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L GIRO D’ITALIA Valter Scelsi Giovanna Silva || 14 L Massimiliano Tonelli

Genova

VALTER SCELSI [architetto] GIOVANNA SILVA [fotografa]

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NEI NUMERI PRECENDENTI

#58 Venezia #59/60 Palermo #61 Cabras (Oristano) #62 Milano #63 Portofino #64 Reggio Calabria #65/66 Taranto

P

er essere riconosciute, le città devono scontare un piccolo pegno simbolico: scegliere qualcosa che le rappresenti e portarselo appresso per sempre. Il pegno di Genova è la Lanterna, e non le si chiede neanche molto per giocare questo ruolo, solo una certa fotogenia. Ai piedi della Lanterna, che poi è il faro monumentale che dal XII secolo veglia sul suo porto, Genova può disordinarsi a piacere.

L’immagine che fa capolino da mille scorci basta da sola a connotare positivamente il ruolo della Lanterna nella geografia urbana: come molti edifici alti, sviluppa

una forma di radicamento sociale nel paesaggio e, contemporaneamente, produce un diffuso desiderio di

imitazione. La sua evidenza la rende disponibile metafora e la propone alla copia. Così, quando nel 2004 l’artista americano Dennis Oppenheim viene invitato a realizzare un’installazione a Genova, nell’ambito della mostra Arti & Architettura, sceglie di collocare nel cortile di Palazzo Bianco Mobile lighthouse, un faro alto quasi otto metri appoggiato sul carapace di una tartaruga marina.

In realtà, i grandi animali marini come la testuggine a Genova quasi nessuno li ha mai visti, eppure se ne ipotizza l’esistenza. Fantasia di bestie, come fantasia di naufragi. Durante l’alluvione di Genova del 2014 il Museo di Storia Naturale Giacomo Doria viene invaso dall’onda di piena del torrente Bisagno. Tra gli oggetti galleggianti nel fluido grigio compare lo spettacolo inaspettato della pinna dorsale di un pescecane. Poi, a guardare meglio alla luce delle torce elettriche, non si vede solo la pinna, ma tutto il corpo del pescione. Pare che questo squalo sia nato nel Mar Ligure all’inizio del Novecento e pescato al largo di Portofino qualche anno dopo, quindi messo in formaldeide in una teca di vetro e accostato ad altre centinaia di corpi fluttuanti dentro vasi trasparenti, corpi di animali diversissimi, serpenti, anfibi, pesci, volatili e mammiferi. Da allora è rimasto lì, nel silenzio e nella penombra dei magazzini del museo, per più di un secolo, fino a quando l’acqua del Bisagno gonfiato dalle piogge si è opposta, come altre volte, a quella del mare e ha invaso la città, in quella parte pianeggiante di Genova che poi sarebbe il bacino di espansione naturale del torrente, se non l’avessero riempito di case. Il liquido grigiastro si è impossessato degli spazi sotterranei del museo, invadendo, distruggendo, trascinando. E liberando le misteriose creature fluttuanti. Lo squalo si è trovato, suo malgrado, a nuotare dentro il limo dell’alluvione.

Però, dal giorno in cui è finito nelle maglie delle reti dei pescatori il mondo è cambiato parecchio, e lui, il grosso pesce inutile le cui carni si diceva fossero perfino velenose, nel frattempo è diventato una star del cinema. Non solo del cinema, ma anche dell’arte, perché in questi anni un altro squalo morto si è trasformato in una glorificata opera contemporanea, anch’esso restando sospeso in una soluzione fluida, in una teca di vetro, dentro un museo. The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living si intitola l’opera dell’artista britannico Damien Hirst, che poi è uno squalo in formaldeide nella sua bella teca, venduta dal gallerista Charles Saatchi per la rispettabile cifra, dicono, di dodici milioni di dollari.

E questa nostra piccola storia genovese potrebbe finire qui, oppure concludersi tornando nel 2004, quando, nel tentativo di mostrarmi arguto, chiesi a Edoardo

Sanguineti se avrebbe mai scritto una piccola guida

turistica della nostra città, sul tipo di quella di Fernando Pessoa per Lisbona, e lui mi rispose che, in effetti, lo stava proprio facendo. Poi Sanguineti partì per Lisbona (già), da dove scrisse per Genova un acrostico in sei versi, che ogni volta che lo rileggo penso come, in fondo, i posti del mondo non serva abitarli per amarli, e neppure, forse, averli mai visti per conoscerli. Sei versi che sono questi, in fine:

Guardala qui, questa città, la mia: È in riva al Tejo che io cerco Campetto, Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto, O un Cable Car su in vico Zaccaria; Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto A replicarne un po’ la psiche e il volto.

GIRO D’ITALIA

è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

BIO

Giovanna Silva (1980) vive a Milano. Accumula immagini in modo quasi compulsivo, analizza lo spazio, lʼarchitettura e la storia delle città attraverso la fotografia, per creare narrazioni oggettive e allo stesso tempo personali. Nelle sue foto il tempo risulta sospeso, la figura umana è assente e le immagini, pur provenendo da contesti geografici molto diversi tra loro, finiscono per assomigliarsi. Ha pubblicato Milan. City, I listen to your heart, Islamabad Today, Imeldific, Tehran, 17 April 1975: a Cambodian Journey, Afghanistan: 0 Rh-, Syria: A Travel Guide to Disappearance, Foxtrot Gate – Cyprus, Libya: Inch by Inch, House by House, Alley by Alley, Baghdad: Red Zone, Green Zone, Babylon (Mousse Publishing); UN, CH (bruno); Niemeyer4ever, Palmyrah (Art Paper Editions); Walk like an Egyptian, Good Boy 0372 (Motto Books) e Mr. Bawa, I Presume (Hatje Cantz). Ha partecipato alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia con il progetto Nightswimming, Discotheques in Italy from the 1960s to the present (Bedford Press). I suoi lavori sono stati esposti al MACRO di Roma, alla Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia, alla Triennale di Milano, all’American Academy di Roma. È fondatrice di Humboldt Bookse San Rocco Magazine. Insegna fotografia applicata allʼeditoria allʼISIA Urbino, IUAV Venezia e NABA Milano.

Palazzo Lancia, Angelini, Narizzano, 1934 + San Benigno – Torre Nord – Matitone, SOM (Skidmore, Owens, Merril), Finzi, Lanata, Messina, 1981-89 Giovanna Silva,

Complesso Sportivo Valletta Cambiaso, Albini, Helg, Zappa, 1955-56 Giovanna Silva,

Università di Genova – Matematica, Fisica e Scienze Naturali, Badano, Calza, 1975-94 Giovanna Silva,

Quartiere Ina-Casa Porta degli Angeli – Casa A, Daneri, 1954-62 Giovanna Silva,

Quartiere Pegli 3 – Le Lavatrici, Rizzo, 1980-89 Giovanna Silva,

È ARRIVATO IL MOMENTO DEI CINEMA PUBBLICI?

Quel momento è arrivato. Punto di non ritorno. Inutile stare a raccontarsela: i cinema non ce la fanno più. Non ce la possono fare, è algebrico. Le circostanze degli ultimi due anni forse hanno accelerato l’esito, ma comunque la strada era segnata. Una scappatoia tuttavia ci deve pur essere…

La riflessione mi sale a seguito dell’ul-

timo pasticciaccio brutto, quello di

Firenze e del Cinema Odeon. Sala cinematografica dalla storia straordinaria e dai decori clamorosi, con un cursus honorum rilevante, tuttora operativa. Anche lei ha annunciato la sua trasformazione: una grande libreria della Giunti, ristoranti, bar, eventi. Cinema? Sì, forse. “Resteranno anche l’attività cinematografica e le rassegne”, dicono i promotori del nuovo corso. Ma quando un cinema viene convertito (successe, sempre a Firenze, all’Hard Rock Cafè, nato laddove c’era il Cinema Gambrinus) si dice spesso così, si promette sovente di mantenere un po’ di proiezioni, magari in una saletta ricavata alla meglio. Ma poi le promesse vengono mantenute solo parzialmente o per nulla.

A Firenze in molti non l’hanno presa bene ed è partita una petizione. Del resto l’Odeon non è solo una sala mitologica, ma è anche una delle ultimissime sale attive rimaste in centro. E però la strada non

può essere quella di mettere i bastoni tra

le ruote ai progetti di riconversione. I cinema sono aziende private, nelle aziende private l’imprenditore deve essere libero di fare scelte, spostarsi laddove il mercato richiede, abbandonare un ambito che non ha più domanda. Non si può chiedere agli esercenti di continuare a erogare un servizio e un prodotto che sempre meno clienti desiderano. E che sempre meno spettatori sono disposti a pagare stante la concorrenza delle piattaforme, stante il cambio delle abitudini, stante la pandemia che per i cinema oltretutto – con la carognata delle mascherine obbligatorie prolungate oltre ogni ragionevolezza – pare essere infinita.

Dunque come si affronta il problema? Si alza bandiera bianca, si lascia fare al mercato e si permette a tutte le sale cinematografiche di trasformarsi in qualcos’altro? Ci si arrende all’evidenza che i cine-

matografi faranno la fine delle edicole?

In realtà una strada alternativa ci sarebbe, e ci sarebbero anche le risorse per percorrerla. Probabilmente l’unica strada possibile: quella dell’intervento pubblico. Occorre accettare il fatto che per un

Salvatore Cascio in Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore

Ci sono musei pubblici, ci sono teatri pubblici, ci sono biblioteche pubbliche. Perché mai non dovrebbero esserci cinema pubblici?

privato gestire una sala – salvo rare eccezioni – non è sostenibile. È necessario che subentri la parte pubblica laddove ritenga, come auspichiamo, questo settore meritevole di sostegno. Ci sono musei pubblici, ci sono teatri pubblici, ci sono biblioteche pubbliche. Perché mai non dovrebbero esserci cinema pubblici? Perché quel

pezzo di filiera deve essere lasciato totalmente ai privati, per di più con scarsi

supporti? Perché, in un ambito che sta ricevendo una valanga di denaro statale (il Fondo per il cinema è passato negli ultimi sei anni da 400 a 750 milioni l’anno: una manna!), non si decide di destinare una percentuale robusta di questo appannaggio alle sale, rilevando quelle in difficoltà, assegnandone la gestione a comuni o associazioni, garantendo che tutte le città, tutti i territori abbiano un tot di sale in ragione della popolazione, esattamente come si fa con le biblioteche?

Che senso ha finanziare in maniera così massiccia la produzione se poi vengono meno i luoghi dove distribuire i film italiani prodotti? Solo per arricchire di contenuti le già ricche piattaforme digitali? I finanziamenti per il cinema sono cresciuti enormemente ed è un bene, ma

non sono distribuiti in maniera equa

sulla filiera. Sembrano finanziamenti frutto di una rassegnazione di fondo: le persone fruiranno il cinema da casa e solo da casa. E invece l’esperienza della sala, ancorché minoritaria e trasformata in eccezione, è un’opzione che dovrebbe in qualche modo restare possibile.

LETIZIA BATTAGLIA: UNA DONNA SENZA RIMPIANTI

Mia nonna Letizia, instancabile 87enne, progettava ancora tanto per il futuro.

Fino all’ultimo respiro ha vissuto all’interno di una contraddizione: se il suo corpo le chiedeva tregua e le ricordava suo malgrado l’esistenza di una linea temporale della vita, la sua mente invece partoriva conti-

nuamente idee vivaci da realizzare subito

e senza perdere tempo.

Alle pareti azzurre della sua camera da letto, che ospita un armadio a specchio in cui ultimamente fotografava il suo volto mai del tutto stanco, erano appesi fogli che fungevano da calendario su cui annotava date di mostre e impegni da portare a termine.

Quando è andata via, ho continuato a guardarli non sapendo se lasciarli al muro, come prova della sua forza estrema e del desiderio di vivere, o se rimuoverli. Non ho preso una decisione a riguardo, non spetta a me, e forse non è importante.

La nonna vedeva ancora un futuro davanti a sé e si comportava come chi ha tra le mani una vita da arricchire con stimoli, incontri, nuove fotografie...

Sognava di conoscere ancora il mondo, lei, che il mondo lo aveva visto in lungo e in largo, dalla Groenlandia all’India. Pochi giorni prima di andar via, mi aveva detto al telefono: “Marta, quando prenderai la patente?! Vorrei affittare un camper e girare l’Europa insieme a te”.

Non sarebbe stata la sua prima volta: con il suo compagno storico, Franco Zecchin, negli Anni Ottanta ha girato con il camper la Turchia, la Gran Bretagna, l’Egitto... So da Franco che è capitato che si sia avventurata da sola per le strade del Cairo senza paura alcuna. Qualche fotografia di questi viaggi oggi si trova nel suo archivio palermitano, una culla esplosiva di memorie: incontri fortuiti e rispettosi con cittadini mai più visti, testimonianze storiche, bambine palermitane, mamme con figli il cui destino non ci è dato sapere cosa abbia riservato loro.

Guardando alcune di quelle foto non si riesce a ricorrere all’immaginazione. Pochi giorni fa ho chiesto a mio fratello Matteo, che ha lavorato al suo fianco fino all’ultimo, “Matteo, dove saranno oggi questi bambini dei quartieri disagiati di Palermo?”, relativamente a foto degli Anni Ottanta, per sentirmi rispondere: “Molto probabilmente non esistono più”.

In quel momento ho sentito freddo. La

nonna ha reso iconicamente immortali volti e corpi di persone anonime private

di un futuro, di quella stessa linea temporale della vita di cui lei è riuscita a godere fino all’ultimo respiro. L’archivio palermitano è una culla esplosiva di memorie: incontri fortuiti e rispettosi con cittadini mai più visti, testimonianze storiche, bambine palermitane...

Ma quali 87 anni... In quelle quasi nove decadi sono racchiusi forse centovent’anni per l’intensità di esperienze vorticose che l’hanno vista protagonista (dal fotoreportage al suo ruolo di assessore a ville e giardini con le mani “nella” terra, passando per il suo ruolo di editore per le Edizioni della Battaglia e come regista teatrale): il viaggio in camper per l’Europa e il Nord Africa è solo la punta di un iceberg.

Ma al di là dei mille ruoli e delle infinite esperienze che hanno formato la personalità di questa donna libera, Letizia è stata anche una madre, una nonna e una bisnonna.

Fino all’ultimo mi sono chiesta, da nipote, come potevo contribuire all’arricchimento di una vita già così ricca come la sua. Potevo, perché ne aveva bisogno. Aveva bisogno che tutto l’amore che aveva dato al mondo le tornasse indietro, la abbagliasse come una luce.

Non siamo riuscite a viaggiare insieme in camper, ma abbiamo viaggiato in altro modo: guardando film – fino a due giorni prima, un documentario sulla storia del muro di Berlino –, raccontandoci confidenze per lei storiche, per me recenti, facendo fotografie insieme.

I giorni precedenti avevo abbozzato un’intervista per lei su questioni inerenti la società del XXI secolo perché non vedevo la nonna solo come un punto di riferimento sulla storia degli Anni Settanta e Ottanta del secolo e del millennio scorsi, ma come una mente vivace e analitica del mondo attuale, un mondo complesso di cui avrei voluto che lei mi esprimesse la sua visione, sempre aggiornata, lucida e mai anacronistica.

Nel mio ricordo presente, l’emblema della nonna è rappresentato da quei fogli-calendario appesi alle pareti azzurre, il suo guardare avanti anche quando il corpo le suggeriva di fermarsi. Lei non si sarebbe fermata mai e di tutte le frasi che ha potuto pronunciare nella sua vita, fino all’ultimo respiro una frase non ha potuto dire: “Ah, se avessi fatto questo o quell’altro”. Il potere del rimpianto, tipicamente umano, Letizia non l’ha conosciuto.

CNAM: UN VECCHIO NUOVO CORPO INTERMEDIO

Ho letto su Artribune che il nostro Ministero dell’Università e della Ricerca ha rinnovato un organo, in acronimo CNAM, ovvero Consiglio Nazionale per l’alta formazione Artistica e Musicale. Mi sfrego gli occhi incredulo, in presenza di un déjà-vu clamoroso. Infatti tanti anni fa, non ricordo quanti, sono stato invitato dall’Università a far parte di un organo incaricato più o meno dello stesso compito, il quale naturalmente è stato incapace di tirar fuori un ragno dal buco, soprattutto per l’ostilità della componente musicale.

Naturalmente nulla da dire ai danni di Antonio Bisaccia, preposto alla guida di questo organo, che è un ottimo docente dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove ho avuto il piacere di soggiornare per alcuni giorni proprio su suo invito, trattato con ogni riguardo, e con tanti progetti di collaborazione futura. Fra l’altro, Bisaccia dirige una delle poche riviste ancora esistenti nel settore umanistico, Parol, che gli è stata affidata dall’estetologo Luciano Nanni, quando ha deciso di mutare pelle, cominciando dal nome. Ora si fa chiamare Nanni Menetti e conduce interessanti esperimenti d’arte in proprio, detti criografie.

Ma chi ha letto alcune delle cronache che vengo scrivendo su questa rivista sa bene qual è in merito il mio giudizio: totalmente negativo, è inutile insistere a creare organi intermedi, di cauto avvicinamento, è ora di fondere del tutto le Accademie e simili con le Università. Il grande esempio è dato da Architettura, che da quasi un secolo ha lasciato l’ancoraggio alle Belle Arti per intraprendere un cammino sempre più convinto e sicuro tra gli Atenei, con grande successo, che in qualche caso ne ha pure prodotto un raddoppio, come è avvenuto a Milano. Se le Accademie di Belle

Arti si avvicinano sempre più ai Dipartimenti di Architettura, hanno tutto da

guadagnare, mettendo tra parentesi le attività nobili sul tipo di pittura e scultura, allo stesso modo che i Dipartimenti di Italianistica non mirano a tirar fuori poeti e

È inutile insistere a creare organi intermedi, di cauto avvicinamento. Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi.

I TEMPI INFINITI DELLA BUROCRAZIA

21 dicembre 1999

La legge n. 508, cioè la inattuata “riforma del settore artistico e musicale”, istituisce lo CNAM quale organo consultivo

20 febbraio 2007

Dopo oltre sette anni si tiene la prima seduta del CNAM, quella di insediamento

13 febbraio 2013

È la data della 59esima “adunanza”, l’ultima alla data attuale, e coincide con l’ultimo aggiornamento del sito ufficiale www.cnam.it

27-29 ottobre 2021

Si svolgono in via telematica le elezioni del CNAM

22 marzo 2022

Dopo nove anni, un nuovo Consiglio si insedia

28 aprile 2022

narratori, e i DAMS puntano a fare degli esperti in arti ma non direttamente degli artisti. Tra grafica pubblicitaria, design, fumetti, arti decorative, alle Accademie, se si consente loro di procedere a braccetto con le sorelle di Architettura, si spalanca una prateria di possibilità di sbocchi professionali.

Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi, per una ragione che mi sembra addirittura di retaggio medievale, perché queste scuole hanno anche i corsi delle scuole medie inferiori, cioè per scolari decenni o poco più, che non trovano nessuna rispondenza sul fronte arti visive, dove semmai si parte dai licei, non prima. Si dice che per diventare dei provetti suonatori di piano si debbano impostare mani e dita già a dieci anni o poco più, il che appunto mi sembra una pratica di sapore medievale, questa pretesa di destinare il futuro di ragazzini alle prime armi, forse solo per compiacere vecchi sogni di gloria dei genitori. Si lasci per-

dere il pianoforte se impone un simile

servaggio, in tempi dove si coltivano aperte possibilità di strumenti e di suoni. Neppure per il seminario oggi si prevede di imporre vocazioni tanto precoci. O in alterativa, si faccia degli studi musicali un’isola confinata in se stessa, mentre le arti visive si svincolino da una simile tirannia, e confluiscano nell’ambito aperto dei dipartimenti universitari dedicati al visivo, costringendo questi ultimi a superare eventuali residue ritrosie e ad accoglierli a braccia aperte.

S(C)UOLE ILLUSTRI

Peter Moore, ‘Bred’ Nike Air Jordan 1 High OG, 1985. Courtesy Sotheby’s

Negli ultimi anni mi sono ritrovato spesso a parlare con gli artisti della mia generazione – quella dei nati negli Anni Ottanta – di quali fossero le principali influenze del nostro immaginario visivo. Tempo fa avevo perfino provato a delinearne una rozza fenomenologia attraverso una struttura binaria sulla quale si imperniava l’indice di un’ampia selezione di testi Dalla strada al computer e viceversa (così si intitolava il volume uscito nel 2017 per Libri Aparte). Dietro i due termini del rapporto si collocavano numerose accezioni che potevano indirizzarne il campo semantico di appartenenza: nella “strada” stavano comodamente i graffiti (o Street Art e Urban Art, come usa chiamarle oggi) e tutte le forme di comunicazione pubblica più o meno autorizzate (dai cartelloni pubblicitari al guerrilla marketing); nella “tecnologia” invece si parlava di rivoluzione digitale, videogiochi e Internet (pre e post), ma anche di tutte quelle produzioni influenzate dai processi macchinici e computazionali. Tutto sensato e pertinente,

ma difficilmente riconducibile a un prin-

cipio unificante, a una chiave di lettura, a un denominatore comune, a un’icona capace di condensare uno spirito del tempo, un’attitudine, una formula che sottendesse gli stili individuali.

E se fossero proprio le Air Jordan 1 a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando?

Poi la scomparsa di Peter Moore (19442022), designer e art director di marchi come Adidas e Nike, leggendario autore del disegno delle tre strisce e “padre” delle Air Jordan 1, sneaker che per la loro fama vengono battute da Sotheby’s per 15mila dollari al paio come un ricercato multiplo d’artista, mi ha (ri)condotto a un pensiero, a un’ipotesi non così assurda. E se fossero proprio loro a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando? Quelle scarpe, esimie antenate di una dinastia destinata a dominare per decenni lo streetwear, fanno il loro debutto ai piedi di Sua Ariosità (His Airness è uno dei più noti soprannomi di MichealJordan) nel 1985. Non si tratta

solo di una rivoluzione nel mondo dello

sport o nel settore delle calzature, seppure negli anni precedenti le suole a strati uscite dai laboratori Nike avessero cambiato la scarpa da corsa; questa volta l’impatto sarebbe arrivato fuori dalla linea di fondo perfino nel mondo della cultura. Di lì a poco, infatti, il colosso statunitense scriverà pagine indelebili nella memoria degli adolescenti degli Anni Novanta grazie alla collaborazione con registi del calibro di SpikeLee o artisti come Futura2000.

È innegabile quindi che i principali

brand di abbigliamento sportivo

abbiano caratterizzato un’epoca, dando vita a un panorama visivo fatto di poster, riviste, video e ambienti dei loro negozi, ben oltre la diffusione globale dei loro prodotti. In quest’ottica è giusto ricordare l’esperimento Swoosh curato da Sartoria Comunicazione tra il 1996 e il 2000, in cui contenuti sportivi e culturali venivano veicolati con un’estetica che pescava a piene mani dal pop e dall’underground. Non è un caso che un protagonista della nostra generazione come il compianto VirgilAbloh (1980-2021) abbia sempre inteso la scarpa come opera d’arte, riaffermandolo nelle sue produzioni e nel volume Icons. Something’s Off (Taschen, 2021).

LA NATURA IBRIDA DELL’ANTROPOCENE

Una svolta culturale: per la prima volta, etica, storia, geografia e geologia si fondono e la distinzione tra discipline umanistiche e scientifiche, dopo secoli di separazione, collassa. È nell’Antropocene che la separazione tra realtà e rappresentazione, tra natura e cultura si dissolve. All’inizio delle sue lezioni sull’estetica, Hegel distingue il bello naturale, che esclude ogni intervento umano, dal bello artistico, prodotto della mente dell’uomo. Più tardi, Adorno si esprimerà così a proposito del dualismo tra uomo e natura: “L’immagine del bello uno e distinto nasce con l’emancipazione dalla paura provata nei confronti della schiacciante interezza e compattezza della natura”.

Ma, con l’avvento dell’Antropocene, questa distinzione decade: il dominio dell’homo sapiens sulla natura si avvia al compimento, la natura è divenuta definitivamente ibrida, è l’uomo che la plasma. A quale prezzo però. Crisi degli ecosistemi, inquina-

mento, esaurimento delle risorse, collasso ambientale: gli esseri umani hanno guadagnato in potenza, ma hanno dav-

vero il controllo? Per alcuni (i più pessimisti) stiamo correndo a rompicollo verso la sesta estinzione. E pure tra gli artisti la riflessione su quanto accade su Gaia si è fatta urgente. Anche solo in Italia, i lavori di Armin Linke a Matera e il padiglione del Giappone alla Biennale nel 2019, Luca Petti e Annika Yi di recente a Milano, Stefano Cagol e Bertozzi&Casoni a Trento, il cortometraggio dei Nerdo a Torino appaiono frammenti di una riflessione sempre più ampia. Dove però la tesi prevalente è quella apocalittica, conclusiva.

Tuttavia, di scuole di pensiero intorno al significato ultimo del termine Antropocene ce n’è più d’una. Da sempre per i “conservatori” la scomparsa della “natura selvaggia” è qualcosa di assai pericoloso oltreché oltraggioso. Mentre gli “innovatori” non trovano nulla di male nel distaccarsene, nel correggerla e migliorarla: per questi ultimi, l’Antropocene porta a compimento il sogno illuminista dell’unico mammifero a essersi alzato in piedi. I limiti di queste tesi sono evidenti. La narrazione catastrofista – utile per rimediare alla grande cecità che ancora avviluppa molti – non lascia però possibilità di reazione. Quella secondo cui l’umanità è destinata a divenire la “specie-Dio” pare poco propensa a precauzioni, si affida a progetti scientifici di incerto successo gestiti da un’élite. Più saggio è invece immaginare azioni basate su nuove forme di

ARTISTI E ANTROPOCENE

MILANO

Luca Petti Materia esotica 2022 SUPERFLUO linktr.ee/superfluoproject

Annika Yi Metaspore 2022 PIRELLI HANGARBICOCCA pirellihangarbicocca.org

MATERA

Armin Linke Blind Sensorium. Il paradosso dell’Antropocene 2019-20 MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE | EX SCUOLA ALESSANDO VOLTA arminlinke.com

TRENTO

Stefano Cagol We are the Flood 2022 MUSE stefanocagol.com

Bertozzi & Casoni Antropocene 2022 GALLERIA CIVICA bertozziecasoni.it

VENEZIA

Motoyuki Shitamichi | Taro Yasuno Toshiaki Ishikura | Nousaku Fuminori Cosmo-Eggs 2019 PADIGLIONE GIAPPONE GIARDINI DELLA BIENNALE venezia-biennale-japan.jpf.go.jp

Il Mediterraneo è un mare sfregiato dalla pesca con reti poi abbandonate sul fondo, pizzicato da ancoraggi senza vergogna, assediato dalla plastica e da sostanze chimiche provenienti dagli allevamenti e dall’agricoltura intensiva.

partecipazione individuale che lavorino sui limiti, pratiche collettive tese a frenare la crescita di ogni genere di produzione, progettando procedure democratiche e stili di vita meno costosi, capaci di assicurare maggiore uguaglianza e significati non esclusivamente materialistici.

Ho provato di recente io stesso a organizzare una mostra incentrata su questi temi in uno dei luoghi più sensibili d’Europa. Avrà luogo nel tratto sud della costa siciliana compreso tra Augusta e Pozzallo, quest'ultima sede di uno degli hotspot più ricettivi d’Europa. A questo scopo,

Pozzallo è dotata un gigantesco molo

dove attraccano le imbarcazioni della Guardia Costiera o delle Ong che pattugliano il tratto di mare che separa l’Europa dall’Africa. Alle porte di Siracusa invece sta il polo petrolchimico, un ecomostro dotato anch'esso di un molo colossale, all’interno del quale stazionano indifferentemente cargo, navi da guerra e da crociera, di tanto in tanto riempite di migranti in attesa di destinazione. Tuttavia Acque chiare/Acqua scure (dal 17 giugno al 15 luglio) non è una mostra sul fenomeno migratorio, piuttosto un’esposizione dedicata a quello che abbiamo imparato a conoscere come il mare che nostrum non è più da molto tempo, ma in compenso è sempre più trafficato. Percorso da rotte di ogni tipo: commerciali, quelle che dalla Cina attraverso Suez raggiungono il porto di Rotterdam; schiavistiche, quelle che dalla Tunisia si dirigono verso la Sicilia; militari, quelle che da Gibilterra lo attraversano per raggiungere i Dardanelli e il Mar Nero – quel “mare oscuro” già cantato da Euripide in Ifigenia in Tauride, che bagna tanto la Crimea quanto la Russia. Il Mediterraneo è un mare sfregiato dalla pesca con reti poi abbandonate sul fondo, pizzicato da ancoraggi senza vergogna, assediato dalla plastica e da sostanze chimiche provenienti dagli allevamenti e dall’agricoltura intensiva. Non ho trovato un solo artista (sono oltre trenta), un solo collezionista, un solo gallerista che non abbia aderito a questa mostra. La paura e insieme la speranza che Gaia non si scrolli di dosso definitivamente noialtri homo sapiens percorre ormai come un brivido freddo la schiena di tutti.

L’ULTIMO BARDO: WILLIAM KENTRIDGE

Nel Medioevo esisteva in Europa una categoria di cantori chiamati bardi. Il bardo illustrava imprese e gesta eroiche di persone di alto rango. Erano gli eredi degli aedi greci. I bardi erano dei cantastorie di professione al servizio dei potenti. Padroneggiavano la musica, il canto, la parola. E, come gli aedi, conoscevano la genealogia dei potenti. Trasmettevano la memoria storica dei vincitori. Possiamo dire di William Kentridge qualcosa di analogo. È una specie singolare di cantastorie. Ma, a differenza dei bardi del passato, Kentridge canta ben altre storie. Rovescia il punto di vista: canta per i “dannati della terra”. Questa espressione è di Frantz Fanon, nato nella Martinica – ex colonia dei francesi –, che si è adoperato fino alla morte per la decolonizzazione di tutti i popoli oppressi.

Parlando con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, durante un workshop e una lectio magistralis (1°/3 maggio 2022, curati da Daniela Bigi, Stefania Galegati, Rosa Persico e Marcello Faletra), Kentridge rilancia la sua poetica di bardo dei dannati. Il racconto inizia dal mito di Perseo e la Medusa, che il padre gli narrò una volta da bambino. Lentamente, dal mito passa alla storia: le sconfitte e i trionfi degli ultimi, e durante la narrazione riattualizza l’epos come genere narrativo e l’energia dell’errore come metodo. In questo procedere riprende un’intuizione di Walter Benjamin, per il quale “l’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione”, ma a ripetere questa volta sono i vinti e l’artista stesso che, come un mimo, cerca qualcosa che gli sfugge: non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando. Dice agli studenti che la prova dell’arte, nella sua opera, passa attraverso l’idea di comunità narrativa e per il sincretismo sensoriale del corpo e delle sue avventure. E aggiunge, poi, che all’atrofia dell’esperienza, generata dall’impero digitale, contrappone blocchi di corpi, suoni e voci assemblati come un composto che reintegra in una contronarrazione critica le vite di scarto.

Fondamentale è in Kentridge il ruolo

dell’illusione. Nel suo racconto diventa la scena primaria che è anteriore alla scena estetica. Se il regno dell’arte e dell’estetica è quello di una gestione convenzionale dell’illusione che tende a neutralizzarne gli effetti estremi, in Kentridge assistiamo a un rovesciamento di questa gestione. L’illusione si prende una rivincita: genera

William Kentridge con gli studenti e i curatori del workshop all’Accademia di Belle Arti di Palermo, 2022 © Archivio Marcello Faletra

Kentridge non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando.

immagini che attendono di essere intercettate, trasformandosi in un archivio di lacune, di omissioni, di errori. L’illusione, dice Kentridge, ci predispone all’inatteso e scendendo delicatamente verso il contatto si trasforma in una forma figurativa della congiunzione: la danza, le ombre, i suoni, i lamenti, il reale, oscillano intrecciandosi in un unico moto orizzontale, come una processione. Qui l’illusione di Kentiridge si fa critica verso quelle immagini abbellite che occultano le lacune della storia.

Questo modo di procedere è incredibilmente convergente col paradosso di Baudrillard, per il quale l’illusione non si oppone alla realtà. Abbiamo un’illusione convenzionale, ma c’è anche un’illusione antagonista. Da questo punto di vista è interessante cogliere un altro aspetto dell’opera di Kentridge. Questa volta è Diderot a suggerirci una chiave di lettura. Nella sua celebre Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono (1749), Diderot formula un paradosso: come possono i ciechi avere un’idea del bello? Soltanto se il bello non è separato dalla sua utilità, esso allora potrà essere concepito dai ciechi, risponde. Qui è in gioco il “valore d’uso” delle parole, come avrebbe detto Marx un secolo dopo, che in Kentridge diventa il valore d’uso dell’illusione. A che servono le immagini

se non ne facciamo un’esperienza che

coinvolga i sensi, cioè il corpo? In diverse opere di Kentridge assistiamo a un’impresa: la riscrittura della tattilità, dell’artigianalità, a dispetto di un’età che si vuole integralmente digitale. Nelle sue opere le immagini passano per le mani, per il corpo e ne subiscono gli accidenti, le imperfezioni, sono incidentate dalle scosse e dai traumi che le fanno diventare altro da quelle per le quali erano state pensate.

Si potrebbe dire che Kentridge guarda all’arte come pharmakon (una farmacologia attraverso una ritualità delle arti), in funzione di un’epica liberatoria dello sguardo, come accade nelle dissacrazioni di Jarry, o nella anti-ragion pratica di Cervantes, o nell’incertezza radicale di Svevo, che coniugano indecisione, saggezza e follia. Si tratta di una scelta di campo tra la suspence dell’incertezza manuale e la brutalità dell’evidenza dell’integralismo digitale. Questa ritualità è in gioco in molte opere di Kentridge, dove assistiamo a una specie di ritornello di Catastrophe di Samuel Beckett, nel quale emerge una sola questione: si è sicuri soltanto della propria incertezza.

RICOMINCIAMO A VERGOGNARCI

La cultura ci salverà con la vergogna. Se la cultura è identità, lì dentro ci possiamo trovare un sacco di cose. A me sembra che la vergogna sia andata persa. Non ci si vergogna più di nulla in questa società contemporanea. Non ci si vergogna di sporcare, molestare, infastidire, rompere, rubare… niente. Non esiste il senso di comunità, ovvero quel cerchio dentro il quale ci siamo tutti. Ci sono le regole di convivenza, e, ancor prima delle sanzioni formali, ci starebbe il senso civico, il rispetto per ciò che è di tutti, mio ma anche degli altri. Mentre oggi tutti è nessuno. Siamo ognuno nessuno. Siamo tanto visibili quanto anonimi sui social. La comunicazione tra essere umani ormai pare essere solo là. Pieni di amici, quanto di solitudine. Pieni di insicurezze, quanto di tracotanza. Più siamo spavaldi e più siamo vuoti. Più esageriamo, meno abbiamo. È venuto meno il senso della vergogna. L’imbarazzo per ciò che nelle regole comuni non si può fare, non va bene farlo, non vorremmo sia fatto a noi. Oggi noi vogliamo tutto, subito e ci spetta, e non siamo disponibili a dare un bel niente.

La strada, il luogo pubblico per eccellenza, dove più di altrove le persone si incrociano nei loro flussi di vita quotidiana, è dove si registra il maggior tasso di Alla giungla si aggiunge e la fa esplodere questo superficiale sentirsi di essere in un mondo di soli diritti, ad accessibilità continua e incondizionata.

assenza di vergogna. Quando qualcuno, per lo più anziano, segnala comportamenti non consoni, la reazione del redarguito è sempre la stessa: rabbia nel sentirsi leso nel suo diritto di agire. Che in fondo niente altro è che un bisogno di esistere. La vergogna invece è quel sentimento sano di imbarazzo davanti a qualcosa che non andrebbe fatto e che qualcuno ci fa notare. Quando è ben diffusa, la vergogna ha anche funzione preventiva. Mette nelle condizioni di prevenire nel fare qualcosa che non andrebbe fatto, anticipando la recriminazione pubblica.

Ma vergogna pare non ce ne sia più. In primis perché viviamo in una giungla. Questo è il sentito comune. È difficile sopravvivere, figuriamoci fare attenzione a ciò che potrebbe dare fastidio agli altri, a regole comuni che qualcuno chissà come ha stabilito. Dimenticandosi che quel qualcuno è semplicemente “quello che non vorremmo fosse fatto a noi”. Ci piace che si parcheggi male e si impedisca la mobilità veicolare? Ci piace che si sporchi dove noi stiamo? Ci piace che si rubi qualcosa che è anche nostra (una panchina nel parco) o che la si renda inutilizzabile? La lista potrebbe essere veramente infinita, tanto quanto sia quotidiano assistere all’assenza di vergogna, ovvero al rispetto di regole condivise di vita comune con conseguente senso di imbarazzo davanti alla loro trasgressione.

Alla giungla si aggiunge e la fa esplodere questo superficiale sentirsi di essere in un mondo di soli diritti, ad accessibilità continua e incondizionata. Sono venute meno le condizioni a qualsiasi partecipazione. Il digitale e la comunicazione ubiqua e pervasiva ci dà l’illusione che tutto sia nostro, tutto possiamo dire, a chiunque vogliamo, in qualsiasi momento, in qualsiasi modo.

Dove abbiamo allora l’occasione di

ri-trovarci? Nella cultura. Nel contenitore di noi, della nostra storia, di ciò che c’è stato prima di noi e di come e perché oggi siamo qui. Nelle radici ci sono le regole di convivenza, che non sono state dettate da un giudice, ma dalla storia umana che ci ha insegnato a vivere insieme, in tanti, tutti.

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