Mestieri d'Arte n°5

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MESTIERI D’ARTE Poste Italiane S.p.A-Sped. In Abb.Post.- D.L353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1,comma 1 DCB Milano - Aut.Trib. di Milano n.505 del 10/09/2001 - Supplemento al N. 109 di Monsieur

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Mestieri&d’Arte design

ESSENZA E MANUALITÀ

Legni e pellami di pregio per arredi da sogno realizzati dalla famiglia Sozzi, artigiani con il gusto del bello dall’Ottocento

APPUNTAMENTI

Milano, oltre il Salone la couture di mobili e complementi MATERIA

Vestirsi di piume nel segno della leggerezza MECENATISMO

Trasmettere cultura: una missione per Vacheron Constantin LA CULTURA DEL SAPER FARE

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SAPER USARE LE MANI PER PLASMARE UN MONDO MIGLIORE L’artigiano è il vero artista del futuro. In grado di tramandare saperi e valori. Capace di proiettare i giovani verso una consolidata professionalità Plasmare la materia con amore e rispetto, donandole un’anima. È la poesia del mestiere d’arte, lontana anni luce dall’immagine decadente a cui il saper fare era stato relegato dalla rivoluzione industriale. Il mondo corre, sempre più velocemente, in una spirale che porta inevitabilmente ad avvitarsi su se stessi. È la fascinazione dell’attimo a illudere in un’iperbole che la quantità, immediata, sia più gioiosa della qualità. Qualcosa però si sta muovendo. Lontano dalle parate mediatiche del tutto e subito. È un’educazione al gusto, alla materia, al tempo. È quella bella parola più sopra citata: rispetto. Le eccellenze del saper fare lo sanno. E lo comunicano, con i loro modi, in botteghe che sono sempre più atelier e che aprono al grande pubblico nei giorni in cui Milano risplende grazie a un Salone che, sarà un caso, è dedicato al manufatto per eccellenza: il mobile. Stanchi dei cataloghi stile Ikea, di una vita precaria a bassa intensità, troviamo rifugio in questi antichi mestieri che hanno imparato a riconoscere la simbiosi con il design. E rivivono oggi grazie a scuole che finalmente insegnano un mestiere.

viverlo, per i più, in 3D o inseguire l’ultima versione di un iPhone passivamente, senza saper riconoscere il valore di un oggetto, la sua storia, la maestria di tradizioni tramandate nei secoli, la sua evoluzione. No, non è un ricovero nostalgico. Atigiano contemporaneo è sinonimo di bellezza. In Mestieri d’Arte, che nasce dall’unione tra due realtà vocate alla valorizzazione di questo mondo come Swan Group e Fondazione Cologni, prosegue quindi il cammino che porta dritto al futuro. Assistiamo al crollo di economie basate su derivati e speculazioni, alla revisione di chi si è ostinato per anni a dire «delocalizzare» è bello, facendo dell’immediato profitto un’ipoteca sul futuro proprio e delle nuove generazioni. Troppi patrimoni sono andati dispersi, troppi mestieri scivolano via come sabbia in una clessidra. Abbiamo ascoltato i profeti del falso design irridere il laboratorio di falegnameria o l’artigiano che, invece, secondo noi era e rimane un artista del quotidiano. Proprio così. L’artigiano come artista del futuro. In grado di far rivivere il fascino senza tempo, capace di intraprendere e fare impresa insegnando a quelli che un tempo erano garzoni di bottega e oggi sono apprendisti qualificati. Lo Stato non soffochi questi germogli con eccessive pressioni fiscali, contratti ipersindacalizzati che oltre a essere anacronistici comportano il rischio di annientare ulteriormente le possibilità del domani. E l’artigianato, da parte sua, esca dall’enclave dei tempi andati. Abbia il coraggio di rimettersi in discussione. Anche se il giovane che ha accanto ha gli occhi a mandorla o l’accento dell’Est. Sono loro i primi ad aver capito che il futuro passa da qui. Hanno trovato le strade spalancate, perché nel frattempo i nostri giovani hanno disimparato valori come impegno e fatica. Colpa di un sistema universitario che partorisce disoccupati, di una scolastica che ha declassato gli istituti professionali a istruzione di serie B, di una società che privilegia l’apparire all’essere. Mentre sempre più alto si leva il lamento di artigiani anziani che non trovano eredi. Invece c’è un futuro. È a portata di mano. Di chi vuol creare. Dei talenti. E di chi sa crescerli.

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Di questo parliamo da cinque numeri. Perché se vogliamo donare un mondo migliore ai nostri figli è da lì che dobbiamo ripartire. Saper usare le mani per creare. Insinuarsi in microscopici dettagli che, esasperati per quanto impercettibili, fanno la differenza. Recuperare materiali di scarto. Restituire valore alla conoscenza. Godetevi le immagini di queste pagine, respirate la vitalità di un universo-mondo che abita le porcellane di Meissen, le lacche di Vacheron, i vetri soffiati dell’isola del tesoro, il tratto di Gaetano Pesce, la collezione Giovanni Sacchi come le trame mediterranee. Ne troverete giovamento. Come nello scoprire quanti spazi vengono destinati ai giovani talenti, alla sperimentazione di lavorazioni e materiali, alla ricerca. Sono testimonianze, vive, di un’arte antica che torna a sorridere in questa realtà post-industriale che restituisce il mondo a una dimensione più umana. Sullo scorso numero abbiamo rilanciato la necessità di ripartire dalle scuole. Quelle dell’artigianato. Quelle dove si imparavano i mestieri. Il futuro è lì anche se è più comodo

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9 Editoriale LO STATO INSEGNI L’ARTIGIANATO di Gianluca Tenti

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Botteghe Libri Premi Iniziative Fiere Mostre ALBUM a cura di Stefania Montani

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Invitato Speciale IL LAVORO GIOVANILE di Oliviero Toscani

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Imprese EDIZIONI METROPOLITANE di Matteo Vercelloni

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Maestri contemporanei CARTA BIANCA AL DESIGN di Edoardo Perri

Cattedrali del sapere DESIGN AD ALTO CONTENUTO UMANO di Alessandra de Nitto

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Manualità di tradizione È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA di Marco Gemelli

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Spettacolo COSÌ VESTO L’OSCAR ALL’ITALIANA di Paolo Dalla Sega

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Esporre le radici QUESTI SONO CAPI D’OPERA di Marina Messina

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Dossier AUTO-PRODUZIONE di Ugo La Pietra

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Eccellenze VIVERE IL TEMPO di Arianna Rosa

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Restauro L’ARTE NASCOSTA di Alessandra de Nitto

In copertina: Essenze lignee di Promemoria.

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Imprese SENSUALITÀ MATERICA di Alberto Cavalli

Mecenatismo e maestria ORE SUBLIMI di Lara Lo Calzo

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Lavorazioni di stile LEGGEREZZA DELL’ESSERE di Alberto Cavalli

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Sapori e saperi LA FABBRICA DI CIOCCOLATO di Millo Malibran

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Eccellenze nel mondo COME IN UNA FIABA di Federica Cavriana

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Scuole L’ISOLA DEL TESORO di Simona Cesana Progetti Speciali SEGNI ZODIACALI di Simona Cesana Musei segreti LE TRAME MEDITERRANEE di Enzo Fiammetta

Opinioni

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Fatto ad Arte di Ugo La Pietra MERCHANDISING SOSTENIBILE

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Dal territorio di Giampiero Maracchi DEFINIRE UN FUTURO TRA SCUOLE E MERCATI

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Pensiero Storico di Enrico Morteo ECCO L’ORIZZONTE DEL NUOVO ARTIGIANATO NEL III MILLENNIO Ri-sguardo di Franco Cologni THESIS E METIS, IL LAVORO E LA VERA ISPIRAZIONE

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Collaboratori

A RTI G I A NI D E L L A PA R O L A PAOLO DALLA SEGA

ENZO FIAMMETTA Nasce a Enna e vive a Palermo, dove si laurea in Architettura nel 1985. Ha esposto sue opere a Parigi, Vienna, Barcellona, Napoli, Milano, Monaco, Amsterdam, Bruxelles. È attualmente direttore del museo delle Trame mediterranee della Fondazione Orestiadi di Gibellina.

Trentino, vive e lavora a Milano. È curatore di numerosi eventi sociali e culturali e inoltre presso l’Università Cattolica di Milano è titolare della prima cattedra italiana di Sistemi di gestione dei mestieri d’arte, promossa dalla Fondazione Cologni con il sostegno di Fondazione Cariplo.

MATTEO VERCELLONI

LARA LO CALZO

Architetto, è nato a Milano, dove vive e lavora, nel 1961. Ha collaborato, tra l’altro, con Casa Vogue, Abitare e Domus. È autore di vari volumi dedicati all’interior design e all’architettura. A Milano insegna al Politecnico, all’Istituto europeo di Design e presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.

Cresciuta professionalmente organizzando eventi per Cartier Italia e Cartier International, giramondo per vocazione, studiosa per passione delle danze e religioni tradizionali dell’Africa e dei Caraibi, si avvicina alla scrittura con la traduzione in italiano del libro I segreti di Vacheron Constantin.

SIMONA CESANA

MATTEO GEMELLI

Laureata in design al Politecnico di Milano, si è sempre interessata all’arte applicata e al design artistico. Con un gruppo di artisti e operatori culturali ha fondato a Monza, città in cui vive, un’associazione che si occupa dell’organizzazione di eventi culturali e attività didattiche su letteratura, musica e teatro.

34 anni, giornalista professionista dal 2005, vive a Firenze da 15 anni ed è redattore del Giornale della Toscana. Da anni si occupa di cronaca (amministrativa e nera), inchieste e approfondimenti, ma anche di economia, sindacati, istruzione, turismo, ambiente, eventi, moda ed enogastronomia.

EDOARDO PERRI

FEDERICA CAVRIANA

È direttore creativo dello studio Creolo e fondatore di Whomade.it, società di consulenza per l’avantcraft e brand di design a valore umano aggiunto. Appassionato d’arte e intercultura, affina le sue capacità concettuali alla Gerrit Rietveld Academie in Olanda e insegna alla Design Academy Eindhoven.

Laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano, collabora con la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Le rimanenti energie sono dedicate allo studio della danza orientale e del violino. Tra i fondatori dell’Ensemble Hornpipe, è vicepresidente dell’associazione musicale Variazioni Goldberg.

STEFANIA MONTANI

OLIVIERO TOSCANI

Giornalista, ha pubblicato due guide alle Botteghe artigiane di Milano e una guida alle Botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.

Fotografo prima di tutto. Ma anche art director, pubblicitario, pensatore, polemista, uomo di cultura a tutto tondo. Al suo lavoro sono state dedicate mostre in molti musei nel mondo. Ha fondato La Sterpaia, bottega d’arte della comunicazione che ha realizzato libri, programmi tv, esposizioni, progetti editoriali.

Condirettore: Gianluca Tenti Grafica: Francesca Tedoldi Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

MESTIERI D’ARTE Semestrale – Anno III – Numero 5 Aprile 2012 Direttore responsabile ed Editore: Franz Botré Direttore editoriale: Franco Cologni Direttore creativo: Ugo La Pietra

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Direttore generale: Alberto Cavalli Editorial director: Alessandra de Nitto Organizzazione generale: Susanna Ardigò Hanno collaborato a questo numero. Testi: Augusto Bassi, Andrea Bertuzzi, Federica Cavriana, Valentina Ceriani, Simona Cesana, Paolo Dalla Sega, Enzo Fiammetta, Marco Gemelli, Lara Lo Calzo, Nillo Malibran, Giampiero Maracchi,

Marina Messina, Enrico Morteo, Stefania Montani, Edoardo Perri, Luciano Revelli, Arianna Rosa, Oliviero Toscani, Matteo Vercelloni. Immagini: Santi Caleca, Tony Nicolin, Aurelia Raffo, Valentina Saluto, Franco Scalia, Victor Togliani, Oliviero Toscani, Emilio Tremolada. Mestieri d’Arte è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Via Lovanio, 5 – 20121 Milano www.fondazionecologni.it © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Tutti i diritti riservati. Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.

Pubblicazione semestrale di Swan Group srl Direzione e redazione: via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano Telefono: 02.3180891 info@monsieur.it SWAN GROUP PUBBLICITÀ Via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano telefono 02.3180891

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MERCHANDISING SOSTENIBILE Servono direttori di museo con una nuova mentalità, un po’ imprenditori. Capaci anche di scegliere progettisti e artigiani per rilanciare la produzione di oggetti di qualità contro il dilagare di «brutte cose di pessimo gusto»

In tutti i luoghi carichi di valori - storici e ambientali, culturali e religiosi - si sono moltiplicati in questi ultimi decenni oggetti che ormai da tempo vengono definiti «brutte cose di pessimo gusto». Oggetti che dovrebbero evocare il «soggetto» a cui fanno riferimento ma che di fatto, dalle gondole in plastica ai portacenere con la Madonna di Loreto, non sono altro che i segni del decadimento di un mercato corrotto e drogato dall’industria del falso artigianato. Oggetti fatti per ricordare: dai souvenir agli oggetti realizzati per il merchandising museale. «Molte risorse, in questi anni, sono state spesso svelate e rimesse in circuito: da quelle relative alle materie prime (ceramica, alabastro, pietra, marmo, ecc.) a quelle tecniche e di capacità di lavorazione, fino alla grande esperienza del mobile in stile (vedi l’esperienza di «Abitare il Tempo» a Verona). Ma c’è qualcosa che è ancora tutto da recuperare: il grande patrimonio produttivo, e quindi economico-commerciale, che fa riferimento alla moltitudine di oggetti nati per «rappresentare» e «celebrare» e cioè i souvenir. Opere spesso nate per esprimere i caratteri della cultura materiale legata a usi, costumi, riti di un territorio e quindi spesso realizzate con tecniche più genuinamente locali e artigianali. Si potrebbe aprire, così, uno spazio di sperimentazione e produzione, una grande possibilità che se non viene presto e bene sviluppata, ci porterebbe a trovare i nostri musei invasi da tutti quegli oggetti che da sempre circondano i nostri santuari religiosi. «Basterebbe pensare che abbiamo sul nostro territorio la più ricca e diffusa rete di commercializzazione (musei, monumenti, luoghi turistici, opere d’arte collocate in palazzi, chiese ecc.) per capire quanta importanza può avere lo sviluppo di questo settore che si trova, di fatto, ad avere risolto il problema più difficile, quello che affligge un po’ tutto il design italiano: la distribuzione…». Con queste parole

annunciavo negli anni Novanta la nuova legge Ronchey che consentiva di sviluppare la vendita di oggetti all’interno dei musei negli spazi dedicati al book-shop, che già praticava la vendita attraverso cataloghi e cartoline. Oggi i risultati di questo possibile sviluppo, che avrebbe potuto dare molte risorse al nostro artigianato, sono ancora molto modesti. Purtroppo tanti sono i problemi che bisognerebbe affrontare: prima di tutto trasformare la mentalità dei direttori di musei che dovrebbero diventare anche un po’ imprenditori. Imprenditori capaci di scegliere i progettisti, gli artigiani e definire «opere significanti» in grado di coprire l’aspirazione delle diverse fasce di visitatori dei musei. Riflettendo, basterebbe intraprendere una strada capace di fare chiarezza sulle metodologie progettuali per passare dall’oggetto souvenir agli oggetti per il merchandising museale, separati tra di loro per procedimenti progettuali, di lavorazione, di impresa. Per questo basterebbe fare riferimento alle sei tipologie progettuali che presentai già durante la Fiera del Restauro di Ferrara nel 1995, ancora utili e attuali per chi si avvicina al mondo di souvenir e merchandising in particolare. Oggetti di merchandising museale relativamente al soggetto definito possono essere: 1 La riproduzione filologicamente corretta. 2 La riproduzione con lo stesso materiale ma in scala ridotta. 3 La riproduzione con imitazione del materiale originale. 4 La riproduzione su di un supporto. 5 La citazione dall’originale. 6 La allusione all’originale. Cinque metodi progettuali e di realizzazione di oggetti che occorre praticare con un livello di consapevolezza e di coerenza tale da superare il basso livello della produzione del settore e competere con tutta la falsa produzione made in Italy importata dai Paesi orientali.

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DEFINIRE UN FUTURO TRA SCUOLE E MERCATI In quest’epoca segnata da globalizzazione e massificazione sono necessari progetti per rendere possibile lo sviluppo di un mondo produttivo che parta dalle giovani generazioni e da una riorganizzazione dell’area commerciale

Senza la scuola i mestieri d’arte non possono sopravvivere. Se è vero l’assunto che la creatività dell’uomo si esprimerà sempre attraverso la produzione di oggetti unici e personalizzati che racchiudano in sé l’originalità del design e la perfezione del processo attuato secondo i canoni dell’artigianato artistico, perché questa attività sopravviva e addirittura aumenti in un epoca di globalizzazione e di massificazione sono necessarie due condizioni: la preparazione delle giovani generazioni e l’organizzazione commerciale che consenta lo sviluppo di un mercato d’eccellenza che assicuri adeguati redditi agli addetti. Nel passato la preparazione dei giovani veniva effettuata direttamente nelle botteghe sotto la guida degli artigiani più anziani e il sistema funzionava. Oggi questo non può più avvenire, sia per la mancanza di una necessaria flessibilità del lavoro negli stadi iniziali sia perché l’esigenza di una preparazione culturale di base diviene una condizione sempre più avvertita sia perché è necessario introdurre nuove tecnologie che pur garantendo l’originalità della produzione facilitino in qualche modo il processo produttivo, sia perché la ricerca di un design di qualità richiede capacità professionali e cultura di base superiori a quelle del passato. Purtroppo dal dopoguerra in poi, con l’avvento delle produzioni di massa, per lo sviluppo economico estremamente rapido e per una certa miopia culturale non è stata posta la sufficiente attenzione a questo settore, smantellando anche quelle esperienze come gli istituti d’arte che negli anni precedenti la seconda guerra mondiale avevano svolto un ruolo significativo nella preparazione delle maestranze artigiane. Le conseguenze sono ancora presenti nella recente riforma della scuola, dove addirittura gli istituti d’arte sono stati trasformati in licei artistici, cre-

ando non solo dei doppioni ma eliminando quella parte estremamente rilevante della formazione che sviluppava la capacità tecnica di padroneggiare materiali e processi. La formazione viene ormai affidata agli enti locali, che a loro volta non hanno mai sviluppato una riflessione attenta sulle caratteristiche salienti di queste attività confinandole a brevi corsi di alcuni mesi, assolutamente insufficienti a formare una figura professionale completa. In certi settori, ad esempio nel campo della sartoria di qualità o dell’oreficeria, alla formazione pubblica si sono sostituite le scuole private che spesso, anche per ragioni di costi, non possono garantire quella qualità che sarebbe necessaria per far crescere il settore e avviare nuove imprese fatte di giovani. Naturalmente ha contribuito a questo insieme di cose anche la perdita di sensibilità nella opinione pubblica, derivante dall’imporsi prepotente della produzione industriale di massa, che ha ridotto lo status sociale dell’artigiano, quasi un relitto del passato. Conseguenza evidente la ridotta domanda di formazione in questo settore, considerato non all’altezza della richiesta di mobilità sociale specialmente per gli strati meno abbienti della popolazione in cui tradizionalmente si formava la categoria artigiana. Insomma nell’opinione pubblica si perpetua il divorzio, avvenuto ufficialmente con il Vasari, tra arti «maggiori» e artigianato. Dunque tutte quelle istituzioni che attraverso una riflessione colta si sono convinte della insostituibilità dell’artigianato d’arte si devono attivare per modificare questo stato di cose effettuando la necessaria sensibilizzazione delle istituzioni pubbliche, al fine di avviare iniziative concrete da rendere pubbliche attraverso incontri specifici che tengano conto delle diverse legislazioni regionali e statali che negli ultimi anni hanno affrontato il tema.

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*presidente Associazione Osservatorio dei Mestieri d’Arte

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Pensiero Storico

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ECCO L’ORIZZONTE DEL NUOVO SAPER FARE NEL III MILLENNIO In principio era un piccolo mondo antico, fatto di sottili sfumature tra artisti e artigiani. Poi si è affermata la produzione industriale. Adesso, grazie al design, si prospetta una nuova linfa Non c’è dubbio che l’affermarsi della produzione industriale abbia soppiantato l’artigianato nel ruolo di momento centrale della produzione di oggetti e manufatti. Che questo però coincida con l’estinzione dell’artigianato, come sbrigativamente ha sostenuto la critica ufficiale e militante del design, non credo sia vero. Allo stesso modo, non credo che il design si esaurisca in una dimensione esclusivamente massificata della produzione, né che l’industria non abbia conservato al suo interno frammenti di un modo artigiano di fare, dove sopravvive e viene anzi coltivata una manualità paziente e precisa. Ancora, non credo che all’artigianato spetti il privilegio di un rapporto ravvicinato con l’arte e che, simmetricamente, l’industria sia estranea alle arti e al bello.

quanto potente, non è che uno strumento. Prova ne sia che, a lungo, proprio alla realizzazione delle macchine utensili e degli stampi, quelli che poi avrebbero realizzato i prodotti finiti, si è dedicata una élite operaia le cui capacità manuali e tecniche erano assimilabili in tutto e per tutto alle qualità del lavoro di un eccellente maestro artigiano, operai capaci di usare il tornio e la fresa con la sensibilità di un direttore d’orchestra. Ancora oggi l’industria conserva e coltiva una sensibilità manuale quando si tratta di realizzare prodotti speciali ad alte prestazioni: è di pochi mesi fa una mostra allestita alla Bicocca dalla Pirelli, in cui si vede la mano di un sapiente operaio incidere il battistrada di uno pneumatico da competizione, dando sostanza e sapienza con la pressione della mano alle esili tracce disegnate nella mescola da un laser a controllo numerico.

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Il fatto è che la modernità ha segnato un punto di svolta e di rottura, sia nel modo di produrre oggetti (ma potremmo dire anche idee o immagini) sia nel modo stesso di percepire il mondo e la realtà. Certo, per pensare l’artigianato in termini moderni occorre rinunciare al filtro romantico della nostalgia e all’immaginario oleografico della bottega, mettendo da parte consumate e improponibili similitudini con il Medioevo o il mai così rimpianto Rinascimento. Per prima cosa occorre superare la convinzione che sia stato l’avvento della macchina a causare la fine dell’artigiano. È stato invece il pensiero razionale e moderno a scardinare l’unità del fare artigiano, allontanando il pensiero dall’azione, togliendo valore alla durata a vantaggio della fascinazione dell’attimo, elevando la velocità a valore assoluto e rivalutando la quantità sulla qualità. La macchina, per

Artigiani sono poi coloro che alla manutenzione delle macchine si dedicano, siano queste i grandi macchinari industriali o i nostri piccoli elettrodomestici, l’automobile o una lampada. Credo che laboratori artigiani siano anche i tanti negozietti cinesi che riparano gli iPhone in poche ore o i ragazzini che riescono ad aprire la memoria di un computer irrimediabilmente restio a riavviarsi. Analogamente, occorre sforzarsi di non pensare i termini fabbrica e industria come fossero a tutti gli effetti dei sinonimi. L’industria è una dimensione assai più ampia e complessa di quanto non sia la fabbrica, luogo nel quale si concentra solo la parte di produzione materiale di un oggetto. Fermo restando che anche sotto gli shed della fabbrica ci sono lavorazioni che richie-

DARE UNA FORMA ALLA CULTURA *Enrico Morteo, storico e critico del design. Autore e conduttore di programmi radiotelevisivi, collabora con molti periodici dedicati al mondo del design e a quello dell’architettura.

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Pensiero Storico

dono pazienza e perizia artigiana, è nelle fasi che precedono e seguono la mera produzione che è possibile ritrovare molte similitudini con i modi dell’artigianato. In che modo potremmo definire un virtuoso modellista come Giovanni Sacchi, collaboratore preziosissimo di tutti i grandi designer milanesi, se non un superbo artigiano? Ma è anche nei centri studi dell’industria che si è trasferita la pazienza della ricerca e della sperimentazione, così come negli uffici comunicazione e pubblicità. Pensiamo alle esperienze della Olivetti, a quelle de La Rinascente, là dove i designer, gli ingegneri e i modellisti cercavano soluzioni e vagliavano alternative sperimentando forme e materiali. Del tutto artigianali erano le ricerche di Nizzoli per le carrozzerie delle macchine per scrivere, realizzate poi da innovative tecnologie di stampaggio a iniezione delle leghe d’alluminio. Forme eleganti che trascendono la mera funzione, come nel caso della leva che governa il carrello della Lexikon 80, vera e propria scultura d’uso quotidiano. E non era forse un artigiano Pintori, nel suo elaborare a china bozzetti per campagne pubblicitarie destinate a entrare nella storia della grafica? E cosa dire del lavoro di Albe Steiner o di Max Huber a La Rinascente, delle vetrine progettate da Bruno Munari o da Roberto Sambonet e costruite come accumulazioni ordinate di merci elevate al rango di oggetti degni della contemporanea pop art? Già, l’arte. Per lunghissimo tempo artigiano e artista hanno condiviso il medesimo mondo. Cos’era un artista se non un artigiano particolarmente dotato, il cui talento lo rendeva capace di elevarsi nei ranghi di una corporazione sino ad assurgere al ruolo di maestro, autore di capi d’opera che diventavano modello e paragone per nuove realizzazioni? Poco importa fosse pittore o musicista, scultore, orafo o ebanista. Proprio qui l’irrompere della modernità diventa particolarmente visibile nel suo scardinare consolidate consuetudini. La modernità non si esaurisce nelle sue premesse (un nuovo modo di pensare e un nuovo modo di fare), ma si realizza soprattutto in una originale rappresentazione del mondo. Il moderno cambia il modo di percepire lo spazio e la distanza, modifica l’immagine stessa del tempo, trasforma modi di vivere e sconvolge l’ordine della società. Se in una dimensione classica il modello di ogni forma d’arte era l’ordine della natura, indifferentemente colta nei suoi momenti di bucolica armonia o di drammatica tempestosità, il moderno

sembra affidare all’arte il compito di interrogarsi sul possibile senso di questa frattura e sulla nuova condizione che ha messo l’uomo e il suo agire al centro stesso dell’universo. Mentre l’artista diventa un manipolatore di idee e di strutture della rappresentazione, la forma diviene terreno privilegiato dell’agire dell’industria. Ora, visto che ben sappiamo che non tutto ciò che l’industria produce è bello e sensato, possiamo anche definire il design quale luogo di ricerca e di elaborazione di una intelligente bellezza coerente con la nuova dimensione moderna. Design come camera di compensazione fra serialità dell’industria e libertà dell’arte, fra funzionalità e bellezza, fra materia e tatto, fra tecnologia e quotidiano. Sono queste le qualità peculiari del design italiano, la cui articolazione in una miriade di imprese sempre e comunque di piccole dimensioni sembra aver definito una diversa prospettiva all’artigianato contemporaneo, quasi un’ipotesi della piccola azienda quale laboratorio sperimentale della grande industria. Prendiamo il caso della Danese e delle collaborazioni con Mari e Munari; ma anche la Valextra e il suo lavoro su elementi tecnici quali cerniere e serrature come elementi di qualità di una nuova pelletteria. Ma prendiamo anche il caso di Gaetano Pesce, collaboratore della Cassina e sperimentatore in proprio di resine e poliuretani. Sarà anche stata prodotta in migliaia di esemplari, ma la sedia Cab di Mario Bellini per Cassina, guanto di cuoio chiuso da cerniere su di un esile telaio metallico, è un oggetto di straordinario sapere artigiano. E non era Magistretti che non trascurava mai di ringraziare tecnici e operai delle aziende con cui collaborava, da lui considerati come autentici coautori dei suoi progetti? Non è casuale, di fronte al vacillare del paradigma moderno messo in crisi da una ancora poco chiara condizione postmoderna, che proprio al design sia stato affidato il ruolo di avanguardia strategica del cambiamento. In una situazione di produzioni delocalizzate e polverizzate, in una società che qualcuno definisce liquida e altri vorrebbero creativa, il design sembra offrire strumenti capaci di gestire la fine di un modello ad alta intensità produttiva. Forse ci aspetta un domani meno opulento, un consumo più consapevole e attento in una decrescita che speriamo felice. Ma questo è l’orizzonte del nuovo artigiano del Terzo millennio.

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L’articolazione del design italiano in una miriade di realtà ha portato piccole aziende a essere laboratori sperimentali dell’industria

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OFFICINE DEL CARLO rispetto dei tempi della posa. Spiega Guido Del Carlo: «La Il coraggio di mettersi in proprio, dopo tanti anni di esperienza in cantiere, di aprire un’officina tutta sua, tra il canale e nostra forza sta anche nel vasto magazzino, sempre fornito di tavole stagionate, di diversa essenza e provenienza, e di gli altri cantieri di Viareggio, iniziando a costruire e riparare prima qualità. Indispensabili per la buona riuscita di un repiccole barche da pesca. Inizia così, una quarantina di anni fa, l’avventura di Francesco Del Carlo, che ha trasmesso al figlio stauro. Come negli strumenti musicali, anche nelle barche c’è un’essenza adatta a ogni parte: ed è indispensabile conoscerla». Guido l’amore e la maestria per questo antico mestiere. Oggi Con loro in officina una decina di maestri d’ascia, animati i Del Carlo sono tra i maggiori esperti in Italia nel recupero delle vele d’epoca, come testimonia il premio conseguito dalla stessa passione. Conclude Del Carlo: «Nel nostro lavoro un anno fa per il restauro di Eilean bisogna anche avere una grande indelle Officine Panerai, un ketch di ventiva: per trovare una soluzione per 22 metri disegnato da William Fife ogni problema. Sempre». Di questa e altre straordinarie realtà della nautica nel 1936, tornato orgogliosamente a italiana si racconta nel libro Maestri navigare grazie al restauro filologico portato da loro a termine. Grande del mare. La nautica italiana, una storia di eccellenza (Marsilio), un progetto manualità, perizia, passione, profoneditoriale nato dalla collaborazione da conoscenza del legno, delle varie essenze, utilizzate nelle diverse parti tra la Fondazione Cologni dei Medello scafo, delle fasce, dell’albero, e stieri d’Arte e Officine Panerai.

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ALBUM botteghe

CERAMICA BRUNO GAMBONE Firenze, via Benedetto Marcello 9 Un artigiano di altissimo livello, un artista versatile e curioso: difficile descrivere la personalità di Bruno Gambone, che a soli 14 anni ha appreso dal padre Guido, grande maestro ceramista, il mestiere e l’abilità, spaziando poi attraverso il campo della pittura e della scultura, dell’oreficeria e del vetro, del cinema e del teatro, spostandosi da Firenze a New York, da Milano a Venezia, frequentando artisti quali Rauschenberg, Lichtenstein, Warhol, Castellani, Fontana... Nel 1969, alla morte del padre, si è stabilito a Firenze per continuare l’attività di ceramista nel suo laboratorio. Una vera passione per l’argilla, quella di Gambone (la figlia si chiama Gea), che ha studiato nuove tecniche, sperimentando abbinamenti di materiali diversi, fino a creare forme di grande originalità, soprattutto con il grès. Spesso inserisce anche il polistirolo all’interno dell’argilla, prima di procedere alla cottura, per ottenere un alternarsi di vuoti e pieni nelle forme. Notevoli le bottiglie degli anni 70 e 80, i vasi più recenti affusolati e decorati con motivi policromi, gli «animali fantastici», gli smalti a più strati che rendono uniche le sue ciotole. Bruno Gambone è membro del Consiglio Nazionale della Ceramica e dell’Accademia di Ginevra, nonché Direttore Artistico del Premio di Ceramica di Vietri sul Mare. www.brunogambone.it

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L’OFFICINA DEI GIARDINI Torino, via Occimiano 44 Serre da Mille e una notte a l’Officina dei Giardini, un ampio capannone alle porte di Torino dove prendono vita tra vetri, barre di ferro, treillage di legno e stoffe, gazebo, serre e bovindo di tutte le forme e misure. Li progetta Vittorio Cravanzola, brillante architetto artigiano che riesce ad adattare le strutture anche agli edifici preesistenti, magari d’epoca, come fossero dei prolungamenti coevi. Qualunque progetto può essere realizzato poiché le strutture non sono prefabbricate, bensì costruite di volta in volta ad hoc a seconda delle esigenze, partendo dal disegno e dal modellino in miniatura, e poi con forge, mole e tutti gli strumenti del mestiere. Serre e gazebi possono essere rifiniti con una vasta gamma di accessori, dai vetri basso, emissivi, riflettenti, di sicurezza, coibentanti, vetricamera, ai tessuti e ai decori. I modelli spaziano dalla riproduzione delle conservatories di epoca vittoriana alle strutture modernissime ideate degli architetti dei nostri giorni. Per rendere caldo e accogliente ogni ambiente, Vittorio Cravanzola ha anche messo a punto dei sistemi per schermare il soffitto, con tessuti a vela, e dei particolari sostegni per tendaggi ed embrasses. Il tutto con sistemi ecosostenibili, materie prime a basso impianto ambientale, studio della ventilazione e dell’isolamento termico, riduzione delle dispersioni e captazione dell’energia solare. Al passo con i tempi. Il prossimo maggio, L’Officina dei Giardini sarà presente alla manifestazione di Orticola a Milano. www.lofficinadeigiardini.it

FABBRO ANTONINO SCIORTINO Milano, via Savona 97 Un’ex area industriale, ora vivace cittadella fitta di showroom, studi di designer, laboratori. E, in fondo al giardino, una bottega davvero speciale. È il quartier generale di Antonino Sciortino, artista artigiano che riesce a modellare il filo di ferro creando le forme più originali per ogni complemento d’arredo, dai tavoli alle lampade, dalle sedute alle librerie. La sua vita potrebbe essere raccontata in un film. Ultimo di nove figli, andato a bottega giovanissimo nella sua città natale Ba-

gheria, ha alternato la scuola, al lavoro di bottega, allo studio della danza (sua grande passione), riuscendo benissimo in ogni cosa da lui intrapresa. Trasferitosi a Roma, lavora come mastro in una fucina, ma partecipa anche in qualità di ballerino a note trasmissioni televisive e musical. Curandone anche la regia. Dal 1998 Sciortino ha deciso di dedicarsi solo al mestiere di fabbro, si è trasferito a Milano e da allora crea magnifici complementi d’arredo e sculture, anche per le grandi aziende del mobile. Tra queste B&B, Driade, Poliform, Busnelli. Nell’ampio seminterrato ci sono quantità di oggetti da lui realizzati: con filo di ferro, pinze, incudine, martello, Sciortino dà forma a lampade da terra, a tavoli di varie dimensioni, da sovrapporre uno sull’altro, a vasi, a sgabelli «millepiedi» sorretti da una infinita quantità di gambe di ferro, a poltrone con base e schienale a raggiera. Per non parlare delle tante sculture che realizza con un unico filo di ferro, vere opere d’artista piene di genialità e poesia. www.antoninosciortino.com

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ALBUM libri

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AMATE ARTI APPLICATE

ONEOFF/INDUSTREAL Milano, via Luigi Nono 7 Un grande spazio ex industriale, lunghi tavoli da lavoro, vetrate ad arco su un giardino segreto. È la sede di Oneoff, società aperta nel 2002 dall’ingegner Costanza Calvetti, giovane presidente dell’Associazione Laboratori Fabbrica del Vapore, e dall’architetto Maurizio Meroni, che, con una quindicina di laureati in disegno industriale, hanno dato vita a un «laboratorio di artigianato elettronico». Pionieri nel campo della prototipazione rapida, hanno creato un filo diretto tra il progetto, il modello, la realtà industriale. Tanti i macchinari dalle diverse funzioni, a cui sono affiancati pannelli con sgorbie, cacciaviti, martelli. C’è una macchina di taglio laser, due fresatrici a controllo numerico, e altre tecnologie, tradizionali. A differenza dei laboratori tradizionali, qui il percorso di produzione inizia dalla lettura di una e-mail contenente un file Cad di un modello virtuale, il quale, rielaborato, diventa percorso di lavorazione per la produzione di un modello fisico di architettura o di design. Tecnologie quali la prototipazione rapida che permette la produzione di oggetti con una geometria complessa, in poche ore, perché si basa sulla costruzione di un solido per strati sovrapposti . Oltre alla progettazione, Oneoff produce una selezione di idee prototipali, con il brand Industreal, che coinvolge giovani e talentuosi designer. Come in un laboratorio artigianale, qui è possibile «stampare» facilmente piccoli quantitativi di prodotti personalizzati, realizzare plastici di architettura.Tra i premi vinti da Oneoff: «Imprese Creative e Innovative», il premio «Gabriele Lanfredini», il DME «Award for best management of design in a micro company». www.oneoff.it

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di Enzo Biffi Gentili (Allemandi) Da circa un decennio il lavoro «fatto ad arte», il mestiere manuale, è stato rivalutato da bestseller di studiosi come Richard Sennett e Matthew Crawford. E grazie anche ad alcune mostre, avviate a Faenza nel 1991 con «L’apprendista stregone», presentata da Sir Ernst Gombrich, di un curatore indipendente ed eccentrico come Enzo Biffi Gentili, fino a quella dal titolo «Italia 150». Questo volume di arti applicate illustrate ricostruisce vent’anni di sue esposizioni, interpretate da grandi fotografi, dirette a promuovere un nuovo artigianato metropolitano, anche attraverso allestimenti scenografici, spesso realizzati in beni architettonici. Un lavoro culturale un po’ provocatorio, che afferma la pari dignità tra arti decorative e arti pure, tra artista e artiere, tra arti meccaniche e arti liberali. Un viaggio alla scoperta di un patrimonio di creatività.

VENEZIA-BURANO. IL MUSEO DEL MERLETTO di Doretta Davanzo Poli (Marsilio Editore) Tra belle immagini e racconti, un itinerario alla scoperta del Museo del merletto, recentemente riaperto al pubblico dopo un radicale restauro dell’edificio e un riallestimento delle collezioni. Situato nello storico palazzo gotico del Podestà di Torcello, a Burano, sede dal 1872 al 1970 della celebre Scuola del merletto fondata dalla contessa Andriana Marcello, è diventato museo nel 1981 e dal 1995 fa parte dei Musei Civici Veneziani.

THE ITALIAN WAY Tra artigianato e tecnologia Progetti intorno al corpo di Alba Cappellieri (Mondadori Electa) Nonostante le traversie politiche ed economiche del Paese, il made in Italy continua a essere uno dei brand più importanti del mondo, riconosciuto in ambito internazionale per le qualità estetiche e manifatturiere dei suoi prodotti nei campi più disparati: moda, arredamento, giocattoli, sportswear, tecnologia, cibo, complementi d’arredo. Dal sandalo di Ferragamo per Judy Garland al battipanni di Colombini per Kartell, dalla penna di Zanuso per Aurora al bicchiere per il Campari di Matteo Ragni, fino alla collana Senza Fine dei Vignelli per Sanlorenzo e alle scarpe automobilistiche di Schumacher. Duplice versione, sia in italiano che in inglese.

UN CALZOLAIO STORICO: ANSELMO RONCHETTI Luigi Medici (Istituto Storico Lombardo, Fondazione Labus-Pullé) Con la prefazione di Francesco Perfetti e un’appendice di documenti curata da Marina Bonomelli, è stata ripubblicata in edizione anastatica la biografia di Anselmo Ronchetti, artigiano illuminato nato a Parabiago nel 1773, divenuto calzolaio personale di Napoleone Bonaparte e di molti intellettuali dell’epoca tra i quali Giuseppe Parini, Ugo Foscolo, Carlo Porta, Massimo d’Azeglio. La particolarità di Ronchetti sta nell’essere stato, oltre a un egregio fabbricante di stivali, scarpe e «ghettini» (che da lui presero il nome di Ronchettini) un uomo di cultura che nella sua bottega di via Cerva, a Milano, ospitava anche la Società dei Federati, un’associazione segreta guidata da Federico Confalonieri. La Biblioteca Ambrosiana conserva, tra gli oggetti a lui appartenuti, anche le dime dei calzari da lui creati per Napoleone.

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ALBUMfiere IL SALONE DEL MOBILE

Non mancano i convegni, nonché i seminari tecnico-scientifici dedicati ai liutai e agli studiosi del settore. In contemporanea anche Cremona pianoforti, alla sua II edizione. Con tante performance di maestri pianisti. www.cremonamondomusica.it

Milano, 17-22 Aprile Organizzata da Cosmit negli avveniristici padiglioni di Rho-Pero firmati da Fuksas, la 51esima edizione del Salone è l’unica manifestazione al mondo che mette gli espositori in contatto con 330mila visitatori, architetti, progettisti, interior decorator e tutte le persone del settore. Must del Salone sono gli eventi curati da Interni che aprirà le manifestazioni il 16 aprile con «Interni Legacy», esposizione-evento all’Università Statale. Alla Triennale «Design Dance», terza puntata della trilogia sulla nascita e ascesa del design italiano, un racconto, quasi una danza, uno spettacolo di voci, corpi e oggetti, che narra la meravigliosa esperienza del design. Alla Pinacoteca Ambrosiana con «Librocielo», installazione multimediale ideata da Attilio Stocchi, si rende omaggio alle origini di Milano illuminando e dando voce alla straordinaria quantità di testi qui raccolti. In Zona Tortona, per il Fuori Salone 2012 torna, con un tema dedicato

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festazione dedicata ai mestieri d’arte. In mostra oltre 80 maestri artigiani provenienti da tutta Italia e dall’estero, con dimostrazioni dal vivo della lavorazione e delle tecniche,dal ferro al vetro, dal legno ai tessuti, dalla pietra ai metalli preziosi. Ospite d’onore di questa edizione sarà l’Officina di Santa Maria Novella che festeggerà i 400 anni della sua attività nel campo dei profumi, delle essenze mediche e farmaceutiche. Recentemente è nato anche www.shop.artigianatoepalazzo.it, il portale degli artigiani che hanno partecipato ad Artigianato & Palazzo nel corso delle varie edizioni: le loro creazioni online, tutto l’anno. www.artigianatoepalazzo.it

ART – MOSTRA MERCATO DELL’ARTIGIANATO Firenze, 21-29 aprile, Fortezza da Basso Pezzi unici plasmati da mani sapienti di artigiani dei diversi settori, che espongono i loro manufatti in questa mostra mercato che si rinnova ogni anno. Dal classico al moderno, dall’etnico al contemporaneo, fino alle proposte “futuribili”: il fatto a mano in mostra, creato da abili mani di maestri d’arte provenienti da più parti d’Italia e dall’estero, ma anche da molte botteghe fiorentine di antica tradizione. www.mostraartigianato.it

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ai giovani progettisti, l’evento di eco design IOricicloTUricicli, ideato e curato da Misuraca&Sammarro nell’ambito della manifestazione «C’è la crisi? C’è il design». Al suo secondo anno «Brera Design District», associazione nata per promuovere le eccellenze del distretto della centralissima zona, unendo tradizione e innovazione nel campo del design. www.cosmit.it 2

ARTIGIANATO & PALAZZO Firenze, 11-13 maggio, Palazzo Corsini Tanti artigiani riuniti nel giardino di Palazzo Corsini per l’annuale mani-

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MONDOMUSICA Fiera di Cremona, 28-30 settembre Il top degli strumenti musicali artigianali nella capitale mondiale della liuteria. Per l’importante appuntamento si riuniscono a Cremona i migliori maestri liutai, dealer e buyer internazionali, musicisti, studenti. Come ogni anno Mondomusica propone anche un programma di concerti, presentazioni, seminari, e masterclass che vede la partecipazione di nomi di primo piano del panorama musicale internazionale.

IN BREVE Fuoriserie, auto d’epoca Fiera di Roma, 21-22 aprile

Mao Casa, arredamento Fiera di Roma, 28 aprile-6 maggio

Fiera della Casa: Mostra d’Oltremare Fiera di Napoli, 16 giugno-24 giugno

Vicenza Oro, About Jewellery, About J Vicenza Fiera, 5-8 settembre

Macef Fiera di Milano, 6-9 settembre

Salone Nautico Internazionale Genova, 6-14 ottobre

Abitare il Tempo Verona, Polo Fieristico, 21-24 ottobre

Artò, salone delle attività artigiane Torino, Lingotto Fiere, 2-5 novembre

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WWW.MUSICHERIE.COM/LIUTAI/LIUTERIA_PISTOIESE - LIUTAIO PIETRO GARGINI

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ALBUM premi iniziative PER IL MOBILE DI SALUZZO Un nuovo concorso nazionale del design di arredamento è stato promosso dal Comune di Saluzzo e dalla Fondazione Bertoni. La prima edizione, il cui tema è «Gli oggetti per i rituali domestici», chiederà ai partecipanti nuove idee per reinterpretare in chiave attuale e moderna gli spazi e gli oggetti di arredamento classico. La scadenza del termine di iscrizione per i partecipanti è il 21 maggio 2012. Il concorso è dedicato a due categorie distinte e prevede due premi: il primo, rivolto su invito a designer professionisti (Premio Comune di Saluzzo e Fondazione Bertoni). Il secondo premio è invece aperto a tutti i giovani progettisti under 30 e a tutti gli studenti delle scuole di design e di arti applicate (Premio Consorzio Saluzzo Arreda). www.fondazionebertoni.it

FONDAZIONE BISAZZA Alle porte di Vicenza, nella sede di Montecchio Maggiore, verrà inaugurato l’8 giugno un nuovo spazio culturale dedicato al design e all’architettura contemporanea. I fondatori, Piero e Rossella Bisazza, hanno voluto creare uno spazio espositivo per raccogliere opere e installazioni di designer e architetti contemporanei che nel corso degli ultimi vent’anni hanno immaginato inedite applicazioni di mosaico. Oltre a questo spazio ci sarà anche un’area di 2000 mq per accogliere mostre itineranti di progettisti di fama internazionale. Per la sua apertura la Fondazione Bisazza ospiterà la mostra di John Pawson «Plain Space», con una panoramica dei suoi lavori dagli anni Ottanta a oggi. www.fondazionebisazza.it

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CONCORSO DI ARTIGIANATO ARTISTICO IL SAPERE DELLE MANI La III edizione del concorso di artigianato di Nazzano, magnifico borgo nella valle del Tevere, sarà quest’anno dedicata alla carta. In mostra al Museo del fiume, ai piedi del Castello Savelli, saranno esposte tutte le opere in cartonage, origami, cartapesta prodotte da artigiani e artisti del fatto-a-mano. Il 19 e il 20 maggio, in concomitanza con il tradizionale mercato artigianale per le vie dell’antico borgo, verrà proclamo il vincitore. http://ilsaperedellemani.wordpress.com

AAA CERCASI NUOVO ARTIGIANO Un brillante progetto, ideato da Cna Vicenza, Fuoribiennale e Venice International University, è stato realizzato per la volontà di costruire un network tra artigiani locali e mondo della creatività internazionale. Dodici designer stranieri (provenienti dal Royal College of Art di Londra) e italiani sono stati chiamati a lavorare nei laboratori di dieci artigiani della provincia di Vicenza specializzati nella lavorazione della ceramica, del vetro, del plexiglass, della carta, del marmo, dei metalli preziosi e non preziosi. Guidati da Martino Gamper, designer e docente al Royal College of Art di Londra, e da Aldo Cibic, per due mesi designer e artigiani hanno progettato e costruito insieme nuovi prototipi. I manufatti si possono ammirare anche nel libro a cura di Marco Bettiol e Cristiano Seganfreddo, edito da Marsilio in italiano e in inglese. www.cnavicenza.it

FORME E COLORI Ritorna a Viterbo la Mostra-Concorso dell’Artigianato Artistico Forme e Colori, che quest’anno ha per tema “Tutti i toni del Rosso”, e nella quale le imprese del settore potranno esporre le proprie opere inedite. Previste tre sezioni: Artigianato artistico tradizionale; Artigianato artistico innovativo; Artigianato artistico quale terreno di ricerca e sperimentazione per la scuola. L’evento, organizzata dalla Cna di Viterbo, è in programma dal 20 aprile al 6 maggio presso il Museo della ceramica della Tuscia e si concluderà con l’assegnazione dei premi ai vincitori. Un’occasione per mettere in mostra la creatività e la maestria degli artigiani, per far conoscere un patrimonio da valorizzare e promuovere. www.cnapmi.org

LES TALENTS DU LUXE ET DE LA CRÉATION Il Centre du Luxe et de la Création ogni anno sceglie e ricompensa chi si è distinto tra i «creatori, che sono la linfa dei laboratori artigianali e delle industrie del lusso», in quanto motori del loro perenne rinnovamento. Un patrimonio di autentica eccellenza per l’intera collettività. I premi «Les Talents du Lux et de la création» vengono assegnati annualmente a una ristretta selezione di maestri, imprenditori, designer e creativi che si sono distinti nei diversi settori in cui il lusso si declina, dall’eleganza all’innovazione. Il Centre du Luxe ha sede a Parigi, in rue Madame 1. Per informazioni sul bando: www.centreduluxe.com

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GUERRIERI D’AMORE Firenze, 16 maggio-12 giugno Otto luogo dell’arte Una ricerca cosmica iniziata con un viaggio in India nel 1979 e che si intuisce già dal nome che Nicola Strippoli ha scelto per sé, da allora: Tarshito, in sanscrito «sete di dio». Una ricerca dell’altro che è fatta di forme e colori, di comprensione di linguaggi diversi, di studio di materiali. La galleria espone una selezione di opere dell’artista-architetto-poeta-ce-

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ramista e della sua poetica concezione della vita: arazzi, miniature, digital art, dipinti su carta fatta a mano, tutti sul tema del Guerriero d’Amore.

VETRI A ROMA Roma, 21 febbraio-16 settembre Curia Iulia, Foro Romano Una mostra dedicata all’arte del vetro, allestita nell’ampio spazio dell’ex Senato Romano. Sono circa 300 i pezzi esposti, prevalentemente provenienti dalla produzione di età romana, tra vasellame prezioso, gioielli e mosaici, che raccontano il periodo di massimo fulgore della lavorazione del vetro nel mondo romano, a partire dal II sec. a.C., oltre ai favolosi tesori strappati alle regge dei sovrani orientali durante le guerre. Manufatti prodotti da artigiani depositari di raffinatissime tecniche di produzione e di una spiccata sensibilità artistica. In ordine cronologico, si ripercorrono tutte le tecniche della lavorazione del vetro, dal vetro mosaico con inserzioni d’oro, alla raffinata imitazione dell’ossidiana, alla soffiatura, fino alle gemme e ai gioielli di cui in mostra un’ampia selezione. Fino ai globi in vetro fuso sulla sommità dello scettro di Massenzio.

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TROMPE-L’ŒIL IMITATIONS, PASTICHES ET AUTRES ILLUSIONS Parigi, fino al 15 novembre 2013 Musée des Arts decoratifs Plinio il Vecchio raccontò della gara di pittura tra Zeusi e Parrasio, dove il primo dipinse tanto bene un grappolo d’uva che gli uccelli si avventarono per beccarlo, mentre Parrasio fece un drappo che trasse in inganno perfino Zeusi. L’esposizione mette in mostra illusioni, tecniche prospettiche, chiaro scuro, in pittura, mosaico, ceramica, oreficeria, ebanisteria, in una interessante carrellata tra capolavori dall’antichità al Rinascimento, al Manierismo, al Barocco: più di 400 oggetti, divisi per 12 temi, fino ai nostri giorni.

BRITISH DESIGN 1948|2012: INNOVATION IN THE MODERN AGE Londra, 31 marzo-12 agosto Victoria&Albert Museum Oltre 300 oggetti in mostra per celebrare il meglio della produzione inglese del dopoguerra, dal 1948 fino al 2012. L’esposizione passa in rassegna oggetti, architetture, idee partorite da designer nati, residenti o professionalmente formatisi in Inghilterra. Con tanti oggetti icona, quali mobili progettati da Tom Dixon, Nick Jones, Mark Brazier-Jones e André Dubreuil, tessuti di design, compresa la rivoluzionaria moda di Mary Quant, le architetture modernissime, le tecnologie più avanzate per le macchine fotografiche, con gli astri della fotografia quali David Bailey, Brian Duffy eTerence Donovan.

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MUSEO CRISTÓBAL BALENCIAGA Guetaria, Spagna Inaugurato nella città natale di uno dei più famosi stilisti del Novecento, il museo Cristóbal Balenciaga raccoglie la storia completa delle straordinarie creazioni di questo sarto d’eccezione: dai primi schizzi del giovane maestro all’abito da sposa di Fabiola de Mora y Aragón, nel 1960, futura regina del Belgio, fino all’ultima creazione, l’abito da sposa della Duchessa di Cádiz, realizzato nel 1972. Con documenti fotografici di tutta la sua ricca produzione, lettere, abiti e prototipi.

APPUNTAMENTI Adolfo Wildt e la scultura ceramica Faenza, 28 gennaio - 17 giugno Museo internazionale delle Ceramiche

Sacro alla Luna. Argenteria Sabauda del XVIII Torino, fino al 1° luglio Museo Arti decorative Fondazione Pietro Accorsi

1861-2011 Un’Isola un’Arte un Museo Murano, fino al 30 aprile, Museo del Vetro

Vincenzo Gonzaga il fasto del potere Mantova, 18 febbraio-10 giugno Museo diocesano Francesco Gonzaga

XLV Convegno Internazionale della Ceramica Savona, 24-26 maggio Palazzo del Commissario al Priamar

Mostra dei fischietti in terracotta Caltagirone, 7-8 aprile, Palazzo Libertini

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Invitato Speciale

LAV O

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UN TEMPO I PADRI SI PORTAVANO I FIGLI IN BOTTEGA O NEL CAMPO PER INSEGNARE UN MESTIERE E UN SAPERE ARTIGIANO O CONTADINO

Riflettevo, in questi giorni in cui i giornali dedicavano pagine al problema del lavoro minorile, sull’età in cui io ho cominciato a lavorare. Riflettevo sul periodo storico, l’Italia del dopoguerra, e su quelli della mia generazione che si avvicinavano al lavoro, quando c’era. Quelli erano ancora i tempi in cui i padri si portavano i figli in bottega, o nel campo, per insegnargli ciò che loro avevano imparato. Era un modo quasi naturale di tramandare il sapere: il sapere artigiano e contadino. Un modo non privo di ambiguità perché sanciva una sorta di ereditarietà delle professioni e avresti fatto il contadino se tuo padre era contadino, il falegname se tuo padre era falegname. Io, infatti, ho fatto il fotografo. Come mio padre. E, come lui, ho cominciato a lavorare a dieci, dodici anni. Allora il lavoro dell’artigiano e del contadino rappresentava il massimo della libertà: erano lavori in cui il processo di produzione, per dirla modernamente, era con-

trollato dall’uomo. Chi faceva una scarpa, la faceva dalle stringhe alla tomaia. Chi produceva grano, lo seminava e lo raccoglieva. Si faceva la fame, spesso, ma non posso non guardare con rispetto alla figura di mio padre e a quelli come lui, alla dignità con cui affrontava la vita, di cui il lavoro rappresentava una parte preziosa. Il degrado che ha investito ogni aspetto della vita di oggi non ha risparmiato il lavoro. Se un padre si portasse oggi il figlio in bottega (ma quale bottega? i falegnami non esistono più; quale campo? le aziende agricole di oggi non prevedono terra da lavorare a mani nude o con l’aiuto di una coppia di buoi) sarebbe subito accusato di sottrarlo allo studio oppure al gioco. Come se passare le ore davanti a un videoschermo con un Cd-Rom interattivo fosse più educativo che imparare a piallare o a potare. Il degrado ha subito spostato l’attenzione dall’aspetto educativo dell’imparare a usare le mani allo

sfruttamento e lentamente, ma inesorabilmente, si è proceduto a minare «l’immagine» del lavoro manuale, a screditarlo perfino di fronte al più insulso e degradante lavoro d’uffi cio. Un ragazzo che lavora, oggi, scandalizza perché, spesso, viene usato per risparmiare sul costo del lavoro e quindi per aumentare il profitto di chi lo impiega. È scandaloso, l’ingranaggio della produzione moderna e del moderno consumo che la giustifica. Una strada senza ritorno, che siamo costretti a percorrere, rischiando di essere stritolati per non restare ai margini. Non scandalizza però, ed è sintomatico, un ragazzo che lavora in tv, che canta, balla e si esibisce in uno spot pubblicitario o allo Zecchino d’Oro. Ci sono lavori che sono meno lavori di altri, sfruttamenti sopportabili se il prezzo da pagare è quello della modernità e del progresso. E la modernità e il progresso oggi si misurano in tv, o non certo in un campo o nella bottega di un artigiano.

Chi faceva una scarpa era in grado di realizzarla dalle stringhe alla tomaia. Chi produceva

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d i O l i v i e r o To s c a n i

© OLIVIERO TOSCANI

V ORO giovanile grano, lo seminava e lo raccoglieva. Si faceva la fame, sì. Ma con dignità. E il lavoro nobilitava

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Imprese

Sedia impilabile in policarbonato ÂŤBella rifattaÂť disegnata da William Sawaya e lampadario Vortexx di Zaha Hadid e Patrick Shumaker edizione limitata (tutto di Sawaya & Moroni). Nella pagina a destra, Darwish, seduta a quattro posti, design William Sawaya (1999), edizione limitata.

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d i M a t t e o Ve r c e l l o n i

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EDIZIONI

METROPOLITANE RISORSE, CAPACITÀ, KNOW-HOW E SAPIENZA ARTIGIANALE SENZA DISDEGNARE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE E NUOVI MATERIALI: IN ALTRE PAROLE... SAWAYA & MORONI

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Sawaya & Moroni, dalla sua data di formazione nel 1984, ha sempre dichiarato di essere un «Editore», spiazzando la logica produttiva dell’italian furniture design che dalla bottega artigianale evolve verso la serialità e la produzione industriale oscillando in modo continuo e sinergico tra queste diverse dimensioni. Fare «l’editore» nel mondo del mobile italiano significa per Sawaya & Moroni sfruttare al meglio le risorse, le capacità, i know-how della sapienza artigianale tramandatisi nel tempo, senza ovviamente disdegnare le innovazioni tecnologiche, i nuovi materiali, tutto ciò che può apportare al prodotto un

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Imprese

Sotto, Antiopa, poltrona in giunco rosso, lavorazione artigianale italiana, design Toni Cordero (1992). A destra, sedia Gravity, design William Sawaya; lampadario Vortexx di Zaha Hadid e Patrick Shumaker, edizione limitata (tutto di Sawaya & Moroni).

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livello di eccellenza che si accompagna, sempre, al grado immateriale dell’oggetto, quello più importante: l’idea. Non avere la bottega, il capannone, lo stabilimento industriale, non è stato e non è una mancanza per la storia di questa azienda, parte della storia del mobile italiano; è solo un altro modo di pensare alla produzione che suggerisce modalità alternative a quella della fabbrica. Per Sawaya & Moroni il fine di proporre sul mercato un prodotto di alta qualità sia dal punto di vista del disegno, sia da quello dei materiali, sia infine sotto l’aspetto dell’esecuzione, ha significato necessariamente ricercare nel mondo dell’artigianato i soggetti migliori e i più capaci. Ma il rapporto con questo complesso e sfaccettato mondo del fatto a mano non ha significato rimanere in una condizione subalterna, né assorbire in modo meccanico le singole tradizioni delle diverse realtà e specificità lavorative; piuttosto la sfida è stata quella di riuscire a fare interpretare dall’artigiano il segno contemporaneo, il disegno sperimentale e creativo di architetti e designer chiamati a fare parte delle «Edizioni». Allo stesso tempo, è opportuno sottolinearlo, lavorare con gli artigiani ha significato anche tutelare la loro sapienza manifatturiera, tramandatasi nel tempo, che molto probabilmente sarebbe stata destinata a scomparire. Oltre che rilanciarla sulla scena del presente in modo attivo. L’artigianato per Sawaya & Moroni è anzitutto una risorsa culturale con cui confrontarsi in modo sinergico e in totale apertura. Un rapporto che deve però necessariamente essere cor-

risposto anche da chi ha fatto ad esempio per decenni intarsi in stile o riccioli di metallo e che deve oggi rispondere a richieste figurative e di progetto di tipo nuovo. Come ha scritto Francesco Bonami: «Il valore dell’artigianato non sta nello strumento, la mano, o nel luogo, la casa, dove l’oggetto di altissima qualità viene creato e prodotto. Il valore dell’artigianato e quello che trasforma l’artigiano da semplice esecutore in artista sta nella capacità di tramandare la cultura e la sapienza del proprio fare di generazione in generazione, accompagnandola con un pensiero sull’importanza delle cose e della loro qualità nella vita degli individui. Lo sapevano bene i signori inglesi del movimento di fine ‘800 chiamato Arts and Crafts. Questi signori erano coscienti che al craft, l’abilità manuale dell’artigiano, andassero unite le arts, le capacità artistiche, affinché l’oggetto che usciva dalle botteghe e dagli studi potesse avere una sua eccezionale qualità». È a questa qualità assunta come fattore complesso, in cui convergono diversi contributi e sapienze umane, in cui l’ideaprogetto appare come fattore fondativo di ogni processo (rivelando peraltro la forte matrice architetturale di approccio all’arredo), che l’idea delle «Edizioni» Sawaya & Moroni fa riferimento, declinando progetti e idee di architetti di fama internazionale, come di designer affermati ed emergenti, in un percorso dove credo ogni forma di artigianato è stata affrontata e coinvolta in un processo di ricognizione, traduzione ed espressione di saperi e capacità portati con convinzione verso il presente e proiettati verso un vicino futuro. Legno e metalli, plastiche e pelli, vetri e ceramiche, sono alcuni dei materiali trattati dagli artigiani del sistema produttivo sinergico e multilineare delineato da questa particolare azienda di design senza fabbrica, che non ha dimenticato la serialità degli stampi, le tecnologie dedicate alla produzione semi-industriale in grado di ottimizzare il sempre difficile rapporto costi/benefici. Un artigianato metropolitano che solo in Italia esplicita, per tradizioni storiche e sistema-paese, le sue migliori qualità e potenzialità che il mondo ci invidia e che ancora dà sostanza al marchio-slogan del Made in Italy (ma ormai internazionale poiché frutto di progetti provenienti da ogni parte del mondo attratti dalla flessibilità espressa dal settore del furniture design), permettendogli ancora di essere al centro dell’interesse mondiale, e un riferimento per la creatività di ogni Paese.

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SANTI CALECA

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Maestri contemporanei

IN OCCASIONE DEL SALONE DEL MOBILE Presso la boutique Montblanc, di via Montenapoleone 27/B, dal 16 al 22 aprile, in mostra le opere dei designer della Creative Academy.

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di Edoardo Perri*

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LA BOUTIQUE MILANESE DI MONTBLANC ESPONE LE OPERE IN CARTA DEGLI STUDENTI DELLA CREATIVE ACADEMY, REALIZZATE INSIEME A CINQUE PAPER ARTISTS: DESIGNER E ARTIGIANI UNITI DA UNA BUONA STELLA

Carta bianca al DESIGN Il foglio bianco di carta è stato forse il luogo privilegiato dall’uomo per misurare e affrontare i propri limiti, accogliendo e raccontando le proprie imprese, le scoperte, le visioni, i propri amori. La sfida lanciata da questo affascinante e versatile supporto, la carta, sembra rinnovarsi secolo dopo secolo fino ai nostri giorni, in ognuno dei pensieri e dei progetti che su di esso la mente umana proietta. Dunque, quale migliore materiale scegliere se non il candido e immacolato foglio di carta, per chiedere al talento dei 20 giovani designer internazionali della Creative Academy di confrontarsi con un brief creativo lanciato dalla storica Maison Montblanc? In occasione del Salone Internazionale del Mobile di Milano 2012, infatti, la boutique milanese di Montblanc in via Montenapoleone diventa teatro d’esposizione per le opere degli studenti del Master in Design and Applied Arts della scuola internazionale del Gruppo Richemont, fondata a Mila-

no nel 2003 e che ogni anno forma giovani talenti specializzati nel design dell’oggetto di lusso, e di tutto quanto ne caratterizza il mondo e l’identità. L’invito rivolto da Montblanc a cimentarsi con un progetto realizzato interamente in carta, ha come titolo L’Uomo al Centro – dal Design all’Arte della Carta. La sfida lanciata ai designer assume così il carattere di una riflessione personale sulle imprescindibili qualità umanistiche, tecniche e visionarie della creatività applicata, nel momento in cui al progetto viene chiesto di incontrare e interpretare i valori perseguiti con convinzione dalla Maison: talento e passione, ma anche visione e savoir-faire, così come tradizione e sperimentazione. L’intensivo programma didattico si è svolto sotto la luminosa ed evocativa stella Montblanc: un simbolo ormai celebre in tutto il mondo, che nel corso della sua storia e dell’evoluzione dei suoi strumenti da scrittura così egregiamente è riuscito a lasciare

* Designer e fondatore di Whomade.it, curatore del progetto per conto della Creative Academy e della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

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Maestri contemporanei

LA LUMINOSA STELLA EVOCATIVA Venti designer e cinque maestri d’arte misurano creatività e abilità manuale nella realizzazione di progetti originali in carta

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un proprio segno distintivo sulla carta. Ma il valore didattico dell’esperienza è andato oltre la semplice progettazione. L’iniziativa ha infatti coinvolto, affiancando gli uni agli altri, i talenti creativi e alcuni tra i più importanti maestri d’arte italiani: artigiani e artisti che con la carta hanno costruito una propria poetica, sublimando le qualità dello stesso materiale attraverso una personale ricerca legata alla tecnica, alla manualità, alla espressività. Artigiane eccellenti come Angela Simone (gioielli di carta) e Caterina Crepax (paper fashion), artiste quali Luisa Canovi (origami e sculture in carta) e Piera Nocentini (papier-mâché), professioniste creative come Cristina Balbiano d’Aramengo (legatura creativa contemporanea) hanno lavorato insieme agli studenti per trasmettere un saper fare, per condividere una visione e per trasformare un progetto in un bellissimo prodotto. «È dal dialogo continuo tra designer e maestri d’arte, tra progetto e realtà, tra intuizione e tradizione, tra visione e manualità che la creatività prende vita, divenendo funzionale e condivisibile» sottolinea Franco Cologni, Presidente della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, promotrice insieme a Montblanc della mostra e del progetto. Le inedite e proficue esperienze proposte dai 20 designer, e realizzate nei laboratori

delle cinque maestre d’arte coinvolte, sono infatti frutto di una cultura e di un metodo progettuale capace di confrontarsi con le tecniche produttive artigianali della carta e di arricchirsi nel rapporto dialettico con esse. A fare da sfondo ai progetti è il ricco patrimonio iconografico di riferimento al quale Montblanc stessa attinge, fatto di suggestioni ispirate a personaggi del mondo della cultura, delle scienze e delle arti che con le loro scoperte, le loro visioni, le loro straordinarie vite hanno segnato il cammino dell’umanità. È così che nel percorso creativo dei progettisti il foglio bianco di carta si è cominciato a colorare, ha iniziato a prendere forma e consistenza: tagliato, piegato, incastrato, costruito, modellato, trasformato, filato, intrecciato, intagliato, scritto, decorato, scolpito, illuminato. Un interessante processo incominciato con la riscoperta della materia e delle caratteristiche delle sue fibre sembra in definitiva, nei progetti esposti in occasione del più importante evento del design, arrivare a svelare una sorprendente relazione tra l’apparente quotidianità degli oggetti «invisibili», che arredano la vita di ogni giorno, e la profondità delle emozioni che tuttavia gli stessi, nella metafora creativa, sono in grado di generare e con i quali il nostro animo riesce inesauribilmente a intrigarsi, a creare e ricrearsi.

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Esporre le radici

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di Marina Messina*

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Negli spazi di Palazzo Morando vive un luogo del sapere e dell’emozione. È qui che il Comune di Milano e la Fondazione Cologni promuovono le vere eccellenze con il supporto di Vacheron Constantin

QUESTI SONO

capi d’opera

I

I rinnovati spazi di Palazzo Morando Costume Moda Immagine si presentano come una sede prestigiosa dove promuovere studi e attività culturali. Il luogo, il Quadrilatero della moda, rende immediatamente riconoscibili e comunicabili tali spazi come sede deputata alle mostre di moda e di storia della moda, come realtà dove sperimentare l’innovazione, come luogo di sapere dove condurre ricerca e progettazione legata al costume e all’immagine. Il nuovo allestimento di Palazzo Morando Costume Moda Immagine non si propone come il museo della moda, più volte cercato e mai costituito dall’amministrazione comunale, perché sarebbe una contraddizione in termini: la moda è continua evoluzione, è cambiamento, è creatività e non può essere fissata secondo schemi

Whomade, tavolino Olas, design Edoardo Perri con Dario Riva, crafted Carlo Bellini e Uberto Gnaro. Sopra, Daniele Papuli vaso Talea. A fianco, madia Stanley in ebano, interni in pelle

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* Direttore del Polo dell’Ottocento

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Esporre le radici

Una mostra che esalta il contributo offerto dai mestieri d’arte e dall’opera degli artigiani

Da sinistra, Giuseppe Rivadossi, madia in legno intagliato; Cedes Milano, set da manicure da toilette in bambù ed ebano; il maestro laccatore giapponese Munenori Yamamoto decora quadranti per Vacheron Constantin nell’atelier della mostra Capi d’Opera. A destra, Tonino Negri, La casa dei gufi, scultura in gres e smalto; Valextra, cartella classica a tre soffietti

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museali ottocenteschi. Palazzo Morando si propone come un luogo del sapere e dell’emozione, dove ammirare gli splendori del passato e ricostruire l’immagine del presente, uno spazio adeguato per la progettazione di attività espositive, per promuovere studi e attività culturali sui temi legati alla moda, per condurre un continuo lavoro di ricerca sugli allestimenti dei percorsi espositivi. Si potranno organizzare mostre per studiare le collezioni esistenti, pubbliche e private, per offrire modelli e spunti di dibattito, per analizzare il rapporto tra arte e moda, ma anche perché il grande pubblico riconosca in Palazzo Morando il luogo chiaramente dedicato alla storia del costume e della moda. Un contenitore privilegiato che alimenta il processo della città che cambia e produce impulsi benefici alla contaminazione di gusti e stili, alla trasgressione delle frontiere intellettuali e disciplinari. Coniugare creatività e rigore scientifico, contenuti simbolici e qualità strutturali: queste le qualità della Milano che cambia, questa la vocazione di Palazzo Morando. E ancora studiare i rapporti tra storia, società, costume e moda; mettere a confronto produzione e arte e creatività, un dialogo di alto livello, che permette di tradurre intuizioni creative in prodotti dell’industria. Per tale motivo il Comune di Milano e la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte promuovono proprio a Palazzo Morando con il significativo supporto di Vacheron

Constantin, in occasione delle Giornate Europee dei Mestieri d’Arte la mostra Capi d’Opera. Le eccellenze del saper fare a Milano e in Lombardia. La mostra intende delineare il contributo dato dai mestieri d’arte italiani e dall’opera degli artigiani, che hanno inteso individuare ed esaltare le caratteristiche, i valori di un saper fare tutto italiano. Le figure dei maestri artigiani diventano protagoniste sullo scenario comune della società e della cultura. La mostra restituisce l’immagine dell’artigianato d’arte declinato nelle diverse attività, dalle più tradizionali e consolidate a quelle più innovative. L’artigianato d’eccellenza evidenzia l’insegnamento e le eredità stilistiche dei maestri; gli atelier, dove i maestri dimostrano come svolgere un mestiere a «regola d’arte», diventano testimonianze del contesto artistico, sociale e storico e permettono al pubblico di comprendere il singolo prodotto nella sua forma, nelle tecniche e nei metodi di produzione adoperati, nella sua materialità. Le tecniche esemplificatie negli atelier propongono una nuova relazione tra produttore e consumatore e un diverso modo di diffondere la cultura tecnico-scientifica. La grande abilità delle maestranze accresce la qualità dei prodotti italiani, li rende protagonisti sui mercati internazionali e conferma le energie intellettive degli artigiani, insomma la maturazione della cultura milanese e lombarda di fine XIX secolo, alla rincorsa dei progressi che avvenivano nei Paesi industrialmente progrediti. Nel 1861

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la popolazione attiva apparteneva per il 60% al mondo rurale, la rimanente era composta da artigiani, rivenditori al minuto e pochi operai. Molti sono gli artigiani che in quel periodo manifestano il desiderio di acquisire nuove capacità, frequentando scuole diurne e serali e ciò in concomitanza con la spinta dei settori più dinamici della società a mettere a frutto le tecniche messe a disposizione dal progresso scientifico. Il perfezionamento tecnico-artistico degli operai diventerà uno degli obiettivi primari dell’Umanitaria, dell’Accademia di Brera, della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, delle scuole comunali serali. A fine XIX secolo nelle scuole non si trattava di apprendere le tecniche elementari, per far ciò bastavano l’officina o la bottega, ma di perfezionare l’istruzione pratica delle maestranze, insegnando loro metodi moderni, procedimenti raffinati, le belle tradizioni italiane nelle arti applicate all’industria. I risultati sono tangibili e portano alla qualificazione professionale di molti giovani inseriti come operai nei laboratori, nelle botteghe, negli opifici; si tratta di ebanisti, intagliatori, orefici, incisori, cesellatori, pittori. Anche la sarta, la modista, la ricamatrice ebbero modo di perfezionare il mestiere nelle scuole professionali femminili, ma siamo agli inizi del Novecento, quando la disoccupazione viene combattuta creando dei mestieri privilegiati, tali perché avanzati, un’aristocrazia operaia.

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O co cs hs i e lr l i D

AUTOPRODUZIONE

(da non confondersi con autopromozione) L’autoproduzione viene spesso definita come una pratica che si muove tra l’arte e il design. È una buona, anche se semplice, definizione che a ben guardare si addiceva e si addice ancora a un certo artigianato artistico, ma rispetto a quest’ultimo l’autoproduzione di questi anni dimostra di possedere nuovi e particolari caratteri. Per l’autoproduzione si deve intendere non solo la capacità di realizzare l’oggetto (cosa che sapeva, e sa ancora, fare il nostro artigiano/artista) ma anche progettare, comunicare e vendere la propria opera.

L’autoproduttore così si identifica in una piccola «impresa» dove la creatività è applicata a tutte le quattro categorie (progetto/prodotto/comunicazione/commercializzazione) che fanno il successo dell’impresa. Dieci anni fa fondai a Milano, presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, il dipartimento denominato Progettazione artistica per l’impresa intendendo con il termine impresa: dalla propria individuale (autoproduzione) a quella artigiana, dalla piccola industria alle imprese istituzionali… Si insegnò per diversi anni a distinguere il progetto arti-

IL RECUPERO DEGLI SCARTI Console «Fossile Moderno Tv» (lunghezza 175 x profondità 45 x altezza 110) di Massimiliano Adami. Gli scarti della nostra società dei consumi (flaconi di detersivi, bottiglie, giocattoli, scheletri di televisori e computer) vengono recuperati e successivamente immersi in un magma di poliuretano, dando così vita a nuovi oggetti.

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di Ugo La Pietra

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Lampada «Palombella» (smontata) di Paolo Ulian, realizzata con il semplice assemblaggio di oggetti che hanno una storia diversa, come la «cuffia».

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stico rispetto al tipo di impresa e ci si rese conto che l’autoproduzione assomigliava in modo sorprendente a tutto ciò che veniva fatto da decenni nell’Europa del nord attraverso il craft: il Craft europeo, che da sempre coltiva un’area disciplinare (quella delle arti applicate) che non è, di fatto, né arte né design industriale (vi ricordate la bella mostra organizzata da Enzo Biffi Gentili a Palazzo Bricherasio di Torino nel 2002?). Ma questa area disciplinare europea, rispetto alle nostre recenti tendenze di autoproduzione, si muove in un vero e proprio territorio coltivato con istituzioni, musei, scuole, gallerie, collezionisti, autori e loro quotazioni. Sono scesi da qualche anno, incominciando dagli olandesi, nella nostra bella «patria del design» gli artisti del craft e hanno avuto subito successo, in una situazione storica dove il design italiano fa sempre più fatica a capire il proprio ambito disciplinare e il proprio ruolo e dove la moltitudine di laureati, che escono dalle tante scuole di design con sempre maggiori difficoltà a trovare lavoro nelle nostre medie imprese (sempre più in crisi!), hanno iniziato a imitare questi nuovi modelli progettuali e operativi. Imitati spesso con un grande equivoco alla base del loro comportamento: è vero che si sono dati da fare a pensare (progettare) e realizzare con le proprie mani gli oggetti, ma sempre nella prospettiva di trovare l’incontro fortunato con l’imprenditore capace di trasformare il loro proget-

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to in oggetto di consumo con una produzione di serie. Così si è verificato ciò che vediamo al Salone Satellite e in molte mostre fuori dal Salone del Mobile di Milano: tanti prototipi di giovani studenti e designer che portano, con tante speranze, i loro prototipi in una dimensione che va definita correttamente come «Autopromozione», pratica molto lontana da quella dell’Autoproduzione. Tutto ciò mi ricorda molto gli anni Settanta quando molti critici /storici organizzavano rassegne di cinema mettendo insieme i filmaker (che facevano cinema sperimentale, non potendo ancora accedere al cinema commerciale, come pratica giovanile in attesa di entrare nel sistema ufficiale del cinema) e gli operatori (come il sottoscritto) che facevano cinema d’artista (autofinanziandosi e credendo nell’autonomia artistico-disciplinare di questa pratica). Chi oggi avesse ben inteso qual è la vera pratica dell’autoproduzione, di fatto si trova fatalmente ad affrontare (in Italia) un’operazione molto difficile mancando totalmente «il sistema». Dove poter collocare le proprie opere, a chi venderle, dove trovare delle gallerie, al di là di quelle quattro che si occupano di oggetti (firmati dalle star del design internazionale) con un forte impatto emotivo e dai prezzi proibitivi, rivolti a una committenza di pochi collezionisti? Dove fare ricerca se le nostre università pensano solo alla produzione e mancano di veri laboratori, laboratori che

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CREATIVITÀ E FUTURO La lampada «Palombella», presentata nella forma smontata nelle pagine precedenti. A sinistra, «Paravento con decorazioni a trapano», di Alessandro Mason (2011), in lamiera prestampata decorata a trapano, realizzato con Federica Goga Mason. In basso, «I vasi» di Andrea Gianni, l’archetipo, un’immagine appiattita in materiale riciclato, con scritte e pubblicità che diventano decori.

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ormai sono (con le ultime leggi) scomparsi da tutti i nostri gloriosi istituti d’arte? Ciò nonostante crescono (anche se con difficoltà) esempi sempre più convincenti di autori che si muovono nell’autoproduzione inventando oggetti, inventando procedimenti tecnici e di uso dei materiali, e inventando anche nuovi modi di vendere e comunicare. È il caso degli autori che presentiamo in questo articolo: Alessandro Mason e gli autori riuniti nel collettivo «Subalterno 1» (tra cui Massimiliano Adami, Paolo Ulian, Andrea Gianni e Duilio Forte,) che intendono l’autoproduzione come un insieme di attività che comprende l’autoorganizzazione della progettazione, della costruzione/produzione, della promozione, della distribuzione. In questa prospettiva troviamo anche il coinvolgimento, da parte dei giovani autoproduttori, di alcuni artigiani o di strutture produttive che si rendono disponibili come luoghi di sperimentazione mentre cercano occasioni sempre più finalizzate a dare una visibilità commerciale a questo genere di produzioni. Nel 2010 si è aperta a Modena e Bologna una manifestazione completamente dedicata al

design autoprodotto; a Torino da due anni è attiva una mostra mercato del design autoprodotto organizzata da Operare Design nell’ambito di Torino Design Week. Occasioni che vedono spesso in mostra, come spesso accade anche al Fuorisalone di Milano, opere non solo di giovani designer ma anche di studenti, come quelli della Libera Università di Bolzano. Alcuni giornalisti del settore, sempre alla ricerca di novità, stanno abbracciando con entusiasmo queste esperienze, con slogan forse un po’ troppo enfatici: «stanno trasformando il volto del nuovo design contemporaneo!» oppure «stanno liberando l’oggetto dalla sua funzione codificata!». Tutto ciò non convince ancora! Anche se l’autoproduzione degli oggetti può assomigliare alla produzione e vendite a chilometro zero di alcuni prodotti alimentari, non si può dire che questa tendenza possa rappresentare una via d’uscita dalla crisi della nostra produzione verso la riconquista dell’immagine che a livello internazionale aveva avuto per tanti anni il design italiano. Per ora accontentiamoci di vedere una generazione di giovani appassionarsi ancora a salutari pratiche creative e manuali.

RECUPERO ERGO SUM In alto, scrivania «Skv» 2004, di Duilio Forte, in metallo verniciato e cristallo. Sotto: «Déjà vu» di Antonio Cos (fotografia di Max Rommel), collezione di vetri nata dalla decomposizione e ricostruzione delle forme attingendo al patrimonio delle possibilità esistenti con una colta operazione di cut up. Testimonianze vive di come l’autoproduzione sia ormai un consolidato mestiere d’arte.

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Eccellenze

Vivere

ILTEMPO

MARCO SCARPA

MANIFATTURE OROLOGIERE E CAPOLAVORI FIRMATI GAETANO PESCE. NEL CUORE DI MILANO LA BOUTIQUE PISA APRE AL DESIGN E PENSA AL FUTURO CON SCELTE AUDACI

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Volti, anima e passione. Quelli di Stefania e Chiara Pisa, terza generazione della famiglia milanese che ha creato un vero e proprio marchio di qualità nel settore dell’alta orologeria e di Stefano e Francesca Meroni, seconda generazione di Meritalia, azienda tra le più innovative a livello internazionale nel settore dell’arredamento e dell’interior design. Giovani con la capacità e la voglia di guardare avanti, di lavorare a un progetto comune rivolto alla valorizzazione del talento per trasformare il centro di Milano in un nuovo polo di arte, di stile, di cultura e di idee. Così il loro incontro si è trasformato in un progetto creativo, «Il Tempo del Pesce», ospitato nella prestigiosa boutique Rolex di via Montenapoleone, durante la 51a edizione del Salone Internazionale del Mobile, a Milano dal 17 al 22 aprile. «Il leit-motiv di quest’anno è l’eredità», spiega Chiara Pisa. «Un pilastro importante per noi, eredi di una storia familiare da custodire, portare avanti e trasmettere attraverso la conoscenza, il passaggio di pensieri, antichi segreti ed esperienza. Proprio su questi fondamenti abbiamo lavorato insieme a Francesca Meroni per legare due mondi apparentemente lontani come quello del design e dell’orologeria». Un nome, Pisa, sinonimo di qualità, che ha fatto dell’eccellenza una realtà. Basta entrare nel negozio di via Verri, prestigioso multibrand dell’orologeria di grande pregio, nelle Boutique di Patek Philippe e Rolex per incontrare la storia della famiglia e il futuro di una generazione che porta avanti, con innovazione e rispetto del passato, un nome e una visione. E lo fanno non solo per il settore che da oltre 70 anni li contraddistingue, ma aprendosi anche ad altri mondi artistici, come quello del design. «Abbiamo unito il tempo scandito dagli orologi all’innovazione che passa attraverso il tempo delle opere di Gaetano Pesce, grande nome del design d’avan-

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di Arianna Rosa

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LA COLLABORAZIONE CON MERITALIA La boutique Pisa condivide da 25 anni ricerca e qualità, lo testimonia il progetto firmato da Gaetano Pesce (sotto), Accanto, Francesca Meroni. Nell’altra pagina, Chiara Fiorentino, terza generazione della famiglia Pisa.

guardia italiano a livello internazionale, portando alti i valori di ricerca, creatività e tradizione familiare da tramandare. Abbiamo pensato di creare l’evento all’interno di uno spazio suggestivo come quello della nostra boutique Rolex», continua Chiara Pisa, «custode del tempo passato e futuro, comune denominatore anche dei masterpieces dell’artista esposti in esclusiva per il Salone del Mobile nel progetto firmato dalla irezione artistica e creativa dallo Studio SE77E di Antonio Vittorio Carena in collaborazione con Meritalia». Le sue opere caratterizzano i quattro piani della boutique fino alla veranda che si affaccia sul Quadrilatero della moda. Lungo questo percorso, dominato dal giardino verticale di Patrick Blanc con più di 3.000 tipi di piante, si possono vivere e toccare alcuni dei masterpieces di Pesce, realizzati in collaborazione con Meritalia, come il sofà Michetta, il divano Insieme, e alcune delle sue poltrone tra cui La Sfogliata, La Pagnotta e Us&Them. «Il tempo è un’arma vincente», afferma Chiara, «se è concepito come il tempo dell’evoluzione, della crescita, del lavoro, della passione, dei passaggi di consegna. Oggi si vuole diventare noti in poco tempo quando invece per rimanere solidi e lasciare il segno si deve diventare complici del tempo. Pesce è un esempio di questa solidità. Inoltre, rappresenta l’italianità e la creatività italiana lavorando in modo eclettico con materiali innovativi, senza perdere mai di vista

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la funzionalità del pezzo che sta realizzando. Come un orologio prestigioso ma fuori dal rigore classico, che custodisce all’interno la più raffinata tecnologia, garanzia di eccellenza. Non abbiamo voluto essere semplici contenitori di questo progetto ma veri complici, per poter costruire una storia che possa avere continuità». «Questo vuole essere un omaggio a un grande artista», spiega Francesca Meroni, «un nome che ha accompagnato la nostra avventura professionale e familiare. Un tributo a una lunga carriera, costruita con grande amore per il proprio lavoro. Amore che ha distinto e distingue tuttora la filosofia della nostra azienda, che quest’anno festeggia 25 anni di attività, così come la storia della famiglia Pisa». «Abbiamo la stessa visione di Meritalia per la ricerca e la qualità», continua Chiara Pisa, «grande insegnamento che ho ereditato da mio nonno, convinto di scelte azzardate e audaci fatte proprio in periodi difficili come quello che stiamo vivendo ora, da affrontare con nuovi progetti, lontano da qualsiasi forma di staticità. In un momento così, trovo stimolante confrontarmi con i grandi maestri, così come continuare il lavoro di talent scout, così come abbiamo fatto per le manifatture orologiere del nostro multibrand di via Verri». Uno sguardo verso orizzonti lontani, per creare un futuro in cui si vogliono raccontare ancora tante storie fatte da uomini, idee e valore. A partire dal polso!

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Imprese

ELEGANTE QUALITÀ Sedie «Moka e Roka», gambe in faggio, rivestimento in tessuto con laterali in pelle rosso inglese. Cucitura a mano con ago ricurvo. Nella pagina a destra: lampada da tavolo «Misultin», prende il nome da un pesce del lago di Como. Struttura e pesce in bronzo martellato, paralume in lino.

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Si chiama Promemoria il mondo dei complementi d’arredo realizzati dalla famiglia Sozzi, artigiani con il gusto del bello, della perfezione e dell’armonia. Una realtà che affonda le proprie radici nell’Ottocento e vive di sogni fatti di alta falegnameria e pelli pregiate

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Scuole d ’eccellenza

L’aria di lago si percepisce appena sotto le montagne che incorniciano Valmadrera, alle porte di Lecco. Eppure è proprio il lago descritto da Alessandro Manzoni a costituire l’ideale baricentro della famiglia Sozzi: artigiani con un gusto per il bello, per la perfezione, per l’armonia, che già dalla fine dell’Ottocento riparavano le carrozze degli aristocratici locali. E che oggi, tramite Romeo Sozzi e i suoi tre figli, collaborano con una nuova aristocrazia: quella che sa scegliere i complementi d’arredo più curati e prestigiosi per i propri spazi, e che da Hong Kong a Mosca, da Milano a New York riconosce in Promemoria (l’azienda di famiglia) un interlocutore in grado di trasformare ogni sogno in realtà. Promemoria: ovvero, ricordarsi ciò che occorrerà fare domani. Tendersi verso il futuro mantenendo stabile il ricordo di chi si è e di chi si è stati. Aprire la mente ai desideri di un mondo che si proietta continuamente in avanti, sapendo padroneggiare tutti gli elementi e gli strumenti del lavoro: Romeo Sozzi conosce il funzionamento di tutte le macchine, si muove a proprio agio tra la falegnameria e l’ufficio pellami, sa imbracciare un arco ligneo di 180 centimetri di sviluppo (che costituirà il sostegno di una sedia) e posizionarlo con precisione sotto la cucitrice, che lo rivestirà di prezioso cuoio. Conosce i macchinari più tecnologici, e ne supervisiona il funzionamento: ma conosce molto bene anche il più raffinato degli strumenti, ovvero la mano dell’uomo, e intorno a questa mano ha costruito una couture del mobile che oggi impreziosisce le case di

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Attorno alla manualità hanno costruito una couture del mobile

attori, stilisti, gioiellieri, bon vivant e imprenditori, designer e discreti miliardari. Tavoli rivestiti in galuchat e lavorati come una borsetta preziosa. Sedie in cuoio selezionato come se si dovessero tagliare le scarpe per una regina. Armadi come il mitico George: ogni centimetro è rivestito da velluti, sete o tessuti esclusivi, prodotti presso le più selezionate aziende tessili italiane. O cassettiere impreziosite da tessuti realizzati ad hoc, e rifinite in coccodrillo. Sedie per esterni in quercia e frassino, i materiali delle antiche imbarcazioni italiane, su cui vengono pazientemente stese cinque mani di vernice all’acqua per renderle resistenti alle intemperie. Intarsi lignei come quadri d’avanguardia: il legno di palma con le sue venature selvagge su fondo scuro e profondo, l’ebano che si illumina come se una fiamma venisse fatta passare dietro il cuore stesso del legno. Colori sensibili, toni e sfumature esclusive che parlano di scelte, di tempi, di un’umanità che solo il pezzo artigianale ed eccellente sa ancora comunicare. La sensualità materica di ogni complemento creato da Promemoria trasmette non soltanto uno stile, sempre sviluppato in accordo con il committente, ma anche una visione: quella di Romeo Sozzi e dei suoi tre figli, Stefano (ebanista, che lo coadiuva nella scelta dei legni), Davide (laureato in architettura) e Paolo (che porta avanti ricerca e sviluppo). Insieme gestiscono un centinaio di maestri d’arte che lavorano come in un laboratorio di alta orologeria: non un truciolo resta sul pavimento della falegnameria, non un

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IL VERO FATTO A MANO Un dettaglio della cucitura fatta a mano. La lavorazione rispetta un’antica tradizione che risale all’Ottocento quando la famiglia Sozzi era già conosciuta per la propria attività. Nella pagina a sinistra: un’immagine del processo di colata del bronzo. Cassettiera ’700, rivestimento in galuchat verde smeraldo, pomoli in bronzo. Al centro: «Future Voyager», cassettiera rivestita in tessuto e pelle cognac.

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Scuole d ’eccellenza

ritaglio di pelle viene lasciato sotto un tavolo, non un solo artigiano si muove senza la calma consapevolezza che ogni gesto deve portare a una perfezione assoluta. La curiosità, la perizia e l’umiltà di chi sa sempre mettersi in discussione sono aspetti fondamentali per lavorare da Promemoria: caratteristiche che Romeo Sozzi riflette in pieno, e che ben si ritrovano nel suo simbolo porte-bonheur – la rana. Un animale allegro, curioso, che va sempre in avanti; un esserino che salta sulla terra, nuota sott’acqua, respira nell’aria. Una presenza sorridente che invade l’ufficio di Romeo, dove migliaia di libri sono disposti tra le collezioni di penne (moltissime le Montblanc e le Omas) e di occhiali. Ogni mobile naturalmente è eseguito a mano e in edizione limitata, ma con l’aiuto imprescindibile delle tecnologie: i tessuti e i pellami sono seleziozionati uno a uno e ricontrollati daa Romeo stesso, ma le dime sono poi tagliate a laser per ottenere il massimo della perfezione. Ovvero: la tecnologia potenzia il gesto umano e lo rende ancora più eloquente, ma senza mai sostituirlo. Le professionalità si completano sulla base di un severissimo controllo delle materiee prime, e di un’attenta ripartizione ne delle competenze. I marmi vengono no lavorati da due artigiani italiani scelti celti tra i più capaci, sensibili al linguaggio ggio del design e della perfezione. Sei sono i maestri scelti per lavorare sui metalli etalli come il bronzo, il rame o l’argento. to. I

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La tecnologia potenzia il gesto umano e lo rende più eloquente, sostituirlo senza sostitui lo

pomelli e i dettagli in vetro vengono dalle fornaci di Murano. Le concerie inviano le pelli da Vicenza e da Santa Croce in Val d’Arno. I tessuti sono i più nobili e raffinati che le aziende tessili italiane riescano a confezionare. Le essenze lignee, nazionali o esotiche, vengono selezionate e spesso lasciate maturare sino a liberare la patina giusta, l’esatta sfumatura che servirà per realizzare gli impressionanti tavoli lunghi oltre due metri, e tagliati in un solo pezzo. Le impiallacciature vengono eseguite due volte, usando la stessa essenza: perché solo così si può essere certi che non vi sia un solo difetto, una sola imprecisione nelle sfumature o nelle realizzazioni. Questa preziosa capacità progettuale e realizzativa ha reso Promemoria l’interlocutore privilegiato di alcuni blasonati marchi di lusso, che a loro fanno produrre loro mobili: e fregiarsi parecchi dei lo di fornitori di simili del titolo d vale più di uno stemma Maison va Ma per Romeo Sozzi, il regale. M riconoscimento più ambito sta riconosc bellezza che traspare da nella be suo pezzo. Da ognuno ogni su degli straordinari comde plementi (armadi, poltrone, cassettiere, letti, cucine) che portano in tutto il mondo la purezza, la nobiltà, il lavoro paziente e straordinario che ogni giorno i monti del Lecchese silenziod ssamente osservano.

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NEL SEGNO DELLA RANA Sedia Caffè, schienale in faggio antico con rivestimento in pelle grigia martellata. Nella pagina a sinistra, tavolino da gioco Bassano, in ebano, top con piano rimovibile per giocare a dama, backgammon e carte. Dettaglio delle pedine intarsiate in ebano e acero con rana, simbolo di Promemoria. Poltrona Nina in velluto. Un artigiano lavora il top di un tavolo intarsiato. Romeo Sozzi, anima e cuore di Promemoria.

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Restauro

L’ARTE

FABRIZIO MARCHESI

Gli ambienti del Laboratorio di Restauro del Triennale Design Museum: dove si conserva la memoria della modernità

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Il dibattito sul restauro dell’arte contemporanea e del design è oggi più che mai vivo e problematico a livello internazionale. In Italia, alcuni contributi teorici fondamentali, da Crispolti a Poli, Rava e Cantore hanno tracciato in anni recenti le coordinate di questa riflessione critica, facendo emergere in primo luogo la difficoltà di utilizzare schemi teorici e metodologici sistematici per una realtà in continuo divenire, articolata e dinamica. Tutta la produzione artistica del Novecento ha messo profondamente in discussione il concetto di «durata» e di conseguenza il modello stesso d’intervento conservativo. A trentacinque anni dallo storico convegno del 1987 al Castello di Rivoli, che faceva per la prima volta in Italia il punto sul tema, molto recentemente (10/11 febbraio 2012) nella stessa prestigiosa sede si è tornati a parlare di teoria e pratica del restauro dell’arte

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di Alessandra de Nitto

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NASCOSTA IL LABORATORIO DI RESTAURO DEL TRIENNALE DESIGN MUSEUM E LA STRAORDINARIA ESPERIENZA DI CONSERVAZIONE DEL CONTEMPORANEO

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S ceus ot al eu rdo’ e c c e l l e n z a R

FABRIZIO MARCHESI

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Piero Giraldi, Capitello, e Gufram 1970, Collezione ere permanente: una delle opere sso sottoposta a restauro presso le i Laboratori della Triennale

h ha h visto i riuniti i i i i magcontemporanea in un appuntamento che giori studiosi e specialisti della scena internazionale, per analizzare gli sviluppi della ricerca in un settore continuamente in progress. Tema più ampio di riflessione, oltre all’evoluzione della disciplina, dei nuovi materiali, delle nuove tipologie di opere da conservare, quello sul ruolo del museo nella diffusione e conservazione del contemporaneo. Per quanto riguarda il design, l’esperienza del Triennale Design Museum fa scuola non soltanto sul piano di una nuova, avanzata concezione del museo e del suo ruolo, ma anche per l’approccio estremamente consapevole, aperto e problematico rispetto alle tematiche del restauro oggi. Il Laboratorio di restauro nasce in concomitanza con l’apertura del Triennale Design Museum: una realtà museale all’avanguardia la cui concezione profondamente innovativa ha aperto la strada a diverse analoghe esperienze a livello internazionale. Inaugurato nel dicembre 2007, il museo ospita la Collezione Permanente del Design italiano ed è punto di riferimento di una vasta rete di «giacimenti» presenti sul territorio (collezioni private, musei d’impresa, raccolte specializzate). Nasce come museo aperto e dinamico, capace di rinnovarsi proponendo sguardi inediti e inaspettati, prospettive sempre diverse in grado di coinvolgere il visitatore invitandolo ogni volta a tornare per nuovamente emozionarsi e interrogarsi. Non solo dunque luogo di tutela e di memoria ma laboratorio di ricerca, di scoperta del nuovo, di apertura al mondo. Al suo interno, due spazi permanenti che ne aprono e chiudono simbolicamente il percorso: il Teatro Agorà, su progetto di Italo Rota, suggestivo scenario di eventi e incontri, e il CreativeSet, di Antonio Citterio, dedicato a esposizioni sul design contemporaneo, con un’importante azione di scouting e promozione delle nuove declinazioni della creatività italiana e uno sguardo aperto alle esperienze di Paesi lontani, dalla Cina alla Corea al Brasile. Sulla soglia di questo spazio così denso si colloca emblematicamente il Laboratorio di restauro, centro dedicato conservazione, alla sperimentazione tecnologica e alla riflessione critica sulla teoria e metodologia del restauro del contemporaneo. Anche in questo caso, una realtà unica in Italia e, benché giovane, fra le più avanzate a livello internazionale. Il Laboratorio opera in stretta connessione con diversi istituti universitari, quali il Politecnico di Milano e Ca’ Foscari di Venezia, che ne supporta l’attività a livello della diagnostica e della scienza dei materiali. Primo oggetto di tale attività è naturalmente la collezione storica (ma non solo, perché molti sono anche gli interventi su opere che transitano nelle continue mostre temporanee), che necessità di un’azione ampia e continua di manutenzione. I materiali su cui ci si trova ad operare sono molto variegati, da quelli tradizionali (legno, metallo, ceramica

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etc.)) alle ll plastiche l i h semisintetiche, ii i h fino a quelle più recenti con caratteristiche speciali. La sola conservazione ordinaria prevede una serie di operazioni specifiche (ad esempio, la disinfestazione periodica del legno, in genere ogni sei anni). Il degrado può avere cause diverse e le problematiche dei materiali sono innumerevoli. Per questo il Laboratorio si avvale dei migliori enti e professionisti esterni sul campo: «Funziona come scambiatore e attivatore di competenze altamente specializzate», ci spiega Silvana Annicchiarico, direttore del Triennale Design Museum. È fondamentale raccogliere preliminarmente una documentazione il più possibile ampia e completa sull’opera, farne un check dettagliato, racconta Barbara Ferriani, coordinatrice delle attività del Laboratorio. Ogni specifico problema viene affrontato prima dal punto di vista dell’integrità estetica e storica, poi da quello della valutazione dell’intervento giudicato ottimale. Non esiste una metodologia fissa e codificata. Tra le questioni più frequenti, ad esempio, come bloccare il degrado di certi materiali; se e come sostituire pezzi mancanti, come procedere nella pulitura, come evitare il problema del «contagio» fra materiali… perché la collezione è un organismo vivo, al cui interno si attivano dinamiche e meccanismi inaspettati, spiega il direttore. Non si tratta dunque solo del luogo in cui si «curano» gli oggetti: è soprattutto uno spazio di studio e di riflessione, spiega. Ogni caso è unico e risulta fondamentale affrontare gli oggetti di design con un approccio specifico, che tenga nella giusta considerazione, oltre alla conoscenza dei materiali e delle loro caratteristiche, il tema della funzione d’uso. Il nuovo progetto di Silvana Annicchiarico è quello di ampliare lo studio dei materiali e delle tecniche attraverso lo scambio e la condivisione di esperienze con i diversi attori della Rete dei Giacimenti, per garantire così attraverso la ricerca, la sopravvivenza e la trasmissione della cultura del saper fare. Sotto la sua direzione, il Laboratorio ha intrapreso il restauro dei modelli in legno della Collezione Sacchi: «Dopo avere redatto i condition reports di tutti gli oggetti, ha programmato e attuato gli interventi di conservazione preventiva che permetteranno di monitorarne e controllarne lo stato di conservazione nel tempo. Nel contempo è stata avviata una ricerca volta a individuare le tecniche esecutive e le cause, intrinseche o accidentali, che hanno determinato problematiche conservative su alcuni oggetti. Grazie alla collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato possibile eseguire indagini diagnostiche su un gruppo significativo di manufatti e avviare, sotto la supervisione della Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico della Lombardia, i necessari interventi di restauro». Una straordinaria case history di conservazione del contemporaneo.

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IL METODO NELLA SUA LUNGA ATTIVITÀ, GIOVANNI SACCHI (1913-2005) HA REALIZZATO CENTINAIA DI MODELLI IN LEGNO PER I PIÙ IMPORTANTI DESIGNER ITALIANI, DA NIZZOLI A ZANUSO, DA CASTIGLIONI A ROSSI, A SAPPER. SOSTITUITI DALL’INFORMATICA E DAL VIRTUALE, DOCUMENTANO IN MODO STRAORDINARIO IL METODO DI LAVORO E DI RICERCA DEI GRANDI MAESTRI. NELLA LORO ESSENZIALE BELLEZZA PREFIGURANO L’OGGETTO A VENIRE IN SCALA 1 A 1 E CI RESTITUISCONO TUTTO IL FASCINO E LA COMPLESSITÀ NON SOLO DEL PROGETTO MA ANCHE DEL SAPER FARE MANUALE.

TONY NICOLIN

WWW.PATRIMONIOINDUSTRIALE.IT

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FAR VIVERE LA MATERIA Modelli in legno Triennale Design Museum, collezione Giovanni Sacchi, courtesy Regione Lombardia, archivio fotografico Triennale: in alto, da sinistra, Mirella, Marcello Nizzoli, Necchi 1957; 9090, Richard Sapper, Alessi 1979; sotto, a sinistra, Algol, Richard Sapper, Marco Zanuso, Brionvega 1967; a destra, la Lettera 22, Marcello Nizzoli, Olivetti 1950.

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O ac ct ht ei de lrlai l i d e l s a p e r e C

Design umano AD ALTO CONTENUTO

Ricerca e sperimentazione convivono in Dilmos, uno degli spazi espositivi più prestigiosi di Milano, dove opere diversissime dialogano e comunicano con forza straordinaria e coinvolgimento emotivo

di Alessandra de Nitto - foto di Emilio Tremolada

Dal 1980 nel cuore di Milano, in via Solferino, Dilmos è uno degli spazi espositivi più significativi e prestigiosi nel mondo del design e delle arti applicate a livello internazionale e uno dei suoi luoghi più interessanti e attivi nella ricerca e nella sperimentazione. Ci parla di questa straordinaria esperienza Luisella Valtorta, titolare con Sergio Riva della galleria che in questi decenni ha ospitato i più importanti nomi del design storico e d’avanguardia: una signora bionda e minuta, di un’eleganza sofisticata e insieme naturale, tanto energica quanto amabile. Passione e rigore, entusiasmo e intransigenza sono alla base del suo lavoro e lo si capisce al primo incontro. Viaggiatrice instancabile e curiosa, sempre sulle tracce delle nuove tendenze dell’arte e della creatività, ci racconta che la sua avventura è partita dall’arte contemporanea: poi, ancora giovanissima, è affascinata completamente dal domestico, inizia a riflettere sulla qualità dell’abitare, sulla poetica dell’oggetto. Inizialmente la galleria espone oggetti emblematici del design moderno e mobili di aziende molto contemporanee; dopo pochi anni inizia a promuovere anche un’importante attività espositiva. È del 1985 la prima mostra di Alessandro Mendini, che segna l’inizio di una serie di personali e collettive con i maggiori designer del momento, da Sottsass a Deganello, da Branzi a Marano a Santachiara. «Differenze», nel 1988, è anche un inedito esperimento di collaborazione creativa fra designer. E proprio sul concetto cardine di differenza si muove la ricerca di Dilmos, mettendo in comunicazione linguaggi, stili e poetiche diverse. «La differenza è centrale, crea tensioni positive»: un concetto che si coglie pienamente visitando il bellissimo spazio della galleria. Nell’ampio ambiente luminoso, disposto su due livelli, opere diversissime dialogano e comunicano con forza straordinaria, suscitando un coinvolgimento emotivo immediato. La collezione di specchi IX Mirrors di Ron Gilad, le Wonderlamp di Studio Job & Pieke Bergmans, i Totem della serie Tronchi di Andrea Salvetti, la poltrona

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Mirror X, dalla collezione IX Mirrors, design Ron Gilad per Dilmos, 2011. Specchio in ďŹ berglass rivestito in pelle, limited edition di tre esemplari.

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Occhielli

La ricerca è nei Paesi dove la scuola incoraggia talento e pensiero ma i giovani designer e creativi di tutto il mondo vengono in Italia per acquisire una legittimazione culturale Cake Stool dei brasiliani Fernando e Humberto Campana; i vasi Talea di Daniele Papuli, paper artist; le sedute e i tavoli Sassoft di Akomena, i Reformed Objects di Adrien Petrucci… Oggetti fortemente poetici, la cui intensa «presenza» qualifica e anima lo spazio. «Oggi più che mai il design», afferma Luisella Valtorta, «deve mettere al centro l’uomo e la qualità della sua vita, occuparsi dei suoi bisogni fondamentali, suscitare emozione e insieme stimolare il pensiero». Ma da sempre Dilmos predilige oggetti ad alto contenuto «umano», capaci di esprimere il carattere, l’individualità dell’autore, con una speciale forza comunicativa e narrativa. In questo si coglie la coerenza esemplare del suo percorso, pur nella molteplicità e ricchezza delle proposte autoriali, che spaziano dal rigore al ludico, dal minimalista all’iperdecorativo, sempre nel segno della ricerca più originale e innovativa. Approcciare l’autore, l’artista dietro all’opera è stata la grande scommessa. Per questo Dilmos diventa anche editore, vivendo la creazione in prima persona a fianco dell’autore, interagendo con lui nel più grande rispetto della sua individualità e del progetto. In questo processo entra in gioco anche il ruolo dei maestri artigiani, spesso coinvolti in modo fondamentale nell’opera. «L’artigiano oggi deve avere cultura, conoscenza dei materiali e delle tecnologie. Il suo ruolo è basilare: egli è l’esecutore della sensibilità del progetto. La maestria artigiana è un grande valore, ma solo nella misura in cui è capace di sposare la cultura del progetto e vivere nella contemporaneità». Per Dilmos quella di non specializzarsi è una precisa scelta. L’interesse è su tutti i materiali, dalla ceramica al vetro, dai metalli al mosaico, dal legno alla carta, dalle materie plastiche al tessuto. «Ci interessa promuovere la grande manualità storica

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italiana portandola nella contemporaneità»: è il caso, emblematico, di Akomena, che ha saputo magistralmente rinnovare la grande tradizione del mosaico ravennate grazie alla ricerca e alla sperimentazione nel campo del design e dell’architettura d’interni. Vera pioniera delle tendenze più contemporanee del design e delle arti applicate, appassionata scopritrice di talenti, Luisella Valtorta ha la soddisfazione di poter dire che «anche l’azienda oggi comincia ad accostarsi al concetto di poetica dell’oggetto, valorizzando l’individualità dell’artista, l’umanità del progetto». Non soltanto: l’autoproduzione, di cui Dilmos è stata prima promotrice in Italia, si afferma oggi come tendenza portante del design contemporaneo. Dilmos ha toccato in grande anticipo questo fenomeno e l’ha sempre sostenuto. E l’Italia, le chiediamo? Può ancora vantare un prestigio internazionale nel mondo del design e delle arti applicate? Ci risponde che «oggi la ricerca è altrove, nei Paesi dove la scuola incoraggia il pensiero e il talento: alla Design Academy di Eindhoven, all’Ecal di Losanna, al Royal College of Art di Londra…». Ma per i giovani designer e creativi di tutto il mondo l’Italia resta un punto di riferimento: per la sua storia, per i suoi grandi nomi, per le sue straordinarie aziende, per la manualità eccellente che è ancora patrimonio diffuso. Gli stranieri vengono in Italia, e soprattutto a Milano, non soltanto per realizzare e produrre qui le loro opere quanto per acquisire una sorta di «paternità», di legittimazione culturale. Il successo del Salone del Mobile ne è testimonianza. È vitale però mantenere e difendere questo primato, non viverlo come una sinecura: a partire soprattutto dalle nostre scuole, che dovranno compiere un grande sforzo di apertura e di contemporaneità, investire nella ricerca e nella sperimentazione, dialogare con le più importanti realtà internazionali, lavorare con i professionisti e collaborare con il mondo dell’industria in modo continuo e strutturato. «È una sfida che possiamo vincere, abbiamo la storia e la cultura per farlo».

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NEL SEGNO DELL’EDITORE Da «Terra terra», Andrea Salvetti, presentato da Dilmos per il Salone del Mobile 2007, albero in fusione di alluminio, realizzato con foglie intrecciate. A sinistra, in alto, «Against the wall», Danny Lane, presentata da Dilmos per il Salone 2009, scultura di lastre di vetro unite per compressione. A destra, «Wonderlamp», Studio Job (fusione in bronzo) e Pieke Bergmans (bulbi luminosi), realizzata per il Salone 2010. A sinistra, «The Ladder and the Shade», da Reformed Objects, Adrien Petrucci, legno scarnificato ricomposto in una nuova forma.

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Manualità di tradizione

ORO

È tutto

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di Marco Gemelli

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quello che luccica È LA MATERIA CELEBRATA DAI FARAONI E DONATA A UN BIMBO DI NOME GESÙ. RIDOTTA IN LAMINE SOTTILISSIME ESALTA STATUE E ARREDI. CON LA MANO DI MANETTI BATTILORO

q,.Il numero atomico è il 79, il simbolo è Au. Celebrato dal faraone Den, esaltato da re Mida, plasmato per la maschera di Agamennone, donato dai Magi a un bambino di nome Gesù. La sua materia è purezza solo a 24 carati. I suoi maestri sono amanuensi come sarti, vestono le superfici di statue, esaltano le cornici dei palazzi, si insinuano nei tessuti. È un’alchimia quella del «battiloro», l’artigiano che riduce il metallo prezioso in lamine e fogli spessi come un velo. Un mestiere d’origini antichissime che oggi, nell’era dell’automatismo industriale e delle riproduzioni in serie a prima vista indistinguibili dall’originale, è tutt’altro che precipitato nell’oblio. Erede di una tradizione che affonda le proprie radici nei secoli, il vero battiloro sa che la sua opera trascende il valore economico del metallo, ma ne esalta la valenza simbolica. Accade dagli albori della civiltà, quando il Sole veniva adorato come divinità. L’abbigliamento dei sacerdoti doveva richiamare la brillantezza di quel giallo per ribadire il contatto con la dimensione ultraterrena. L’oro doveva essere presente in ogni raffigurazione della divinità, a sottolinearne potenza e immortalità. Legittimava il potere, temporale o spirituale, a tal punto da aver mantenuto a tutt’oggi echi di questa ancestrale funzione. Presso le prime civiltà, Egitto, Grecia, poi Roma imperiale, quello del battiloro era un lavoro lungo e faticoso. Per le difficoltà a reperire l’oro, per tempi e modalità di trasformazione della materia prima. Il risultato era però notevole: battendo il metallo gli orafi egizi riuscivano a lavorare l’oro in fogli che non superavano gli

LA PUREZZA A 24 CARATI Il battiloro è un artigiano specializzato capace di trasformare la materia e di ridurre un lingotto in lastre sottili fino a 0,01 millimetri di spessore. Veri e propri fogli che vengono posizionati a mano su statue o come rivestimenti per palazzi e legni pregiati. Il risultato che si ottiene è lo splendore dell’oro che esalta opere come le statue che dominano la facciata dell’Opéra Garnier di Parigi.

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Manualità di tradizione

0,01 millimetri di spessore. Plinio il vecchio racconta inoltre che da ogni oncia d’oro si potevano ottenere 750 fogli o più «della misura di quattro dita in ambo i sensi». E così foglia dopo foglia, questi plasmatori hanno fornito la materia e la conoscenza con cui gli artigiani hanno poi ricoperto le statue, i monumenti, i complementi d’arredo ma anche le architetture come cupole, luoghi di culto e palazzi. Abilità manuali e tecniche in tutto il mondo vengono riconosciute come feudo di pochissimi artigiani, in primis italiani, che da secoli padroneggiano l’arte di

vestire le superfici con la materia simbolo per eccellenza della regalità. Nella Firenze del Rinascimento le botteghe di battiloro attirarono l’attenzione di Leonardo che, a fine XV secolo, progettò una macchina capace di ridurre lo spessore delle lamine d’oro da 500 fino a 30 micron. Da allora in città non si è mai interrotta la tradizione di produrre la «foglia d’oro». Un documento stabilì nel 1403 che da un fiorino, la moneta dell’epoca, dovessero essere ricavati 50 fogli d’oro di dimensioni pari «alla nona parte di un braccio fiorentino», circa 7 centimetri. E proprio a Firenze c’è una famiglia che, dall’Ottocento, si tramanda i segreti della lavorazione aurea: la Giusto Manetti, in origine una bottega in riva all’Arno, sviluppata col trascorrere degli anni, dal capostipite Luigi al figlio Giusto, fino alla sesta generazione che vede Bonaccorso come presidente e Leonardo vicepresidente, fino a piccola industria, senza però abdicare alle prerogative artigianali. Dai lavori sotto il Regno d’Italia, passando attraverso due guerre mondiali e l’alluvione del 1966, le foglie dei battiloro fiorentini hanno raggiunto e impreziosito il Cremlino, la Galleria degli specchi di Versailles, i cancelli di Buckingham Palace, la cupola interna del Santo Sepolcro, la Gold pyramid del New York Life e la statua di Prometheus del Rockefeller Center. Il ciclo di lavorazione è immutato: un lingotto d’oro puro 24 carati viene fuso (con rame e argento, per determinare la colorazione) a oltre mille gradi e ridotto a lamina di pochi micron di spessore, facendolo passare per due cilindri. Servono dieci ore per questo. Il nastro ottenuto viene tagliato in quadret-

LE REGGE DEL MONDO La foglia d’oro impreziosisce le regge: sopra, la Galleria degli specchi nel Palazzo di Versailles. In alto, il Prometheus, simbolo del Rockefeller Center a New York, ricoperto da foglia d’oro 23,5 carati. Il lavoro degli artigiani fiorentini è legato alla realizzazione della foglia e alla supervisione dopo la fornitura. A destra, le fasi della lavorazione: fusione nel crogiuolo (al centro), battitura, taglio. Tra le applicazioni più curiose anche una moto che ha corso la Dakar.

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Manualità di tradizione

ti grossi come francobolli, inserito tra fogli di carte speciali e nuovamente battuto con martelli di forme e pesi diversi, fino a ottenere foglie dello spessore di pochi decimi di micron. Poi l’oro viene ritagliato a mano in misure standard (80 o 100 mm) con speciali coltelli a doppia lama, e infine, dopo l’ultimo controllo su singola foglia, inserito in libretti di carta velina. Oggi la Giusto Manetti Battiloro Spa impiega 130 persone con tre sedi e un nuovo stabilimento a Campi Bisenzio, alle porte di Firenze. Sarebbe riduttivo, però, basare il valore

dell’azienda solo sulla tradizione e sul passato. «Ecco perché», spiega il direttore marketing, Niccolò Manetti», a nostra visione non può che essere ispirata a un orizzonte temporale lontano. In un mondo dove c’è chi può riprodurre creazioni in breve tempo e a costi bassissimi, dobbiamo offrire ogni volta una qualità maggiore. Mi riferisco a quel valore aggiunto tutto italiano che arriva da fattori come paesaggio, beni culturali e gusto del bello. E poi l’uomo, il vero motore della nostra azienda». Su questo fronte, la Manetti ha saputo conciliare lo sviluppo tecnologico col volto umano della produzione. «Usiamo macchinari d’avanguardia e laser», chiosa Niccolò, «ma senza l’antica ricetta segreta della vernice che impedisce all’oro di attaccarsi ai fogli di carta non ci sarebbe nulla…». Che lo spirito dell’azienda sia rimasto vicino all’idea di bottega lo conferma un dato: nel 2011 la Giusto Manetti Battiloro ha abbandonato Confindustria per aderire a Cna (Confederazione nazionale artigianato), nonostante i fatturati, 21 milioni la Spa più 3 dal resto del gruppo, fossero più consoni all’associazione degli industriali. «È stata una scelta ragionata, non legata al fatturato, ma alla natura dell’azienda. Pensare prodotti artigianali d’eccellenza, battere nuove strade. Creare occupazione specializzata». Alla lavorazione storica della foglia d’oro la Manetti ha affiancato un utilizzo del metallo insieme al cuoio o al cotto dell’Impruneta, mentre nei prossimi mesi, dopo l’affermazione dell’oro alimentare, debutterà una linea per fini cosmetici. «Lo usava già Cleopatra. Noi», conclude Niccolò, «lo abbiamo portato nel terzo millennio».

LA SESTA GENERAZIONE L’intervento di applicazione della foglia d’oro. La Giusto Manetti è arrivata alla sesta generazione: da destra, seduti, Angelica (finanziario), Niccolò (marketing), Jacopo (amministrativo), in piedi Lorenzo (produzione, vicepresidente), Bonaccorso (presidente), Bernardo (commerciale). Nella pagina a fianco: lo stemma della cancellata di Buckingham Palace i cui fregi sono esaltati dalla foglia d’oro applicata.

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Così vesto

L’OSCAR all’italiana Gabriella Pescucci svela i segreti della lunga strada che porta all’Oscar: «Ricevo proposte, leggo copioni e li sottopongo allo spoglio. Poi devo compilare un budget, avviare un lavoro di documentazione, disegnare e scegliere tessuti da far cucire in laboratorio. Mi servono due mesi. E anche con il digitale la realtà non cambia. Perché alla fine realizzare vestiti è difficile e costoso. Ma poi...»

di Paolo Dalla Sega

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Spettacolo

Gabriella Pascucci, la costumista premio Oscar. Sopra i bozzetti per il film “I fratelli Grimm e l’incantevole strega”, regia Terry Gilliam (2005).

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Tra i tanti «mestieri del cinema» uno, in particolare, esprime significati importanti in forme straordinarie, che allo stesso tempo ricostruiscono ambienti, spazi e tempi altri e trasformano l’attore in personaggio di questo altrove. I costumi: i costumisti e le costumiste, talenti di un saper fare che spesso ha dato lustro all’Italia nell’arte dei sogni moderni. Hollywood ne è la platea più famosa, e il suo rito annuale è senza dubbio l’Oscar. Non di rado talenti italiani del fare cinema approdano all’Oscar: mandiamo in stampa quest’articolo del recentissimo felici del recentissimo Oscar di Dante Ferretti (raccontato nel numero 3 di Mestieri d’Arte lo scorso aprile) per le scene di Hugo Cabret di Martin Scorsese, ideate e realizzate con la compagna Francesca Lo Schiavo. Per i costumi il nome più splendente è quello di Gabriella Pescucci, premiata nel 1994 per L’età dell’innocenza di Scorsese, capolavoro da tutti indimenticato, al quale vanno aggiunte le candidature per altri due film importanti come Le avventure del Barone

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di Münchausen di Terry Gilliam (1989) e La fabbrica di cioccolato di Tim Burton (2006). Nativa di Rosignano Solvay, Gabriella Pescucci avvia i suoi studi all’Istituto d’Arte e quindi in Accademia, sempre a Firenze. Attorno al ’68, interrompe gli studi e fugge da Firenze a Roma: «Volevo lavorare, ero un po’ bacchettona in quegli anni di allegria… a vent’anni avevo la precisa e rara sensazione che il mondo mi aspettasse, ed ero determinata a fare questo lavoro che amo. Il cinema, i film e i loro costumi, una parte “archeologica” fatta di studio, di ricostruzione storica e viaggio nel tempo». In quegli «anni facili», bussando a varie porte si ritrova a lavorare come assistente di grandissimi come Pizzi, Donati, quindi Tirelli e Tosi, maestri di vita e lavoro, fino al suo primo film importante firmato come costumista, Addio fratello crudele di Patroni Griffi (1971). Lavora con Scola, Fellini, Leone, Rosi, e la sua carriera raggiunge vette internazionali negli anni 80 e 90, col citato Oscar del ’94 per L’età

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dell’innocenza di Martin Scorsese: «Una testa incredibile, che pensa sempre, in continuazione; ti par di sentire il tic tac del suo cervello costantemente all’opera. Il suo ultimo Hugo Cabret, delizioso anche in 2D, è un atto d’amore per il cinema delle origini, ma contiene un messaggio più profondo e ampio sul valore di far bene una cosa; Meliès non era soltanto un cineasta, costruiva, faceva, aggiustava. Lavorare con Scorsese fu faticosissimo, fu anche un gran dispendio di energie fisiche, come sempre in questo mestiere: sei responsabile di tutto quanto ha addosso un attore, anzi tutti gli attori e le infinite comparse. Anche se io con le comparse mi diverto; soprattutto all’estero, lavorare con le masse di altre paesi è davvero un modo per capire popoli diversi dal nostro: come si spogliano, ad esempio, la loro biancheria intima… E così il cinema, anche quando lo fai, ti fa conoscere la geografia oltre alla storia». Come lavora, oggi, una costumista? Che cos’è cambiato? «Ricevo proposte, leggo copioni e li sottopongo al

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cosiddetto “spoglio”, in sostanza li analizzo. Se la cosa va avanti, incontro il regista e poco dopo il produttore mi chiede un budget: anche due paginette, ma nero su bianco devo mettere una cifra che poi devo mantenere. Questo per me è complicato, mi richiede del tempo coi miei assistenti; purtroppo però, i tempi di questa fase si sono accorciati. Intanto inizio il lavoro di documentazione, e poi i disegni, la ricerca di tessuti, l’avvio di una sartoria e un laboratorio… anche qui si corre, è difficile oggi arrivare a due mesi di preparazione. E quindi il team si trasferisce sul set. I tempi si stringono sempre di più, questa mi pare la novità, magari si preferisce impiegare sempre più persone per tagliare i tempi: il tempo costa sempre di più». E il digitale? «I costumi in realtà si continuano a fare, diversamente dalle scene. Realizzare vestiti completamente in digitale è difficile e costoso. Ricordo un film di Zemeckis, Beowulf, piuttosto integralista sulle tecnologie digitali: i vestiti erano indossati da comparse e quindi scannerizzati e trattati.

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Spettacolo

Una pazzia, con risultati imbarazzanti. In generale, io mi chiedo se non sia un problema di occhio. Le flotte greche di Troy, moltiplicate all’infinito, sono ridicole, ti accorgi benissimo che sono multipli disposti a scacchiera. Ma io mi chiedo: un ventenne se ne accorge? Detto questo, io sono curiosissima del nuovo, mi dicono che devo assolutamente vedere un nuovo videogioco, Assassins Creed, con simulazioni perfette tra Gerusalemme, Roma e Parigi. Se capita di moltiplicare i costumi, so che devo stare attenta. Di solito preparo un terzo di costumi, ad esempio 500 per altrettante comparse che poi vengono moltiplicate per tre, quindi devo evitare anomalie o colori eccentrici, che poi si moltiplicherebbero in maniera regolare e diventerebbero visibili smascherando il trucco. In un bel film, Agorà di Amenábar (2009), tornammo indietro dalla tecnologia poiché scoprimmo che 1.500 vestiti veri costavano meno, e anche le comparse: eravamo a Malta e non era difficile trovarne. Questo è il cinema, anche brutale».

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Ultimo lavoro I Borgia, serie tv scritta e diretta da Neil Jordan nel 2011: «Come avrai capito, a me piace il film in costume, tornare indietro, studiare o ristudiare la storia: niente come il cinema la racconta e la fa conoscere così bene. E noi dobbiamo conoscerla, la storia. Ad esempio, m’ero scordata di quante diavolerie combinarono i Borgia in pochissimo tempo, e senza tecnologie moderne, senza “la comunicazione”, in un passato che sembra un altro mondo rispetto a questo che viviamo». Gabriella Pescucci è ospite della Fondazione Cologni in Università Cattolica a Milano, martedì 27 marzo, in un incontro pubblico con gli studenti sui mestieri d’arte: «È importante salvare questi mestieri, cioè dar loro una vita; purtroppo sappiamo fare sempre meno, e rischia di sparire il bell’artigianato italiano come si sapeva fare. Non dobbiamo dimenticare che gli italiani hanno belle mani con cui sanno fare cose belle; e soprattutto abbiamo tutti, anche le persone più semplici, un vero istinto del bello. Non perdiamolo».

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Il bozzetto per il film «Agorà», regia di Alejandro Amenábar, disegni per il parabolani. Nella pagina a sinistra i bozzetti per «La fabbrica di cioccolato», regia di Tim Burton, Umpa-lumpa e Willy Wonka.

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Collezione MÊtiers d’Art La Symbolique des Laques, Vacheron Constantin particolare retro orologio Yukimi: contemplare la neve in inverno.

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di Lara Lo Calzo

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SUBLIMI LA COLLEZIONE MÉTIERS D’ART-LES UNIVERS INFINIS TRAE ISPIRAZIONE DALLE OPERE DELL’OLANDESE MAURITS CORNELIS ESCHER. COSÌ ABILI MANI RINNOVANO LA NOBILE TRADIZIONE DI VACHERON CONSTANTIN

La lunga storia di Vacheron Constantin, manifattura orologiera fondata a Ginevra nel 1755, testimonia con vivacità la ricchezza eccezionale dei mestieri d’arte applicati all’orologeria che, preservati con costanza e passione per oltre 250 anni, sono uno degli elementi più caratterizzanti di uno stile prezioso e inimitabile. Quello per la decorazione dei propri orologi è un autentico culto che nasce con la marca: dal gallo cesellato del primo modello conosciuto di Jean-Marc Vacheron, fondatore della Maison, fino agli straordinari esemplari di oggi, la ricerca di soluzioni estetiche eccezionali guida le scelte creative dei designer e le abili mani dei maestri che utilizzano tecniche antiche e complesse per

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Mecenatismo e maestria

Plasmare la materia con amore rispetto, donandole un’anima. Smaltatori, incisori, incastonatori trascorrono chini sui banchi un tempo fatto di piccoli gesti e grandi storie

plasmare la materia con amore e rispetto, donandole così un’anima e dando vita ad autentici capolavori in miniatura, capaci di suscitare emozioni. Smaltatori, incisori e incastonatori sono solo alcuni degli artigiani specializzati che lavorano ogni giorno per ridefinire i limiti di ciò che è possibile. Passano il tempo chini sui loro banchi, un tempo fatto d’intimità e silenzio, di piccoli gesti minuziosi e di grandi storie. «I nostri prodotti sono molto apprezzati qui e, continuando a fare meglio se possibile, cosa sempre possibile, saremo noi a dettare i gusti dei compratori. Sapete che è la mia chimera, fate in modo che si realizzi». Così scrive nel 1819 François Constantin, abile venditore, durante un viaggio in Italia in un’accorata lettera destinata al suo socio, l’orologiaio Jacques Barthélémy Vacheron. Fare meglio se possibile, cosa sempre possibile. Non è difficile immaginare come questa esigenza, diventata il leitmotiv della Maison, abbia stimolato allora Jacques Barthélémy e come incoraggi ancora oggi tanto i vertici dell’azienda quanto gli artigiani a perseguire

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Un incisore disegna il contorno delle colombe sulla base di un quadrante in oro giallo, per poi lavorarlo a champlevé. Gli alveoli così creati saranno riempiti dallo smaltatore. Il maestro della Maison, Zôhiko, esperto nel «Maki-e».

una fabbricazione accurata nel nome di una sempre maggiore qualità. Sebbene tesa verso l’avanguardia tecnologica e il dinamismo commerciale, la Manifattura rimane fedele alla propria storia in cui l’utilizzo dei mestieri d’arte applicati all’orologeria, garanti della longevità della marca, gioca un ruolo di primo piano. Questa radicata certezza si riflette appieno nella collezione Métiers d’Art dove ogni edizione limitata rende omaggio a una o più arti diverse. L’ultima nata, Métiers d’Art-Les Univers Infinis, trae ispirazione dalle opere dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher. Sul quadrante di ognuno dei tre modelli realizzati, convergono tutti i mestieri più tipici della Manifattura: incisione, guillochage, incastonatura e arte dello smalto. Per la raffinatezza del decoro e per la perizia tecnica sono stati subito definiti dalla stampa di settore «quadri da polso». Ma già in passato, Vacheron Constantin ci aveva già stupito con perle di maestria. Creata in collaborazione con il museo di arte «primitiva» Barbier-Mueller di Ginevra, la linea Les Masques propone sui

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Orologio Yukimi della collezione Métiers d’Art - La Symbolique des Laques, Vacheron Constantin. I cristalli di neve spiccano dalla lacca nera, mentre sul retro è rappresentato un paradiso invernale.

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Mecenatismo e maestria

La Maison è perfettamente consapevole dell’importanza di proteggere, trasmettere e impiegare il savoir-faire ereditato da generazioni che hanno valorizzato la tradizione

quadranti artistiche raffigurazioni in oro di maschere esotiche. Gli incisori hanno lavorato per centinaia di ore con martello, cesello e bulino per ricreare la tridimensionalità dei motivi dei volti. I modelli della collezione Grands Explorateurs celebrano invece l’arte della smaltatura, padroneggiata da Vacheron Constantin già dai primi del 1800, e sono dedicati a grandi viaggiatori come Ferdinando Magellano e Marco Polo. I quadranti riportano le carte geografiche con le principali rotte da loro seguite. Grazie alla smaltatura Grand Feu, utilizzata per questi modelli, si ottiene una decorazione di colore molto intenso. È caratterizzata da diversi strati sovrapposti di smalto, abbinati a disegni colorati dipinti a mano. Ogni fase prevede un’infornata a oltre 800°C. Basta un minimo errore, anche nell’ultima cottura, per buttare via il quadrante e dover iniziare da capo. Con oltre 250 anni di storia ininterrotta su cui contare, Vacheron Constantin è perfettamente consapevole dell’importanza di proteggere e trasmettere, oltre che d’impiegare, il savoir-faire ereditato

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Artigiano incaricato della finitura guilloché, che dà al quadrante un effetto ancora maggiore di profondità. A destra il quadrante dell’orologio Colombe inscena uno stormo di colombe rese sublimi dalle arti dell’alta orologeria.

dalle generazioni precedenti. È da questa coscienza che nasce l’attuale impegno della Maison a favore del mecenatismo in diversi Paesi del mondo. Verrà rinnovato anche per il 2012 il sostegno alle Journées Européennes des Métiers d’Art con azioni mirate in tre città: a Ginevra, a Parigi con la presentazione pratica di due mestieri tipici presso l’Ecole des Beaux-Arts e a Milano, in partenariato con la Fondazione Cologni, dove sosterrà la mostra Capi d’Opera. Le eccellenze del saper fare a Milano e in Lombardia. Nell’ambito della manifestazione, la Maison svelerà la terza e ultima creazione della collezione Métiers d’Art - La Symbolique des Laques, e inviterà un maestro della lacca giapponese per far scoprire al visitatore la tecnica ancestrale della lacca «Maki-e».Valori forti ed emozionanti, dunque, quelli che si tramandano da secoli alla Maison ginevrina attraverso i mestieri d’arte che hanno permesso alla chimera di François Constantin di trasformarsi in realtà. Mestieri che necessitano di passione, accuratezza, abilità, investimento e tempo. Vacheron Constantin lo dimostra.

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83 I mestieri dell’incisione, smalto champlevÊ, incastonatura e guillochage convivono nelle creazioni Vacheron Constantin, per comporre uno straordinario risultato decorativo.

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O ac cvhoireal zl ii o n i d i s t i l e L

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di Alberto Cavalli

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In fil di piuma, Galeotti testimonia l’artigianalità contemporanea di una lavorazione di fibre naturali, colorate e inconfondibili

Leggerezza dell’essere Da qui sono passati tutti. O meglio: tutti i più grandi. E nessuno che sia entrato in contatto con Guia, Guido e Hioette Galeotti è mai rimasto indifferente al loro lavoro, alla passione, alla straordinaria ricerca che prende vita e forma sotto le dita degli artigiani che lavorano a Firenzuola per la Galeotti Piume, laboratorio fondato sul finire degli anni Sessanta e che oggi collabora con artisti e stilisti internazionali. Come spesso accade, la storia del loro successo è una storia di famiglia e di impegno.

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Guia si occupa della ricerca e della creatività; il fratello Guido, direttore amministrativo, gestisce anche i rappresentanti e i clienti esteri, ma soprattutto applica le sue conoscenze tecniche alla progressiva trasformazione degli utensili e dei macchinari, sino a farne dei pezzi unici in mano ad artigiane specializzate. E Hioette, la moglie di Guido, gestisce gli ordini delle materie prime e si occupa dei contatti con i clienti esteri. L’attività di questa azienda dal cuore artigianale, che in quasi cinquant’anni non

Nella pagina a sinistra, le preziose piume di fagiano vengono usate per una stola leggerissima, dall’eleganza ricercata.

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Lavorazioni di stile

ha mai abbandonato la sede produttiva tra le dolci linee dell’Appennino, si configura non solo come eccellente e innovativa, ma anche come estremamente rara. Perché rara è la materia prima: la piuma, «una delle fibre naturali più morbide, più calde e più lussuose che possano esistere in natura», come dice Guia. Manipolata, trattata, decontestualizzata, la piuma esplora oggi nuovi percorsi per conquistare spazi finora preclusi; perché quando la mano dell’uomo è guidata dal rispetto per la memoria racchiusa nella piuma, allora si generano opere di abilità, esperienza, conoscenza e gusto. «Usiamo piume vere di uccelli allevati in cattività per scopi alimentari, raccolte e selezionate in ogni parte del mondo su nostre indicazioni specifiche, sottolineando l’assoluto rispetto per la natura e gli animali» specificano in atelier. «Con speciali trattamenti, tinture e innovative tecniche di montaggio, rendiamo duttile il materiale naturale e lo adattiamo alle esigenze specifiche». Grazie a un processo delicatissimo di rimozione della parte più rigida della piuma, i Galeotti riescono a fornire un materiale che diventa di una morbidezza estrema:

meravigliosamente leggeri, e consentendo agli stilisti di potenziare la loro capacità creativa grazie alla perfetta interpretazione che qui si fa dei loro progetti. «Negli anni siamo riusciti ad arrivare a filati tessibili estremamente leggeri, con effetti morbidi o particolarmente secchi, tinture tie & dye, effetti bagnati, laccati». La piuma è materia che custodisce la vita: l’autenticità del materiale diventa supporto indispensabile a un progetto estetico che si pone in dialogo costante con la creatività, la tecnica, la ricerca, la visione. E l’innovazione: tutte le modellature sono oggi possibili, grazie alle nuove caratteristiche di perfetta flessibilità e impalpabilità che si ottengono con l’impegno e la ricerca di anni dedicati alla bellezza, al mestiere, alla traduzione in realtà dei progetti dei più grandi creativi. Come Alexander McQueen, Etro, Dolce & Gabbana, Gucci, Ermanno Scervino e molti altri. «La piuma è espressione di un lusso sottile, di un’eleganza fatta di magnetismo, movimento e tattilità» dice Guia: qualità mantenute solo grazie all’intelligenza della mano di chi sa esplorare le infinite potenzialità di un materiale già così ricco di fasci-

Sulle colline del Mugello una realtà che difende la tradizione ma punta molto sull’innovazione, con una tecnologia rispettosa delle qualità genuine e uniche

come ricorda Guia, «il nostro mestiere impone il recupero delle antiche tecniche di manualità dell’artigianato puro affiancate però alla più moderna tecnologia sperimentale». Una visita al loro atelier permette di entrare in contatto con la parte più nobile e bella della moda italiana: quella dove la creatività diventa lavoro, passione, intuizione. E naturalmente innovazione: «Il piccolo numero di aziende che lavorano la piuma ornamentale ci ha imposto di sviluppare tecniche e soluzioni produttive riadattando macchinari nati per altre produzioni, o molto spesso inventando sistemi e macchinari complessi» dice Guido. Sua è per esempio l’idea di riadattare molti dei macchinari in uso per renderli più efficaci, e quindi adatti alla lavorazione del mitico «fil-piuma»: un filo ottenuto usando solo la parte piumosa e morbida, così leggero che può essere ritorto e persino tricottato. Ottenendo così capi

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no che il design, se eccessivo, rischia solo di soffocarne la magia e l’identità. La politica aziendale di Galeotti si fonda sull’impegno costante per legare sempre più un artigianato ispirato con una tecnologia rispettosa delle qualità genuine. Che portano naturalmente la firma di un lusso intelligente. «Caratteristica fondamentale del lusso è la possibilità di riappropriarsi di un significato originale, autentico, imprescindibile dall’artigianato» dicono in azienda. Un artigianato consapevole che innerva un lusso vitale, raro e misterioso. E rispettoso: «Da sempre cerchiamo di disincentivare chi chiede piume provenienti da uccelli protetti» dice Guia. «Nel più completo rispetto della natura, che è da sempre la nostra fonte di ispirazione, nascono le nostre creazioni». Che risplendono sulle passerelle di tutto il mondo, sussurrando l’importanza e la raffinatezza del più autentico artigianato italiano.

Look della collezione Etro Autunno/Inverno 2012-13, la giacca è realizzata con piume Galeotti. I macchinari sono spesso stati modificati così da adattare la ricerca tecnologica alle vere tecniche artigianali. Tra le lavorazioni più innovative vi è il filpiuma, un filo ottenuto usando solo la parte piumosa e morbida.

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Sapori e saperi

LA FABBRICA DI

Cioccolato FORME, COLORI E PROFUMI DEL LEGGENDARIO CIBO DEGLI DEI TROVANO CASA IN UN LABORATORIO DI PONTEDERA DOVE UNA MAESTRA D’ARTE HA DEDICATO ALLA NONNA IL NOME DI UN SOGNO: AMEDEI. COSÌ ALLA SELEZIONE DEL CACAO SI UNISCE LA RICERCA DEL PIACERE. IN UN TRIONFO DI PREMI

«Se si dovessero distruggere tutti i sogni degli uomini, la terra perderebbe le sue forme e i suoi colori, e noi ci addormenteremmo in una grigia stupidità», scriveva Anatole France in Thaïs. Il sogno di Cecilia Tessieri, infaticabile anima del cioccolato Amedei, ha da sempre rivestito le forme, i colori e i profumi del leggendario cibo degli dei, venandosi anche di un’ambizione forse un po’ folle: produrre il miglior cioccolato del mondo. Ma Cecilia sa che dietro ogni sogno si nasconde il valore di un progetto: e come gli antichi liutai partivano dal natio borgo di Füssen per iniziare la loro Wanderschaft, il pellegrinaggio formativo che li avrebbe portati a incrociare le culture limitrofe per migliorare gesti e linguaggi, così la giovane Cecilia parte presto verso le grandi capitali europee del gusto. Lì, all’incrocio tra le tendenze e le scoperte, gli stili e

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i sapori, incontra la cultura gastronomica di un continente esigente e sperimentatore. Lì apprende le possibilità offerte dal cioccolato e perfeziona le sue tecniche. E da lì torna in Italia divenendo la prima signora del cioccolato, la «maestra d’arte» che avrebbe saputo ristrutturare un alimento così popolare fino a renderlo di nuovo aristocratico e multi-sfaccettato. Amedei nasce nel 1990 a Pontedera: città industriale vicina a Pisa, famosa per essere la sede della Piaggio, Pontedera nasconde anche una vocazione alla bella semplicità della campagna, che si rintraccia nei poderi che la circondano, nei casali, nell’aria del mare che si spinge fino a lambire un entroterra spesso povero di poesia. Ma la poesia nasce dove ci sono parole e gesti, sentimenti e azioni che cambiano la vita: ed è in un atelier di 45 metri quadri che Cecilia Tessieri inizia

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di Millo Malibran

la sua produzione di cioccolato, che devotamente intitola e dedica alla nonna materna. La signora Amedei, appunto: un nome che sa di inizio secolo, di raffinatezze per intenditori, di buone cose ben fatte. Ma a Cecilia la genuinità non basta: il traguardo è l’eccellenza. E per ottenerla è fondamentale saper selezionare la materia prima: il dialogo con gli ingredienti è il contrappunto geniale di questa artigiana, in cui si riconosce il fiuto del maestro che impara a rintracciare fino in capo al mondo ciò che corrisponde ai suoi desideri, sino a farlo proprio. Cecilia inizia a selezionare i semi di cacao direttamente nei luoghi d’origine: dal Madagascar al Venezuela, dalla Giamaica fino all’Equatore, alle brezze caraibiche che spirano su Trinidad. L’intero ciclo di produzione è seguito con cura e precisione: dalla selezione del cacao alla realizzazione finale, Cecilia non smette mai di infondere ai suoi gesti quella cultura del cioccolato che (come lei stessa afferma) «è la ricerca eterna del piacere, nel nome del quale la tecnica si unisce alla creatività e alla sperimentazione. Da lì deriva la nostra passione per questo mestiere. Una passione one che ci porta a ripensare senza sosta l’equilibrio tra aromi,, profumi e sapori». Finalista al premio Les Talens du Luxe et de la Création di Parigi proprio per la categoria ria dell’invenzione, Cecilia ha nel corso degli anni collezionato una serie di premi e riconoscimenti che ben testimoniano di come le sue intuizioni e il suo impegno abbiano saputo far breccia non solo nel cuore dei

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suoi clienti, ma anche nella considerazione dei più rigorosi esperti. Il suo cioccolato sempre ricco di sfaccettature e ricordi, così diverso da ogni altro sapore che a questa prelibatezza si è soliti connettere, ha vinto tre Golden Bean per il miglior cioccolato al mondo, nella categoria più importante: From bean to bar, dal seme alla tavoletta. Il Porcelana di Amedei non è solo uno dei cioccolati più rari e costosi: è anche, indubbiamente, uno dei migliori. Come i clienti-gourmet, che in più di trenta Paesi ricercano e amano le creazioni di Cecilia, non smettono di testimoniare. Maestra da più di vent’anni, Cecilia Tessieri non è mai venuta meno a uno dei più importanti comandamenti di ogni artigiano: innovare, sperimentare, ricercare, cambiare. Ogni giorno, nel suo laboratorio di Pontedera o nei suoi giri in cui punta alle più perfette materie prime, Cecilia si consacra alla ricerca di un’armonia di sapori e profumi, di consistenze e ispirazioni, che trova il suo correlativo oggettivo nell’equilibrio geomedi cioccolato. Un oggetto trico di una tavoletta tav quotidiano. Ma non certo semplice. Forse F neutrale: chiunque sperimenti la rotonda neutral tenerezza di uno dei suoi cioccolatini ten rripieni, delle sue creme, delle sue iincomparabili dolcezze d’oro nero, rriscopre la perfezione di un sapore cche spazza via tutti i preconcetti e i precedenti come le quinte dozzinali pr di un teatrino di periferia.

ARMONIA NIA DI GUSTI NELL’EQUILIBRIO GEOMETRICO Cecilia Tessieri con le ragazze del reparto di confezionamento che da Amedei è eseguito interamente a mano per fornire adeguata dimora ai migliori cioccolati del mondo, come i tartufi. A sinistra, l’atelier Amedei a Pontedera; Cecilia mostra il suo secondo Golden Bean.

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Eccellenze dal mondo

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di Federica Cavriana

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fiaba COME

IN UNA

LA STORIA DELLA PORCELLANA DI MEISSEN È FRUTTO DELL’INCONTRO TRA UN VETRAIO STUDIOSO DI REAZIONI CHIMICHE E UN ALCHIMISTA RAPITO DAL SUO SOVRANO PER SINTETIZZARE LA PIETRA FILOSOFALE

STRUMENTO Il logo MEISSEN con le spade incrociate viene dipinto rigorosamente a mano. Nella pagina a fianco MEISSEN Exclusive Collection: lampadario, modello del 1760. All’affascinante storia dell’«oro bianco» si unisce la maestria di un artigianato di altissimo livello che conferisce ancora oggi a queste opere un’atmosfera da favola.

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92 Dall’alto, a sinistra, in senso orario, opere storiche in produzione della MEISSEN Exclusive Collection: il pavone di Johann Joachim Kändler (1734) e la teiera Ortensie bianche (1739). Ma Jun e Ko Götz; Gli artisti Ma Jun e Ko Götz al MEISSEN ArtCampus.

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Eccellenze dal mondo

Prima di essere importata nel nostro continente, con risultati ammirevoli, la porcellana vantava già un’esistenza millenaria e un’origine lontana ed esotica: la Cina del VII secolo. Le ricette segrete per produrre il cosiddetto «oro bianco», dal costo esorbitante, venivano difese al costo della vita. Per questo la porcellana dura, bianca e pura come la conosciamo, inizia ad essere prodotta in Europa solo a partire dal 1710 presso una manifattura che è ancora in attività, dopo tre secoli di storia: MEISSEN. La storia della porcellana di Meissen (o di Dresda) ha i caratteri della fiaba. È frutto dell’incontro tra un vetraio, caparbio studioso di reazioni chimiche (E. W. von Tschirnhaus) e un alchimista di talento ( J. F. Böttger), rapito dal suo sovrano (Augusto II il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia) e rinchiuso in una prigione dorata affinché sintetizzasse l’arcanum per antonomasia: la pietra filosofale. Il duo, neanche a dirlo, non scoprì come ottenere l’oro dalla vile materia, ma riuscendo a imitare -e secondo alcuni superare- la perfezione e bellezza della porcellana asiatica, non solo portò grandi ricchezze al sovrano e grande lustro alla Sassonia, ma mise anche un enorme potenziale espressivo a disposizione degli artisti-artigiani europei. La manifattura reale fu fondata presso il Castello di Albrechtsburg di Meissen, cittadina dove era situata una miniera di caolino, ingrediente fondamentale per la mescola della porcellana dura. Ma il mo-

Pizzi e fiori applicati resero più preziose le porcellane nell’Ottocento

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nopolio di MEISSEN durò solo 7 anni, ossia fino a quando l’arcanum dell’oro bianco fu tradito da Stöltzel, che pur tornò in manifattura pochi anni dopo insieme a un talentuoso decoratore e incisore: Höroldt. Questi diventò responsabile delle decorazioni, introducendo il famoso decoro dal sapore orientale «Blue Onion», (utilizzato ancor oggi dal 1739), e creando nella sua carriera più di 10.000 formule di colore e 700.000 stampi. Le primissime porcellane venivano infatti decorate solamente con uno smalto dorato, l’unico in grado di reggere la cottura. Ora invece, con una ricca tavolozza cromatica, la creatività poteva avere libero sfogo. Chi ne approfittò fu il più importante scultore e modellista della storia di MEISSEN: J. J. Kändler, che per 40 anni diede vita a centinaia di animali e figurine galanti in stile rococò, riconoscibili stilemi della manifattura, oggetti irrinunciabili per qualsiasi sovrano. Nell’Ottocento il neorococò guarnì di pizzo e fiori applicati i pezzi più preziosi. Dopo il difficile periodo delle due guerre mondiali la manifattura è tornata ai suoi antichi splendori, e con il nuovo millennio e sotto la guida del suo nuovo AD Christian Kurtze sembra voler recuperare tutto il meglio dei secoli passati: «La perizia e maestria artigiane, chiave delle nostre tecniche di produzione, sono importanti oggi allo stesso modo di secoli fa. Le lavorazioni

Da sinistra, il pendente Mongolfiera di MEISSEN Joiallerie; la teiera Ortensie Bianche (1739) e l’Aquila Testabianca di Jorg Danielczyk (2008).

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moderne sono tuttora alleate con le antiche tradizioni», ha infatti dichiarato. La rivalorizzazione della maison è partita, come spesso accade, dalle origini: accanto alle celeberrime porcellane-scultura si è voluto riscoprire il settore della gioielleria, che era stato inaugurato già nel Settecento e poi piano piano abbandonato. Già allora la porcellana veniva fatta sposare con oro e pietre preziose. «MEISSEN Joaillerie» ripropone dal 2011 gli accostamenti di porcellana e diamanti, zaffiri, oro bianco, giallo o rosa. Ogni pezzo è unico perché dipinto a mano da uno dei migliori maestri artigiani di MEISSEN, come conferma Kurtze: «La nostra squadra di punta per i pezzi più preziosi e la gioielleria è formata da artigiani che lavorano in azienda da 20, 30 o 40 anni». Escono così dai laboratori i romantici pendenti Mongolfiera, orecchini, bracciali, ciondoli personalizzabili su richiesta e, per i cinofili, persino gioielli e charme a forma di carlino. Se è vero che la maison non rinuncerà mai al legame con la sua storia passata, continuando a produrre preziosi servizi da tavola su disegni ormai classici, occorre però riconoscere che lo storico simbolo con le due spade incrociate (uno dei più antichi loghi ancora in uso in Europa) viene anche impresso su pezzi più contemporanei, frutto di particolare attenzione al design e «al suo ruolo nel guidare l’innovazione e la reinvenzione necessarie alla sopravvivenza di un brand». In questo contesto si inseriscono le produzioni

Sono due spade incrociale lo storico simbolo dell’azienda ancora utilizzato

Home e Architecture con divani, poltrone, tavoli, lampade e piastrelle assolutamente hand-crafted. Non solo. Oltre ai designer, MEISSEN ha invitato molti artisti a sperimentare senza limiti con la porcellana: nel 2010 è stato inaugurato il progetto ArtCampus, «un programma che finora ha visto 30 artisti internazionali alle prese con la porcellana MEISSEN, in un processo di creazione di vere opere d’arte. Il nostro scopo è fare di MEISSEN la Mecca della scultura e arte moderna della porcellana», conferma Christian Kurtze. Lo scorso inverno a Lipsia una mostra di successo ha esibito i primi risultati della virtuosa collaborazione tra artisti e artigiani. Il gruppo, che vuole mostrare i grandi passi avanti compiuti recentemente, compie la storica decisione di aprire il primo flagship-store europeo e per far questo guarda all’Italia: «Villa MEISSEN» verrà inaugurata la prossima primavera a Milano, in via Montenapoleone. Per Kurtze «l’incredibile reputazione italiana per quanto riguarda lusso, artigianato, qualità ma anche arte, design e cultura si allinea perfettamente con la filosofia MEISSEN. Milano, che affonda le sue radici nelle pratiche artigianali così come nel design più contemporaneo, ci è sembrato il luogo perfetto». E sarà qui, tra le più esclusive boutique meneghine, che si potranno finalmente ammirare i piccoli e grandi tesori in «oro bianco» che per secoli hanno incantato l’Europa.

Da sinistra, la danzatrice Loie Fuller disegnata da Theodor Eichler nel 1911; per l’anello Due Fiori è stata usata la pietra Kogolong; il vaso Bouquet di fiori, stile primo 700.

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Eccellenze dal mondo

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MEISSEN Exclusive Collection, orologio Chronos 300 (modello 1728).

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BLACK YELLOW MAGENTA CYAN

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Scuole

di Simona Cesana

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L’isola

DEL TESORO Murano, la culla della «soffiatura» ospita la scuola Abate Zanetti in una struttura industriale degli anni Trenta con laboratori, aule, sala conferenze, giardino, biblioteca e caffetteria. Qui si forgiano i maestri vetrai del futuro

Sopra, Giancarlo Signoretto, classe 1962, inizia a lavorare il vetro all’età di quattordici anni. Maestro di Fornace della Scuola del Vetro Abate Zanetti con la quale collabora come docente di tutte le tecniche di lavorazione del vetro muranese.

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L’isola di Murano è naturalmente, da sempre, associata al fascino della soffiatura del vetro. Arrivando sull’isola quello che stupisce, oltre alla tipica luce del cielo veneziano, è la luce emanata dalla trasparenze colorate del vetro soffiato che ti catturano dalle vetrine di ogni negozio, di ogni bottega. Quando si ha la fortuna di assistere ad una soffiatura a bocca da parte di un maestro vetraio, il fascino della massa di vetro infuocata che prende forma in sottili trasparenze diventa uno dei ricordi più belli e affascinanti di Murano.

Anche Murano è stata raggiunta dalla crisi: si è recentemente parlato di un calo di addetti vertiginoso individuando tra le cause la commercializzazione di falsi vetri a basso costo realizzati in Cina e venduti come made in Italy. Le istituzioni hanno dichiarato che occorre investire in attività innovative e in progetti di eccellenza (puntando all’internazionalità) e ovviamente l’unicità e la qualità del prodotto per rilanciare la vocazione vetraria di Murano. La Scuola del vetro Abate Zanetti è un esem-

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SSccuuool lee d ’ e c c e l l e n z a

SONO FONDAMENTALI LE COLLABORAZIONI CON LE UNIVERSITÀ

Sopra, una scultura del Maestro Giancarlo Signoretto (in alto, a destra) della Scuola del Vetro Abate Zanetti, in alto, a sinistra, l’esterno.

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pio di eccellenza e innovazione: le attività sono organizzate con la volontà di aggregare le molteplici realtà del panorama vetrario contemporaneo, guardando al mondo del design, della cultura, e dell’arte proponendosi inoltre come luogo dove si realizzano eventi culturali. L’affascinante edificio dove ha sede la Scuola è una tipica struttura industriale degli anni Trenta, situata nel cuore dell’isola, ristrutturata salvaguardando l’involucro esterno e costruendo nuove spazialità interne adatte alle attività variegate di questa realtà, ripercorrendo in chiave contemporanea il tema della grande fabbrica con laboratori, aule, sala conferenze, spazio esterno con giardino, biblioteca, caffetteria. Abbiamo parlato con la Presidente della Scuola, d.ssa Martina Semenzato e con la responsabile delle attività di progettazione e formazione, d.ssa Stefania Biasiolo, che ci hanno chiarito il ruolo della Scuola e le sue attività principali. Domanda. In che anno è stata fondata la Scuola? È un’istituzione privata o pubblica? Risposta. La Scuola del Vetro Abate Zanetti di Murano, è erede di un’antica istituzione vetraria, la Scuola di Disegno per Vetrai fondata nel lontano 1862 dall’abate Vincenzo Zanetti. Zanetti, e con lui Murano, aveva-

no capito già alla fine dell’Ottocento che la Scuola doveva farsi promotrice di una rete per coinvolgere le realtà locali, le aziende, le scuole. La società, prima interamente a proprietà e gestione pubblica, è ora divenuta una società mista a maggioranza e gestione privata, insieme a Comune di Venezia, Provincia di Venezia e Camera di Commercio di Venezia. D. Quali sono e a chi sono rivolti i master della Scuola sulla lavorazione del vetro? R. La Scuola del Vetro Abate Zanetti dal 2001 realizza, coordina e promuove attività formative per gli operatori locali del vetro, corsi sulle tecniche e i metodi della lavorazione artistica tradizionale e contemporanea del vetro, nonché su tematiche generali relative alla tecnologia, al design, al marketing. Collabora inoltre con università italiane e straniere, istituti di alta cultura ed enti affini nel territorio. D. La Scuola del Vetro è naturalmente radicata sul territorio di Murano, rappresentandone i caratteri culturali, sociali, economici: in che modo la Scuola assolve il suo ruolo nei confronti di questi aspetti? R. La scuola del vetro di Murano si pone sempre di più come centro di formazione permanente per tutti, aperta al confronto con le produzioni artistiche maggiormente significative di oggi. La Scuola del Vetro rimane oggi

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99 più che mai il luogo d’incontro fra il passato ed il futuro dell’arte del vetro con l’intento di aggregare le molteplici realtà del panorama vetrario contemporaneo, guardando al mondo del design, della cultura, dell’arte. In questo modo ricerca e sperimentazione si coniugano con la custodia di mille anni di tradizione e abilità tecnica proprie dell’isola di Murano. D. Qual è l’obiettivo, a breve e lungo termine, delle iniziative rivolte alle scuole primarie e secondarie del territorio? In che misura queste iniziative occupano le attività della Scuola? R. «Da grande voglio fare il maestro vetraio» è il progetto in cui si armonizzano le iniziative che la Scuola del Vetro Abate Zanetti rivolge ai bambini e ragazzi delle scuole elementari e istituti secondari di primo e secondo grado. L’obiettivo è quello di favorire un approccio creativo all’universo del vetro, con particolare attenzione alle peculiarità della produzione culturale muranese. I docenti della scuola del Vetro Abate Zanetti accompagnano gli studenti in un percorso pratico esperienziale che consentirà loro di esplorare le possibilità strutturali e formali della materia vetro. La Scuola del vetro, in qualità di centro di cul-

tura, formazione e ricerca nell’ambito della produzione artistica del vetro, propone alle scolaresche e ai gruppi organizzati in visita culturale a Murano, attività didattiche incentrate sulla dimostrazione del processo di lavorazione del vetro intendendole come un importante pretesto per l’indagine guidata dei contenuti fondamentali alla comprensione dello sviluppo della vetraria muranese, in quanto fenomeno culturale, e in generale di aspetti generali relativi alle caratteristiche materiali, alle origini e all’evoluzione della tecnologia vetraria nel corso dei secoli. D. Quali sono i progetti realizzati o in programma con l’università IUAV o con altre Università? R. Nel 2010 collaborazione workshop «Ceramica e vetro» promosso da IUAV; nel 2008 collaborazione con Accademia di Belle Arti di Venezia; sono in atto collaborazioni con Università americane quali Boston University, the Crefeld School Philadelphia e Millikin University, West Main, Rochester Institute of Tecnology, Souther Illinois University, Savannah College of Art e Design, Lorenzo De Medici.

Sopra, un’opera del designer Emiliano Donaggi, realizzata nella fornace della Scuola del vetro Abate Zanetti. Sotto, il Maestro Giancarlo Signoretto durante la soffiatura del vetro.

INTERNAZIONALI, SOLO COSÌ SI VALORIZZA UNA TRADIZIONE DEL 1862

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Progetti speciali

Nell’anno bisestile e della crisi globale, il mondo si domanda: «cosa succederà?». Ogni argomento o risorsa, anche quella della consultazione degli astri, viene utilizzata per riuscire a vedere nel nostro incerto futuro. La collezione dei segni, rappresentati attraverso i portavasi antropomorfi realizzati dai ceramisti di Caltagirone, è l’ironica risposta di Ugo La Pietra.

IN MOSTRA Alla Galleria Fatto ad arte via Cesare Correnti 20, Milano; www.fattoadarte.com per il Fuori Salone. In alto: disegni di Ugo La Pietra.

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di Simona Cesana - foto di Aurelia Raffo

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SEGNI ZODIACALI Opere realizzate a Caltagirone da sei artisti/artigiani: Bottega Branciforti, Giacomo Cusumano, Alessandro Iudici, Francesco Navanzino, Ceramiche Sammartino, Ceramiche Silva. Da sinistra: Ariete, realizzata da Alessandro Iudici; Sagittario e Capricorno, realizzate da Ceramiche Sammartino; Pesci, di Giacomo Cusumano.

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O Mcuc sheiie lSl ei g r e t i

Le trame MEDITERRANEE A Gibellina la Fondazione Orestiadi ospita un museo che celebra i fasti di culture che, pur affacciandosi sullo stesso mare, sono molto differenti tra loro: dalla Sicilia all’Egitto, alla Palestina. Rilanciando un progetto che vive di tradizioni artigiane tra i Popoli del mare

d i E n z o F i a m m e t t a - f o t o d i Va l e n t i n a S a l u t o e S a n d r o S c a l i a LA MANO, IL MIGLIORE STRUMENTO

UN’INTERPRETAZIONE CORRETTA

Il Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina rappresenta un’interpretazione corretta ed aperta della storia mediterranea che scorre dalla Spagna, dalla Francia attraverso l’Italia verso i Paesi arabi. Questo Museo presenta insieme tracce della cultura alta ed altre di quella materiale, tra fantasia individuale e vivere quotidiano collettivo... lo spazio frontale alle Case Di Stefano di Gibellina, diventa un contenitore di segni di un’antropologia culturale fuori da ogni logica egemonica e di supremazia dell’Occidente sull’Oriente o del Nord sul Sud (Achille Bonito Oliva)

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Il baglio Di Stefano di Gibellina, sede della Fondazione Orestiadi, ospita nella casa baronale il Museo delle Trame Mediterranee che raccoglie costumi, gioielli, tessuti d’arte, ceramiche e manufatti della cultura materiale dei popoli e culture dell’area mediterranea: Sicilia, Egitto, Tunisia, Palestina, Marocco, Albania... Il Museo-Officina è l’approdo di anni di ricerche, incontri, dibattiti, studi e seminari promossi dalla Fondazione Orestiadi, ma è tuttora un’idea guida, un’idea limite, la cui forza risiede nel suo carattere processuale, interdisciplinare, transnazionale. Il museo nel suo percorso espositivo analizza gli elementi artistici che hanno avuto e hanno i popoli del Mediterraneo che pur essendo bagnati dallo stesso mare, sembrano essere culturalmente differenti, e mostra attraverso le comparazioni e il raffronto delle forme, le tecniche e le decorazioni, i caratteri che li uniscono, gli elementi comuni più che le differenze, in un momento storico in cui sembra che l’Occidente intenda chiudersi all’apporto

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Boccia in ceramica smaltata, Trapani XVI secolo; sopra: pettorale in argento cesello e niello, Marocco IX secolo. A sinistra, pettorale in argento, smalti e corallo, Algeria, Cabilia, XIX secolo

e alla comprensione delle culture mediorientali o nordafricane, mentre riteniamo che l’attuale situazione, caratterizzata da profonde migrazioni, ripropone l’essenza stessa della Sicilia come luogo di incontro, di sedimentazione, scambio ed elaborazione degli elementi artistici provenienti dalle culture che su essa si sono sovrapposti. La Sicilia non può essere compresa che nella vita del Mediterraneo e il Mediterraneo non può leggersi senza la Sicilia. Gli esodi antichi e attuali, le migrazioni dovute alle catastrofi naturali o economiche, gli insediamenti successivi ai conflitti, svelano la trama della comune matrice culturale. Gli oggetti in mostra denunziano i legami esistenti tra i gruppi di civiltà pastorali in possesso di tecnologie e conoscenze scientifiche, e le migrazioni provenienti dall’Africa e dall’Oriente. Le analogie tra Marocco, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Medio Oriente, il Mediterraneo e l’Africa a Sud del Sahara, costituiscono il comune linguaggio e il sentire fondato nel comune tessuto preistorico rinnovato

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Qui è possibile riscoprire gli influssi di tre continenti e delle tre grandi culture viventi del Cristianesimo, dell’Islam e d’Israele continuamente da migrazioni, scambi economici, ma anche da scuole di pensiero e da comunità di artisti, architetti, artigiani. In Sicilia, ponte dell’Europa verso l’Africa sono viventi e visibili le tracce intatte del suo lontano passato che è comune a tutti i popoli del Mediterraneo. Basti leggere i graffiti rupestri del Paleolitico presenti presso grotte a Palermo e sull’isola di Levanzo con scene di vita degli uomini e degli animali databili intorno al 20.000 a.C., per cogliere i comuni stilemi con l’arte preistorica del Sahara. Anche le realizzazioni della Creta Minoica come della Magna Grecia reclamano un’origine nordafricana. Da queste e altre indicazioni la Sicilia può e deve riprendere il suo cammino in un rinnovato patto di comunicazione, amicizia e solidarietà tra «Popoli del Mare» per reinterpretare lo spirito delle terre meridionali del mondo, per riscoprire nelle «Trame Mediterranee» gli influssi di tre continenti e delle tre grandi culture viventi del Cristianesimo, dell’Islam e d’Israele. Queste riflessioni del compianto Lu-

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Kaftan filo dorato su velluto rosso con motivi ad arabesco, Turchia XVIII secolo; sopra, abito del settimo giorno, filo dorato su velluto verde, Tunisia XVIII secolo. A sinistra, vaso di tipo Alambra, Spagna XIV° secolo

dovico Corrao, artefice e promotore del museo, tracciano le direzioni di ricerca, alle quali si aggiungono quelle legate allo stato dell’attuale realtà artistica siciliana che sembra avere perso memoria della sua storia, caratterizzata da produzioni pregevolissime, basti pensare ai tessuti, agli argenti, ai coralli trapanesi, ai marmi mischi, agli stucchi. Eppure, se è possibile uno sviluppo, questo può passare solo attraverso una rilettura dei nostri percorsi artistici, che possono trovare nuovi mercati solo se si propongono con forti connotazioni che denuncino provenienza e differenze, in un mercato globale che pone sempre maggiore attenzione alla qualità della manifattura e del progetto. «Le Trame Mediterranee» si propongono come luogo di scambio e incontro tra i popoli, come luogo di sperimentazione per i nuovi linguaggi dell’artigianato artistico, confortati nel nostro solitario percorso dal recente riconoscimento assegnatoci dall’International Council of Museums per il miglior progetto di mediazione culturale in Italia per l’anno 2011.

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Musei Segreti

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Ri-sguardo

reatività ed eccellenza, solo così vive il mestiere d’arte. Bisogna comprenderne le peculiarità rispetto ad artigianato e produzioni industriali. Riscattando il federalismo

THESIS E METIS, IL LAVORO E LA VERA ISPIRAZIONE

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Secondo il dizionario Devoto-Oli della lingua italiana, «federalismo» significa «assetto politico-amministrativo di uno stato unitario favorevole al riconoscimento di ampie autonomie regionali e al decentramento delle funzioni di governo». Nel campo dell’artigianato, le «ampie autonomie regionali» sono assicurate sia dagli articoli 117 e 118 della Costituzione Repubblicana, sia dall’articolo 1 della legge 443 del 1985. Che cosa poi sia stato fatto dalle singole Regioni per tutelare, sviluppare, incentivare e promuovere l’artigianato artistico d’eccellenza è un altro discorso. Molte di esse, come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, la Calabria o la Sardegna hanno infatti approvato dei disciplinari di produzione che regolamentano alcuni settori-chiave dell’artigianato artistico; e in molti casi sono stati introdotti anche dei riconoscimenti di eccellenza che, in maniera più o meno efficace, garantiscono il livello e l’autenticità dei produttori e dunque dei prodotti. Ma ci sono anche Regioni dove poco è stato fatto: nessun disciplinare, pochissime iniziative di alto livello, scarsa partecipazione istituzionale. Se in molti sembrano dimostrarsi sensibili a una generica protezione dell’artigianato, ecco invece che – quando si parla dei mestieri d’arte che definiscono la vera eccellenza, e quando c’è da tirare fuori idee e soldi per promuoverli e tutelarli – la superficiale condiscendenza con la quale si considera questo settore si rivela chiaramente inefficace. Perché non è solo una questione di fondi e di ricchezza, di denari da spendere e di eventi da creare: è anche, e forse soprattutto, questione di saper garantire la legittimità, l’autenticità, l’originalità e l’eccellenza del mestiere d’arte, vera espressione del territorio e che al territorio porta ricchezza e lavoro.

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Certo, sarebbe necessario capire bene che cosa sia il mestiere d’arte. Comprenderne le peculiarità sia rispetto all’artigianato, sia rispetto all’arte, sia ancora rispetto alle produzioni industriali. Apprezzarne il lato etico, estetico, e anche imprenditoriale. Insomma: sarebbe necessario che la rivoluzione culturale che dovrebbe riportare in primo piano la vera eccellenza, quella che non può non basarsi sul mestiere d’arte, interessasse anche le istituzioni. Perché nessuno può (o dovrebbe) rimanere insensibile alla bellezza, né – di questi tempi – alle opportunità di lavoro che la bellezza e la cultura possono offrire. Molti interlocutori di alto livello hanno già dimostrato la loro sensibilità: altri, purtroppo, hanno forse inteso questo federalismo come una delega un po’ troppo generosa, che dava delle prerogative senza esigere in cambio alcuna azione concreta. Dimenticando così che i mestieri d’arte, le botteghe, gli atelier costituiscono uno stimolo potente al turismo: chi visita l’Italia, infatti, ama anche soffermarsi a curiosare tra i prodotti più autentici e caratteristici dei nostri territori, e di solito premia abbondantemente chi non si compromette con imbarazzanti souvenir ma al contrario esprime sia il mestiere, sia l’arte, sia il design. Il visitatore – ricordate i grandi tour del passato? – compra e dà soldi a chi vende e anche alle istituzioni. Rivitalizzare la cultura del mestiere d’arte significa anche ridestare un interesse turistico in coloro che scelgono l’Italia come meta da visitare: espressioni genuine della storia e della creatività dei territori, vere eccellenze delle Regioni e delle città, queste attività costituiscono un «soft power» di notevole importanza nell’offrire un aspetto dell’Italia che parli di bellezza e di arte, ma anche di lavoro e di innovazione. Di creatività e di identità. In una parola: di passione. Per riprendere uno studio di Domenico De Masi, in Italia convivono thesis e metis: la prima è una forma di pensiero ereditata dall’Egitto, rettilinea, immediata e regolare, mentre metis è una modalità di pensiero di matrice mesopotamica, ambigua e sinuosa. Dall’unione di queste due forme di pensiero nasce un’identità che è composta di lavoro e ispirazione, di mestiere e di arte. Un’identità che va preservata e amata, come un tesoro prezioso che si nutre di cultura, bellezza, ricerca e impegno. Un’identità da conoscere, amare e promuovere senza più esitazioni.

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MESTIERI D’ARTE Poste Italiane S.p.A-Sped. In Abb.Post.- D.L353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1,comma 1 DCB Milano - Aut.Trib. di Milano n.505 del 10/09/2001 - Supplemento al N. 109 di Monsieur

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Milano, oltre il Salone la couture di mobili e complementi MATERIA

Vestirsi di piume nel segno della leggerezza MECENATISMO

Trasmettere cultura: una missione per Vacheron Constantin LA CULTURA DEL SAPER FARE

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