata appunto del Lanificio, cambiano destinazione divenendo una fabbrica che arriva a occupare, a pieno regime, oltre 400 persone. Il chiostro si segnala tra gli esempi di attività industriali sostenute dai Borbone nell’ambito di un virtuoso programma d’industrializzazione dell’epoca. Nel periodo di massima attività del Lanificio, viene confiscato ai monaci anche il cosiddetto Chiostro piccolo, allo scopo di ampliare ulteriormente le aree destinate alla produzione. Nella parte centrale viene costruita una copertura in legno, tuttora esistente, che conferisce a quest’ultimo un ulteriore elemento di fascino grazie alla meravigliosa capriata lignea centrale. Nel 1861, con l’Unità d’Italia e l’avvento di Casa Savoia, vengono sospese le ordinazioni di divise al Lanificio e la famiglia Sava, che lo gestiva, non riuscendo a riconvertire l’attività, fallisce. Rapidamente, quello che era stato a Napoli uno dei più importanti monumenti dell’arte rinascimentale e successivamente nell’800 un esempio d’insediamento industriale, diventa un’area dismessa. Inizia un progressivo e inesorabile degrado sia delle strutture sia degli insediamenti produttivi e artigianali che avevano connotato tutta l’area. In particolare il chiostro
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diventa saponificio, autorimessa, falegnameria, in un progressivo degrado fino allo stato di totale abbandono: gli affreschi completamente ricoperti, tutte le arcate chiuse, costruzioni all’interno del chiostro... fino ad arrivare all’abbattimento delle colonne in piperno del ’500 per fare entrare i camion! In tale situazione è stato trovato questo gioiello dell’architettura partenopea dai promotori di Made in Cloister, che si sono dati la mission di salvare e far rivivere il luogo come sede di eccellenza creativa, dove sperimentare nuove vie per il rinnovamento dell’antica sapienza artigianale attraverso la visione di importanti artisti e designer. Contemporaneamente ai lavori di ristrutturazione, che vedono il coinvolgimento dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, i promotori hanno messo a punto il progetto che sta trasformando il chiostro in sede d’incontri, di sperimentazioni e del saper fare, in cui gli artisti e i designer potranno risiedere e lavorare con i maestri artigiani. Moltissimi gli artisti internazionali che hanno visitato il luogo anche durante i lavori e che si sono appassionati al progetto diventando «amici di Made in Cloister»: tra questi Laurie Anderson, Lou Reed, Saturnino, Harry Pearce, Mimmo Palladino, Jimmie Durham, Maria Thereza Alves, Chris Rucker... Lo spazio ospiterà non
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solo residenze d’artista e atelier artigiani, ma anche esposizioni, performance musicali e teatrali, reading; l’antico refettorio diverrà un’area dedicata a drink and food Made in Cloister, dove l’esperienza del cibo verrà proposta, con fantasia e creatività contemporanea, utilizzando il gusto e gli ingredienti stagionali tipici della tradizione culinaria napoletana. Il coordinamento del progetto è affidato allo studio newyorchese Lot-EK. La Fondazione Made in Cloister sta anche realizzando la prima mappatura degli artigiani del territorio campano con un fine di catalogazione e di raccolta d’informazioni sulle antiche tradizioni artigianali. Il rilancio del saper fare parte dalla storia stessa del luogo e dalla sua vocazione. Napoli ha il più vasto centro storico d’Europa, dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1995: qui si sono sviluppate le più antiche forme di lavoro manuale, dando luogo nei secoli a splendide tradizioni artigianali che si tramandano da generazioni. Un progetto complesso, che ha dato vita a un network di soggetti, dagli artisti agli artigiani, dalle imprese creative ai musei alle istituzioni culturali e formative del territorio, e che ha profonde implicazioni anche sul piano dell’impatto sociale, in un’area oggi fortemente degradata nonostante la straordinaria ricchezza di storia ed eredità culturale.
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Sopra, Maria Rosaria Galeano dipinge il vetro nello Studio Cembalo. In alto, da destra, Tiziana Grassi, nella storica bottega L’ospedale delle Bambole; il complesso monumentale di Santa Caterina a Formiello, meglio noto come Lanificio; gli allievi del corso di restauro dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Sotto, Umberto Cervo, intagliatore, nella sua bottega L’arte dell’intaglio.
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82 La collezione Métiers d’Art Élégance Sartoriale di Vacheron Constantin: i quadranti sono ispirati a preziosi tessuti (da sinistra) gessati, tartan, windowpane e principe di Galles.
PRECISIONE NELLA SUA NUOVA COLLEZIONE DELLA SERIE MÉTIERS D’ART, VACHERON CONSTANTIN INTERPRETA LO STILE MASCHILE DECORANDO I QUADRANTI COME FOSSERO TESSUTI
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SARTORIALE di Alberto Cavalli
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C’è un tratto distintivo che unisce alcuni tra gli uomini più eleganti di ogni epoca, da Petronio a Lord Brummell e da Edoardo VII ai contemporanei (e spesso anonimi) protagonisti di The Sartorialist, il sito che è divenuto una referenza mondiale per lo stile maschile: la personalità. Se infatti è vero che un gentiluomo si distingue dai dettagli, è anche vero che questi dettagli non sono mai scelti a caso, o con noncuranza: dietro ogni scelta ci sono pensiero e intuizione. Perché l’eleganza è un tratto che appartiene alla persona, mai agli oggetti; gli oggetti sono il frutto di una selezione, di una visione, di un’ispirazione, e contribuiscono a generare un’idea di stile che si nutre di autenticità e gusto. Ovvero, fattori non solo estetici, ma anche e profondamente culturali. Stile e cultura, autenticità e personalità sono gli elementi che hanno generato l’idea di Élégance Sartoriale, la nuova collezione di orologi della serie Métiers d’Art di Vacheron Constantin. La Maison ginevrina, da oltre 260 anni conosciuta per la nobiltà delle forme, la ricercatezza dei movimenti e la raffinatezza dei mestieri d’arte impiegati in ogni orologio, ha infatti voluto interpretare lo stile maschile attraverso la sua inimitabile vena creativa: il quadrante di ciascuno dei cinque modelli, ognuno dei quali è prodotto in serie limitata, è stato dunque idealmente collegato alle più preziose drapperie di alta sartoria. Il sotto-quadrante in madreperla è decorato con motivi che richiamano i bottoni delle camicie, o le pochette che spuntano con discrezione dalla giacca. I cinturini in alligatore evocano le scarpe fatte a mano, orgoglio di ogni gentiluomo. E per ogni orologio la Maison ha anche fatto produrre un paio di gemelli in oro il cui pattern, artigianalmente inciso, richiama quello del sotto-quadrante. Oggetti squisiti, dunque, che rappresentano una versione elegante e portabile dell’alta orologeria, adatta a ogni ora del giorno o della sera. Anche per questa nuova collezione, Vacheron Constantin ha saputo spingere un po’ più in là le capacità e il talento dei propri maestri d’arte, mettendo il loro saper fare al servizio di una visione estetica estremamente originale. Ogni quadrante è infatti lavorato con la tecnica preziosa del guillochage: per ognuno sono necessarie cinque o sei ore di lavoro, cui si aggiungono le due ore previste per il sotto-quadrante. I motivi ottenuti dall’artigiano, lungi dal ripetere ossessivamente decori desueti, sono assolutamente originali e restituiscono le fantasie dei più bei tessuti della sartoria maschile: i volumi, gli effetti tridimensionali e il gioco della luce diventano altrettante sfide per il maestro d’arte. Lo smalto traslucido a grand
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feu ne evidenzia la perfezione tecnica e cromatica: occorre infatti trovare il tono perfetto per ogni quadrante, e la sola operazione di smaltatura può richiedere fino a quattro ore di lavoro. Ogni scelta stilistica è a sua volta sostenuta da una combinazione di colori (l’oro rosa o bianco della cassa, il cinturino) che comunica un’armonia serena, come la vera eleganza dovrebbe sempre essere.
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Sotto, dettagli di lavorazione del sotto-quadrante in oro con incisioni a disegno cashmere, a fiori o geometrici, ispirati ai motivi decorativi di cravatte e pochette. A lato, il guillocheur ha riprodotto a mano la struttura delle stoffe, creando un delicato godron sui bordi del quadrante.
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Dall’alto, la lavorazione sul sotto-quadrante; ultime fasi di lavorazione del quadrante a mezzaluna. A fianco, all’interno dei cinque modelli batte il calibro 1400, un movimento meccanico a carica manuale sviluppato e prodotto da Vacheron Constantin.
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Il quadrante ispirato al Principe di Galles, leggendario tessuto in lana che gli inglesi collegano allo sport e al tempo libero, ha posto ai maestri d’arte sfide notevoli. Riuscire a realizzare a guillochage tutti gli elementi che compongono i quadri di un Principe di Galles è infatti un’impresa notevole: gli incroci pied-de-poule, le sottili righe verticali, il disegno che deve emergere con chiarezza…
La scelta cromatica di Vacheron Constantin, ispirata a un ricco color lampone, fa risaltare la perfezione geometrica dei singoli quadri, mentre il sotto-quadrante in madreperla color champagne mostra piccoli decori floreali. Il twill, tessuto a lisca di pesce di grande morbidezza, è stato invece ricreato nei toni del lavanda e del blu, che accentuano l’effetto tridimensionale impresso dal guillocheur. Il motivo a zig-zag si deve a un’alternanza particolare in fase di tessitura: il quadretto chiaro indica che il filo di ordito passa sotto alla trama, il quadretto scuro indica l’operazione contraria. Nel quadrante, questa alternanza emerge in maniera elegante e discreta: la cassa in oro rosa riscalda il tono, mentre il sotto-quadrante è decorato con una fantasia sinuosa che richiama le pochette o le cravatte più originali. Il quadrante che evoca il tessuto windowpane, cioè a quadretti tratteggiati, richiama le inoppugnabili scelte stilistiche di Edoardo VII: sottili righe di colore più scuro si intersecano perpendicolarmente, incorniciando quadrati di tessuto dal tono più chiaro. Un effetto ricercato e dallo stile impeccabile, che Vacheron Constantin esalta nei toni classici del sabbia e del grigio, e che il guillocheur ha ancora una volta esaltato con linee che stupiscono per la loro profondità. Il sotto-quadrante ha decorazioni floreali regolari, di gusto Art Nouveau. L’immancabile gessato, biglietto da visita di ogni businessman, è proposto nei toni chiari del beige, del nocciola che sfuma nell’oro. Le sottilissime righe, che richiamano quelle tratteggiate dal sarto con il gesso, sono rese dal guillocheur graficamente ancora più interessanti, grazie a un effetto che evoca verticalità senza creare linee troppo marcate. Le geometrie del sotto-quadrante sono un labirinto, grande classico della cravatteria maschile. E infine, il tartan: quintessenza dello stile scozzese, da sempre associato ai clan, rappresenta una scelta di stile dai cromatismi raffinati ed eloquenti. Vacheron Constantin crea il suo quadrante tartan in blu chiaro, ottenendo dal guillocheur di mostrare sia le righe verticali sia quelle orizzontali con effetti di profondità diversi. La cassa in oro bianco accentua l’eleganza dell’incisione, sottolineata dal reticolato del sotto-quadrante. Contraddistinti dal prestigioso Punzone di Ginevra, gli orologi della serie Élégance Sartoriale pongono in dialogo due grandi passioni dell’uomo elegante: la sartoria e l’orologeria, mondi in cui l’alta artigianalità è sempre legata alla ricerca di uno stile raffinato. Di uno stile senza tempo, che chi misura il tempo, come Vacheron Constantin, conosce ed esalta alla perfezione da più di 260 anni (vacheron-constantin.com).
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di Simona Cesana
ENRIK KAM, COURTESY SFMOMA
Il nuovo SFMOMA visto da Yerba Buena Gardens; in primo piano, l’edificio del 1995 progettato da Mario Botta con mattoni rossi a vista; alle sue spalle, l’ampliamento progettato dallo studio Snøhetta. A lato, «Sleeping woman » (2012), opera in acciaio inossidabile di Charles Ray.
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Musei d ’avanguardia
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COURTESY MATTHEW MARKS GALLERY
A SAN FRANCISCO SI AMPLIA LA PIÙ IMPORTANTE CASA DEDICATA ALL’ARTE E ALLA CULTURA CONTEMPORANEA DELLA WEST COAST AMERICANA
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L’altro
MOMA 18/03/16 11:15
Sopra, «untitled (to Barnett Newman) two» (1971), luce fluorescente rossa, gialla e blu, opera di Dan Flavin. Sopra e nella pagina a fianco, rendering e interni in costruzione del SFMOMA, che si sviluppa su dieci piani, con spazi semplici e aperti. Le terrazze esterne accoglieranno installazioni (sfmoma.org).
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Il popolare acronimo MoMA ci fa subito pensare al celebre Museo di arte moderna di New York dove anche l’arte, l’architettura e il design italiano si sono da tempo conquistati attenzione e spazi nelle collezioni permanenti e nelle esposizioni temporanee. Si affaccia sulle coste del Pacifico l’altro MoMA, fondato nel 1935, primo museo di arte contemporanea della costa ovest che inaugurerà il 14 maggio la sua sede rinnovata e ampliata, con una collezione di opere di arte moderna, contemporanea, architettura e design decisamente rafforzata negli ultimi anni, grazie anche alle donazioni di importanti collezioni private e a una massiccia campagna di fundraising che ha coinvolto oltre 500 donatori. Sull’edificio originale del 1995 progettato da Mario Botta e caratterizzato dagli elementi ricorrenti del linguaggio architettonico dell’architetto svizzero (dal rivestimento di mattoni in cotto ai volumi geometrici puri, tra i quali si riconosce il cilindro tronco) si innesta il nuovo
corpo architettonico progettato dallo studio Snøhetta (con base a Oslo e a New York) che, pur nell’importante volumetria, si presenta come un corpo fluido con la facciata principale rivestita da un sistema di pannelli in fibra di vetro dalla superficie increspata che sembra muoversi con il variare della luce e che rievoca l’acqua e la nebbia, elementi naturali del paesaggio della baia di San Francisco. L’interno si sviluppa su dieci piani, con spazi semplici e aperti, pensati appositamente per accogliere le collezioni del Museo, oltre a spazi dedicati alle mostre temporanee, alle performance, all’accoglienza e didattica e a terrazze esterne che ospiteranno installazioni di scultura e offriranno una vista spettacolare sul paesaggio urbano di San Francisco. Nel progetto di questo importante rilancio, oltre alle nuove acquisizioni di arte moderna e contemporanea, ampia attenzione è stata dedicata anche al design. Abbiamo parlato con Jennifer Dunlop Fletcher, curator del dipartimento di Architet-
STEPHEN FLAVIN / ARTISTS RIGHTS SOCIETY (ARS), NEW YORK; PHOTO: DON ROSS/KATHERINE DU TIEL
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Musei d ’avanguardia
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92 a oggi, posizionando il SFMOMA come punto di riferimento sulle visioni contemporanee del design». Sollecitata sul ruolo del design artistico e delle arti applicate all’interno di un’importante istituzione museale come questa, la Fletcher dichiara: «Nella Bay Area esistono molte significative collezioni di design e arti applicate. A complemento di queste collezioni esistenti, intendo portare al SFMOMA progetti di designer che mettano in discussione e abbiano un atteggiamento critico verso la rapida adozione di massa delle più recenti tecnologie senza considerare il loro grande impatto culturale. E spesso questi progetti provengono proprio da designer che rivisitano, o cercano di indagare, un “arte perduta” o l’artigianato». Chissà che non sia proprio questo grande museo a ospitare grandi artisti di arte applicata, sapendo dare valore anche a quest’arte insieme a tutte le altre che già hanno trovato casa in questa bella città sul Pacifico.
HENRIK KAM, COURTESY SFMOMA / KATHERINE DU TIEL
Sopra, «Copper armchair» (1984), opera di Donald Judd, rame e alluminio. Sotto e nelle pagine a fianco, alcuni dettagli della ristrutturazione interna, della facciata esterna rivestita in pannelli di fibra di vetro dalla superficie increspata e del corpo centrale delle forme preesistenti progettate da Mario Botta.
tura e design, che dal 2010 si è occupata di costruire questa collezione del SFMOMA, scegliendo opere di design dal 1980 a oggi: «La collezione spazia dal design moderno del XX secolo a quello contemporaneo del XXI, ed è costituita da architettura sperimentale, graphic design, sedie iconiche, interactive e product design. La collezione è consapevolmente equilibrata dal punto di vista geografico: un terzo delle opere sono di designer della Bay Area (area di San Francisco, ndr), un terzo di designer statunitensi, principalmente della West Coast, e un terzo di designer internazionali. Recentemente il dipartimento ha concentrato le sue energie sul rafforzamento delle collezioni con quelle opere che hanno avuto un impatto profondo nei loro rispettivi campi e nella cultura contemporanea. La collezione ripercorre in modo efficace l’evoluzione di come i designer hanno esplorato e sperimentato nuove tecnologie dal secondo dopoguerra
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di Alessandra de Nitto
MILANO TORNA AL CENTRO DELLA SCENA CULTURALE MONDIALE CON LA XXI ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE. CHE DOPO 20 ANNI...
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Non ancora spenta l’eco del successo di Expo 2015, Milano resta saldamente al centro della scena culturale mondiale nel 2016 grazie alla XXI Esposizione Internazionale, che ritorna dopo 20 anni con una nuova edizione dal titolo foriero di inedite visioni: XXI secolo. Design after design, il progetto oltre il progetto nel nuovo millennio. Dal 2 aprile al 12 settembre 2016 l’Esposizione invaderà non soltanto gli spazi della stessa Triennale e del Parco Sempione, ma anche molti luoghi significativi della città: luoghi simbolo della ricerca, del progetto e dell’arte. La grande manifestazione «diffusa» si declinerà in numerose esposizioni che spazieranno dalla Triennale alla Fabbrica del Vapore, dall’HangarBicocca ai Campus di Politecnico e Iulm, dal Museo delle Culture al Museo della Scienza e della Tecnologia, dalla Permanente al Museo Diocesano, fino alla Villa Reale di Monza, storica sede delle prime mostre internazionali triennali. Una rinascita tanto attesa quanto ambiziosa e visionaria, che riporta la Triennale al suo storico ruolo di promotrice di innovazione e cultura, portatrice di una riflessione a tutto campo sull’evoluzione attuale e futura dei modelli di progettazione e produzione, in una dimensione profondamente multidisciplinare. Nell’ambito di questa kermesse straordinaria, che vedrà mobilitarsi le migliori energie e personalità della scena culturale italiana e internazionale, si inserisce con forza «New Craft», un progetto espositivo curato e ideato da Stefano Micelli. Il tema della possibile contaminazione virtuosa tra lavoro artigiano ed economia globale è centrale nella produzione del noto
economista veneziano, che da tempo si occupa di studiare e promuovere il design e la creatività come vantaggi competitivi dell’impresa italiana. E proprio all’autore del fortunato Futuro artigiano (Marsilio Editori) la Triennale ha chiesto di indagare i rapporti tra design e artigianato, tradizione e innovazione nel multiforme territorio del saper fare oggi. L’esposizione che ne è nata, presentata presso il suggestivo spazio-laboratorio della Fabbrica del Vapore, intende mettere in scena in modo spettacolare e coinvolgente, anche grazie alla sapiente art direction di Studio Geza, il sodalizio spesso sorprendente fra innovazione tecnologica e manifattura d’eccellenza. «New Craft», spiega il curatore, «vuole mettere in mostra l’incontro originale fra il saper fare artigiano e le potenzialità delle nuove tecnologie. L’obiettivo non è tanto mostrare una selezione di oggetti, quanto piuttosto coinvolgere il visitatore in un ambiente dove è possibile scoprire i processi che caratterizzano il nuovo design e la nuova manifattura di qualità. Pensiamo spesso alla tecnologia come a uno strumento di razionalizzazione che esclude l’uomo dalla produzione. Questa mostra proverà a convincere il visitatore proprio del contrario, mettendo in evidenza l’incontro virtuoso fra tecnologia e saper fare della tradizione». La rivoluzione tecnologica ha trasformato in modo profondo la stessa progettazione, e oggi vediamo una nuova generazione di produttori artigiani in grado di utilizzare le tecnologie al servizio di una creatività colta e consapevole, che ricerca un prodotto di alta qualità. Il progetto mette in scena molti settori di produzione assai distanti, dalle
TIPOTECA ITALIANA, CORNUDA
LA TECNOLOGIA NELLE
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Eventi speciali
automobili ai gioielli, dagli abiti ai mobili, dalle biciclette alla stampa letterpress... Per ognuno viene mostrato il processo produttivo, attraverso laboratori digitali ma anche grazie alla presenza di artigiani capaci di realizzare oggetti d’eccezione in spazi limitati. La mostra vuol far cogliere al visitatore la possibile integrazione tra il digital manufacturing e il saper fare dell’uomo, in un rapporto non conflittuale ma creativo. Tra i molti momenti e luoghi significativi della mostra: la scenografica produzione di un prototipo di automobile; il grande tavolo da lavoro al centro della Fabbrica, tavolo di incontro e creazione, ma anche supporto per videoproiezioni e informazioni grafiche, dove si alterneranno workshop e verranno creati oggetti poi messi in mostra; le nove grandi installazioni materiche verticali all’ingresso della «cattedrale» dedicate ad altrettante realtà d’eccezione; ai lati il grande spazio multilab che ospiterà diverse realtà eccellenti dell’artigianato contemporaneo; l’area dedicata alle mostre tematiche, destinate a cambiare ogni mese e centrate di volta in volta su temi diversi, dall’autoproduzione alla scena «indie» italiana, dal design della tavola al rapporto fra designer e artigiano. Mentre negli spazi del Porcellino, alle spalle della Fabbrica, saranno organizzati convegni, incontri e avranno luogo grazie alla collaborazione con Fondazione Cologni gli atelier didattici dei maestri artigiani delle Cinque vie, area della città storicamente vocata al saper fare, che incontreranno periodicamente i giovani delle scuole milanesi. «New Craft» è reso possibile dal sostegno di Vacheron Constantin, la storica Maison ginevrina da sempre mecenate dei mestieri d’arte, che in occasione delle Giornate Europee dei Mestieri d’Arte 2016 ha sposato questo progetto coniugando la propria visione di eccellenza alla sensibilità verso le declinazioni contemporanee del fare.
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CONTAMINAZIONE VIRTUOSA Sotto, collana blu in nylon sinterizzato e argento di Paola Volpi. In basso, da sinistra, Rhizaria Table - ExNovo, lampada realizzata in polimero sinterizzato e vetro di Murano soffiato a bocca da Vetreria Salviati, prodotta nelle versioni table e hanging lamp; polizza di caratteri di piombo, Tipoteca Italiana; lavorazioni del tessile presso Berto Manifattura 1887; dettagli delle lavorazioni nei complementi d’arredo di Baldi Design.
MANI DEGLI ARTIGIANI
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AGENT D’ARTISANS / JOSEF RUZNAK
In questa pagina, Eric Charles-Donatien al lavoro nel suo atelier parigino. A destra, un abito realizzato nel 2015 dalla Maison Sorapol e da lui decorato con piume multicolori.
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Maestri d ’arte
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L’anima COME UNAPIUMA
SORAPOL
È quella di Eric Charles-Donatien, talentuoso plumassier parigino. Il suo vocabolario formale gravita intorno alla dolcezza, così come al rigore. Con cui decora gli abiti dei più grandi stilisti e non solo...
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di Julie El Ghouzzi (traduzione dall ’originale francese di Alberto Cavalli)
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Sopra, la lampada «Madlight», ispirata alla luce delle candele: le ali, che si ergono dalla struttura inclinata, evocano libertà e purezza. A destra, un abito di Christophe Josse: le piume sono dipinte a mano.
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«Prendi una punta di struzzo piumettato e un frammento di marabout». Questa frase, decisamente bizzarra, è in realtà perfettamente normale se ci si trova nell’atelier di Eric Charles-Donatien. Perché quest’ultimo, da più di 20 anni, ha una compagna un po’ particolare, dolce e graziosa, aerea e carezzevole, ma che può anche dimostrarsi capricciosa e complicata: la piuma. Designer e maestro riconosciuto nella lavorazione artistica della piuma, Eric Charles-Donatien viene da una buona scuola: direttore artistico per 15 anni della storica Maison Lemarié (l’ultimo plumassier di Parigi, acquisita da Chanel nel 1996) ama rievocare quell’atelier sempre effervescente dove ci si doveva ingegnare a cucire, tagliare e tingere le piume, per decorare i più begli abiti di alta moda. Come è arrivato alle piume, questo giovane maestro dalla già lunga esperienza? Per caso, ma anche per amore di questo materiale. Dei suoi anni passati alla Scuola di arti applicate, e poi alla scuola della Chambre syndicale de la couture, racconta infatti con senso dell’umorismo: «Non ero molto bravo a disegnare, e dunque lavorare direttamente sui materiali era una sorta di astuzia per rimediare a questa carenza. Ho un modo di vedere in base ai colori che mi permette di comprendere la struttura delle cose». Eric presenta uno dei suoi primi progetti al Salone degli artisti decoratori in Libano, nel 1995. Per una fortuita e fortunata serie di incontri, questo progetto, che includeva anche delle piume, viene mostrato ad André Lemarié. «Se riesce a rifare delle cose simili a questa, le chiederemo senz’altro dei campioni», gli dice il maestro. Eric Charles-Donatien, che allora lavorava come stagista da Hermès, soccombe al fascino di questo leggendario plumassier e al prestigio del suo atelier. «Le piccole signore anziane, la collezione estremamente articolata e colorata di piume, la polvere: era una sorta di versione couture di Émile Zola». Inizia così una grande avventura per il giovane creativo, che aveva preferito la modestia di un atelier a una carriera di stilista presso le più grandi Maison. «Pensavo che ci sarei
restato solo qualche mese. Ci sono restato 15 anni», racconta. Presso Lemarié, Eric vuole partecipare al lavoro dell’atelier e apprenderne il savoir-faire; ma vuole anche seguire la parte creativa. Mentre la Maison lo nomina responsabile della gestione e della direzione artistica, lui sente il desiderio di apprendere anche la tecnica. «Giocavo a nascondino, pur di passare un po’ più di tempo in atelier», è il suo divertito ricordo. È senza dubbio questa conoscenza precisa e puntuale delle tecniche che permette alle sue creazioni di rivelare appieno la loro dimensione spettacolare. Perché occorre riconoscerlo: Eric CharlesDonatien è uno dei plumassier più talentuosi della sua generazione. E il suo lavoro sarà presto esposto in una mostra, che verrà allestita a Parigi. Eric spiega di essere stato attratto ben presto più dai materiali che dalle forme. Ma ciò non basta a spiegare la genialità e la particolarità del suo mestiere. Occorre essere capaci di lavorare insieme al creativo, e a volte di restare nascosti nella sua ombra. I più grandi stilisti confidano infatti i loro desideri a Eric, e lui e il suo atelier devono comprendere i loro progetti di decorazioni con le piume (a volte decisamente ambiziosi) e saperli interpretare, saper dominare le difficoltà tecniche proprie del loro mestiere e trasformare un progetto in un (bellissimo) prodotto. Chanel, Dior, Saint Laurent, Jean Paul Gaultier, Roger Vivier, Vera Wang o Roberto Cavalli sono solo alcuni dei prestigiosi stilisti per i quali ha saputo far vivere questa materia vibrante. Nel 2010, dopo la scomparsa di André Lemarié e prima dell’imminente trasloco dell’atelier nella nuova sede moderna, Eric Charles-Donatien si mette in proprio e fonda la sua impresa, che vede e vive come un laboratorio creativo. Piume ritagliate in forma di scaglie, aigrettes colorate e iridate: il suo vocabolario formale gravita intorno alla dolcezza così come intorno al rigore, e non conosce limiti. Trasforma tutto ciò che vede, tutto ciò che sente, in forme creative assolutamente originali. «Ho scoperto che sono in grado di lavorare secondo un processo digestivo: mi ci vuole del tempo per utilizzare ciò che vedo. L’immediatezza non è di alcuna utilità per il senso». Oltre all’atelier di plumassier, Eric sviluppa anche le sue collezioni di accessori, lavora il metallo e il cuoio e aggiunge quindi materiali sempre nuovi al suo linguaggio; un linguaggio che al senso somma la sostanza. Perché l’atelier è anche un luogo di trasmissione del saper fare: offrire ai giovani che vengono ad apprendere il mestiere la possibilità di vedere e imparare è infatti un punto d’onore per il maestro. Perché l’anima di Eric Charles-Donatien, decisamente, è leggera. Come una piuma (ericcharlesdonatien.com).
JEAN-YVES THIBERT
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CHRISTOPHE JOSSE
Maestri d ’arte
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Lavorazioni di stile
LA MATERIA CHE
Suggestivi esempi dal Catalogo del Laboratorio del marmo artificiale di Rima: dall’alto, da sinistra, Breccia di Aleppo, Lapislazzulo, Breccia Verde Alpi, Marmo Portasanta. A destra, anfora in finta malachite (marmoartificiale.com).
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LABORATORIO DEL MARMO ARTIFICIALE DI RIMA
È il marmo artificiale, una tecnica decorativa che si è sviluppata nell’800 nel villaggio Walser di Rima, fino in Russia. Questo materiale sa convertire scagliola e pigmenti in un rivestimento prezioso, ma
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TRASFORMA
in Valsesia. I mastri rimesi ne sono diventati eccezionali interpreti portandola attraverso l’Europa, soprattutto consente ad agricoltori e allevatori di diventare artigiani e artisti, quindi imprenditori
di Raffaele Ciardulli
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Lavorazioni di stile
La comunità del villaggio Walser di Rima chiude la Val Sermenza, una piccola valle della Valsesia. E si apre al mondo. Si apre al mondo con il passo spedito di chi è abituato, da generazioni, ad attraversare le montagne, con lo sguardo acuto e paziente del cacciatore d’alta quota, con il rispetto per la vita di chi ne conosce la durezza. Si apre al mondo con mani forti e con ingegno pronto. Si apre al mondo partendo da quei monti, dove ha vissuto tra sacrifici e bellezza, con un’arte rara e preziosa: il marmo artificiale. Un’antica tecnica decorativa di cui i mastri rimesi, a partire dal XIX secolo, diventano eccezionali interpreti, portandola attraverso l’Europa lungo le vie dell’emigrazione, e giungendo sempre più lontano fino alla Russia degli zar. Il marmo artificiale trasforma. Trasforma scagliola e pigmenti in un rivestimento prezioso ma soprattutto trasforma agricoltori/allevatori in artigiani/artisti e quindi in imprenditori. Sono i Viotti, i De Toma, gli Axerio-Cilies, i Ragozzi, gli Axerio-Piazza, i Giavina, i Dellavedova, che guidano cantieri con centinaia di dipendenti dove, però, la celebrazione dei misteri del marmo artificiale è riservata, al chiuso e in segreto, alle sole maestranze. Guidano cantieri aperti nei palazzi del potere, sia religioso sia politico o economico/finanziario. Arrivano in Norvegia, Svezia, Romania, Bulgaria, Russia, Austria, Francia, Serbia e Germania: segni della loro opera compaiono nel Parlamento e nei saloni dell’Università di Vienna, nel palazzo reale del Kaiser, nella Museumsinsel di Berlino, nelle regge di Bucarest e di San Pietroburgo. Più recentemente, si spingono a sud, in Spagna, Marocco e Algeria. Negli anni del secondo dopoguerra, arrivano anche alle sale della Pinacoteca di Brera. Scrive un viaggiatore in vacanza a Rima nel 1871: «A 9-10 anni i fanciulli vanno all’estero a esercitare il mestiere di gessatore e ritornano dopo fatte colossali fortune...». Il marmo artificiale trasforma e porta ricchezza: agli inizi del ’900 Rima diventa il comune con il reddito pro-capite più alto del giovane Regno d’Italia. Il marmo artificiale trasforma Rima e le sue case. Alle tradizionali dimore di origine Walser, straordinariamente conservate nella loro secolare e calda essenzialità, fanno da contrappunto costruzioni realizzate secondo gli stili architettonici in voga tra ’800 e ’900 in Francia, in Germania o in Russia; il marmo artificiale gioca con le boiserie dello chalet Ragozzi, dona un fascino surreale al salone dell’Hotel Alpino, trionfa nella Chiesa di San Giovanni Battista, resta protagonista nelle più recenti costruzioni come il Laida Weg Experience Hotel. Il marmo artificiale trasforma Rima e il suo territorio, al quale restano legatissimi gli imprenditori rimesi che lasciano i segni del loro amore per l’Heimat nelle fontane e nelle mulattiere che portano agli alpeggi, nelle lettere che inviano alle famiglie, magari chiedendo di spedir loro le specialità della cucina locale. L’arte invade i prati e le opere dello scultore Pietro della Vedova vengono raccolte in una gipsoteca realizzata con il concorso di tutta la comunità. Una comunità che ha saputo declinare al presente il lascito straordinario della propria storia. Oggi la miniera di marmo artificiale è ben
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lontana dall’essere esaurita, grazie alla creazione del laboratorio nel 2004, su iniziativa del comune di Rima con finanziamento della Regione Piemonte, proprio per custodire la memoria del passato e far rivivere la tecnica dei maestri. Una miniera di pensieri che si concentrano e si sublimano in gesti pazienti e precisi, che richiamano emozioni, esperienze, insegnamenti. Gesti immersi nell’attimo, ma anche nel sogno di un futuro, certamente nel ricordo del passato. Non è certo un caso che alcuni dei maestri che insegnano l’arte del marmo artificiale, svelandone oggi i segreti a giovani apprendisti che arrivano fin dalle scuole d’arte londinesi, provengano, come Silvio Dellavedova, dalle famiglie che quest’arte hanno a lungo praticato. Un mondo di saper fare e di pazienza. Un solo metro quadrato di marmo artificiale richiede circa 12 ore di lavoro. Si parte stendendo su di una tavola di composizione un impasto di scagliola, collanti e pigmenti colorati. L’impasto, asciugandosi, forma naturalmente delle crepe che vengono riempite con i materiali che richiamano le venature del marmo da imitare. Il composto viene quindi applicato alla superficie da decorare facendolo aderire perfettamente, operazione par-
La lisciatura di questo marmo ci offre esempi eccezionali di pazienza e di sensibilità, di gusto per il dettaglio ticolarmente ardua nel caso di colonne o di superfici irregolari, e quindi levigato. Se l’eccellenza è una questione di sensibilità e di pazienza, di polpastrelli e di occhio, comunque di gusto per il dettaglio, la lisciatura del marmo artificiale di Rima ne è un eccezionale esempio. La superficie viene trattata dapprima con spatola di ferro e carta vetro grossa; poi con ben sette tipi di pietre diverse, via via più dure: pietra pomice grossa, pietra pomice fine, una pietra chiamata terza verde, pietra ollare fine della Scozia, marmo nero antico, pietra rossiccia dell’Elba e infine ematite naturale. Tra una levigatura e l’altra la superficie viene stuccata o pennellata con colla pura. La finitura finale vedrà l’utilizzo generoso di olio paglierino e cera vergine. Una miniera nella quale non mancano risposte a sensibilità squisitamente contemporanee; il marmo artificiale di Rima ha un impatto ambientale ben più limitato di quello che proviene dalle cave convenzionali. Sospeso tra arte, artigianato e artificio, il marmo artificiale, che al tatto risulta meno freddo di quello minerale, non solo riproduce i colori della pietra, dal rosso di Verona al lapislazzulo, dal giallo di Siena al verde Alpi, dal rosa di Portogallo al bianco di Carrara, ma consente di aggiungere alla tavolozza dell’artista o dell’architetto sfumature e colori che nascono dalla sua intuizione esprimendola anche oltre gli apparenti limiti della natura.
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In questa pagina, dall’alto, da sinistra, gli stucchi di Rima in Romania (Bucarest, Casa Monteoru, 1887-89, Impresa Axerio-Cilies); corsi di insegnamento presso il Laboratorio del marmo artificiale di Rima; il cantiere dell’albergo Laida Weg di Rima: artigiani del Laboratorio eseguono il rivestimento della scala in finto lapislazzulo, con la direzione del maestro Silvio Dellavedova; gli stucchi di Rima in Romania (Bucarest, Ateneo della Musica, 1886-97, Impresa Axerio-Cilies). Nella pagina a fianco, stuccatori dell’Impresa Giovanni Dellavedova al lavoro in un cantiere negli anni 30; sfera con supporto in calcare alabastrino policromo. Le foto di Casa Monteoru e della Casa della Musica sono tratte da «La via del marmo artificiale da Rima a Bucarest e in Romania tra Otto e Novecento», a cura di Enrica Ballarè (Edizioni Zesciu, 2010).
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Il restauro di mobili antichi è una delle attività dell’École Boulle, storico centro formativo parigino dedicato ai mestieri d’arte d’eccellenza riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo (ecole-boulle.org).
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Formazione
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Il dono DI UN GESTO 13 ATELIER ATTREZZATI PER L’APPRENDIMENTO DI 23 PROFESSIONI: DAI GRANDI MESTIERI D’ARTE AL DESIGN. ALL’ÉCOLE BOULLE, FONDATA A PARIGI NEL 1886, 200 INSEGNANTI TRASMETTONO IL SAPER FARE testo e foto di Susanna Pozzoli
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Fondata a Parigi nel 1886, l’École Boulle è un polo d’insegnamento apprezzato in tutto il mondo per la varietà dell’offerta formativa, la serietà, la ricchezza dei saperi trasmessi e lo spirito di innovazione. Josiane Giammarinaro, prima donna a diventarne direttore nel settembre 2015, ricorda che l’intento originario della città di Parigi (da cui la scuola tuttora dipende) era quello di creare un centro nazionale per l’apprendimento e la pratica dei mestieri d’arte: per questo fu scelto di costruirla non lontano dal Faubourg Saint-Antoine, zona allora animata dalle botteghe dei più importanti ebanisti. Intitolata ad André-Charles Boulle (16421732), creatore di celebri mobili per la corte di Francia, la scuola fu inizialmente diretta da grandi ebanisti, e la sua didattica restò legata al mondo dei mobili e degli oggetti in legno. Le diverse specializzazioni arrivarono in seguito: tappezzeria, pelletteria, incisione. Insieme all’École Duperré (dedicata ai mestieri del tessile e della ceramica), all’École Estienne (specializzata nei me-
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Dal basso, la direttrice Josiane Giammarinaro; incisione ornamentale su bronzo. A destra, alcuni corsi: arte e tecniche del gioiello, restauro di mobili antichi, tappezzeria e design del prodotto tessile e in cuoio, ebanisteria.
stieri della stampa) e all’Ensam (École nationale supérieure des arts et métiers), l’École Boulle fa parte della Conference des Écoles Supérieures d’Art de Paris, che ha come finalità la creazione di progetti comuni per dare visibilità a questi prestigiosi enti formativi. Nei due ampi palazzi di rue Pierre Bourdan, quello storico con una magnifica corte interna e quello più moderno, sono oggi disponibili 13 grandi atelier perfettamente equipaggiati per l’apprendimento di 23 diverse professioni, dai grandi mestieri d’arte di tradizione francese al design: ebanista, gioielliere, tappezziere, scultore, cesellatore, incisore, orologiaio, restauratore di mobili, tornitore, laccatore, intarsiatore, designer del prodotto, designer di lampade… Mille e cento allievi studiano alla Boulle, seguiti da circa 200 tra professori e personale. La scuola ospita anche diversi corsi serali per l’insegnamento professionale o per l’apprendimento personale. L’insegnamento, che va dal liceo al master, si basa sulla trasmissione del gesto e del sapere specifico di ciascun mestiere, cui si associano lo studio dei pezzi storici, la ricerca e l’innovazione, per arrivare a un’integrazione tra discipline. Agli atelier tradizionali si affiancano quelli digitali, con l’utilizzo di strumenti di progettazione e realizzazione all’avanguardia: ma come sottolinea la direttrice, Josiane Giammarinaro, il rispetto della tradizione è centrale. L’obiettivo della scuola è quello di integrare gli antichi saperi manuali con il design contemporaneo: ovvero, incentivare i designer a incontrare chi ha le competenze artigianali, per creare oggetti che siano il risultato di una vera collaborazione. La scuola può inoltre contare su partnership prestigiose, come quella con Vacheron Constantin o Van Cleef & Arpels, che permettono ai ragazzi di scoprire il mondo del lavoro nel settore che più probabilmente li accoglierà una
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volta diplomati. C’è un vero e proprio spirito nell’insegnamento e nella trasmissione, definito boulliste: la relazione con la scuola rimane molto forte anche dopo la fine del percorso di studi, anche grazie all’unicità del metodo. Negli atelier i ragazzi non sono divisi per classi, e hanno diversi livelli di apprendimento: ognuno lavora al proprio progetto e gli insegnanti seguono e coordinano i passi di crescita degli allievi. Viene anche incentivato molto il lavoro di gruppo, per sviluppare progetti complessi e multidisciplinari. I legami che nascono in questo contesto durano per la vita: chi si è formato a Boulle sarà boulliste per sempre. Spesso gli ex studenti creano nuovi atelier insieme, e tornano a Boulle come insegnanti o per condividere i propri successi: perché oltre a un forte senso di appartenenza si riscontra anche il sentimento di dover trasmettere, di voler condividere. Gli studenti arrivano non solo dalla Francia, ma dai cinque continenti: e nel futuro, oltre all’approfondimento degli
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Sopra, il cortile interno dell’École Boulle. In alto, un’allieva della classe di restauro di mobili antichi col suo professore. A destra, un’allieva ultima l’assemblaggio di una poltrona in legno, metallo e stoffa.
scambi con il Giappone, c’è senz’altro il potenziamento di questo aspetto di apertura verso il mondo, mantenendo saldo il proprio metodo di insegnamento. Francesi o no, tutti sono estremamente motivati: quella che li aspetta è infatti una formazione esigente. Devono lavorare con costanza, e sono spinti dagli insegnanti a dare il massimo: bisogna acquisire un metodo e un rapporto con il tempo completamente diverso da quello che i giovani hanno fuori dalla scuola. Secondo Giammarinaro, ciò che è magico è che gli studenti si piegano facilmente a questa necessità, ai tempi lunghissimi necessari per imparare i gesti giusti, i materiali... Gli allievi sono estremamente concentrati sui progetti e lavorano contemporaneamente con il proprio corpo (l’aspetto della fisicità è naturalmente centrale) ma anche con la mente, la memoria, lo studio. Devono essere inventivi e collaborativi. Inoltre oggi sono moltissime le ragazze iscritte: il 70%, anche nei settori tradizionalmente maschili. «I mestieri d’arte richiedono una formazione complessa», spiega la direttrice. «Chi è in grado di realizzare dei magnifici oggetti non deve solamente aver sviluppato un sapere manuale di alto livello, ma deve anche essere in grado di immaginare, progettare, organizzare il lavoro, scegliere i materiali... Le competenze necessarie sono molteplici. Molto spesso si fa una distinzione tra i lavori manuali e intellettuali, ma in realtà esiste una vera intelligenza della mano». Il design è alla base della nuova visione positiva che si sta diffondendo: «Ha recuperato i mestieri d’arte dando loro una nuova veste. A livello istituzionale, in Francia, i mestieri d’arte stanno ritrovando lustro e sostegno, anche grazie a una volontà politica sempre più chiara in questo senso». L’École Boulle è una protagonista di primo piano di questo momento di ritrovata energia.
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Formazione
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In questa pagina, uno scorcio degli interni di R & Company, con sede a New York all’82 di Franklin Street, durante la mostra «Thaddeus Wolfe», 2015. A fianco: «Bill-iam Oneyearbor», scultura dalla serie «Afreaks» (South Africa, 2015). Niki e Simon Haas (conosciuti come The Haas Brothers) hanno realizzato gli oggetti scultorei di questa serie, espressivi e rappresentativi della storia e della cultura indigena africana oltre che del loro linguaggio estetico, in collaborazione con un gruppo di donne dei villaggi sudafricani chiamate «The Haas Sisters».
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Come UNA FAVOLA di Maria Cristina Didero
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Può una delle gallerie più prestigiose della scena internazionale aver avuto origine sui banchi del mercato? È la curiosa storia scritta da due artisti del vetro, che nel 2000 hanno dato vita alla R & Company di New York. Più che h imprenditori p d’assalto sembrano eredi di Esopo...
Oggi la R & Company, con sede a New York, è una delle gallerie più prestigiose della scena internazionale del design, oltre a essere stata una delle prime negli Stati Uniti a dedicare la sua intera programmazione a questa disciplina. La sua genesi assomiglia più a una favola di Esopo che a un episodio di imprenditoria d’assalto; si tratta di una di quelle vicende capaci di diventare esempio per tutti. Questa è una di quelle storie a lieto fine che ben confermano l’idea che nella vita è necessario lavorare sodo, avere coraggio, intuito e soprattutto anche poco sonno. Quando i due artisti Evan Snyderman e Zesty Meyers, entrambi devoti alla lavorazione artistica del vetro, andavano in giro per l’America degli anni 90 nel tipico pick-up da trasporto (un International Harvester del 1961 che non superava le 40 miglia orarie), l’attività consacrata al design d’autore nel cuore di Manhattan non era certo nei loro pensieri. Due animi liberi come loro, sicuramente
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lontani da qualsiasi tipo di approccio stanziale, non avrebbero mai immaginato e nemmeno sognato di avere un luogo fisso. Tutto iniziò per gioco (e per necessità) come tante vicende simili, ma in questo caso è stata la capacità di capire la potenzialità di quello specifico mercato (in una fase ancora digiuna) che ha fatto la differenza, cioè un business divertente come solo quello che si svolge nell’ambito della creatività e delle cultura può essere: entusiasmante, azzardato e pieno di energia. Snyderman, nato a Philadelfia da una famiglia di galleristi e Meyers, di Providence in Rhode Island, si conoscono nel 1991 al Rochester Institute of Technology perché il B Team, il gruppo performativo che Zesty aveva creato, era stato invitato a una lecture per studenti. Evan, interessato alla materia, si presenta con la sua gigantesca Cadillac bianca del 1968 (con enormi sedili in pelle, ricorda Zesty): per un motivo o per l’altro, da allora i due
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112 non smettono più di frequentarsi. Inizialmente come esperti del vetro si aiutano l’un l’altro per varie commissioni in consegna, poi condividono un’avventura di duro lavoro e tanta intuizione. Nel 1996 a Evan viene offerto di insegnare all’Urban Glass di Brooklyn e capisce che è il momento di lasciare la città natale e il suo immenso loft, ricavato in una stazione dei pompieri dismessa, pieno di progetti, cose ammucchiate e libri diversi (che si potevano consultare in loco ma mai portare fuori dalla soglia di casa), e trasferirsi nella Grande Mela: come disfarsi di tutti quelli oggetti, dipinti e arnesi, molti dei quali di un certo valore che non può portare con sé? Un amico gli lascia gentilmente un po’ di spazio sul suo banco al mercato tra la 11esima strada e la Avenue A, nel Lower East Side, per disfarsene. Anche Zesty deve smaltire certe chincaglierie e così il Flea Market diventa un’avventura comune e a breve un successo per entrambi. Iniziano a vendere i loro averi dal piano basso (il Free Lot sottostante al Pay Lot, dove si paga un dollaro per accedere) e a breve giro di posta si accorgono delle grandi potenzialità di questo mercato. Smaltiti i loro oggetti, creano una macchina sistematica di sgomberocantine che, grazie al loro gusto e intuizione, gli fa accumulare merce davvero interessante perché scelta con determinati criteri.
Recuperano le informazioni sui giornali, scovano gli indirizzi, si svegliano alle 4 di mattina per essere in prima linea già alle 5 con il loro furgone e poter accedere alla merce migliore. Comprano e rivendono con grande facilità, all’inizio per piccole cifre, tra i 5 e i 40 dollari, ma con il tempo e la passione, il lavoro diventa così metodico e coerente da garantir loro vendite costanti e continue. Capitava che vendessero la sera ciò che era stato acquistato, a 400 chilometri di distanza, la mattina stessa. Evan e Zesty iniziano a credere in questa avventura e nel 1997 decidono di comprare uno spazio industriale a Williamsburg (che al tempo era una zona poco battuta) per aprire un piccolo negozio, senza mai lasciare la postazione al mercato nei weekend. Gli introiti crescono: serve un nome. Fino a quel momento identificati con come EZ Pickins (qualche cosa vicino a I Selezionatori EZ), durante una gita up-state NY, in un polveroso retrobottega, i due hanno un incontro fortuito con un grande neon rosso fuoco, a forma di lettera R. È ufficialmente nata la R & Company. Ormai conosciuti tra i banchi del mercato della 26esima, acquisiscono una clientela fissa che cresce (anche econ loro: sono felici di sottolineare oggi che tanti nomicamente) con collezionisti attualili sono stati tra i primi clienti di allora; gran
In questa pagine, alcuni oggetti a metà tra scultura e design dalla collezione di R & Company: sopra, da sinistra, «Collage», ta tavolo in bronzo con ripiano in cristallo, esemplare unico disegnato e realizzato da David Wiseman (Usa, 2013); «Beddy White», dormeuse dalla serie «Beast», esemplare unico realizzato in lana bianca di pecora Islandese, con corna di legno e piedi che richiamano zoccoli di cammello realizzati in fusione di bronzo. Progettata e realizzata da The Haas Brothers (Los Angeles, 201 2015).
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Il nome della galleria? Un incontro fortuito con un grande neon rosso fuoco a fo forma di lettera R
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parte di coloro che varcano la soglia del grande spazio in Tribeca (dal maggio del 2000, all’82 di Franklin Street) sono amici di vecchia data. All’inizio la direzione da prendere era quindi ormai chiara e si allargano gli orizzonti: si viaggia ovunque ma soprattutto in Scandinavia, dove si riempiono container di Eero Saarinen o Tappio Wikkala da spedire in America e rivendere. Serve personale, bisogna strutturarsi, è necessario continuare a investire per crescere. Il resto è noto. Oggi la galleria lavora con artisti influenti tra cui Wendell Castle, David Wiseman, i colorati Haas Brothers oltre a occuparsi commercialmente dei pezzi storici più diversi, da Gruppo Strum a Joe Colombo. Evan ha una passione per il design radicale italiano mentre Zesty per le produzioni provenienti dall’America Latina. La R & Company è invitata a partecipare alle fiere più prestigiose nel mondo, e Evan e Zesty sono attivi più che mai: promotori di Design Miami fin dagli esordi di questa fiera di successo, hanno pubblicato libri importanti degni di una casa editrice, organizzato mostre e curato eventi nei diversi continenti, hanno collaborazioni costanti con musei e personalità di settore senza mai perdere lo spirito avventuriero e divertito degli inizi. Talvolta Evan e Zesty continuano ad alzarsi alle 4 del mattino, ma per andare all’aeroporto.
Dall basso, D b «Leotard», L t d tavolo t l in i fibra fib di vetro t rinforzata rinfor i f t e finitura fi it in i gell di colore l rosso, realizzata li t iin edizione di i li limitata it t a seii esemplari, l i progettato tt t originariamente nel 1968 da Wendell C Castle (Rochester, New York); «Assemblage», lampada da soffitto, esemplare unico, vetro soffiato, molato l to e satinato a mano, progettata e realizzata da Thaddeus Wolfe (Usa, 2015); un altro ambiente della R & Company durante la mostra «Difficult», curata ta da Jim J Walrod (2015). In primo piano, si riconosce l’opera di Masanori Umeda.
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na forza economica, produttiva e culturale per lo sviluppo dell’Italia: è questo che rappresentano per noi i mestieri d’arte. A patto che si abbandonino visioni sterili o manichee
LA CRESCITA DEL PAESE È GIÀ NELLE NOSTRE MANI ORA USIAMO LA TESTA!
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L’inaugurazione della XXI Triennale internazionale di Milano, e in particolare del padiglione «New Craft» allestito presso la Fabbrica del vapore, evoca un tema assolutamente attuale: ovvero, la centralità del mestiere d’arte non solo per il mondo del lusso, ma più in generale per tutte le produzioni di eccellenza che caratterizzano il contemporaneo dialogo tra la mano e la tecnologia. Ci si potrebbe spingere anche un po’ più in là, e rintracciare il tratto inconfondibile del maestro d’arte anche là dove meno ce lo aspetteremmo: nel settore biomedico (pensiamo alle protesi di ultima generazione), in quello del restauro dell’arte contemporanea (avete presente che cosa significhi riattivare un’opera realizzata in materiali organici deperibili?), o in generale nella quotidianità di chi desidera un oggetto bello e funzionale, al di là o al di fuori della mitologia del lusso. Percepire di nuovo i mestieri d’arte come una forza economica, produttiva e culturale centrale per la crescita del nostro Paese è un aspetto fondamentale per traghettare queste attività d’eccellenza nel
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futuro. Ma questa centralità deve essere necessariamente un aspetto composito, complesso, multi-sfaccettato: deve restituire l’abilità interpretativa degli ebanisti che leggono il progetto di un designer e lo traducono in un mobile meraviglioso, ma anche l’intuitività delle sarte che animano il bozzetto di uno stilista, o l’inventiva dello scenografo che dà vita alla visione del regista. E al contempo deve mettere in luce le possibilità che la tecnologia non solo propone, ma quasi impone: una tecnologia che non relega l’uomo a esecutore, ma che al contrario ne deve potenziare la capacità creativa e la finezza esecutiva. Il rischio che si corre, come sempre, è quello della rigidità sterile: credere che le stampanti 3D o il digitale non abbiano nulla a che fare con la produzione artigianale di bellezza, oppure ritenersi convinti che il maestro d’arte sia un relitto del passato destinato a essere tutt’al più evocato con indulgente nostalgia. Retriva e dannosa, questa visione manichea nasconde il tratto fondamentale che invece dovrebbe aiutarci a comprendere come evolverà il mestiere d’arte nel futuro: ovvero, le giovani generazioni. I maestri di domani. Gli apprendisti stregoni di oggi. Che in maniera autonoma e spesso sorprendente desiderano apprendere la straordinaria manualità della tradizione, ma in maniera altrettanto spontanea la filtrano attraverso il prisma della tecnologia digitale: un prisma che li accompagna in ogni momento della giornata, e che ottimisticamente farà splendere di qualche colore nuovo anche le insegne del più autentico mestiere d’arte. Scriveva Ellen Johnson Sirleaf, vincitrice del Nobel per la pace, che se i tuoi sogni non ti spaventano vuol dire che non sono grandi abbastanza. Non so se i sogni dei maestri di domani incutano timore, ma so che devono suscitare rispetto: perché dai loro sogni nascerà la bellezza del XXI secolo. Che sarà fatta sempre anche a mano, come è il caso quando di bellezza si parla.
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