GIUGNO L AGOSTO 2022
#67
SAVERIO VERINI [ curatore ]
Marco Vitale e opere di Marco Vitale sono attraversate da un sentimento non pienamente definibile. Languide, provvisorie, talvolta malinconiche: mi sembrano queste le qualità della maggior parte dei suoi interventi. Vitale cerca una riconoscibilità attitudinale, più che formale. Per questo l’artista si esprime attraverso una molteplicità di media, seguendo input concettuali che lo portano ad affrontare diverse questioni: gli inciampi e i malintesi generati dal linguaggio, la rielaborazione di riti e cliché della cultura popolare, la riflessione sulla natura di desideri e pulsioni. Nella produzione di Vitale la componente effimera è una costante. Performance, ambienti instabili e opere destinati a disfarsi – talvolta con un ruolo attivo da parte dell’osservatore – contribuiscono ad alimentare lo stato d’animo inafferrabile di cui parlavo all’inizio. La sensazione è quella di essere davanti a qualcosa che si consuma di fronte a noi, anche grazie a noi.
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Ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: "Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro".
Per definire la tua pratica credo sia fondamentale partire da esempi concreti. Ti va di raccontare il progetto che ritieni più significativo tra quelli da te realizzati? Provo a rovesciare la questione. Forse il progetto più significativo è stato quello che non ho mai realizzato. This less is lecture, una mostra del tutto compiuta a livello progettuale, con un impianto teorico ferreo, che non ha però trovato realizzazione fisica – per
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scelta personale – se non attraverso il livello magnetico della scrittura: una conversazione scritta con Giorgiomaria Cornelio, autore di cui subisco il fascino, così come la vicinanza linguistica e mentale. Abbiamo poi deciso di pubblicare questo testo-mostra online, per Kabul Magazine. Fra molte esperienze nell’arco degli ultimi dieci anni, devo ammettere che questa è stata per me un caposaldo. Chiarisce un patto con la ricerca, dove l’assenza dell’opera amplifica la sua lettura. Per chiarire il concetto, ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: “Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro”. Mi piacerebbe che ora parlassi di un intervento di fronte a un vero e proprio pubblico: The desert we sang so long, per esempio. È una performance in collaborazione con Marco Musarò, dove due ragazzi sono impegnati a baciarsi per un’ora, dietro il pagamento di 6 euro l’ora, un ipotetico minimo sindacale. Tutt’intorno, dalle finestre del chiostro dov’è eseguito il pezzo, un coro canta e reinventa continuamente il testo di Janitor of Lunacy di Nico. La canzone sembra parlare dei giochi di potere all’interno della coppia, dove l’uno può esercitare un’influenza schiacciante sull’altro. Nel lavoro questo spettro si allarga, riferendosi ad altri e più ampi sistemi di potere e assoggettamento. Il
coro è nascosto, invisibile, il canto cade dall’alto, grave, sul corpo dei due performer al piano inferiore. Viene a crearsi un contatto violento fra due elementi estremi e opposti: il lavoro salariato, contro l’archetipo presente nel gesto del bacio; il lavoro inteso come attività inferiore per eccellenza (come scriveva Arendt), contro una delle sue manifestazioni più elevate e intime: lo sforzo di una bocca sull’altra, il linguaggio orale ravvicinato fisicamente sino al suo annullamento e alla sua esasperazione. I tuoi lavori nascono da un traboccamento di idee, letture, approfondimenti teorici. Penso a Cries the man in the blue garden, in cui incroci Il rituale del serpente scritto da Aby Warburg e la decorazione della volta della Cappella degli Scrovegni. Sì, la lettura è spesso fondante. Cries the man... si pone come una riproduzione alterata della Cappella degli Scrovegni, dove la volta stellata è deposta sul piano di calpestio, i lapislazzuli blu sono trasformati in sabbia, materiale tradizionale della pittura Hopi. Un ponte fra Oraibi e Atene, come suggerisce Warburg. Un confronto per strati: visivo, architettonico, antropologico. La persistenza materica nell’arte classica, bianca, occidentale contro la temporaneità dell’approccio amerindio: l’affresco immortale contro il disegno di sabbia entro cui si scagliano i serpenti vivi affinché possano cancellarlo.
BIO Marco Vitale è nato a Brindisi nel 1992. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lecce nel 2017. Tra le mostre personali si segnala: This Less is Gesture, Edicola Radetzky, Milano, a cura di Like a Little Disaster; Cries the man in the blue garden, Progetto, Lecce, a cura di Jamie Sneider. Nel 2019 ha partecipato alla residenza d’artista alla Fondazione Morra di Napoli e alla Fondazione Lac o Le Mon di San Cesario di Lecce. Nello stesso anno è vincitore del premio AccadeMibac. Tra i suoi ultimi progetti: The desert we sang so long, performance ideata con Marco Musarò, curata da Giuseppe Arnesano e svoltasi in occasione di Palai, a Lecce, progetto delle gallerie parigine Balice Hertling e Ciaccia Levi; In sei atti, mostra collettiva ospitata dalla Fondazione Morra a Napoli con la supervisione di Cesare Pietroiusti; La Libellula, performance eseguita a Palazzo delle Esposizioni in occasione de La Quadriennale di Roma, nel 2020, nell’ambito della mostra Domani, Qui, Oggi, a cura di Ilaria Gianni. Vive a Lecce.