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L STUDIO VISIT Saverio Verini Marco Vitale || 28 L LA COPERTINA Luca
from Artribune #67
by Artribune
Marco Vitale
L
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e opere di MarcoVitale sono attraversate da un sentimento non pienamente definibile. Languide, provvisorie, talvolta malinconiche: mi sembrano queste le qualità della maggior parte dei suoi interventi. Vitale cerca una riconoscibilità attitudinale, più che formale. Per questo l’artista si esprime attraverso una molteplicità di media, seguendo input concettuali che lo portano ad affrontare diverse questioni: gli inciampi e i malintesi generati dal linguaggio, la rielaborazione di riti e cliché della cultura popolare, la riflessione sulla natura di desideri e pulsioni. Nella produzione di Vitale la componente effimera è una costante. Performance, ambienti instabili e opere destinati a disfarsi – talvolta con un ruolo attivo da parte dell’osservatore – contribuiscono ad alimentare lo stato d’animo inafferrabile di cui parlavo all’inizio. La sensazione è quella di essere davanti a qualcosa che si consuma di fronte a noi, anche grazie a noi.
Per definire la tua pratica credo sia fondamentale partire da esempi concreti. Ti va di raccontare il progetto che ritieni più significativo tra quelli da te realizzati?
Provo a rovesciare la questione. Forse il progetto più significativo è stato quello che non ho mai realizzato. This less is lecture, una mostra del tutto compiuta a livello progettuale, con un impianto teorico ferreo, che non ha però trovato realizzazione fisica – per scelta personale – se non attraverso il livello magnetico della scrittura: una conversazione scritta con Giorgiomaria Cornelio, autore di cui subisco il fascino, così come la vicinanza linguistica e mentale. Abbiamo poi deciso di pubblicare questo testo-mostra online, per Kabul Magazine. Fra molte esperienze nell’arco degli ultimi dieci anni, devo ammettere che questa è stata per me un caposaldo. Chiarisce un patto con la ricerca, dove l’assenza dell’opera amplifica la sua lettura. Per chiarire il concetto, ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: “Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro”.
Mi piacerebbe che ora parlassi di un intervento di fronte a un vero e proprio pubblico: The desert we sang so long, per esempio.
È una performance in collaborazione con Marco Musarò, dove due ragazzi sono impegnati a baciarsi per un’ora, dietro il pagamento di 6 euro l’ora, un ipotetico minimo sindacale. Tutt’intorno, dalle finestre del chiostro dov’è eseguito il pezzo, un coro canta e reinventa continuamente il testo di Janitor of Lunacy di Nico. La canzone sembra parlare dei giochi di potere all’interno della coppia, dove l’uno può esercitare un’influenza schiacciante sull’altro. Nel lavoro questo spettro si allarga, riferendosi ad altri e più ampi sistemi di potere e assoggettamento. Il coro è nascosto, invisibile, il canto cade dall’alto, grave, sul corpo dei due performer al piano inferiore. Viene a crearsi un contatto violento fra due elementi estremi e opposti: il lavoro salariato, contro l’archetipo presente nel gesto del bacio; il lavoro inteso come attività inferiore per eccellenza (come scriveva Arendt), contro una delle sue manifestazioni più elevate e intime: lo sforzo di una bocca sull’altra, il linguaggio orale ravvicinato fisicamente sino al suo annullamento e alla sua esasperazione.
I tuoi lavori nascono da un traboccamento di idee, letture, approfondimenti teorici. Penso a Cries the man in the blue garden, in cui incroci Il rituale del serpente scritto da Aby Warburg e la decorazione della volta della Cappella degli Scrovegni.
Sì, la lettura è spesso fondante. Cries the man... si pone come una riproduzione alterata della Cappella degli Scrovegni, dove la volta stellata è deposta sul piano di calpestio, i lapislazzuli blu sono trasformati in sabbia, materiale tradizionale della pittura Hopi. Un ponte fra Oraibi e Atene, come suggerisce Warburg. Un confronto per strati: visivo, architettonico, antropologico. La persistenza materica nell’arte classica, bianca, occidentale contro la temporaneità dell’approccio amerindio: l’affresco immortale contro il disegno di sabbia entro cui si scagliano i serpenti vivi affinché possano cancellarlo.
BIO
Marco Vitale è nato a Brindisi nel 1992. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lecce nel 2017. Tra le mostre personali si segnala: This Less is Gesture, Edicola Radetzky, Milano, a cura di Like a Little Disaster; Cries the man in the blue garden, Progetto, Lecce, a cura di Jamie Sneider. Nel 2019 ha partecipato alla residenza d’artista alla Fondazione Morra di Napoli e alla Fondazione Lac o Le Mon di San Cesario di Lecce. Nello stesso anno è vincitore del premio AccadeMibac. Tra i suoi ultimi progetti: The desert we sang so long, performance ideata con Marco Musarò, curata da Giuseppe Arnesano e svoltasi in occasione di Palai, a Lecce, progetto delle gallerie parigine Balice Hertling e Ciaccia Levi; In sei atti, mostra collettiva ospitata dalla Fondazione Morra a Napoli con la supervisione di Cesare Pietroiusti; La Libellula, performance eseguita a Palazzo delle Esposizioni in occasione de La Quadriennale di Roma, nel 2020, nell’ambito della mostra Domani, Qui, Oggi, a cura di Ilaria Gianni. Vive a Lecce.
, 2019, dettaglio, performance, durata variabile, installazione, dimensioni variabili. Photo Raffaella Quaranta Cries the man in the blue garden Marco Vitale,
Marco Vitale (in collaborazione con Marco Musarò), The desert we sang so long, 2021, performance, 60’. Photo Ambra Abbaticola
Marco Vitale, Eunasteria, 2016, installazione, dimensioni variabili. Photo Antonella Pappalepore
Marco Vitale, This less is gesture, 2019, performance, 120’. Photo Salvatore Pastore
Gli Scrovegni, il loro acquistare l’ingresso nelle sfere celesti, la purga dai peccati con la commissione dell’opera; gli Hopi che invece distruggono le pitture come rito di passaggio fra due fasi della vita – l’infante e l’adulto – o due stagioni dell’anno – siccità e pioggia. Il pubblico attraversa l’ambiente calpestando la rappresentazione celeste come fosse una decorazione propria del pavimento. Alla fine non restano che striature di sabbia irregolari e qualche stella a otto punte sopravvissuta qui e là. È un happening, un test.
C’è un’attitudine quasi iconoclasta nella tua pratica, un continuo fare e disfare… Come se cristallizzare le tue visioni in una forma stabile rischiasse di ingabbiarle. Da dove deriva questo sentimento?
Iconoclastia è una parola che mi è cara. Viviamo in un momento iconoclasta, benché possa sembrare il contrario, ovvero iconolatra. La nostra iconolatria è iconoclasta, siamo in conflitto perenne con le immagini, benché le adoriamo, le adoperiamo come un linguaggio. Siamo in una fase di mezzo, nel pieno di un’adolescenza della tecnologia quanto dei linguaggi. Sul cristallizzare in immagini o forme, insomma sul lasciar traccia: alcuni monaci procedono nei pellegrinaggi muniti di una scopa di ramoscelli, così
che, lungo il sentiero, possano man mano spostare dolcemente gli insetti che potrebbero finire calpestati. Mi piacerebbe errare per il mondo come loro.
Che ripercussioni ha tutto ciò nel tuo “posizionamento” come artista?
Come si posiziona il lavoro di un artista italiano, nato negli Anni Novanta? Se decide di vivere nel Sud Italia senza assecondare l’invito generale a muoversi altrove? Se non proviene da una classe sociale agiata? E se, per di più, la sua produzione è prevalentemente teorica e transitoria? Se fossimo qui a far quel che facciamo avendo la priorità di un rientro economico avremmo già smesso. Come suggeriva Giuseppe Chiari: “L’arte è finita, smettiamo tutti insieme”. Svolgiamo almeno due lavori, con quello dell’arte. Vedo menti e mani brillanti lavorare per quattro soldi come baristi, bidelli, centralinisti. La preziosità della nostra ricerca e della nostra generazione sta pure in questo insistere ottuso o illuminato: continuare, ostinarsi, ricercare senza necessariamente voler trovare dall’altro lato il cachet. E c’è ovviamente una stanchezza collettiva: ha la forma di una perla, è la nostra fortuna.
C’è qualche autore che ha contribuito a delineare questa traiettoria?
Potrei fare il nome di molti artisti che hanno marcato su di me la loro influenza: Klein, Calle, Sehgal. Ma quando si tratta d’immagini non c’è regime o sistema che regga: il mosaico della Cattedrale di Otranto, la Ziqqurat di Monte d’Akkoddi, i pittogrammi della Grotta dei Cervi, il volto sontuoso e immobile della prima persona amata, il canneto che solca la fine della via in cui sono cresciuto e ondeggia nel vento, queste sono le immagini che mi hanno educato sentimentalmente.
a cura di | curated by Kathryn Weir
Napoli, 24.06–26.09.2022 Bellezza e Terrore:
luoghi di colonialismo e fascismo
a cura di | curated by Kathryn Weir
LUCA GRECHI
Artribune debutta su Twitch con il format Open Studio, curato da Carolina Chiatto. Il programma, in diretta live streaming, permette di entrare virtualmente negli atelier degli artisti per vederli lavorare alle loro opere.
Il primo artista coinvolto è stato il pittore Luca Grechi, che ci ha ospitati nel suo studio Paese Fortuna, situato negli spazi del Lanificio in via di Pietralata a Roma. La ricerca di Grechi ruota intorno al processo pittorico dato da sovrapposizioni di segni e attese, giungendo a un linguaggio privo di narrazione.
Cielo in fiore è il titolo dell’opera in copertina, la cui genesi è stata documentata proprio durante la diretta su Twitch. L’artista ha raccontato di voler da tempo dipingere un cielo di giorno e intraprendere una ricerca sulla fioritura che emerge dalla sedimentazione della materia. Dall’opera affiora un repertorio di ricordi elaborati dal suo modo di vedere il mondo e una riflessione sul veloce mutare dei colori. Il quadro sarà esposto a ottobre in occasione della mostra collettiva a cura di Leonardo Regano presso Labs Contemporary Art a Bologna.
Luca Grechi nasce a Grosseto nel 1985 e vive a Roma. Tra le mostre personali più recenti: Laggiù è qui, (Galleria Davide Paludetto Arte Contemporanea, Torino 2021), Mi frulla in testa un’isola (Galleria Richter Fine Art, Roma 2021), Apparire (Galleria Richter Fine Art, Roma 2019).
Piazzale Roma
Ponte Papadopoli
Ponte Tre Ponti
10 & ZERO UNO
Dopo una lunga gavetta in tre realtà veneziane – la mitica Capricorno, la Massimodeluca di Mestre e la made in.. Art Gallery, di cui ha rilevato la sede – Chiara Boscolo inaugura la sua galleria. Perché si chiama così lo potete leggere qui sotto.
Come è nata l’idea di aprire la galleria 10 & zero uno? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza?
Nasce dalla volontà di dar vita a uno spazio curatoriale dedicato all’arte contemporanea declinata in ogni sua forma. Vorrei dare particolare attenzione a progetti che sappiano restituire una lettura attenta e sensibile delle dinamiche che governano il nostro tempo. Questo desiderio è senz’altro frutto delle esperienze maturate finora all’interno del mondo dell’arte, ma vuole anche essere uno spunto innovativo rispetto all’offerta culturale del territorio, dando vita a una realtà ancora poco presente a Venezia: gli spazi curatoriali indipendenti.
Descrivici il tuo nuovo progetto in tre righe.
I tre concept alla base del progetto sono: Art come ragione di un’esistenza ispirata che influenza il nostro pensiero; Project come profonda spinta innovativa di un agire determinato al cambiamento di una realtà in continua evoluzione; Space come luogo di apertura, palcoscenico del vivere un insieme di relazioni e circostanze che divengono dimensione sociale.
Chi sei e cos’hai fatto prima?
Fondamentali sono stati gli insegnamenti di Bruna Aickelin, personalità di spicco nel panorama artistico italiano e non solo, la quale ha sapientemente gestito la Galleria Il Capricorno per più di quarant’anni. A lei dedico il nome dello spazio, che fa riferimento all’orario in cui prendevo il vaporetto per recarmi in galleria quando ero sua collaboratrice. Ho poi lavorato alla Massimodeluca, dove ho assistito Marina Bastianello in progetti entusiasmanti,
Venezia
Campiello Lavadori de Lana (Santa Croce 270/D) 329 4089647 c.boscolo@10zerouno.com 10zerouno.com
che mi hanno portata a stretto contatto con giovani e talentuosi artisti. Infine, con la collaborazione con la made in.. Art Gallery ho potuto sviluppare diverse mostre, avvicinandomi al mondo curatoriale.
A livello di staff come sei organizzata?
Al momento sono autonoma ma la speranza, ovviamente, è quella di crescere. Credo molto nella collaborazione con altri professionisti del settore, poiché è proprio dal confronto che nascono le idee più interessanti. Sono in dialogo da molto tempo, ad esempio, con Giada Pellicari, curatrice e studiosa del mercato dell’arte. Inoltre, sarei felicissima di continuare la relazione iniziata durante questa Biennale con la Gervasuti Foundation e James Putnam.
Su quale tipologia di pubblico punti?
L’obiettivo è dar vita a un luogo di ricerca che avvicini un pubblico non elitario e sensibile ai temi della modernità attraverso un’arte che parli del mondo in cui viviamo. Un’arte che ci rappresenti e sia accessibile a tutti. Il mio motto è: “Let’s do it, contemporary!”.
Un cenno ai tuoi spazi espositivi.
10 & zero uno apre, dopo alcuni interventi di rinnovo e restauro, nei pressi di Piazzale Roma, in quella che era la sede della made in.. Art Gallery. Location strategica poiché situata a due passi dai punti di accesso dell’isola dalla terraferma.
Con che mostra hai inaugurato e come proseguirai?
La stagione espositiva è stata inaugurata, durante la settimana d’apertura della Biennale, con Condizione di Insieme – Majority Report, bipersonale di Matteo Vettorello (Venezia, 1986) e Marzio Zorio (Moncalieri, 1985). Nelle mostre future non mancheranno d’essere toccati temi legati all’identità di genere, all’utilizzo delle nuove tecnologie e a quanto esse ci influenzino, nonché alla realtà aumentata quale strumento per una diversa analisi del quotidiano.
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SULLE ORME DI ENEA
Il nuovo itinerario culturale Rotta di Enea, certificato dal Consiglio d’Europa, promosso e gestito dall’omonima associazione romana, interessa 21 tappe lungo il Mediterraneo e comprende in Italia 6 Regioni: Puglia, Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata e Lazio. aeneasroute.org
OPERA ROCK SOTTO LE ALPI
Una storia di streghe in un’epoca imprecisata, ambientata in una ex cava di pietra ai piedi delle Alpi e musicata da due nomi leggendari del pop anglo-americano Anni Ottanta. The Witches Seed, spettacolare e immersiva opera rock dalle tinte horror, firmata dal geniale musicista e fondatore dei Police, StewartCopeland, con i brani di ChrissieHynde dei Pretenders che si aggiungono alle composizioni di Copeland e IreneGrandi, nel ruolo di protagonista, è attesa per il 22 e 23 luglio in prima mondiale in Val d’Ossola, in Piemonte. Per la precisione presso il Tones Teatro Natura, Oira Crevoladossola. thewitchesseed.com
VOLTERRA 22
Quest’anno è d’obbligo passare qualche giorno nella città protagonista del nuovo riconoscimento della Regione Toscana, forte del suo programma lungo quasi un anno che include anche una visita al cantiere di restauro della Deposizione di Rosso Fiorentino. Si tratta di 300 appuntamenti tra eventi, mostre, spettacoli, riconducibili al tema della Rigenerazione umana in vari campi: musica con VinicioCapossela, arte con MariangelaCapossela, teatro con la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, design con Luisa Bocchietto e i maestri volterrani dell’alabastro, territorio con lo scrittore, poeta e paesologo Franco Arminio. volterra22.it
ELBA ISOLA DEGLI ETRUSCHI
Ancora Toscana, questa volta nel suo piccolo paradiso chiamato Isola d’Elba: quest’anno celebra il suo legame con il misterioso popolo mediterraneo degli Etruschi con un anno di appuntamenti a loro dedicati. Tra mostre, archeo-trekking, ricostruzioni storiche, cene archeogourmet alla scoperta dei perduti sapori dell’antico popolo, visite guidate, laboratori sulla musica. visitelba.info
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VALENTINA SILVESTRINI [caporedattrice architettura]
SE LA DIMORA DELL'ARCHITETTO DIVENTA UN BOUTIQUE HOTEL
hotelcasasagnier.com
Photo © Rafael Vargas
Sei anni appena separano Antoni Gaudí dal collega Enric Sagnier. Più giovane del maestro della Sagrada Familia, l’architetto visse e lavorò a Barcellona, incidendo profondamente sulla sua identità urbana. Si tratta infatti del progettista con il maggior numero di opere costruite in città: oltre 380 quelle censite, riunite dal 2009 in un itinerario tematico. Esponente di spicco dell’architettura modernista, si distinse nell’edilizia residenziale, occupandosi anche di sedi istituzionali e amministrative, fra cui il Palazzo di Giustizia. Ultimata nel 1961 da uno dei suoi cinque figli, la Chiesa del Sacro Cuore, sulla sommità del monte Tibidabo, è considerata la sua opera più rappresentativa. E chissà che non abbia preso anch’essa forma al civico 104 di Rambla de Catalunya, ovvero nella dimora-studio dell’architetto.
Eretto nel 1892 e originariamente chiamato Casa Dolors Vidal de Sagnier, in onore della moglie, dopo una fase di abbandono questo edificio è stato ristrutturato in ottica alberghiera per la prima volta nel 2008. Da aprile 2022, a conclusione di un recupero finalizzato alla riscoperta del suo carattere peculiare, ospita le 51 stanze (incluse le 6 suite) del nuovo boutique hotel 5 stelle Casa Sagnier; al piano terra si trova il ristorante mediterraneo e cocktail bar Cafè de l’Arquitecte.
Libero dai vincoli imposti dalla committenza, in questo progetto l’architetto diede prova della propria vocazione eclettica, combinando ad esempio negli interni elementi in stile gotico con sculture ornamentali. Animato dal desiderio di evocare con sobrietà l’atmosfera modernista, e senza riprodurre fedelmente la dimensione domestica di un tempo, Federico Turull dello studio TurullSørensen architects, di base a Barcellona, ha curato la rinascita dello stabile assieme a maestranze capaci di lavorare come avveniva all’epoca di Sagnier. Al risultato finale, denso di allusioni alla sfera artigianale, hanno contribuito le interior designer Núria Pérez-Sala ed Estrella Salietti, la fashion&graphic designer Laura Torroba, autrice di tessuti, illustrazioni e dettagli che ricordano l’atelier di un architetto, e Studio Elefante (Eva Balart e Juan Carballido), cui si devono le installazioni artistiche in omaggio a Sagnier, fra cui un ritratto composto da francobolli.
Proponendo un modello di ospitalità analogo al Primero Primera (hotel aperto a Barcellona nel 2011 dalla medesima proprietà, la famiglia Pérez-Sala), Casa Sagnier risulta nel complesso una “composizione aperta, nella quale gli oggetti possono essere aggiunti nel tempo”, proprio come avviene fra le mura di casa. Funzionalità ed equilibrio compositivo prevalgono nelle camere, rinnovate puntando su un evergreen: il binomio bianco e nero.
CRISTINA MASTURZO
[docente di economia e mercato dell'arte]
MARLENE DUMAS
Dall’analisi delle migliori aggiudicazioni in asta di Marlene Dumas, protagonista della recente retrospettiva a Palazzo Grassi a Venezia, emerge un mercato costruito nel tempo in modo solido e organico, immune ai picchi speculativi e agli incrementi di prezzo raggiunti repentinamente da artisti con carriere molto meno consolidate.
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The visitor, 1995, olio su tela, 180 x 300 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 1° luglio 2008 6,331,706 $
2 Colorfields, 1997, olio su tela, 200 x 150 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale,
New York, 18 maggio 2017 4,170,000 $
3 Cathedral, 2001, olio su tela, 229.9 x 60.3 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction,
Londra, 11 febbraio 2020 4,057,202 $
4 Magdalena (Underwear and Bedtime Stories), 1995, olio su tela, 200.3 x 100.3 cm
Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction,
New York, 16 novembre 2017 3,615,000 $
5 The yellow fingers of the artist, 1985, olio su tela, 125 x 105.5 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale,
New York, 16 novembre 2017 3,615,000 $
6 The Teacher (Sub a), 1987, olio su tela, 160 x 200 cm Christie’s, Post War and Contemporary,
Londra, 9 febbraio 2005 3,349,460 $
8 The Baby (2), 2005, olio su tela, 130 x 110 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale,
Hong Kong, 6 ottobre 2020 3,145,201 $
7 Red Head, 2001, olio e acrilico su tela, 229.9 x 59.7 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction,
New York, 11 maggio 2016 3,250,000 $
9 Magdalena (Dark Polychrome), 1995, olio su tela, 200 x 100 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction,
Londra, 5 marzo 2019 3,015,768 $
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Night Nurse, 1999-2000, olio su tela, 200 x 100 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 8 maggio 2016 2,517,000 $ MARCO ENRICO GIACOMELLI L L’appuntamento è fissato al 24 settembre. È la data in cui riaprirà al pubblico il KMSKA, il Museo Reale di Belle Arti di Anversa, protagonista di un cantiere durato oltre un decennio. La storia ha inizio nel 2004, quando allo studio di architettura KAAN di Rotterdam (sono loro, insieme a una mezza dozzina di colleghi, a progettare il nuovo terminal dello Schiphol, aeroporto fra i più grandi e rilevanti d’Europa) viene assegnato l’incarico. I lavori propriamente detti iniziano nel 2011, a museo chiuso. A essere interessato è l’edificio neoclassico nel suo complesso, a partire dagli spazi esterni, dove si è operato in direzione della sostenibilità ambientale grazie alla schermatura solare del tetto e alla creazione di un giardino. Quattro cortili interni sono invece stati trasformati in spazi espositivi, guadagnando in questo modo ben il 40% di superficie e una nuova ala, dove il bianco accecante predomina – in contrasto con i colori caldi che si è scelto di ripristinare nelle sale del piano nobile – e il segno distintivo sono le continue variazioni di scala, in aperta e proficua contrapposizione alla simmetria dell’impianto neoclassico. Quanto alla collezione che sarà possibile rivedere – 650 opere su un patrimonio di oltre 8.400, che in questi anni sono state oggetto di una maestosa campagna di restauro e conservazione –, parliamo di un arco temporale compreso fra il XIV e il XX secolo, con la possibilità di percorrere magnificamente la pittura fiamminga dai Primitivi al Barocco (è un tripudio di Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Lucas Cranach, Peter Paul Rubens, Rembrandt, Antoon van Dyck, Jacob Jordaens – senza dimenticare l’incredibile Vergine con Bambino di Jean Fouquet, che è di metà Quattrocento ma sembra un acrilico di Pop Surrealism), fino ai maestri del moderno come Grosz e Magritte. A fare da trait d’union fra edificio storico e nuove sale è James Ensor, esposto in entrambi i contesti: qui è infatti conservato il suo corpus più importante a livello mondiale. Da citare infine il programma quinquennale di residenze d’artista, che vedrà coinvolti ventidue artisti contemporanei in dialogo con la collezione. E una passeggiata la merita senz’altro il quartiere, lo Nieuw Zuid urbanisticamente pensato da Triple Living, con il nascituro mega parco (le auto finiranno nel parcheggio sottostante), il lungofiume intelligentemente restituito ai cittadini, i recentissimi cluster di appartamenti, l’iconico museo d’arte contemporanea MHKA, il Palazzo di Giustizia firmato Richard Rogers e gallerie come Zeno X e Tim Van Laere. kmska.be