MESTIERI D’ARTE Poste Italiane S.p.A-Sped. In Abb.Post.- D.L353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1,comma 1 DCB Milano - Aut.Trib. di Milano n.505 del 10/09/2001 - Supplemento al N. 97 di Monsieur
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Mestieri&d’Arte design
NATALE
Alberi d’autore pensando a una festa
contemporanea
CREATIVITÀ
Bodino, nasce tutto da un’idea bella e funzionale
MANUALITÀ
Dentro l’Institut de Joaillerie di Cartier, fabbrica di talenti
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LO STATO INSEGNI L’ARTIGIANATO CONTEMPORANEO La vera italianità, il gusto francese, la precisione svizzera. Affinità elettive sublimate da una produzione che è fatta di arte e design Artigianato contemporaneo. Quando Franz Botré mi ha chiamato ad affiancarlo come secondo sulla tolda del gruppo Swan, ho accettato con entusiasmo convinto del fatto che nella vita ci sia sempre da imparare. E Franz vanta una serie di conoscenze-competenze che sono uno stimolo anche per me, pur navigato da lustri spesi (in senso americano) nelle cucine dei quotidiani. Sì, Botré incarna la figura del maestro artigiano, dotato di ottimi fondamentali, capace di affinare costantemente la propria preparazione, alzare sempre l’asticella e proporsi con prodotti di altissima qualità. Solo così si diventa numeri uno. Un giorno, uno dei primi della mia veste milanese, ha voluto che incontrassi Franco Cologni. Un’autorità in materia d’arte e qualità. Nel suo ufficio, all’interno della Fondazione Cologni che collabora alla redazione di questa rivista, le prime parole pronunciate da Cologni sono state proprio «artigianato contemporaneo». Ed è qui che inizia la nostra storia.
grandezza dell’italianità, ma anche un’affinità elettiva che coniuga il gusto elegante della Francia alla precisione della Svizzera. Di questo parliamo attraverso mentori come Ugo La Pietra e una redazione di innamorati persi per il sapere artigiano. Dove la contemporaneità è un fattore che unisce l’antica conoscenza al tramandare i segreti del mestiere. Dove il design è elemento caratterizzante che deve essere bilanciato da un rapporto paritetico con il lavoro artigianale. Perché non esiste artigiano che possa prescindere dal design e, come dice Giampiero Bodino, non esiste futuro per i giovani designer senza che gli stessi «si sporchino le mani», sperimentando direttamente sulla materia, incontrando le difficoltà di chi passa dalla teoria alla pratica. Credo che il sapere artigiano sia un valore da tutelare e tramandare. Credo che sia compito del ministero dell’Istruzione far sì che il Paese torni a partorire energie produttive iniziando dalle scuole professionali. Credo che la parola chiave sia «fame»: di conoscenza, di apprendimento, di realizzare un prodotto che sappia essere apprezzato come merita. Non amo i proclami. Non mi piace la retorica, né l’esaltazione forzosa di un prodotto che eredito con entusiasmo da Franz Botré, oggi sempre più votato a piani di sviluppo internazionale. Quello che mi piace è entrare in una bottega e scoprire che la materia è viva. E vive nella mente del suo ideatore e nelle mani di chi porta sulla pelle le grinze dell’esperienza, sotto lo sguardo furbo del giovane garzone che «scippa» i segreti del mestiere per misurarsi, poi, con il maestro.
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Botré ha fortemente voluto una pubblicazione dedicata alla «cultura del saper fare». Una mossa azzardata, per quanto intelligente. Perché se esiste un universo che ha contribuito a scrivere la parte presentabile del nostro Paese è senza ombra di dubbio l’artigianalità, ma nessuno nell’editoria sembra rendersene conto, se si escludono le monografie. E invece è giusto puntare sull’artigianalità, valorizzare quel mix perfetto tra artigiano e genialità. Venendo da Firenze potrei riempire pagine sulla grandezza della città «culla dell’arte», sulle maestranze che hanno fatto unici i nostri musei (anche attraverso i laboratori di restauro), sulle mani che hanno scritto la storia delle Maison. Ma proprio per questa provenienza sono il primo a sottoscrivere la necessità di plasmare antiche e nobili tradizioni attraverso un nuovo concetto: contemporaneità. Questo per fuggire il rischio di fare riferimento a certi contenuti come di un’idea polverosa di un’artigianalità fatta di botteghe umide e visioni miopi, schiacciata da affitti sempre più esosi e clienti sempre più erosi dal morso della crisi. Ecco Mestieri d’Arte, la voce di un universo-mondo che, come testimoniano le nostre pagine, merita di essere raccontato attraverso le mille sfaccettature di un caleidoscopio d’emozioni che spaziano da Murano a Sorrento. Ricordandoci la
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Ps. Sfogliando il giornale, troverete spesso pubblicità di orologi. Vi chiederete: perché? Perché Mestieri d’Arte coincide con i valori espressi dalle maison dell’alta orologeria, che riconoscono alla testata la pertinenza che ci accomuna: mente, mano e materia. Queste aziende internazionali, a differenza di molte altre pur artigianali e nobili italiane, percepiscono il valore della comunicazione. E la sostengono, a differenza delle nostre che dimostrano in questo poca lungimiranza. Volete un altro esempio? Probabilmente dal prossimo anno diventeremo internazionali, con una versione di Mestieri d’Arte in inglese.
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La copertina è stata interpretata da Giampiero Bodino.
9 Editoriale LO STATO INSEGNI L’ARTIGIANATO di Gianluca Tenti Botteghe Libri Premi Iniziative Fiere Mostre ALBUM a cura di Stefania Montani Maestri d’arte OLTRE I CONFINI DEL VETRO di Stefano Micelli
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Musei Segreti LA TARSIA SORRENTINA di Alessandro Fiorentino
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Invitato Speciale DA PINOCCHIO IN POI di Oliviero Toscani
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Maestri Contemporanei ARTIGIANI MODERNI di Enzo Biffi Gentili
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Università FABBRICHIAMO TALENTI di Cristina Castelli
Lavorazioni di Stile FATTO AD ARTE di Alberto Cavalli
Ospite d’Onore PARTE TUTTO DA UN’IDEA di Giampiero Bodino
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Scuole d’Eccellenza IL CANTIERE DEL RESTAURO di Alessandra de Nitto
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Eccellenze del mondo MANIFATTURA DEL BELLO di Augusto Bassi
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Manualità di tradizione PIANO FORTE di Alessandro Restelli
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Storie di successo IL TEMPO DELLA MATERIA di Ugo La Pietra
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Sapori e saperi SUA MAESTÀ MOSTARDA di Alessandra Meldolesi
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La mostra UNITÀ NELLA DIVERSITÀ di Simona Cesana
Dossier CARTA CANTA di Alberto Cavalli
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Savoir-faire di domani REGNO DI MANUALITÀ di Marie-Françoise Haye-Niney
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Musei PASSIONE DIVINA di Susanna Ardigò
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Design rituale GLI ALBERI DI NATALE di Ugo La Pietra
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Spettacolo TEATRO DI MERAVIGLIE di Alessandra de Nitto
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Imprese UN VERO MITO di Bruno Cianci
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Cattedrali del Design FATTO AD ARTE di Simona Cesana
Opinioni 12
Fatto ad Arte di Ugo La Pietra DALL’ATELIER, ALLA BOTTEGA, ALL’IMPRESA
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Dal territorio di Giampiero Maracchi IL PATRIMONIO DEL RESTAURO VERA RICCHEZZA
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Pensiero Storico di Anty Pansera RISCOPRIRE IL LAVORO DELL’ARTIGIANO UN MESTIERE D’AUTORE Ri-sguardo di Franco Cologni IL REGALO DI NATALE: VERITÀ E BELLEZZA
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Collaboratori
A RTI G I A NI D E L L A PA R O L A GIAMPIERO MARIA BODINO
AUGUSTO BASSI
Nato a Torino, inizia l’attività di designer presso la Italdesign Giugiaro. Negli anni 80 disegna gioielli, orologi e oggetti personali per Bulgari e Swarovski. Poi lavora per Cartier. Apre il suo studio di design Style Life: tra i clienti, Gucci, Prada, Versace e il Gruppo Richemont, di cui è direttore creativo dal 2002.
Nato a Piacenza nel 1977, è giornalista di Monsieur. Ha curato le rubriche Veleni per il Tempo, Colpi Bassi e Punture per Italia Oggi. Democratico diffidente, ha in antipatia la prassi borghese, il feticismo culturale, La Repubblica sul cruscotto delle A8, gli insetti di mare, i giacalüstra. Ama i rapporti liberi da ogni scopo.
STEFANO MICELLI
ALESSANDRA MELDOLESI
È professore di Economia e gestione delle aziende presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e Decano della Venice International University. Da diversi anni promuove un’intensa attività di ricerca sui temi legati alla piccola impresa e al lavoro artigiano. Autore di Futuro Artigiano, uscito nel 2011 per Marsilio Editori.
Dopo gli studi universitari ha conosciuto il coup de feu e il coup de foudre dell’alta cucina dietro i fourneaux di Parigi. Oggi è appassionata food writer che miscela saperi e sapori, giornalista e traduttrice specializzata, con un vero debole per la cucina d’avanguardia.
BRUNO CIANCI
ANTY PANSERA
Nato a Parigi nel 1970, comincia a scrivere incoraggiato dal grande Gino Rancati. Nel 2002 è con Arte Navale, di cui diventa condirettore. Pratica la vela e ama le regate d’altura. Dal 2008 è corrispondente da Istanbul, fra gli altri, di Boat International e cura la comunicazione per il Rahmi M. Koç Museum.
Milanese, storico e critico dell’arte e del design ha pubblicato studi sul disegno industriale e le arti decorative applicate. Socia fondatrice dell’associazione D come design, di cui è presidente, è docente all’Accademia di Belle Arti di Brera e presidente dell’ISIA-Facoltà del design di Faenza.
ALESSANDRO RESTELLI
ENZO BIFFI GENTILI
Laureato in lettere a indirizzo musicologico all’Università degli Studi di Milano, collabora con il Laboratorio di formazione musicale di base dell’ateneo. Si occupa delle iniziative di valorizzazione del Civico Museo degli strumenti musicali. In qualità di chitarrista ha preso parte a diverse rassegne musicali jazz e blues.
Curatore indipendente e studioso di arti applicate, ha al suo attivo una bibliografia di oltre 300 titoli. È stato curatore del progetto di «Artieri domani. Il futuro nelle mani», mostra ufficiale del Comitato Italia 150 allestita alle Ogr di Torino dal 17 marzo al 20 novembre 2011.
MARIE-FRANÇOISE HAYE-NINEY
OLIVIERO TOSCANI
Entrata nel 1978 da Cartier, ha partecipato alla celebre avventura dei Must de Cartier, supervisionando le diverse tappe di realizzazione. Dal 2002 dirige l’Istituto di formazione tecnica di gioielleria, la cui missione è quella di perpetuare e sviluppare la conoscenza di tutti i savoir-faire legati ai mestieri della gioielleria.
Fotografo prima di tutto. Ma anche art director, pubblicitario, pensatore, polemista, uomo di cultura a tutto tondo. Al suo lavoro sono state dedicate mostre in molti musei nel mondo. Ha fondato La Sterpaia, bottega d’arte della comunicazione che ha realizzato libri, programmi tv, esposizioni, progetti editoriali.
Condirettore: Gianluca Tenti Grafica: Francesca Tedoldi Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte
MESTIERI D’ARTE Semestrale – Anno II – Numero 4 Dicembre 2011 Direttore responsabile ed Editore: Franz Botré Direttore editoriale: Franco Cologni Direttore creativo: Ugo La Pietra
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Direttore generale: Alberto Cavalli Editorial director: Alessandra de Nitto Organizzazione generale: Susanna Ardigò Hanno collaborato a questo numero. Testi: Augusto Bassi, Andrea Bertuzzi, Enzo Biffi Gentili, Giampiero Bodino, Cristina Castelli, Simona Cesana, Bruno Cianci, Alessandro Fiorentino, MarieFrançoise Haye-Niney, Giampiero Maracchi,
Alessandra Meldolesi, Stefano Micelli, Stefania Montani, Anty Pansera, Alessandro Restelli, Luciano Revelli, Oliviero Toscani. Immagini: Alessio Cocchi, Mario Cresci, Carlos Jones, Foto Locchi, Stefano Scatà, Oliviero Toscani, Stefano Triulzi, Emanuele Zamponi. Mestieri d’Arte è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Via Lovanio, 5 – 20121 Milano www.fondazionecologni.it © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Tutti i diritti riservati. Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.
Pubblicazione semestrale di Swan Group srl Direzione e redazione: via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano Telefono: 02.3180891 info@monsieur.it SWAN GROUP PUBBLICITÀ Via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano telefono 02.3180891
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DALL’ATELIER, ALLA BOTTEGA, ALL’IMPRESA È necessario recuperare il tratto del piccolo artigiano, quello che aveva le mani «segnate» dal lavoro, per tornare a parlare di cultura d’impresa. Riscopriamo il ruolo degli atelier che hanno dato valore aggiunto all’oggetto d’arte utilizzando tempo e passione
È dalla riforma Gentile che in Italia l’insegnamento della cultura umanistica ha sempre prevalso sulla cultura materiale. In più, nell’ambito delle discipline come architettura e design, nella seconda metà del secolo scorso ci fu un vero e proprio progressivo allontanamento, per non dire rifiuto, nei confronti di tutto ciò che era la cultura del fare legata all’artigianato e quindi di tutto ciò che non poteva essere prodotto in serie. Una lettura più profonda di ciò che è successo, all’interno della nostra attività, ci porta a scoprire che la realtà è un’altra: quella del piccolo artigiano e della sua capacità di trasformarsi ed evolversi. Basterebbe ricordare i tanti artigiani del settore della lavorazione del mobile visitati da Gio Ponti e da tanti altri architetti tra gli anni Trenta e Quaranta, nell’attivo territorio della Brianza che in breve tempo, attraverso il progetto rinnovato e ampliato, seppero trasformarsi in veri e propri imprenditori del settore. Era facilmente riconoscibile la loro origine di piccoli artigiani, quasi tutti avevano le mani «segnate», si fa per dire, dalla sega e dal lavoro manuale spesso condizionato da certi attrezzi.
Il tempo è forse il segreto che sta dietro all’evoluzione di quelle realtà produttive che dall’atelier passano attraverso la bottega per approdare ad una vera e propria impresa che però continua a mantenere al suo interno, come il nocciolo invisibile di un frutto, le caratteristiche insegnate dalla tradizione: la capacità manuale, la passione e l’amore per la materia e per il lavoro. Il tempo è la caratteristica che differenzia questo genere d’impresa dalle altre: poiché, come per l’artigiano, il tempo non è il fattore determinante del successo di un lavoro – perché quel che conta è il risultato – il tempo impiegato diventa secondario anche per il cliente o il destinatario finale del lavoro. L’importante, per l’impresa che continua a guardare il proprio lavoro con lo stesso sguardo dell’artigiano, è la qualità; qualità che la distingue all’interno di un mercato sempre più difficile da conquistare, qualità che la spinge a sforzi sempre più elevati; non si tratta quindi di numeri ma di valori aggiunti fatti di progettualità e di saper fare, i due caratteri che hanno sempre distinto l’atelier del nostro miglior artigianato.
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Una realtà quindi la cui storia è stata spesso negata o è rimasta sommersa, in una società che non ha saputo leggere e incentivare le capacità di molti artigiani, non solo legate alla cultura del fare ma anche alla cultura d’impresa. Ancora oggi si dà troppa poca importanza a quegli atelier che conservano gelosamente certe tradizioni di lavorazio-
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ne – dagli orafi agli scalpellini – tradizioni che spesso sono alla base di quelle capacità manuali che fanno il valore aggiunto dell’oggetto d’arte. Il valore aggiunto che consente al piccolo artigiano, con un grado di consapevolezza in più, di comprendere il salto di qualità che può operare nell’ambito di una società che sa apprezzare opere realizzate con amore e passione e tanta capacità acquisita nel tempo.
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IL PATRIMONIO DEL RESTAURO VERA RICCHEZZA È indispensabile far sopravvivere le vere produzioni artigianali. Solo così, oltre al gusto di oggetti che hanno il fascino dell’arte e della creatività manuale, si tutelano le nostre radici. Sarebbe auspicabile una maggior attenzione, a iniziare dalle scuole
La ricchezza del patrimonio storico del nostro Paese e il contributo che l’artigianato di grande qualità hanno dato alla formazione di tale patrimonio fanno del restauro una attività che si deve porre all’attenzione dell’opinione pubblica, e in particolare di chi ha responsabilità di carattere amministrativo. Ma il restauro costa non soltanto in termini di opere sulle quali intervenire, ma anche in termini di preparazione di giovani che siano in grado di svolgere tali attività. La soluzione del problema sta nella promozione dell’artigianato a tutto tondo: infatti un artigiano in grado di produrre manufatti artistici può dare un contributo positivo anche nel settore del restauro.
la presenza dei giovani nelle botteghe, i contratti di apprendistato, le formule più elastiche possibili perché gli artigiani anziani siano spinti ad assumere i giovani. Ma anche attraverso altri sistemi, peraltro già esistenti presso altri Paesi europei, la sintesi fra la scuola e la bottega: permettere cioè ai ragazzi che frequentano le scuole d’arte di frequentare le botteghe per imparare la pratica del mestiere. Sarebbe inoltre auspicabile una maggiore attenzione alle scuole d’arte, che sono state spesso lasciate in disparte e considerate scuole “di serie B” o trasformate in licei artistici, nei quali si impara a disegnare ma non a cimentarsi con strumenti e tecniche dei mestieri d’arte. La cultura del nostro Paese ha bisogno di fare un passo avanti e di sviluppare una sensibilità che negli ultimi decenni è andata perduta. Poiché ogni regione è caratterizzata da storie importanti in settori specifici, penso per esempio al marmo di Carrara o alla liuteria a Cremona, le amministrazioni regionali dovrebbero cercare di facilitare questo percorso non con disposizioni legislative spesso cavillose e di difficile applicazione ma con poche norme semplici ispirate solo al principio di rendere facile ai giovani ma anche ai maestri artigiani stabilire una proficua collaborazione.
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È indispensabile dunque che chi ha la possibilità economica ricorra alle produzioni artigianali, perché in questo modo contribuirà anche alla sopravvivenza di quel patrimonio che in tutto il nostro paese, dalla Sicilia alla Valle d’ Aosta, rappresenta la memoria di un passato spesso glorioso. È una specie di contributo di solidarietà, questa volta non forzoso perché permette di poter possedere e gustare oggetti che hanno il fascino insieme dell’arte e della creatività manuale. Naturalmente le istituzioni pubbliche devono fare le loro parte, e dovrebbero farla cercando di facilitare al massimo
*presidente Associazione Osservatorio dei Mestieri d’Arte
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RISCOPRIRE IL LAVORO DEL MAESTRO ARTIGIANO UN MESTIERE D’AUTORE È la professione più bella del mondo quando riesce a coniugare straordinarie qualità manuali al pensiero, la conoscenza degli strumenti alla particolarità della materia. Come ad Altare... Artigiano: chi è costui? Un lavoratore esperto che utilizza attrezzi, macchinari e materie prime per la produzione o la trasformazione di determinati oggetti: recitano, pressappoco, tutti i dizionari, e, possiamo ben aggiungere – da docenti “provati” dall’affrontare le radici di un lontano (non tanto!) passato – prima della rivoluzione industriale tutta la produzione stava nelle loro mani… Certo è che nel nostro Paese - e anche qui, il «caso italiano» ben si dimostra un unicum per un articolato insieme di storie e di cronache locali - sicuramente è un «mestiere d’arte» essere un artigiano e la «conoscenza» degli attrezzi/macchinari/materie prime è qualcosa di irrinunciabile ma acquisibile sia attraverso il fare (manualità da praticare anche/ soprattutto in giovane età), sia il conoscere. Prassi/teoria/prassi si potrebbe sintetizzare, in un trinomio che sarebbe auspicabile sopravvivesse, soprattutto nei luoghi della formazione.
must di per sé. Ci riferiamo, piuttosto, a iniziative di ben altro spessore, come quelle messe in opera nella stessa provincia di Savona: un esempio che traggo quasi dal presente, da una manifestazione settembrina ad Altare. Qui in questa poco conosciuta «città del vetro» – con il suo straordinario Museo che allinea in un accuratamente restaurato edificio liberty (testimonianza degli antichi fasti dei luoghi natali non solo dei Bormioli…) affascinanti reperti di vetro d’uso, a partire dal XVIII secolo, anche se la sua storia risale ben più indietro nel tempo – si punta a rilanciare un’attività quasi estinta (il soffiare/progettare/modellare masse vetrose in quelle piazze che imponevano la presenza di più abili maestri vetrai) e con l’obiettivo di aprire un momento di formazione, si invitano i designer a dare un loro contributo. E, per prima, è stata la volta di un architetto, di Patrizia Scarzella che, nel corso della sua attività, si è avvicinata con flessibilità e libertà a tutti i materiali del fare più tradizionale (dalla carta ai tessuti alla ceramica… al vetro, certo il più ostico nonostante le sue mirabolanti trasparenze, apparenti leggerezze, infinite possibilità di messa in forma), recuperando nello specifico altarese stampi del passato (il vaso a stanga) da rigiocare nel gusto dell’oggi. In una regione non tanto lontana, l’Emilia-Romagna, intanto, una artista/designer veterana come Antonia Campi (classe 1921, il Compasso d’Oro alla carriera giustamente guadagnato proprio quest’anno) ha intrecciato le sue storiche competen-
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Anche per quanto mi riguarda – come per chi mi ha preceduto in questa rubrica dedicata al «pensiero storico» – continua è stata la ricerca - e la verifica - di come (e non solo in Italia), si sia modificato/aggiornato, scoperto/ riscoperto, abbandonato/recuperato quel fare che (e per molti decenni sotto l’etichetta dalle connotazioni non sempre positive di artigianato artistico) oggi sta rivivendo – o dovrebbe poter rivivere – le sue antiche grandezze. E non intendiamo, certamente, quelle manifestazioni che inalberano come insegna la definizione di «Stile artigiano», valutando il fare con le mani, e senza la testa, l’intelletto, la conoscenza… un
UN PROGETTO IN PRIMA PERSONA *Anty Pansera, milanese, storica e critico dell’arte e del design ha pubblicato studi sul disegno industriale e sulle arti decorative/applicate. Socia fondatrice dell’associazione D come Design, di cui è presidente ( www.dcomedesign.org ). Docente all’Accademia di Belle arti di Brera, presidente dell’Isia-Facoltà del design di Faenza.
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Pensiero Storico
ze (scultura alla milanese Accademia di Belle arti di Brera e art direction per decenni a quella Sci – Società ceramica italiana di Laveno di cui ha rinnovato non solo gli Articoli fantasia ma innovato il «parco sanitari») con le ricercaste tecnologie sperimentate da una giovane ceramista, Antonella Ravagli, per realizzare un grande (300x500 cm) pannello dedicato ai 150 anni dell’Unità di Italia. E se sul tema e il messaggio bisognerà ritornare, piace sottolineare il riciclo e recupero dei materiali (pratica abituale nella lavorazione dell’atelier Ravagli), meglio delle argille deteriorate, a utilizzare poi supporti diversi ottenuti dalla macinazione di vetri (bicchieri, bottiglie colorate, vasetti), cocci (piatti rotti, mattoni vecchi, ceramiche di scarto) e altro ancora. Fin dai miei esordi, le Biennali di Monza (1923-1939), poi Triennali di Milano, hanno rappresentato un palcoscenico privilegiato per lo studio di come non solo l’oggetto d’eccezione ma in senso lato l’oggetto d’uso si sia andato modificando nel corso del secolo breve che si è appena concluso e soprattutto come, da frastagliate grammatiche e sintassi locali si sia andato definendo la «parlata» di quello che sarà il disegno industriale italiano, il made in Italy.
ufficiale del disegno industriale (VII Triennale, 1940: Mostra internazionale della produzione in serie, firmata, tra gli altri da Giuseppe Pagano) hanno distolto l’interesse di e da quella sapienza artigiana che avrebbe invece dovuto rinnovarsi, e innovarsi, tramite l’attenzione, e l’attrazione, verso i nuovi usi/consumi/ materiali/linguaggi. Numerosi i tentativi di riaccendere i riflettori sull’artigianato d’arte/artigianato artistico, anche con il discutibile utilizzo di neologismi: «nuovo artigianato» (!), con l’innesto, sulla sapienza manuale del fare, della progettazione concettuale dei designer (degli architetti o comunque li si voglia chiamare…). Tentativi che hanno avuto successo soltanto quando si è verificata una reciproca disponibilità e flessibilità: dei “maestri” (ceramisti, vetrai, intagliatori, tessitori…) e di chi ha proposto innovative messe in forma, a negare scontate ripetitività. Ma, soprattutto, imprescindibile, la conoscenza dei materiali: di chi progetta oltre di chi realizza. E si sta, forse, ri/delineando un/il «mestiere d’autore»: la progettazione/realizzazione da parte della stessa figura, di pezzi unici e/o di piccola/media serie destinati all’uso, caratterizzati da un esplicito contenuto di ricerca sia concettuale che tecnica. Principium individuationis, forse, proprio l’instaurazione di nuovi rapporti con i materiali, che diventano momento di creativa espressività, «medium di una autonoma possibilità di manifestazione artistica: territorio di confine dove si intrecciano connotazioni squisitamente estetiche a valenze di prodotti di utilità, sopravvissuta l’artigianalità come metodo di produzione e tipologia». Questo scrivevo tempo fa e mi sento di riaffermare con sempre più profonda convinzione.
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Ancora prima, intorno a noi, sono senza numero gli oggetti che in secoli di storia ci hanno circondato e mutando di forma e significato hanno denotato e documentato l’evoluzione, quando non la rivoluzione, della vita quotidiana, civile e religiosa. Perfino la «messa in forma» della fede, nel tempo, ha testimoniato, anche o soprattutto, mutamenti profondi della liturgia. Arredi sacri (monumentali, fissi o mobili) e suppellettili (dai calici ai reliquari, dagli apparati professionali ai paramenti sacri), allora: a rispondere nello scorrere del tempo alle diverse e sempre nuove indicazioni/ prescrizioni... all’insegna di grande dignità e di pari bellezza, coerentemente ai gusti estetici di ogni epoca. Ma, per restare in decenni più prossimi a noi, vale la pena, almeno, di ricordare come siano stati gli artisti futuristi a porsi il tema/problema dei nuovi prodotti e dei nuovi linguaggi: le loro case d’arte a volersi cimentare con la rivoluzione della modernità. Grande preparazione e consapevolezza teorica: capacità di gestire quei materiali che negli atelier potevano essere utilizzati. E allora legno, ceramica, tessile…un pochino più difficile «praticare» il vetro. Negli anni a seguire, il protodesign prima e la nascita
N.B. Si sono citate solo donne artigiane/artiste/designer: un filone di studio che sta caratterizzando il mio fare e che all’insegna del social design sta mettendo in contatto progettiste italiane con maestre tessitrici, ceramiste, gioielliere… d’oltremare. L’Associazione D come Design (www.dcomedesign.org) che mi onoro di presiedere, opera all’insegna della formazione: e il progetto Milano vs The World for Social Design (partner la Fondazione Good Shepherd Onlus) - primo risultato la Dignity Design Collection – si caratterizza per le riflessioni a quattro mani dal progetto al prodotto alla distribuzione.
«Furono gli artisti futuristi a porsi il tema/problema dei nuovi prodotti e dei nuovi linguaggi: le loro case d’arte e la rivoluzione della modernità»
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ALBUM MARCELLO AVERSA Sorrento (Na), via Sersale 3 Marcello Aversa è un modellatore d’argilla di rara abilità che fin da giovanissimo, seguendo l’esempio paterno, ha iniziato a lavorare in fornace con le tradizionali forme di legno e di cotto. Negli anni Ottanta, la passione per l’arte presepiale del Settecento ha avuto il sopravvento dando una svolta al suo percorso artistico. Fino a portarlo a esporre in numerose gallerie, anche all’estero. Oggi nel suo laboratorio lo si può vedere mentre progetta e modella, con grande abilità e pazienza da certosino, monoblocchi in terracotta con personaggi di estrema precisione. Incredibile l’espressività che riesce a conferire ai suoi personaggi che variano dagli 8 millimetri ai 10 centimetri. Ci sono i gruppi di pastori, le pecore, i magi, gli angeli, i cesti d’uva, i fichi d’India, le casupole con le taverne e le botteghe, i musicanti, che danno vita alle scene della Natività, dell’annuncio a Maria, ai riti sorrentini. La passione di quest’arte l’ha portato anche a farsi promotore di un’importante manifestazione al Borgo di Maiano, Terra Acqua Fuoco, per salvaguardare e tramandare usanze, arti e antichi mestieri. Con l’Associazione di artigianato artistico della Penisola Sorrentina e con altri maestri artigiani, organizza corsi gratuiti nelle scuole. Per diffondere, in particolare tra i giovani, il sapere dell’eccellenza artigiana. Info: www.marcelloaversa.com
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JESURUM Venezia, calle larga XXII Marzo, San Marco 2401 Un nome storico per Venezia: il laboratorio aperto da Michelangelo Jesurum nel 1870 è diventato famoso nel mondo grazie alla qualità straordinaria dei ricami, dei merletti e della biancheria per la casa e per il letto. Perfino il ricamo policromo è stato inventato e brevettato in Laguna dal creativo artigiano veneziano, alla fine dell’Ottocento. Molti sono i fiori all’occhiello collezionati nel corso di tanti anni di attività da questo laboratorio: dall’aver fornito biancheria per la casa alle più importanti case reali europee, all’avere coltivato clienti affezionati provenienti dal mondo della politica e dello spettacolo, come Kissinger, Henry Fonda, Elton John, Woody Allen. Dopo un periodo faticoso per l’azienda, da un anno il laboratorio è tornato in piena attività grazie a una famiglia dalla tradizione tessile che ne ha rilevato il marchio, i magazzini e i disegni. Per passione della tradizione veneziana. E poiché le tradizioni si mantengono vive solo quando sanno evolversi, anche Jesurum si è rinnovata, grazie alla famiglia Salvador-Polese e alle sue tre generazioni: Gian Antonio Polese, la figlia Rita, il nipote Andrea Salvador. Alle collezioni brevettate da Michelangelo Jesurum agli inizi del Novecento ne sono state affiancate altre che rispecchiano le nuove tendenze, ma sono sempre realizzate a mano, con capi su misura e disegni in esclusiva. Tra la biancheria da ordinare ci sono le tovaglie con i ricami che riprendono i decori dei piatti oppure le lenzuola e gli asciugamani con inserti di pizzo e disegni personalizzati. Secondo la tradizionale eccellenza artigiana. Info: www.jesurum.it
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Napoli, via Chiaia 140/141 L’eleganza napoletana è nota nel mondo. E gli accessori, si sa, sono da sempre parte integrante di ogni abbigliamento degno di nota. Basti pensare che a Napoli, nel 1737, il re Ferdinando IV di Borbone chiamò alla sua corte da Vienna il più grande guantaio dell’epoca, Luigi Balastrom. Da allora la tradizione è rimasta nel Dna della città che ancora oggi primeggia nella produzione di questo importante accessorio. Un’ottima rappresentanza di questa eccellenza partenopea è l’azienda artigianale di Mario Portolano. Nata nel 1895 e rimasta sempre
ARTIGIANFER DI BENEDETTI E CAMPAGNACCI Spello (Pg), via Banche 12 Un interessante indirizzo, per chi desidera far realizzare letti con testiere in ferro battuto, sedie, tavoli e lanterne, cancelli, anche anticati, è Artigianfer, una piccola azienda artigiana che lavora il ferro con le tecniche di un tempo. La fucina è situata in un vasto capannone, a pochi minuti da Spello, deliziosa cittadina medievale nel cuore dell’Umbria. Ne sono proprietari Mario Benedetti e Pietro Campagnacci, due validi artigiani in grado di riprodurre da disegno ogni genere di complemento d’arredo in ferro. Con lo spirito e l’abilità dei vecchi maestri forgiatori, Benedetti e Campagnacci si avvalgono degli strumenti base utilizzati nei secoli dai fabbri e delle stesse tecniche della tradizione: la martellatura a caldo, l’incisione, la torsione, la bullonatura, dando vita anche a raffinati decori con gigli, fiori e foglie. Riprendendo con precisione anche i motivi del passato e ripristinando, all’occorrenza, le parti mancanti dei complementi d’arredo. I due maestri hanno anche realizzato in bottega una cera speciale, di loro creazione, che utilizzano per conferire le patine speciali antichizzanti. Info: www.artigianferonline.it
in famiglia, è arrivata oggi alla quarta generazione, specializzandosi in tutto il ciclo della produzione, dalla concia delle pelli alla tintura, dal taglio alla cucitura, fino alla lavorazione finale dei dettagli più raffinati. Oggi alla guida dell’azienda c’è Mario Portolano, nipote del fondatore, coadiuvato dai figli Mara, Stefano e Lucio. Lavorando a stretto contatto con gli stilisti dell’alta moda e del pret-à-porter, con la sapiente manualità di una tradizione antica, i Portolano selezionano personalmente le pelli, scelgono i modelli e i colori, seguendo anche le linee della moda. Da poco la Mario Portolano ha aperto un corner anche all’interno dell’Excelsior di Milano, il nuovissimo megastore del gruppo Coin, ridisegnato dall’architetto Jean Nouvel nel palazzo dell’omonimo, storico cinema in Galleria. Info: www.marioportolano.it
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IL BUON PAESE Daniela Battaglio e Sebastiano Sardo (Edizioni Slow Food) Un libro per scoprire la migliore produzione alimentare italiana, la più fedele alla tradizione, la più legata alla terra: è la ricerca, curata da Slow Food, di pastai, casari, contadini e artigiani che operano con attenzione alla qualità e alle risorse del territorio e che vendono direttamente i loro prodotti. Dall’aceto al caffè, dai formaggi all’olio, dai salumi ai gelati, dalla birra alla pasta.
TAPPEZZERIA FRATELLI CARRATINO Genova, via Albaro 2 rosso Quello dei Carratino è un nome storico tra gli artigiani di Genova: la loro falegnameria-ebanisteria fu fondata dal trisnonno Francesco nel 1873, affiancata dopo pochi anni dall’attività di tappezzeria, e da allora è passata di padre in figlio, in un alternarsi di grande professionalità. Negli anni ’70 inoltre Adriano Carratino ha fondato la Cita, Consociazione italiana dei tappezzieri arredatori, che promuove l’istituzione delle scuole di formazione per allievi apprendisti e i corsi per tappezzieri-arredatori: perché il sapere dei nostri maestri artigiani non vada disperso. Oggi in laboratorio ci sono i suoi figli, Andrea e Francesca, che continuano con passione a realizzare divani, poltrone, tendaggi di ogni tipo, a restaurare mobili antichi, a costruire mobili su misura. Francesca crea tende e tappezzerie nel laboratorio di via Albaro, Andrea invece si dedica al restauro e alla creazione di mobili e imbottiti, nel laboratorio sotto le volte di un’antica villa poco lontano. Nell’atelier ci sono ancora le vecchie macchine da cucire che sono state motorizzate per poter ripetere, velocizzate, le accurate lavorazioni di un tempo. E unire la tradizione alla tecnologia, perché questo antico mestiere d’arte sopravviva nel tempo.
Raffinate tappezzerie, preziosi ricami, ferri battuti: eccellenze artigiane per arredare
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FUTURO ARTIGIANO L’innovazione nelle mani degli italiani Stefano Micelli (Marsilio Editori) Cosa unisce le principali griffe italiane all’industria delle macchine di precisione che esportiamo in tutto il mondo? Cosa lega la produzione di pezzi di design in serie limitata e la realizzazione di grattacieli su misura? Il filo rosso che attraversa il made in Italy di successo è ancora oggi il lavoro artigiano, un tratto della nostra cultura cui spesso non diamo il giusto valore. Questo libro descrive le tante realtà del nostro Paese in cui il «saper fare» continua a rappresentare un ingrediente essenziale di qualità e di innovazione. Il libro è un viaggio in un’Italia forse poco nota, ma vitale e sorprendente. La riscoperta del lavoro artigiano ci costringe a riflettere su cosa dobbiamo intendere oggi per creatività e meritocrazia e sulle opportunità di crescita che si offrono alle nuove generazioni del nostro Paese.
ANTONIO STRADIVARI L’ESTETICA SUBLIME Coordinamento editoriale: Virginia Villa, Fotografie Jost Thöne & Jan Röhrmann (Ed. Consorzio Liutai Antonio Stradivari Cremona e Fondazione Antonio Stradivari) La Triennale, Cremona Una bella monografia che la Fondazione Stradivari dedica agli strumenti intarsiati di Antonio Stradivari, dove il grande liutaio trasfonde il suo genio estroso con ineguagliata abilità manuale. Non soltanto il catalogo della straordinaria mostra che ha visto esposti presso il Museo civico di Cremona cinque violini storici intarsiati, poiché tutti i dieci esemplari decorati oggi noti e un’inedita tavola armonica originale sono raccontati e analizzati dai rispettivi curatori, documentati da fotografie e posti a diretto confronto tra loro e con i reperti originali del Museo stradivariano, per scoprire la storia e gli affascinanti segreti di questi preziosi capolavori. Info: www.fondazionestradivari.it
MAESTRI DEL MARE La nautica italiana, una storia di eccellenza Luana Carcano (Marsilio Editori) A cura della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, in collaborazione con Officine Panerai Il nuovo libro della collana Mestieri d’Arte nasce per valorizzare le multiformi professionalità della nautica che con passione, impegno e talento portano la bandiera italiana nei porti più prestigiosi del mondo: un’eccellenza storica, quella dell’Italia, riconosciuta a livello internazionale. Un primato costruito sul design e sullo stile delle barche italiane, ma anche sulle competenze artigianali, sull’ingegno dell’innovazione, sulla tecnologia, sui tradizionali saperi di alcuni territori e sui valori di una consolidata cultura del mare. Il racconto è costruito sulle testimonianze di alcuni protagonisti del successo italiano: imprenditori, costruttori, maestri d’ascia, artigiani, designer, armatori, capitani. Victor Togliani, uno dei più importanti illustratori nazionali, ha realizzato lo straordinario corredo iconografico.
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XXII PREMIO COMPASSO D’ORO ADI
SALON INTERNATIONALE HAUTE HORLOGERIE Ginevra, 16-20 gennaio, Palaexpo Orologi simbolo delle più prestigiose Maison orologiaie si potranno ammirare in questa raffinata mostra dedicata all’alta orologeria. Si tratta di pezzi rari, frutto delle più recenti e sofisticate ricerche tecnologiche, presentati in anteprima mondiale da 18 marchi dell’eccellenza. Info: www.sihh.org/2012
MAISON&OBJET Paris Nord Villepinte, 20-24 gennaio, Quartiere espositivo L’importante mostra giunta alla 19esima edizione propone oggetti, complementi d’arredo e soluzioni abitative, interpretando l’art de vivre attraverso stili e tendenze differenti. Una passerella con un occhio di riguardo per i nuovi progetti di alto design, ospitati nei padiglioni 7 e 8. Info: www.maison-objet.com
FIERA DI SANT’ORSO Aosta, 30-31 gennaio, Centro storico La millenaria mostra mercato annovera, oltre agli espositori della tradizione (artigiani che fabbricano ceste, rastrelli, cucchiai e mestoli, botti, sabot, oggetti in rame e ferro battuto, pizzi, tessuti in canapa o lana), anche artisti che mettono in mostra sculture, bassorilievi, intagli su legno o su pietra ollare. In un’allegra kermesse nel centro storico. Info: www.regione.vda.it
ARTIGIANA ITALIANA Modena, 2 marzo-4 marzo 2012, Fiera Il salone dedicato all’eccellenza artigianale italiana si artiarrti ti-cola in tre percorsi per mettere in luce le diverse tematiche: che: ch e: l’artigianato tradizionale e artistico, quello per parchi e giariar ardini, l’artigianato dei prodotti tipici ed enogastronomici. ci. ci Info: www.artigianaitaliana.it
MACEF Milano, 26-29 gennaio 2012, Fieramilano Rho Uno dei più importanti appuntamenti del settore. In mostra stra ra tutte le novità per quanto concerne l’illuminazione, i tessuti, su uti ti,, le decorazioni, gli argenti, i vetri di Murano, le ceramiche arartistiche, le candele, i fiori, gli arredi per interni e per esterni. ni. i Con mostre ed eventi collaterali nel centro della città. Info: www.macef.it
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In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia e del 50° anniversario di Adi, il Premio Compasso d’Oro è stato consegnato per la prima volta a Roma a conclusione dell’evento Unicità d’Italia, grande mostra tenutasi al Palazzo delle Esposizioni e al Museo Macro Testaccio che ha celebrato il saper fare italiano dal 1961 a oggi, individuando il potere aggregante dell’italianità. Nato per celebrare il design nazionale come importante strumento di evoluzione tecnologica e di costume, il Premio Compasso d’Oro Adi è la più completa testimonianza della produzione d’eccellenza. Il meglio dei prodotti di design italiano degli ultimi tre anni, selezionati dall’osservatorio del design Adi, sono stati raccolti in un catalogo, realizzato su progetto grafico di Lupi e pubblicato da Corraini.
PREMIO DAMA D’ARGENTO Il Premio Dama d’Argento, consegnato dall’Associazione Amici del Museo Poldi Pezzoli in collaborazione con la Fondazione Corriere della Sera alle persone che «hanno fatto grande Milano», si è arricchito quest’anno di due nuove sezioni molto significative: l’edizione 2011 ha infatti voluto dare un riconoscimento a chi ha saputo esprimere valori di riferimento propri della tradizione e dell’identità di Milano. Questo nuovo indirizzo è stato pensato per valorizzare privati, gruppi o associazioni che svolgano attività o professioni legate a tecniche tradizionali e artigianali, con il merito di coltivare arti e mestieri altrimenti destinati a scomparire, o che operino nel campo della solidarietà, a titolo professionale o volontaristico. Premiati dalla prestigiosa giuria Il fontanile, cooperativa onlus di solidarietà sociale e la Civica scuola di liuteria del Comune di Milano, che da oltre trent’anni forma nuove generazioni di maestri liutai.
PREMIO MONTROUGE: MINIARTEXTIL XXI edizione della mostra internazionale d’Arte Tessile Contemporanea Montrouge, 20-28 febbraio 2012, Hotel de Ville Ideata e organizzata dall’Associazione culturale Arte&Arte di Como, con il sostegno della Fondazione Antonio Ratti, curata da Luciano Caramel, Miniartextil sarà ospite a Montrouge con i lavori di artisti rappresentanti 43 nazioni. Accanto ai 54 minitessili finalisti del concorso, si potranno ammirare le installazioni e le opere di rappresentanti dell’arte contemporanea come Joseph p J p Beuys, y , Pino Pascali, Angelo Filomeno, Abramovic, Filomeeno no, Aleksandr Alek Al eksa sand ndrr Broskij, Bros Br oski kij, j, Marina Mar Chiharu David Herbert. Chih har aru u Shiota Shio iota e D Dav a id H av erbertt. Il Premio Montrouge partecipantrou uge verrà ver errà rà cconsegnato on o nsseegnat ato o agli agli artisti a ti con selec un un minitessile, m zionati z onatii dai zi d rappresentanti del parigino d l Comune de Co om che daa otto anni ospita laa manifestazione. In man concomitanza con le c nc co nco o settimane della moda s ttim se im di d marzo ma e settembre, la mostra sarà prem sentata a Como e sen a Milano. M
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RAIMONDESCHE: VIAGGIO TRA MITI E LEGGENDE
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Faenza, 19 novembre - 27 dicembre, Museo della Ceramica Quella dei grandi decoratori ceramisti è una specie rara e preziosa, che non conosce confini e latitudini: Raimondi appartiene a questa categoria. Nato a Vietri, città a metà strada tra Pompei e Paestum, ha assimilato a fondo le culture greche e romane di cui è intrisa la zona e, con l’ironia che contraddistingue il suo lavoro, ne ha fatto una rilettura in chiave moderna, interpretandone i miti e le leggende. In lui convivono due anime alle quali corrispondono due produzioni: una fedele alle proprie origini, che si può definire «corrente» o «commerciale», l’altra che esprime il proprio sentire, le proprie inquietudini. Info: www.micfaenza.org
realizzata all’uncinetto alla originalissima sedia in filo di metallo rotante, dalle decorazioni per dolci più fantasiose al gorilla creato con appendiabiti in metallo. A testimoniare che, con la creatività e la manualità, tutto può essere fatto. Le opere sono state realizzate utilizzando e sperimentando i materiali più vari in modo fantasioso e spettacolare; alcune sono state concepite per l’innovazione medica, l’intrattenimento, il social networking, la pura ricerca artistica. Una fotografia istantanea del fare nel nostro tempo.
POWER OF MAKING Londra, Victoria & Albert Museum, 6 settembre - 2 gennaio 2012 Oltre cento oggetti fatti a mano, una wunderkammer di curiosità che spazia dalla pantera a grandezza naturale 1
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FOREVER HARCOURT DI BACCARAT Parigi, 9 settembre - 28 gennaio 2012, Galerie Musée Baccarat L’avvincente storia di un bicchiere che vanta 170 anni di vita in una mostra nel cuore di Parigi. Si tratta di Baccarat, vera e propria icona di stile, e dei calici Harcourt i cui primi esemplari risalgono al 1841, sotto il re d’Orléans. L’esposizione ripercorre la storia dei calici che nel corso degli anni sono stati oggetto di variazioni e interpretazioni di famosi designer, fra cui quella recente di Starck che li ha vestiti di nero nella collezione Angel. Sempre Starck, insieme alla figlia Ara, li ha trasformati, proprio per festeggiare i 170 anni di questa icona, nelle pedine di un’elegante partita a scacchi.
MODA IN ITALIA: 150 ANNI DI ELEGANZA Torino, 18 settembre – 8 gennaio 2012, Reggia Sabaudia di Venaria La mostra, curata dalla costumista Gabriella Pascucci e da Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia, chiude la serie delle esposizioni dedicate all’Unità d’Italia: 200 abiti raccontano i 150 anni della storia della moda italiana, dai completi mondani di Gabriele D’Annunzio ai veli e alle sete di Eleonora Duse e di Lina Cavalieri, dai pizzi della contessa Castiglioni ai vestiti firmati da Biki, Pucci, Capucci, Fabiani, Valentino, Armani, compresi quelli indossati dai divi nei film di Luchino Visconti. Il nucleo principale è costituito dagli abiti messi a disposizione dalla Fondazione Tirelli-Trappetti di Roma.
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PIXAR 25 ANNI DI GENIALI ANIMAZIONI Milano, 22 novembre - 1 febbraio 2012, Padiglione Arte Contemporanea Disegni, dipinti, sculture e installazioni ripercorrono l’avventura dello studio di animazione Pixar, maestro indiscusso nel fondere le tecniche artigianali con le più sofisticate tecnologie digitali. Woody, il cowboy di pezza che rischia di venir rimpiazzato dal super tecnologico Buzz Lightyear, Remy, il topo francese con il pallino per l’alta cucina, Nemo, il piccolo pesce pagliaccio finito in cattività... In 25 anni, lo studio statunitense ha creato personaggi geniali e indimenticabili. Una fucina visionaria ora celebrata con una mostra al Pac . La tappa di un lungo viaggio che approderà anche al Moma di New York.
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Lino Tagliapietra, maestro del vetro di Murano che ha saputo trasmettere in tutto il mondo la sua passione e la sua tecnica. A lato: Gabbiani, opera del 2011 alta tre metri, per un’apertura di cinque metri e venti, e una profondità di due. Vetro soffiato a canne, battuto. Collezione dell’artista. Nella pagina a fronte: Niomea, realizzata da Tagliapietra nel 2010 (71,8 x 40,6 x 19 cm). Vetro soffiato a filigrana sovrapposta. Collezione dell’artista.
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La tradizione vuole che la Repubblica di Venezia fosse particolarmente attenta a mantenere segreta l’arte vetraria di Murano. I maestri del vetro non potevano, senza esplicita autorizzazione, esercitare il loro mestiere né tantomeno insegnare e trasferire le loro tecniche fuori dai confini della Repubblica. Venezia in questo modo tutelava la proprietà industriale, così oggi la definiscono gli economisti industriali, in un ambito di attività che costituisce da sempre un’eccellenza manifatturiera conosciuta nel mondo. Sono passati molti anni da quando la Serenissima puniva chi osava svelare i segreti del vetro. Oggi molti di questi segreti non sono più tali. La chimica e la fisica di questo straordinario materiale sono note, i processi che contribuiscono a definirne la struttura interna sono stati studiati e divulgati. Ciò che rimane unico e che affascina del lavoro in fornace è l’intreccio unico fra gusto estetico, colore, gesto fisico, abilità tecnica. Per essere difesa, questa alchimia complessa non va più nascosta. Va esibita. Va raccontata. Al limite va insegnata anche oltre i confini della laguna. Lino Tagliapietra, uno dei massimi interpreti dell’arte del vetro a Murano è colui che più di tutti ha contribuito a rinnovare l’idea del vetro artistico nel mondo aprendosi a un confronto internazionale. Dopo una carriera che lo ha visto protagonista in tante fornaci famose dell’isola, da Seguso a Venini, da La Murrina a Effetre, Lino Tagliapietra ha scommesso su un percorso internazionale. Ha gettato un ponte verso
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Oltre I CONFINI DEL VETRO LO STRAORDINARIO MONDO DELLA FORNACE A MURANO, INTERPRETATO DA UN MAESTRO COME LINO TAGLIAPIETRA
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Maestri d ’arte
nuove culture artistiche decisamente lontane dalla tradizione del vetro. Nel 1979 approda a Seattle, dove oggi ha ancora casa e dove passa regolarmente parte dell’anno. Le sue frequentazioni americane non si limitano alla costa Ovest. La sua arte e la sua didattica sono apprezzate nel Kentucky e a New York. In questo dialogo con un pubblico attento e affascinato, anche se spesso poco preparato da un punto di vista strettamente tecnico, trova slancio una vena creativa che gli consente nuove sperimentazioni creative. La sua umanità, oltre che il suo talento, contagia nuovi apprendisti, fra cui alche molte donne (fatto sorprendente in un mondo quasi esclusivamente maschile). Uno dei principali eredi della tradizione veneziana, uno dei pochi primi maestri del vetro, diventa l’ambasciatore di un artigianato e di un’arte che si confrontano con un mondo lontano dalla bottega muranese. La mostra tenutasi recentemente a Venezia e il catalogo che hanno reso omaggio a questa straordinaria produzione artistica testimoniano del valore di un percorso cosmopolita costantemente aperto alla sperimentazione e all’innovazione. Il video posto all’entrata della mostra di Palazzo Franchetti ha raccontato di una squadra fatta di giovani che vengono da tante parti del mondo, di donne che hanno deciso di imparare il mestiere del vetro sotto la guida di un maestro che viene da lontano, di un continuo sforzo per riportare nel contemporaneo una tradizione a tratti antichissima. La lezione di Lino Tagliapietra va molto oltre i confini del ve-
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29 Nella pagina accanto: Oca, opera del 2009 in vetro soffiato a canne, incalmo e battuto. In basso: Tagliapietra lavora con Dale Chihuly a un pezzo della serie Venetians, studio Benjamin Moore, Seattle, 1989. Sotto: con Dante Marioni, suo assistente, durante un corso alla Haystack Mountain School of Crafts, Deer Isle, Maine, 1994.
INDICA UNA STRADA PER RIPENSARE IL SAPER FARE ITALIANO NEL MONDO, VUOLE UN MUSEO DEL VETRO CON SPAZI PER POTER INSEGNARE AI GIOVANI
tro soffiato. Indica una strada per ripensare il saper fare italiano nel mondo. Parla di una maestria che si apre al confronto con nuove culture, che si ostina a cercare nuove strade. Rende manifesto il potere di fascinazione che hanno le tecniche artigianali verso altre culture. Ci ricorda, ancora una volta, quali straordinari legami il saper fare italiano è in grado di cementare fra esperienze e sensibilità diverse. Lino Tagliapietra è pienamente consapevole che la storia del vetro ha bisogno di essere riproposta e rilanciata anche a Venezia. Per questo, con la sua gentile ostinazione, rilancia in ogni occasione l’idea di un museo del vetro che sia anche spazio di apprendimento e di sperimentazione per i giovani. Un contenitore capace di raccogliere le esperienze più innovative del vetro e di avvicinare nuovi talenti. Uno spazio in grado di ispirare non solo giovani veneziani, ma anche appassionati determinati nell’investire una parte (limitata o consistente) della loro vita nell’avventura del vetro. Dietro le parole del maestro si cela un progetto più ampio rispetto ai confini veneziani. È un progetto in grado di rilanciare la cultura materiale del nostro Paese oltre i confini nazionali facendola diventare il collante di relazioni umane, sociali ed economiche di cui il nostro Paese deve diventare protagonista a livello internazionale. Sono passati i tempi in cui la Serenissima doveva proteggere i segreti del vetro. Oggi l’artigianato e l’arte italiana si rilanciano aprendoli al mondo.
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Musei Segreti
di Alessandro Fiorentino
LA TARSIA «MUTA» NEL GOLFO DI SORRENTO UN MUSEOBOTTEGA CHE INTEGRA LA MODERNA CULTURA DEL PROGETTO CON LE SUGGESTIONI DI UNA TECNICA ANTICA DI SECOLI. È QUESTA LA SFIDA LANCIATA DA FIORENTINO. UN MODELLO DA IMITARE
SINFONIE DI LEGNI
A conclusione delle ricerche condotte sia come collezionista sia come studioso delle tarsie dell’800, e delle verifiche di mercato fatte come designer e produttore di tarsie moderne, ho aperto al pubblico a Sorrento nel 1999 il Museobottega della Tarsia lignea, Muta. Si tratta di un nuovo modello di museo, applicabile a tutti quei comparti dell’artigianato artistico che, oltre a un passato da documentare, hanno ancora oggi una realtà produttiva da confermare nel tempo e da riqualificare nei contenuti. Il museo in questo caso non si limita alla sola custodia della memoria attraverso l’esposizione delle collezioni storiche, è infatti soprattutto impegnato nel presente con iniziative finalizzate all’organiz-
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Da sinistra, scatola piramidale intarsiata; tavolo «Vesuvius» di Alessandro Fiorentino in legno curvato impiallacciato con intarsi realizzati con tranciati di legno tinto (1990); scatola di Riccardo Dalisi per la collezione «22 Scatole d’Autore» realizzata in occasione della mostra L’oggetto intarsiato ( Firenze, Fortezza da Basso, 1994). A destra, secrétaire di Michele Grandville (1867 circa). Il Museobottega della Tarsia lignea è nel palazzo Somarici Santomasi a Sorrento, via San Nicola 28.
zazione di corsi di formazione e alla riqualificazione della produzione artistica del proprio comparto. Il comparto della tarsia lignea ha a Sorrento una tradizione che risale al 1830, contrassegnata dai numerosi riconoscimenti ricevuti dai maestri locali nel corso delle loro partecipa-
zioni alle varie Esposizioni universali, da Parigi e Londra a Saint Louis e Philadelphia. Negli ultimi decenni la crisi del mercato, favorita anche dalla mancanza di rinnovamento nella produzione intarsiata, ha causato, tra il disimpegno delle istituzioni, la chiusura di molte botteghe e soprattutto la fuga dei giovani verso altre attività più remunerative. La sede del Muta è nel centro storico di Sorrento, nel palazzo che fu dimora nell’800 del barone Achille Pomarici Santomasi di Gravina di Puglia. L’esposizione delle collezioni, distribuita su quattro piani, è stata gestita lungo un percorso didattico, articolato in sezioni distinte. Al primo piano la collezione storica è introdotta dall’esposizione di mobili
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Musei Segreti
Tavolo “Love seat” di Alessandro Fiorentino (1987).
Dai maestri dell’800 allo studio dei temi decorativi, tra cataloghi e conferenze vive una tradizione che è fatta di passione per il delicato ed elegante intarsio e di oggetti realizzati dagli intarsiatori di Nizza, di Savona, di Rolo, al fine di evidenziare gli aspetti tecnici e decorativi delle singole scuole che, insieme a Sorrento, operarono nell’800. Prima di proseguire nelle sezioni dedicate alla tarsia locale, l’esposizione di quadri, stampe e foto antiche di Sorrento consente di ricostruire il contesto ambientale che fece da contorno allo sviluppo dell’ intarsio sorrentino. L’evoluzione delle tecniche di lavorazione, la documentazione dei materiali utilizzati, lo studio dei temi decorativi e dei dettagli progettuali offrono lo spunto per altrettante sezioni. Il percorso espositivo, dopo aver approfondito il contributo dato dalla locale scuola d’arte alla formazione, di
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generazioni di artigiani a partire dal 1886, si conclude al terzo piano con le sale dedicate ai maestri intarsiatori sorrentini dell’800. Il piano terra, in parte attrezzato come reception e bookshop, accoglie l’esposizione della collezione moderna. Sono in mostra i prototipi che ho realizzato negli anni Ottanta per rinnovare la produzione locale e recuperare all’intarsio il mercato dell’arredamento. Sono mobili che hanno partecipato a varie esposizioni nazionali e internazionali; in sedi anche prestigiose come l’International Design Center di New York. Nella sezione di tarsie moderne sono esposte anche due collezioni realizzate con il contributo progettuale di noti designer: «22 scatole d’Autore», una
raccolta di scatole firmate da Mendini, Giovannoni, La Pietra, Dalisi, Cibic e altri e le «Regioni incorniciate», 22 cornici firmate da Portoghesi, Sawaya, Morandini, Palterer, La Pietra, Alison e altri ancora. Per soddisfare le molte esigenze del proprio ruolo di tutor del processo di riqualificazione artistica dell’intarsio sorrentino il Muta è dotato di una sala conferenza, di locali attrezzati per mostre a tema e di un’aula didattica per la realizzazione di stage finalizzati all’insegnamento dell’intarsio. Inoltre è editore dei cataloghi delle proprie mostre; le più recenti sono state L’intarsio, Sorrento-Nizza e ritorno e L’intarsio, La R. Scuola d’Arte di Sorrento e Roberto Pane.
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Invitato Speciale
UN TEMPO ANDARE A SCUOLA SERVIVA PER IMPARARE, OGGI SI STUDIA PER ASSICURARSI UNA MONOCULTURA
Da Pinocchio in poi, ma forse anche prima del libro di Collodi, andare a scuola era un sacrificio. Ed era ugualmente un sacrificio mandare un figlio a scuola: Geppetto vendette la giubba per comprare un abbecedario al burattino di legno. La scuola, ma più ancora l’istruzione, era vista fino a poco tempo fa come un modo di emanciparsi. Per le classi più povere, soprattutto, un figlio a scuola significava più che altro una speranza: un mestiere diverso da quello dell’operaio o del contadino, un salto nella scala sociale. I genitori riponevano nei maestri e nei professori una fiducia illimitata: nelle loro mani consegnavano una forma grezza, il loro figlio, aspettandosi di vedersela tornare indietro modellata. “Lo picchi signor maestro, lo picchi se non sta attento alla lezione”: non era raro sentir dire così da chi ancora nutriva soggezione verso l’autorità del maestro. Si è un po’ imbarazzati oggi, quando un figlio chiede perché deve andare a scuola, perché lo mandiamo a scuola. Alla fine si studia per essere
integrati e il figlio del contadino disimpara tutto ciò che suo padre aveva imparato e avrebbe potuto insegnargli. Si studia per appropriarsi di una monocultura che garantirà uno stipendio che, anche se alto, sarà comunque misero. Si studia per un futuro senza luce. Oggi, il degrado che ha intaccato la scuola, al pari di ogni altra forma del vivere civile, impone una riflessione e una proposta provocatoria: bisognerebbe fare sacrifici per insegnare ai nostri figli a fare il contadino, o il falegname, o l’idraulico, o il fornaio. Qualunque sito didattico su Internet ci sbatte in faccia l’inadeguatezza della scuola attuale: dove perfino avere un computer è considerato un lusso. Le forme dell’apprendimento sono mutate, la velocità dei collegamenti rende obsoleto l’insegnamento tradizionale. Per di più, il diploma e la laurea creano disoccupazione, frustrando quindi le attese e le pretese di genitori e studenti. Una scuola che insegni a riappropriarsi dell’uso delle mani, invece che instillare nozioni bruciate dal
primo clic sul mouse di un computer aperto sul mondo, sarebbe una scuola altamente educativa. Immaginate un diciottenne che, invece di iscriversi a Scienze politiche, o a Lettere, o a Legge, si iscrive a Idraulica o a Falegnameria. Un ragazzo che, invece di frequentare il corso di stilismo al Fashion Institute si iscrive a Sartoria. Un altro che, invece di diventare Filosofo diventa Contadino (che è quasi la stessa cosa). E la corsa dei rampolli delle migliori famiglie a frequentare non le lezioni di Umberto Eco al Dams, ma quelle di un mastro muratore in un cantiere, quelle di un fornaio in panetteria, quelle di un meccanico in autocarrozzeria. La scuola non deve più rubare braccia all’agricoltura per immettere sul mercato cervelli omologati, rassegnati a servire la burocrazia. La scuola dovrebbe essere un centro di vita e propagare un’energia che è difficile leggere nei volti degli studenti di oggi, nel loro abbigliamento, nelle loro fughe nelle playstation e nelle sale giochi.
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Le forme dell’apprendimento sono mutate. Per di più il diploma e la laurea creano disoccupazione. Serve una formazione che insegni a riappropriarsi dell’uso delle mani
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IMPARATE UN MESTIERE «Immaginate un diciottenne che, invece di iscriversi a Scienze politiche, o a Lettere, o a Legge, si iscrive a Idraulica o a Falegnameria. Un ragazzo che, invece di frequentare il corso di stilismo al Fashion Institute si iscrive a Sartoria. Un altro che, invece di diventare Filosofo diventa Contadino (che è quasi la stessa cosa). E la corsa dei rampolli delle migliori famiglie a frequentare non le lezioni di Umberto Eco al Dams, ma quelle di un mastro muratore in un cantiere, quelle di un fornaio in panetteria, quelle di un meccanico in autocarrozzeria». Oliviero Toscani
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Maestri Contemporanei
NELLE CATTEDRALI DEL LAVORO SI CELEBRA LA VERA QUALITÀ, COSÌ UNA LEZIONE DEL PASSATO APRE A UN GRANDE FUTURO
di Enzo Biffi Gentili - foto di Mario Cresci A Torino le mostre celebrative di Italia 150 sono allestite all’interno delle ex Ogr, Officine Grandi Riparazioni ferroviarie, suggestivo monumento di archeologia industriale. Vere e proprie, anche architettonicamente, «cattedrali del lavoro». Ho quindi sentito il dovere di testimoniare se non devozione, almeno rispetto per la storia e il genio di quei luoghi, scegliendo come tema espositivo il lavoro, seppur solo artigianale, e per emblematici campioni. Perché lo spazio concesso alla mostra da me curata, Il futuro nelle mani. Artieri domani, era limitato, a differenza da quello invaso dalle due maiuscole Esposizioni Internazionali delle Industrie e del Lavoro ordinate per le precedenti Celebrazioni del Centenario e del Cinquantenario dell’Unità. E dire che nel 1961 si era in pieno miracolo economico, e nel 1911 al culmine di una Belle époque anche dal punto di vista industriale e commerciale, mentre oggi siamo in piena crisi, di portata storica, produttiva e occupazionale. Una crisi rilevata, più che dalla politica, dalla letteratura: si pensi, per quanto riguarda l’industria pesante e il settore metalmeccanico, a libri di gran successo dell’anno passato, come l’Acciaio di Silvia Avallone o la recente riedizione del Mammut di Antonio Pennacchi, presentato come “il libro che Marchionne e la Fiom dovrebbero leggere”. Ma qui, dovendo limitarci a trattare
La mostra “Il futuro nelle mani. Artieri domani” allestita alle Officine Grandi Riparazioni di Torino in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata curata da Enzo Biffi Gentili. Curatore indipendente e studioso di arti applicate, è stato anche direttore artistico unico delle manifestazioni celebrative nel 2002 del Centenario dell’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902. In questa pagina: l’allestimento alle Ogr, con in primo piano il prototipo di veicolo a due ruote Unità Motrice Autonoma, 2003, di Franco Sbarro (foto Mario Cresci).
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IM m pa re es st er i C o n t e m p o r a n e i
di artigianato, devo soprattutto ricordare il bel volume di Edoardo Nesi, Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia (Bompiani, Milano 2010), vincitore quest’anno del Premio Strega. Nesi, già imprenditore tessile a Prato, non si limita a denunciare la crisi industriale «del settore», e a lamentare sottovalutazione e mancanza di reazione. Si legga: «se pure è ormai scritto nel nostro futuro che dovremo diventare tutti economicamente irrilevanti, io e la mia famiglia e
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In alto: il muro de Le nuove officine (particolare). Artefatti di Nathalie Du Pasquier, Gios, Undesign, Antonio Carusone, Marina Gariboldi, Jean Tourlonias, Pierluigi Longo. In basso: Il palco delle Officine Sonore Italiane. Giorgio Pecchioni, Batteria, 2009, alabastro trasparente e alabastro agata, meccaniche in metallo. Uno degli elementi che incontrano maggiormente l’interesse dei giovani.
tante altre città di provincia dove nascevano e prosperavano migliaia di piccole imprese… non possiamo accettare in silenzio che il nostro declino e la nostra sofferenza vengano prima dimenticati e poi negati». E prosegue spiegando che a declinare e a soffrire oggi non sono solo i distretti tessili di Biella e Como, Lecco e Carpi e Chieri e molti altri, ma che anche «in crisi è la ceramica a Civita Castellana e a Deruta e a Sassuolo e a Caltagirone e a Santo Stefano di Camastra. In crisi sono le armi di Brescia e i sistemi di illuminazione nel Veneto… In crisi sono gli orafi ad Arezzo e a Valenza Po e a Vicenza. È in crisi anche la mitica Brianza». Crisi che quindi non risparmia il comparto artigianale. Anche per insufficienza culturale, per aver preso sottogamba la globalizzazione, e così la città di Prato è stata penetrata dai cinesi. Progettando la mostra alle Ogr non era decente far finta di niente, proseguendo in una difesa dell’artigianato sotto forme già sperimentate, strettamente disciplinari, seppur magistrali. A esempio Ugo La Pietra dimostra ancora una volta, con le sue teste di Caltagirone dedicate alle regioni d’Italia, straordinaria capacità di innovare sulla tradizione; ma nello stesso tempo espone alcune «tavole
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di contestazione», su una delle quali, illustrata da volgari artefatti orientali, iscrive a epigrafe questa frase: «L’Italia fatta a pezzi. Merce cinese all’ingrosso e a basso costo. Trentacinquemila trafficanti nel quartiere Sarpi a Milano: un pezzo di città che se ne va». Già, senza la consapevolezza di queste drammatiche verità si è tutti condannati all’insignificanza, o al massimo al bibelot. Che sarà carino, ma non basta. Per questo come curatore ho voluto documentare il lavoro di qualità prodotto a Faenza, ma anche a Sassuolo, dove si gioca una partita più rilevante per il Paese. E ho cercato di illustrare il mestiere e il savoir-faire al di là di quegli oggetti che dai tempi delle Biennali di Monza occupano la scena artigiana, la ceramica e il vetro, i bijoux e i tabouret… Torinese sì, ma non madamin, dovevo oltre ai mobilieri ricordare almeno i meccanici e i carrozzieri, oggi rarefatti nonostante una crescita esponenziale della domanda a livello internazionale. Infatti Franco Sbarro, attivo in Svizzera ma italianissimo, invitato per la prima volta a esibire in Italia i suoi plastici, fantascientifici veicoli di gran successo, ci ha ricordato che i cinesi e i Paesi in decollo economico producono sì auto a basso costo, ma
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In alto: Giancarlo de Astis, L’ Unità, 2011, realizzato con elementi ricavati da un Cessna F-19 dell’Esercito. Modellini di aerei SavoiaMarchetti S55X da trasvolata atlantica, realizzazione Old Cars. In basso: Franco Sbarro, GT 12, 2000, prototipo, carrozzeria in poliestere, telaio dual-frame, motore Mercedes V12 6.000 cc. 500 hp.
anche molti nuovi milionari che vogliono acquistare fuoriserie, e lo stesso vale per le bici o per le moto. E pensare che qualche deficiente qui da noi pensa ancora che si possa battere quel tipo di concorrenza con roba da niente… Insomma, ho cercato di raccogliere modelli di nuovo artigianato meno convenzionali, da strumenti sonori creati dal «pensiero manuale» a prove giovanili di «lavoro digitale».
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PHOTO BY FOTO LOCCHI
I magnifici prodotti dalla doppia G sono nati sotto i soffitti affrescati dei palazzi fiorentini, come si vede in questa immagine del 1953 che raffigura un laboratorio Gucci. Nella pagina a fianco, evoluzione di un’icona: la New Bamboo Bag in coccodrillo, creata per il novantesimo anniversario del brand nell’ambito della linea Gucci 1921 Collection.
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Lavorazioni di Stile
di Alberto Cavalli
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COURTESY OF GUCCI
GUCCI HA FESTEGGIATO I 90 ANNI CON UN TRIBUTO ALL’ARTIGIANATO DI ALTA QUALITÀ CHE OGGI RIVIVE IN UN MUSEO, NELLA SUA FIRENZE
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Nella classifica dei cento brand più prestigiosi al mondo, redatto annualmente da Interbrand, Gucci si trova alla posizione numero 44: un risultato straordinario, condiviso da solo altri due nomi italiani che tuttavia si trovano un po’ più in basso. Ovvero: Gucci è il brand che meglio rappresenta lo stile dell’Italia nel mondo. E i dati lo confermano: il fatturato ha raggiunto quasi i 3 miliardi di euro, la rete di distribuzione conta oltre 300 negozi monobrand in tutto il mondo, più di 45mila sono le persone che con Gucci lavorano o collaborano. Gucci compie 90 anni nel 2011: il marchio fu infatti fondato a Firenze da Guccio Gucci nel 1921. Pioniere nell’ideare sempre nuovi progetti per sostenere lo sviluppo del patrimonio culturale, il marchio ha deciso di festeggiare questo anniversario facendo un regalo non solo a Firenze, ma a tutti coloro che a Firenze passano, viaggiano e sostano: un nuovo e straordinario museo, proprio in piazza della Signoria. Nel cuore di una delle più belle città al mondo, culla del Rinascimento e di tutte le arti, Frida Giannini ha fortemente
voluto allestire uno spazio dove l’archivio di Gucci viene mostrato per la prima volta: «non siamo il primo brand a creare un museo, lo so» sorride Frida, direttore creativo di Gucci dal 2006. «Ma il nostro intento è differente: presentiamo per la prima volta una straordinaria collezione di oggetti che costituiscono un vero patrimonio culturale, insieme alle icone che hanno fatto la nostra storia». Niente di rispolverato o di già visto, ma emozioni ed esperienze ricavate da un percorso contemporaneo e culturale: «Abbiamo voluto creare uno spazio dinamico, sorprendente, che potesse attrarre anche i giovani e gli studenti». Il palazzo, ristrutturato e rinnovato, ospita anche una libreria dedicata alle arti, alla moda, all’artigianato e al design, un bar (dove tutti i dettagli sono firmati Gucci) e spazi disponibili per esposizioni temporanee. Il brand, parte del gruppo internazionale Ppr ma da sempre profondamente radicato nella più prestigiosa tradizione italiana, ha saputo valorizzare e intensificare il suo rapporto privilegiato con la città di Firenze, con le sue arti e i suoi mestieri: un rapporto che ancora traspare da ogni prodotto
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Lavorazioni di Stile
firmato Gucci, la cui realizzazione è ancora fatta in Italia Frida Giannini è uno dei pochi creativi che sono stati daval 100%. Ed è destinata a rimanere tale: «nessuno ci ha vero in grado di stabilire un dialogo diretto ed efficace con costretto a tenere tutta la produzione in Italia», conferma gli atelier e con gli artigiani: «quando vado a Casellina, dove Patrizio di Marco, presidente e amministratore delegato di hanno inizio i nostri processi produttivi e dove le pelli vengoGucci dal 2009. «Ma investire nel proprio Paese di origine no selezionate e testate, parlo con i nostri artigiani e discuto è al contempo un dovere e una questione di responsabicon loro. Molto spesso si accigliano e mi dicono di no; ma lità sociale. È naturale per noi apprezzare e far tesoro del alla fine otteniamo sempre il miglior risultato possibile, e patrimonio di maestria artigiana che abbiamo coltivato quello che raggiungiamo apre nuovi orizzonti anche in terda decenni. I clienti apprezzano questo sforzo? In parte mini di ricerca». In linea con la tradizione del design italiano, sì. Ma noi siamo consapevoli che questa autenticità sarà Gucci da sempre crea oggetti con una funzione ma anche sempre più richiesta, in futuro». Il con un’anima: «Quest’anima non percorso evidenziato da Patrizio sgorga solo dalla riflessione che un di Marco ruota proprio intorno certo oggetto viene ancora creato all’autenticità, alla legittimità di con tecniche antiche di secoli, ma un marchio come Gucci nel pordall’attenzione artigianale e dal tare avanti tradizioni e lavorazioni metodo di lavoro che qui, oggi, al contempo preziose e delicate: portiamo avanti con straordinaria «Sii fedele a te stesso, alle tue rapassione», conferma di Marco. La dici, alla tua identità, così che tutcampagna pubblicitaria Gucci Foti sappiano che qualsiasi storia tu rever, che Frida Giannini ha forracconti è legittima e reale». temente voluto, punta esattamente Se i tempi di Tom Ford e di Doa sottolineare le origini e l’identità menico de Sole hanno visto Gucdel brand: non come mera retorica, ci passare da una situazione quasi ma come espressione di un’anima fallimentare al vertice della moda vitale, presente, fondamentale. e del lusso, la Gucci guidata da Una visita alle unità produttive di Frida Giannini e Patrizio di MarCasellina, a pochi chilometri da co rivela oggi valori diversi: quelli Firenze, è un’esperienza che apre di una storia unica, di un territogli occhi: non c’è né malinconia né rio, di un’eredità. Un patrimonio culto per i «bei vecchi tempi», ma che non include solamente codici piuttosto la ferma consapevolezza di stile, ma anche lo straordinario che la creazione di prodotti presavoir-faire delle centinaia di artiziosi richiede competenze uniche. giani che hanno lavorato e tuttora Competenze che qui vengono collavorano per il marchio fiorentino. tivate, protette, spinte a superare Questo patrimonio vivente riesce continuamente se stesse, perché «il a infondere vita e incanto a uno cliente vuole sempre qualcosa di straordinario archivio, sotto la nuovo, e ha grandi aspettative in saggia ed entusiasta supervisione termini di stile e di qualità» dice , di Frida Giannini. «Quando arriFrida. «Ma ci sono creazioni che vai da Gucci, il mio primo inten- è l’unica cosa umana che non ci inganna, richiedono tempo, che non possoto fu quello di visitare l’archivio» no essere riprodotte in due minuè la sola cosa che appartiene rammenta. «Mi aspettavo qualti: necessitano di occhi, di teste, di completamente al genere umano. cosa di favoloso, straordinario, competenza e di mani intelligenti. ma quello che vidi sorpassò ogni A volte siamo costretti a dire di no Anatole France mia più folle aspettativa: a parai clienti, quando non riusciamo te gli iconici articoli in pelle del a riprodurre in tempo un articolo brand, vi vidi un intero universo prezioso che ha incontrato il sucracchiuso in oggetti che raccontacesso del pubblico: e a volte è anvano storie di eccellenza, maestria, che giusto dire di no. Anzi, trovo know-how». Frida ha una passione personale per la storia che sia necessario, per proteggere la qualità incontaminata e un approccio istintivo per il prodotto «semplicemente e senza compromessi di cui siamo orgogliosi». perfetto», per la creazione dell’icona che definisce il trend La bellezza è senza alcun dubbio un enigma, scrisse Doo ristabilisce uno stile. «Lavorare da Gucci, con la nostra stoevskij in L’Idiota. storia unica e senza paragoni, mi mette nelle condizioni Un enigma che per secoli è stato indagato, ammirato, idodi riprendere ancora dal passato quegli elementi che sono latrato: perché il senso del bello, secondo Anatole France, sempre originali e ricchi di significato, e di proiettarli nel è l’unica cosa umana che non ci inganna, è la sola cosa che futuro. Il cliente Gucci apprezza in maniera consapevole le appartiene completamente al genere umano. Come una bella capacità straordinarie che i nostri artigiani si trasmettono borsa, fatta a mano per durare nel tempo e per contenere i di generazione in generazione». ricordi più preziosi che vogliamo possedere e custodire.
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PHOTO BY ALESSIO COCCHI
Il senso del bello
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A sinistra, Il “Making of“ del mocassino Gucci: incisione della suola effettuatata per il “Made to order”, la speciale linea dove il cliente ha la possibilità di personalizzare i prodotti. Gucci New Jackie Bag in suede marrone e borsa Gucci ‘73 in coccodrillo, Collezione Donna Autunno-Inverno 2011-12.
Gucci Stirrup bag in coccodrillo, Collezione Donna Autunno Inverno 2011-12. a destra, “Making of” del mocassino Gucci: il martellamento delle cuciture. Nella pagina a fianco, prodotti senza tempo, ma anche simboli di un’epoca raccolti presso l’Archivio Storico Gucci, a Firenze.
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Università
A MILANO UN PROGETTO CHE È ANCHE SCOMMESSA PSICOPEDAGOGICA:
FABBRICHIAMO
TALENTI La genialità creativa dell’uomo si esprime da sempre attraverso molteplici manifestazioni di attitudini e di talenti: alcune eclatanti, altre più sopite; alcune fisicamente percepibili, altre generalmente classificabili come «immateriali». Tutte, comunque, egualmente essenziali per identificare la personalità dei singoli soggetti e per promuovere e valorizzare la loro specificità e originalità. Proprio a tal fine, e per poter riconoscere e favorire il potenziale creativo delle persone fin dall’infanzia, permettendo così un loro orientamento per un futuro nei mestieri d’arte e nell’artigianato artistico, è nata a Milano la Fabbrica del Talento presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano, con il sostegno di Child Priority, della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte e di varie istituzioni pubbliche e private, tra le quali il Comune di Milano. Si tratta di un progetto nato per attuare modalità didattiche che prediligono l’utilizzo e la sperimentazione dei linguaggi espressivi. Sia per rendere ogni percorso educativo interessante e ori-
ginale, sia per superare quelle difficoltà (differenze linguistiche, demotivazione, chiusure emotive) che si possono verificare nell’incontro educativo. È sembrato importante creare uno spazio per le giovani generazioni che, nel loro interesse, fossero stimolate a reagire alla rassegnazione rifiutando l’appiattimento e l’uniformità: tutto ciò in un momento in cui la dominanza delle tecnologie e del connesso ambiente della virtualità da un lato, e le ansie dettate dalle contingenze sociali ed economiche dall’altro, sovente impediscono o, comunque, distolgono i giovani dallo sforzo di focalizzare meglio le loro specifiche e intrinseche identità, quasi inducendoli a cercare all’esterno di sé (nelle relazioni sociali e nei mercati) le ragioni di senso e di maggior qualificazione della propria esistenza. La Fabbrica del Talento vuole essere un luogo dove l’immaginazione e la creatività s’impattano con la tradizione e la cultura; un luogo dove si scopre la bellezza nelle sue varie forme; dove ci si allena a fare, a osservare e osservarsi anche con un occhio al proprio futuro
professionale. Qui bambini e ragazzi possono esprimere le loro capacità creative e imparare ad apprezzare la bellezza attraverso l’arte in tutte le sue manifestazioni. Qui si incontrano e si formano anche gli operatori orientati a diventare educatori, animatori di comunità e promotori dello sviluppo e della crescita dei ragazzi di ogni realtà e cultura in Italia e in contesti internazionali. È una scommessa psicoeducativa e sociale che trova fondamento nell’utilizzo dei linguaggi artistici, attraverso i quali scoprire se stessi, le proprie risorse e le strategie di risoluzione di problemi. Dà inoltre l’opportunità di trovare vie di espressione del sé alternative, in grado di rinforzare la fiducia di chi si trova giorno per giorno ad affrontare le fatiche del crescere. L’obiettivo è duplice: da un lato, offrire ai giovani l’occasione per esprimere le loro inquietudini per l’avvenire; dall’altro, consentire loro di partecipare attivamente allo sviluppo di patrimoni artistici, materiali e immateriali, quali la musica, il teatro, la pittura, o l’applicazione artigianale,
CENTRO RICERCHE SULL’ORIENTAMENTO SCOLASTICO PROFESSIONALE * Cristina Castelli è professore ordinario di Psicologia del ciclo di vita, direttrice del Cross (Centro ricerche sull’orientamento scolastico e professionale) e del Master «Relazione d’aiuto in contesti di vulnerabilità e povertà nazionali ed internazionali» presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È direttrice della Fabbrica del Talento.
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di Cristina Castelli*
COSÌ I GIOVANI ESPRIMONO LE INQUIETUDINI E PROGETTANO IL FUTURO
culturalmente presenti o attivabili nel rispettivo territorio di attinenza. Il contributo dei giovani si prefigura essenziale in questo ambito sociale: se, infatti, oggi, sono messi in condizione di riconoscere il valore unico e imprescindibile di questa eredità; domani, in quanto adulti, potranno rendersi consapevoli della fondamentale importanza e dell’attenzione da dedicare alla tutela del patrimonio culturale e dei valori ereditati. Facendosene difensori, testimoni e promotori in prima persona. I laboratori creativi presso la sede della Fabbrica del Talento di piazza Buonarroti a Milano sono gestiti da psicologi e psicoterapeuti, docenti di corsi e master universitari, educatori specializzati in teatro, musica e danza, esperti d’arte con formazione psicopedagogica, maestri d’arte e d’artigianato artistico. Chiunque può partecipare poiché non sono richieste abilità specifiche o conoscenze artistiche particolari. I percorsi vengono creati su misura per i gruppi che lo richiedono e possono essere svolti presso gli spazi della Fabbrica o attivati nelle diverse realtà (scuole, centri di aggregazione, oratori...). Il lavoro condotto ormai da una decina d’anni dagli operatori dell’Università Cattolica nel campo della creatività e dell’orientamento professionale
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ha portato a strutturare un modello d’intervento psicopedagogico sia a Milano sia all’estero, in circostanze e Paesi colpiti da calamità naturali o da situazioni di cronica vulnerabilità, attraverso la messa a punto anche di progetti itineranti. Fra questi esemplare la Valigia dei Talenti, uno dei più recenti e di maggior successo. Il progetto nasce nell’ambito di iniziative di solidarietà promosse dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano - Master «Relazione di aiuto in contesti di vulnerabilità e povertà nazionali e internazionali» che hanno permesso esperienze di ricerca/azione a Milano e all’estero, in Sri Lanka e ad Haiti a seguito del terremoto. La sperimentazione pluriennale in tali ambiti ha evidenziato la necessità di disporre di strumenti educativi informali che potessero aumentare le competenze e risorse negli operatori e, al contempo, offrire ai bambini mezzi idonei ad affrontare, con modalità resilienti, disagi, ostacoli e difficoltà.
È ampiamente testimoniato come la creatività possa favorire legami sociali, autostima, benessere psicologico e senso del bello, tutti fattori che incentivano lo sviluppo della persona in senso positivo, permettendo di superare il disagio, favorire l’espressione, la comunicazione e l’integrazione sociale. È nata, così, l’idea della Valigia dei Talenti come bagaglio-contenitore degli strumenti essenziali a consentire e stimolare l’espressività creativa nella scuola e negli ambiti extrascolastici. Pensata per bambini in età scolare dai 6 agli 11 anni, è stata assemblata in modo da essere replicabile, ma anche modificabile in funzione delle esigenze del gruppo o dei singoli partecipanti. È composta da una serie di strumenti corredati da un manuale per il formatore. Il filo rosso è rappresentato dal tema del viaggio e delle metafore che lo caratterizzano: la creazione del gruppo, gli imprevisti, la cooperazione, le difficoltà e le fatiche, gli incontri lungo la via, la soddisfazione di aver raggiunto la meta. Un originale esempio-guida di come si possano creare momenti relazionali significativi con l’utilizzo ragionato di semplici materiali, guardando e utilizzando oggetti di uso comune per farli diventare occasioni di riflessione e incontro.
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PROGETTARE «A REGOLA D’ARTE» UN OGGETTO BELLO E FUNZIONALE DEVE ESSERE LA FINALITÀ DI CHI PRATICA IL MESTIERE DI DESIGNER. LASCIARSI TRASPORTARE TROPPO, PERMETTERE ALLA PROPRIA IDENTITÀ DI FAGOCITARE IL PROGETTO È SEMPRE UN PERICOLOSO PASSO FALSO
Giampiero Bodino, torinese di nascita, è il direttore creativo del Gruppo Richemont. Nel suo studio milanese studia, schizza, progetta e crea con gli strumenti di lavoro del vero artistaartigiano: colori, carte, penne e pennarelli Senza dimenticare la tecnologia.
Si parte da un pensiero. Da un’idea, come insegna Platone. Da un progetto che è già di per sé un’opera artigianale, se si vuole, perché comprende fattori ed elementi diversi da strutturare in maniera perfetta: l’identità della marca per la quale si lavora, per esempio, ma anche la propria visione, la scelta calibrata dei materiali, la verifica della funzionalità. Progettare «a regola d’arte» un oggetto bello e funzionale dovrebbe essere la finalità principale di chi pratica il mestiere di designer: e quando, come nel mio caso, si lavora a stretto contatto con alcune tra le più importanti marche del lusso, questo mestiere si colora di venature diverse, si sfaccetta, si lega in maniera sottile ma tenace alle ricchissime storie che ognuna di queste Maison esprime. Lasciarsi trasportare in maniera eccessiva, e permettere così alla propria identità di fagocitare il progetto, è sempre un pericoloso passo falso: se è vero che le capacità del designer devono essere utilizzate per arricchire il prodotto, per dargli un aspetto innovativo e familiare al tempo stesso che ne sancisca l’autenticità e il successo, è anche vero che la personalità di chi progetta deve essere sempre temprata, mediata, posta in dialogo con un héritage da preservare e con una storia che va studiata con cura. Non sarebbe un lavoro onesto, altrimenti: e l’onestà nell’approccio e nell’esecuzione è un tratto fondamentale nell’assimilazione di quel metodo di
di Giampiero Bodino - foto di Emanuele Zamponi
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lavoro in cui davvero un designer si può riconoscere come maestro artigiano. Perché il mestiere d’arte è metodo: implacabile, esigente, preciso, codificato eppure sempre flessibile a seconda delle mani dell’uomo che lo applica. Metodo che richiede pazienza, dedizione e umiltà d’approccio; che pretende l’uso sapiente della mente e delle mani, che maneggiano la penna, la matita, il pennello come lo scultore fa con lo scalpello, o come il falegname fa con la sgorbia. Se l’artigiano esprime la propria manualità trasformando la materia con gesti sicuri e decisi, il designer traduce l’idea in progetto esprimendosi anch’egli con il gesto, con il tratto, con il disegno che poi dovrà essere letto proprio dall’artigiano, dall’esecutore: il dialogo tra progettista e artigiano diventa quindi esaltante, emozionante. È un processo di interazione e di integrazione: le conoscenze, le esperienze, le capacità si incontrano per tradurre un’idea in un oggetto reale, bello, ben fatto, desiderabile, significativo. E al contempo, la mano e la mente si ritrovano intorno a un gesto per potenziarne la portata, sino a rendere ogni dettaglio del progetto ben eloquente, e ogni passaggio di realizzazione assolutamente perfetto. E valorizzando così le linee, i materiali, le forme, i volumi. La visione artistica innerva tutti questi processi come una sorta di universo parallelo, dove idee e progetti assumono lo status bellissimo e leggero del pensiero in libertà: se l’opera del maestro d’arte deve infatti rispondere sempre a criteri di funzionalità, l’artista è invece libero di esprimere la propria visione del mondo nella maniera che reputa più efficace, o più vicina alla propria sensibilità. I miei quadri, i miei oggetti partono sempre da
un forte legame con la realtà, ma la trasformano: una fotografia passa attraverso il prisma del pensiero e diventa una visione su tela. E in questo caso non ci sono più mediazioni tra chi progetta e chi esegue: l’artista diventa artigiano di se stesso, possiede gli strumenti e si dedica personalmente alla realizzazione dell’opera tramite colori, pennelli, matite. Mischiando tecniche e lavorazioni, plasmando materiali diversi: così nascono le mie opere, dove l’aspetto manuale e materico non è meno importante dell’ispirazione. La funzionalità e il rigore del design, il metodo e la sapienza del mestiere, la visione creativa e mai neutrale dell’arte: questi sono i vertici di un simbolico triangolo equilatero all’interno del quale prendono vita i progetti. Sono gli aspetti, tra loro in perenne dialogo, che mi fanno dire che il design è artigianato, nel momento in cui si maneggiano bene gli attrezzi del mestiere e si ragiona con un metodo sicuro e preciso; che il mestiere è arte, quando l’ispirazione e la bellezza mutano la materia in poesia; che l’arte vitalizza il design, spingendo sempre un po’ più in là il confine del possibile e del plausibile. Il segreto è nell’osmosi delle tecniche, nella permeabilità dei saperi, nell’apertura dei centri ricettivi. E nella profonda onestà di chi sa guardare il cielo come l’agricoltore: suspice coelum ut agricola, dicevano infatti gli antichi. Osserva il futuro con la sapienza di colui che sa che tutto ciò che è passato potrebbe di nuovo ripetersi, ma che avrà sempre e comunque un aspetto nuovo e un significato diverso: così il design cambia la storia, e unisce di nuovo il mestiere e l’arte.
IL SEGRETO: FUNZIONALITÀ E RIGORE DEL DESIGN, METODO E SAPIENZA DEL MESTIERE, VISIONE CREATIVA E MAI NEUTRALE DELL’ARTE, VERTICI DI UN TRIANGOLO EQUILATERO NEL QUALE PRENDONO VITA I PROGETTI
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Oggetti-anima e strumenti di lavoro decorano lo studio milanese di Giampiero Bodino. Qui sotto, la sua scrivania: l’inconfondibile tratto sugli schizzi, i colori per dare identità a un progetto, l’equilibrio creativo tra organizzazione e libertà espressiva.
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Scuole d ’eccellenza
Un dipinto in corso di pulitura presso il laboratorio di restauro dei dipinti su tela e tavola del Centro Conservazione e Restauro.
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Venaria Reale, la più importante e maestosa delle residenze sabaude piemontesi, patrimonio dell’Unesco alle porte di Torino, con i suoi 150mila metri quadrati di superficie edificata e gli 80 ettari di parco, rappresenta uno straordinario unicum ambientale e architettonico in Europa. Dal 1988, anno di avvio dei grandiosi lavori promossi dal ministero per i Beni e le Attività culturali e dalla Regione Piemonte, con il sostegno dell’Unione europea, è uno dei progetti di recupero e valorizzazione più imponenti e storicamente rilevanti a livello internazionale. È considerato uno dei più grandi cantieri di restauro europeo in quanto al recupero di un vasto complesso architettonico si affianca quello di un intero territorio, che comprende la città di Venaria, il suo centro storico, le infrastrutture, il Borgo Castello della Mandria con il suo parco, le circa 30 cascine e ville interne, i vasti terreni ora riqualificati a giardini. Un impegno straordinario, sia sul piano economico che su quello dell’investimento di competenze e saperi, che ha portato in questi anni alla periodica riapertura al pubblico di nuovi spazi, come le Citroniere e le Scuderie e all’impiego del sito come sede prestigiosa di eventi, mostre e manifestazioni, soprattutto in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. In questa magnifica cornice, che ogni anno richiama folle di visitatori, sorge il Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale», istituito come fondazione nel 2005. Con l’Istituto superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma e l’Opificio delle Pietre dure di Firenze, è uno dei pochissimi poli formativi nazionali di eccellenza nel restauro e nella conservazione del
patrimonio culturale e artistico. L’Italia, depositaria del maggior patrimonio culturale del mondo, patria dell’arte e museo diffuso, ha sviluppato storicamente una lunga tradizione nell’ambito delle metodologie e della formazione al restauro, raggiungendo un primato di eccellenza ampiamente riconosciuto a livello internazionale. Tanto che il modello formativo italiano è divenuto un punto di riferimento: sono sempre più numerosi i Paesi stranieri che richiedono la collaborazione dei restauratori e dei centri di restauro italiani e molteplici gli interventi effettuati all’estero da équipe di tecnici italiani. L’attività del Centro «La Venaria Reale», che occupa i circa 8mila mq delle ex Scuderie della Reggia, si articola nella Scuola di Alta formazione e Studio, nei laboratori scientifici e di restauro, nel sistema che comprende biblioteca, archivio e centro di documentazione. La Scuola di Alta formazione e Studio (Saf ) svolge un’intensa attività di ricerca e formazione, proponendo master e attività formative specialistiche nel settore dei beni e delle attività culturali. Il metodo è basato su un approccio scientifico multidisciplinare e sulla stretta interazione tra la formazione teorica e l’attività dei laboratori di restauro e scientifici. Dal 20062007 il Centro «La Venaria» ha attivato, grazie a una convenzione con l’Università di Torino e il Politecnico, un corso di laurea magistrale in Conservazione e restauro dei Beni culturali, fiore all’occhiello di questo straordinario e multiforme polo dell’eccellenza italiana. Oggi più che mai la formazione di un restauratore è complessa, prevedendo non
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di Alessandra de Nitto
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Il cantiere
DEL RESTAURO
La Venaria Reale, residenza sabauda, è diventata un centro di Alta formazione e studio, con laboratori dedicati al recupero di opere su tela, arredi lignei e materie preziose
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Scuole d ’eccellenza
soltanto un approfondito bagaglio storico-artistico e grande talento manuale ma anche conoscenza dei materiali e delle tecniche, utilizzo dei nuovi strumenti impiegati nella diagnostica e negli interventi di restauro. Aggiornamento continuo, ricerca e competenza nelle tecnologie, che in questo settore si fanno velocemente sempre più sofisticate e complesse, risultano requisiti oggi imprescindibili dell’eccellenza in questa professione, che coniuga arte e scienza, manualità e tecnologia in modo affascinante. Senza mai rinunciare alla componente fondamentale del sapere artigianale. Diretta da Michela Palazzo, specialista formatasi presso l’Istituto superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, autrice di interventi in siti d’eccezione (da Pompei a Palazzo Te a Mantova, dal Quirinale al Palazzo Reale di Milano) e su importanti opere d’arte, la scuola si avvale di professionisti di grande esperienza. Direttore dei Laboratori di restauro è Pinin Brambilla Barcilon, nome di eccezione a livello internazionale, cui dobbiamo, tra gli altri, gli storici restauri del Cenacolo di Leonardo e della Cappella Scrovegni di Giotto: celebre restauratrice, nelle cui mani sono passati alcuni dei più grandi capolavori dell’arte e che da anni è chiamata in tutto il mondo per interventi e attività didattica. I Laboratori affrontano le più diverse tecniche e tipologie dei materiali: dai dipinti su tela e tavola ai dipinti murali, dagli stucchi ai materiali lapidei, dai manufatti lignei e tessili a ceramica, vetro e metallo. Lo staff altamente specializzato opera avvalendosi anche del supporto dei Laboratori scientifici, che svolgono
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indagini diagnostiche e un’intensa attività di ricerca e sviluppo sulle metodologie e i materiali all’avanguardia per la conservazione. I Laboratori di restauro, insieme ai Laboratori scientifici, con le loro attività ordinarie e di ricerca, sono strettamente funzionali alla didattica e alla formazione dei restauratori. I Laboratori scientifici sono diretti da Annamaria Giovagnoli, dell’Istituto per la Conservazione e il Restauro, hanno dotazioni tecniche innovative e recentemente si sono dotati di un bunker per eseguire la Tac di oggetti anche di grandi dimensioni. Il Centro di Venaria è l’unica realtà in Italia dove è attivo un corso di laurea per restauratori di arredi e strutture lignee perché dotato di un laboratorio di restauro all’avanguardia; e non è un caso che questa eccellenza italiana sia nata proprio in Piemonte, dove la produzione degli arredi ha dato vita a una riconosciuta tradizione storica. I mobili antichi di fattura piemontese sono annoverabili fra gli esempi più alti dell’ebanisteria europea e la metodologia di restauro multidisciplinare perseguita dal Centro su queste opere è stata oggetto della recente pubblicazione Il restauro degli arredi lignei. L’ebanisteria piemontese. Studi e ricerche, edita con Nardini Editore. Di grande rilevanza anche il Laboratorio di restauro dell’arte contemporanea, settore emergente e nuova frontiera della conservazione. Un interesse che ben si coniuga con la vocazione, sempre più attestata, di Torino capitale dell’arte contemporanea in Italia grazie alle sue prestigiose istituzioni pubbliche e private, manifestazioni e iniziative dedicate.
Q Questa è l’unica realtà in Italia dove è attivo un corso di laurea dedicato a restauratori di arredi e strutture lignee. E sempre dal Piemonte parte la missione per l’arte contemporanea
Da sinistra a destra: l’utilizzo della strumentazione laser per la pulitura di un manufatto ligneo; le esercitazioni degli studenti del corso di laurea in Conservazione e Restauro dei Beni culturali; la documentazione fotografica dell’intervento di restauro.
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Eccellenze dal mondo
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MANIFATTURA
DEL BELLO La supremazia manifatturiera di Patek Philippe sboccia dal cuore meccanico della Maison per fiorire in segnatempo rari. Pendolette, tasca e orologi da polso superbamente decorati che grazie alla guida illuminata di Sandrine Stern sublimano la tradizione artigianale ginevrina
Tradurre la propria interiorità in esteriorità richiede innanzitutto un’ermeneutica di se stessi. La capacità di comprendere la propria natura e di esprimerla fedelmente. Spesso, sia quando si parla di persone sia quando si parla di cose fatte da persone, viene percorsa la strada opposta. Dall’esteriore si indaga l’interiore. E non si trova nulla. Patek Philippe è sempre stato un
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Qui sopra e nella pagina a sinistra, l’orologio da tasca Orchids (982/136G). Un gioiello di lavorazione floreale con un raffinato intreccio di orchidee. La cesellatura del retro della cassa ha richiesto 124 ore di lavoro manuale. Pezzo unico.
arbiter di bellezza interiore. I suoi calibri come gli scrigni in cui sono incastonati, si sono affermati come stato dell’arte. Un patrimonio di grazia micromeccanica e cura costruttiva che oggi più che mai trova sontuosa trasposizione in una grazia espressiva legata agli antichi mestieri artigianali. Pendolette, tasca, orologi da polso, la Maison ginevrina ha realizzato un’opération
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Eccellenze dal mondo
Cesellatura, smaltatura, intarsio, lavorazione del cristallo Baccarat, haute joaillerie, tutte le tecniche più preziose sono state miscelate al consolidato savoir-faire del marchio
traduisante del proprio patrimonio manifatturiero declinandolo in puro piacere decorativo. Come guardiano delle antiche consuetudini elvetiche legate agli orologi da oltre quattro secoli, Patek Philippe promuove e sublima competenze artigianali di suprema finezza manuale, il cui patrimonio rischierebbe altrimenti di evaporare. Cesellatura, smaltatura, intarsio, lavorazione del cristallo, haute joaillerie, tutte le tecniche più preziose della tradizione si fondono magistralmente con il savoir-faire orologiero segnando il tempo con istanti di ambrosia. Che si rincorrono in un florilegio di suggestioni, floreali, musicali, di raffinato esotismo, che levigano e incidono di sé i segnatempo Patek. Con caroselli equestri e passi di danza, farfalle e dragoni, tigri e geishe, samurai e fenici; in itinerari figurativi che solcano il Messico e l’Argentina, la Cina e il Giappone, la Thailandia e la Polonia. «Patek Philippe ha sempre difeso e promosso i mestieri preziosi che hanno profonde radici nel territorio ginevrino, coltivando le rare maestranze in grado di foggiare la materia con tale squisitezza», spiega Sandrine Stern, direttore creativo
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Qui sopra e nell’altra pagina, la Pendoletta Tango, ingentilita da una danza di smalto cloisonné, con l’utilizzo di 22 colori differenti opachi e trasparenti. Pezzo unico. Sotto, Sandrine Stern, direttore creativo della Manifattura.
di Patek Philippe, moglie di Thierry Stern, figlio di Philippe, in un continuum familiare che definisce i valori della Maison. «I lavori à la main, in particolare quelli che richiedono tatto sopraffino, devono essere trasmessi direttamente da chi li ama a chi li ama. Molti grandi maestri diventano quasi gelosi delle loro competenze, e sono restii a condividerle. Noi favoriamo l’incontro fra le generazioni, al fine di perpetuare il saper fare e arricchirlo sempre di più». Un’opera benemerita, che restituisce alla manifattura creativa gli stessi inattaccabili standard qualitativi della manifattura meccanica. «Tanto i nostri orologi sono belli all’interno, tanto lo sono all’esterno», prosegue Madame Stern. «Noi cerchiamo la qualità, ma la qualità non è soltanto esecutiva, è anche creativa. Siamo noi, partendo da un disegno, a elaborare i progetti, ma lasciamo agli artigiani la possibilità di inserirsi in una dialettica inventiva e alla fine giudichiamo il lavoro sulla base del lavoro». Un impegno nella valorizzazione che si lega idealmente e concretamente al museo Patek Philippe, sacrario dell’alta orologeria ginevrina. «L’idea stessa di fondare il nostro museo, che nel 2011 ha compiuto 10 anni, è una testimonianza della volontà del Marchio di custodire e valorizzare cinque secoli di orologeria e 170 anni di memoria manifatturiera della nostra azienda». Nei superbi spazi della boutique ginevrina, in occasione della presentazione internazionale del nuovo regolatore a calendario annuale referenza 5235, la famiglia Stern ha offerto ai propri ospiti la possibilità di vedere all’opera i propri artigiani. Abbiamo così potuto osservare da vicino la lavorazione dello smalto cloisonné, con il minuzioso collocamento dello smalto colorato nello spazio di minuscole celle delimitate da fili metallici che ne delineano il disegno. Un’aggregazione di colossali minuzie, che vetrificano l’eccellenza. Ed è stato emblematico quanto prevedibilmente voluto il parallelismo con il primo orologio da polso Patek con quadrante di tipo regolatore, che permette, grazie alla grande lancetta dei minuti a dominare la scena, una vivida visualizzazione di quanto importante sia il nostro tempo. Rintoccando il preludio di chi sa renderlo bello. E in questo i Rare handcrafts che danzano fra le pagine realizzano una sintesi perfetta fra il sentire maschile e quello femminile, con il sigillo di Madame Stern. «Come l’uomo è solito mostrare con genuino entusiasmo la bellezza di un movimento orologiero, i suoi segreti meccanici alla propria compagna, così la donna sa riconoscere e trasmettere il piacere dei dettagli più preziosi».
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Manualità di tradizione
In senso orario, da destra: gli interni della fabbrica Fazioli Pianoforti a Sacile (Pn); il controllo della curvatura della tavola armonica; la carteggiatura dei coperchi; la preparazione del telaio di ghisa prima dell’installazione delle corde.
PIANO
Da coda e da concerto, è lo strumento più elegante del panorama musicale. Da 30 anni Fazioli realizza a
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FORTE Sacile modelli che conquistano il mondo grazie all’antica tradizione della lavorazione del legno
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Manualità di tradizione
A gennaio ha festeggiato i primi trent’anni di vita una delle case produttrici di pianoforti più importanti al mondo, l’italiana Fazioli. L’azienda, dedita unicamente ai pianoforti a coda e da concerto, è nata per volontà del pianista e ingegnere romano Paolo Fazioli. Dopo aver maturato una significativa esperienza di management all’interno dell’impresa di famiglia – la Mobili Italiani Moderni – Fazioli decide di dedicarsi allo strumento che più ama e mira fin da subito alla produzione di un pianoforte innovativo e di altissimo livello, un pianoforte dal suono unico e individuale nato da approfondite ricerche su materiali e acustica. La Fazioli ha sede a Sacile (Pn), zona di antica tradizione nella lavorazione del legno, e realizza circa 120 strumenti l’anno grazie all’impiego di 42 dipendenti. La produzione standard include sei modelli distinti secondo le dimensioni, tra i quali è compreso il più lungo pianoforte al mondo reperibile sul mercato (un gran coda di oltre tre metri!). Esiste inoltre una serie speciale di strumenti derivati da commissioni o progetti particolari, quali per esempio i modelli de-
TUTTO È NATO NEL 1700 CON L’ARPICIMBALO CHE FA IL PIANO E IL FORTE La nascita del pianoforte si deve al padovano Bartolomeo Cristofori (1655-1731), dal 1688 costruttore di strumenti musicali alle dipendenze del gran principe Ferdinando de’ Medici. Egli sperimenta su un clavicembalo nuovi dispositivi di funzionamento: non più dei salterelli che i tasti, una volta premuti, lanciano verso le corde per pizzicarle con una penna, bensì dei martelletti che, ruotando su un perno, vanno a percuoterle secondo la diversa intensità con cui le dita del musicista agiscono sulla tastiera. Questo innovativo strumento è indicato per la prima volta nell’anno 1700 in un inventario della corte medicea come «arpicimbalo [cioè, clavicembalo] che fa il piano e il forte». Di Cristofori sono tuttora esistenti tre fortepiani: il più antico, del 1720, si trova al Metropolitan Museum of Art di New York, il secondo, risalente al 1722, al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma e infine l’ultimo, datato 1726, è custodito a Lipsia presso il Museum für Musikinstrumente der Universität.
A fianco: il palcoscenico della Fazioli Concert Hall, realizzata a Sacile accanto alla fabbrica. Nella pagina a fianco, diverse fasi della realizzazione artigianale. In senso orario: l’incollaggio della tavola armonica al fusto; l’intonazione dei martelli; la stagionatura delle tavole armoniche; l’intaglio della sommità dei ponticelli.
stinati al sultano del Brunei, connotati dall’uso della radica di sequoia con inserti in madreperla, lapislazzuli, malachite, diaspro rosso, ossidiana e occhio di tigre. Tutti i pianoforti Fazioli possiedono il medesimo carattere: sono dotati di grande escursione dinamica, vale a dire la capacità di passare da un volume limitato a uno molto elevato senza distorsioni; mantengono un timbro uniforme sia nel registro grave sia in quello acuto; hanno un suono chiaro, dalla lunga durata e molto selettivo, in grado cioè di far percepire nitidamente le diverse voci anche nelle composizioni polifoniche più articolate. Un altro segno distintivo di Fazioli è l’organizzazione del sistema produttivo. L’azienda infatti coniuga l’uso della tecnologia più avanzata con il lavoro artigianale al fine di raggiungere i migliori risultati possibili, in termini di qualità, nella realizzazione dei propri strumenti. Macchine e software speciali intervengono così nelle fasi di assottigliamento dei bordi delle tavole armoniche (il cuore vibrante del pianoforte) o di dimensionamento dello spessore delle corde. Totalmente affidate alla manualità degli artigiani, invece, sono le operazioni più delicate, come l’intaglio dei ponticelli (gli elementi che delimitano la sezione vibrante delle corde e ne trasmettono il movimento alla tavola) o la pesatura della
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tastiera, che permette di uniformare la resistenza dei tasti alla forza necessaria al loro abbassamento. Se poi Fazioli da un lato investe costantemente in ricerca e innovazione, avvalendosi di partner qualificati quali il dipartimento di meccanica del Politecnico di Milano, dall’altro mantiene stretti i rapporti con la tradizione, ricorrendo alla tecnica delle fusione in terra per realizzare i telai in ghisa dei suoi pianoforti e utilizzando per le tavole armoniche l’abete rosso della val di Fiemme, materia prima fondamentale per la liuteria di Antonio Stradivari. Oggi gli strumenti Fazioli riscuotono un enorme successo nel mondo e la filosofia della qualità è alla base della loro fama. Pianoforti Fazioli sono stati acquistati da importanti istituti come la Sibelius Academy di Helsinki, i Conservatori di Pechino e Shanghai e la Juilliard School di New York, sono stati apprezzati da interpreti di valore assoluto nella musica classica e jazz come Vladimir Aškenazi, Marta Argerich o Stefano Bollani e Herbie Hancock, utilizzati in sale di prestigio come la Musikverein Halle di Vienna o la Carnagie Hall di New York. Piace pensare che la piccola Sacile rimanga la vera casa di un Fazioli e in particolare quella sala da duecento posti, la Fazioli Concert Hall, che propone ogni anno una ricca e rinomata stagione musicale.
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SPESSORE DELLE CORDE E TAVOLE ARMONICHE SONO I TRATTI DISTINTIVI DI UN’ALCHIMIA CHE HA CONQUISTATO AŠKENAZI E BOLLANI
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Dossier
LE PRIME CARTIERE SORSERO AD AMALFI NEL 1220 E A FABRIANO NEL 1276, DOVE VENNE INVENTATA LA FILIGRANA PER SEGNARE I MANUFATTI
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Carta CANTA Incisione della fine del XVIII secolo che raffigura il lavoro svolto nella stanza dell’incollaggio a Fabriano tratta dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
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Dossier
La storia della carta in Italia è una storia di qualità artigianale, di innovazioni continue e di tradizioni di straordinario valore economico, artistico e culturale. Un valore che si estende a tutte le diverse discipline che appartengono alla filiera del cartario: una serie multi-sfaccettata di attività che comprende sicuramente tecnici e maestranze specializzate, ma anche maestri d’arte che tuttora portano avanti con amore, passione e creatività produzioni raffinatissime e preziose. Dai fogli più fini a innovativi complementi di design, da incisioni su commissione per grandi artisti a opere tipografiche indissociabili dalla cultura italiana: tutti questi mestieri rappresentano un’eredità e un saper fare che oggi si trovano a giocare una delicata sfida, a cavallo tra innovazione e tradizione. Una sfida in cui l’eccellenza dei “maestri cartai” costituisce un vantaggio storico insostituibile, e in cui le associazioni di categoria (Assocarta e Assografici) sono coinvolte in prima persona. LE RADICI DI UN’ECCELLENZA Le prime cartiere italiane sorsero ad Amalfi intorno al 1220 e a Fabriano nel 1276. I maestri cartai fabrianesi diedero presto prova di grandi capacità tecniche e di una creatività raffinata: nacquero lì le prime
filigrane per contrassegnare i manufatti. Traendo insegnamento da tecniche relative alla manifattura della lana, introdussero un diverso sistema di collaggio capace di rendere la carta un supporto durevole nel tempo, adatto a ricevere ogni tipo di scrittura o di segno artistico. I cartai di Fabriano, riuniti in corporazione dal 1326, non furono dunque solo artigiani ma anche veri e propri innovatori celebri in tutto il mondo. Risale però solo alla seconda metà del XIX secolo la rivitalizzazione del tradizionale saper fare che si era radicato nel corso dei secoli. Nelle Marche, in particolare, decisivo fu l’intervento della famiglia fabrianese Miliani: le Cartiere Miliani Fabriano, fondate nel 1782 dal capostipite Pietro, riuscirono a dare nuovo impulso all’antica arte cartaria. Famosi tipografi e disegnatori come Giambattista Bodoni e Francesco Rosaspina tornarono a favorire la carta di Fabriano, che univa la meticolosità della produzione artigianale all’ottimizzazione dei processi tecnologici più avanzati. Un altro polo dove la carta assume un particolare valore non solo economico ma anche storico, artistico e culturale è Lecce: la straordinaria abilità dei maestri è testimoniata da capolavori quali il controsoffitto della chiesa di Santa Chiara, realizzato nel 1738. Con i suoi 300 metri quadri interamente in cartapesta, rappresenta la più estesa opera di questo tipo sul territorio nazionale. La tuttora florida scuola veneziana della cartapesta nacque e si sviluppò già dal Rinascimento con la produzione di maschere per il Carnevale e di maschere e scenografie per la Commedia dell’Arte. La cartapesta, arte povera per eccellenza, a Venezia venne sempre lavorata con grande maestria per creare spettacolari scenografie per architetti e artisti come il Palladio e l’Arcimboldo. I MESTIERI DELLA CARTA OGGI Numerosi sono oggi gli artigiani-artisti che, partendo dalla carta, hanno avviato interessanti attività: come Daniele Papuli, artista pugliese attivo a Milano che ha firmato meravigliosi progetti in carta per grandi nomi del design e della moda. L’evoluzione tecnica e stilistica legata al mondo della carta (e alle sue lavorazioni) ha infatti portato alla nascita di nuove figure professionali, che si collocano in un ideale continuum tra l’artista (che crea opere d’arte utilizzando carta, cartone o fibre ricavate dal riciclo di questi materiali) e il tecnico vero e proprio. Tradizionalmente, il maestro cartaio è un operatore specializzato nella fabbricazione a mano del foglio. Lo ritroviamo ancora
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La stamperia Remondini, attiva in Bassano dal 1657 al 1861, divenne famosa per una vasta produzione xilografica di carte decorate, per legatoria, mobili, pareti ecc. Nel 1861 l’attività in Bassano cessò e tutti i legni incisi trasmigrarono a Varese presso la ditta Molina che continuò la produzione delle carte sino all’inizio del ‘900 dando origine alla carta Varese. Nel 1958 i discendenti della ditta varesina donarono al Museo di Bassano tutti gli antichi legni originali. Da quell’anno Giorgio Tassotti con la sua stamperia in Bassano ripropone le fantasie delle carte Remondini. Un esempio pregiato è qui a fianco. Tutte le carte decorative della collezione Tassotti (oltre 250) sono disponibili presso le Carterie Tassotti di Milano, Firenze, Bassano del Grappa, nelle migliori cartolerie e direttamente nel portale e-shop di www.tassotti.it
A sinistra, il soffitto in cartapesta della chiesa leccese di Santa Chiara, restaurato da Lidiana Miotto.
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Gli strumenti e le antiche stampe delle Grafiche Tassotti.
LA MANO, IL MIGLIORE STRUMENTO Dalla realizzazione del modello all’applicazione dei selezionatissimi pellami, dalla progettazione all’esecuzione: in Bottega Veneta la mano
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Dossier
oggi in alcune imprese artigiane, come la Cartiera Amatruda di Amalfi, che opera nella storica Valle dei Mulini nello stesso edificio che la cartiera di famiglia occupa dal 1400. L’attività di questa azienda è basata sulla produzione di manufatti di eccellenza, fogli di pregio, in cotone o in cellulosa, dove l’esperienza e il savoir-faire dei maestri cartai è insostituibile. Lavorazioni di particolare complessità richiedono competenze specifiche: è il caso dei maestri specializzati nella filigrana. Le filigrane artistiche in chiaroscuro, che si producono per esempio nelle Cartiere Miliani di Fabriano, richiedono una tecnica di incisione di grande accuratezza e precisione. Numerosi sono poi gli artigiani e gli artisti che creano oggetti d’arte utilizzando carta o fibre riciclate, privilegiando questo materiale per il proprio linguaggio creativo: secondo Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base di Cellulosa), che da diversi anni porta avanti un’intensa azione comunicativa per promuovere e presentare le creazioni realizzate con carta e imballaggi riciclati, si nota anzi «un’ampia diffusione di accessori da indossare in carta riciclata, soprattutto gioielli e borse» ma anche «una crescita di esperienze di allestimenti in carta sempre più coraggiosi e prestigiosi». Prova ne sia la mostra Gioielli di carta, allestita nel 2010 presso la Triennale di Milano e curata da Alba Cappellieri, o la raffinata produzione dei tanti laboratori artigianali dove questo materiale assume forme, aspetti e declinazioni del tutto inedite. Come accade ogni giorno presso l’atelier fiorentino Milady: qui, Marco Viviani affianca dal 1964 i più grandi stilisti nella realizzazione di raffinatissimi modelli in cartone per la plissettatura, veri capolavori di artigianalità. Nel 2010 al laboratorio Milady è stato attribuito il Premio Carte, organizzato da Comieco insieme alla Fondazione Symbola per le qualità italiane in collaborazione con Assocarta, Assografici, Confartigianato e Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte per promuovere il ruolo economico e culturale che il settore cartario riveste nel nostro Paese. Tra i vincitori vi sono anche le Grafiche Tassotti di Bassano del Grappa, che costituiscono tuttora un’eccellenza per la ricchissima eredità delle cartiere Remondini, di cui perpetrano la tradizione. Giuseppe Remondini (1677-1750) fu un noto stampatore di almanacchi e creatore di stampe popolari; la scuola di calcografia da lui fondata divenne presto nota in tutta Europa. Verso la metà del Settecento i Remondini
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iniziarono a produrre pure «una carta da parati colorata, che battezzarono Carta Varese, in aggiunta alla carta da legatoria spessa». Nel 1957 Giorgio Tassotti recuperò e riordinò le vecchie attrezzature, e proseguì nella produzione delle carte decorate a mano. I MESTIERI DELLA TIPOGRAFIA E DELLA STAMPA La tipografia è ormai una protagonista di primo piano nella realizzazione di ogni prodotto editoriale di alto livello. Accanto ai tipografi, maestri il cui valore è spesso sottaciuto ma che si rivelano artefici sensibili e intuitivi di soluzioni tecniche ed estetiche che innalzano la qualità del prodotto editoriale, vanno naturalmente citati gli stampatori d’arte, un mestiere dalle antiche tradizioni ma in continua evoluzione, tra cui si possono men-
zionare Giorgio Upiglio e Patrizio de Lollis. Giorgio Upiglio, incisore e stampatore d’arte milanese, dalla fine degli anni Cinquanta si è dedicato principalmente all’edizione di stampe originali e di libri a tiratura limitata. Nel 1962 aprì la stamperia Grafica Uno e iniziò una fruttuosa collaborazione con artisti quali Marcel Duchamp, Joan Miró, Günter Grass, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana. Anche Patrizio de Lollis, pittore e stampatore d’arte originario di Palermo, è oggi un noto artista del settore. Nel distretto grafico-cartario di Verona si sono consolidate aziende quali la Tipografia Franchini, poi acquisita dalla Mondadori, e la Stamperia Valdonega, nata dalla venticinquennale esperienza di Giovanni Mardersteig presso l’officina Bodoni e tuttora fedele alla mission individuata dal fondatore, ovve-
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Non solo fogli e imballaggi, ma anche allestimenti in carta sempre più coraggiosi e preziosi
Sopra, le perfette geometrie dei caratteri mobili. Nella pagina a fianco, il fascino delle lavorazioni manuali nelle immagini del Museo della carta di Pescia.
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Dossier
Dai fogli più fini alle incisioni per grandi artisti, dal design alla moda, l’esperienza e la cultura del mestiere fanno epoca come la genialità
Il torchio, strumento che ha accompagnato l’evoluzione dei mestieri della carta, non smette di affascinare i contemporanei emuli di Giambattista Bodoni.
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ro produrre libri di altissima qualità unendo l’attenzione costante al progresso tecnico con l’accuratezza del dettaglio dell’esecuzione. In Italia vi sono anche prestigiosi gruppi editoriali che tuttora si avvalgono del savoirfaire di maestri artigiani, specializzati nelle arti della stampa e della tipografia. Tra i più noti a livello internazionale vi è Fmr, nato dalla fusione tra la casa editrice di Franco Maria Ricci e il Gruppo Art’è di Marilena Ferrari; la casa editrice bolognese pubblica oggi raffinati volumi interamente fatti a mano da laboratori artigiani italiani, e dedicati alla meravigliosa bellezza del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese. Professionisti di grande talento in tutte le arti grafiche e tipografiche lavorano anche presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, complesso produttivo che rac-
chiude molte realtà: la tradizionale produzione di valori, stampati e pubblicazioni di pregio per l’Amministrazione dello Stato, i prodotti editoriali di carattere giuridico e le opere artistiche e letterarie edite con il prestigioso marchio di Editalia, la produzione di stampe artistiche, fino a sofisticate realizzazioni ad alto contenuto tecnologico. Anche la casa editrice Il Polifilo, fondata nel 1959, è da sempre attenta al lato estetico del libro oltre che al suo contenuto: grande importanza è dunque assegnata alle materie che lo compongono, quali la carta, i caratteri, la legatura. Le ristampe anastatiche di opere storiche, firmate dal Polifilo, sono veri gioielli editoriali. LA LEGATURA D’ARTE Il fascino della legatura come arte consiste nella sua funzione di legame tra contenuto
e involucro: una legatura riceve la sua vera giustificazione dalla comprensione e interpretazione che il legatore-artista fa del contenuto del libro. Non è dunque corretto associar tout court la figura del rilegatore a quella del restauratore, perché legature d’arte sono tuttora realizzate per creazioni editoriali prestigiose, libri d’artista o commissioni speciali. Come accade presso la Legatoria Piazzesi, fondata a Venezia nel 1851: paper shop tra i più importanti d’Europa, Piazzesi comprende oggi sei classi di prodotti per oltre 700 oggetti d’uso quotidiano, rivestiti con arte sopraffina dagli abili maestri veneziani. La legatura dei libri prevede l’uso di strumenti tradizionali quali fogli, pelle naturale, cartone, colla, filo e l’antico telaio per la cucitura dei libri, tuttora consigliato dall’associazione Amici della Rilegatura d’Arte: unica associazione culturale italiana del settore, è stata fondata nel 1990 a Venezia da un gruppo di rilegatori d’arte, bibliofili e restauratori di libri per diffondere e promuovere l’arte della rilegatura. Tra i maestri che vi si dedicano l’esempio di Lapo Giannini è emblematico: esponente della sesta generazione della più antica famiglia di legatori di Firenze, ha lasciato l’azienda di famiglia per diventare socio della Johnsons & Relatives, azienda attiva nella legatoria d’arte e specializzata nella decorazione della carta con metodi tradizionali. I MUSEI: PATRIMONIO VIVENTE Le diciassette istituzioni museali e raccolte storiche dedicate alla carta e alla stampa, presenti su tutto il territorio nazionale, rappresentano un patrimonio non solo storico e culturale, ma anche artistico e artigianale: attraverso l’azione educativa e propositiva dei Musei, raccolti dal 2005 nell’Aimsc (Associazione Italiana dei Musei della Stampa e della Carta), è infatti possibile promuovere in maniera capillare e mirata la conoscenza, la divulgazione e la conservazione delle radici e delle tradizionali tecniche delle arti grafiche e cartarie, compresi quindi macchinari, e dei materiali collegati, quali libri, manifesti, ex-libris, etichette, stampe popolari, incisioni. L’Associazione porta avanti anche attività di formazione, orientamento e promozione di iniziative indirizzate alla costituzione di modelli di museo e archivio di qualità, attraverso la definizione di requisiti condivisi che ne legittimino l’identità e la specificità; importanti anche le iniziative educative e di aggiornamento rivolte ai giovani, veri protagonisti di una nuova generazione di creativi e di maestri.
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Stile di successo
di Ugo La Pietra
IL TEMPO DELLA MATERIA CAPPELLINI LAVORA NELLA CONTEMPORANEITÀ, TRA RICERCA E SPERIMENTAZIONE. MA DIFENDE LA VERA ARTIGIANALITÀ, SENZA LA QUALE NON PUÒ ESISTERE IL PRODOTTO INDUSTRIALE
STILE CAPPELLINI Domanda. Giulio Cappellini, art director
dell’azienda. Lei crede sempre di operare attraverso diversi autori come la scelta consapevole di non definire mai lo «stile Cappellini» ma dando l’idea di un marchio sempre aperto alla ricerca e alla sperimentazione? Risposta. Cappellini desidera lavorare nella contemporaneità e non può esistere design contemporaneo senza ricerca e sperimentazione. Cappellini ama lavorare con designer diversi per storia, cultura e tradizione, cercando di tracciare un sottile fil rouge che connette i prodotti e le personalità dei diversi interpreti. La multiculturalità di linguaggio è quindi lo stile Cappellini, aperto a sempre nuove contaminazioni, quasi una sintesi delle istanze progettuali contemporanee. I CLASSICI D. Qualche volta sembra che nelle
sue scelte ci sia la volontà di arrivare a ottenere il risultato che Gio Ponti riteneva di aver raggiunto con i mobili classici contemporanei (come la Superleggera). Ma classico vuol dire anche e sopratutto fuori dal tempo. Come definirebbe i suoi “classici”? R. Spesso attraverso le sue scelte appare la volontà di realizzare «aspetti classici»
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capaci di attraversare le mode e quindi di sfidare il tempo. D. Quali fra gli oggetti che lei ha proposto ritiene più vicino a questo obiettivo? Esiste fra le opere da lei prodotte un oggetto che possa definirsi classico come lo definirebbe Gio Ponti? (Ponti definiva l’oggetto classico senza connotazioni, la sedia era “sedia-sedia”) R. Avendo avuto il privilegio di lavorare con Gio Ponti ho cercato di fare tesoro dei suoi insegnamenti. I classici di Cappellini sono prodotti che «maturano nel tempo» non best seller, ma long seller che cercano di anticipare e definire le tendenze restando dei punti di riferimento. Questi oggetti spesso parlano un linguaggio sommesso o talvolta più gridato ma sempre controllato. I prodotti disegnati da Jasper Morrison rappresentano al meglio il concetto di classicità di Cappellini. La poltroncina Low Pad, oramai da molti anni nel mercato, può considerarsi emblematica di questo pensiero. EDIZIONE LIMITATA E ARTIGIANATO D. L’edizione limitata di alcuni oggetti è
una soluzione progettuale e produttiva per poter affrontare procedimenti più vicini al craft (arte applicata) e quindi con più alto
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Giulio Cappellini, art director dell’azienda, siede sulla Poltrona Proust geometrica (2009) di Alessandro Mendini. Nella pagina a fianco: la sedia S-Chair (1991-1992) di Tom Dixon nella versione «color» in edizione limitata.
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Stile di successo
valore artistico e artigianale? E se sì, come pensa sia possibile ridare all’artigianato (sempre più spesso utilizzato nel mondo del design) un ruolo da protagonista non riconoscendo il «sistema-design» l’identità (nome, marchio) dell’artigiano nell’opera realizzata ma sottolineando sempre e solo il nome del designer e dell’azienda che produce (editore) dell’opera? Tavoli e sedie “Fronzoni 64” disegnate da AG Fronzoni nel 1964. La serie è un classico Cappellini, dal design intramontabile, con base in tubo metallico quadrato e piano in legno laccato, qui nell’inedita versione nei colori opachi blu India, giallo sole e rosso ciliegia. In alto a destra: “Bugatti racing”, limited edition 2009, un’incursione nel mondo della velocità progettata da François Azambourg. È una poltroncina in lamiera sottile iniettata con poliuretano espanso, verniciata lucida rossa con decoro bianco; viene proposta in 99 pezzi firmati e numerati. In basso a destra: “Low Pad”, poltroncina progettata da Jasper Morrison nel 1999 in scocca in multistrato di betulla curvato, imbottitura in poliuretano espanso a quote differenziate. Un altro grande classico del design.
di una pratica progettuale e produttiva che favorisce la vicinanza e l’integrazione tra tecnologie avanzate e tradizione artigianale. Questo genere di metodo artigianale e produttivo non dovrebbe essere sviluppato all’interno di quei centri di ricerca che il «sistema design» non ha mai fatto nascere? È possibile che possa svilupparsi una disciplina (anche se giovane!) senza i centri di ricerca (come esistono in ogni disciplina che vede ben distinta la ricerca dall’applicazione, vedi chimica, biologia, agraria, medicina ecc.)? R. Ritengo fondamentale il ruolo della ricerca aziendale nel passaggio dall’idea progettuale al prodotto industriale. La ricerca non deve essere finalizzata solo alla realizzazione di prodotti ma deve avere un respiro più ampio ed essere motore di innovazione per l’intero progetto aziendale. Ovviamente ciascun centro di ricerca aziendale deve essere differente volta per volta a seconda della missione di ciascun produttore. Soltanto in questo modo si può parlare di vera «azienda» e non di produttore. GIOVANI CREATIVI D. Tutti la conoscono anche e soprattutto
per la sua apertura verso i giovani creativi. Lei ritiene che le migliaia di giovani laureati che escono ogni anno dalle scuole private e pubbliche possano rappresentare una risorsa per il mondo della produzione? Oppure co-
R. Certamente l’edizione limitata di al-
cuni oggetti tende a enfatizzare la qualità artigianale e artistica di alcuni prodotti. È fondamentale ridare all’artigianato grande dignità poiché non potrebbe esistere prodotto industriale senza l’abile supporto dei bravissimi artigiani che spesso ne seguono lo sviluppo. Concordo che il nome dell’artigiano ha lo stesso valore del nome del designer e di quello dell’editore. Purtroppo negli ultimi decenni spesso il prodotto dell’industria ha trionfato sul prodotto dell’artigianato relegandolo a un ruolo di secondo piano; dobbiamo difendere con mostre e dibattiti questo patrimonio straordinario, parte integrante della cultura del saper fare dei diversi Paesi e in particolare dei distretti italiani.
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DESIGN E CENTRI DI RICERCA D. Lei è stato uno dei maggiori protagonisti
stituiscono con la loro «voglia di fare» (sono sempre dei creativi!) un elemento di forte disturbo per la definizione del ruolo di questa disciplina nella nostra società? R. I giovani creativi possono rappresentare un notevole serbatoio di nuove idee per la produzione, l’importante è che i giovani capiscano che fare un vero progetto non è un atto improvvisato ma è frutto di una lunga e attenta elaborazione. Spesso i giovani pensano di poter raggiungere fama e notorietà nel mondo del design presentando qualche prodotto ben accettato dal mercato. L’importante è invece cercare sempre più di ritornare a fare progetti utili e soprattutto belli, concentrando al massimo forze ed energie su pochi prodotti veramente innovativi.
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non trovando spazio operativo nella media e piccola azienda, orientare la propria attività verso l’autoproduzione imitando ciò che da decenni viene fatto dai creativi nord-europei all’interno del craft? Un’area disciplinare che da sempre è costituita da musei, istituzioni, scuole, gallerie, mercato, collezionisti, quotazioni degli autori, tutte cose che a noi mancano completamente. R. L’autoproduzione rappresenta per i giovani designer una grande palestra di esperienza. Soltanto toccando con mano le vere problematiche della realizzazione di un progetto, si può arrivare a pensare un prodotto serio, onesto, producibile. Sicuramente questa disciplina è più sviluppata in altri Paesi rispetto all’Italia ma mi auguro che presto molti giovani designer imparino sempre più a sporcarsi le mani anziché realizzare rendering in cui tutto appare perfetto. Il concetto di progetto che va dall’idea al prodotto e alla comunicazione e commercializzazione da un senso di contemporaneità al modo di lavorare.
«L’AUTOPRODUZIONE È UNA GRANDE PALESTRA PER I GIOVANI DESIGNER, BENE CHE SI SPORCHINO LE MANI ANZICHÉ REALIZZARE RENDERING»
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Sapori e Saperi
MOSTARDA MANTOVANA CON MELE COTOGNE Trionfo di colori e di sapori per la pietanza tipica della gastronomia mantovana, in questa pagina realizzata da Giovanni Santini al pluristellato Ristorante dal Pescatore di Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova. «Sorella» della senape di Digione della tradizione gastronomica francese, si distingue per il sapore più delicato tendente all’agrodolce.
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di Alessandra Meldolesi
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QUEL GUSTO MEDIEVALE DI SUA MAESTÀ L’abbinamento ideale è con il carrello dei bolliti, ma sposa anche selvaggina e arrosti. Per lei si sono spesi artisti e visionari. E l’Italia si è fatta addirittura in cinque
CARLOS JONES
MOSTARDA
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Un rollercoaster medievale. Sono secoli che la mostarda sferza i palati dei gourmet con contrasti non meno avvincenti di un fantasy storico in stile Dan Brown. I gustemi dolce e piccante di frutta e senape si avvinghiano in un doppio che scivola lungo le sinuosità del mappamondo, fino alle salse vietnamite, gettando l’amo nella medicina come nelle acribie della contabilità organolettica. Alle origini, almeno per noi, era il mustum arderns, etimo fiammeggiante di una famiglia allargata di salse e condimenti. Ben prima che gli Arabi impiantassero lo zucchero in Trinacria, quando il miele ancora scarseggiava, per conservare la deperibilissima frutta fresca si usava tuffarla nel mosto d’uva cotto, zuccherino a sufficienza per imbalsamarla fino a Natale. Da qui la girandola delle sperimentazioni con aggiunte disparate. Polvere di sarmenti di vite, per correggere l’acidità; il miele o lo sciroppo di zucchero al posto del succo d’uva; e finalmente lei. La senape, celebre per le sue virtù medicamentose. Con la conversione della dieta romana, di impianto vegetale, alle copiosità carnee del Medioevo, la conserva contadina assurse alle tavole patrizie con funzioni tanto digestive che antimicrobiche.
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STEFANO SCATÀ
LA MANO, IL MIGLIORE STRUMENTO Dalla realizzazione del modello all’applicazione dei selezionatissimi pellami, dalla progettazione all’esecuzione: in Bottega Veneta la mano
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Sapori e Saperi
CARLOS JONES
E per rimarcare il suo novello status si fece bella di tutto quanto era esclusivo: spezie, peperoncino, persino vaniglia, acqua di fiori d’arancio oppure rose. Mentre le bacche asprigne dei villani cedevano il passo alla frutta d’élite: ciliegie, albicocche, pesche, fichi, anguria bianca, agrumi… Uno slalom fra simboli di status. Era quanto bolliva a nord della «linea gotica»; visto che a sud, terra di mangiafoglie e mangiamaccheroni, la mostarda rimase quella d’antan, senza eccessi speziati. Da una parte quindi Carpi, la Sicilia dei fichi d’India e anche il Piemonte della cugnà; dall’altra Milano, Vicenza e Mantova. L’antonomasia regalava la palma a Cremona, dove la grassezza dei bolliti trovava il giusto accompagnamento per testura croccante e propulsione al palato. Messo a punto nella sua formula definitiva nel 1700, consta di frutti canditi innaffiati di sciroppo di zucchero senapato. Una recepta così caustica da ispirare alla penna di Giulio Cesare Croce i Secreti di medicina mirabilissimi del poco eccellente e tutto ignorante, il dottor Braghetton; filosofo da tartufi, astrologo da boccali, e sopraintendente de’ bussolotti della mostarda cremonese. Il condimento si giovava infatti di paludate sovrastrutture mediche a giustificazione delle sue mirabilia. Per esempio la dottrina galenica, che ascrivendo l’ambita frutta fresca nella famiglia degli alimenti frigidi, prescriveva di scaldarla con la cottura o con le spezie al fine di bilanciare ottimamente gli umori. Presto fatto nei vasetti della corporazione dei salzieri come nelle descrizioni dei livres d’office; lo stesso Nostradamus, fra una profezia e una panacea, trovò il tempo di vergare qualche ricetta per la corte di Caterina de’ Medici, seminatrice di moutarde nelle galliche contrade. Sulla bocca dei consumatori fiorivano intanto le espressioni idiomatiche. «Mi salta al naso la mostarda», esclamavano l’Aretino e il Tasso, metaforizzando la pungenza di un condimento che nei dizionari era sinonimo di contrappasso, ambascia, antagonismo valoroso. Tanto che svaniti i fumi di Galeno e Nostradamus, insieme all’aura deluxe degli ingredienti, resta l’enigma di contrasti ficcanti ben oltre il bon ton del codice del gusto. È l’isotiocianato di allile ad attivare la via nervosa del dolore (l’autostrada VR1), con il corollario pseudocalorico del caso, spalancando le porte all’omeostasi emotiva come al paradosso zigzagante di un edonismo endorfinico. Avant coup millenario del giovane blasé dipinto da Adorno nell’atto
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di mescersi un whisky and soda nel suo appartamento metropolitano. Dove il «malcontento, come orgoglio di sopportarlo, è elevato immediatamente, tale e quale a voluttà»; «la ripugnanza che l’organismo ha dovuto sopportare per abbordare stimoli così forti, registrata come puro piacere». Capostipite di un secondo grado che immette il sublime nell’agon gustativo. La celeberrima mostarda di Cremona consiste in un mix di frutti acerbi (mele, pere, fichi, ciliegie, zucca; oggi anche albicocche, pesche, ananas, agrumi e prugne) canditi separatamente nello sciroppo di zucchero e aromatizzati con olio essenziale di senape al gusto. L’abbinamento ideale è con il carrello dei bolliti, ma sposa anche la selvaggina e gli arrosti in genere. La produce Giuseppe Diego Luccini alla Cicogna di Cicognolo (tel. 0372.830624), insieme a una dozzina di divertissement a base di cipolla di Tropea, zucca e pomodoro. A Mantova si ricorre piuttosto al monofrutto, solitamente mele a fettine macerate nello sciroppo di zucchero senapato, ingrediente immancabile dei tortelli di zucca. Sono celebri i vasetti delle Tamerici delle sorelle Calciolari a San Biagio (tel. 0376.253371): anguria bianca, mele cotogne, pomodori verdi, pere, fichi, albicocche, arance, zucca e prugne, da abbinare con lardo, formaggi, il classico bollito o un arrosto di maiale. La mostarda piemontese, detta anche cugnà, è una crema che accompagna tomini e formaggi in genere, ottenuta facendo bollire nel mosto di uve Nebbiolo e Barbera mele cotogne, pere martin sec e fichi, con l’aggiunta facoltativa di nocciole, noci e spezie. Da provare quella dell’Antica Dispensa Bricco Bastia a Monforte d’Alba (tel. 0173.787120). La mostarda di Carpi, o savor, si ottiene facendo ridurre il mosto e cuocendovi lungamente frutta autunnale a pezzettoni (mele, pere, mele cotogne, zucca), con scorza di arance e talvolta noci in funzione di aromi. A parte l’uso cucinario, quale ripieno di dolci, l’abbinamento classico è con formaggi stagionati, polenta, ricotta e persino gelati. Ancora diversa la mostarda vicentina, a base di mele cotogne, mele e pere. I frutti, cotti con acqua e zucchero e poi setacciati, vengono aromatizzati con canditi e senape. In pole position la Lazzaris di Conegliano Veneto (tel. 043860668), consigliata con salumi di selvaggina, speck e dolci natalizi. Fra le mostarde eretiche si segnalano i vasetti dell’Azienda agricola Visconti di Nizza Monferrato (0141.721026), versata sul versante orticolo con mostarde di cardo gobbo.
VARIAZIONI SUL TEMA DELLA TRADIZIONE Anche se conquista i palati dalla notte dei tempi, la mostarda conserva un posto di riguardo nei menù dei ristoranti pluripremiati e nelle creazioni gastronomiche di chef stellati: alla sua presenza quasi d’obbligo con i bolliti e la salsa verde (in alto) in un classico stagionale si affianca quella in piatti dall’architettura moderna come la mostarda di frutta d’autore del Ristorante Anna Stuben di Ortisei (Bz).
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La mostra
di Alberto Cavalli
Unità nella COLLEZIONE DI CERAMICHE DEDICATE ALLE REGIONI ITALIANE DISEGNATE DA UGO LA PIETRA E REALIZZATE A CALTAGIRONE
IL FUTURO NELLE MANI Collezione di ceramiche realizzata in occasione della mostra Il futuro nelle mani. Artieri domani a cura di Enzo Biffi Gentili, nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia a Torino, Officine Grandi Riparazioni, dal 17 marzo al 20 novembre 2011. Promossa dal Comune di Caltagirone e dall’Istituto d’Arte di Caltagirone.
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La ricerca sul tema dell’unità nazionale ha portato Ugo La Pietra, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a rappresentarla analizzando le differenze dei caratteri espressivi italiani grazie a una collezione progettata per una materia a lui molto congeniale, la ceramica di Caltagirone, e a uno dei suoi archetipi più noti: la testa portavaso. La collezione, composta da 21 portavasi antropomorfi realizzati dagli artigiani ceramisti calatini Bottega Branciforti, Alessandro Iudici, Nicolò Morales, Francesco Navanzino, Riccardo Varsallona rappresenta l’affermazione di un’Italia unita che è in grado
di esprimere i valori delle sue diversità. Venti teste portavaso raffigurano ciascuna una delle venti regioni italiane, a cui si aggiunge un ventunesimo vaso in rappresentanza dell’Italia come sintesi delle diversità territoriali riunite in un unico Paese. Tutte le teste sono caratterizzate dall’individuazione e rivisitazione ironica degli stereotipi legati a ognuna delle regioni rappresentate, in un processo di sintesi intellettuale e artistica. L’abilità degli artisti ceramisti ha dato forma ai progetti di La Pietra dimostrando la capacità di mantenere un forte rapporto con la propria tradizione ma con la disponibilità a ripensarla e rinnovarla.
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Simona Cesana
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DIVERSITÀ
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Savoir-faire di domani
IL REGNO
della manualità Preservare mestieri essenziali e rari come la finitura dei gioielli. È questa la mission dell’Institut de Joaillerie: voluto da Cartier, dal 2002 offre a giovani appassionati un anno di studio e 20 mesi di praticantato presso esclusivi atelier. Nel cuore di Parigi
LA MANO, IL MIGLIORE STRUMENTO. Gli studenti dell’Institut Cartier imparano a utilizzare gli strumenti tradizionali, ma anche le tecniche più all’avanguardia per perfezionarsi nei mestieri d’arte dell’alta gioielleria, seguendo ogni fase della realizzazione di un gioiello.
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di Marie-Françoise Haye-Niney
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Savoir-faire di domani
Maison francese di fama internazionale, Cartier coltiva dal 1847 i valori dell’eccellenza gioielliera. Passione, savoir-faire, innovazione e trasmissione delle competenze costituiscono il cuore di questa tradizione, custodita dal talento di uomini e donne accomunati dall’amore per il mestiere. È così che, in modo del tutto naturale, nel settembre 2002 Cartier inaugura un Institut de Joaillerie ubicato nel cuore di Parigi, con l’obiettivo di contribuire a perpetuare e sviluppare le competenze gioielliere ai massimi livelli. L’istituto vuole porre l’accento su mestieri essenziali che, purtroppo, sono diventati molto rari. Tramandando un’arte che fa sognare il mondo intero, l’istituto consente quindi a dei giovani di entrare per un certo periodo di tempo nei migliori atelier parigini e di studiare, per un anno, i mestieri della finitura dei gioielli (in particolare la politura e il taglio). Per cinque anni consecutivi, 42 persone vengono dunque formate per diventare artigiani qualificati, che alimenteranno questi mestieri colpiti dalla carenza di manodopera d’eccellenza. Nel 2007 un piano di studi specifico in Alta Gioielleria sostituisce la formazione ideata inizialmente. L’anno di studio si trasforma in 20 mesi di pratica intensiva, durante i quali gli apprendisti, in possesso di un Certificato di idoneità professionale (Cap) o di un Brevet des métiers d’art (Bma, diploma specifico relativo ai mestieri d’arte), scelti per titoli e concorso, acquistano dimestichezza con la realizzazione dei pezzi fatti a mano. Dopo 20 mesi di formazione, i mestieri d’arte (la gioielleria, il taglio delle gemme, l’incisione delle pietre, la cesellatura della materia, l’incastonatura, il lavoro con le lacche e
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Si apprendono le nobili competenze per realizzare pezzi fatti a mano, dall’incisione delle pietre fino all’incastonatura e alla smaltatura a caldo
la smaltatura a caldo, la finitura) faranno parte delle loro competenze. Se ne è avuta una dimostrazione recente: lo scorso luglio, tutti i professionisti della Maison Cartier hanno potuto apprezzare i pezzi personali dei quattro allievi della classe di diplomati 2011 «Jeanne Toussaint» ma, soprattutto, il «capolavoro» realizzato negli ultimi 6 mesi di corso. Oltre a questa formazione iniziale, dal 2005 l’Institut de Joaillerie offre ai professionisti esperti l’opportunità di consolidare le proprie competenze e di acquisire nuovi metodi e tecniche. Soddisfare i requisiti di perfezione richiesti dalle più grandi Maison di gioielleria resta l’obiettivo principale di questi professionisti in attività, che operano nei nostri atelier e nelle nostre manifatture. Per inserire e accompagnare al meglio nella formazione permanente gli apprendisti e i professionisti, l’Institut de Joaillerie si avvale non solo delle competenze di uomini e donne di comprovata perizia nel mestiere, ma anche di un’équipe didattica, la cui lunga esperienza permette di definire e adattare le esigenze formative alle prospettive professionali. Le condizioni di apprendimento sono ottimali: uno spazio-atelier ben organizzato, con aree dedicate alle singole funzioni e conformi a tutte le norme di sicurezza; un’ampia gamma di strumenti e prodotti, che tengono conto dell’evoluzione tecnica e pratica di ciascun mestiere; un numero limitato di stagisti, per consentire una didattica personalizzata. Grazie all’Institut de Joaillerie, la trasmissione delle competenze e la perpetuazione dell’esperienza continuano a far parte degli impegni fondamentali della Maison Cartier, a quasi due secoli dalla sua fondazione.
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IL CAPOLAVORO Dovranno passare anni prima che gli studenti arrivino a creare gli straordinari pezzi che escono dagli atelier di Cartier, come la pantera in diamanti e zafďŹ ri. A sinistra, i quattro allievi della classe di diplomati 2011 con Bernard Fornas, presidente di Cartier.
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Musei
passione
DIVINA
A GARDONE RIVIERA UN MUSEO CON LE STATUE DEL GESÙ BAMBINO, CON LABORATORIO DEDICATO AL RESTAURO E CORSI DIDATTICI
A Gardone Riviera, nel dolce paesaggio della sponda occidentale del lago di Garda, a poca distanza dal Vittoriale dannunziano, sorge la fondazione museo del Divino Infante, una realtà assolutamente unica al mondo che espone la più significativa collezione di sculture del Bambino Gesù. L’importante raccolta – più di 250 esemplari – diventata museo nel novembre 2005, è frutto di circa 40 anni di ricerche e di restauri a opera di Hiky Mayr, studiosa d’arte di origini tedesche e moglie di un noto albergatore gardonese. La Signora Mayr accoglie i suoi ospiti con un sorriso radioso e con quella luce negli occhi tipica delle
persone che hanno fatto della loro passione una ragione di vita. Dal suo racconto apprendiamo che la collezione è iniziata per caso quando stava cercando alcune pentole di rame per il suo albergo. Mentre rovistava tra pentolame e oggetti vari vide spuntare due gambette nude. Dapprima pensò si trattasse di una bambola ma il rigattiere le spiegò che era la statuetta di un Gesù Bambino e che gliela avrebbe regalata a fronte dell’acquisto di qualche altra pentola. Hiky Mayr tornò quindi a casa con un baule di pentole vecchie, con il suo primo Gesù Bambino tra le braccia e... con un nuovo amore. È l’inizio di un grande lavoro
di ricerca, facilitata in parte dal fatto che, a seguito del Concilio Vaticano II, la Chiesa permetteva di vendere molti oggetti ritenuti superflui nei luoghi di culto, che conseguentemente finirono nei negozi degli antiquari. È anche l’inizio di un incessante lavoro di restauro: le opere vengono principalmente acquistate nei mercatini antiquari in stato di conservazione poco ottimale, se non pessimo. La collezionista, grazie alla seria formazione artistica ricevuta a Monaco di Baviera, si prende cura personalmente del restauro delle sculture e anche del confezionamento di nuove vesti dove necessario - utilizzando stoffe e paramenti d’epoca che ricerca presso gli antiquari e che esegue nel rispetto
«Gesù Bambino sdraiato, XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto».
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di Susanna Ardigò
delle tecniche originali. A ogni creazione dedica la stessa grande cura, che si tratti di un’opera d’arte di grande valore o di una produzione popolare. Data l’importanza di questo lavoro minuzioso, che richiede un continuo studio, Hiky Mayr ha voluto creare all’interno della struttura un laboratorio di restauro dove prevede di svolgere corsi didattici per la realizzazione di piccole sculture del Bambin Gesù. Il museo è ospitato in un edificio di due piani, un tempo albergo Villa Ella, completamente ristrutturato in funzione della sua attuale destinazione e sotto l’attenta supervisione della Mayr. Le accoglienti, curatissime, spaziose sale, che possono ospitare turisti singoli e anche gruppi numerosi, offrono un percorso che lascia meravigliati davanti a queste «divine» creazioni. Le armoniose sculture (le cui dimensioni vanno da 60 a 90 centimetri per quelle in piedi e da 50 e 70 per quelle distese), realizzate in diverse tipologie e materiali – dal legno intagliato e policromo alla cera, alla terracotta e alla cartapesta – sono state create lungo l’arco di quattro secoli a partire dal 1600, momento in cui il culto per il Bambin Gesù viene diffuso in tutta l’Europa cattolica. In realtà, sebbene le origini dell’autonomia iconografica siano fatte risalire al 1200 (il culto viene propagato dai francescani e dopo la rappresentazione del presepio di Greccio nel 1223 i confratelli del convento di Betlemme ne diffusero le statuette), è solo a partire dal XVII secolo che si rinnova l’interesse per l’infanzia di Cristo, sia
«Gesù Bambino dormiente nel giardino dell’Eden». Italia del Sud, seconda metà del XIX secolo. Testa e arti in cera dipinta, corpo in stoppa, parrucca in fibra vegetale. Fiori di carta, conchiglie e paillettes. Veste in seta avorio. Sotto da sinistra, «Gesù Bambino», XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto. Occhi in pasta di vetro. Aureola raggiata in metallo dorato. «Gesù Bambino», Italia del Sud, seconda metà del XVIII secolo. Legno intagliato e dipinto. Occhi in pasta di vetro, parrucca in fibra vegetale.
nelle classi borghesi sia in quelle popolari: da questo momento quasi in ogni casa è presente una scultura del Bambino a protezione della famiglia e propiziatoria di maternità. Il culto raggiunge il suo apice nel XVIII secolo; successivamente le opere sono di minor pregio. La maggior parte della produzione esposta proviene da celebri botteghe artigiane napoletane e siciliane. Il Bambin Gesù è rappre-
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sentato in pose diverse di delicata bellezza: in piedi, coricato o dormiente, nudo (con richiamo all’incarnazione), in fasce o avvolto in vesti preziose ornate da perle, pizzi, merletti e ricami. Accanto al culto popolare per il Divino Infante, si afferma nel Nord Italia (soprattutto in Lombardia) il culto di Maria Bambina. La sua raffigurazione segue la visione del Cardinale Federico Borromeo (1564-1631) che la vuole bambina avvolta in fasce e attorniata da angeli. Le statue venivano donate alle fanciulle che erano destinate al convento e alle giovani spose come auspicio di fertilità. Dato il territorio circoscritto nel quale si diffusero, le statue di Maria Bambina sono rarissime e nella collezione del museo è presente una vetrina con sette esemplari, due dei quali molto pregiati. Ma la passione e la continua opera di ricerca di questa singolare collezionista e studiosa non si fermano qui. Al piano inferiore del museo ha creato un presepio napoletano allestito in uno spazio che consente al visitatore di entrare dentro la scena vivendo in prima persona la magia e la poesia della scena sacra. In questo presepio troviamo tutta la teatralità napoletana tipica del presepio del XVIII secolo, con una varietà e ricchezza di figure, comparse, animali e suppellettili davvero sorprendente e percepiamo il classico dualismo sacro-profano armoniosamente risolto in questo scenario della Napoli settecentesca. Il Divino Infante è molto più di un museo: è un’esperienza che emoziona e riempie il cuore.
Le sculture sono realizzate in legno intagliato, in cera, terracotta e cartapesta Un presepio napoletano consente al visitatore di entrare dentro la scena
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ALBERO-FUTURO
MICHELE DE LUCCHI L’albero presepio
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di Ugo La Pietra
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NATALE 2030 Un tempo erano cime di abeti. Poi i cinesi li hanno realizzati come ombrelli. Ma ora l’Estremo Oriente è in crisi. E se i container non arrivano... ridefiniamone l’identità
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Design rituale
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Da molti anni era ormai proibito tagliare anche solo la cima dei rarissimi abeti sopravvissuti alla strage degli alberi aghiformi, prodotta dalle esplosioni di due delle più importanti centrali nucleari d’Europa. Così si era rimediato con alberi sintetici prodotti soprattutto in Cina. Per il rituale natalizio ne arrivavano in grandi container di tutti i tipi e misure. I produttori cinesi avevano trovato un sistema pratico per la fabbricazione, l’imballaggio e per il trasporto in grandi quantità. Di fatto i loro «alberi di Natale» erano realizzati come ombrelli che chiusi occupavano poco spazio e quindi, aperti, prendevano la classica forma dell’abete con tutta una serie di rami che in progressione si estendevano creando una forma a piramide. Ci eravamo abituati a questo genere di albero, simulava l’antica originale pianta del nord. Ma quest’anno, quasi improvvisamente, a pochi giorni da Natale, ecco la notizia: dalla Cina non arriveranno più i container carichi di «alberelli/ombrelli». La Cina sta attraversando un grave periodo di crisi energetica, la popolazione sempre più numerosa non riesce più a procurarsi le più elementari risorse per la sopravvivenza. Tutta l’economia cinese degli ultimi decenni era sostenuta dalle risorse del sud dell’Africa. Ma da qualche anno l’Africa si sta sempre più affrancando come «territorio di servizio» dalla Cina e così la Cina sta rimanendo sempre più fuori dai mercati internazionali, quasi tutti acquisiti dal SudAfrica ormai in continua crescita economica e produttiva. Un continente che sta acquisendo anche una forte identità, recuperando molto dalle sue radici e tradizioni. Identità che intende esportare nei mercati del design, dell’arte, della moda e dell’alimentazione. E così viene trasformata anche l’identità dell’albero di Natale. Ugo La Pietra
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Un consiglio è di utilizzare il vostro arredamento, per esempio usando: l’attaccapanni, il lampadario, la console d’ingresso, il porta cd, la libreria e adattarli ad alberi di Natale. Ugo La Pietra
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ALESSANDRO GUERRIERO GuerrieroBalla
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Albero di Natale costruito con circuiti stampati e attivabile con una semplice batteria. A me sembra un ready-made che rappresenta molto bene la mia idea di albero di Natale: sicuramente figlio di un’attitudine veloce al consumo, tecnologico, ma altrettanto poetico e gentile nella sua dimensione uguale per tutti. Evitando la corsa natalizia al disboscamento o comunque alla gara sulla dimensione e sull’iperdecorazione. Fabio Novembre A destra, “Democratic ready made for a communist Christmas”
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Q Questa è una riflessione sul mondo della produzione degli oggetti, su come non si ponga sufficiente attenzione, nell’atto progettuale, anche allo scarto che la produzione di un oggetto implica quasi sempre. Progettare anche in funzione dello scarto significa ottimizzare il materiale usato e in alcuni casi anche creare due oggetti buoni invece che uno solo. Paolo Ulian Sotto, “È un albero di carta + un foglio di scarto oppure sono due alberi?”.
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Spettacolo
UnTEATRO ricco di
MERAVIGLIE Le Compagnia marionettistica Colla vanta trecento anni di attività. Il suo cammino è iniziato vicino al Duomo di Milano per poi conquistare il palco del Gerolamo, il Piccolo e il mondo. Con una scuola intitolata a Fiando
La Compagnia Marionettistica Carlo Colla e figli vanta quasi trecento anni di attività ed è una delle più antiche e celebri formazioni al mondo nel teatro di figura, che ha portato ai più alti vertici artistici. La sua storia meravigliosa ha inizio a Milano, a pochi passi dal Duomo, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, nel palazzo del ricco commerciante Giovanbattista Colla: qui, secondo l’uso dell’aristocrazia e dell’alta borghesia del tempo, era stato costruito un teatrino delle marionette, con tanto di scenografie dipinte e personaggi, e si tenevano spettacoli per familiari e amici. L’incanto di questi spettacoli domestici amatissimi da grandi e piccini è spesso rievocato dalla letteratura, da Goethe, il cui Wilhelm Meister fanciullo assisteva alla lotta tra Davide e Golia, a Carlo Goldoni, che addirittura si improvvisava mario-
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Su un fondale che rappresenta piazza della Scala, Eugenio Monti Colla e Carlo III Colla con la marionetta di Giuseppe Verdi. Carlo III è scomparso a Milano lo scorso ottobre. A destra, i costumi e le scenografie de La bella addormentata nel bosco, fiaba in due tempi di Eugenio Monti Colla su musica di Pëtr Il’ic Ciajkovskij, al Piccolo Teatro Grassi di Milano dal 20 al 31 dicembre.
nettista nel sontuoso teatrino privato dei conti Lantieri. Fu un provvidenziale rovescio di fortuna a segnare l’origine della straordinaria vicenda dei Colla, costretti a fuggire da Milano e a trasformare l’attività ludica in vera e propria professione. Dal 1835, data ufficiale di esordio della Compagnia, l’attività della famiglia, guidata dal trentenne Giuseppe, è documentata per decenni nelle piazze lombarde e piemontesi. Nel 1861, alla morte del fondatore, i figli Antonio, Carlo e Giovanni, si dividono dando vita a tre diverse formazioni, fra cui la Compagnia Carlo Colla e figli. Andando ognuno per la sua strada, i tre fratelli si spartiscono quello che veniva suggestivamente detto in gergo marionettistico l’«edificio teatrale», ovvero il prezioso corredo composto da marionette, teste di ricambio, costumi, scenografie, copioni e materiale di attrezzeria. Dal
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di Alessandra de Nitto
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Spettacolo
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1863, Carlo Colla documenta la storia della sua Compagnia, registrandone i crescenti successi e i grandi progressi tecnici e artistici. Il figlio maggiore, il sedicenne Carlo II, dal 1889 inizia a sostituirlo alla guida della Compagnia ormai famosa. Dotato di eccezionale talento e di spirito innovativo, Carlo apprende e perfeziona la tecnica del maneggio, l’eleganza e la preziosità dei personaggi e degli allestimenti, la sapienza della luminotecnica e dei giochi scenici, raffinando con i fratelli il virtuosismo della recitazione. Dal 1906 la Compagnia subentra alla gloriosa famiglia di marionettisti Fiando al Teatro Gerolamo, tanto amato e frequentato dai milanesi, dove rimarrà sino al 1957, divenendo dal 1911 Teatro stabile: l’unico a Milano, con la Scala. Fino alla Seconda guerra, al Gerolamo i Colla tengono spettacoli quotidiani frequentatissimi e soprattutto nelle festività i loro spettacoli diventano un vero e proprio rito per i milanesi di ogni età. Dopo quasi cinquant’anni di successi e di attività ininterrotta, i tempi ormai mutati con l’avvento della televisione e
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Un viaggio nel tempo e nella storia, all’interno degli atelier della Compagnia Colla dove le marionette vengono vestite e preparate per gli spettacoli con costumi, gioielli, parrucche e dettagli fatti su misura. In basso: Gerolamo, marionetta-simbolo della Compagnia.
del cinema d’animazione rendono difficile l’attività del teatro, fino a portare i Colla alla decisione di abbandonare. Segue un periodo buio di colpevole dimenticanza e indifferenza da parte dell’amministrazione cittadina: la Compagnia non ha più una casa e per otto lunghi anni la magia sembra perduta per sempre. Fino al 1965, quando Angela, Cesarina, Teresa, Carla, Carlo III e Eugenio Monti, figlio di Carla, decidono di recuperare il patrimonio teatrale e ricominciare l’attività, con inesausta professionalità e passione. Da allora, sotto la direzione artistica di Eugenio Monti Colla, regista, scenografo e costumista, la Compagnia riprende il proprio ricchissimo repertorio, arricchendolo di nuove straordinarie produzioni (35 nuovi spettacoli dal 1978 a oggi) e presentandolo con il
più grande successo nei maggiori teatri e festival del mondo. Ai membri della famiglia si uniscono nel tempo marionettisti provenienti da altre compagnie e giovani artisti desiderosi di imparare l’arte da protagonisti del calibro di Eugenio Monti Colla e Carlo III, di recente scomparso, maestri di incredibile talento ed esperienza. Oggi l’attività della Compagnia è curata dall’associazione Grupporiani, che si occupa della gestione del suo patrimonio storico-artistico, del ricchissimo “edificio teatrale” e della creazione di nuovi spettacoli. Il restauro del materiale antico rappresenta un aspetto molto importante e significativo di questa attività poiché il teatro di figura necessita di un costante e minuzioso lavoro di conservazione. Le marionette sono creature vive, che hanno bisogno di cure attente: gli abiti vanno ricuciti, le scarpine risuolate, le parrucche spazzolate e pettinate, le piccole rotture e i danni causati dall’uso riparati. Così come necessitano di manutenzione e restauro le delicate scenografie di carta e le magiche macchine di scena… I laboratori artigiani dell’Associazione
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sono così divenuti un punto di riferimento a livello internazionale per compagnie e collezioni pubbliche e private. E dagli stessi laboratori escono tutti i materiali delle nuove produzioni e allestimenti. Il repertorio della Compagnia è ricchissimo: ben 390 spettacoli (di cui circa 140 normalmente rappresentati), che spaziano dall’opera lirica (Aida, Nabucco, Il Trovatore), al balletto (Excelsior, Petruska, Sheherazade), al romanzo storico e popolare (Il giro del mondo in ottanta giorni, Guerrin Meschino, I Promessi Sposi) alla fiaba (Il gatto con gli stivali, Cenerentola, Il pifferaio magico, Ali Baba, La bella addormentata nel bosco). Oggi la Compagnia, oltre alle tournée in Italia e all’estero, grazie a un accordo con Il Piccolo Teatro dal 2000 è ospite
fissa, due volte l’anno, nel programma e negli spazi del teatro milanese. Inoltre ha trasformato l’Atelier Carlo Colla e figli da laboratorio a piccolo spazio teatrale da duecento posti, dove viene svolta un’attività di spettacolo per le scuole e gli amatori. L’Associazione Grupporiani, sempre sotto la direzione di Eugenio Monti Colla, promuove e tutela la grande tradizione del teatro di figura con un’intensissima attività didattica e attraverso mostre e seminari. Dal 1992 inoltre ha aperto una scuola di formazione per operatori e artisti, intitolandola a Giuseppe Fiando, il più celebre marionettista dell’800 a
Le marionette sono «vive», hanno bisogno di cure: gli abiti vanno ricuciti, le scarpine risuolate, le parrucche spazzolate e pettinate
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Milano. Assistere a uno spettacolo della Compagnia Colla è un’esperienza unica e indimenticabile. Ricordo in particolare una straordinaria Lampada di Aladino: un tripudio di luci e colori, quasi duecento personaggi in scena, mirabilmente animati dai dodici attori della Compagnia, costumi fastosi, marchingegni e giochi scenici, scenografie ricchissime con visioni di boscaglie misteriose, grotte oscure, regge e palazzi incantati… Era il primo spettacolo dei Colla cui assistevo, e non ne ho più dimenticato la magia: ma poi ogni volta la stessa meraviglia, lo stesso stupore, la commozione davanti a tanta maestria a bellezza. Un mondo di poetica perfezione in miniatura, capace di regalarci uno struggente incantamento.«Le marionette non devono mai far ridere o piangere», svela Eugenio Monti Colla, nato e cresciuto in loro compagnia, «ma comunicare allo spettatore la meraviglia e una grande tenerezza. Soprattutto la tenerezza…».
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Lavorazione di uno scafo nel cantieri Riva di Sarnico negli anni ’70. Nella pagina a ďŹ anco storico modello Riva divenuto simbolo dello stile del brand.
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Imprese
di Bruno Cianci
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UN VERO
MITO Fondata nel 1842 da un maestro d’ascia del Lario per recuperare le imbarcazioni danneggiate da una tempesta abbattutasi sul lago d’Iseo, la Riva è diventata un must nella cantieristica di qualità e tradizione artigianale. Così un oggetto di prestigio è diventato nel tempo una «passione folle»
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Qualità della manodopera e dei materiali, dettagli curati maniacalmente, design sempre all’avanguardia e Ogni leggenda che si rispetti scaturisce sempre da due fattori: aleatorietà e capacità. Con la prima ci riferiamo a tutto ciò che sfugge al controllo dell’uomo; con la seconda al talento e a tutte quelle figure straordinarie che hanno la capacità e la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Fu così che nel 1842 il maestro d’ascia Pietro Riva, originario del Lario, riuscì a recuperare una dopo l’altra le imbarcazioni da lavoro rimaste danneggiate da una violenta tempesta abbattutasi sul lago d’Iseo. Così ebbe inizio la storia dei cantieri Riva: dal lavoro e dalla perizia di un uomo che seppe diventare padrone del proprio destino. Rapidamente Riva divenne un nome noto e rispettato. Ernesto introdusse innovazioni tecniche che portarono a un aumento della produzione di barche da trasporto e da lavoro in genere, senza però intaccarne l’anima artigiana. Poi, finita la Grande guerra, con la terza generazione di Serafino Riva la produzione del Cantiere virò dal trasporto alla motonautica, con numerosi primati e allori
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L’ingegnere Carlo Riva, l’erede del cantiere che ha contribuito a trasformare il marchio Riva in icona di stile nel mondo. Foto dei cantieri negli anni ’50. Sotto, lavorazione di un Rivarama nei cantieri Riva di Sarnico
inanellati nelle competizioni. A dare la svolta decisiva al cantiere, così come il mondo intero lo conosce al giorno d’oggi, fu Carlo Riva. Quando lo prese in mano dal padre Serafino (siamo all’inizio degli anni 50), Carlo dette una vigorosa sterzata alla produzione che a quei tempi era troppo incentrata sulle barche da corsa, un po’ come la Ferrari che prima di produttore auto di serie sfornava prototipi dalla Scuderia. La ragione di questa «riconversione industriale» è assai semplice e le parole dello stesso Carlo Riva, classe 1922, la spiegano assai efficacemente: «La gloria è bella, ma con la gloria non si mangia». Dopo le ceneri della Seconda guerra mondiale, insomma, era giunto il tempo di rimboccarsi le maniche per tutti. Il lavoro era poco e il Cantiere aveva delle responsabilità nei confronti degli operai. Bisognava pensare in modo pragmatico, fare barche per persone che se le potevano permettere. Occorreva vendere, tanto per capirci, ma senza rinunciare a ciò che contraddistingueva il marchio Riva da
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per questo capace di fare tendenza. Tradizione sì, ma con un occhio sempre aperto sull’innovazione oltre un secolo: tradizione e artigianalità. Le barche a cui ispirarsi non dovevano più essere i racer, bensì i motoscafi da diporto del momento: gli americani Chris-Craft, autentici capolavori di ebanisteria galleggianti. Da questo marchio il cantiere lombardo acquistò la strumentazione, i propulsori e altre componenti da installare su tutti i modelli più celebri, quelli che hanno consacrato il marchio Riva a livello globale: dal Tritone al Florida, passando per l’Aquarama e l’Ariston, il preferito da Carlo Riva. Il cantiere si guardò bene dall’imitare linee e concept da Chris-Craft. Al contrario sviluppò lo stile Riva e il resto è storia. I Riva divennero in breve tempo oggetto di desiderio per re e imperatrici, attori e capitani d’industria, seduttori e altre celebrità. Ancora oggi questi gioielli conservano intatto il fascino di quell’epoca che evoca dive cotonate e paparazzi, romantiche fughe sull’acqua, amori da copertina ed eleganza senza tempo. Così come allora, la chiave del successo di
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Il modello Olimpic180 di Vintage Riva. Aquariva Super: storico modello Riva divenuto simbolo dell’eleganza moderna, un piccolo capolavoro. Ha recentemente raggiunto i 200 esemplari prodotti.
Riva è la stessa: qualità della manodopera e dei materiali, dettagli curati maniacalmente, design sempre all’avanguardia e, per questo, capace di fare tendenza. La grande novità 2011 del cantiere si chiama Iseo, in omaggio alle acque su cui tutti i Riva sono nati: un runabout di 27 piedi (8,23 metri), più o meno la misura del Super Tritone e dell’Aquarama. All’avanguardia in ogni aspetto, Iseo è dotato di sistema di «infotainment» e Gps basato sulla piattaforma iPad Apple e, a richiesta, di motorizzazione ibrida, che permette l’utilizzo dove la navigazione a motore è interdetta. Tradizione sì, dunque; ma con un occhio sempre aperto sull’innovazione. Solo così si può fare di un marchio nautico una vera e propria istituzione. Nel bell’ufficio di Carlo Riva a Sarnico, che riproduce la plancia di comando di un grande bastimento, spicca tra tante una dedica che recita così: «A Carlo Riva, che come Ferdinand Porsche ha saputo fabbricare un oggetto che suscita una passione folle».
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GENIUS LOCI A Milano un nuovo spazio per opere e oggetti tra l’arte e il design. Che adesso è anche associazione non profit di Simona Cesana - foto di Emanuele Zamponi
La Galleria Fatto ad Arte, Milano, via Cesare Correnti 20 (zona Sant’Ambrogio). www.fattoadarte.com. A fianco: il dettaglio di una “pupa”, contenitore in ceramica della tradizione di Grottaglie (Ta).
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Cattedrali del Design
La Galleria Fatto ad Arte, che da qualche mese ha sede negli spazi sobri e affascinanti del civico 20 di via Cesare Correnti a Milano, è un’esperienza di ricerca culturale e di scommessa commerciale che in Italia rappresenta quasi un unicum, essendo questo uno dei pochi spazi dedicato esclusivamente all’arte applicata. Nata a Monza nel 1997 su iniziativa delle sorelle Raffaella e Francesca Fossati – con la consulenza di Ugo La Pietra, conosciuto tra i banchi del locale istituto d’Arte quando La Pietra era il loro insegnante – la Galleria Fatto ad Arte fin dagli esordi ha avuto come scopo quello di riprendere la tradizione delle Biennali di Arte applicata, che proprio a Monza negli anni Venti e Trenta avevano messo in luce le opere del più alto artigianato italiano – pensiamo ai mobili intarsiati di Maggiolini o alle ceramiche di Gio Ponti realizzate per la Richard Ginori – in relazione a quella disciplina che più tardi avrebbe preso il nome di design. La Galleria è nata quindi per scegliere, mostrare, promuovere, valorizzare e proporre in vendita le opere e gli oggetti di arte applicata, quelle opere e quelli oggetti tra l’arte e il design, appunto “fatti ad arte”. “Fatto ad Arte” è un progetto molto ambizioso: creare una galleria dedicata esclusivamente alle arti applicate, realizzare mostre e iniziative culturali che le valorizzino, che rimettano in circolo energie progettuali e creative tra i progettisti (i designer) e i piccoli artigiani sparsi su tutto il territorio nazionale, creare nuove collezioni di oggetti – a firma del designer ma anche dell’artigiano – e venderle, coltivando così un collezionismo, in Italia ancora poco diffuso, dedicato a quest’area disciplinare. Numerose sono state le iniziative nelle sue sedi di Monza dedicate a materiali affascinanti come l’alabastro, a innovative collezioni di oggetti in mosaico, in legno, in ceramica, il tutto realizzato coinvolgendo alcuni tra i designer italiani più attenti agli aspetti artistici dell’oggetto (pensiamo a David Palterer, Gianni Veneziano, Federica Marangoni) e i più abili artigiani incontrati nei territori italiani carichi di tradizione e genius loci (Murano per il vetro, Faenza per la ceramica, Spilimbergo per mosaico,
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Opere artistiche, ad alto contenuto di qualità progettuale e fattuale, ma anche portatrici di valore aggiunto
A fianco, in senso orario: vasi scultura in ceramica di Wanda Fiscina (Sa), esposizione dedicata al gioiello d’autore, vasi in vetro soffiato di Massimo Lunardon (Vi), uno scorcio con portavasi in ceramica di Caltagirone.
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Carrara per il marmo…). Da queste premesse sono nate le Edizioni Fatto ad Arte, commercializzate in tutto il mondo anche grazie alle numerose presenze nelle Fiere, soprattutto Maison & Objets a Parigi. A partire dal 2000 l’esperienza di Fatto ad Arte si è arricchita di un’ulteriore attività: l’associazione non profit Ad Arte. Un osservatorio, nato con l’intento di fare chiarezza e riqualificare i progetti di arte applicata che dagli anni ’ 30, periodo a cui risale la chiusura della Biennale d’Arte applicata di Monza, hanno trovato sempre meno spazio nella cultura ufficiale, dalle istituzioni e dai centri di ricerca. Ora, negli spazi della nuova sede milanese, prosegue l’attività di valorizzazione delle diverse aree di produzione omogenea attraverso opere progettate da diversi designer e realizzate dai migliori laboratori artigianali d’Italia, proseguono le mostre tematiche periodiche, con incontri e approfondimenti specifici, parallelamente alla vendita di oggetti, abiti, gioielli e accessori di nuovi artigiani e designer con opere di piccola serie e pezzi unici. Dalle vetrine di via Cesare Correnti si è subito catturati dai colori e dalla materia delle ceramiche, tutte diverse tra loro perché provenienti da artisti e da luoghi differenti (qui il minimal è bandito!): colore, decorazione, modellazione tridimensionale, una varietà di stili e tecniche che rappresenta bene le possibilità creative offerte da questo materiale e dai numerosi artisti che si esprimono con esso. Lo sguardo attraversa poi le trasparenze del vetro per soffermarsi sui dettagli dei gioielli, siano essi realizzati in argento, vetro o gomma e sulla qualità dei tessuti o al progetto dei tagli e delle cuciture degli abiti che creano sul corpo opere quasi scultoree. Opere artistiche, ad alto contenuto di qualità progettuale e fattuale, ma anche portatrici di quel valore aggiunto che solo le opere realizzate con passione possono avere: raccontare una storia, evocare l’emozione di un luogo, veicolare tradizioni e nuove idee. Creazioni sempre in bilico “tra l’arte e il design” che spesso non trovavano collocazione né nelle gallerie d’arte né nei negozi di design.
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lla base dell’eccellenza c’è la virtù. In questo periodo di feste inflazionate da una mielosa atmosfera, riscopriamo il significato reale di autenticità ed etica dell’estetica
IL REGALO DI NATALE: VERITÀ E BELLEZZA
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Scriveva Primo Levi che «se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono». Felicità, verità, amore: termini quanto mai inflazionati nella mielosa atmosfera natalizia. Ma anche quanto mai rari in un mondo del lavoro che sembra tendere sempre più verso un’atomizzazione impersonale dei rapporti. Verso una produttività che ha perso l’anima. Verso la creazione di prodotti laddove non c’è più né necessità, né curiosità, né desiderio, né bisogno di nulla. Eppure, proprio (e in molti casi, solo) l’amore per ciò che si fa e per come lo si fa è in grado di restituire quello slancio che permette all’artefice di creare il proprio capolavoro, e che guida l’artefice stesso verso traguardi che sospingono ogni volta un po’ più in là il confine di ciò che è possibile compiere od ottenere. Le nostre scuole insegnano «come» fare qualcosa: ma in molti casi hanno perso di vista che la motivazione non nasce dal «come», ma dal «perché». Un maestro che non si chieda perché, così come un artigianato privo di progettualità, rappresentano l’emblema di quella ripetizione di gesti che certamente porta a un risultato, ma che non trasmette passione né verità, come una liturgia senza alcun senso del sacro. E al tempo stesso, una progettualità che trascuri la rilevanza e anzi la fondamentale importanza del lavoro manuale non è che un esercizio di stile, che getta nell’arena del mercato non manufatti, ma cloni. Natale è la più cattolica delle feste, e l’Italia è il più cattolico dei Paesi. Eppure, nel nostro amare i begli oggetti che rendono migliore la vita siamo una nazione fortemente animista:
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creiamo, cerchiamo, veneriamo oggetti che abbiano un’anima. Che nascano da un’idea forte e bella ma che vengano anche sviluppati con passione, con attenzione, con quel meticoloso orgoglio per la perfezione che è tipico del maestro d’arte e che rappresenta un metodo, una conquista, una prospettiva prima ancora che un modo di agire. Nell’interessante Manifesto pubblicato lo scorso anno nel volume Verità e bellezza, scritto da Francesco Morace e Giovanni Lanzone e sostenuto dall’amico Maurizio di Robilant, il primo punto per far uscire l’Italia dalla minaccia di una triste serie B è proprio «riunificare esperienza etica e valore economico attraverso l’estetica. Sperimentare la cura e il gusto nella ridefinizione dell’esperienza, che nasce dall’incontro tra la cultura e la capacità di creazione, tra la sensibilità e la bellezza». Al crocevia tra cultura, esperienza, bellezza e amore non può che esserci la passione per una «verità» che si trasmette anche attraverso il lavoro, attraverso un metodo, attraverso una visione che sappia superare le barriere ingombre dei detriti delle vecchie definizioni, per restituire dignità e piacere non solo a un sapere, ma anche a un fare. A Natale veniamo invasi da improbabili inviti alla bontà. Ma come i greci ci insegnavano, l’autentica bontà è alla base della vera bellezza: così come la virtù sta alla base dell’eccellenza. Regaliamoci dunque un po’ di speranza in questa etica dell’estetica che si nutre di cultura, di lavoro e di autenticità: credo sia il cadeau più prezioso che si possa scambiare, in tempi di preoccupante assenza di riferimento. Tempi in cui, tuttavia, si aprono nuovi musei e si progettano città diverse; in cui i veri creativi sanno di doversi riscoprire anche un (bel) po’ artigiani; in cui non si è ancora del tutto dimenticato che il successo del modello rinascimentale è da ricercare nella messa in circolo della cultura, nella passione per l’apprendimento, nella poesia del territorio. Una poesia come quelle del Pascoli, che ci insegnavano a scuola: «ci sono in cielo tutte le stelle / ci sono i lumi nelle capanne». Io anche quest’anno farò sia il presepe sia l’albero: cercherò e creerò in casa mia quelle tracce del Natale che mi parlino anche della verità nascosta tra le pieghe del consumo. Le stelle in cielo sono di cartone, ma brillano lo stesso. I lumi nelle capanne sono dipinti. Ma la notte, lunga quanto volete, comincia a non essere più così oscura.
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