MESTIERI D’ARTE & design Poste Italiane S.p.A-Sped. In Abb.Post.- D.L353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1,comma 1 DCB Milano - Aut.Trib. di Milano n.505 del 10/09/2001 - Supplemento di Arbiter N. 177/XXXIII
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Mestieri dArte Design
oro rosso
Gli inimitabili presepi in corallo di Liverino creati unicamente a mano all’ombra del Vesuvio
germania
La nascita di ogni pennino in casa Montblanc è un’esperienza sensoriale
ITALIA
Oltre 200 preziose miniature di mobili in mostra a Milano tra passato e contemporaneità
portogallo
Trame di lino, seta, organza e cotone: ecco tutti i segreti del Bordado Madeira
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Pioneering since 1906. For the pioneer in you. Pensato per il viaggiatore contemporaneo e ispirato ai primi grandi viaggi per mare dell’epoca moderna, il Montblanc 4810 Chronograph Automatic incarna la precisione e la ricercatezza artigianale dell’orologeria svizzera di pregio. Scopra la storia completa su montblanc.com/pioneering. Crafted for New Heights.
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Editoriale
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LA QUALITÀ COME ANTIDOTO ALLA BULIMIA DEL CONSUMO Non dobbiamo accumulare ma saper scegliere. Facendoci guidare dalla mano dell’uomo, che dà forma alla materia prima La qualità è l’unità di misura del bello, l’espressione del gusto di chi la persegue, che si sublima nella maestria del saper fare. La qualità è la prova, il risultato. È nella mano dell’uomo che dà forma alla materia prima. Con passione e attenzione. Soprattutto al dettaglio. La qualità non ha a che fare con il costo, ma con l’idea stessa di un oggetto: è l’attitudine a svolgere la propria funzione meglio e più a lungo delle altre. Per evitare la bulimia del consumo, un oggetto dovrebbe poter essere utilizzato con soddisfazione e per molto tempo. Sarà migliore per chi lo acquista se svolge il proprio compito bene e a lungo. Oggi è ardua impresa sfuggire alla bulimia del consumo. È una scelta non facile ed è difficile guarire, in un’epoca nella quale prevale l’eccesso smodato, conta chi ha migliaia (se non milioni) di follower, giacche, barche, auto, moto, case in eccesso, per apparire più che per essere. Ma le persone, il mondo, non hanno bisogno di questo. Piuttosto di tornare all’essenziale. Di trovarlo in sé e farlo diventare regola di vita. Meno ma meglio. Non significa chiudersi in un eremo e rinunciare al mondo, ma manifestare appieno la propria personalità e capacità di giudizio.
che la Qualità instaura con le nostre Emozioni, quello che io chiamo «fattore QE», che è fondamentale. Esso nasce nel vertice in basso di un triangolo, dalla profonda cultura Etica: sarà questa a determinare e creare il vertice contrapposto al piede del triangolo, quello Estetico. In sostanza, l’Estetica è la consecutio dell’Etica. Le due, insieme, elevano lo spirito della vita verso l’alto, verso il vertice QE. Quello che conduce verso questo vertice è un percorso che riguarda tutti, nessuno escluso, rispetto alla posizione sociale in cui vive.
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Del resto è con l’uso, e non con l’acquisto, che facciamo veramente nostre le cose. Ma perché venga voglia di adoperarle e conservarle esse devono rivelarsi utili. Fruibilità e affidabilità spostano così il ruolo dell’oggetto dalla competizione alla soddisfazione, e il rapporto del soggetto con esso dalla cupidigia di possedere di più al desiderio di poter fare meglio. Così alla fine sappiamo, o meglio riconosciamo tra tante spinte devianti, che la qualità è nascosta nell’attitudine di una cosa a svolgere la propria funzione originaria meglio e più a lungo delle altre. Il cerchio si chiude. Ma la geometria ci viene in aiuto anche per spiegare il rapporto
Non dobbiamo accumulare ma saper scegliere, nel rispetto delle proprie possibilità economiche. Perché avere un solo paio di scarpe nel guardaroba, se sono di qualità, è meglio che averne dieci di dozzinale fattura. E chi non può permettersi un abito sartoriale di Caraceni, potrà comunque presentarsi al mondo con pertinenza rivolgendosi a realtà più in linea con il suo portafoglio, senza per questo sentirsi sminuito né tanto meno scivolare verso il basso. Abbiamo detto che la qualità è l’unità di misura del bello. Ebbene, questa unità di misura è universale. Anche se l’Italia vanta un immenso patrimonio di manualità e creatività artigianale, è interessante quindi volgere lo sguardo alla vicina Svizzera e agli altri Paesi europei, per svelarne le abilità manuali. Lo abbiamo fatto anche in questo numero. I meravigliosi presepi interamente realizzati in corallo a Torre del Greco parlano lo stesso linguaggio dei colorati cristalli boemi che escono dalla vetreria Moser. Il lino ricamato nell’isola portoghese di Madera esprime la stessa maestria dei preziosi filati per moda di Lineapiù Italia. Del resto, Bruno Munari ci ha insegnato che per progettare un oggetto occorre studiare il comportamento dell’individuo, i suoi rituali, le sue abitudini. Solo così potrà parlare un linguaggio universale. Quel linguaggio che si nutre sempre di qualità.
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Mestieri dArte Design
ORO ROSSO
Gli inimitabili presepi in corallo di Liverino creati unicamente a mano all’ombra del Vesuvio
GERMANIA
La nascita di ogni pennino in casa Montblanc è un’esperienza sensoriale
ITALIA
Oltre 200 preziose miniature di mobili in mostra a Milano tra passato e contemporaneità
PORTOGALLO
Trame di lino, seta, organza e cotone: ecco tutti i segreti del Bordado Madeira
In copertina, presepe napoletano in corallo creato da Liverino, composto da un mosaico di centinaia di piccole tessere giustapposte. Foto di Carlo Falanga.
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Editoriale LA QUALITÀ COME ANTIDOTO ALLA BULIMIA DEL CONSUMO di Franz Botré
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ALBUM di Stefania Montani Lavorazioni di stile NATIVITÀ CORALLINA di Federica Cavriana Icone del design L’INVENTORE DI SEGNI di Ugo La Pietra
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Craft tradizionale ANIMA INSTANCABILE di Giovanna Marchello
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Processi creativi GUANTO DI SFIDA di Luca Maino
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Eredità da tramandare MISSIONE REGALE di Akemi Okumura Roy
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Suggestivi dialoghi SOFISTICATE MINIATURE di Alessandra de Nitto
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Musei segreti ALI E RADICI di Simona Cesana
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Decoratori di attimi TEMPO DI RARITÀ di Giovanna Marchello
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Mostre LA SERENISSIMA A NUDO di Stefano Karadjov Trasparenze LA LEGGENDA DI GHIACCIO di Alberto Gerosa Imprese SUL FILO DI LANA di Andrea Tomasi Parlando di scrittura IL SUONO DELLA PERFEZIONE di Raffaele Ciardulli Maestri contemporanei LA SVOLTA È DIETRO L’ANGOLO di Ali Filippini Interni VIETATO IL SUPERFLUO di Andrea Tomasi Eccellenze dal mondo IL RICHIAMO DEL RICAMO di Francisco Oliveira Tradizioni da preservare IL SOGNO DI COLBERT di Alberto Cavalli Linguaggi progettuali COLLEZIONISTA DI IDEE di Ali Filippini
English Version
Opinioni 14
Fatto ad arte di Ugo La Pietra IL TURISMO UCCIDE LA NOSTRA MANIFATTURA
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Pensiero storico di Maurizio Vitta CONFRONTO AD ARMI PARI SULLA VIA DEL GUSTO
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Ri-sguardo di Franco Cologni SULLE ORME DI MICHELANGELO
LA MIA VIGNA, LA MIA VITA. Ogni vitigno ed ogni vino sono racconti unici, di esperienza, tecnica e destino, che scrivono ogni anno una pagina della nostra storia.
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Collaboratori
A RTI G I A NI D E L L A PA R O L A AKEMI OKUMURA ROY
Dopo essersi occupata della comunicazione per grandi brand del lusso, lascia Tokyo e il natio Giappone per seguire a Londra il marito, fotografo inglese. Lavora ora come corrispondente per numerosi media nipponici.
ANDREA TOMASI
Giornalista, ama raccontare storie di grandi dinastie o di chi ha saputo farsi da solo inseguendo sogni, idee e intuizioni. Si è laureato al Dams in Storia del cinema nonostante i suoi genitori lo volessero cuoco o architetto. Dopo una lunga esperienza in redazione oggi si divide tra l'attività di freelance e quella di consulente editoriale.
RAFFAELE CIARDULLI
GIOVANNA MARCHELLO
ALBERTO GEROSA
ALI FILIPPINI
STEFANO KARADJOV
SIMONA CESANA
STEFANIA MONTANI
MAURIZIO VITTA
Di solida cultura classica, per 18 anni è nel Gruppo Richemont, per 11 come direttore marketing di Cartier in Italia, poi presso Chantecler, Stefan Hafner, Roberto Demeglio. Oggi mette a frutto la sua esperienza in marketing e comunicazione come consulente e formatore nell’ambito di progetti didattici di alto profilo.
Laureatosi in estetica a Ca’ Foscari, è stato per un decennio docente a contratto di letteratura russa all’università di Vienna. Giornalista professionista, è stato direttore del periodico d’arte Goya e collabora con riviste specializzate in strumenti di scrittura e orologi, tra cui anche Penna.
È direttore progetti e sviluppo di Civita Tre Venezie e collaboratore del Gruppo Marsilio Editori. Curatore di eventi, è docente a contratto in progettazione degli eventi culturali e produzione esecutiva di mostre all’Università Cattolica di Milano.
Giornalista, ha pubblicato due guide alle Botteghe artigiane di Milano e una guida alle Botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.
Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte
Direttore generale: Alberto Cavalli Direttore progetti editoriali: Alessandra de Nitto Organizzazione generale: Susanna Ardigò
MESTIERI D’ARTE & DESIGN Semestrale – Anno VIII – Numero 16 Dicembre 2017 Direttore responsabile ed Editore: Franz Botré Editor at large: Franco Cologni Direttore creativo: Ugo La Pietra Vicecaporedattore: Andrea Bertuzzi Grafica: Deborah Bassani
Hanno collaborato a questo numero Testi: Federica Cavriana, Simona Cesana, Raffaele Ciardulli, D&L Servizi editoriali (revisione testi), Ali Filippini, Alberto Gerosa, Stefano Karadjov, Luca Maino, Giovanna Marchello, Stefania Montani, Akemi Okumura Roy, Francisco Oliveira, Francesco Rossetti (editing), Andrea Tomasi, Maurizio Vitta Immagini: Simon Bielander, Claude Bornand, Thibaut Chapotot, Arnaud Conne, Heidi Corpataux, Matteo Cupella, Carlo Falanga,
Cresciuta in un ambiente internazionale tra il Giappone, la Finlandia e l’Italia, appassionata di letteratura inglese, vive e lavora a Milano, dove si occupa da 20 anni di moda ed è specializzata in licensing.
Ha un dottorato in design presso l’università Iuav di Venezia con una ricerca sulla storia dell’esporre in ambito sia merceologico sia culturale. Collabora con riviste di settore, affiancando all’attività giornalistica ed editoriale quella formativa e curatoriale.
Dopo la laurea in design al Politecnico di Milano si occupa di arte applicata e design artistico collaborando con gallerie, riviste e artisti. Con l’associazione culturale Mille Gru, che ha fondato, realizza progetti culturali ed editoriali. Dal 2007 affianca Ugo La Pietra nelle attività di studio e archivio.
È autore di vari libri sull’estetica dell’esperienza quotidiana: nel campo del design (Il disegno delle cose, Il progetto della bellezza), comunicazione visiva (Il sistema delle immagini, Storia del design grafico), modelli di vita negli spazi architettonici (Dell’abitare), arti industriali (Il rifiuto degli dei, Le voci delle cose).
Fondazione Musei civici di Venezia, Åbäke and Martino Gamper, Dario Garofalo, Fabrice Gousset, Ivbam, Lineapiù, Massimo Listri, Angus Mill, Mobilier National, Mudac, Laila Pozzo, Susanna Pozzoli, Antoine Rozès, Studiobonon Photography, Benjamin Taguemount, Guido Taroni, Andreas Zimmermann Traduzioni: Language Consulting Congressi, Giovanna Marchello (editing e adattamento)
Pubblicazione semestrale di Swan Group srl Direzione e redazione: via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano Telefono: 02.31808911 info@arbiter.it
PUBBLICITÀ A.MANZONI & C.
Mestieri d’Arte & Design è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Via Lovanio, 5 – 20121 Milano © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte.
Via Nervesa 21, 20139 Milano tel. 02.574941 www.manzoniadvertising.com
Tutti i diritti riservati. Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.
www.arbiter.it www.fondazionecologni.it www.mestieridarte.it
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IL TURISMO UCCIDE LA NOSTRA MANIFATTURA
I souvenir, seppur utili a sostenere le spese dei musei, sono spesso prodotti in Cina, e sono penalizzanti per il nostro artigianato. Il turista, infatti, conoscendo già quello che acquisterà, tronca sul nascere i tentativi dei creativi, animati dall’intenzione di far evolvere le produzioni tradizionali
L’intellettuale e il politico, ma anche l’uomo della strada, sanno e ripetono da tempo che l’Italia potrebbe vivere e prosperare investendo sui nostri beni più preziosi: il turismo e i beni culturali. È vero, ogni giorno crescono i visitatori del nostro Belpaese e tutti sanno che qualsiasi turista/viaggiatore ama ritornare al proprio Paese portando le prove della propria esperienza: il souvenir! Il souvenir, quell’oggetto capace da solo di evocare un luogo, un momento, un’opera d’arte. Per ogni luogo culturale, dai più grandi musei del mondo (Metropolitan Museum di New York, Louvre di Parigi, National Gallery di Londra…), al più periferico museo etnografico, fino ai luoghi sacri, questi piccoli oggetti, che costano poco e che tutti «dobbiamo» comprare per avere la testimonianza del nostro avvenuto passaggio di visitatori, rappresentano il modo migliore per sostenere le spese dell’organismo museale.
le sia di significato, ma soprattutto non arricchiscono la nostra piccola o grande impresa: oggetti che non coinvolgono quindi né la capacità di progetto del nostro ingegno creativo né il nostro saper fare. Il secondo è legato al turismo di massa, che da sempre penalizza il nostro artigianato. Ormai tutti hanno capito che il turista medio, viaggiando dal suo luogo d’origine verso una meta culturale, ha bene in mente, fin dalla partenza, cosa visiterà e cosa di conseguenza acquisterà.
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Un procedimento che, allo stesso modo, è evidente anche all’interno del nostro vasto territorio, ricchissimo di opere e monumenti e che purtroppo dà luogo a due fenomeni negativi in continua crescita. Il primo riguarda l’infinità di orribili oggetti, poco significativi, che vengono prodotti ormai da diversi decenni fuori dall’Italia, molto spesso da produttori cinesi; oggetti che non solo non portano nessun valore, sia fattua-
Per cui tutto l ’artigianato di tradizione, che in questi ultimi decenni è sopravvissuto attraverso il turismo (le ceramiche di Caltagirone sono apprezzate soprattutto dai turisti tedeschi, quelle di Vietri sul mare, sulla costiera amalfitana, sono acquistate dagli americani…) è sempre più legato a questo genere di flussi organizzati. Turismo che non concede nessuna trasformazione, aggiornamento o miglioramento del prodotto, poiché coloro che visitano questi luoghi sono alla ricerca di quegli oggetti che ancora prima di partire per il loro viaggio si erano prefissati di acquistare. Così addio a tutti i tentativi fatti da volenterosi progettisti, animatori, artisti, cultori della materia di cercare di partire dalla tradizione per rinnovarla, animati dalla nobile intenzione di far evolvere queste produzioni tradizionali verso nuovi mercati, per il benessere culturale e produttivo dei nostri artigiani!
Salvatore Siragusa
La fabbrica delle note di carta
La fabbrica delle note di carta Storia delle Arti Grafiche La Musica Moderna (1930–2007)
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Pensiero storico
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CONFRONTO AD ARMI PARI SULLA VIA DEL GUSTO È un elemento esteticamente attivo e sostanzialmente anarchico che governa le nostre scelte. Il terreno dove arte e artigianato dialogano da quando i loro confini si sono dissolti, complice il design
«That is the difference between a mechanic and an artist; he (the mechanic) cannot conceive as an artist». Le parole di Jacob Epstein, pronunciate nel corso del processo intentato da Brâncus¸i contro la sentenza del tribunale americano che nel 1926 aveva rifiutato di classificare alla dogana come opera d’arte il suo Oiseau dans l’espace, riecheggiano convinzioni antiche. All’inizio, fu lo schema platonico che definì un letto come un’idea, un oggetto di artigianato e un’immagine, facendo però sì che i due estremi, l’idea e l’immagine, si unissero in nome del pensiero e della creatività, e lasciando l’oggetto come semplice risultato dell’umile lavoro di un falegname. Alla fine, fu la nozione del «disinteresse» kantiano a chiudere definitivamente la partita, nonostante la più sottile distinzione proposta da Luigi Pareyson, che riconobbe sia al «lavoro del più umile operaio» sia al «capolavoro del più abile artigiano» un valore estetico, ma a patto che le loro opere mostrassero di valere «solo se riscattate da una loro estrinseca e meccanica applicabilità e inventivamente incorporate nelle regole individuali dell’opera d’arte». La storia ha in seguito ripresentato ossessivamente le antiche distinzioni fra arte e mestieri, ma dichiarandosi con ciò impotente a sbrogliare una matassa che, col tempo, si è fatta sempre più ingarbugliata. Oggi tuttavia l’indi-
gnazione di Brâncus¸i fa sorridere. Dopo la mobilia disegnata dai futuristi, che ha trovato il corrispettivo artistico negli interni della pop art, i confini accuratamente segnati tra i due settori culturali si sono dissolti. Complice confesso è stato il design, che ha ribaltato senza troppi riguardi la loro opposizione canonica, sostituendola con le più sfumate nozioni di «progetto» e «funzione».
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Esso però ha finito con l’arenarsi nelle secche di una tecnologia sempre più raffinata, che ha ridotto il «fare» dell’artista e quello dell’artigiano a un’unica sequenza calcolata e stabile. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la Biennale di Venezia si presenta spesso come una mostra di design, mentre il Compasso d’oro si compiace dei suoi risvolti artistici. Se un giorno si darà una storia non edulcorata di questo processo, se ne dovrà dedurre immancabilmente la confusione, non in quanto eruzione disordinata di energie creatrici, come in un tempo lontano essa si dimostrò, ma solo a causa del vuoto d’idee nel quale essa ha navigato senza vederlo. Eppure, a leggere questa storia con occhi attenti alle sfumature, se ne ricava una chiave di lettura, timida e tremolante, ma fissa come una stella polare. Non si tratta della controversia fra arte e artigianato, sulla quale per secoli si è accanita una polemica pretestuosa, ma del confronto tra artigianato
*Filosofo e critico d’arte
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Pensiero storico
e design, le cui radici storiche e sociali affondano in un terreno agitato, ma non privo di improvvise aperture e concomitanze. Comune a essi restano anzitutto il concetto di «funzione», che segna la qualità utilitaristica di qualunque oggetto d’uso, da un secretaire Biedermeier a una pesciera di Sambonet, e quello di «forma», che costituisce per entrambi un valore aggiunto, nel quale si rispecchia la qualità estetica dell’oggetto, da una sedia di Morris a una poltrona di Pesce. Le cose però si complicano nel momento della manifattura, non tanto per la vecchia questione dell’oggetto realizzato a macchina o a mano, quanto perché entra in ballo il fattore «replicabilità» che distingue il «pezzo unico» dal pezzo prodotto industrialmente all’infinito. Il problema riguarda, che lo si voglia o no, l’aspetto formale dell’oggetto: la sua bellezza è nell’opera artigianale tutta compresa nel manufatto, mentre in quella meccanica, o più precisamente di design, essa è tutta contenuta nel progetto.
contempla la «decostruzione» e da tempo Gillo Dorfles ha riconosciuto che non esiste un valore assoluto dell’arte, bensì «diversi modi di fruizione e di interpretazione, corrispondenti alle diverse personalità di chi osserva l’opera d’arte e variabili a seconda dei tempi, delle situazioni psicologiche, della stessa sensorialità del soggetto». Ma proprio su quelle diverse fruizioni e interpretazioni l’artigianato e il design vantano i loro sacrosanti diritti, che anzi aumentano col regredire culturale dell’arte. Il predominio del «gusto» appare proprio laddove l’artigianato e il design si confrontano su un terreno a entrambi sconosciuto, ma da cui essi traggono la vitalità della loro esistenza. Nell’aspro confronto che li oppone, l’humus vitale dei desideri, delle aspettative, degli elaborati diagrammi delle scelte del loro istitutivo destinatario (pubblico, utente, cliente, consumatore), forma un unico scenario sul quale essi proiettano la loro cangiante fisionomia, assimilando nelle loro scelte le tendenze e i sogni della società.
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La questione, che in arte promuoverebbe a capolavoro un «pezzo unico» e condannerebbe una copia come falso, appare però sotto un altro aspetto. In effetti, essa è pronta a mostrarsi sotto un’altra luce semplicemente rovesciandola e ponendo la questione sociale al posto del puro godimento estetico. Così, è facile scoprire come il concetto di «irripetibilità», se declinato sul piano di un’etica sociale, assume toni negativi, mentre l’idea di una estetica ampiamente condivisa si colora di una validità indiscussa. L’oggetto personalizzato di un artigiano sconta la sua unicità, della quale invece il design si sbarazza in nome dell’eguaglianza sociale, pagando però lo scotto di una «estetica diffusa» o, se si vuole, di un’esteticità standardizzata. C’è però un terreno sul quale artigianato e design si incontrano e si confrontano alla pari, ed è quello del «gusto». Il termine è antico e, per quanto riguarda la storia dell’arte, obsoleto. Già Hegel lo guardò con sospetto. Esso predominò sull’estetica fino al XIX secolo, allorché uno sbadato personaggio di Baudelaire lasciò cadere la sua aureola nel fango di una viuzza di Parigi. Oggi se ne
Nella loro cifra estetica si raccoglie la profondità delle emozioni: la loro adesione al corpo del soggetto, la loro completa mancanza di intenzionalità, il loro valore non conoscitivo, perfino il loro rifiuto di identificarsi in un sentimento, fanno del «gusto» un elemento esteticamente attivo, ma sostanzialmente anarchico, che governa le nostre scelte, tra cui quella degli oggetti. Questa paroletta indecifrabile, questo convitato di pietra, che contiene però il segreto della forma di tutte le cose, costituisce il vero legame e il terreno di confronto tra artigianato e design, in nome non di una poetica personale, ma dell’ampio e molteplice universo di una collettività che li accoglie e li giustifica. Tornano alla mente le riflessioni di Remo Cantoni, che approfondendo i temi della filosofia antropologica, richiamò l’attenzione di tutti su un mondo «stratificato e molteplice», capace di tenere conto «della problematicità e della pluridimensionalità dell’uomo». È dunque da qui che bisogna ripartire per affrontare le sfide di un tempo che è già oggi, e non più domani.
La storia ha ripresentato ossessivamente le antiche distinzioni fra arte e mestieri, dichiarandosi impotente a sbrogliare la matassa
The Michelangelo Foundation is proud to present The Master’s Touch, the English edition of unique research on defining excellence in craftsmanship. This international edition includes a fascinating epilogue featuring additional interviews with European artisans that reinforce the code of artisanal excellence developed by the original Italian volume. The book will be available in selected bookshops, through on-line retailers and on www.marsilioeditori.it
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di Stefania Montani
CRAFTED SOCIETY Crafted Society è un progetto nato nella primavera 2017 da Martin Johnston, un imprenditore inglese con esperienza nel mondo della moda, con l’intento di promuovere l’artigianato italiano di eccellenza, e supportare le scuole di formazione professionale. Partendo da tre principi per lui fondamentali, qualità-tradizione-responsabilità sociale, Johnston ha coniato il suo motto «Luxury for good», riferendosi non solo al «fatto bene» che è componente essenziale delle creazioni artigianali, ma anche allo scopo etico e sociale del progetto. Parte delle somme ricavate, infatti, è destinata a progetti sociali volti a dare visibilità ai tanti artigiani sconosciuti che lavorano per grandi marchi e a mantenere viva la tradizione degli antichi mestieri. A tal proposito, infatti, una percentuale delle vendite sarà donata alla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte per finanziare alcuni tirocini formativi. A concepire e disegnare la collezione Crafted Society è Lise Bonnet, direttore creativo del brand, compagna nel lavoro e nella vita di Martin Johnston. Insieme festeggiano il debutto sulla loro piattaforma di sneaker, jeans, sciarpe in cashmere, scarpe e cappelli: tutti capi di abbigliamento esclusivamente made in Italy. Le sneaker sono realizzate a mano dalla Ifg di Corridonia, guidata da Mario Grassetti, che con il figlio Giacomo rifornisce alcune delle più importanti case di lusso nel mondo. Il denim per i jeans, invece, viene prodotto da artigiani veneti specializzati. Partner del brand è l’industria tessile Berto. Lo sviluppo sartoriale è affidato al Laboratorio IMjiT35020 di Due Carrare. Le calzature sono realizzate dalle Pelletterie Ales di Tolentino. Ci sono poi le sciarpe in seta e cashmere impreziosite dall’estro creativo dell’artista Roger Selden. A rifinire l’opera sono i maestri artigiani del Lanificio Arca di Prato, fondata da Cino Cini. Ci sono infine i cappelli Panama della fabbrica Sorbatti di Montappone, nelle Marche, capitale italiana del cappello. Vendite su piattaforma e-commerce. craftedsociety.com
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THE IRISH HANDMADE GLASS COMPANY Waterford (Irlanda) Henrietta street 11 Waterford è un’antica cittadina irlandese fondata dai Vichinghi nell’VIII secolo, sull’estuario del fiume Suir. La sua fama è dovuta alla lavorazione del cristallo che ancora oggi costituisce una delle grandi attrattive della città. Degna rappresentante di questa antica tradizione manifatturiera è la Irish Handmade Glass Company, fondata da un gruppo di maestri vetrai nel 2009. I nomi di questi straordinari artigiani sono Richard Rowe, Derek
Smith, Danny Murphy e Tony Hayes. Tutti loro hanno imparato come apprendisti a 15 anni, seguendo le orme dei loro padri. E da allora non hanno mai smesso di affinare le loro tecniche. Seguendo la tradizione dei maestri artigiani delle botteghe di un tempo, questi eccellenti vetrai hanno deciso di istituire all’interno della vetreria dei corsi di perfezionamento professionale per trasmettere il loro sapere alle nuove generazioni. Negli ampi locali della loro sede, la Kite Design, vengono eseguite tutte le fasi della lavorazione del vetro. theirishhandmadeglasscompany.com
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PATRICK DAMIAENS Maaseik (Belgio), Aan de Lievenheer 5 Patrick Damiaens è un ebanista fiammingo che scolpisce secondo la tecnica di Liegi, una raffinata procedura messa a punto nel ’700 e utilizzata per impreziosire cassettoni, armadi, sedie, pannelli per i signori di quel tempo. Dal 1992, data di apertura del suo atelier di Maaseik, in Belgio, la sua sfida quotidiana è rendere ogni pezzo unico e dargli una storia. Damiaens utilizza sequenze di lavoro predefinite: prima prepara uno schizzo con una matita rossa, che in seguito ricopia su un foglio di carta da lucido; poi trasferisce i motivi ornamentali da lui creati su essenze pregiate, riportando ogni particolare con una punta a tracciare. Imprime così sui pannelli di legno foglie, fiori, frutti, bacche, strumenti musicali, putti, riccioli ispirati a modelli settecenteschi, stemmi nobiliari. Per «sgrossare» il legno e preparare la superficie per le fasi successive si serve di una fresatrice verticale. Munito poi di sgorbie, lime e strumenti sottilissimi, scolpisce ogni dettaglio fino a ottenere il risultato desiderato. Le sue sculture vengono spesso paragonate a dei pizzi in legno. Come quelle del suo maestro ideale, l’ebanista del ’700
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Grinling Gibbons, noto per le cascate di fiori e di frutta che decoravano mobili, pareti e camini, e che lo resero famoso. Oltre a creare decori ex novo, Patrick Damiaens è un abile restauratore che lavora anche per i musei e per le fiere di antiquariato. Propone anche corsi di formazione a chi desidera apprendere questo raffinato mestiere che, come sostiene lui, «non ti lascia mai il tempo per annoiarti, perché ogni progetto è unico, diverso, e ha la sua storia». patrickdamiaens.be
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PHILIPPE DEBEERST
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ATELIER DE L’ALLIANCE Saint-Just-et-Vacquières (Francia) Le mas Champion Sara Bran è una straordinaria orafa, che dopo anni di studio e di pratica ha messo a punto l’innovativa tecnica «dentelle sur or» per realizzare monili che sembrano leggerissimi pizzi. Il suo studio e la sua ricerca sono stati premiati dai tanti riconoscimenti che l’hanno vista vincitrice del Grand
Prix de la Création 2011, finalista al Prix Liliane Bettencourt pour l’Intelligence de la Main, oltre che ospite nelle esposizioni di gioielli in alcuni musei e gallerie d’arte. I materiali da lei lavorati sono l’argento e l’oro a 18 carati, spesso impreziositi da diamanti e pietre importanti. Nel suo Atelier de l’Alliance, a Saint-Just-et-Vacquières (poco lontano da Avignone), Sara crea i suoi gioielli seguendo la tradizione orafa in tutti i procedimenti. La «dentelle sur or» è la parte innovativa del suo saper fare artigianale, che consiste nell’incidere una o più superfici, sovrapponendo le trame, creando dei movimenti con le diverse facce, completando la superficie con l’aggiunta di perle o pietre preziose. La padronanza dei gesti le consente di incidere a mano libera i suoi impalpabili pizzi. Il Museo delle arti decorative di Lisbona la ospita regolarmente mettendole a disposizione i documenti sugli antichi pizzi portoghesi. sarabran.fr
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GALÉRIE KREO Parigi, rue Dauphine 31 Kreo è una delle più importanti gallerie francesi di design: l’ha aperta nel 1999 Didier Krzentowski che insieme alla moglie Clémence ha destinato il suo spazio nel XIII arrondissement al design e alla sperimentazione. Di qui sono passati tanti mostri sacri quali Ron Arad, Ronan & Erwan Bouroullec, Pierre Charpin, Naoto Fukasawa, Jaime Hayon, Konstantin Grcic, Hella Jongerius, Alessandro Mendini, Jasper Morrison, Marc Newson, Martin Szekely, Studio Wieki Somers, Ettore Sottsass, i fratelli Campana... Racconta Clémence Krzentowski: «Ci siamo conosciuti circa 30 anni fa e quello che maggiormente mi colpì di Didier fu la curiosità per tutte le cose, il suo desiderio di studiare e approfondire, la sua perenne caccia al tesoro che l’ha portato a scoprire tanti nuovi talenti». E Didier conferma: «Quando vedo un pezzo diverso dal solito, inusuale, mi incuriosisco. È come ascoltare una nuova storia...». Instancabili collezionisti e ricercatori di nuove soluzioni soprattutto nel campo dell’illuminazione, i coniugi Krzentowski nel 2008 hanno trasferito la loro galleria Kreo in rue Dauphine, nel cuore di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi. Ma Kreo è molto più di uno spazio espositivo, è anche un laboratorio o meglio una fucina di idee e progetti che vengono realizzati dai designer contemporanei più innovativi, in edizione limitata e in esclusiva per Kreo. La galleria ha aperto da qualche anno un secondo avamposto a Londra, nel quartiere Mayfair. Oltre a presentare collezioni di design contemporaneo, è il punto di riferimento per le lampade francesi e italiane dagli anni 40 agli anni 80, periodo del quale Didier Krzentowski è grande esperto. Ha pubblicato due libri sulle luci dagli anni 50 a oggi, The complete designers’ lights, ognuno dei quali raccoglie 800 modelli di lampade. galeriekreo.com PÂTISSERIE DOLCETTI Ginevra, place du Bourg-de-Four 9 Una grande passione per la pasticceria tenuta nel cassetto. Poi il cambio di vita a 35 anni, il trasferimento
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con la famiglia a Ginevra, la sfida: ricominciare a studiare per diventare mâitre pâtissier, frequentando corsi, master e facendo apprendistato con uno dei migliori chef pasticcieri francesi, mâitre Brocard. Oggi si può dire che Stefania Braggiotti è riuscita a dare vita al suo sogno: da cinque anni è nata Dolcetti - Pâtisserie Fine Italienne, un laboratorio artigianale che ogni giorno sforna dolci prelibati seguendo le ricette della tradizione regionale italiana e svizzera e consegnandoli a domicilio. I suoi clienti sono sia privati sia ristoranti oppure caffetterie. «La mia forza consiste nell’utilizzare materie prime di alta gamma, in parte provenienti dall’Italia, come farina, grano cotto, ricotta, frutta candita, e in parte dalla Svizzera, come latte, burro o cioc-
colato. Tra i miei dolci più richiesti c’è la pastiera napoletana, la cassata, lo strudel, il babà. Ma soprattutto la pasticceria mignon e i cannoli che realizzo con una sfoglia sottilissima e riempio al momento della consegna, affinché rimanga croccante». Le ordinazioni si possono effettuare online, 48 ore prima della consegna. patisserie-dolcetti.ch 5
R.T. RESTAURO TESSILE Albinea (Reggio Emilia) via Monterampino 17 Sulle pendici dell’Appennino emiliano, in una vecchia casa colonica ristrutturata, c’è uno dei più rinomati laboratori di restauro tessile d’Italia. Lo hanno aperto quasi 25 anni fa Angela Lusvarghi, Ivana Micheletti e Cristina Lusvarghi, cui
25 si è aggiunta in un secondo tempo Stellina Cherubini che, appassionate del loro lavoro, fanno veri miracoli portando a nuova vita ogni genere di tessuto antico. Dagli abiti del ’700 (calzature comprese) alle tappezzerie, dagli arazzi del ’500 ai pizzi e ai merletti. Il loro quartiere generale è un ex fienile ristrutturato: sul soppalco vengono tinti i filati e le sete, mentre al piano terra avvengono le varie fasi delle ricostruzioni manuali ad ago. Per il lavaggio c’è anche un’ampia vasca dotata di ponteggio mobile per spostare gli arazzi più grandi. Se invece il tessuto necessita di un trattamento a secco, vengono utilizzati solventi organici, che evaporano lasciando i colori inalterati. Per riposizionare la trama e l’ordito, dopo il trattamento a vapore, si stendono i tessuti sopra tavoli di cristallo. Le metodologie applicate ai restauri rispondono sempre ai criteri di reversibilità, di intrusione minima e di rispetto di ogni dato storico, artistico e sartoriale dell’opera originale. Tra i numerosi lavori eseguiti c’è il restauro di 40 abiti femminili e maschili e di vari accessori databili tra il 1795 e 1815 per l’esposizione Napoleone e l’impero della moda (2010) alla Triennale di Milano, il restauro del sipario del Teatro Ariosto di Reggio Emilia, il restauro degli abiti appartenuti a Benedetto XI, esposti prima al Quirinale e, fino al mese scorso, al Mao di Torino. restaurotessile.it
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RAFA PÉREZ Haro (Spagna), Breton Herreros 17 Molti in Spagna, suo Paese natale, lo indicano come l’erede di Gaudí, per il carattere forte e originale delle sue opere. Confessa con semplicità il talentuoso Rafa, che ha ricevuto il premio speciale Fondazione Cologni in occasione del concorso «Open to art» organizzato dalla Galleria Officine Saffi di Milano: «I miei lavori a volte sorprendono anche me! Io utilizzo in genere impasti di argilla con caolino, ovvero porcellana, che mescolo e combino insieme all’argilla più scura, a volte arricchita da minerali, prima di
cuocere il tutto nel forno ad alta temperatura. L’argilla scura tende a espandersi, creando degli avvallamenti che sembrano crateri vulcanici e assumendo delle conformazioni che spesso vanno oltre la mia immaginazione, anche se sono io che predispongo gli strati e le forme. Questo è il fascino di trattare dei materiali così ricchi di proprietà e di componenti». Le sue straordinarie forme sono il frutto di un lungo processo di sperimentazione fatto con vari materiali attraverso gli anni. Nel suo laboratorio, Pérez lavora l’argilla a lastra, la stende col mattarello, sovrappone altri strati sottili variando la combinazione degli impasti, li taglia con la taglierina, arrotola le strisce di impasto come fossero nastri, poi li assembla conferendo alla composizione la forma finale desiderata, che spesso completa con colori. Una delle sue opere più importanti, Evoluzione del cilindro, è stata recentemente presentata al Museo nazionale della ceramica González Martí di Valencia accanto alle opere di alcuni dei più grandi artisti creatori di ceramica quali Antonio Gaudí, Joan Miró, Pablo Picasso, Eduardo Chillida, Antoni Tapies e Miquel Barceló. Peréz ha ricevuto importanti premi in Francia, Portogallo, Spagna, Danimarca. rafaperez.es
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ALAN DODD Londra tel. +44 (0)7788 151248 Grande studioso di arte, storia e pittura, Alan Dodd è uno straordinario artista in grado di dipingere decori parietali e vedute in perfetto stile con gli ambienti delle case. La sua bravura è testimoniata dal suo curriculum: basti dire che tra i dipinti murali da lui creati ci sono cinque grandi «capricci» realizzati per la Painted Room del Victoria & Albert Museum, commissionati da Sir Roy Strong nel 1986; dei pannelli architetturali ispirati a Piranesi per le decorazioni dell’Alexandra Palace; il soffitto pompeiano della New Picture Room al Sir John Soane Museum di Londra, che trae spunto da disegni inediti del 1890. Mentre a Spencer House ha ripreso la decorazione della balaustra trompe-l’œil sulla settecentesca scala progettata dall’architetto Vardy. Spaziando dagli sfondi barocchi a quelli neoclassici, dai soffitti pompeiani alle chinoiserie, Dodd riesce a conferire carattere e omogeneità a ogni ambiente (nella foto, il soffitto di una sala da pranzo a Gerrards Cross). Mai banale, sempre in linea con lo stile della casa da decorare, utilizza tempere, pigmenti, oli, terre, a seconda delle superfici e degli effetti voluti. La sua versatilità gli consente di spaziare dai trompe-l’œil paesaggistici ai decori orientali, fino ai cieli con voli di rondini. Notevoli sono anche i suoi
finti marmi realizzati in più tonalità di colore per le zoccolature delle scale, rifiniti a cera. Munito di colori e pennelli, Alan Dodd fa interventi sia su porte e pareti di appartamenti sia su facciate e scaloni di palazzi, alberghi o musei. Spesso si occupa di scenografia e realizza gli sfondi e i costumi per le opere liriche e teatrali. Un artista a tutto tondo. I suoi clienti sono ormai internazionali, non solo in Inghilterra e in Europa ma anche negli Stati Uniti. www.alandodd.co.uk
ANTONELLA ZUNINO REGGIO Milano, via Lanzone 13 Prima una prestigiosa carriera come pr di Roberta di Camerino, poi di Gian Marco Venturi, Dolce & Gabbana, Cesare Paciotti; oggi artista-artigiana che crea, dipinge, personalizza borse, portafogli, scarpe e cappelli. Stiamo parlando di Antonella Zunino Reggio, vulcanica ed elegantissima signora, che da poco tempo ha deciso di mettere in pratica il suo diploma artistico rimasto a lungo nel cassetto allestendo un laboratorio artigianale tutto suo. Qui, munita di colori acrilici, oli, pennelli e tanta fantasia, crea decori per impreziosire accessori da donna e da uomo. Sono tutti dipinti da lei a mano libera, con tratti decisi e poi sfumati, secondo gli effetti che desidera ottenere. Le sue borse, le pochette e i portafogli sono realizzati in ecopelle, materiale che si presta a diversi tipi di lavorazione: liscio, martellato, tipo saffiano. A seconda della superficie che decora, la creativa signora stende i colori con diversi strati, sovrappone le tonalità, poi attende che si solidifichino per aggiungere sfumature, ombreggiature, piccoli particolari. Decora anche i cappelli di paglia. antonella.zuninoreggio@gmail.com
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ARTE DEL FERRO Opera (Milano), via Trebbia 11/19 Luciano Gorlaghetti è un artigiano, figlio e nipote d’arte, che lavora il ferro fin da ragazzino. La sua fucina, all’interno di un grande capannone a Opera, è affollata da un’infinità di strumenti: incudini di varie dimensioni, trafilatrici, centinaia di pezzi che vanno dai martelli alle pinze alle forge, persino dei minuscoli attrezzi per lavorare i gioielli. Sullo sfondo un grande camino per il fuoco. «Partendo da un disegno», spiega Gorlaghetti, «posso realizzare complementi di arredo di ogni tipo. Qualunque idea può prendere forma nella mia fucina». Lungo le pareti ci sono campioni di vario tipo alternati a oggetti pronti per la consegna. «Sono entrato in bottega giovanissimo e, grazie ai preziosi insegnamenti di mio padre, ho sviluppato un’esperienza che oggi mi permette anche di effettuare restauri su ferri battuti antichi». I suoi interventi sono difficili da distinguere dalle parti originali, per la precisione con cui realizza gli ornati in tutti gli stili. «Una delle commissioni più particolari che ho ricevuto recentemente», confessa Gorlaghetti con giustificato orgoglio, «è una serie di lampioni di grandi dimensioni destinati alla città di San Pietroburgo». L’abile fabbro ha forgiato nella sua fucina anche la grande statua del Sole della piazza del paese, simbolo di Opera. artedelferrocmgl.jimdo.com
ARGENTIERE PAGLIAI Firenze, borgo San Jacopo 41r I Pagliai sono un’eccellenza italiana: basti pensare che il Mescitoio del Tritone, una straordinaria brocca-scultura in argento a forma di pesce realizzata dal nonno dell’attuale proprietario, è esposto in una vetrina del Museo degli argenti di Firenze. Una storia di tradizione e di amore per il mestiere tramandata di padre in figlio e che continua ai nostri giorni grazie a Paolo Pagliai, la moglie Raffaella e la figlia Stefania negli affascinanti locali di Borgo San Jacopo. Si utilizzano ancora gli strumenti del padre Orlando, creati appositamente per lui. Questi attrezzi, oltre alla sua profonda conoscenza degli stili, delle leghe, dei procedimenti
del passato, consentono a Paolo di essere uno straordinario restauratore e incisore. «Una specialità del mio laboratorio consiste nel ricreare posateria antica non più in produzione. Abbiamo realizzato anche una copia delle iniziali in argento con corona provenienti da un antico armadio di Paolina Bonaparte Borghese e delle ventole per lucerne del ’700 andate perdute». argentierepagliai.it
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CORALLINA I noti personaggi della tradizione napoletana si uniscono a quelli biblici nei presepi di Liverino, realizzati interamente a mano utilizzando l’«oro rosso». Espressione più alta di un sapere artigianale inimitabile di Federica Cavriana
All’ombra del Vesuvio, tra il vulcano e il mare, si trova il comune di Torre del Greco: 30 km quadrati diventati, storicamente, patria del corallo. Da qui una volta partivano le «coralline», barche per la pesca dell’«oro rosso», e fin dal XV secolo qui si compra, si vende, si lavora e si colleziona questo straordinario materiale organico. La famiglia Liverino, che possiede il più importante Museo del corallo al mondo proprio in questa cittadina, ben conosce la storia di questa materia e dell’arte antica che la accompagna. Enzo Liverino, attuale titolare, s’innamora di questo mondo sin da ragazzo, quando nella bottega dei suoi avi sviluppa un’ammirazione profonda per il lavoro degli incisori impiegati dal padre, le cui opere esprimono una bellezza poetica e una maestria che resterà sempre impressa nella sua memoria. Sono gli stessi tagliatori che pian piano gli insegnano a riconoscere il valore di ogni pezzo già nella fase del taglio, che rivela i potenziali usi o le eventuali imperfezioni. Sarà poi il decennio passato tra Napoli e Taiwan a perfezionare
CARLO FALANGA
Realizzato con coralli del Pacifico e corallo rosso del Mediterraneo, questo esemplare di presepe napoletano creato da Liverino è composto da un mosaico di centinaia di piccole tessere giustapposte. Per ultimare una natività come questa, con una base di 18x38 cm, e un’altezza di 26 cm, i maestri incisori impiegano circa un anno di lavoro (storeliverino.com).
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DAL DESIDERIO DI PRESERVARE CIMELI E OPERE UNICHE È NATO IL PIÙ IMPORTANTE MUSEO DEL MONDO DEDICATO AL CORALLO. A TORRE DEL GRECO
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la sua conoscenza del corallo e a farne un intenditore. Intanto, nel 1986, il padre Basilio realizza il sogno di una vita: mettere a disposizione di tutti le bellezze racchiuse nella collezione di famiglia, quelle opere in corallo asiatico, mediterraneo, di Sciacca, trapanese, napoletano, cinese e giapponese acquisite negli anni dal bisnonno e fondatore Basilio, da nonno Vincenzo, da papà Basilio, dal figlio Vincenzo (detto Enzo, l’attuale proprietario), e quelle che saranno aggiunte da suo figlio Basilio. Nasce così il Museo del corallo. Tanto è il desiderio di preservare questi cimeli e queste opere uniche, a vantaggio dei visitatori, che gli spazi espositivi, interamente scavati nella roccia, sono progettati per resistere idealmente anche a un’improvvisa eruzione del Vesuvio, come quella che cristallizzò nel tempo le città di Pompei ed Ercolano (gli scavi di quest’ultima si trovano a soli cinque chilometri dal museo). Prenotando una visita alla collezione, che include pezzi dal XVI secolo in poi, è possibile immergersi nella storia del corallo e comprenderne anche le fasi di lavorazione: da quando viene scelto grezzo, ben lavato, studiato per deciderne l’uso a partire dalla forma del ramo. Poi tagliato, diviso per dimensione, colore, qualità. Può essere arrotondato, bucato per essere infilato, o può essere inciso a bulino, secondo la fantasia dell’intagliatore. L’utilizzo della materia prima è orientato, in tutti i passaggi, a evitare gli sprechi. Dalle fasi di pesca, quando vengono raccolti solo i rami più grandi dai sub che lasciano quelli più piccoli per gli anni a venire, fino alla lavorazione del corallo, che non ammette scarti: anche le parti più piccole vengono utilizzate, per realizzare piccole perline o elementi decorativi, mentre la polvere di corallo è utile per la lucidatura. Il profondo rispetto per questa materia organica e l’amore per la sua professione hanno portato Enzo Liverino a divenire presidente della Commissione corallo in Cibjo (World Jewellery Confederation) e consulente della Fao per le statistiche sul corallo pescato nel mondo. Liverino è anche socio del Club degli orafi Italia, di Assogemme, consigliere di Federpietre, responsabile della Commissione perle, corallo e cammei dell’Ica, e referente per il corallo e cammei dell’Istituto gemmologico
A sinistra, la bucatura del corallo, una fase molto delicata della lavorazione. A destra, un pastore della scuola siciliana (1570), unico pezzo sopravvissuto della «Montagna di corallo», opera donata dal Viceré di Sicilia a Filippo II, re di Spagna, e conservata nel Museo del corallo. Gli oggetti esposti nelle sale sono della collezione privata della famiglia Liverino.
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italiano e del Gemmological Institute di Bangkok. La sua famiglia porta avanti questa attività dal 1894, con uno spirito orientato a una continua modernizzazione: nella creazione dei gioielli, in particolare, mantiene viva una tradizione preziosa e profondamente radicata nel territorio, rinnovandola oggi grazie a un design contemporaneo. Nondimeno, l’atelier Liverino rende onore alla storia di Torre del Greco producendo anche sculture di grande fascino, come i presepi interamente scolpiti in corallo. Così, dall’incontro di due eccellenze campane nascono pezzi unici, scene di Natività, la cui tecnica di lavorazione segue fedelmente quella del presepe napoletano del ’700. Un presepe che in questa versione sorprende l’occhio. Le usuali scene sacre e profane punteggiate di statuine fatte d’argilla e legno, vestite di tessuti più o meno sgargianti in mostra nelle ormai celebri botteghe napoletane di via San Gregorio Armeno, lasciano il posto in questo caso non solo a una sacra famiglia realizzata interamente in corallo: anche il taglialegna, lo zampognaro, persino cani, galline, oche e conigli sono vestiti delle sfumature preziose del tesoro organico pescato dalle profondità marine. In queste opere di esecuzione certosina anche la scenografia è interamente realizzata in «oro rosso» di varie specie: da quello del Pacifico, più chiaro, al Corallium rubrum del Mediterraneo. Piccole tessere vengono giustapposte a formare un mosaico che ricopre tutta l’opera, con straordinari effetti mimetici: ecco la porosità e il colore dei mattoni in cotto, la grana del brecciolino, ecco le nuance rosate del marmo di Candoglia nella riproduzione di elementi architettonici classici, mentre con l’accostamento di coralli rossi o quasi candidi l’artigiano gioca a definire una scala, o un raffinato pavimento a scacchiera. I noti personaggi della tradizione napoletana si confondono con quelli biblici, portati alla luce molto spesso dalle sezioni di uno stesso ramo di corallo, in cui gli intagliatori e incisori hanno individuato, con occhio esperto, le forme che avrebbero poi fatto nascere pazientemente, a bulino. Un presepe come questo può richiedere fino a un anno di lavoro, e costituisce una delle produzioni più impegnative ed esclusive degli artigiani Liverino, ma anche l’espressione più alta di un sapere artigianale inimitabile.
In alto, la «rociatura», ossia l’arrotondamento del corallo con tecnica moderna. Il corallo viene catalogato in base alla grandezza, alla qualità e al colore (a destra). Questo incredibile prodotto naturale, scheletro e sostegno di convivenza di piccoli animali marini, ha stregato per secoli gli abitanti torresi. Tra questi anche i Liverino, cresciuti a «pane e corallo».
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DARIO GAROFALO
DAPPRIMA VIENE SCELTO GREZZO, LAVATO E STUDIATO PER DECIDERNE L’USO A PARTIRE DALLA FORMA DEL RAMO. POI TAGLIATO, DIVISO PER DIMENSIONE, COLORE E QUALITÀ
In Emiliasdfasdf questa pagina, sBus la dendanti famosa lampada diorerumet Falkland essedis delcumque 1964, prodotta id moloreda comnisquam Danese, realizzata voloria con una quam maglia quae tubolare volum velche maios si snoda et autempo e prende ratur? forma Um lungo ditatem anelli faccus di alluminio. di d erum A fianco, quamuna incti «Forchetta tecer oriatiae parlante», et aceped gioco quis di invenzione dolenditatia divolupti Munari, sincima che sapeva gnimi, trovare odi aut l’inconsueto assitasi ipiet, nell’ordinario; AAo culparci qui trasforma officiendiauna conseque forchetta dus insiti una occ mano.
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DI SEGNI Prima di progettare un oggetto occorre studiare il comportamento dell’individuo, i suoi rituali, le sue abitudini. Bruno Munari è stato un artista totale che ci ha aiutato a capire, a usare, a valorizzare
COURTESY CORRAIN
di Ugo La Pietra
Quando Bruno Munari ritornava dai suoi viaggi in Giappone, oltre ad alimentare la sua passione per i bonsai, raccontava ai giovani designer italiani: «Sapete che la metà della popolazione mondiale non usa il letto?!». Gli orientali, infatti, dormono su una stuoia che al mattino riavvolgono e posizionano in un angolo della stanza, per poi srotolarla la sera prima di coricarsi. In questa frase è racchiuso uno dei tanti insegnamenti che ci ha lasciato il grande maestro Bruno Munari (1907-98), che ci dice che prima di progettare un oggetto occorre studiare il comportamento dell’individuo, i suoi rituali, le sue abitudini. Al contrario di ciò che spesso avviene nelle nostre università dove l’insegnamento invita lo studente a progettare partendo dalla tipologia di un oggetto, quella consolidata nel tempo. Il lavoro creativo di Bruno Munari ci ha lasciato tantissimi strumenti per decodificare, per capire, per conoscere: credo sia proprio questo il ruolo più importante che dobbiamo attribuirgli. Per costruire questi strumenti, Munari non rispettava nessuna regola disciplinare: di fatto ha sempre usa-
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36 vissime» del 1945, dove il design irregolare allude al fatto che non sempre il concetto di funzione sta nell’uso diretto ma può essere anche nell’uso metaforico e, in questo caso, nell’impossibilità dell’uso. Gillo Dorfles ha sempre sottolineato l’atteggiamento giocoso e spesso ironico di Munari: le variazioni delle «Forchette parlanti» per «giocare con la fantasia» sono un esempio perfetto di questo atteggiamento che si ritrova nelle tante piccole e grandi invenzioni ed elaborazioni. Munari delle macchine inutili, dei libri per bambini, delle pitture negative-positive, del design, delle sculture da viaggio, della grafica editoriale, dei giochi didattici, dei messaggi tattili per i non vedenti... Munari è un artista totale, come lo ha recentemente definito lo storico Claudio Cerritelli, curatore di una bella mostra a Torino e di un bel catalogo. Un artista totale che si è occupato di un’enorme quantità e qualità di esperienze. Tutto questo è stato possibile grazie all’elasticità del suo modo di pensare e di guardare le cose che ci circondano, e alla disponibilità di un pensiero sempre pronto a modificarsi per migliorare le possibilità di conoscenza.
Sopra, Bruno Munari indossa i suoi Occhiali paraluce (Fondazione Vodoz-Danese, 1953), realizzati da un foglio di cartone piegato. A lato, Abitacolo, realizzato nel 1971 da Robots e ancora in produzione, è un’altra delle invenzioni di Munari: una struttura semplice, smontabile e rimontabile in forme diverse.
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to modelli che superavano le varie scale di intervento e le varie separazioni disciplinari. Le sue sono ricerche fatte di continui spiazzamenti che proprio per la loro imprevedibilità ci aprono nuovi orizzonti e consentono di acquisire nuovi significati: per fare tutto ciò Munari ha realizzato anche molti oggetti, la cui vera natura (la loro vera funzione) è quella di «aiutarci a capire, aiutarci a usare, aiutarci a valorizzare, aiutarci a creare». «Aiutarci a usare»: come con il portacenere di Danese, progettato nel 1951, in cui finalmente non si vedono i mozziconi delle sigarette e neppure la cenere. «Aiutarci a valorizzare»: quasi tutti i suoi oggetti rispondono a criteri di semplicità, di minimo ingombro e di basso costo come la «Falkland», lampada tubolare in maglia del 1964, progettata con una struttura verticale di grandi dimensioni che si snoda su cerchi metallici di diametro diverso, ripiegabile, leggera, facile da montare. «Aiutarci a creare»: come con l’elemento d’arredo in metallo «Abitacolo», del 1971, dove lo spazio è modificabile dalla creatività del bambino. «Aiutarci a capire»: come con la «Sedia per visite bre-
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38 Da secoli le donne di Nisa, piccolo borgo dell’Alto Alentejo, si ispirano alla natura per realizzare i loro preziosi «bordados», i sontuosi ricami che un tempo erano immancabili nei corredi nuziali. Dagli «alinhavados» (ricamo sfilato), al tombolo, alle coperte e agli scialli ricamati a punto catenella, alle applicazioni in feltro (sotto), di cui è specialista Dinis Pereira.
Craft tradizionale
ANIMA instancabile A 74 ANNI DINIS PEREIRA SI DEDICA ANCORA STRENUAMENTE ALLA SUA GRANDE PASSIONE: I RICAMI IN FELTRO CHE DA SECOLI CARATTERIZZANO I COSTUMI TIPICI DI NISA, PICCOLO BORGO PORTOGHESE
di Giovanna Marchello - foto di Susanna Pozzoli
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Craft tradizionale
Dinis Pereira è una forza della natura. A 74 anni si dedica ancora anima e corpo alla sua grande passione, i ricami in feltro che da secoli caratterizzano i costumi tipici di Nisa, piccolo borgo dell’Alto Alentejo portoghese. Qui un tempo tutte le donne sapevano eseguire i loro preziosi bordados, i sontuosi ricami che non potevano mai mancare nei corredi nuziali delle giovani spose. Dal ricamo sfilato, al tombolo, alle coperte di feltro e agli scialli in lana ricamati a punto catenella, alle applicazioni in feltro di cui è specialista Dinis Pereira. Ciò che rende unici i ricami di Nisa non è solo la tecnica ma soprattutto i soggetti, che prendono sempre ispirazione dalla natura. La flora locale, infatti, è il punto di partenza di ogni creazione, e ogni artigiana sviluppa il proprio linguaggio, che è sempre riconoscibile. Lo stile di Dinis Pereira si distingue per la complessità dei disegni, per l’uso di feltro esclusivamente di lana, come vuole la tradizione, e per la varietà di colori impie-
che sta scomparendo. Collabora con il Museu do Bordado e do Barro, istituito nel 2009 dalla Camera municipale di Nisa per proteggere e dare visibilità ai ricami e alle terrecotte più belle del territorio. Lei stessa conserva migliaia di disegni su carta, alcuni vecchi di 100 anni, creati dalle sue compaesane per i ricami in feltro e da lei pazientemente raccolti nel corso del tempo. Da 30 anni, inoltre, Nisa celebra il suo artigianato e la sua gastronomia con una grande fiera che si svolge ad agosto, e dove Dinis espone le sue opere, alcune del passato e altre nuove, perché le piace continuare a rinnovarsi. Nel nuovo laboratorio fornitole dalla municipalità di Nisa, l’instancabile Dinis Pereira manda avanti la sua attività aiutata da due artigiane esperte e da quattro apprendiste. Ha da poco ultimato un’importante opera per la Camera municipale di Lisbona, che servirà a decorare le grandi finestre del municipio durante le feste: una serie di pannelli di 5 metri per 4 sui
gati. Essendo nata in una famiglia molto povera e dovendo crescere un figlio da sola, Dinis Pereira ha saputo rendersi indipendente realizzando ricami in feltro su coperte, tovaglie, tende e centrini destinati a negozi non solo in Portogallo, ma anche in Italia e ancora più lontano, negli Stati Uniti. Nei tempi d’oro dava lavoro a una ventina di artigiane. Quando il mercato per questo tipo di prodotti è crollato, nel suo orizzonte è arrivata Joana Vasconcelos, poliedrica e geniale artista di Lisbona, le cui visionarie opere incorporano le lavorazioni tipiche dell’artigianato portoghese. «L’essere coinvolta nelle sue creazioni mi ha dato la forza di andare avanti», spiega Pereira. «È un’esperienza fantastica, che mi permette di allargare il potenziale creativo dell’artigianalità di Nisa, oltre ovviamente al privilegio di essere esposta nel mondo intero». Come Joana Vasconcelos, anche Dinis Pereira è impegnata in prima linea nella conservazione di un patrimonio culturale
quali ha ricamato in feltro lo stendardo della città. Sta inoltre collaborando con una fabbrica di cappelli in feltro e anche con una fabbrica di scarpe in sughero (le querce da sughero sono caratteristiche dell’Alto Alentejo), che le hanno chiesto di creare dei motivi ornamentali prendendo spunto dai decori di Nisa. Inoltre, continua a realizzare bellissime borse con applicazioni in feltro disegnate da Kitty Oliveira, sua grande amica e mentore e da molti anni collaboratrice di Joana Vasconcelos. Recentemente Dinis Pereira è stata anche una delle protagoniste del volume The Master’s Touch, scritto da Alberto Cavalli e realizzato dalla Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship. «Questo è il primo vero riconoscimento della mia vita da artigiana. È una grande conquista, sia per la mia terra sia per la mia gente. Collaborando al libro ho potuto osservare il mio lavoro da una prospettiva diversa, e sono molto fiera di far parte di questa grande famiglia di artigiani».
41 Ci sono voluti anni per realizzare il tipico scialle di lana che Dinis Pereira, classe 1943, ha creato da ragazza per la sua mamma, e dal quale non si separa mai (a sinistra). Il ricamo in cui è specializzata nasce dall’accoppiamento di due tessuti in feltro (a destra). Dapprima si esegue il ricamo a macchina. Lo strato superiore di feltro viene poi sapientemente ritagliato lungo la cucitura, facendo cosÏ emergere il disegno.
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Processi creativi
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di Luca Maino
THOMASINE BARNEKOW È DIVENTATA UNA DESIGNER DI QUESTI ACCESSORI PER CASO. OGGI VENDE ED ESPONE IN TUTTO IL MONDO. VA ALLA RICERCA DEI MATERIALI MENO USUALI, PER DAR VITA A UN PRODOTTO CHE UNISCA ARTISTICITÀ E PORTABILITÀ. CHE NON SIA DI TENDENZA MA «PER SEMPRE»
L’INCONTRO DI DUE MONDI Nella pagina a fianco, un modello couture di Thomasine Barnekow che ricorda le forme del mare realizzato in collaborazione con l’artista Cécile Feilchenfeldt, appassionata di knitwear. I guanti firmati Thomasine Gloves si dividono in due linee, quella ready to wear e la couture.
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Processi creativi
BENJAMIN TAGUEMOUNT FOR SARVENAZ DEZVAREH
Da bambina, Thomasine Barnekow amava osservare il lavoro delle tante donne che abitavano la grande fattoria nella campagna svedese dove è cresciuta. C’era chi faceva la maglia, chi ricamava, chi si dilettava con la piccola sartoria. Non credeva che quelle immagini un giorno avrebbero condizionato il suo futuro. Piuttosto Thomasine preferiva incidere il legno, plasmare l’argento. Quando si trattò di decidere a quale università iscriversi, non ebbe esitazioni: ingegneria. «I dubbi arrivarono qualche mese dopo: non ero felice», ci racconta seduta nel suo atelier parigino nel cuore del Marais. «Avevo bisogno di esprimere il mio lato artistico, così decisi di cambiare strada. Gli amici che si erano dedicati al design avevano scelto tutti Londra, perciò io optai per la Design Academy di Eindhoven, nei Paesi Bassi». Thomasine punta sul design industriale, ma non ha affatto le idee chiare. «Mi affascinavano i tessuti, così cominciai a concentrarmi su quelli. Durante un laboratorio realizzai un primo progetto che poneva in relazione poesia e guanti, ma la folgorazione arrivò qualche tempo
PER LEI NON SONO ACCESSORI MA BIJOU E COME TALI VANNO CONSIDERATI
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dopo». Fu una fotografia ad accendere la fantasia di Thomasine. «Il soggetto ritratto era Michelle Lamy, musa e moglie dello stilista Rick Owens, a colpirmi furono i bracciali che indossava. Iniziai a immaginare come rendere quel movimento in un guanto. Fu così che nacque il mio primo prototipo». Peau Précieuse, questo il nome che Thomasine diede a quella scultura che simulava i monili con il cuoio, fu realizzato nell’atelier di Georges Morand, maestro guantaio a Saint-Junien dal 1946. Dopo essere passata da Agnelle e Maison Fabre, altre celebri realtà dell’alto artigianato francese, Barnekow decise che era arrivato il momento di dare vita a una propria attività. «Devo ringraziare anche la stilista spagnola Elisa Palomino, giurata dell’International Talent Support di Trieste a cui partecipai, che nel 2007 mi spronò a seguire questa strada. Per me il guanto non è solo un accessorio, ma un bijou e come tale va considerato». Il processo creativo di Thomasine, che oggi vende ed espone i suoi guanti in tutto il mondo, inizia osservando le proprie
SCULTURE DI PELLE DA ESPOSIZIONE Qui sopra, un pezzo unico realizzato da Thomasine Barnekow. Nella pagina a fianco, i modelli New York e Seoul in mostra al Grand Musée du Parfum di Parigi: la stilista ha realizzato una serie di guanti profumati che si rifanno alla tradizione del XVI secolo (thomasinegloves.com).
Processi creativi
mani. «Le ho sempre davanti agli occhi, quindi penso a delle forme che le avvolgano. A ispirarmi sono soprattutto la natura e l’architettura: le fotografie floreali di Karl Blossfeldt, così come le opere di Oscar Niemeyer, hanno contribuito a diverse delle mie creazioni. Prima di realizzare il disegno di ciò che ho in mente, valuto quali materiali utilizzare. Il cuoio ovviamente è quello d’elezione, ma amo lavorarlo con altri meno usuali (la plastica, il vinile...) trovando il modo di creare un’armonia. È quella la sfida più elettrizzante». I guanti firmati Thomasine Gloves si dividono in due linee, quella ready to wear e la couture. «Per la prima mi affido a un laboratorio artigianale in Ungheria, che lavora materia prima italiana o francese. Ho girato molto per riuscire a trovare alta qualità, solida tradizione artigiana e prezzi sostenibili per una realtà piccola come la mia. All’inizio, quando sottoponevo loro i miei prototipi, mi guardavano stranamente. Oggi hanno capito la sfida: dare vita a un prodotto che unisca artisticità e portabilità, capi che non siano di tendenza ma “per sempre”, sen-
POSSONO ESSERE INDOSSATI DA UNA DONNA DI 70 ANNI COME DA UNA RAGAZZA DI 20
za età, che potrebbero finire sulle mani di una ragazza di 20 anni così come su quelle di una donna di 70». Accanto ai modelli ready to wear che portano i nomi delle città che li hanno ispirati, ci sono poi i pezzi unici che Thomasine crea personalmente nel suo studio. Sono sculture di pelle che simulano un volo di rondini sul braccio o ancora conchiglie arenate sullo stesso. «Ho da poco finito di lavorare su una piccola collezione di guanti profumati, una tradizione che risale al XVI secolo, presentata al Grand Musée du Parfum di Parigi. Mi diverte pensare che chi vede una mia creazione stia lì a domandarsi come è stato possibile realizzarla. Così come mi inorgoglisce l’attenzione che in questi anni mi ha tributato la stampa. Fino a dieci anni fa trovare guanti sui giornali di moda era un’impresa, negli anni 80 e 90 ce ne siamo completamente dimenticati per dare spazio a scarpe e borse. Oggi c’è una nuova considerazione del lavoro del guantaio, un mondo in cui artigianato e arte si incontrano per dare vita a un oggetto che fugge dal concetto di stagionalità».
LA NATURA È LA SUA FONTE D’ISPIRAZIONE È un vero e proprio bouquet di guanti quello che potete ammirare qui sopra: Thomasine Barnekow si ispira proprio alle forme della natura per trarre ispirazione durante il processo creativo di un nuovo modello. Nella pagina a fianco, un guanto haute couture che avvolge l’intero braccio.
BENJAMIN TAGUEMOUNT
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Eredità da tramandare
Missione REGALE IL BRITANNICO QUEEN ELIZABETH SCHOLARSHIP TRUST È UN ISTITUTO FILANTROPICO CHE DAL 1990 VEGLIA SUI MESTIERI A RISCHIO DI ESTINZIONE. ATTRAVERSO BORSE DI STUDIO E APPRENDISTATI, SOSTIENE GIOVANI ARTIGIANI E AFFERMATI MAESTRI di Akemi Okumura Roy (traduzione dall ’originale inglese di Giovanna Marchello)
Il Regno Unito vanta innumerevoli mestieri tradizionali, affascinanti e unici come i territori dove si sono sviluppati nel corso dei secoli, insieme a materie prime, strumenti di lavoro e competenze specifiche. Qui, come nel resto nel mondo, il progresso sta causando un pericoloso calo nel numero di artigiani e molti mestieri tradizionali rischiano l’estinzione. Tra le importanti associazioni che si prodigano per salvare questo prezioso patrimonio, il Queen Elizabeth Scholarship Trust merita una menzione particolare. Il Qest è un istituto filantropico fondato nel 1990 dalla Royal Warrant Holders Association (l’associazione che riunisce i fornitori ufficiali della Casa Reale inglese) per celebrare il 150° anniversario della sua creazione e il 90° compleanno della Regina Madre. La missione del Qest è di valorizzare l’eccellenza nei mestieri d’arte tradizionali attraverso borse di studio e apprendistati. Nel corso degli anni ha elargito più di quattro milioni di sterline per sostenere 412 borse di studio e 29 apprendistati indirizzati a persone tra i 17 e i 58 anni che operano in 130 discipline sia tradizionali sia contemporanee. Secondo le necessità, ogni borsista riceve tra mille e 18mila sterline, mentre agli apprendisti sono
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In questa pagina, ritratto della Regina Elisabetta II dipinto da Alastair Barford, che nel 2012 è stato borsista del Queen Elizabeth Scholarship Trust. Il quadro è stato commissionato dalla rivista «Illustrated London News» nel 2015.
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Eredità da tramandare
Sotto, tessuti realizzati a mano dalla Mourne Textiles, l’azienda tessile rilanciata da Mario Sierra, borsista in tessitura a mano. Nella pagina a destra: 1. La missione del Queen Elizabeth Scholarship Trust è di valorizzare l’eccellenza nei mestieri d’arte tradizionali attraverso borse di studio e apprendistati. 2. Alastair Barford. 3. Mourne Textiles. 4. «Shower of Comets» (Pioggia di comete) di Wayne Meteen, borsista in lavorazione dell’argento nel 2014. 5. Sam Woolham, apprendista maniscalco nel 2016. 6. Melissa White dipinge decori parietali ed è stata borsista del Qest nel 2007 (qest.org.uk).
assegnate fino a 6mila sterline all’anno, per un massimo di 18mila nell’arco di tre anni. Inoltre, il Qest propone ai suoi ex studenti dei seminari dove apprendere come far prosperare sia le loro imprese sia i loro mestieri. I temi trattati spaziano da come avviare un’impresa individuale alla definizione dei prezzi, alla ricerca di fornitori fino alle tecniche di marketing, tra cui lo sviluppo di un sito e i social media. Il successo del programma promosso dal Qest si riflette nel fatto che il 93% dei beneficiari continua a praticare il proprio mestiere dopo la conclusione degli studi. Molti degli artigiani sono inoltre figure di spicco nel loro campo. Per accedere al programma, i candidati devono superare una severa selezione in tre fasi condotta da esperti del settore e dagli skill advisor del Qest. In ciascuna sessione, alcuni maestri d’arte esaminano fino a 15 candidature in base alle loro capacità e al loro potenziale, nonché alla fattibilità della richiesta di finanziamento. Nella fase finale, 30 candidati sono valutati da una commissione composta dagli skill advisor, presieduta da un membro del consiglio del Qest. Il processo per la selezione dei tirocinanti è simile, ma in questo caso si valutano sia il potenziale apprendista sia il suo datore di lavoro. Il Qest si rivolge sia a giovani artigiani sia a maestri affermati, e dedica particolare attenzione a chi mantiene in vita un mestiere scomparso, a chi cerca di salvare dalla chiusura un’impresa artigiana e a chi si prodiga per adattare e interpretare le conoscenze fondamentali dei mestieri tradizionali, creando così un nuovo mestiere che abbia rilevanza nella società moderna. Nel 2007, Alan Partridge ha ricevuto una borsa di studio da 7.200 sterline per apprendere un mestiere molto specializzato: la realizzazione di canaletti per le canne ad ancia degli organi. Fornisce canaletti a chiese, cattedrali ed edifici pubblici in tutto il mondo: Usa, Australia, Paesi Bassi, Germania, Irlanda e Regno Unito. «Il mio impegno è totale, e spero di continuare a fornire l’industria organistica finché ne avrò la forza», racconta. «È un mestiere molto faticoso, ma il vero problema è che, anche se nel corso degli anni ho avuto diversi giovani a bottega proprio per tramandare loro il mio mestiere, purtroppo il lavoro è poco e non ci sono garanzie che si riesca a guadagnare abbastanza per vivere». Oggi Alan Partridge è l’ultimo costruttore di canaletti per canne ad ancia di tutta la Gran Bretagna.
Dopo la laurea in Belle arti conseguita nel 2011, Alastair Barford ha ricevuto una sovvenzione dal Qest per studiare ritrattistica presso l’atelier del noto artista Charles H. Cecil, a Firenze. Dopo il suo ritorno, nel 2015, la rivista Illustrated London News gli ha commissionato un ritratto della Regina Elisabetta. Oggi le opere di Alastair Barford sono presenti in collezioni pubbliche e private. Wayne Meteen, abile gioielliere e lavoratore di metalli, ha ricevuto la sua borsa di studio nel 2014. È stato il primo artigiano inglese ad avere l’opportunità di imparare le tecniche Zougan (intarsio) e Chokin (intaglio) da maestri giapponesi, uno dei quali è un Tesoro Nazionale Vivente. Le competenze che ha acquisito non possono essere apprese nel Regno Unito, ma oggi Wayne Meteen ha la possibilità di tramandarle nel suo studio nel Devon. Mario Sierra è stato borsista nella tessitura a mano. Il suo obiettivo era di rilanciare l’azienda tessile fondata dalla nonna materna, che ha chiuso i battenti negli anni 80. La borsa di studio ottenuta nel 2016 gli ha permesso di imparare il mestiere da Sheila Roderick, compresa la manutenzione del telaio, la sua costruzione, oltre alle tecniche di tessitura e alla risoluzione dei problemi. Oggi l’azienda di famiglia ha ripreso a lavorare e a mantenere le sue competenze. L’impegno del Qest si rivolge anche al sostegno di mestieri a rischio: lo zoccolaio, il fonditore di campane, il costruttore di carrozze, di biciclette e di strumenti a fiato. «La cosa affascinante è che siamo in grado di sostenere una gamma molto ampia di mestieri, da quelli che appartengono alla tradizione rurale ai più contemporanei e innovativi», spiega Deborah Pocock, direttore esecutivo del Qest. «Non possiamo permettere che questi mestieri scompaiano». Il prossimo evento promosso dal Qest sarà la cena di beneficienza che si terrà l’8 marzo 2018 al Victoria & Albert Museum, il tempio del design e dell’artigianato. Ospite della serata sarà David Linley, vice-patrono del Qest. Questa occasione permetterà a 250 ospiti illustri di vedere di persona i lavori eseguiti dagli studenti del Qest e, attraverso una serie di aste silenti e dal vivo, di raccogliere fondi per finanziare altri talenti. Il Queen Elizabeth Scholarship Trust sta inoltre consolidando i rapporti con scuole e università, al fine di offrire ai giovani reali opportunità di apprendere un mestiere che permetta loro di lavorare con le proprie mani.
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52 Composizione di sedie di epoche e stili differenti tra cui spicca la sedia «Sole» di Piero Fornasetti (con lo schienale bianco, nella pagina a fianco). Si può ammirare visitando la mostra «In miniatura», fino al 7 gennaio 2018 a Milano a Villa Necchi Campiglio.
Suggestivi dialoghi
Sofisticate MINIATURE
GUIDO TARONI
DAI MAESTRI EBANISTI SETTECENTESCHI AI GRANDI PROTOTIPISTI MODERNI, OLTRE 200 PREZIOSI MODELLI DI MOBILI SONO IN MOSTRA A MILANO A VILLA NECCHI CAMPIGLIO
di Alessandra de Nitto
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Suggestivi dialoghi
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Dai soprammobili alle sofisticate miniature per i collezionisti fino alle fascinose case di bambola per i fortunati bambini della ricca borghesia
GUIDO TARONI
Nello splendido scenario di Villa Necchi Campiglio, una delle più belle residenze del Fondo ambiente italiano, gioiello di architettura, d’arte e arti applicate tra déco e razionalismo nel cuore di Milano, si rinnova in occasione di «Manualmente» il fruttuoso sodalizio tra il Fai e la Fondazione Cologni per la valorizzazione dei mestieri d’arte italiani. La nuova, sesta edizione di questa fortunata collaborazione, dopo aver esplorato territori creativi e materiali come la carta, la ceramica, il vetro, le pietre preziose con alcune splendide mostre, è interamente consacrata al legno, materiale nobile e vivo per eccellenza che ha trovato in Lombardia le più importanti declinazioni nella progettazione, nel design e nell’alto artigianato. L’inedita e suggestiva esposizione In miniatura (fino al 7 gennaio 2018) offre un originale itinerario in questo saper fare d’eccellenza tanto radicato nel territorio scegliendo un inedito punto di vista legato al mondo del modello in legno, tra passato e contemporaneità: dai maestri ebanisti settecenteschi ai grandi prototipisti moderni, che hanno avuto un ruolo chiave nella progettazione e produzione del mobile in Lombardia. Grazie a importanti prestiti provenienti da collezioni pubbliche e private sono esposti oltre 200
preziosi modelli di mobili in miniatura, che documentano la storia dell’arredo tra XVII e XX secolo, nelle sue diverse tipologie, oltre a essere veri piccoli capolavori lignei realizzati con grande minuzia e cura nei dettagli, nei materiali e nelle decorazioni. I modelli spaziano dai preziosi capi d’opera degli ebanisti settecenteschi ai fedelissimi pezzi da campionario ottocenteschi, perfetti in ogni dettaglio; dai soprammobili alle sofisticate miniature per i collezionisti fino alle fascinose case di bambola per i fortunati bambini della ricca borghesia. Così, piccoli tavoli, cassettoni, sedie, madie, armadi, toilette, intessono suggestivi dialoghi con gli arredi e i luoghi di Villa Necchi, che non potrebbe essere miglior cornice, scrigno di un’artigianalità colta e raffinatissima: l’effetto di riecheggiamento è a volte spiazzante e sempre molto evocativo, come ben mettono in evidenza le splendide e spesso giocose fotografie di Guido Taroni, nel bel catalogo della mostra. L’esposizione propone anche il tema molto interessante e meno noto al grande pubblico del modello come strumento di lavoro che diventa fondamentale con la nascita dell’industrial design, quando progettisti e maestri artigiani intessono sodalizi creativi e operativi straordinari e oggetti icona del design nascono dalla
A sinistra, armadio a due ante laccato e marmorizzato con fregi vegetali intagliati risalente al XVIII secolo. Nella pagina a fianco, cassettone del XVIII secolo in bois de rose e altri legni intarsiati a marqueterie.
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Suggestivi dialoghi
L’esposizione propone anche il tema poco dibattuto del modello come strumento di lavoro che diventa fondamentale con la nascita dell’industrial design
A destra, alcuni oggetti della bottega di Pierluigi Ghianda: campioni di essenze, incastri, semilavorati e sculture. Nella pagina a fianco, mobile del XVIII secolo con ribalta e alzata in radica di noce impreziosito da cassetti foderati in pizzo e seta coevi.
direttamente da Ghianda e permettendo alla sua bottega di continuare a vivere e a creare, nel segno dell’assoluta eccellenza. Giovanni Sacchi, considerato il più grande modellista italiano, figura straordinaria che nell’arco di 50 anni ha dialogato con i massimi architetti e designer, ha dato vita nella sua bottega milanese a oltre 25mila modelli: tutta la storia del design è passata tra le sue mani sapienti. La mostra gli rende omaggio presentando alcuni dei circa 300 modelli conservati presso il Museo del design della Triennale di Milano. «Questi oggetti», sottolinea la direttrice Silvana Annicchiarico, «racchiudono in sé uno straordinario valore testimoniale: documentano infatti un modo di produzione che ci riporta all’epoca d’oro dei maestri del design italiano. Ci ricordano insomma che il design è espressione della cultura del fare, e raccontano come il progettista ha affrontato e risolto di volta in volta i problemi che si manifestavano nel corso della realizzazione del progetto. Triennale Design Museum saluta dunque con entusiasmo la scelta di popolare gli straordinari spazi di Villa Necchi Campiglio con una selezione dei modelli di Sacchi, esposti in modo da dialogare con gli oggetti che essi hanno contribuito a generare».
MATTEO CUPELLA
collaborazione virtuosa tra saper fare e progettualità: alcuni dei pezzi più interessanti della mostra sono quelli dei celebri ebanisti milanesi, Giovanni Sacchi e Pierluigi Ghianda, realizzati per alcuni dei maggiori designer del ’900, da Castiglioni a Nizzoli a Zanuso, da Frattini a Gio Ponti, da Bellini a Magistretti. Progettisti che avevano ben chiara l’importanza fondamentale del saper fare e che hanno sempre tenuto nella più alta considerazione il lavoro della bottega, misurandosi con l’artigiano in un rapporto costruttivo e generativo. «I grandi maestri artigiani», ci ricorda Franco Cologni, «al pari dei beni tutelati dal Fai sono parte fondamentale del nostro patrimonio culturale». A Pierluigi Ghianda, recentemente scomparso, è dedicato l’allestimento del sottotetto di Villa Necchi, curato da Lorenzo Damiani, che rievoca la storica bottega del grande «poeta del legno», uno degli ebanisti più famosi al mondo, grazie ai materiali (modelli, appunti, schizzi) messi a disposizione dalla famiglia. La straordinaria eredità di questo maestro insuperato è stata oggi raccolta da Romeo Sozzi, designer ed ebanista appassionato, che con i figli ne ha rilevato l’attività, raccogliendo il testimone
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FIRME INTERNAZIONALI La collezione di vetro artistico contemporaneo raccoglie opere firmate da artisti di fama internazionale. In questa pagina, vaso «Yellow Magic» di Gernot Schluifer (1988-1989). A fianco, «Aspetta», di Max Ernst realizzato da Egidio Costantini (1968).
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E RADICI CLAUDE BORNAND
DAL 2000 A LOSANNA IL MUDAC HA SVILUPPATO UN’ATTITUDINE A RICERCARE FORME ARTISTICHE CHE FONDONO DIVERSI LINGUAGGI E CHE SI RIFANNO ALLA QUOTIDIANITÀ DELLE PERSONE, ALLA LORO DIMENSIONE DOMESTICA E AFFETTIVA
di Simona Cesana
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FABRICE GOUSSET
STUDIA L’EVOLUZIONE DEI FENOMENI SOCIALI COME I DESIGNER E GLI ARTISTI LI AFFRONTANO. È PER QUESTO CHE HA ALLESTITO MOSTRE SU TEMI COME SPECCHI E NARCISISMO, SICUREZZA, EROTISMO, SENSO DEL TATTO, TRAVESTIMENTO, ANIMALI
Musei segreti
SIMON BIELANDER
Nella zona collinare di Losanna, con vista sui tetti rossi della città, il Museo del design e delle arti applicate contemporanee ha sede in un prestigioso edificio risalente al XVII secolo, la cui torretta con tetto a falde spioventi rimanda all’architettura gotica della cattedrale di Notre-Dame, che si trova proprio a un passo dal museo, al di là della piazza che caratterizza il centro storico di questa città affacciata sul lago di Ginevra. Il Mudac ha sviluppato le sue attività in questa sede dal 2000, anno in cui Maison Gaudard è diventata casa di quello che prima era il Musée des Arts décoratifs della città svizzera: nuova casa, nuovo nome e nuovi progetti che si sono alternati definendo negli anni le preziose collezioni permanenti di design contemporaneo, vetro, ceramica, gioiello, stampa (litografia, grafica, fumetti). Basi solide su cui poggia la ricerca e lo sviluppo futuro del Museo che, nel 2020, traghetterà in un edificio, ora in costruzione, nel nuovo distretto artistico denominato Plateforme10: un luogo, progettato dagli studi di architettura Barozzi Veiga (Barcellona) e Aires Mateus (Lisbona), che si aprirà vicino alla
TRA PRESENTE E FUTURO Sopra, «Scampi» di David Bielander (2007), braccialetto in argento ed elastico (collezione della Confederazione svizzera in deposito al Mudac). Sotto, uno scorcio dell’attuale sede del Mudac e il progetto della futura sede a Plateforme10 che si inaugurerà nel 2020. Nella pagina a fianco, «Frozen In Time. Frozen Vase» di Studio Wieki Somers (2010).
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stazione di Losanna e ospiterà anche il Musée de l’Elysée, dedicato alla fotografia, e il Museo cantonale di Belle arti, in un continuo dialogo tra arti applicate, belle arti e fotografia. Il Mudac, nelle oltre 100 mostre temporanee, nei numerosi cataloghi pubblicati e nelle varie attività collaterali (dalla didattica alla musica, dai convegni alla danza) ha sviluppato negli anni la sua attitudine a ricercare quelle forme ibride e poco esplorate di espressioni artistiche che fondono diversi linguaggi e in particolare quelle opere che si rifanno alle arti applicate, al craft, parola che ben identifica quella categoria che non appartiene né all’arte né al design, ma a quella sfera che è più vicina al fare e quindi alla quotidianità delle persone, alla loro dimensione domestica e affettiva, ai loro bisogni di condivisione e comunicazione. La vicedirettrice Claire Favre Maxwell ci spiega con una dichiarazione la missione del Museo: «Il Mudac intende esaminare il ruolo del design nella società contemporanea. Non esita a travalicare i confini delle discipline, confrontando il design con le arti, la fotografia, la moda o la grafica. Il Mudac è interessato all’evoluzione
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LA CERAMICA IN 300 PEZZI Sopra, «Wheel I», collana in gomma di Noémie Doge (2007). Sotto, un pezzo della collezione di ceramica contemporanea «Pecoralis», di Morgane Virchaux (2010). Nella pagina a fianco, una foto dalla mostra «Mirror Mirror» con l’opera di Matteo Gonet «Look at me» (2016): vetro soffiato e specchio ai sali d’argento (mudac.ch).
re dalla collezione permanente celebra il vetro in tutti i suoi cromatismi, in un allestimento ispirato alla ruota dei colori di Johannes Itten, uno degli insegnanti della scuola Bauhaus e celebre artista e teorico svizzero.La collezione di ceramica contemporanea, formata da oltre 300 pezzi, comprende in gran parte opere di artisti e designer svizzeri: una raccolta di oggetti e di opere astratte che vuole rappresentare la varietà della creatività svizzera in campo ceramico, dai nomi più noti alle nuove generazioni, dalle opere in grès della fine degli anni 90 alle più recenti opere in porcellana. Le politiche di acquisizione del museo, per le collezioni di ceramica come anche per quelle del design e del gioiello, favoriscono le proposte dei designer svizzeri e dei giovani editori, promuovono le donazioni da parte dei giovani designer, privilegiando le opere che esprimono innovazione nella ricerca e che sanno calarsi nel presente. Pezzi unici e opere in edizione limitata che sanno rappresentare l’evoluzione della creatività, per un museo che si fa custode e interprete della bellezza e del saper fare nelle arti applicate, tra arte e design.
AN - ARNAUD CONNE / CEPV - HEIDI CORPATAUX
dei fenomeni sociali e a come i designer e gli artisti li affrontano. È per questo che ha allestito mostre su temi come specchi e narcisismo, sicurezza, erotismo, senso del tatto, travestimento, animali nell’arte e nel design. Parallelamente il Mudac ha anche sviluppato una serie di mostre personali dedicate ai designer intitolate Carte blanche con l’intento di far conoscere ai visitatori le direzioni di ricerca dei progettisti contemporanei». La collezione di vetro artistico contemporaneo è senz’altro la più vasta e la più affascinante del Mudac: nata da un primo nucleo di 36 opere donate dai collezionisti Peter e Traudl Engelhorn, comprende oggi sculture storiche realizzate da artisti come Jean Cocteau e Max Ernest nella bottega veneziana La fucina degli angeli di Egidio Costantini e opere firmate da artisti del vetro di fama internazionale quali Philip Baldwin e Monica Guggisberg, Lino Tagliapietra, fino alle più recenti acquisizioni, opere di designer contemporanei come l’olandese Pieke Bergmans, il duo Formafantasma e Studio Job. Nella mostra Chromatic, visitabile fino al 14 gennaio 2018, una selezione di ope-
COURTESY OF GLASSWORKS MATTEO GONET GMBH, PHOTO ANDREAS ZIMMERMANN
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64 SANDRINE STERN HA RACCOLTO UN’EREDITÀ CENTENARIA CHE PATEK PHILIPPE NON HA MAI SMESSO DI SOSTENERE: QUELLA DEI MESTIERI RARI, MASSIMA ESPRESSIONE DI SAVOIR-FAIRE SENZA EGUALI di Giovanna Marchello
EDc ec ec ol lreant zo er i d da il amt ot ni m d oi
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Nella collezione 2017 dei Mestieri rari, spicca la serie limitata di due orologi da polso «Calatrava» in oro bianco (il modello Patek Philippe per eccellenza, creato nel 1932), ispirati ai celebri «azulejos». Per ricreare questi splendidi «trompe-l’oeil», Patek Philippe ha scelto la raffinata tecnica della miniatura su smalto (patek.com).
TEMPO di rarità
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Decoratori di attimi
Nel 1831, il giovane Antoni Norbert Patek fuggì dalla Polonia dopo la Rivolta di Novembre, nella quale gli insurrezionalisti furono sconfitti dall’esercito russo. Trovò riparo in Svizzera, che da secoli accoglieva nel suo grembo molti rifugiati religiosi e politici. La calvinista Ginevra, in particolare, era famosa per la concentrazione di orafi, orologiai e incastonatori di pietre preziose provenienti dalla Francia, dall’Italia e dall’Europa intera: un vero e proprio crogiolo di creatività e tecnica. Fu qui che Antoni Patek, divenuto commerciante di orologi da taschino di altissimo pregio, incontrò l’orologiaio francese Jean-Adrien Philippe, già inventore del meccanismo di carica e di messa all’ora senza chiave. Il primo nucleo di quella che nel 1851 diventò la Patek, Philippe & Cie fu creato nel 1839, quando il socio di Patek era ancora il conterraneo François Czapek. Alcuni dei loro primissimi, preziosi orologi sono custoditi nel Museo Patek Philippe di Ginevra, dove la famiglia Stern (dal 1932 proprietaria della Patek Philippe SA) ha raccolto in una collezione di rara bellezza ben cinque secoli di capolavori dell’alta orologeria svizzera ed europea, nonché una biblioteca con oltre 8mila volumi. È proprio qui, tra centinaia di splendidi esemplari di segnatempo finemente decorati da orafi, incisori, smaltatori, incastonatori e miniaturisti (dagli esemplari risalenti al XVI secolo agli orologi da ta-
Da sinistra, lo smalto viene ridotto in finissima polvere; per fissarlo, dopo ogni passaggio il quadrante viene inserito nel forno a 750 °C. Sotto, orologio da tasca con decorazione guilloché. A lato, pendoletta Dôme in smalto cloisonné. L’artista ha impiegato 32,5 m di filo d’oro e 10 tonalità di smalti. Entrambi sono esemplari unici.
sca, da polso, da tavola, automi e complicazioni) che va ricercata l’origine di una tradizione che Patek Philippe conserva e sviluppa nella collezione di Mestieri rari, la massima espressione di un savoir-faire senza eguali. «Nella collezione di Mestieri rari», spiega Sandrine Stern, direttore creativo di tutta la produzione Patek Philippe, «impieghiamo esattamente le stesse tecniche del passato, nonché le stesse materie prime, gli stessi forni e smalti. Questa è la nostra base di partenza, il punto fondamentale sul quale io e il resto della famiglia non transigiamo mai. Per noi la qualità è un valore assoluto, perché è ciò che ci ha contraddistinto durante i quasi 180 anni della nostra storia». La collezione di Mestieri rari è nata una decina d’anni fa, ed è stata fortemente voluta da Sandrine Stern, che la considera giustamente una sua creatura. Assumendone la direzione, ha raccolto un’eredità centenaria che Patek Philippe non ha mai smesso di sostenere, neanche nei momenti in cui i gusti del mercato avevano decretato la quasi scomparsa di ogni forma di decorazione artistica sugli orologi. «Abbiamo sempre continuato a realizzare questi pezzi, anche se poi finivano per rimanere invenduti. Era importante che i mestieri rari dell’intarsiatore, dell’incastonare, del guillocheur, dello smaltatore e del catenista orafo potessero continuare a sopravvivere», continua la signora Stern. «Anche quando il mercato
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Decoratori di attimi
è in sofferenza, noi non ci tiriamo mai indietro. Anzi, questo ci sprona a fare di più e meglio». Oggi i Mestieri rari non languono più nei magazzini. I pezzi realizzati nella seconda metà del ’900 hanno trovato un posto d’onore nel Museo Patek Philippe, mentre quelli che sono presentati alla fiera di Basilea (una quarantina di esemplari all’anno, tra pezzi unici e piccolissima serie) finiscono direttamente nelle raccolte private di collezionisti e appassionati. Per realizzare una collezione di Mestieri rari degna di questo nome, Sandrine Stern lavora senza briefing né budget: «Per noi la cosa più importante non sono i numeri, ma ciò che ci piace. Per questo, quando inizio a lavorare su una collezione, non so mai quanti orologi da tasca, da polso o pendolette dôme creeremo. Partiamo dal soggetto e decidiamo quale oggetto potrà valorizzarlo al massimo». La realizzazione è affidata a maestri interni all’azienda, ma anche ad artigiani e artisti indipendenti, come la miniaturista Anita Porchet. «Per me è importante lavorare anche con artigiani esterni, perché questo ci permette di essere ancora più creativi». Per Sandrine Stern, è assolutamente fondamentale padroneggiare il savoir-faire per avere credibilità sia nei confronti del mercato sia dei fornitori esterni. «Quando ho creato il nostro atelier», racconta, «ho voluto assicurarmi di avere a disposizione le risorse interne
Da sinistra, l’artista riproduce gli «azulejos» in miniatura; prima dell’applicazione dello smalto il quadrante viene lucidato a mano. Sotto, due maschere veneziane sul ponte dei Sospiri decorano il retro dell’orologio da tasca della pagina precedente, realizzato con la raffinata tecnica dello smalto «grisaille au blanc de Limoges». A lato, Sandrine Stern, direttore creativo di Patek Philippe.
in grado di realizzare tutte le tecniche, e infatti oggi abbiamo uno o più maestri in ciascuna disciplina». Patek Philippe si dedica alla formazione di orologiai e maestranze per la sua produzione regolare, ma il processo è più complesso nel caso dei mestieri rari. «Per il momento la formazione interna non è praticabile, anche se abbiamo sicuramente intenzione di metterla in atto in futuro. Non è sufficiente imparare la tecnica, è anche necessario capire cosa c’è dietro e per farlo i giovani devono essere disposti a impegnarsi molto di più e a compiere studi approfonditi, che abbraccino anche le belle arti. Perché non basta riprodurre un disegno, bisogna anche capirlo, interpretarlo. È un processo molto lungo, che oltre al talento richiede passione». Ci vogliono almeno due anni per creare un pezzo dei Mestieri rari, dalla concezione all’esecuzione. Trattandosi di tecniche molto difficili, non si sa mai cosa potrà andare storto e se, ad esempio, l’orologio rimarrà danneggiato durante l’ultimo fuoco della smaltatura. Ma questo non preoccupa Sandrine Stern, perché alla fine è solo il risultato che conta, non il tempo che c’è voluto. «Il nostro pubblico ha fiducia nel marchio Patek Philippe, perché sanno che è garanzia di qualità ma anche di unicità», conclude. «Si affidano alla nostra esperienza e al nostro buon gusto, sapendo che l’oggetto che stanno acquistando è autenticamente raro».
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In queste pagine, un dettaglio di Rinaldo e Armida, dipinto nel 1813 da Francesco Hayez. È una delle opere esposte alle Gallerie dell’Accademia di Venezia nel contesto della mostra «Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria di Venezia», aperta fino al 2 aprile 2018 (gallerieaccademia.it).
Mostre
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La Serenissima
A NUDO ABBIAMO VISITATO L’ESPOSIZIONE CHE CELEBRA IL BICENTENARIO DELLE GALLERIE DELL’ACCADEMIA DI VENEZIA ASSIEME A CESARE DE MICHELIS, PROMOTORE DEL PROGETTO, ALLA SCOPERTA DEI RAPPORTI TRA ARTIGIANATO E ARTE di Stefano Karadjov
«La sezione veneta darà quello che potrà. Io non vorrei che poi desse tutto il denaro, e vorrei erogare 10mila zecchini in tanti lavori di pennello e scarpello tutto veneziano. Non dimenticherò Hayez certamente e Rinaldi, e tutti gli altri che qui sono capaci di lavoro. Ma tutto questo non val nulla se per prima parte di questo progetto non v’è un’opera vostra. Qui ci vorrebbe la sicurezza d’una vostra statua, e sarebbe la Polimnia che potrebbesi battezzare anche per la Musa della Storia». Questa richiesta il conte ferrarese Leopoldo Cicognara, presidente dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, indirizzava due secoli fa, il 15 gennaio 1817, all’amico Antonio Canova, per assegnargli il ruolo di nume tutelare nella modernissima operazione di rinnovamento culturale da lui imbastita, che la mostra che stiamo visitando ricorda. Alle Gallerie dell’Accademia di Venezia è in corso Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria di Venezia, a cura di Fernando Mazzocca, Paola Marini e Roberto De Feo, che ricostruisce la congiuntura storica e artistica veneziana del primo quarto di ’800, testimoniata dalla stessa nascita delle Gallerie dell’Accademia. Il professor Cesare De Michelis, presidente della casa editrice Marsilio e studioso della cultura veneta, nonché tra i promotori di questo progetto, ci accompagna in visita alla mostra. Domanda. Professor De Michelis, in che senso questa mostra racconta l’ultima gloria di Venezia? Risposta. La mostra celebra, nel suo bicentenario, l’apertura del primo museo veneziano, al quale fu affidato il compito di tenere viva la memoria e la presenza di una tradizione civile e culturale millenaria che rischiava di scomparire insieme alla Repubblica, ricostruendo con una documentazione straordinaria la vicenda secolare delle sue arti figurative. Ne sortì una raccolta della pittura veneziana come non ne esiste eguale, di qualità internazionale, che si trasformò nel primo risarcimento rispetto alle perdite di tanti capolavori sottratti alle chiese e alle scuole soppresse negli anni convulsi del periodo napoleonico. La mostra, dunque, rievoca un momento speciale della storia artistica veneziana: una stagione di rilancio culturale
© ARCHIVIO FOTOGRAFICO FONDAZIONE MUSEI CIVICI DI VENEZIA
Mostre
che si annuncia nel 1815 con il ritorno da Parigi dei quattro cavalli di San Marco, opera simbolo della città, che sono ricordati con la collocazione del calco in gesso di uno dei cavalli in apertura della mostra. D. Ogni storia ha un protagonista, e in quest’occasione l’eroe del progetto non è un artista, ma un illustre intellettuale, un mentore d’artisti, il presidente dell’Accademia di Belle Arti. R. Il regista indiscusso della congiuntura che raccontiamo fu Leopoldo Cicognara, che mirava a valorizzare lo straordinario patrimonio artistico della Serenissima, promuovendone, anche attraverso la valorizzazione dell’Accademia e dei suoi migliori allievi, la continuazione e lo sviluppo nell’arte dell’epoca. La grande modernità di quest’uomo si conferma anche nell’iniziativa di trasformare un tributo dovuto all’Imperatore, che convolava a nuove nozze, nell’Omaggio delle Provincie Venete che raccoglieva una serie di capi d’opera dei maestri veneziani che avrebbe offerto una straordinaria testimonianza della qualità dei suoi artisti e artigiani, a cominciare dalla Polimnia di Canova, da una tela di Hayez, e poi da vetri sontuosi, mobili d’arredamento, marmi e altre opere memorabili, nell’aver intuito cioè che l’operazione dell’Omaggio avrebbe offerto un’opportunità commerciale per gli artisti della sua Accademia, artisti che erano rimasti senza lavoro nei primi anni della Restaurazione. D. La mostra delinea anche una specificità veneziana, figlia della fiorente relazione tra arte e artigianato, nei suoi legami espliciti con specifici mestieri d’arte delle Venezie, tra cui il vetro, l’ebanisteria, la rilegatura. R. Si tratta della più alta e unitaria produzione artistica del Neoclassicismo veneto, frutto dello sforzo congiunto dei maggiori artisti veneti con i grandi maestri d’arte veneziani del tempo. In questo senso simbolico è il caso del tavolo disegnato dal grande Borsato, pittore prospettico e ornatista: il suo piano in smalti e bronzi avrebbe dovuto dimostrare alla Casa Imperiale quanto le fornaci muranesi fossero in grado di produrre, in un’epoca nella quale erano i cristalli di Boemia a essere à la page, mentre il vetro muranese dalla fine del ’700
non riscuoteva più il successo dei secoli precedenti. D. Si tratta infatti di un gruppo di opere rappresentativo di tutte le arti: dipinti, gruppi scultorei, due are e altrettanti grandi vasi di marmo, il già citato tavolo in bronzo e legno nonché due preziose rilegature, il cui ruolo era quello di costruire un ponte tra le opere d’arte donate e la preservazione della loro memoria, celebrando al contempo la fiorente industria culturale veneziana dell’editoria d’arte. Non è così, professore? R. Per immortalare l’operazione Cicognara fece incidere al tratto tutti i diversi capi d’opera che componevano il donativo e li fece raccogliere in un album, che ebbe poi una discreta diffusione e si trova ancora nel mercato antiquario. Esso recava nell’elegante frontespizio il recto e il verso della medaglia modellata in cera da Angelo Pizzi con i ritratti degli sposi, un pezzo che segna un punto fermo nella resurrezione della medaglistica veneziana dopo decenni. Due esemplari unici dell’album realizzati in pelle, per i coniugi imperiali, proponevano rilegature squisite arricchite da stemmi araldici agli angoli e da rilievi tondi e ovali in argento dorato, cesellati dal vicentino Bartolomeo Bongiovanni. La copia dedicata all’Imperatore recava anche, al centro, il medaglione riproducente il Giove egioco in calcedonio sardonice. È quest’ultimo uno dei pezzi più interessanti e significativi tra i molti capolavori che questa mostra propone alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, inaugurata lo scorso 29 settembre e visitabile fino al 2 aprile 2018. La Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship, organizzazione internazionale non profit basata a Ginevra che promuove i valori dei mestieri d’arte e della creatività, è tra gli enti che hanno deciso di supportare fattivamente l’Ultima gloria di Venezia. Perché lungi dal segnare un limite, questa mostra, e in particolare l’inedita ricongiunzione dell’Omaggio delle Provincie Venete, rievoca il sapiente rispecchiarsi di quei corpi, celesti o terrestri, che gravitano intorno al bello: il committente, l’artista, l’artigiano, il mediatore, il mercante, il collezionista, il conoscitore.
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Sopra, «Ritratto di Leopoldo Cicognara» realizzato da Francesco Hayez nel 1816 circa. Sotto, un leone raffigurato dallo scultore Antonio Canova. A fianco, dal basso, statua «Omaggio delle Provincie Venete alla Maestà di Carolina Augusta Imperatrice d’Austria» 1818; un’opera parte del «Tavolo dell’Omaggio delle Provincie Venete» (1818) di Giuseppe Borsato, Bartolomeo Bongiovanni e Benedetto Barbaria.
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di Alberto Gerosa
LA LEGGENDA
Da sinistra: Acqua, Aria, Terra e Fuoco si cristallizzano nelle forme di questi quattro vasi (altezza 25 cm) del designer Jirˇ´ı Šuhájek (moser-glass.com/en).
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DI GHIACCIO
CON I SUOI 160 ANNI DI STORIA, LA VETRERIA MOSER DI KARLOVY VARY, NELLA REPUBBLICA CECA, PERPETUA E INNOVA NEI SUOI MANUFATTI LA MEMORIA STORICO-ARTISTICA DELLA BOEMIA
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A destra, la lampada da tavolo Stephanie, realizzata in 50 esemplari, è un chiaro omaggio allo stile floreale dei primi del ’900. Le sue decorazioni sono state dipinte da Jan Janecký secondo i dettami che hanno fatto celebre la vetreria. Sotto, scorci del museo aziendale, dove la storia della vetreria si dipana sotto lo sguardo vigile del fondatore Ludwig Moser (1833-1916). Nella pagina a lato, vaso Lake World (33 cm di altezza), Collezione Moser 2017, celebrativa dei160 anni dell’azienda.
È una storia fatta di ghiaccio e fuoco, quella che vi stiamo per raccontare. Soprattutto di ghiaccio. Quello che il vetro cristallo dell’azienda fondata nel 1857 da Ludwig Moser nella località boema di Karlovy Vary emula in maniera del tutto virtuosistica, quasi a suffragare l’antico abbaglio di Plinio il Vecchio sul cristallo di rocca, scambiato dal grande naturalista per ghiaccio pietrificato. Pur essendo solo lontanamente imparentato con quest’ultimo tipo di cristallo (che per l’esattezza è un minerale, il quarzo ialino), il vetro potassico prodotto da Moser ne imita bene il tipico colore bianco neve, reso trasparente da certosine sessioni di politura, nonché la durezza, indispensabile per assecondare al meglio l’arte degli incisori. A tale scopo gli artigiani boemi aggiungono ingredienti (noti solo agli iniziati) alla polvere di quarzo, all’ossido di silicio, alla soda e alla potassa, che fusi per ore e ore ad altissime temperature (si arrivano a superare i 1.450 °C) danno luogo all’impasto vitreo. Questo il segreto all’origine delle torri gotiche e dei bestiari in sedicesimo ibernati nei ghiacci eterni dei calici, dei piatti e dei vasi con maestria non inferiore alle mirabilia che quasi mezzo millennio fa abbellivano la leggendaria Wunderkammer praghese dell’imperatore alchimista Rodolfo II d’Asburgo. Certo, prima di poter essere decorato il vetro deve subire la trasmutazione dal bolo informe e di aspetto mieloso estratto dai crogioli al manufatto di forma compiuta. Alle fasi cruciali attendono i soffiatori e i loro aiutanti che, forti di un multiforme armamentario fatto di stampi in legno di faggio o di pero (tutti realizzati all’interno della manifattura), di pinze, cesoie e punte di diamante, formano pance e piedi, allungano gambi e tagliano escrescenze superflue. Le tensioni della materia appena plasmata vengono neutralizzate dalla permanenza all’interno del forno di ricottura. Si arriva poi alla molatura e all’incisione; quest’ultima viene quasi sempre effettuata mediante rotella, mentre si ricorre alla sabbiatura solo in combinazione con la tecnica decorativa nota con il nome di oroplastika, tanto caratteristica della produzione di Moser nel periodo della Prima Repubblica Cecoslovacca (1918-1938). Tale tecnica consiste nell’applicare fasce liquide dal colore rossastro che in seguito alla cottura e alla levigatura assumono l’inconfondibile tonalità giallo carico dell’oro zecchino, tradendo così la nobile natura di quella singolare vernice. Denominatore comune dei prodotti Moser è il loro fascino arcano e diafano, che si manifesta nelle figure incise quasi alla stregua d’im-
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mediante smalti colorati e oro. Che Moser sia una realtà di primo piano nel panorama dell’artigianato artistico internazionale è dimostrato dal fatto che questa azienda a capitale ceco al 100% gode del privilegio di far parte del prestigioso Comité Colbert, impegnato nella salvaguardia e diffusione all’estero dell’art de vivre francese. Notevole è anche l’affermazione di questo marchio in Russia, Paese che ha ispirato alcuni motivi decorativi dei cristalli Moser, dalla fauna siberiana alla moscovita Piazza Rossa, che insieme alla cattedrale di San Basilio ha suggerito al designer Konstantin Gayday un nuovo set di bicchieri da Champagne. Da sempre straordinario crocevia di uomini e saperi, la Boemia torna oggi a essere parte integrante di quell’unico paesaggio culturale che si estende tra la Repubblica Ceca e la Sassonia. Non a caso la vetreria Moser, che offre visite al suo stabilimento e al contiguo museo aziendale, costituisce ormai per molti insieme a Karlovy Vary una tappa obbligata nell’itinerario che da Praga conduce a Meissen. Un itinerario che per il viaggiatore accorto avrà il sapore di un ritorno a casa, accompagnati dalla memoria di personaggi familiari, primo fra tutti quel Giacomo Casanova che proprio da queste parti riposa... Sopra, soffiatura, molatura e lucidatura a mano con l’ausilio di agata o ematite sono alcune tra le fasi più cruciali della lavorazione del vetro cristallo a marchio Moser. A destra, un bicchiere del Whisky Set ispirato alla fauna siberiana. Oltre all’orso sono disponibili l’alce, il cinghiale, la lepre, il lupo e la volpe. Nella pagina a lato, il vaso Softhard (h 30,5 cm), novità 2016 concepita da Milan Knı´žák, che è disponibile in tre sfumature di arancione e giallo.
magini in filigrana, i cui contorni si rivelano allo sguardo in tutta la loro pienezza poco alla volta, con la complicità della luce. Né d’altronde sfugge la predilezione accordata alle tonalità sfumate, ottenute mediante la sapiente aggiunta di ossidi metallici agli ingredienti sopra ricordati. Come avviene in alcune tra le più fortunate varianti del set da Whisky concepito da Lípa Oldrˇ ich nel 1968: famoso per il suo design essenziale e per i caratteristici fondi ispessiti di bicchieri e decanter, pare essere uscito da un interno quasi borghese dei tempi di Dubcˇek e della Primavera di Praga. Una cosa è certa: siamo lontanissimi dalle orge di luce dello sfavillante, regale cristallo piombico francese... anche perché nel cristallo di Moser il piombo proprio non c’è. Chi è alla ricerca di uno sfarzo più ostentato potrà comunque optare per le preziose repliche dei vasi realizzati da Moser a cavallo tra i secoli XIX e XX, debitori in buona parte all’estetica Art nouveau, a metà strada tra Gallé e Mucha, e motivo di vanto delle raccolte del Museo del vetro di Passau, in Germania. Firmate da Jan Janecký (classe 1978), queste intriganti rivisitazioni testimoniano la continuità di un’altra eccellenza della manifattura di Karlovy Vary: la pittura su vetro
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Una delle sale del museoarchivio storico di LineapiÚ Italia a Campi Bisenzio (Fi): inaugurato nel 2012, racconta i 42 anni di storia dell’azienda leader nella produzione di filato per maglieria nel mondo (lineapiu.com).
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sul filo
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DI LANA
SALVARE UNA DELLE AZIENDE LEADER NEI FILATI PER MAGLIERIA E RIPORTARLA AL SUCCESSO: QUELLA DI ALESSANDRO BASTAGLI CON LINEAPIÙ SEMBRAVA UNA MISSIONE IMPOSSIBILE. E INVECE... d i A n d r e a To m a s i
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È una storia di amicizia e folgorazione come licenziatario per l’Oriente di diversi quella che lega il nome di Alessandro marchi, su tutti Gianni Versace, si ritrova In alto, Alessandro Bastagli, proprietario di Lineapiù Bastagli a Lineapiù Italia, azienda leacosì alla guida di un gruppo con 102 diItalia dal 2010: fu visitando pendenti, 26 milioni di euro di fatturato e der nei filati per maglieria riconosciuta i laboratori di filatura una produzione di 650mila chilogrammi a livello mondiale per la qualità dei suoi (nelle foto sopra), che si prodotti e il costante lavoro di ricerca e di filato all’anno. «Chiamai tutti a raccolta convinse ad acquistare innovazione. Quando nel 2010 Giuliano per responsabilizzare l’intero gruppo: c’era l’azienda in gravi difficoltà. A lato, tessuto Angel (p/e Coppini, colui che aveva fondato Lineauna barca da salvare dal naufragio, solo 2018, Collezione Lineapiù). più nel 1975, chiede all’amico Alessandro remando tutti insieme potevamo pensadi acquistare la sua realtà, l’azienda versa re di farcela». Sette anni dopo, i numeri in gravi condizioni finanziarie. «Tecniraccontano il successo dell’impresa: i dipendenti sono saliti a 150, il fatturato si camente era fallita», racconta Bastagli, assesta sui 44 milioni di euro e il filato prodotto supera il insignito nel 2016 del prestigioso premio Talents du Luxe. «Accettai l’invito di Giuliano a visitare la fabbrica più per milione di chilogrammi. «Le parole chiave del rilancio, nel il rapporto che ci univa che per reale interesse: non avevo rispetto della storia e della tradizione di Lineapiù, sono alcuna competenza sui filati e inoltre fino ad allora ero stato state e continuano a essere qualità, innovazione e servizio. più un mercante che un industriale. Quando tuttavia entrai Il cliente, specie quelli della fascia lusso (Lineapiù Italia nei laboratori dove Coppini aveva creato prodotti rivoluzioproduce tra gli altri per Chanel, Prada, Louis Vuitton e nari come il primo filato 100% viscosa, o ancora il filo d’aria Gucci, ndr), deve essere continuamente stimolato. Convuoto all’interno per permettere un isolamento termico siderata la vastità dell’offerta, bisogna riuscire a emozionare il compratore aiutandolo nella scelta, spiegandogli ottimale, mi si aprì un mondo complesso e affascinante in cosa potrà realizzare optando per questo o quel filato, tutte le sue sfaccettature. Ricordo ancora perfettamente la fornendogli soluzioni. Inoltre, dobbiamo essere pronti sensazione di entusiasmo con la quale uscii dall’azienda. a soddisfare qualsiasi richiesta del cliente, ormai sempre Tornai a casa dai miei figli e chiesi loro un consiglio: le più esigente, consapevole e attento». potenzialità di Lineapiù mi apparvero chiare da subito, così Emozione, cura e attenzione sono altre parole che si ripecome i rischi correlati a quell’investimento così importante. tono nel racconto di Bastagli, non sempre le prime a cui “Papà, fai come credi, il tuo istinto non ti ha mai tradito”, si pensa quando la narrazione tocca una realtà industriale. mi dissero. Fu così che decisi di infilarci la testa dentro». «Ma per certi procedimenti, per alcuni tipi di filato, c’è un Testa e cuore. Bastagli, figlio di un orologiaio affermatosi
lavoro di manualità che richiama quello Fu l’inizio di un’avventura straordinaria Alcune fasi del lavoro dei nostri artigiani», spiega il manager. durata fino alla morte di Gianni. Sono in tintoria, dagli estrattori Così come avulsa da libri contabili e conti grato di aver avuto la possibilità e il pri(in alto, a sinistra) vilegio di poter lavorare con una persona da quadrare è una delle prime iniziative al dettaglio delle vasche a come lui, le cui capacità, talento e cremesse in campo da Bastagli, il Lineapiù braccio (a destra) fino atività erano davvero unici». Award. «È un concorso rivolto a giovani agli asciugatori (qui sopra). E la moda, respirata e vissuta da Bastagli designer già inseriti sul mercato con le Nella pagina a lato, tessuto Luxor (a/i 2015/16, nell’intero arco della sua carriera, torna loro creazioni ma bisognosi di un aiuto Collezione Lineapiù). prepotentemente anche nella prossima concreto. Per due volte all’anno una giuria altamente specializzata seleziona un sfida: il manager ha da pochi mesi acquisitalento da premiare: per tre anni, ovvero to il brand di lusso Shanghai Tang, fondaper sei collezioni, il prescelto avrà comto nel 1994 da David Tang a Hong Kong. pleto accesso ai filati di Lineapiù e al suo archivio storico «Per ora abbiamo lanciato una nuova linea di foulard, piccola pelletteria e «custom jewellery», l’anno prossimo debuttereper la creazione del proprio campionario». D’altra parte, scovare nomi emergenti della moda sui quali scommettere mo con una collezione completamente rinnovata all’insegna e puntare è uno degli aspetti che caratterizza il percorso dell’alta qualità delle materie prime, rigorosamente italiane, a un prezzo però ragionevole. Per me è una gioia occuparmi professionale di Bastagli da sempre. Il filo del racconto ci di un marchio elegante, ironico e raffinato come Shanghai riporta inevitabilmente indietro, nella Milano di fine anni Tang, di cui per altro sono sempre stato grande estimatore 70. «Lavoravo per diverse aziende di pelletteria, al Mipel nei miei viaggi in Oriente. Per 18 anni ho trascorso almeno (Fiera internazionale della borsa e dell’accessorio moda, quattro mesi l’anno nel Sud-est asiatico, devo la mia fortuna ndr) mi imbattei nel lavoro di questo giovane stilista calabrese, Gianni Versace. Chiesi di poterlo avere nel mio a quell’angolo di mondo. E pensare che la prima volta che portfolio, mi spiegarono che le borse facevano parte di una ci andai, nel 1973, fu un vero disastro: nessuno comperò i collezione più ampia che comprendeva anche e sopratportafogli del marchio che ai tempi rappresentavo perché tutto abbigliamento: o mi prendevo l’intero pacchetto, o non ci stavano gli yen, il cui formato era molto diverso sia niente. Mi invitarono così alla sua prima sfilata e ne rimasi dalle lire che dai dollari». Rientrato in Toscana, Bastagli non conquistato. Non aveva ancora una sede, ricordo che per perse tempo e fece rifare l’intero campionario in dimensione perfezionare gli accordi ci trovavamo nello studio da comSol Levante. Quindi ripartì alla volta del Giappone tornando mercialista di Santo, il più grande dei tre fratelli Versace. con le valigie vuote. Quando si dice avere fiuto per gli affari.
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In questa pagina, il taglio di un pennino Montblanc. A fianco, stilografica in oro rosa della Collezione Montblanc High Artistry dedicata ad Annibale e realizzata in 86 esemplari (furono 86mila i soldati che attraversarono le Alpi con il condottiero cartaginese).
Parlando di scrittura
IL PENNINO IN ORO DI OGNI STILOGRAFICA MONTBLANC VIENE REALIZZATO ANCORA OGGI DA ARTIGIANI CHE GLI DEDICANO OLTRE 100 FASI DI LAVORAZIONE. UN’ESPERIENZA SENSORIALE CHE COINVOLGE ANCHE L’UDITO... di Raffaele Ciardulli
Il suono della
PERFEZIONE
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Parlando di scrittura
Sopra e nella pagina a fianco, in basso, la goffratura: è la stampa della decorazione sul pennino. A destra, in alto, la fase della molatura o gradazione: serve per dare la forma a ogni pennino, per cui sono necessarie oltre 100 fasi di lavorazione (montblanc.com).
Scrivere è manifestarsi. Rendere manifesta la propria identità. Fissarne una traccia, per quanto effimera e, fissandola, definire il contorno del proprio pensiero o delle proprie emozioni, presagire, predisporre, preparare le proprie azioni. La penna, anzi il pennino, aggiunge senso, aggiunge segno, aggiunge corpo. Aggiunge equilibrio: l’attività della mente si fonde con quella della mano, insieme creano, dosando tempi e pressione, spessori e tratti. Un equilibrio fatto di differenze sconosciute al movimento del polpastrello che, agile, si muove sulla tastiera, con la stessa cadenza, con la stessa pressione, con la stessa monotona percussione. Un equilibrio fatto di differenze ricercate da chi sfugge l’omologazione meccanica; una ricerca di verità e di qualità. La manifattura di Amburgo che dal 1906 crea gli strumenti da scrittura Montblanc è uno dei luoghi in cui si coltiva questa qualità grazie alle eccellenze della progettazione e della realizzazione manuale. Il pennino in oro di ogni Meisterstück viene ancora oggi realizzato da maestri artigiani che gli dedicano 35 diverse fasi di lavorazione, che precedono altre 70 fasi necessarie all’assemblaggio e al collaudo. Nessun
senso viene tralasciato, nemmeno l’udito: uno specialista ascolta attentamente il suono che ciascun pennino produce scivolando sulla carta; solo un suono continuo certifica la sua perfezione. Nel laboratorio artigiano, nel cuore della manifattura, altre eccellenze si incontrano. L’abilità dei maestri orafi e degli incastonatori, la preziosità dei metalli, l’estro dei disegnatori. Tutte qualità necessarie per la realizzazione delle edizioni limitate. Altre vette della personalizzazione sono state conquistate dai maestri artigiani di Montblanc Creation Privée, che realizzano capolavori da scrittura in esemplari unici portando nella materia i sogni di clienti particolarmente esigenti. Uno straordinario esempio di questa maestria è la Figurado Creation Privée: uno strumento di scrittura ispirato alla passione per i sigari e ricoperto di autentiche foglie di tabacco. Per la sua realizzazione, la capacità di personalizzazione è stata spinta sino all’esplorazione di nuove tecniche di estrazione dell’olio contenuto nelle foglie di tabacco, prima di avvolgerle sul corpo metallico della stilografica. Per la protezione delle foglie sono stati utilizzati rivestimenti di cellulosa presi in prestito
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Sopra, il controllo manuale: questa operazione viene fatta su ogni esemplare. A lato, dall’alto, l’applicazione della maschera prima del trattamento galvanico; i pennini che hanno superato i test di qualità possono essere assemblati al corpo di una Meisterstück.
dalle tecniche di restauro. È stato quindi realizzato un apposito pennino retrattile in oro per rispettare la forma del sigaro. Un sigaro speciale, impreziosito con gemme, decori in oro bianco e l’emblema Montblanc con un diamante alla sommità del cappuccio. Nulla è stato tralasciato, nemmeno nella confezione, creata con il legno più pregiato e un pannello in vetro in modo che la stilografica possa essere ammirata senza subire il trauma di uno sbalzo di umidità. Il futuro proprietario della Figurado ha partecipato ai processi creativi e alla loro messa in opera che ha potuto seguire via webcam interagendo sui più piccoli dettagli con esperti artigiani, gioiellieri, incastonatori di diamanti e incisori di pennini. Ma l’abilità nella creazione di oggetti eccezionali degli atelier della Montblanc Creation Privée non mette certo in ombra la specifica, distintiva competenza della Maison di Amburgo: l’arte della scrittura. Arte nei cui gesti esprimiamo le sfumature della nostra personalità, arte al cui servizio è nato il Montblanc Bespoke Nib, che cattura ed esalta quell’espressione così squisitamente individuale che è la grafia. La sede di Amburgo e una selezio-
ne di boutique Montblanc, tra cui quelle di Hong Kong, Shanghai, Singapore, Tokyo, Città del Messico, Dubai, New York, Milano e Mosca, offrono ai propri clienti un accurato esame della grafia, che consente di individuare il pennino capace di esprimere al meglio la personale maniera di far interagire pensieri e gesti, penna e carta. I clienti, utilizzando uno strumento sviluppato e realizzato da Montblanc, possono scrivere un breve testo grazie al quale diviene possibile analizzare i parametri chiave della propria grafia tra i quali la velocità, la pressione, il campo di oscillazione, la rotazione e l’angolazione. Questi dati vengono esaminati da un esperto che identifica il pennino ideale per ciascun tipo di grafia, che potrà essere scelto tra le otto varianti esistenti o creato manualmente su misura in oro massiccio dagli artigiani della manifattura, che potranno personalizzarlo anche con l’incisione di un breve testo. Attraverso un’esperienza intensamente individuale, scrivere diventa così il più privato dei gesti, la più essenziale e distintiva manifestazione di stile. Poiché lo stile, etimologicamente, altro non è che la specifica maniera di scrivere: di usare uno stilo.
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92 DALLA PASSIONE PER LA FALEGNAMERIA AL DESIGN: A DIECI ANNI DALLA MOSTRA «100 CHAIRS IN 100 DAYS», MARTINO GAMPER RILANCIA IL BEN FATTO PER UNA LUNGA DURATA
In queste pagine, dettaglio del paravento della collezione Re-Connection di Alpi, dove Martino Gamper reinterpreta il laminato disegnato da Ettore Sottsass negli anni 80 tagliando le venature già distorte in angoli acuti per un effetto 3D che manipola la prospettiva.
Maestri contemporanei
La svolta È DIETRO
l’angolo di Ali Filippini
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94 Martino Gamper ha scelto di vivere e lavorare a Londra dove ha studiato presso il Royal College of Art. Nato a Merano dove ancora giovane si avvicina all’arte della falegnameria, ha partecipato al corso di scultura dell’Accademia di Belle arti di Vienna, tenuto da Michelangelo Pistoletto, seguendo poi un corso di design con Matteo Thun col quale ha lavorato. Sono passati dieci anni dalla sua prima mostra dove ha riconfigurato cento sedie abbandonate e recuperate dimostrando un’attitudine «tecno-performativa» diventata poi la sua cifra espressiva. Recentemente ha esteso le collaborazioni dal design a piccoli progetti per fashion brand come capsule collection di accessori (Valextra) e creazione di display per vetrine (Prada). Domanda. La mostra sulle sedie riconfigurate, come fosse un format, è ripetuta in diversi Paesi (la scorsa primavera in Nuova Zelanda). Che cosa ha significato quell’iniziale performance? Risposta. L’esperienza di 100 Chairs in 100 Days è senza dubbio stata il mio ingresso nel mondo del design, il momento in cui ho ricevuto un po’ di notorietà come progettista. Ora la creazione delle sedie è arrivata a più del doppio ed è in corso di preparazione un libro. Alla base di questo progetto c’è un metodo di lavoro che io trovo ancora utile, da questo punto di vista non mi stanco di andare avanti nell’esercizio, oltre al fatto
In basso, una parte della collezione «100 Chairs in 100 Days», un progetto personale, iniziato nel 2007 e ancora in corso, dedicato all’oggetto sedia, trasformata ad arte a partire da modelli trovati e assemblati. A lato, il paravento di Alpi e un ritratto del designer (martinogamper.com).
che sono veramente interessato all’oggetto sedia. Non avrei mai fatto una cosa simile a Milano o comunque in Italia. Il fatto di trovarmi a Londra, dove la mancanza di una vera filiera di artigianato, come può essere per noi il caso della Brianza, e soprattutto di una certa sua cultura, ha permesso alla fine che io potessi creare liberamente un mio progetto personale (dove l’approccio progettuale di Gamper è caratterizzato anche dalla conoscenza della storia del design, come dimostrano le successive performance in cui smonta e riassembla mobili originali disegnati da Gio Ponti o Carlo Mollino). D. Recentemente si è misurato con l’azienda di laminati Alpi, con un’icona come il pattern ligneo di Ettore Sottsass... R. È stata una bellissima sfida perché mi ha permesso di interpretare qualcosa che aveva già un suo linguaggio legato al postmoderno e agli anni 80; tramite Patrizia Moroso dell’azienda omonima con cui collaboro da tempo, ho avuto modo di incontrare Vittorio Alpi che mi ha concesso grande libertà nel progetto. Ho scelto subito un approccio diretto e al posto di far lavorare il blocco di legno messomi a disposizione per ricavarne dei pezzi ho preferito segarlo in angoli diversi, ricorrendo ai macchinari e al laboratorio. Una volta tagliato in fogli, la venatura si era distorta in tre modi differenti che ho usato per dare tridimensionalità alla nuova superficie. Questa estate con il mio falegname di fiducia, col quale collaboro da 20 anni in Trentino, ho lavorato il materiale creando i tre pezzi speciali di Re-Connection. D. Come vede il ritorno al craft nel mondo del design, lei che nasce come artigiano del legno? R. Vedo un sacco di bei progetti di designer che cercano di collaborare con gli artigiani e altri che addirittura stanno riscoprendo dei nuovi mestieri cercando di unire la cultura della fabbricazione digitale a quella tradizionale. Non mi piace quando mi accorgo che si vuol far passare una cosa semplicemente fatta male, senza nessuna conoscenza tecnica, per «artigianale» solo perché magari se ne esalta il valore dell’imperfezione. Il prodotto fatto a mano per me deve avere una vita più lunga di un prodotto industriale, quindi la cura con cui
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lo fai e lo perfezioni è molto importante. Anche al di là della sperimentazione che peraltro può essere assente. Quindi in questa sorta di ritorno al fatto a mano trovo da un lato chi lo fa con l’impegno giusto e dall’altro chi semplicemente copia cercando solo di suggerire un «effetto craft» nell’oggetto finito... D. Collabora anche con importanti industrie del mobile. Ci sono delle differenze nella relazione con questi laboratori? R. Direi di no, la differenza sta semmai nella quantità e in alcuni dettagli ma le macchine e le tecnologie che si adoperano sono le stesse. Specie in Italia, dove le aziende che realizzano mobili di design sono ancora relativamente piccole e in fondo ancora molto artigianali. Il prodotto che ne esce è diverso ma il luogo di lavoro e il processo non sono poi tanto dissimili. A Londra mi appoggio su due botteghe-laboratori. Uno, più piccolo, si trova vicino allo studio, ad Hackney, ed è un laboratorio dove con la mia squadra prepariamo dai prototipi di studio ai pezzi finiti, come per l’ultima collezione Round & Square presentata al London Design Festival a settembre. L’altra bottega, più grande, si trova fuori città ed è un luogo di lavoro condiviso con un amico artista e progettista dove riesco a realizzare progetti più grandi.
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IL SUPERFLUO NELLE COLLEZIONI CHE PORTANO IL SUO NOME, MARTA SALA UNISCE LE IDEE DEGLI ARCHITETTI LAZZARINI E PICKERING AL SAPER FARE DI UN TEAM DI ARTIGIANI BRIANZOLI. SENZA DIMENTICARE GLI INSEGNAMENTI DELLO ZIO LUIGI CACCIA DOMINIONI
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Alcune delle creazioni di Marta Sala Éditions: divano Elisabeth, tappeto Ludovico con inserti in ottone, tavolo basso Mathus con piano di cristallo e paravento Luis. Nella pagina a fianco, lampada da parete in ottone Claudia (martasalaeditions.it).
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© ANTOINE ROZÈS
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«IL LUSSO OGGI È CONFORMARE LO SPAZIO AI PROPRI BISOGNI. NON LO DEFINISCE PIÙ L’ARCHITETTO, MA CHI DEVE ABITARLO»
Competenza, divertimento, passione: Marta Sala parla veloce, le frasi si rincorrono così svelte che quasi fai fatica a starci dietro. Il suo è un entusiasmo che ti travolge, quello di chi crede profondamente in ciò che fa. In più c’è l’euforia di un debutto recente, perché anche se questa signora alta, sottile e bella ha una storia personale e professionale indissolubilmente e da sempre legata al design, la sua ultima e più intima creatura ha giusto un paio d’anni e porta il suo nome, con l’aggiunta del termine Éditions che tradisce l’amore per la Francia, Parigi in particolare, la città dove ha da poco aperto un appartamento-atelier che nelle intenzioni diventerà punto d’incontro e confronto di idee e creatività. Mestieri d’Arte & Design la incontra invece nello showroom milanese dove sono esposti alcuni dei circa 40 pezzi realizzati dal 2015 a oggi con la collaborazione di due specialissimi «partners in crime», gli architetti Claudio Lazzarini e Carl Pickering. «Quando ho dato vita a Marta Sala Éditions, l’intenzione era quella di affidare ogni collezione a un progettista diverso. Il “problema” è che con Claudio
e Carl l’intesa è totale, ciò che facciamo funziona e piace e in più ridiamo moltissimo: perché cambiare? Ciò non toglie che in futuro mi piacerebbe lavorare con altri architetti o designer che condividano la mia stessa visione», ovvero complementi d’arredo funzionali e senza tempo, pezzi unici creati per l’esigenza specifica di un cliente ma riproducibili e in grado di adattarsi a spazi preesistenti. «Il lusso oggi è poter conformare lo spazio ai propri bisogni. Non è più l’architetto a definirlo, ma chi quello spazio lo deve abitare. Per questo i miei mobili sono perfettamente rifiniti da ogni punto di vista, perché qualunque loro parte può essere esposta», così racconta con tono appassionato. Per arrivare al risultato finale, il lavoro di Lazzarini, Pickering e Sala ha bisogno di essere tradotto dalla sapienza di mani artigiane che trasformino il disegno in oggetto: «Sono lo strumento che dà vita all’idea. Il contatto con artigiani straordinari è forse l’aspetto più gratificante della mia professione, anche perché si entra in contatto con un mondo etico di rispetto e onore dove vale ancora la parola data, un mondo di fiducia e conoscenza. Noi
Sopra, un dettaglio del tavolo Eugenio in ottone satinato e la lampada Megan in ottone e marmo. Qui sotto, il retro della sedia Murena con stampa floreale. Nella pagina a lato, Marta Sala posa nel suo atelier parigino.
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«HO CREATO UNA RETE DI ARTIGIANI IN BRIANZA. IN DIECI CHILOMETRI HO TUTTE LE COMPETENZE CHE MI SERVONO»
Sopra, tavolino Harry con piani in marmo di Calacatta e lampada da terra Guya classic. Qui sotto, un dettaglio della scrivania Cristoph. Nella pagina a fianco, lo specchio da tavolo o parete Renoir.
italiani diamo talmente per scontato il nostro talento da dimenticarcene. Ho creato una mia rete in Brianza, terra d’eccellenza nell’arredo: in dieci chilometri ho tutte le competenze che mi servono. Amo seguire la realizzazione di ogni pezzo personalmente, e l’artigiano non è solo un mero esecutore: il suo contributo è fondamentale nella definizione della proporzione di un oggetto, dei materiali più idonei da utilizzare, nel raggiungimento dell’obiettivo finale che è e resta la fruibilità. È incredibile il livello qualitativo raggiunto dai nostri maestri negli ultimi anni, così come è sorprendente la loro voglia di mettersi sempre in gioco, accettare nuove sfide, trovare soluzioni inedite a cui prima non avevano mai pensato con una velocità che è propria di chi ha una profonda conoscenza del mestiere». Mediatrice tra l’architetto/designer e l’artigiano, Marta Sala cerca anche di coniugare nelle sue collezioni contemporaneità e mestiere d’arte, futuro e passato; e così spiega: «Innovazione per me significa prendere pezzi dal sapore classico e dare loro una nuova identità multifunzionale prestando la massima at-
tenzione all’armonia finale dell’oggetto e ai dettagli che fanno parte integrante del progetto e lo discostano dalla produzione industriale». Dettagli che definiscono l’unicità del pezzo e non sono mai superflui, una lezione questa che la Sala ha imparato dallo zio, l’architetto, designer e urbanista Luigi Caccia Dominioni, che nel 1947 diede vita con il collega Ignazio Gardella e con la madre di Marta, Maria Teresa Tosi, ad Azucena, storico marchio del Made in Italy di cui la Sala è stata a lungo direttore creativo. Del suo retaggio ricorda: «Sento una forte responsabilità per la mia storia, quello che oggi si definisce heritage. Vengo da un mondo che non c’è più. A mia madre devo il gusto, l’ossessione per i materiali, i colori. Lo zio, invece, mi ha insegnato il rigore, il non concedere spazio a ciò che non serve. Un mobile deve essere intelligente, fatto bene, bello da vedere e con un costo ragionevole. Deve avere una sua verità, un’anima. Oggi, grazie anche ai social media, i clienti sono più esigenti e preparati. Chi arriva da me sa che ogni pezzo ha una sua storia radicata in quella cultura del saper fare italiano che ci rende unici».
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102 La raffinatezza delle linee, la creativitĂ e la perfezione del lavoro delle abili mani delle ricamatrici rendono il ricamo di Madera una vera arte.
Eccellenze dal mondo
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IL RICHIAMO
SULL’ISOLA PORTOGHESE 3.188 ARTIGIANE TESSONO RAFFINATE TRAME DI LINO, SETA, COTONE E ORGANZA: È IL BORDADO MADEIRA, UN MARCHIO CERTIFICATO CHE VALORIZZA NON SOLO LA BELLEZZA DI QUEST ’ARTE, MA ANCHE IL GESTO DELLA MANO
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di Francisco Oliveira
È il disegno l’anima di questo speciale ricamo: i movimenti fluidi e graziosi, la composizione di motivi floreali o l’alternanza di figure geometriche, disposti in strutture che rivelano una grande libertà artistica e un marcato genio creativo, conferiscono ai prodotti un carattere unico, romantico, poetico, mostrando la capacità delle artigiane di adattarsi anche alle tendenze sempre in divenire della moda. Tutto comincia dall’ispirazione del disegnatore che tradizionalmente elabora il suo progetto su carta. Il disegno passa poi al foratore, che ne buca i contorni lungo i tratteggi perimetrali. Segue quindi la fase di stampaggio: una spugna, intinta in una speciale miscela dal colore azzurro, viene passata sulla carta, in modo da marcare il tessuto nelle aree che saranno ricamate. Terminato questo stadio, il pezzo di tessuto stampato, insieme a fili di vario colore, passerà nelle mani agili e pazienti di una ricamatrice che vive di solito in campagna: qui, il saper fare tramandato di generazione in generazione è il principale ingrediente che porterà al compimento di un lavoro lungo e minuzioso, che può richiedere anche alcuni mesi per essere completato. Tovaglie, vestiti, camicie, lenzuola o delicati fazzoletti: nessun pezzo è
Eccellenze dal mondo
Il disegno è l’anima del ricamo di Madera. I movimenti della natura sono prestati al ricamo dando ai manufatti un carattere unico. La varietà e la bellezza dei disegni nascono dall’ispirazione dei disegnatori, che dal secolo scorso ne hanno composti a migliaia, tutti dotati di alta sensibilità, anche grazie all’influenza multiculturale e di vari movimenti artistici.
mai uguale all’altro, e ognuno di essi ha un’impronta personale legata ai valori della raffinatezza, della genuinità e della bellezza. Un’esclusività accentuata dal solo uso di tessuti pregiati quali il lino, la seta, il cotone e l’organza. Concluso il lavoro della ricamatrice il tessuto torna nelle fabbriche, che nella maggior parte dei casi hanno sede nelle vicinanze del capoluogo Funchal, dove i lavori vengono sottoposti al controllo finale; solo dopo tutte queste operazioni il Bordado sarà pronto per essere certificato. Una filiera di competenze d’eccellenza che necessita di essere protetta anche sul piano della qualità e dell’autenticità. Dalla fusione di più enti per la tutela dei mestieri d’arte del luogo, nel 2006 nasce a Funchal l’Instituto do Vinho, do Bordado e do Artesanato da Madeira, I.P. (Ivbam), comitato responsabile del sigillo di garanzia dei prodotti locali e della promozione e divulgazione degli stessi. Bordado Madeira viene perciò riconosciuto come un vero e proprio marchio destinato a un segmento di
lusso che valorizza non solo la bellezza e la raffinatezza del ricamo, ma anche il gesto della mano, puro e autentico, delle circa 3.188 artigiane presenti sull’isola. Per celebrare quest’arte secolare, l’Ivbam ha dedicato parte delle proprie risorse a uno spazio museale che raccoglie vere e proprie icone del ricamo di Madera, in una collezione di tessuti decorati dalla metà del XIX secolo agli anni 30 del ’900, identificando nel periodo romantico uno dei picchi di massimo splendore per questo savoir-faire d’eccellenza. Fondate tra gli anni 20 e gli anni 80 del ’900 e per la maggior parte basate a Funchal, le imprese produttrici ed esportatrici del Bordado Madeira sono custodi dell’economia locale e fautrici dell’esportazione del marchio all’estero. Patrício & Gouveia è la realtà più longeva, fondata nel 1925. Questa impresa è annualmente visitata da circa 120mila turisti che hanno modo di conoscere e comprendere le varie fasi di lavorazione del Bordado Madeira. La grande varietà di articoli (letto, tavola, bagno, bambino e souvenir) viene esportata anche in Giappone, Arabia Saudita e Stati Uniti, oltre a essere presente sul mercato europeo. Al 1926 risale la fondazione di un’altra storica fabbrica, Abreu & Araújo che con ben tre punti vendita nell’arcipelago produce bordados con disegni sia classici sia moderni. Intorno al 1930 nasce Luís de Sousa: tovaglie, asciugamani con i propri monogrammi, lenzuola e tende vengono esportati soprattutto in Inghilterra, Italia, Francia e Spagna. Dall’agosto 1946 João Eduardo de Sousa si dedica alla produzione di qualità. I suoi ricami sono destinati sia al mercato regionale che all’esportazione oltre i confini nazionali. Anche con il cambio di gestione nel 1996, l’alta artigianalità continua a essere un caposaldo della filosofia del marchio. Una peculiarità delle fabbriche è spesso la conduzione a carattere familiare, come Daniel Canha - Bordados, fondata nel 1956. La ditta Bordal è attiva dal 1962: lino e cotone vengono reinterpretati in chiave moderna mantenendo intatto il know-how artigiano. La più giovane, Maria Alice G. Abreu, nata nel 1980, ha partecipato anche all’Expo di Lisbona di fine secolo. Tutti questi nomi sono legati a storie uniche e personalissime, un vero e proprio patrimonio per il futuro culturale ed economico della rigogliosa isola-giardino dell’Atlantico.
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Da secoli specializzata nella realizzazione di arazzi, la manifattura parigina dei Gobelins è diventata sinonimo stesso di questo raffinato e antico mestiere, che oggi trova nuove declinazioni e suggestioni grazie a un dialogo fertile ed efficace tra artigiani e artisti. Nella foto, un maestro d’arte esegue un nodo per realizzare un arazzo di nuova concezione.
Tradizioni da preservare
ILSOGNO
di Colbert
80MILA MOBILI PREZIOSI, TAPPEZZERIE PREGIATE, TAPPETI RAFFINATI. DAL 1937 NELLA STORICA MANIFATTURA DEI GOBELINS E NEL MOBILIER NATIONAL SI RESTAURA LO SPLENDORE DEL PASSATO CHE CONTRIBUISCE AL PRESTIGIO FRANCESE NEL MONDO SIN DAI TEMPI DEL RE SOLE
di Alberto Cavalli
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Tradizioni da preservare
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Sono più di 80mila i mobili preziosi, le tappezzerie pregiate, i tappeti raffinatissimi che l’istituzione francese del Mobilier National attualmente conserva o restaura; pezzi che raccontano la storia più nobile e bella di Francia e che ancora sono utilizzati per arredare i palazzi del potere come l’Eliseo, o come i più importanti ministeri. Il luogo che dal 1937 riunisce la storica Manifattura dei Gobelins (celeberrima per gli arazzi, da secoli considerati tra i più belli del mondo) e il Mobilier National è un’autentica cassaforte del tempo, del saper fare e delle tradizioni d’eccellenza: qui si perpetua quel sogno di grandezza che, sin dai tempi di Colbert, contribuisce al prestigio francese nel mondo. Il saggio ministro del Re Sole, che volle fare di Parigi la capitale del gusto, del bello e del lusso, oltre che dello sfarzo, creò infatti un sistema di manifatture che ancora oggi sono considerate parte integrante del patrimonio francese: luoghi tuttora vivaci e vitali, les Gobelins e il Mobilier National sono un invito alla scoperta della bellezza che può nascere quando il mestiere incontra l’arte e quando la scienza e l’artigianato procedono insieme per donare nuova vita allo splendore del passato. Catherine Ruggeri, dal luglio 2017 responsabile del Mobilier National per il ministero della Cultura, sa bene che la reputazione del savoir-faire francese, che si
basa su una tradizione d’eccellenza antica di almeno quattro secoli e aperta alla modernità, è un grande attrattore per gli artisti che percepiscono nell’arte tessile un nuovo modo di espressione. Un’intuizione, quella di legare il savoir-faire dei maestri tessitori dei Gobelins all’ispirazione creativa degli artisti, che ha trovato piena affermazione soprattutto dal 1964, quando André Malraux crea all’interno della manifattura un atelier di ricerca e di produzione artistica contemporanea. Sino alla prima metà del XX secolo, in effetti, l’universo dell’artista inteso come creatore del modello e quello del tessitore, che del modello stesso era il realizzatore, erano considerati come distinti. Oggi il nuovo metodo di lavoro che si è affermato presso le manifatture, ispirato a uno scambio fruttuoso tra il creativo e il suo interprete, interroga e attira gli artisti in maniera forte, sostanziale. E disegna una nuova linea vitale per le manifatture e per il Mobilier National, custodi di un’identità che si apre allo spirito del futuro facendo breccia nel cuore dei giovani. Domanda. Quali sono i rapporti tra il Mobilier National e la contemporanea produzione artistica? Risposta. Oggi disponiamo di una grande autonomia d’iniziativa e di azione, che ci permette di stabilire le migliori condizioni
MOBILIER NATIONAL - THIBAUT CHAPOTOT
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di collaborazione tra artisti (non solo francesi, ma internazionali) e tessitori. Gli artisti percepiscono nell’arte tessile un modo d’espressione congeniale per esprimere la loro visione del mondo; e la tecnica della tessitura a licci ha la particolarità di offrire possibilità infinite di scrittura. I modelli non sono più creati solo dai pittori, ma anche da incisori, scultori, architetti, fotografi, designer. La dialettica tra creativo e interprete costituisce uno stimolo efficace per tutti i processi artistici. La commissione consultiva, costituita nel 1962 e presieduta dal direttore artistico, esamina ogni anno le proposte di acquisto dei modelli da tessere: questa commissione contribuisce a elaborare delle scelte d’acquisto coerenti e dinamiche e permette alla produzione tessile di esprimere le visioni estetiche di ogni epoca e di affermare il ruolo delle manifatture nella scena artistica. D. Questo patrimonio straordinario è percepito come prezioso dai francesi? R. L’entusiasmo che riscontriamo da quando il Mobilier National è visitabile è un buon indicatore dell’interesse del pubblico per lo straordinario patrimonio della nostra istituzione: 6mila visitatori accorrono ogni anno a visitare le manifatture, in occasione delle Giornate del patrimonio; e altre centinaia di migliaia visitano i palazzi della Repubblica, con i loro mobili e i loro arazzi re-
alizzati o restaurati qui. Il pubblico apprezza molto le occasioni di incontro diretto con i luoghi dove si crea e dove si restaura: amano vedere come i grandi capolavori tornano a vita nuova, vedendoli con un occhio diverso rispetto a quando sono esposti nei musei. D. E le giovani generazioni hanno interesse ad apprendere il mestiere, o a conoscere meglio la storia e le attività delle manifatture? R. Il Mobilier National suscita addirittura vocazioni spontanee nei giovani, soprattutto in occasione delle esposizioni speciali e delle giornate di apertura al pubblico. La nostra istituzione è anche in grado di erogare formazione: qui il mestiere si impara sotto forma di apprendistato, che dura quattro anni. Al termine di questo periodo di apprendimento vi sono dei concorsi specializzati, per permettere a chi si è distinto di entrare nell’organico del Mobilier National. Constatiamo una sempre maggiore percentuale di giovani, già in possesso di un diploma di scuola superiore, che desiderano tornare a mestieri più concreti, al lavoro sulla materia; giovani che vogliono apprendere il disegno, la storia dell’arte e degli stili. Integrare la loro formazione con la nostra ha per loro un senso molto profondo: qui riscoprono la forza del patrimonio storico e culturale e diventano pienamente consapevoli della fondamentale importanza di conservare e trasmettere questo savoir-faire antico di secoli.
Conservazione, restauro, creazione: il Mobilier National e la manifattura dei Gobelins non sono solo luoghi di preservazione dell’eccellenza del passato, ma sono veri e propri atelier in cui pezzi magnifici rinascono a nuova vita, in cui si creano capolavori inediti, in cui si formano giovani generazioni di maestri (mobiliernational. culture.gouv.fr).
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Sopra, il decoro in ceramica Plumage di BottegaNove. Nella pagina a fianco, dall’alto: lampada a sospensione in ceramica Babette di Torremato; la collezione per la tavola e l’home decor Dolce Vita di Paola C., omaggio agli anni 50. «Ho avuto la fortuna di conoscere molti bravi artigiani che vado a cercare a seconda di quello che devo fare», spiega Cristina Celestino. «Vedendo il luogo in cui lavorano riesco a capire se ci sono i presupposti per continuare».
Linguaggi progettuali
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collezionista
DI IDEE Frequentava le aste, mossa dal desiderio di possedere certi oggetti. Poi, smessi i panni di architetto nel settore dell’edilizia, Cristina Celestino ha iniziato a realizzare arredi su misura, interpretando con eleganza e humour gli intrecci del contemporaneo. Senza passare inosservata
di Ali Filippini
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Linguaggi progettuali
LAILA POZZO PER DOPPIA FIRMA - MFCC, FCMA, LIVING
Cristina Celestino nasce nel 1980 a Pordenone e dopo aver concluso la facoltà di Architettura Iuav di Venezia, inizia a collaborare con prestigiosi studi di progettazione e dedica la sua attenzione all’architettura d’interni e al design. Nel 2009 si trasferisce a Milano dove fonda il brand Attico Design: una produzione di lampade e arredi caratterizzati dalla ricerca meticolosa sui materiali e sulle forme. Tra questi il progetto Atomizer, prodotto da Seletti, entra a far parte della collezione permanente del design italiano della Triennale di Milano. Disegna progetti esclusivi per una clientela privata e per aziende. Domanda. Mi interessa partire dalla sua passione per il collezionismo che forse spiega un po’ della sua ricerca... Risposta. Mi è sempre piaciuta la storia dell’architettura al punto che se non avessi avuto l’attitudine progettuale avrei seguito da ricercatrice questa strada. Amo la storia degli interni: gli arredi su misura di Carlo Scarpa, le case di Adolf Loos, l’uso del colore nei dettagli di Le Corbusier. Credo, in effetti, di essermi avvicinata al design prima come collezionista che come progettista: dalla passione per i cataloghi d’asta, che sono validi strumenti di conoscenza, sono passata a frequentare le aste, acquistare e vendere dei pezzi mossa dal desiderio di possedere certi oggetti. Il tutto è proseguito in modo abbastanza naturale quando, smessa l’attività di architetto nel settore dell’edilizia, sono ripartita da Milano occupandomi più di interni (lavorando per esempio con lo studio-brand Sawaya & Moroni) e iniziando a realizzare arredi su misura per conto mio. D. In quel momento, intorno al 2009, inizia anche la sua avventura nell’autoproduzione e nel design. R. Ho scelto di produrre personalmente i pezzi delle mie prime commesse private e nel 2012 ho partecipato al Salone Satellite (in questo
Sopra, la Toeletta, parte della collezione The Happy Room per Fendi. In alto, la designer Cristina Celestino con l’artigiano toscano Massimo Borgna con il quale ha partecipato alla seconda edizione della mostra Doppia Firma. Cristina Celestino disegna progetti esclusivi per una clientela privata e aziende come Alpi, Atipico, BBB Emmebonacina, Budri, Durame, Fendi, Fornace Brioni, Flexform, Ichendorf, Mogg, Paola C., Pianca, Seletti, Tonelli Design e Torremato.
113 contesto l’anno scorso ha ricevuto il Premio speciale della giuria Salone del mobile Milano Award, ndr) pur non conoscendo molto il mondo del design e della sua comunicazione. Lo feci presentando alcuni arredi che avevo già realizzato insieme ad altri disegnati ad hoc, il tutto con il nome Attico Design, ovvero il brand con il quale continuo ad autoprodurmi perché mi piace vedere realizzate le cose, amando la matericità di qualsiasi prodotto. D. Come si relaziona con i suoi artigiani e come li cerca? R. Ho avuto la fortuna di conoscere molti bravi artigiani che vado a cercare a seconda di quello che devo fare; vedendo il luogo in cui lavorano riesco a capire se ci sono i presupposti per continuare. Per me è fondamentale che chi realizza il lavoro abbia la curiosità, diciamo persino un atteggiamento illuminato, verso il progettista con cui deve avere la voglia di provare a sperimentare cose nuove. Con alcuni di questi la collaborazione risale ai primi anni di Attico Design, quindi come noto si innescano delle relazioni virtuose nel rapporto cliente-fornitore. D. Sia nei progetti speciali sia nelle art direction emerge la sua passione per tecniche e lavorazioni artigianali. R. Prima di partire con il disegno di una collezione faccio molta ricerca rispetto alle potenzialità dell’azienda. Nella mia art direction per la Fornace Brioni di Mantova ho voluto esplorare l’espressività del cotto con una collezione di piastrelle dove il materiale è abbinato al colore o viene reinterpretato dalle grafiche e dai bassorilievi. Con BottegaNove e la ceramica, quello che mi colpì da subito era la capacità della ditta di decorare a mano e direi l’infinita disponibilità di lustri a mia disposizione. Il che spiega, in quest’ultimo caso, anche la decisione di lavorare con Plumage (premio Edida 2017 - Elle Deco International Design Awards) su un elemento decorativo come la piuma, scelta per esaltare al massimo le diverse texture cromatiche.
D. Tra gli ultimi lavori ci sono progetti di interior per il retail d’alta gamma. R. Nel caso di Fendi l’occasione è partita con l’allestimento della Vip room itinerante «The Happy Room» alla fiera Design Miami/Basel lo scorso dicembre. Non capita spesso di fare una collezione così ricca di materiali, dove non mi è stato imposto nessun limite e che mi ha arricchita dal lato tecnico della progettualità avendola seguita in tutti gli aspetti. Ora il concept è stato replicato nel pop-up store Fendi di Tokyo Omotesandö dove mi hanno affidato la produzione degli arredi e una parte dell’interior. Per quanto riguarda il retail design ho appena
completato anche la nuova boutique Sergio Rossi a Parigi, in Faubourg Saint-Honoré, di cui ho seguito interior e arredi. Lavorare con brand storici vuol dire spesso avere a disposizione un apparato iconografico, come se fosse un abaco progettuale già pronto, ricco di spunti da cui partire. Quindi anche per la scelta e la lavorazione dei materiali cerco di valorizzare i codici e le lavorazioni dell’azienda. Ha a che fare con l’heritage delle Maison e trovo che rispetto al design i fashion brand siano spesso più coerenti in merito alla loro identità storica pur continuando a rinnovarsi in modo assolutamente, doverosamente, contemporaneo.
Nella collezione The Happy Room per Fendi, il tema dell’intarsio dei materiali, matrice stilistica della Maison, viene riproposto nella grafica creata con marmi e onici a contrasto nel piano dei tavolini. «Non capita spesso di fare una collezione così ricca di materiali, dove non mi è stato imposto nessun limite e che mi ha arricchita dal lato tecnico della progettualità avendola seguita in tutti gli aspetti», spiega Cristina Celestino.
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mblema eloquente dello splendore cui può giungere il talento, il «Divino» è stato scelto come simbolo della Fondazione che salvaguarda l’alto artigianato
SULLE ORME DI MICHELANGELO
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L’Italia come espressione politica esiste da non molto tempo: poco più di 150 anni. Ma l’Italia come un universo culturale riconoscibile è sempre stata presente nell’immaginario dell’Europa, attirando pellegrini e visitatori, turisti amanti dell’arte e politici incuriositi dai nostri regimi, che hanno poi portato con sé nei loro rispettivi Paesi un po’ del nostro patrimonio. Non è un caso se, come molti esperti di marketing sanno, ciò che «funziona» in Italia funziona poi anche nel resto del mondo. Proprio all’esperienza italiana e in particolare al lavoro fatto in oltre vent’anni dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte che ho fondato a Milano, ha dunque guardato una nuova istituzione internazionale di recente nascita, per rilanciare su scala (per ora) europea e poi mondiale un altro tipo di patrimonio: quello legato alla creatività e all’alto artigianato. Voluta dall’illuminato imprenditore sudafricano Johann Rupert, e da lui fondata insieme a me a Ginevra (città internazionale per eccellenza), la Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship si è rapidamente strutturata come l’anello di congiunzione che mancava tra le associazioni, istituzioni, fondazioni e altre realtà culturali che, nei diversi Paesi europei, operano a vario livello per promuovere i mestieri d’arte. La scelta stessa del nome, Michelangelo, è emblematica: supremo maestro italiano vissuto in un momento in cui l’Italia era appunto solo una
Ri-sguardo
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nozione culturale, sommo artista, artigiano sapiente, il «Divino» è l’emblema eloquente dello splendore cui può giungere il talento, quando si verifichi il fortunato incontro con l’arte, la tecnica e naturalmente il cliente, o il committente. Perché è il cliente, oggi più che mai, che deve essere educato all’amore per il bello e il ben fatto. E promuovere, proteggere, perpetuare i mestieri d’arte, per la Michelangelo Foundation significa anche agire per garantire adeguata occupazione ai talenti del futuro, al contempo assicurando alle nuove élite l’accesso ai meravigliosi oggetti che danno valore alle nostre scelte. Espressione del territorio, della storia e dell’evoluzione dei tempi, le attività di alto artigianato possono costituire un importante veicolo di cultura e di lavoro: in un momento dove la tecnologia sembra soppiantare ovunque la mano dell’uomo, la Foundation lavora per valorizzare quanto il talento, la pratica, la creatività riescono a realizzare in maniera eccellente, salvando così l’alta manifattura dal rischio di omologazione che la digitalizzazione spesso comporta. Proprio per questo la Michelangelo Foundation sta portando avanti alcuni progetti originali che uniscono, come in un’ideale rotta creativa, diverse iniziative. Il networking, appunto: unire e far conoscere le diverse realtà e le diverse attività, per creare sinergie efficaci. Ma anche la definizione di un linguaggio comune per parlare di mestieri d’arte e definire l’eccellenza: a tal fine è stata pubblicata la ricerca The Master’s Touch. Essential elements of artisanal excellence, già presentata a Londra e Parigi. La valorizzazione del rapporto tra design e artigianato, grazie al sostegno di progetti quali Doppia Firma (doppiafirma. com) e la divulgazione del saper fare dei grandi artigiani d’Europa, attraverso eventi che lascino il segno: come Homo Faber, un’inedita celebrazione del saper fare di più alto livello che avrà luogo a Venezia nel mese di settembre del 2018. Il nuovo Michelangelo chiede di poter essere libero di creare le forme della bellezza di domani: e la Fondazione che porta il suo nome opera, lavora e crea proprio per permettere a ogni Michelangelo, animato dal tormento ma anche dall’estasi, di rendere migliore la nostra vita grazie al suo talento.
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