Artribune 83

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20 studi d'architettura emergenti da tenere d'occhio + Poznań: destinazione culturale tutta da scoprire +

La critica d'arte è davvero al capolinea?

Emilia Giorgi (a cura di)

Guido Incerti, Luca Capuano giro d'italia: Bologna

Saverio Verini studio visit: Nicola Bizzarri

Alberto Villa L’emergenza di emergere + Giulia Giaume (a cura di) news 20

Alberto Villa dietro la copertina Le vestigia di un abbandono I fantasmi di Luca Campestri 24

Dario Moalli

libri

Arte e autodistruzione in un nuovo libro 26

Nicola Davide Angerame focus bangkok

Bangkok vuole diventare l’hub dell’arte contemporanea nel SudEst asiatico

Caterina Angelucci osservatorio curatori Cult of Magic e la curatela della performance

Ferruccio Giromini

opera sexy

I morbidi gessi di Akihiko Takeda

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Elisabetta Roncati(a cura di) queerspectives

Mohamad Abdouni: testimonianze queer dal mondo arabo

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Valentina Tanni window

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Cristina Masturzo mercato

Top10Lots + Il mercato dell’arte resta incerto alle aste di Londra

STORIES

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Valentina Silvestrini

DESTINAZIONE 2030: 20 STUDI ITALIANI DI ARCHITETTURA DA TENERE D’OCCHIO

Quali sono gli studi di architettura emergenti in Italia che si stanno facendo più notare? Abbiamo realizzato una mappatura in vista della prossima Biennale Architettura di Venezia

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Dario Bragaglia LA POLONIA È NATA A POZNAŃ Polacca, certo, ma con grandi influenze dalla vicina Germania: la città di Poznań è un concentrato di storia, tradizione e cultura. Tutti i luoghi, i musei e le gallerie da non perdere

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Caterina Angelucci (a cura di) LA CRITICA D’ARTE È DAVVERO AL CAPOLINEA

O SI STA TRASFORMANDO?

Attraverso voci autorevoli ed emergenti, prendiamo di petto la critica d’arte e la sua crisi attuale. Quali sono le prospettive di cambiamento e adattamento di una professione che fatica a rimanere indipendente?

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Alex Urso (a cura di) short novel Guido Brualdi Nine 2 Five

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Santa Nastro (a cura di) talk show L’arte deve prendere posizione di fronte alle emergenze del presente?

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Massimiliano Tonelli Che contributo danno le Regioni italiane alla cultura?

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Angela Vettese Il Botanical Turn dell'arte contemporanea

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Anna Detheridge Ecofemminismo: una storia di fantasmi e di mostri

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Fabio Severino Finché gli hotel saranno insufficienti, l'overtourism sarà un problema

101

Fabrizio Federici Overtourism blues

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Marcello Faletra Le ceneri di Pasolini

GRANDI MOSTRE #45

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Valentina Muzi

In occasione del bicentenario della nascita di Giovanni Fattori, Piacenza dedica una grande mostra al “genio” dei Macchiaioli

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Nicola Davide Angerame Quando Brancusi scolpiva il volo. La mostra al Parco Archeologico del Colosseo

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Silvia Camporesi Il tempo nelle fotografie di Guido Guidi in mostra al Museo MAXXI

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Alberto Villa Arte salvata dalle bombe. A Mestre i capolavori del Museo di Le Havre

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Emma Sedini Follia, malattia, sessualità e morte: Carol Rama al Kunstmuseum di Berna

79

Marta Santacatterina Vilhelm Hammershøi: il pittore del silenzio in mostra a Rovigo

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Giulia Giaume Io sono Leonor Fini. A Milano la mostra della pittrice che superò il Surrealismo

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Emma Sedini Marisa Merz. La Signora dell’Arte Povera al Kunstmuseum di Berna

83

Marta Santacatterina Cos’è un curatore? Parola a Luca Massimo Barbero

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Grandi Mostre in Italia in queste settimane

GIRO D'ITALIA: BOLOGNA

a cura di EMILIA GIORGI

GUIDO INCERTI architetto [testo]

LUCA CAPUANO [foto]

Bologna è dove ho scelto di vivere. Per ora. Non ci sono nato, non ci ho studiato e ci sono arrivato per caso. Di lei, ricordavo fredde mattine di dicembre e i miei fratelli in partenza per il Motor Show, Arte Fiera, dove conobbi le opere di Capogrossi e i Concetti spaziali di Lucio Fontana e una bellissima mostra su Andrea Pazienza a Palazzo Re Enzo che mi spinse, da Mestre, a un avanti e indietro per quattro giorni di fila. Due stampe mi seguono da allora e il vivo ricordo del video in cui Andrea dipingeva una feroce battaglia tra leoni, cavalli e opliti.

A Bologna sono arrivato per caso. Vivevo a Firenze, da dove volevo scappare. Una domenica di settembre, con la mia futura moglie venimmo a Bolo per la mostra su Bowie al Mambo. Non la vedemmo mai. Una fila estenuante ci portò a non perdere tempo lì. Ci ritrovammo al mercatino della Montagnola, poi ci perdemmo tra chiese, palazzi, portici, botteghe, canali e rimasugli di vecchie osterie da biasanòt per giungere, infine, all’ombra del portico del Pavaglione. Li dov’è la libreria Nanni. Ci guardammo: “Ma sai che non è male? Perché non ci trasferiamo?”. Così facemmo, non prima però di fare alcune esplorazioni, con l’obbligatoria salita alla Madonna di San Luca, nel portico votivo omonimo che da Porta Saragozza si arrampica sul colle della Guardia e porta al santuario della Vergine, santa icona popolare diurna. L’icona oscura della città, scoprimmo poi, è Santa Caterina de’ Vigri che, da tutti venerata, adorna di fiori, ancora incorrotta nel corpo e nel profumo, sta lì, seduta sulla sua seggiolina, nelle stanze del Monastero delle Clarisse.

Un giorno mi chiesero perché sono venuto ad abitare a Bologna, istintivamente risposi: “Perché è bella ma non bellissima”. Non come sosteneva Pier Paolo Pasolini, bolognese, vissuto a due strade da casa mia, poco lontano da dove soggiornarono e vissero anche Leopardi e Carducci: “Cos’ha Bologna, che è così bella? L’inverno col sole e la neve, l’aria barbaricamente azzurra sul cotto. Dopo Venezia, Bologna è la più bella città d’Italia, questo spero sia noto”.

A Bologna è nata mia figlia. Vivere qui è bere il caffè al Bar Baldi, da 110 anni la stessa famiglia al bancone. È camminare “cullati fra i portici cosce di mamma Bologna”, scoprendo angoli di Nord Europa disegnati da Giuseppe Vaccaro o da Enzo Zacchiroli, discepolo di Aalto, ma prestigioso architetto di suo. Un Nord Europa di paramenti murari in laterizio per cui Bologna “la rossa” è conosciuta in quanto fatta di mattoni e non di pietra. Bologna è ritrovarsi al Padiglione dell’Esprit Nouveau realizzato grazie all’impegno culturale di Giorgio Trebbi e dei fratelli Giuliano e Glauco Gresleri, quest’ultimo autore di architetture memorabili in città e dintorni. E dirimpetto la GAM di Leone Pancaldi, all’ingresso di quella Fiera le cui torri metaboliste di Kenzo Tange, a seconda del meteo, contrastano l’azzurro del cielo o si fanno senza fine tra nebbia e smog.

Bologna è l’urbanistica di Pier Giorgio Cervellati che ancora oggi regge, ed è l’assalto a Palazzo d’Accursio del 21 novembre 1920 dove gli squadristi di Leandro Arpinati, foraggiati dagli Agricoli, latifondisti e borghesi della pianura padana, dettero il primo duro colpo al Socialismo italiano, mai rivoluzionario, proiettando il Paese nella dittatura fascista. È dove Carlo V visse prima di essere incoronato imperatore tra San Petronio e Piazza Maggiore, lì dove oggi, d’estate, si vive “sotto le stelle del cinema” e le magiche proiezioni a cura della Cineteca.

Bologna è Palazzo Bentivoglio, un luogo d’arte insolito. Palazzo storico della famiglia che plasmò la città medievale, oggi condominio, dove giardino, corti, biblioteche e sotterranei, grazie ad una grande mecenate che vive nel palazzo, ospitano opere, archivi, mostre temporanee e installazioni permanenti in cui il Palazzo, la sua architettura, le sue storie e il suo futuro sono sempre protagonisti della curatela artistica.

Ma sì, forse alla fine aveva ragione Pasolini.

Luca Capuano, Orti 142, Bologna, Courtesy l’autore

STUDIO VISIT NICOLA BIZZARRI

Piuttosto che inventare mondi, Nicola Bizzarri preferisce ribaltare quello esistente. Le sue opere nascono spesso dall’utilizzo di cose già note, alle quali l’artista applica interferenze sottili e incisive: alcuni vasi vengono plasmati con alla base un autoritratto di Bizzarri stesso, che ne altera forma ed equilibrio; i motti contenuti nelle sciarpe delle tifoserie calcistiche subiscono modifiche che le rendono simili ad haiku strampalati; delle statuine di cavalli vengono stampate su tessuti, perdendo ogni connotazione tridimensionale. Sono solo alcuni esempi delle trasfigurazioni di Bizzarri, che sfuggono al perimetro della divisione tra medium: fotografia, scultura, installazione sono di volta in volta usati per dar forma a opere sfuggenti, nelle quali l’artista sembra divertirsi ad aggiungere o togliere informazioni alle immagini che crea, complicandone così la lettura.

La tua poetica sembra proporre un ribaltamento sottile dell’esistente, un prelievo della realtà che viene da te “rimasticata” e trasfigurata attraverso spostamenti minimi eppure decisivi. Come sei arrivato a sviluppare questo atteggiamento artistico?

Sì, parto sempre da degli elementi esistenti, molti dei miei lavori li vedo dopotutto come dei collage di idee. È un’attitudine abbastanza spontanea, ma che col tempo ho imparato a coltivare. Il mondo è già saturo di immagini e informazioni allegate: io le prendo in prestito, per così dire.

Nonostante la tua pratica si muova tra linguaggi diversi, avverto una sensibilità scultorea, evidente in opere come In the end only anger remains o Double self-portrait as vases. In entrambi i casi trovo ci sia una volontà di destabilizzare il medium della scultura, pur rimanendo all’interno del suo perimetro.

Devo dire che a volte questa cosa mi spaventa un po’: temo che il lavoro possa essere percepito in maniera troppo marcata in riferimento alla scultura e alla sua storia, in questo modo chiudendosi molto. In realtà la scultura intesa come medium che si basa sullo spazio è solo uno dei miei tanti interessi e spesso penso a progetti che vi si discostano. Essendo però forse uno dei linguaggi con cui ho più dimestichezza, ricasco sempre in un modo o nell’altro nella realizzazione di oggetti tridimensionali. Forse è un bisogno che finora ho avuto, quello di concretizzare un’idea in un oggetto, chissà. In ogni caso entrambi i lavori che hai citato si basano su due idee semplici, quasi austere, che però credo si arricchiscono attraverso materiali e tecniche proprie del medium scultoreo. Quando ho cominciato a lavorare sulla serie Am Ende bleibt nur Ärger, per esempio, mi sono scontrato con dei limiti tecnici importanti e gli escamotages che ho adottato hanno contribuito in maniera determinante all’ampliamento della cornice concettuale del lavoro. In altre opere ricorre invece la parola scritta, atti-

Parto sempre da elementi esistenti, molti dei miei lavori

li vedo come dei collage di idee

vando una forma di narrazione che può risultare in apparenza più esplicita, ma che in realtà è tutt’altro che letterale, per esempio in Untitled (Tradition verpflichtet). Mi piace il modo in cui alterni tecniche artistiche e supporti e credo fermamente che l’artista non debba necessariamente vincolarsi a una riconoscibilità formale; tuttavia, vorrei chiederti se pensi che ciò possa rappresentare un limite per l’interesse che il tuo lavoro può suscitare.

Sinceramente no. Anzi, sono sempre stato affascinato da quelle artiste e quegli artisti di cui si riconosce il modo di pensare e la poetica prima dello stile formale. Posso dire che anche io aspiro a questo. Per esempio, due dei lavori che hai citato, Untitled (Tradition verpflichtet) e Double self-portrait as vases sono diversissimi formalmente ma io li considero due opere sorelle, nel senso che esprimono due sfumature della stessa idea. La differenza in questo caso credo stia nel come certe corde vengono pizzicate: con la parola o con l’immagine. Parola ed immagine che comunque utilizzo nel medesimo modo, avendole prese dallo stesso luogo, che è il mondo circostante. Untitled (Tradition verpflichtet) è questo, una poesia composta di frasi prese da sciarpe di club sportivi: “Obbligato alla tradizione/niente altro/e mai dimenticare/ma non il nostro amore”.

Il tuo orizzonte si apre anche a narrazioni antiautoritarie, per così dire, che danno alla tua pratica una dimensione più apertamente politica. Qual è l’equilibrio che cerchi tra “poetico” e “politico”? Negli ultimi anni mi sono chiesto in maniera più forte che in precedenza che senso avesse continuare a fare arte, prima di tutto per me oggi, e quale fosse il mio ruolo come produttore. Questo gradualmente mi ha spinto a portare nel mio lavoro in maniera più esplicita un discorso politico. Trattandosi comunque di realizzazioni artistiche, credo che questo equilibrio sia fondamentale per poter mantenere l’opera “viva”. Cerco insomma che un lavoro si muova su più livelli,

Nicola Bizzarri è nato a Bologna nel 1996. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti della propria città natale, ha studiato a Monaco di Baviera e Berlino. Attualmente vive tra Monaco di Baviera e Bologna, dove dal 2023 è borsista al Collegio Venturoli. Il suo lavoro è stato esposto in spazi pubblici e privati tra cui: CRAC, Castelnuovo Rangone (2025); La Diode, Clermont-Ferrand (2024); Galerie der Künstler*innen, Monaco (2023); AkademieGalerie, Monaco (2023, 2021); Nokwoodang Foundation, Haenam (2022); The Pool, Düsseldorf (2022); Kontingentraum, Monaco (2022); Goldberg Galerie, Monaco (2022); Kunstpavillon, Monaco (2021); Oratorio dei Bianchi, Palermo (2018); galleria P420, Bologna (2018); Villa delle Rose, Bologna (2018); MaximiliansForum, Monaco (2018). È stato residente nel 2024 alla Artistes en résidence di Clermont-Ferrand attraverso il progetto di residenze Nuovo Grand Tour realizzato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea e, nel 2023, alla Longega Project International Artist House in Longega, Alto Adige/Südtirol.

Nicola Bizzarri, Double self-portrait as vases , 2021, 2 vasi in terracotta identici, 2 piante identiche (Dypsis lutescens), ognuno elemento 130 x 100 x 60 cm. Veduta della mostra Januar, Goldberg Galerie, Munich, 2022. Courtesy l’artista. Photo Ludwig Neumayr.

Nicola Bizzarri, Senza titolo (Tradition verpflichtet), 2022, tessuti sintetici, dimensioni variabili, ogni elemento 150 x 17 cm. Courtesy l’artista. Photo Younsik Kim.

Nicola Bizzarri, Immagine 2022-03-13 183227, 2023, stampa digitale su tessuto, dimensioni variabili. Courtesy l’artista. Photo Younsik Kim.

Nicola Bizzarri, Am Ende bleibt nur Ärger, 2024, figurina di cavallo in bronzo sciolta, 56 x 50 x 0,5 cm. Courtesy

NEI NUMERI

PRECEDENTI

#58 Mattia Pajè

#59 Stefania Carlotti

#61 Lucia Cantò

#62 Giovanni de Cataldo

#63 Giulia Poppi

#64 Leonardo Pellicanò

#65 Ambra Castagnetti

#67 Marco Vitale

#68 Paolo Bufalini

#69 Giuliana Rosso

#70 Alessandro Manfrin

#71 Carmela De Falco

#72 Daniele Di Girolamo

#73 Jacopo Martinotti

#74 Anouk Chambaz

#75 Binta Diaw

#76 Clarissa Baldassarri

#77 Luca Ferrero

#78 Francesco Alberico

#79 Ludovica Anversa

#80 Letizia Lucchetti

#81 Bekhbaatar Enkhtur

#82 Federica Di Pietrantonio

la cui combinazione possa eventualmente avvicinarsi a produrre significato. Se pensiamo alla serie di opere con le stampe su tessuto, per esempio, vi è il tema della genealogia delle immagini, ma anche quello dei significati emotivi che gli oggetti possono acquisire. Quella serie, come anche Untitled (Tradition verpflichtet), prende in considerazione inoltre un’intimità emotiva presente sia nella sfera poetica che in quella politica.

Vivi tra Monaco di Baviera e Bologna, dove hai uno studio al Collegio Venturoli. Difficoltà e opportunità di questa doppia residenza? E quale delle due realtà ti sembra offra maggiori prospettive?

Monaco e Bologna sono ben collegate, ma spostarsi a seconda dei progetti toglie energie e tempo alla pratica artistica stessa. Sono due città diametralmente opposte e anche le opportunità che i due contesti offrono sono differenti. Per me è sempre stato importante essere immerso in un contesto internazionale che purtroppo trovo un po’ carente in Italia. Per motivi anche solo geografici, ho l’impressione che in

Cerco che un lavoro si muova su più livelli, la cui combinazione possa eventualmente avvicinarsi a produrre significato

Italia si sia un po’ isolati rispetto al resto d’Europa, mentre vivere a Monaco mi ha spesso consentito di coltivare relazioni anche al di fuori della Germania. Cinicamente, in Baviera vedo più opportunità di sostegno concreto agli artisti, anche giovani, tra soluzioni burocratiche ad hoc e finanziamenti pubblici. In Italia c’è tantissimo fermento, ma mi sembra manchino le “infrastrutture”. In ogni caso uno dei vantaggi che apprezzo di più del vivere a metà tra questi due contesti è il fatto di poter avere uno sguardo quasi esterno su entrambi. È per me una ricchezza poter vedere le diverse sensibilità che gli artisti e la società hanno nei diversi luoghi.

A cosa stai lavorando ora?

Al momento sto lavorando a una serie di lavori a partire da materiale di archivio della mia famiglia, in particolare da dei disegni risalenti agli Anni Trenta. È forse il progetto più intimo su cui abbia lavorato finora, è una sfida per me. Ancora una volta si tratta principalmente di oggetti, ma anche di sperimentazioni con semplici tecniche di fotografia analogica.

l’artista e Galleria Fuocherello.

L’EMERGENZA DI EMERGERE

Una volta un mio caro amico ha pronunciato una frase semplice ma efficace, che non ha mai smesso di farmi pensare: “l’emergenza di emergere”. Pare che farsi notare non sia mai stato così semplice e così difficile come oggi. Emergere, nel nostro presente, significa distinguersi in una giungla dalla concorrenza spietata. Un gioco delle sedie al contrario, in cui il numero delle sedute resta sempre lo stesso, ma i partecipanti aumentano costantemente. E se chi riesce a prendere posto quando la musica si ferma difficilmente lo lascerà, chi invece rimane in piedi deve affrontare la consapevolezza di avere sempre meno possibilità di sedersi. Queste e molte altre sono le difficoltà di chi oggi si trova ad essere definito con l’etichetta

(ricca tanto di speranze quanto di precarietà) di “emergente”. Difficoltà che costituiscono una vera e propria emergenza, tra le tante che colpiscono la nostra quotidianità e che attraversano il giornale che avete in mano. Dalla cover firmata dal giovanissimo Luca Campestri, a una mappatura degli studi di architettura emergenti italiani condotta da Valentina Silvestrini, dallo stato della critica d’arte e della giovane curatela nei contributi di Caterina Angelucci all’ormai stabilissimo appuntamento con i giovani artisti nello Studio Visit di Saverio Verini. Si parla anche di turismo, nel bene – con il report di Dario Bragaglia dalla polacca Poznań, sempre più scelta dai viaggiatori culturali – e nel male, negli editoriali di Fabrizio Federici e Fabio Severino, che illustrano ironie e drammaticità dell’over-

Lina Ghotmeh Architecture rinnoverà il British Museum di Londra

VALENTINA SILVESTRINI L Il team guidato dall’architetta libanese Lina Ghotmeh, che include anche Ali Cherri e gli studi Arup, Holmes Studio, Plan A, Purcell, ha vinto il concorso per la ristrutturazione di circa un terzo degli spazi espositivi della sede museale londinese. A due anni dal suo Serpentine Pavilion, per la progettista di base a Parigi arriva il primo incarico di rilievo nella capitale inglese. Considerata come una delle più grandi ristrutturazioni museali al via su scala globale, la riprogettazione delle gallerie Western Range del British Museum rientra nel più vasto piano di rinnovamento promosso per il XXI secolo dall’istituzione britannica, che comprende anche interventi di efficientamento energetico. La proposta di Ghotmeh e del suo raggruppamento ha convinto all’unanimità la giuria del concorso indetto dal museo nel maggio 2024; su oltre 60 team internazionali partecipati, alla seconda e conclusiva fase hanno avuto accesso 6a architects, David Chipperfield Architects, Eric Parry Architects e Jamie Fobert Architects, OMA e, appunto, la formazione capitanata da LG — A. L’operazione, della quale non sono ancora noti tutti i dettagli, inciderà nel futuro assetto architettonico e nell’allestimento di circa 15.600 mq: tale superficie include le gallerie espositive che accolgono capolavori relativi alle antiche civiltà dell’area mediterranea, dalla Grecia all’Egitto, passando per Roma e il Medio Oriente. Sono inoltre attesi nuovi depositi per la collezione e strutture per le attività di ricerca. Per il direttore del British, Nicholas Cullinan, Lina Ghotmeh è “un’architetta di straordinaria grazia e autorevolezza. Le proposte del suo team hanno dimostrato una visione architettonica eccezionale (…) e il loro approccio “archeologico” ha chiaramente compreso l’ambizione di questo progetto di essere tanto una trasformazione intellettuale quanto architettonica”.

tourism contemporaneo. Non mancano le emergenze ambientali e le loro risposte culturali, dall’ecofemminismo (ben illustrato da Anna Detheridge) alla svolta botanica dell’arte contemporanea, raccontata da Angela Vettese. Fino ad una riflessione più corale nel Talk Show condotto da Santa Nastro sul ruolo delle opere d’arte nello schierarsi in tempi di crisi (anche mediatica, come esplicita Marcello Faletra nell’editoriale che chiude il giornale). Ecco che l’emergenza di emergere appare nella sua ambivalenza: da un lato la necessità di apparire e distinguersi, dall’altro quella di nuotare fino alla superficie per cercare l’ultima boccata di ossigeno rimasta, in una stanza che sembra riempirsi d’acqua sempre di più. Emergere per non scomparire, emergere per non annegare.

Nascono gli Art Basel Awards, premio agli innovatori dell’arte

LIVIA MONTAGNOLI L La principale piattaforma fieristica d’arte a livello globale lancia l’iniziativa che celebra il mondo dell’arte in senso allargato per propiziare nuove connessioni. A maggio 2025, i nomi dei 36 vincitori della prima edizione, scelti tra i professionisti che stanno contribuendo a far crescere il settore, e avranno l’opportunità, grazie al premio, di intraprendere nuovi progetti. Tra loro, selezionati da una giuria di nove esperti internazionali, 12 saranno eletti Gold Medalists in occasione di Art Basel, e annunciati il prossimo dicembre durante la sessione americana della fiera, a Miami. L’iniziativa vuole proporsi come una chiamata all’azione per attivare nuove sinergie, e alimentare così dall’interno il sistema dell’arte e della cultura in senso più ampio.

A Cremona nasce un nuovo spazio culturale. Ma anche laboratorio di idee e di sperimentazione sociale

CATERINA ANGELUCCI L Nasce a Cremona come centro di produzione culturale e di ricerca sui linguaggi del contemporaneo It’s Hard Noise, il nuovo laboratorio permanente di idee che raccoglie l’esperienza del CRAC di Cremona e del Centro Itard Lombardia, in dialogo con VISUALCONTAINER di Milano, L.A.M. Laboratorio Arte Marmellata di Orzinuovi e QU.EM quintelemento NEXTEATRO. L’obiettivo? Fare dell’arte uno strumento per riqualificare l’ambiente e attivare relazioni generative per la comunità ospitante e non solo. Nel corso del 2025, il programma annuale sarà sviluppato attraverso un percorso che favorirà il metodo del group-work, al fine di far emergere questioni, criticità ed eccellenze del territorio, per lo più ai margini del mainstream culturale.

DIRETTORE

Massimiliano Tonelli

DIREZIONE

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COORDINAMENTO MAGAZINE

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COPERTINA ARTRIBUNE

Luca Campestri, Interstitium, 2023, direct print on mirror polished dibond, 28x21 cm. Courtesy l’artista

COPERTINA GRANDI MOSTRE

Giovanni Fattori, In vedetta. Il muro bianco (particolare), 1874 circa. Trissino, Fondazione Progetto Marzotto © Fondazione Progetto Marzotto, Trissino

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Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Chiuso in redazione il 10 marzo 2025

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Tutte le mostre da vedere a Roma per il Giubileo 2025

Con l’apertura della prima Porta Santa di San Pietro il 24 dicembre 2024 è stato inaugurato il Giubileo 2025 – il secondo indetto da Papa Francesco – che si concluderà il 6 gennaio dell’anno prossimo. Un’occasione di redenzione spirituale speciale per i fedeli e i pellegrini, che arriva accompagnata da un ricco programma di eventi. Non possono mancare le mostre, che sfruttano il pretesto per animare la scena culturale romana con progetti in tema e grandi nomi offerti agli sguardi del pubblico di visitatori in città.

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ICONE D’ORIENTE - CHIESA DI DI SANT’AGNESE IN AGONE

Diciotto opere scelte in tutto il panorama dell’arte cristiana orientale: Grecia, Bulgaria, Ucraina, Russia e Macedonia. Immagini sacre raccolte sotto il titolo di “icone di speranza”, ispirandosi al tema guida – la speranza – di tutto il Giubileo indetto da Papa Francesco. È questa la mostra organizzata alla Chiesa di Sant’Agnese in Agone, che si propone di dimostrare con questo corpus di lavori eterogenei per provenienza e stile come, alla fine di tutto, ci sia un messaggio comune a tutti gli uomini.

CHAGALL - PALAZZO CIPOLLA

Il quarto appuntamento della rassegna Giubileo è Cultura, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione, vede Marc Chagall a Palazzo Cipolla con la sua Crocifissione Bianca, opera di profonda spiritualità, che incarna il simbolo di speranza e unità religiosa.

SAN FRANCESCO TRA CIMABUE E PERUGINO - PALAZZO DELLA MINERVA Per la prima volta nella storia, il Senato della Repubblica e la Galleria Nazionale dell’Umbria si uniscono per collaborare insieme a una mostra molto speciale in nome di San Francesco d’Assisi. La sede della Biblioteca del Senato apre le porte al pubblico invitando a visitare gratuitamente una mostra a lui dedicata, con prestiti eccezionali, come la Chartula del 1224.

BERNINI - MUSEI VATICANI È un Bernini insolito, quello che si può ammirare nei Musei Vaticani, eccezionalmente giovane e raramente visibile al pubblico. Cuore della mostra sono due busti marmorei, L’anima beata e L’anima dannata, dal grande fascino, sebbene poco noti.

CAPOLAVORI DALLA PINACOTECA DI ANCONA - MUSEI CAPITOLINI

Sei grandi opere, capolavori chiave del patrimonio artistico rinascimentale delle Marche. Direttamente dalla Pinacoteca Civica Podesti di Ancona giungono in città le tavole firmate da Tiziano, Lotto, Crivelli, Guercino e Olivuccio da Ciccarello. Scopo dell’esposizione è valorizzare i dipinti anconiani, facendoli conoscere al pubblico romano in un allestimento d’eccezione pensato apposta per il Giubileo.

MUNCH / EGIZI - PALAZZO BONAPARTE

Dopo un autunno di preparazione giubilare trascorso in compagnia di Fernando Botero, Palazzo Bonaparte propone due nuovi temi emblematici per questo 2025: Munch e gli Egizi.

Galleristi, mercanti e artisti prendono posizione contro il mancato abbassamento dell’IVA

PEFC/18-31-992

VALENTINA MUZI L Il mondo dell’arte protesta contro il mancato taglio dell’IVA sulle opere d’arte in Italia, un provvedimento necessario per la sopravvivenza dell’industria che ha deluso le aspettative degli addetti ai lavori. Mercanti, delears, case d’aste, antiquari e galleristi hanno espresso il loro disappunto con una lettera aperta lo scorso 8 febbraio, a pochi giorni dalla discussione alla Camera del Dl Cultura. Un coro al quale si sono unite anche le voci delle gallerie del consorzio ITALICS, sottolineando il “profondo stupore e grande apprensione per le recenti decisioni del governo in materia di IVA del mercato dell’arte”, si legge nel comunicato divulgato. A cercare di rassicurare sugli intenti dell’amministrazione è stato Federico Mollicone, esponente di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Cultura a Montecitorio, in un’intervista rilasciata ad Artribune ma, a distanza di settimane, l’adeguamento fiscale in Italia non è stato ancora effettuato (nonostante le pressioni dell’Europa), rendendo il Belpaese “poco competitivo rispetto ai mercati vicini”, ha spiegato Vincenzo de Bellis, direttore delle fiere d’arte di Art Basel. A prendere posizione sono anche gli artisti, con una lettera indirizzata al Governo e firmata da: Maurizio Cattelan, Enzo Cucchi, Giorgio Griffa, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Nunzio, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Marco Tirelli

EMMA SEDINI

LE VESTIGIA DI UN ABBANDONO I FANTASMI DI LUCA CAMPESTRI

Non è un ragno quello sulla cover del magazine che tenete fra le mani. Non è nemmeno la sua riproduzione, se pensavate che fosse uno scherzo à la Magritte, quanto piuttosto ne è lo spettro: una suggestione centrale per tutto il lavoro di Luca Campestri, che si muove tra la fotografia e la sua opacità.

Nell’affrontare l’inconsistenza di un’immagine, e in particolare di una fotografia, cercare rifugio nei rapporti di analogia e somiglianza è tanto confortevole quanto vano. La storia dell’arte ci ha abituati a un progressivo tira e molla della rappresentazione, rendendo sempre più evidente lo scollamento degli statuti della realtà e dell’opera, contestualmente rinnegandolo per affermare l’identità fra arte e mondo. Senza scomodare Arthur Danto, è chiaro che ogni immagine, astratta o figurativa che sia, intrattiene con la realtà un rapporto specifico e irriducibile. In questo senso le ragioni della fotografia, che Roland Barthes e Susan Sontag hanno più che efficacemente narrato, si mostrano di capitale rilevanza. La sua relazione con il tempo, con la scomparsa e in definitiva con la morte la situano nel dominio di inconsistenza, come porta su uno spazio-tempo altrimenti irraggiungibile.

Quando, nel 1980, Barthes scriveva La camera chiara, la fotografia manteneva ancora un rapporto diretto con la realtà, sulla base della sua indicalità. Tanto che lo stesso Barthes riconosceva l’essenza della fotografia nel “ratificare ciò che essa ritrae”. Molto è cambiato da allora: oggi le immagini hanno perso il loro statuto di verità, offuscata da manipolazioni più o meno consistenti. Significa forse che la fotografia sia morta? Tutt’altro: essa ha rivelato, piuttosto, la sua capacità di superamento del reale e del compito aletico che le è sempre stato affidato.

sopra: Luca Campestri, ritratto. Courtesy l'artista

a destra: Luca Campestri, Interstitium , 2023. Courtesy l'artista

La manipolazione dell’immagine per svelare le possibilità incorporee della fotografia è al centro della pratica artistica di Luca Campestri. Mediante l’ibridazione dell’obiettivo fotografico con altri strumenti, Campestri esplora il medium e la sua indicalità, per registrare non tanto il reale, bensì le sue tracce, non la presenza ma, per usare le sue parole, le “vestigia di un abbandono”. Ad abbandonarci, soprattutto nelle sue serie Spectres e Interstitium (da cui è tratta la copertina), è infatti l’immagine stessa: partendo da fotografie di archivio, Campestri le campiona mediante uno spettrogramma, attribuendo ad ogni pixel un valore di intensità e di pitch in base a quanto è chiaro o scuro. Risultano così apparizioni ancora riconoscibili e tuttavia private di un rapporto diretto con una effettiva originalità, ectoplasmi che riportano la riflessione sulla fotografia ai suoi utilizzi spiritici e fantasmagorici. Un processo che rivela il vivo interesse di Campestri per l’opacità del medium, oltre all’ambiguità che questa parola assume quando applicata alla fotografia.

Nato a Firenze nel 1999, Luca Campestri è un artista italo-tedesco residente a Bologna, dove ha frequentato i corsi di Arti Visive e Decorazione – Arte e ambiente presso l’Accademia di Belle Arti. Tra le mostre collettive e personali più recenti si segnalano: Shelter (SOF:ART, Bologna, 2025); A breacrumb trail (Capsule Venice, Venezia, 2024); un/natural #3 (Spazio Torso, Pesaro, 2024); Black noise (Material, Zurigo, 2023), Castello a orologeria (Dolomiti Contemporanee, Castello di Andraz, 2023).

di ALBERTO VILLA

Napoli Millenaria.

Gli eventi per i 2500 anni della città

LIVIA MONTAGNOLI L A 2500 anni dalla fondazione, Napoli mette in mostra il suo patrimonio storico, artistico, scientifico, tra spettacoli, mostre, rassegne musicali, valorizzazione e apertura di spazi poco conosciuti o inediti. Nell’arco di tutto il 2025:

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Il 29 aprile Piazza del Plebiscito ospita una lezione aperta di danza in occasione della Giornata Internazionale della Danza, con l’idea di comunicare attraverso il linguaggio universale del corpo

Dal 17 aprile al 4 maggio va in scena la prima edizione del Napoli Fringe Fest

Il programma Re di Luce a Palazzo Reale propone un ciclo di visite guidate con illuminazione notturna

All’inizio di giugno il MANN svela nuovi spazi e allestimenti

A novembre il Museo di Capodimonte inaugura una nuova sezione dedicata alle porcellane

L’iniziativa Il miglio della memoria propone un percorso di 150 chilometri lineari di documenti d’archivio tra biblioteche, accademie e archivi della città, che presentano anche visite guidate performative, concerti e spettacoli

Dal 12 al 14 dicembre il Teatro San Carlo presenta la prima assoluta di Partenope, “musica per la sirena di Napoli” composta da Ennio Morricone

Da settembre 2025 a gennaio 2026, il Real Albergo dei Poveri accoglie l’installazione di “reperti” ritrovati in loco – Futuro Quotidiano – arricchita dalle foto di Mimmo Jodice

Tutta la storia della Fondazione Crespo di Francoforte. Creata da un’artista per altri artisti

D'Agostino

CLAUDIA GIRAUD L Sono la colombiana Laura Huertas Millán e il bengalese Sarker Protick, i due primi vincitori di After Nature. Ulrike Crespo Photography Prize, che la Fondazione Crespo di Francoforte assegna dal 2024, insieme a C/O Berlin, a due artisti di fama internazionale nei campi di fotografia e video. Sono ora in mostra fino al 25 maggio nell’Open Space della Crespo Haus, la nuova base operativa dell’istituzione privata, fondata nel 2001 per scopi sociali, educativi e artistici, dalla filantropa e fotografa tedesca Ulrike Crespo, erede della fortuna del brand dei capelli Wella. Situato in centro, accanto al monastero carmelitano, in un edificio Anni ’50 ristrutturato (nel tempo è stato un hotel, un’agenzia di viaggi, una piccola compagnia di elettronica) lo spazio è molto più di un laboratorio con pareti in vetro per la Fondazione Crespo che nasce in una città multietnica (immigrati soprattutto da Turchia e Italia): è un hub per la sua intera rete di partner pubblici e privati. Ma anche uno spazio-eventi: il suo tetto-giardino ospiterà in estate un festival di musica hip hop con danzatori internazionali al fianco di bambini e adolescenti locali, per un workshop di due settimane.

Da

spazio

dimenticato a cuore culturale della periferia est di Napoli. Il successo della Biblioteca Deledda

GIULIA GIAUME L Solo due anni fa, la Biblioteca Grazia Deledda di Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli, era un luogo quasi morto. Con un patrimonio librario fermo e pochi utenti, lo spazio era rimasto semi inutilizzato per quasi dieci anni. Difficile riconoscerla oggi, che è diventata uno dei poli culturali più dinamici e attrattivi della zona. A registrare la rinascita dello spazio nella sesta municipalità di Napoli è il report di monitoraggio 2024 dell’associazione Noi@Europe, secondo cui solo nell’ultimo anno sono stati catalogati più di mille nuovi libri, i prestiti sono più che raddoppiati (+139%), ma soprattutto sono stati registrati oltre 6.200 accessi nel 2024, contro i 1.558 del 2022: un incremento del 300%. Di questi, l’80% degli utenti è costituito da giovani sotto i 35 anni. Merito di un progressivo investimento di tempo ed energia sulla biblioteca, dal ripensamento collettivo degli spazi alle attività socializzanti.

Firenze dedica un museo immersivo a Pinocchio. Il progetto di Giunti tra illustrazione ed effetti speciali

LIVIA MONTAGNOLI L Arte, illustrazione e letteratura alleate per creare un’esperienza immersiva capace di coinvolgere adulti e bambini. L’esperimento di Giunti Editore a Firenze, in uno spazio di 1000 metri quadri in Via Ricasoli ora ribattezzato Pinocchio Museum Experience, si concentra sulla favola italiana più famosa nel mondo, con l’idea di ripercorrere e animare le avventure di Pinocchio (che in Toscana già vanta un parco tematico, a Collodi, nato nel lontano 1956). Il Museo, inaugurato lo scorso 22 febbraio, nasce in collaborazione con lo studio Trama e con il contributo della Fondazione Nazionale Carlo Collodi, e ospita una mappa interattiva che invita a esplorare i luoghi dove Pinocchio ha lasciato un’impronta culturale e linguistica, laboratori dedicati al gioco e alla creatività ispirati al romanzo, e una selezione degli artisti che hanno illustrato la storia dando vita a edizioni di pregio.

Quando riapriranno la Biblioteca e l’Archivio della Galleria Nazionale di Roma?

LIVIA MONTAGNOLI L Da luglio 2024, la Biblioteca e l’Archivio della Galleria Nazionale di Roma (Gnamc) sono chiusi al pubblico: un’interruzione prolungata del servizio che, nella storia della Galleria, non si verificava dal 1946, ed è ora motivata da “urgenti e improcrastinabili lavori di adeguamento impiantistico e normativo”. A protestare per una situazione che potrebbe trascinarsi fino al 2026 è il Cunsta: “Dopo oltre sette mesi i lavori non sono ancora cominciati, né è stato annunciato un cronoprogramma. Nel frattempo, il personale addetto è stato destinato ad altre mansioni, e la responsabile della biblioteca è stata trasferita presso altra istituzione”. E anche la comunità scientifica, come pure le studentesse e gli studenti di storia dell’arte che frequentavano biblioteca e archivi, scontano la mancata predisposizione di misure alternative di consultazione.

Pinocchio Museum Experience Napoli. Photo Danilo

In Sardegna il Museo Nivola compie 30 anni

LIVIA MONTAGNOLI L Il museo dedicato all’opera di Costantino Nivola, nel piccolo centro di Orani, raggiunge un traguardo importante nel 2025 e propone una programmazione speciale tra mostre, residenze artistiche e festival culturali. Pur costretto a trovare rifugio negli Stati Uniti, alla fine degli Anni Trenta, lo scultore e art director sardo, scomparso nel 1988, mantenne per tutta la vita un legame viscerale con la sua terra, e il museo di Orani ne è diretta emanazione. Tre i grandi appuntamenti con l’arte al femminile, grazie al ciclo di mostre curato da Giuliana Altea, Antonella Camarda e Luca Cheri che si concentrerà sulla grande scultura contemporanea, portando al museo le personali di artiste internazionali diverse per background e modalità espressive: Nathalie Du Pasquier, Mona Hatoum e Hannah Levy.

A Milano riapre lo spazio d’arte contemporanea Ordet e debutta la libreria della casa editrice Lenz

VALENTINA MUZI L Fondato da Eodardo Bonaspetti e Stefano Cernuschi nel 2019 nel quartiere di Porta Romana, a Milano, Ordet è una realtà sperimentale che mette al centro gli artisti e la loro ricerca. Trasferitosi in Città Studi, in un ex garage – trasformato in spazio espositivo grazie ad un progetto di ristrutturazione curato da Ballabio & Bava – il “nuovo” Ordet ha aperto le sue porte al pubblico lo scorso 19 febbraio in Via Filippino Lippi 4 con la mostra dell’artista tedesca Cosima von Bonin (Mombasa, 1962). E, al numero 10 della stessa Via Lippi, ha aperto il bookshop di Lenz Press, casa editrice connessa allo spazio (di cui è ufficio e reception) e dedicata all’arte e alla cultura contemporanea.

A Lisbona nasce il primo hotel-museo a 5 stelle d’Europa grazie al collezionista Armando Martins

CATERINA ANGELUCCI L Si chiama Museu de Arte Contemporanea Armando Martins, abbreviato Macam, quello che è senza dubbio una novità sia nel mondo dell’hôtellerie sia in quello dell’arte. Perché se certo già ci sono hotel di lusso dove l’ospitalità è coniugata a opere d’arte contemporanea e non – come il The St. Regis Rome che collabora con Galleria Continua o il Ritz-Carlton di Vienna insieme all’Albertina Museum – in questo caso è un imprenditore e collezionista che apre il suo hotel per mostrare la sua collezione privata. Si tratta di Armando Martins, la cui collezione comprende più di 600 opere che vanno dalla fine del XIX Secolo ai giorni nostri. La sede è lo storico Palacio Condes da Ribeira Grande.

Un nuovo spazio artistico e culturale in una ex vetreria di Brescia: mostre e residenze

CRISTINA MASTURZO L Il 22 marzo 2017 debuttava a Brescia Palazzo Monti, progetto immaginato e voluto dal collezionista e curatore Edoardo Monti per la promozione dell’arte più contemporanea italiana e internazionale. A distanza di 8 anni, il team composto da Monti, Luca Cremona e Sole Castelbarco Albani raddoppia la sua presenza in città e si espande in un’altra sede in Via Arnaldo Soldini 47. Con una superficie di 300 mq, Fertile trova casa in una ex vetreria e, intorno a una corte privata di 120 mq, ospiterà uno spazio espositivo per i progetti temporanei come per la collezione permanente, ma anche studi d’artista, spazi dedicati al design, parte dell’archivio della collezione privata, stanze multifunzionali, una cucina e un giardino idroponico interno.

Gallerie d’arte, spazi espositivi e studi d’artista. Ecco cinque realtà da visitare nel quartiere San Lorenzo a Roma

Lo storico Palazzo Sartorio tra Via Tiburtina e Via dei Reti ospita gli studi di William Tamburella, Emiliano Maggi, Davide Quayola, Cyril De Commarque, Tommaso Fagioli e Costanza Chia

La Galleria delle Arti in Via dei Sabelli 2 riapre al pubblico nella sua triplice anima di: spazio espositivo, salotto e showcase

In Via dei Reti 1/A nasce la project space della galleria Monti8 di Latina

PIAZZA

DELL’IMMACOLATA

In Via dei Volsci 165 prende forma il centro di ricerca del collettivo Numero Cromatico

In Via dei Lucani 18, in un’ex fabbrica di ombrelloni, nasce Ombrelloni Art Space ospitando gli studi di Krizia Galfo, Cristallo, Alessandro Calizza, Federica Rugnone, Alberto Maggini, Matteo Peretti e il collettivo di performer WOW – Incendi Spontanei di ombrelloni, nasce

MACAM Lisbona
CIMITERO DEL VERANO

ARTE E AUTODISTRUZIONE IN UN NUOVO LIBRO

Da

Jean Tinguely a

Marina

Abramović, da Yoko Ono a Banksy, l’autodistruzione

dell’opera è una caratteristica di certa arte contemporanea ancora poco affrontata.

Lo racconta il nuovo libro dello storico dell’arte Jacopo De Blasio

Nel suo saggio Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione (Postmedia Books, 2024), Jacopo De Blasio affronta un tema poco esplorato, che sfida la concezione tradizionale dell’arte come creazione perenne e tangibile. Il volume esplora la pratica artistica dell’autodistruzione, una pratica estetica e concettuale, che a partire dalla seconda guerra ha messo in discussione consapevolmente il valore dell’oggetto artistico e la sua relazione con il pubblico e il mercato. Attraverso un’analisi che spazia dalla storia dell’iconoclastia alle più recenti manifestazioni artistiche contemporanee, l’autore offre una visione d’insieme di una pratica tanto estrema quanto significativa nella storia dell’arte e lo fa tracciando un percorso storico artistico che lega artisti e movimenti apparentemente distanti nel tempo e nello spazio.

Il primo capitolo del libro affronta una domanda fondamentale: la distruzione dell’arte è sempre un atto di violenza o può essere un gesto consapevole e creativo? De Blasio distingue tra iconoclastia – la distruzione motivata da ragioni religiose, politiche o ideologiche – e vandalismo, un atto impulsivo e anarchico, ponendo in discussione il confine tra i due concetti. L’analisi si arricchisce di esempi storici e contemporanei, mettendo in luce il valore politico e simbolico della cancellazione di un’opera d’arte. Uno dei punti centrali del libro è lo studio della Auto-Destructive Art, un movimento nato negli Anni Sessanta con Gustav Metzger, che sosteneva la necessità di un’arte effimera, capace di autodistruggersi per denunciare il consumismo e la violenza della società. De Blasio ripercorre il percorso di artisti come Jean Tinguely, noto per le sue sculture meccaniche destinate all’autodistruzione, emblematica in questo caso è l’opera Homage to New York, opera destinata a distruggersi da sola, e Yoko Ono, che ha reso il corpo stesso un campo di battaglia attraverso le sue performance. La relazione tra corpo e autodistruzione viene analizzata con particolare atten-

zione nel capitolo dedicato alla Self-Harming Performance, dove si discute il lavoro di Marina Abramović, Gina Pane e Vito Acconci nel quale è il corpo degli stessi artisti ad essere sottoposto a un processo di autodistruzione. Il libro non si limita all’analisi storica, ma si interroga anche sulle implicazioni della tecnologia e del digitale nell’autodistruzione dell’arte. La smaterializzazione dell’opera, la replicabilità infinita e l’assenza di un originale fisico pongono nuove questioni sulla durata e il valore dell’arte nell’era contemporanea in cui l’opera si consuma non più attraverso il fuoco o l’acido, ma nella sua stessa esistenza effimera in rete. La riflessione sulla produzione contemporanea si spinge fino al caso Banksy, con il celebre Love is in the Bin, opera che si è autodistrutta nel momento stesso della sua vendita all’asta, trasformando il gesto in una dichiarazione ironica sul mercato dell’arte.

ACQUISTA QUI il libro Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione di Jacopo De Blasio. Basta scansionare il QR code qua sotto

De Blasio riesce a costruire un saggio che non si limita a documentare, ma propone una chiave di lettura originale per comprendere questo tipo di approccio artistico. Quello che emerge dalla lettura è un’analisi originale capace di far approfondire aspetti di una pratica artistica con delle dinamiche proprie anche se declinata nelle maniere più disparate. Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione una lettura storica e concettuale di un fenomeno che ha attraversato l’arte del Novecento fino ai giorni nostri. Il libro collega episodi apparentemente isolati, costruendo una narrazione coerente e stimolante non si limitandosi alla sola analisi storica, ma sollevando questioni attuali sul ruolo dell’arte e sul suo rapporto con la società. La distruzione è ancora una forma di protesta? O è diventata, a sua volta, un dispositivo spettacolare, funzionale alle dinamiche del mercato?

PAROLA ALL’AUTORE

Jacopo De Blasio (Roma, 1993) è storico dell’arte contemporanea, dottorando in Cultura visuale e chitarrista hardcore punk. Lavora come bibliotecario presso la Fondazione MAXXI e scrive per diverse riviste di settore, tra cui NOT/ NERO, Kabul, TBD Ultramagazine e Antinomie. Si occupa di autodistruzione, studi postcoloniali e decolonialismo, nuovi media ed espressioni sonore. Per comprendere al meglio in che modo il libro Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione affronti il tema dell’autodistruzione come pratica lo abbiamo intervistato

Come affermi tu nel libro l’arte ha sempre subito, in vari momenti storici, atti di distruzione. Ma è solo da un preciso momento che gli artisti volontariamente mettono in atto questo tipo pratica creativa. Che ragioni hai trovato nella nascita di questa esigenza?

Le ragioni sono sicuramente molteplici: da una parte la volontà di avanzare una critica puntuale al sistema dell’arte, tentando di mettere in crisi il mercato con la realizzazione di opere difficili o impossibili da vendere, dall’altra l’intento di soffermarsi sulla processualità del fare artistico, rivendicando la – presunta – autonomia decisionale dell’opera rispetto all’egemonia dell’artista. Ma la ricorrenza di temi centrali nella controcultura degli Anni Sessanta o Settanta, come ad esempio femminismo, consumismo ed ecologismo, attesta quanto sia un’esigenza riconducibile a uno specifico momento storico e culturale.

L’autodistruzione evolve, si trasforma, cambia e assume forme diverse. Secondo te è possibile definire questo approccio creativo come medium artistico? Come fosse pittura, scultura, videoarte ecc. ecc. Più che un medium artistico, credo sia possibile definire l’autodistruzione come una tendenza sviluppatasi nella produzione artistica contemporanea. Assume più forme e si manifesta attraverso media differenti. La struttura stessa del saggio si articola attraverso le diverse modalità adottate nel corso degli anni da numerosi artisti per inseguire l’obiettivo dell’autodistruzione. In un certo senso, proprio come scrivi tu, rappresenta uno specifico ma eterogeneo approccio creativo, riconducibile probabilmente a un’intenzionalità condivisa piuttosto che al mezzo utilizzato.

Significativo è l’utilizzo del corpo da parte degli artisti in questo contesto autodistruttivo. Il corpo è un’entità politica e lo si vede quotidianamente utilizzato come strumento di conflitto e protesta. Secondo te questo utilizzo del corpo è nato prima nell’arte e poi si è diffuso nella cultura o viceversa?

Difficile stabilire l’origine di un determinato approccio alla corporalità. Anche in questo caso, credo sia necessario allargare lo sguardo al contesto di riferimento. Tematiche ricorrenti nel dibattito pubblico si ritrovano nelle opere citate nel libro. L’influenza è vicendevole. Il corpo è uno è sicuramente strumento politico. E colpirlo, danneggiarlo, ferirlo, distruggerlo significa minare quell’aura di sacralità in cui è da sempre e per sempre sarà avvolto, attirando l’attenzione. Proprio per questo il corpo risulta centrale in qualsiasi movimento e forma di contestazione. Tanto per infliggere quanto per subire violenza, la fisicità costituisce un elemento dirimente della protesta. A mio avviso, per esempio, è interessante sottolineare la predominanza femminile nelle pratiche di autodistruzione performativa. E, fatta eccezione per alcuni episodi pionieristici, il grado di efferatezza segue di pari passo lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Non a caso, con l’avvento della rete e successivamente dei social network, sembra necessario perseguire una sensazionalità senza precedenti per veicolare l’interesse del pubblico, sebbene per un lasso di tempo sempre più esiguo.

In un presente che non ha futuro come quello attuale vedi un evolversi della pratica artistica autodistruttiva contemporanea o questo tipo di ricerca si è affievolita?

Secondo me, l’autodistruzione continua a essere ancora oggi una forma espressiva quanto mai efficace. E l’assenza di prospettive, o quantomeno la difficoltà di immaginarne un futuro prossimo migliore del presente, contribuisce in tal senso a enfatizzare l’immediatezza comunicativa dell’autodistruttività. Basti pensare al caso Banksy. Per quanto le premesse siano sicuramente differenti e lontane da quelle, ad esempio, dei manifesti autodistruttivi redatti da Metzger tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, credo sia innegabile che l’opera dell’anonimo street artist abbia portato l’autodistruzione, intesa come pratica artistica, a raggiungere una notorietà senza precedenti. Sono sicuramente numerose le persone a essersi avvicinate all’argomento proprio grazie a Banksy. Per questo ho deciso di riportare questo episodio alla fine del volume. Non penso che la ricerca autodistruttiva si stia affievolendo, anzi. Continua a evolversi e a cambiare forma, spesso rifuggendo da dogmi o mode del momento. Sebbene sia ormai un motivo presente nella storia dell’arte ormai da decenni, penso che l’autodistruzione sia un campo poco battuto e forse, anche per questo, ancora molto interessante.

BANGKOK VUOLE DIVENTARE L’HUB DELL’ARTE CONTEMPORANEA

NEL SUD-EST

ASIATICO

Le sue giovanissime creature, la Bangkok Kunsthalle e il Khao Yai Art Forest, stanno già trasformando il panorama culturale della Thailandia e del Sud-Est asiatico. Dopo l’infanzia in Corea, gli studi a New York, una galleria a Hong Kong e l’impegno filantropico, Marisa Chearavanont ha maturato una visione dell’arte “glocale” fondata su quattro pilastri: arte, cibo, educazione e innovazione. Ha ricevuto il Premio Rinascimento+ a Firenze, viaggia spesso tra Milano e Roma, e ben conosce il panorama artistico italiano. La sua idea di ecosistema creativo avrà un impatto geopolitico culturale. Forse, non soltanto nel Sud-Est asiatico. Ne parliamo con lei.

Quale pensiero, emozione o visione l’ha ispirata nel creare la Bangkok Kunsthalle e il Khao Yai Art Forest? Alla base c’è il concetto di guarigione. La kunsthalle guarisce un bellissimo edificio abbandonato nel cuore della

giungla urbana di Bangkok. Qui voglio creare un santuario per la creatività, il dialogo e lo scambio culturale. Il Khao Yai Art Forest invece rigenera una porzione di foresta danneggiata dall’agricoltura intensiva: grazie agli interventi artistici la natura selvaggia è reintrodotta nel paesaggio creando un ambiente armonico.

Cos’è per lei l’arte?

Credo che l’arte abbia il potere di guarire gli spazi, le persone e le comunità, riconnettendoci con la bellezza, la storia e il mondo naturale.

In che modo questi progetti influenzeranno la scena artistica thailandese?

Non sono soltanto spazi espositivi, ma ecosistemi culturali che si fondano su quattro pilastri: arte, cibo, educazione e innovazione. Commissioniamo opere che dialoghino con l’ambiente e promuoviamo un’interazione profonda tra

Louise Bourgeois, Maman Photo Andrea Rossetti. Courtesy of The Easton Foundation VAGA at ARS, NY

artisti e pubblico. Attraverso il cibo esploriamo l’arte ambientale, mentre con l’educazione coinvolgiamo la comunità.

L’educazione, questione centrale per il futuro.

Vede, per noi essa è un processo di creazione collettiva, oltre a trasmettere conoscenze deve offrire un’esperienza attiva e concreta di costruzione della comunità. Prenda ad esempio la gastronomia, per noi il cibo rappresenta un modo per riconnettersi con la terra. Al KYAF esploriamo il cibo come forma d’arte ambientale, integrando pratiche sostenibili e cicli naturali nell’espressione artistica.

Anche a ciò serve l’innovazione. L’arte non si limita all’estetica ma è una forza strategica, capace di stimolare la ricerca, il dibattito e le conversazioni critiche sul nostro tempo e sulle nostre vite. Vogliamo posizionare l’arte come

di NICOLA DAVIDE ANGERAME

un motore essenziale del progresso culturale e intellettuale, generando idee che vadano oltre il mondo dell’arte. Rappresentiamo un nuovo paradigma per le istituzioni culturali e contribuiremo a costruire una scena artistica contemporanea più ricca, coinvolta e orientata al futuro in Thailandia e in tutta la regione.

Lei è cresciuta in Corea, quando nasce la sua passione per l’arte?

Da bambina guardavo i film americani in bianco e nero che mio fratello maggiore noleggiava. Vedevo Fred Astaire e Ginger Rogers ballare in un mondo di eleganza, creatività e bellezza. Quelle immagini dipingevano un universo in cui arte, architettura e movimento si fondevano perfettamente, e sono rimaste con me. Poi ho studiato a New York negli Anni Ottanta, la città era un epicentro creativo ed io ero immersa nella scena culturale, circondata da arte d’avanguardia, musica, moda e dibattiti intellettuali. È stato un periodo formativo incredibile, che mi ha mostrato il potere dell’arte contemporanea come mezzo di espressione personale e commento sociale.

Quando e come passa diventa collezionista?

Non mi considero una collezionista in senso tradizionale. Mi sento più una “art sharer”. Amo favorire lo scambio artistico più che possedere opere. Negli Anni Novanta ho avuto una mia galleria a Hong Kong, promuovevo artisti del

Sud-Est asiatico. Quell’esperienza ha rafforzato la mia convinzione che l’arte debba essere vissuta e condivisa, più che semplicemente posseduta. Tuttavia, credo che solo ora io abbia veramente compreso il mio ruolo nel mondo dell’arte. Il mio obiettivo è creare piattaforme in cui la mia creatività possa incontrare quella degli artisti. Non si tratta solo di collezionare e accumulare, ma di sostenere, collaborare e amplificare le voci artistiche. Sono attratta da opere che sfidano le prospettive, evocano emozioni e raccontano storie potenti. Giuseppe Panza di Biumo, la cui collezione ha ispirato il progetto del Khao Yai Art Forest, diceva di collezionare opere d’arte capaci di esprimere ciò che lui non riusciva a verbalizzare: è una frase che ricordo spesso.

Come vede la scena artistica thailandese attuale?

Sono legami storici profondamente significativi. Figure come Silpa Bhirasri hanno lasciato un’impronta duratura ponendo le basi per il discorso artistico contemporaneo nel Paese. Anche se oggi questa connessione potrebbe non essere così evidente, credo che vi sia un grande potenziale per un suo rinnovamento. Le nostre culture condividono un forte apprezzamento per l’artigianato, il design e il patrimonio artistico, e vedo l’arte come un ponte per rafforzare questo legame.

Lei ha invitato il direttore italiano

Stefano Rabolli Pansera a sviluppare i progetti.

Marisa Chearavanont. Photo Chananon Dumrichob

La scena artistica thailandese è vibrante e con un numero crescente di artisti che ottengono riconoscimenti internazionali, tuttavia credo che sia necessaria una maggiore infrastruttura istituzionale e più connessioni internazionali. L’educazione sarà fondamentale per il futuro dell’arte in Thailandia. Il nostro obiettivo è creare spazi di dialogo e scambio critico, costruendo un ecosistema artistico più solido e interconnesso.

Storicamente, la Thailandia ha avuto un legame speciale con l’Italia, penso ai contributi del colonnello Sarassana Balakhand (Gerolamo Emilio Gerini) e dell’artista e fondatore dell’Università Silpakorn, Silpa Bhirasri (Corrado Feroci).

La sua visione curatoriale si allinea alla mia convinzione che l’arte debba essere una forza di scambio intellettuale e culturale, non solo un’esperienza visiva. Nutriamo l’interesse per il potere trasformativo dell’arte e lui ha compreso appieno l’ambizione geopolitica di entrambi i progetti, attraverso i quali spero anche di rafforzare la storica connessione artistica tra Thailandia e Italia, favorendo nuove collaborazioni che uniscano le nostre eredità creative condivise.

Qual è il vostro obiettivo?

Plasmare un nuovo paradigma di istituzione culturale, uno che sia autenticamente thailandese e radicato nella cultura locale. Il nostro obiettivo non è replicare i modelli istituzionali occidentali, ma creare uno spazio in cui l’arte contemporanea thailandese, le tradizioni e il discorso intellettuale possano svilupparsi in modo organico, rimanendo ancorati al contesto locale ma connessi alle conversazioni globali.

BANGKOK KUNSTHALLE
KHAO YAI ART FOREST
BANGKOK
PARCO NAZIONALE DI KHAO YAI
PARCO
BANGKOK

FERMENTO BANGKOK. PAROLA A STEFANO RABOLLI PANSERA

di NICOLA DAVIDE ANGERAME

Bangkok è in fermento. Mentre Hong Kong fatica a ritrovare un’identità culturale e Singapore si posiziona sul mercato dell’arte, la capitale thailandese si appresta a divenire il nuovo hub per l’arte contemporanea, grazie a due progetti maggiori che intendono trasformare il senso ed il ruolo dello spazio museale e dell’arte pubblica. Abbiamo parlato con l’architetto e curatore Stefano Rabolli Pansera che guida il progetto insieme e per conto della mecenate e filantropa Marisa Chearavanont.

Il 6 febbraio avete finalmente inaugurato il KAYF, cosa volete realizzare? Vogliamo fare qualcosa che non sia un parco divertimenti, che non sia decorazione, che non diventi laboratorio ma sia qualcosa di nuovo. Siamo partiti due anni fa, volevamo avviare il progetto e la signora Chearavanont comprò un gruppo di opere della collezione Panza di Biumo, circa duecento. Ma quando arrivai sul posto capimmo che era quasi impossibile, partire con un museo nella foresta a quattro ore da Bangkok. La signora suggerì di comprare una base a Bangkok.

Che è la Bangkok Kunsthalle, che avete inaugurato un anno fa, a gennaio 2024.

La signora ha trovato un edificio che ospitava una vecchia casa editrice dei testi scolastici dell’intera Thailandia: 6mila metri quadri nel cuore della città. Ricorda un poco Blade Runner: tre enormi edifici dismessi e dove la pioggia filtra come in un film di Tarkovskij. Ci siamo detti: gli artisti dovranno abbracciare questo spirito di uno spazio che non ha l’aria condizionata ma offre opportunità creative rare.

È uno spirito tropicale, alla Werner Herzog...

Esattamente, vogliamo spendere il budget non per ristrutturare l’edificio ma per commissionare agli artisti opere che siano già progettazione architettonica.

Sembra un programma curatoriale piuttosto originale.

Penso di sì, creando le proprie installazioni gli artisti ci obbligheranno a creare infrastrutture minime, facendo crescere in modo organico lo spazio ma senza spendere troppo denaro. L’edificio crescerà mostra dopo mostra. Korakrit Arunanondchai. Nostalgia for unity. Courtesy Khao Yai Art

Come avete lavorato alle prime mostre? Un anno fa abbiamo inaugurato con una mostra di Michel Auder che era un’agopuntura spaziale grazie ai suoi video sperimentali. Ogni artista è obbligato a fare progetti site-specific, qui è impossibile mostrare quadri e opere convenzionali e questa è veramente la grande opportunità del luogo: perché il genius loci agisce ponendo condizioni irriconciliabili con il mondo dell’arte contemporanea convenzionale e obbliga gli artisti a operare in modo diverso.

Come nel caso di Korakrit Arunanondchai?

Lui ha accettato la sfida e ha creato un’opera bellissima perché ha preso le ceneri dell’incendio che bruciò l’edificio ventitré anni fa e le ha mischiate con la resina, creando un enorme pavimento con un suo testo lungo il perimetro: la cosa interessante è che in questo lavoro c’è tutto Korakrit la sua idea di morte e di resurrezione, che in una cultura animista come quella thailandese diventa il medium per collegare diversi strati della realtà: il passato e il futuro, gli esseri umani ed i fantasmi. Questo è puro Korakrit, anche se non c’è l’icono-

grafia di Korakrit. Quindi è Korakrit senza Korakrit. E questo è lo specifico carattere sella situazione che opera un cambiamento nel ruolo dell’artista.

Anche con Yoko Ono è avvenuto ciò?

Il lavoro Mend Piece è questo tavolo con frammenti di ceramica che i visitatori sono invitati a riparare con filo e colla, per comporre un testo poetico: “Mend with wisdom, mend with love. It will mend the earth at the same time”. Il concetto di guarigione è fondamentale per la signora. Dati gli spazi enormi, abbiamo realizzato un tavolo per ottanta persone che ha attuato un cambiamento genetico, per cui il tavolo diventa una piazza, un luogo pubblico dove le persone si siedono e si conoscono mentre rammendano: è una cosa meravigliosa e inaspettata, il rumore di questi frammenti è come quello delle conchiglie sulla spiaggia. Sono effetti non prevedibili a livello di progettazione, ma capitano quando le opere vengono prodotte in un contesto completamente diverso, quando entrano in questa “macchina speciale” che complica e cambia le cose.

Il prossimo artista sarà Absalom. Sì, in artista franco-israeliano che costruiva cellule abitative bianche. Morì nel ‘93, noi siamo in contatto con l’estate e stiamo costruendo delle cellule che saranno veramente utilizzate come residenze per gli artisti. È un altro cambiamento strategico che stiamo attuando.

Così come il progetto su Chang Tang. È un artista tailandese fenomenale, scomparso nell’ottanta e che era vicino a Katzuo Sheraga e al movimento Gutai, i cui artisti dipingevano con il corpo

intero, un’arte sospesa tra espressionismo astratto e arte della calligrafia. Vorremmo fare una mostra dei suoi quadri ma essendo rovinati creeremo un laboratorio di restauro, che sarà di per sé la mostra. Una volta finita l’esposizione rimarrà la scuola di restauro dentro la Kunsthalle.

Anche in questo caso mettete in crisi il modello espositivo classico. Sì, vogliamo avviare qualcosa che sia una traiettoria di trasformazione più che mostrare semplicemente le opere, che pure sono stupende. Le persone entreranno e troveranno il restauratore che dipinge o pulisce il quadro o lo mette a posto e quando l’opera sarà restaurata verrà installata.

E poi c’è il progetto della Khao Yai Art Forest.

Rabolli Pansera. Courtesy Khao Yai Art

Tosh Basco, From dust to dust. Photo by Puttisin Choojesroom. Courtesy Khao Yai Art

Vi attuiamo la stessa dinamica, cioè non costruiamo ma ci prendiamo cura della foresta addomesticandola passo per passo e in essa reinseriamo le specie di piante un tempo abbandonate per realizzare la monocoltura. Invitiamo con un gruppo di artisti sudamericani che lavorano con le piantagioni e con i semi.

Il grande ragno di Louise Bourgeois sta facendo il giro del mondo sui social.

Se vuoi, potrebbe apparire come un compromesso utile per richiamare il grande pubblico, ma qui avremo la più grande installazione permanente di Fujiko Nakaya, l’artista che lavora con la nebbia: le abbiamo dato un’intera collina. È un’opera che ti fa vedere e apprezzare le minime variazioni del vento e dell’umidità e questi agenti impercet-

tibili per l’occhio ma fondamentali per il paesaggio.

Anche la Land Art sarà protagonista Avremo Richard Long, ma per me è interessante ospitiare la seconda generazione di land artist, che non impongono una forma sul paesaggio ma rivelano le forze di cui la forma è diagramma. Attraverso il prenderci cura della natura ci prenderemo cura di noi stessi, è questo il corto circuito che cerchiamo di attivare.

Qual è la visione geopolitica dietro questo progetto?

La signora vuole fare di Bangkok la capitale culturale della regione, competendo con Singapore e approfittando del declino di Hong Kong. Bangkok ha 14 milioni di abitanti e la Thailandia è l’unica nazione qui ad avere solide relazioni con sia gli Stati Uniti che con la Cina. La situazione è ideale.

Cosa auspicate per il futuro della scena artistica thai?

Che più gallerie d’arte sorgano, ma anche spazi non-profit e collezioni. Piuttosto che una nuova fiera d’arte, che comunque stiamo pensando, al momento servono residenze per artisti per rafforzare il sistema creativo.

Chi supporta il progetto?

Un advisory board con figure di spicco come Jessica Morgan della Dia Foundation, Juan Carlos Verme e Uli Sigg, che garantiscono connessioni strategiche.

Qual è il tuo obiettivo personale?

Costruire un sistema artistico stabile in cinque anni, evitando di perdere l’opportunità unica che Bangkok offre ora.

Stefano

CULT OF MAGIC

E LA CURATELA DELLA PERFORMANCE

Tra musica e danza contemporanea, i Cult of Magic sono un collettivo di sperimentazione artistica che esplora la performance art attraverso una prospettiva autoriale e insieme curatoriale, interrogandosi sulle modalità di fruizione, sul rapporto con lo spazio e sull’esperienza del pubblico. Ne fanno parte le coreografe e danzatrici Giada Vailati e Samira Cogliandro che insieme al compositore e musicista Francesco Sacco hanno fondato il collettivo nel 2017, per poi accogliere il compositore, art director e product designer Luca Pasquino. Il Museo Novecento di Firenze, Palazzo Te a Mantova, la Triennale di Milano, la Casa circondariale femminile di Bollate e Palazzo Grassi a Venezia sono solo alcune delle istituzioni che hanno ospitato gli spettacoli del collettivo, a cui si aggiungono numerosi festival, come i milanesi Exister e Hyperlocal o la programmazione di Zō Centro Culture Contemporanee a Catania e l’AMAT di Pesaro, e diversi club e spazi performativi, tra tutti il Plastic di Milano e il Genau di Torino. L’attività di Cult of Magic, infatti, si distingue per il ruolo conferito al luogo e al pubblico che vi partecipa, fondamentale tanto quanto il contenuto stesso dell’azione. “La performance art ha un rapporto molto particolare con la curatela, sia a causa della storia relativamente breve rispetto ad altri medium artistici, sia per la natura effimera e insieme molto avvezza a ragionamenti sulla fruizione da parte del pubblico, sulla resa nello spazio e sull’allestimento. Possiamo dire che, almeno per buona parte, la performance si sia auto-curata. Questo punto di partenza lascia una serie di interrogativi, e lancia altrettante sfide, se ci affacciamo al panorama contemporaneo: in un contesto in cui le pratiche curatoriali sono diventate assolutamente complementari alla pratica artistica, mentre i rispettivi confini sono decisamente più liquidi, dove e come si colloca la performance?”, spiega ad Artribune Francesco Sacco che continua: “In questo scenario l’opzione di un luogo, di un pubblico, di un orario della giornata (scelte curatoriali) equivalgono a scelte di campo estremamente caratterizzanti. Una performance a mezzogiorno è diversa da una performance a mezzanotte, così come una in un museo da una presentata durante un rave party. Ogni nostra produzione nasce con una collocazione ideale, ma anche con una grande disposizione all’adattamento. Il lavoro di Cult of Magic è visceralmente drammaturgico e si concentra molto sulla scrittura. Nella maggior parte dei casi i nostri lavori nascono dall’individuazione e successivamente dall’approfondimento di un tema, tradotto in corpo, gesto, spazio, movimento, suono e luce. A questo punto possiamo dire che il lavoro è a metà: ciò che resta consiste nella messa in scena e si svolge sul palcoscenico, in una dimensione in cui la struttura drammaturgica e i suoi

In un contesto in cui le pratiche curatoriali sono diventate assolutamente complementari alla pratica artistica, mentre i rispettivi confini sono decisamente più liquidi, dove si colloca la performance?

segni sono estremamente solidi, ma il suo sapore e la sua dinamica sono altrettanto variabili”.

Un esempio significativo di questo modellamento sullo spazio e sulle condizioni di rappresentazione dell’azione è la performance Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia), realizzata nel 2021 da Vailati e Sacco per il Museo Novecento Firenze e successivamente presentata in diversi contesti, dai musei ai club techno. Nei primi la tensione cresce progressivamente, mentre nei contesti notturni il ritmo e l’energia si trasformano in un’esperienza catartica. “Nell’arco degli anni la poetica del collettivo, parallelamente al consolidamento di un processo creativo sempre molto legato al lavoro drammaturgico sul corpo, sul suono e sulla luce, ha visto crescere l’attenzione nei confronti dell’audience development e sui luoghi dell’arte, traducendo le riflessioni sul tema nell’affiancamento di messe in scena tradizionali ad altre, fuori dalla comfort zone dei circuiti tradizionali”, aggiunge Giada Vailati presentando il progetto Guerrilla Gig, concepito in collaborazione con Mare Culturale Urbano – Cascina Torrette. Inaugurata a settembre 2024, la rassegna porta la performance fuori dai luoghi convenzionali per sperimentare nuove forme di interazione. Ogni sessione, infatti, prevede una micro-residenza di un giorno, in cui un artista ospite, proveniente da diverse discipline come danza, musica, arti visive e poesia, collabora con il collettivo per una creazione estemporanea, poi aperta al pubblico. Questo format non solo libera la performance dalle dinamiche produttive tradizionali, ma stimola anche un dialogo immediato e diretto tra artisti e pubblico. “Guerrilla Gig nasce per due ragioni: da un lato creare un luogo d’incontro e scambio tra artisti della scena contemporanea, così da potersi conoscere e aprire un dialogo tra i differenti campi d’indagine; dall’altro riportare l’approccio creativo a una forma più giocosa e istintiva, lontano dalle normali logiche di produzione a cui siamo solitamente chiamati”, aggiunge Samira Cogliandro. Anche Analog Techno Live Set è un progetto basato sull’improvvisazione e sulla costante ricerca tra suono e azione. Consiste, infatti, in una sessione di musica techno suonata dal vivo da Sacco e Pasquino con sintetizzatori analogici, drum machine e strumenti acustici. “Alla base c’è la volontà di instaurare uno scambio sinergico tra il pubblico e i musicisti: le infinite possibilità generative e le sfaccettature fornite dall’utilizzo di strumenti analogici dal vivo, rendono ogni live set unico e irripetibile, anche se la scelta dei timbri sonori e dei pattern ritmici rimane spesso costante, definendo la personalità del live set e rendendo immediatamente riconoscibile la sua estetica musicale”, racconta Francesco Sacco. Dal 2022 il live set è un progetto resident del Club Plastic di Milano e oltre

a cura di CATERINA ANGELUCCI

CURATORI

Cult of Magic. Foto di Giovanni Battista Righetti
Questo è il mio corpo (un'altra Ofelia) , Club Plastic, Milano Music Week. Foto di Giovanni Battista Righetti
Re Penelope , HYPERLOCAL Festival Milano. Foto di Giovanni Battista Righetti

NEI NUMERI PRECEDENTI

#46 Marta Cereda

#47 Vasco Forconi

#49 Greta Scarpa

#50 Federico Montagna

#52 Pierre Dupont

#54 Giovanni Paolin

#58 Arianna Desideri

#61 Marta Orsola Sironi

#63 Caterina Avataneo

#65 Giuliana Benassi

#68 Erinni

#71 Collettivo Amigdala

#72 Caterina Angelucci

#74 Gaia Bobò

#77 Arnold Braho

#80 Collettivo Mixta

in alto: This Little World's Too Crowded Now , Boato Festival Venezia. Foto di Giovanni Battista Righetti

a destra: Analog Techno Live Set, Boato Festival Venezia. Foto di Giovanni Battista Righetti

a essere stato presentato in occasione di rassegne come Triennale Estate e Milano Music Week, fornisce anche il contesto per gli adattamenti in ambito club delle performance del collettivo.

I temi affrontati parlano di oppressione, liberazione, identità e inconscio collettivo: tra questi la lettura del corpo femminile in chiave sacrificale in Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia), l’esplorazione del corpo come strumento di lotta politica in Re Penelope, i desideri umani e l’esoterismo in La Chiave di Salomone, la crescita personale raccontata attraverso sogni e simboli in Kushimaru e le strane creature della foresta magica e il ciclo vita-morte-rinascita in Grande Madre. “Attualmente stiamo lavorando su due nuove produzioni: Beauty (regia di Samira) e ‘Fear of the Dark’ (regia mia, di Francesco e Luca). Quest’ultimo è un esperimento ambizioso: per la prima volta, infatti, stiamo realizzando uno spettacolo totale, che utilizza più linguaggi della scena oltre alla danza e alla musica. Nello specifico, le scenografie saranno curate dallo studio di architettura e design (ab)Normal. Il processo creativo è iniziato la scorsa estate con una prima residenza a Venezia, in un’ex chiesa che oggi si chiama Fabbrica H3 sull’isola della Giudecca: da questo periodo è nato un primo studio in forma di solo. Il pros-

Il lavoro di Cult of Magic è visceralmente drammaturgico e si concentra molto sulla scrittura

simo 4 maggio saremo ospiti di BASE

Milano per ‘Assemblaggi’, occasione in cui presenteremo al pubblico la prima installazione di Cult of Magic. Nella stessa giornata condurremo un laboratorio/open studio in cui il pubblico sarà invitato a partecipare attivamente Non solo danzatori o musicisti, ma chiunque sia interessato ad approcciare le tematiche dello spettacolo da qualsiasi prospettiva, compresa quella letteraria, drammaturgica, fotografica…, oppure ad assistere osservando ‘da fuori’ ciò che si genererà negli spazi di Base. A fine maggio, infine, proseguiremo la fase creativa in una seconda residenza all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, nell’ambito di Performing Festival”, conclude Giada Vailati.

OPERA SEXY

I

FERRUCCIO GIROMINI

Dire Akihiko Takeda in Giappone è un po’ come dire Bruno Munari in Italia. Tra i due, in effetti, alcune somi glianze nella loro storica attività artistica si la sciano riscontrare. Takeda (1930-2012) mostra fin da ragazzo un approccio curioso, disin volto e multidisciplinare nei confronti di tutti i procedimenti espressivi: da pittura a tes suti, ceramica, fotografia e soprattutto scul tura, svariando tra legno, vetro, metalli e a volte sperimentalmente fondendo le varie tecniche, tra dizionali e innovative, senza farsi mancare origi nali ricorsi a smalti o finiture in seta e co tone. Dal 1951 lavora nella pubblicità per la casa automobilistica Toyota e crea e pro duce gioielli d’arte per il mercato nazio nale (Shiseido) e per quello statuni tense (Tiffany & Co.); invece nei primi Anni Novanta frequenta molto l’Italia, dove si è trasferita a vivere sua figlia, e dove si dedica in modo particolare alla scultura, in marmo e in bronzo; successivamente, in Giappone, passa a esplorare a fondo la terracotta e la ceramica incisa, per finire nei suoi ultimi anni a esercitare l’antica arte nip ponica dell’origami (ormai gli mancava giusto la carta!). Capito il tipo? Ma, ci si chiederà, che ha a che fare questa multidisciplinarità con la qualità sexy richiesta da questa colonna? Ci arriviamo. Abbiamo tenuto fuori, appositamente, un’altra tecnica plastica esercitata da Takeda: il gesso. Nella sua carriera, la troviamo concentrata in modo specifico nei suoi anni di frequentazioni italiane e, curiosamente, rileviamo che si tratta quasi in modo preponderante di figure di nudo, più o meno stilizzate. Ispirato in parte dalla nostra lunga tradizione scultorea di Carrara e dintorni, Takeda si cimenta sulla plastica del corpo umano, in particolare femminile, in direzioni idealizzate. Se gli esiti formali possono ricordare un’altra scuola europea, quella dei Picasso e dei Matisse, piuttosto interessante è lo specifico approccio tecnico. Seguendo un processo creativo di rigore tutto nipponico, l’inesausto ricercatore modifica con altri minerali l’impasto del gesso per renderlo in parte più solido e resistente, poiché vuole elimina dalle sue opere l’armatura metallica che potrebbe fare da scheletro, ma soprattutto accentua l’omogeneità, la lucentezza e la morbidezza delle superfici. Così i suoi corpi di donna, elegantemente stagliantisi nel proprio candore, acquistano una inedita e dolcissima qualità carezzevole. Perché, lo sappiamo, a dispetto delle regole dei musei, le sculture vanno toccate, chiedono un rapporto fisico. L’artista ha scelto dunque il processo esecutivo più consono per una resa erotica di tali sue opere. E non userà mai più altrove la stessa tecnica per nessun altro ciclo delle sue produzioni. A dimostrazione che se si può sostenere che la forma è contenuto, secondo il suo personale disciplinare Takeda afferma che è contenuto anche la tecnica.

Akihiko Takeda, senza titolo, gesso, 1996

Ecologia, multiculturalità, meraviglia (e un roseto!). Il programma 2025 alla Biblioteca degli Alberi di Milano

GIULIA GIAUME L Sono oltre 300 gli appuntamenti gratuiti all’insegna della meraviglia, della sostenibilità, dell’inclusione e della multiculturalità che BAM – Biblioteca degli Alberi Milano presenta per questo 2025. Il grande giardino botanico del parco di Porta Nuova sarà animato da spettacoli musicali e danzanti, laboratori e momenti di convivialità che spaziano dall’ecologia all’arte, come consuetudine per uno degli spazi culturali più attivi della città. Filo conduttore è “la Fragilità, condizione che abbatte le distanze, che crea legami e dà energia alla speranza” spiega la curatrice e direttrice generale di BAM Francesca Colombo.

Vediamo i più importanti, divisi per stagione:

Primavera: a marzo torna il BAM Spring Festival, durante il quale sarà inaugurato il Roseto di BAM – Oasi degli Insetti e delle Farfalle; a maggio ci sarà BAM Circus - Il Festival delle Meraviglie al Parco, con spettacolari performance teatrali, acrobatiche, danzanti e musicali. In questi mesi si tengono anche le selezioni per il BAM Community Talent (1430 anni)

Estate: a giugno si terrà il grande BAM Summer Festival, tra workshop ed eventi musicali per grandi e piccoli, che si inserirà anche (come prima realtà italiana) nel programma della Refugee Week

Autunno: a settembre torna per una settimana intera il Back to the City Concert, con uno speciale omaggio ai valori sportivi dei principi Olimpici e Paralimpici per l’Olimpiade Culturale di Milano Cortina 2026; a ottobre ci sarà il BAM Autumn Festival

A Madrid apre un nuovo hub per le arti. Con galleria, spazi sperimentali e tanto altro

Scannerizza il QR code qui a fianco per scoprire di più sull’artista:

GIULIA GIAUME L Un paio di anni fa vi raccontavamo di una collezione di arte contemporanea, sviluppata in un labirintico spazio espositivo nella zona più chic di Madrid, e del perché tenerla d’occhio. Ora quello spazio diventa molto di più: Solo diventa a pieno titolo un “progetto ombrello”, un vero e proprio sistema creativo che si apre alla contaminazione tra le arti e al dialogo internazionale grazie a un nuovo, ambizioso hub culturale che sarà presentato a scaglioni nel corso dei prossimi mesi. Il nuovo spazio, che prende il nome di Solo CSV (dalla via in cui si trova, Cuesta de San Vincente), è un ambizioso coacervo di attività diverse. Progettato dal famoso architetto Juan Herreros, l’ambiente post-industriale di oltre 4mila metri quadri ospiterà una serie di ambienti comunicanti ma separati: il primo, in apertura ad aprile, è la Bowman Hal Art Gallery, che sarà affiancata anche uno spazio per le sperimentazioni sonore e un’area per ospitare le gallerie straniere ed eventi.

Un itinerario nella natura e nella cultura del Parco Gran Paradiso

Centro Visitatori Del Parco di Rhêmes-Notre-Dame

Qui si scopre la storia del gipeto, il più grande avvoltoio europeo, tornato a volare nei cieli del Parco: dalla drammatica estinzione al ritorno. Nel Centro è anche presente una postazione multimediale no touch: entrando in un nuovo ambiente immersivo si potrà vivere l’ascesa alla vetta del Gran Paradiso in realtà virtuale a 360°.

Chiesa di Bruil – Notre Dame de la Visitation

Nella prima metà del XV secolo esisteva già una cappella che negli anni ha subito ristrutturazioni fino all’aspetto attuale a pianta a croce latina con un’aula centrale. A questa chiesa si aggiungono le cappelle sparse nella Valle di Rhêmes-Notre-Dame: piccoli gioielli di architettura, ognuna con una storia di comunità, devastazione e rinascita.

Lago Del Pellaud

Partendo dal paese di Bruil, ormai quasi del tutto ristrutturato rispettando l’architettura tipica di montagna, s’incontra dapprima il villaggio di Chaudanne, dove l’acqua non gela mai perché sempre corrente a causa del vicino ghiacciaio. E poi il laghetto del Pellaud, una delle mete turistiche più rilevanti del territorio, grazie alla sua accessibilità: fa parte di un’area denominata “Jardin des Anglais”.

Mulino la Chaudanaz

Nella parte alta del lago sorge una piccola casetta. Nata come mulino per macinare i cereali e trasformata nel 1921 in centralina elettrica, è stata recentemente recuperata e ristrutturata, con ancora la data di costruzione incisa sull’architrave.

NECROLOGY

RICARDO SCOFIDIO (16 APRILE 1935 – 6 MARZO 2025)

L ELEONORA GIORGI (21 OTTOBRE 1953 - 3 MARZO 2025)

L JACK VETTRIANO (17 NOVEMBRE 1951 - 1 MARZO 2025)

L LORENZO PATARO (1998 - 18 FEBBRAIO 2025)

L ROSANNA BIANCHI PICCOLI (29 MAGGIO 1929 - 15 FEBBRAIO 2025)

L MEL BOCHNER (23 AGOSTO 1940 - 12 FEBBRAIO 2025)

L GIANCARLO LIMONI (25 AGOSTO 1947 - 10 FEBBRAIO 2025)

L MARTA CZOK (25 AGOSTO 1947 - 6 FEBBRAIO 2025)

L MARIANNE FAITHFULL (29 DICEMBRE 1946 - 30 GENNAIO 2025)

L PAOLO MANAZZA (1959 - 28 GENNAIO 2025)

L PAOLO NOVELLI (1976 - 22 GENNAIO 2025)

L MARCO ROSSI LECCE (3 MAGGIO 1946 – 21 GENNAIO 2025)

L LUCA BEATRICE (4 APRILE 1961 - 21 GENNAIO 2025)

L GIOIA MORI (1956 - 20 GENNAIO 2025)

Aosta

Parco Nazionale del Gran Paradiso

Quota partenza 1701 m slm

Quota arrivo 1870 m slm

Dislivello 147 m di dislivello positivo Tempi di percorrenza 1h 30’

L’Australia ritira l’artista Khaled Sabsabi dalla Biennale di Venezia 2026: la polemica

L'artista Khaled Sabsabi insieme al curatore Michael D'Agostino

CATERINA ANGELUCCI L Avrebbe dovuto rappresentare l’Australia alla 61esima Biennale d’Arte di Venezia l’artista australiano di origine libanese Khaled Sabsabi (Tripoli, 1965), che invece, insieme al suo curatore Michael Dagostino, è stato sollevato dall’incarico a causa di un’installazione video del 2007, You. Il motivo? Il lavoro, dal significato ambiguo, include immagini del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, considerato da diversi paesi un’organizzazione terroristica. Così, Creative Australia, l’ente governativo che sovrintende le arti nel paese ha ricevuto importanti pressioni da parte dei media e degli esponenti politici, tra cui The Australian e Claire Chandler, Ministro Ombra per la Scienza e le Arti per il Partito Liberale. La lettura politica di You, donata al Museum of Contemporary Art di Sydney nel 2009, ha sollevato non poche critiche e il dubbio che non fosse il caso di farsi rappresentare da Sabsabi in occasione della prossima biennale, sebbene l’opera non fosse stata concepita come sostegno esplicito a Hezbollah. Nel mentre, gli artisti più illustri del paese, tra cui Imants Tillers, Mike Parr, Susan Norrie, Fiona Hall, Judy Watson, Patricia Piccinini, Tracey Moffat e gli eredi di Howard Arkley, hanno indirizzato una lettera aperta al consiglio e all’amministratore delegato di Creative Australia affinché Sabsabi e il suo curatore Michael Dagostino siano reintregrati nel programma: “La Biennale di Venezia è una realtà rara e fondamentale per la promozione degli artisti australiani. Essere selezionati è uno straordinario onore ed esserne privati è inaccettabile”.

PRATO DELLE MARMOTTE
CENTRO VISITATORI
CHIESA DI BRUIL
LAGO DEL PELLAUD
MULINO LA CHAUDANAZ
THUMEL

MOHAMAD ABDOUNI: TESTIMONIANZE QUEER DAL MONDO ARABO

a cura di ELISABETTA RONCATI

Nel quadro complesso delle emergenze che segnano il nostro tempo, dove le urgenze politiche si fondono con la nascita di nuovi panorami culturali e forme espressive alternative, l’artista Mohamad Abdouni (Beirut, 1989) si configura come una presenza autorevole capace di offrire uno sguardo rigoroso e documentaristico sulla realtà del Medio Oriente e non solo. Il concetto di emergenza, inteso come risposta immediata a crisi e difficoltà, ma anche come apertura verso nuove narrazioni e identità, trova nella pratica fotografica e filmica di Abdouni un’applicazione che unisce precisione visiva e impegno civile e che gli ha permesso di costruire una carriera dal respiro internazionale.

Cresciuto in un contesto segnato dai conflitti e dai problemi politici come il Libano, Abdouni ha sviluppato un linguaggio visivo che non si limita alla mera rappresentazione estetica, bensì propone di far emergere e valorizzare storie e voci che, nelle società arabe, sono state a lungo emarginate, in particolare quelle appartenenti alla comunità queer. Fondatore di Cold Cuts, il primo magazine fotografico completamente rivolto al racconto delle culture queer nella regione SWANA (South West Asia and North Africa), l’artista ha destinato ampio spazio alla documentazione della storia della comunità transessuale libanese, recuperando materiali e testimonianze che altrimenti sarebbero andati perduti. Il frutto di questo accurato lavoro si è concretizzato in Treat Me Like Your Mother: Trans Histories From Beirut’s Forgotten Past, un archivio conservato presso la Fondation Arabe pour l’Image di Beirut che offre un prezioso sguardo sulle radici della cultura queer nel mondo arabo. Il suo progetto più recente è un interessante servizio fotografico per il magazine Everything is Political interamente dedicato a Nan Goldin, corredato da un’intervista condotta da Celine Semaan. Nello speciale, grazie al connubio tra visivo e descrizione scritta, si mette in luce come il personale si trasformi in politica, rafforzando il messaggio di una creatività che non resta indifferente alle disuguaglianze e alle oppressioni. Non a caso il magazine su cui è stato pubblicato è di

Nan Goldin nella sua casa a New York. Foto di Mohamad Abdouni per Everything Is Political , dicembre 2024

proprietà di Slow Factory, un movimento e collettivo d’arte guidato da donne arabe, afro-indigene e artisti queer che con le sue iniziative promuove un cambiamento radicale attraverso un approccio critico verso le ingiustizie sociali. In questo scenario il percorso artistico e professionale di Abdouni, che integra impegni istituzionali, collaborazioni commerciali e una profonda attività di ricerca e documentazione, risponde alle emergenze del nostro tempo, evidenziando come il visivo possa diventare un mezzo per affrontare le crisi e per proporre nuove prospettive di società dove la memoria e la testimonianza assumono un ruolo centrale nello stimolare l’innovazione. Lui stesso nelle prossime righe ci descrive come la visione di alcune opere proprio di Nan Goldin, quando era studente, abbia influenzato la sua pratica artistica e sociale successiva.

“Proiettato su uno schermo bianco da 70 pollici in un’aula con una ventina di studenti, vidi per la prima volta Misty e Jimmy Paulette in un taxi. La stanza non era abbastanza buia, la proiezione stessa risultava pallida e non calibrata correttamente nei colori. Erano le peggiori condizioni per mostrare qualsiasi tipo di immagine, per non parlare di introdurre il lavoro di Nan Goldin a un gruppo di studenti del primo anno di università, eppure, l’essenza della fotografia ha trasceso ogni ostacolo e si è radicata nel mio subconscio, modificando insieme ad essa il modo in cui la mia giovane mente vedeva la fotografia come mezzo per il cambiamento sociale e politico. Di solito è difficile individuare un singolo momento che inneschi una modifica nelle proprie affinità, ma quel giorno, sulla via del ritorno a casa, feci una piccola deviazione e mi acquistai la mia prima macchina fotografica da 35 mm, la stessa che ancora uso oggi, diciotto anni dopo. Molti mi hanno influenzato lungo il percorso: grandi, colleghi e persino alcuni dei miei stessi studenti hanno fornito ampia ispirazione per il mio lavoro, ma nessuno ha mai alimentato il desiderio di ‘fare’ quanto sfogliare uno dei libri di Nan. Quando entrò nel salotto, tutte le ansie che avevo quella mattina si dissiparono. Camminava con un’aria di calma. Tutto, me compreso, improvvisamente sembrava radicato e a suo agio. Ho poi accettato il fatto che questo momento potrebbe benissimo essere stato un abbraccio che l’universo aveva concesso a quel diciottenne studente universitario che, per anni, rimase a bocca aperta davanti a Misty e Jimmy Paulette, chiedendosi come sarebbe stato trascorrere un pomeriggio con la donna dietro la fotografia”

LA VITA È TUTTA UN TREND

Cosa mangio in un giorno La mia routine del mattino Vi porto con me Fit check. Sulle piattaforme social, soprattutto TikTok e Instagram, a ognuna di queste frasi corrisponde un format, ossia un’idea di base che può essere copiata e personalizzata. Gli utenti prendono ispirazione l’uno dall’altro per creare i propri contenuti, seguendo i trend che hanno dimostrato di funzionare bene in termini di like e visualizzazioni. Tra i format di maggior successo c’è a Day in My Life (un giorno della mia vita), un classico che affonda le sue radici nell’ormai archeologico “vlog” dei primi anni di YouTube. Raccontare la propria giornata, condensandola in un video di pochi minuti (talvolta secondi) è uno dei tanti modi con cui si esprime la rappresentazione del sé online, tra narrazioni iper-costruite e tentativi di restituire una versione il più possibile autentica del proprio vissuto personale.

È a questi contenuti che si ispira l’opera di net art A Realistic Day In My Life Living In New York City di Maya Man, ospitata sul sito del Whitney Museum di New York all’interno della sezione Artport, che dal 2001 espone e preserva lavori d’artista online. L’idea è semplice ma efficace: sulla home page del sito, allo scattare di ogni ora, appare una grande scritta in sovraimpressione. Le parole sono pescate da una selezione di video postati su TikTok che fanno riferimento a determinati momenti della giornata. Non ci sono immagini: restano soltanto frasi isolate che sembrano ridurre la vita a una lista di compiti da svolgere: “alle 7 Pilates, torno a casa, mi cambio, una veloce colazione e scappo al lavoro”. Intorno alla grande scritta centrale appaiono tante parole tracciate con un carattere più piccolo: sono i commenti degli utenti che partecipano in remoto a questa narrazione diaristica virtuale, esprimendo sostegno o disapprovazione. L’effetto è straniante: non potendo vedere le immagini, le storie finiscono per sovrapporsi e confondersi. Le vite diventano tutte uguali, anonime, interscambiabili. Il contenuto scompare dietro la cornice, lasciandoci a tu per tu con i condizionamenti del format, che troneggia in primo piano, mostrando tutta la sua forza omologante.

whitney.org/exhibitions/maya-man

IMPARARE CON IL BRAINROT

Mentre scuole e università di mezzo mondo si interrogano sul futuro della didattica nell’era dell’intelligenza artificiale, online spuntano ogni giorno decine di applicazioni pensate per alleggerire il lavoro degli studenti. Una versione estrema di questa idea, che porta il concetto alle sue ultime, assurde conseguenze, è Pdf to Brainrot, un servizio che trasforma qualsiasi testo (anche manuali scolastici e paper accademici) in un breve video in stile “brainrot”, identico a quelli che affollano i feed di TikTok. pdftobrainrot.org

LA TELEVISIONE DEL PASSATO

Si sa che internet è il posto perfetto per gli amanti dei viaggi (virtuali) nel tempo. Consultando archivi, raccolte, biblioteche e collezioni di video, è possibile tele-trasportarsi con la mente in qualsiasi periodo storico, assaporando estetiche e atmosfere del passato recente e lontano. Un sito perfetto per queste esplorazioni è Time Travel Television, che pesca contenuti da YouTube e li ordina per decennio, dagli Anni Cinquanta agli Anni Novanta.

timetraveltelevision.com

INAUGURAZIONI VIDEOLUDICHE

DOOM: The Gallery Experience è un progetto ideato da Filippo Meozzi e Liam Stone che trasforma il primo livello del videogioco Doom (1993) in una galleria d’arte virtuale. Il gioco, che si può usare direttamente nel browser, permette di esplorare l’ambiente, ammirare opere provenienti dalla collezione del Metropolitan Museum of Art, sorseggiare vino e gustare stuzzichini.

bobatealee.itch.io/doom-the-gallery-experience

LE PAROLE DI NEW YORK

Esplorare una città attraverso il filtro delle parole. È questa l’idea alla base del progetto online

All Text in New York City, ideato da Yufeng Zhao. Inserendo delle chiavi di ricerca nella home page del sito, è infatti possibile ispezionare il paesaggio urbano di New York seguendo le scritte che lo punteggiano a ogni angolo: cartelli, insegne, pubblicità e targhe automobilistiche. Ogni immagine è collegata alla sua posizione esatta su Google Street View.

alltext.nyc

SCAPPARE DALLA REALTÀ DEL GIOCO

I videogiochi, come anche i film e i romanzi, possono offrirci momentanee evasioni dal mondo, trasportando la nostra mente in altri universi. Nel progetto ESC - Escape Reality, la giovane Emma Grosu, studentessa all’ECAL di Losanna, ribalta l’idea, creando un videogame in cui la protagonista cerca di fuggire dalla propria realtà digitale. Cosa succederebbe se un personaggio virtuale prendesse coscienza della propria situazione, rendendosi conto di non avere il controllo dei propri movimenti e della propria vita? Questa è l’affascinante domanda a cui il progetto tenta di rispondere.

ecal.ch/en/feed/projects/7918/esc

ZUCKERBERG REEL TIMER

Passate troppo tempo a scrollare nei reel di Instagram? Vi preoccupa la vostra salute mentale, ma anche i dati che continuate a fornire alle piattaforme social? Una soluzione ironica ce la offre l’artista e designer Kendall McGinnis, più noto con lo pseudonimo Kendal.Makes.Stuff. Il suo Zuckerberg Reel Timer è un accessorio per smartphone che incorpora una piccola faccia umana con i tratti di Mark Zuckerberg. Quando si affaccia da dietro lo schermo, vuol dire che è ora di spegnere il telefono e “andare a toccare l’erba”.

instagram.com/kendall.makes. stuff

GIOCHI IPERSTIMOLANTI

Il programmatore americano Neal Agarwal ha iniziato la sua carriera negli uffici di Google, ma ha poi abbandonato il mondo corporate per dedicarsi allo sviluppo di progetti personali. Il suo sito, neal.fun, è un contenitore di esperienze interattive e giochi di ogni genere, alcuni incredibilmente interessanti. L’ultimo in ordine di tempo si chiama Stimulation Clicker ed è un’intelligente satira dell’iperstimolazione online, con lo schermo che si riempie progressivamente di bottoni, banner, suoni e animazioni.

neal.fun/stimulation-clicker

IL COMPUTER NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO

Nonostante non sia più un sito di tendenza, Tumblr continua a ospitare spesso contenuti di grande qualità. Numerose, infatti, sono le raccolte di documenti e immagini create e gestite da archivisti amatoriali sugli argomenti più disparati. Tra queste spicca un blog intitolato Lookcaitlin, che colleziona fotografie prese da Internet Archive che vanno dal 1977 al 1997 circa. Il filo conduttore sono i computer, così come vengono rappresentati in pubblicità, articoli di giornali e grafiche d’artista.

lookcaitlin.tumblr.com

WIKITOK

L’idea è semplice: perché non applicare la familiare interfaccia di TikTok, quella che permette uno scrolling infinito, alla fruizione di contenuti culturali? Il sito WikiTok, consultabile tramite browser sia sul computer che in versione mobile, fornisce una selezione casuale di articoli presi da Wikipedia montati all’interno di un’interfaccia a scorrimento verticale. Nonostante il riferimento alla famosa app cinese, l’applicazione non contiene contenuti video, ma solo testi e immagini.

wikitok.vercel.app

TOP 10 LOTS

I TOP LOT DI LONDRA

René Magritte, La reconnaissance infinie , 1933. Courtesy Christie’s Images Ltd.

René Magritte, La reconnaissance infinie, 1933

£10.315.000

Christie’s, The Art of the Surreal Evening Sale

Yoshitomo Nara, Cosmic Eyes (In The Milky Lake), 2005

£9.027.500

Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

Francis Bacon, Portrait of Man with Glasses III, 1963

£6.635.000

Christie’s, 20th / 21st Century: London Evening Sale

Tamara De Lempicka, Portrait du Docteur Boucard, 1928

£6.635.000

Christie’s, 20th / 21st Century: London Evening Sale

Amedeo Modigliani, Portrait de Lunia Czechowska, 1917-1918

£6.290.000

Christie’s, 20th / 21st Century: London Evening Sale

Paul Delvaux, La ville endormie, 1938

£6.175.000

Christie’s, The Art of the Surreal Evening Sale

Michael Andrews, School IV: Barracuda under Skipjack Tuna, 1978

£6.060.000

Christie’s, 20th / 21st Century: London Evening

Lisa Brice, After Embah, 2018

£5.408.000

Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

David Hockney, Between Kilham and Langtoft, 2006

£5.122.000

Christie’s, 20th / 21st Century: London Evening Sale

Alberto Burri, Sacco e Nero 3, 1955

£4.920.000

Sotheby’s, Modern & Contemporary Evening Auction

IL MERCATO DELL’ARTE RESTA INCERTO ALLE ASTE DI LONDRA

Con meno lotti offerti e la preferenza per artisti storici e consolidati, le vendite londinesi hanno consegnato risultati solidi ma non entusiasmanti alle grandi case globali

È toccato a Sotheby’s a Londra il 4 marzo 2025 dare l’avvio alla prima sessione “sorvegliata speciale” del 2025 per le evening sales di arte moderna e contemporanea, con, a seguire, Christie’s e Phillips, rispettivamente il 5 e il 6 marzo. Tra capolavori, opere rare e altre che si arrivavano sul mercato per la prima volta, si attendevano in questa settimana vendite, alle Evening e Day Sale della Marquee Week londinese, per almeno 200 milioni di sterline: £198,1 milioni per la precisione, secondo i dati di ArtTactic. E a spuntarla, tra le tre giganti degli incanti, è stata Christie’s, che ha più che doppiato i risultati di Sotheby’s, con anche, però, il doppio dei lotti in catalogo. La diminuzione di opere offerte è certamente una delle cifre di queste sessioni d’asta, con un mercato dell’arte ancora incerto, che evidentemente non incoraggia i collezionisti a cedere ora le opere di loro proprietà. E che appare particolarmente cauto sugli artisti ultra-contemporanei, poco presenti nei cataloghi londinesi, a conferma di una preferenza chiara, in questo momento, per lotti e percorsi più consolidati.

RISULTATI E TOP LOT DELL’ASTA DI SOTHEBY’S

Non ha deluso del tutto le aspettative la prima vendita in calendario, la Modern and Contemporary Evening Auction di Sotheby’s, che ha portato a casa un totale solido di 62,7 milioni di sterline, da una stima minima preasta di £50,6 milioni. La sessione analoga del 2024 aveva fruttato alla casa £99,7 milioni, ma in quel caso c’era quasi il doppio di lotti offerti e andava a cubare anche il catalogo The Now. Tra i migliori risultati di Sotheby’s e a guidare la vendita di Londra il 4 marzo si è posizionato uno degli artisti blue-chip per eccellenza, Yoshitomo Nara, volato a quota £9 milioni con Cosmic Eyes (In The Milky Lake) del 2005. Notevole poi il nuovo record d’asta per la pittrice sudafricana Lisa Brice, messo a segno dal dipinto After Embah che è passato di mano per £5,4 milioni, quasi il doppio del record precedente del 2021 di £3 milioni. Subito a seguire, sul podio, un’opera di Alberto Burri, Sacco e Nero 3 del 1955, venduto a oltre 4,9 milioni di sterline, a confermare la rarità e l’ottima condizione di un’opera di grandi dimensioni come non se ne vedevano da un po’. Molto atteso era poi Crude Oil (Vettriano) di Banksy, dalla collezione del co-fondatore dei Blink 182, Mark Hoppus, che lo aveva acquistato nel 2011. In catalogo da Sotheby’s con una stima di £3-5 milioni, il dipinto, ispirato a quello dell’artista scozzese da poco scomparso The Singing Butler del 1992, rivisitato per denunciare la rovina ambientale, è arrivato a £4,3 milioni. Un risultato entro le stime, ma lontano dal record d’asta del celebre artista street fisso a £18,4 milioni dalla vendita nel 2021 di Love is in the Bin

SPETTACOLO DELVAUX ALL’ASTA SURREALISTA DI CHRISTIE’S A LONDRA E SUCCESSO PER GLI ARTISTI ULTRA-CONTEMPORANEI

Aveva due vendite in agenda Christie’s per la sua sessione londinese, il 5 marzo 2025: la 20th / 21st Century: London Evening Sale e poi l’ormai consolidatissima The Art of the Surreal Evening Sale. Il totale della serata? Oltre £130 milioni, con il 94% di venduto per lotti e il 97% per valore.

Si è conclusa con un totale di 82,2 milioni di sterline la vendita del catalogo 20th / 21st Century: London Evening Sale, con il 72% di lotti offerti per la prima volta, rispetto alla vendita omologa del 2024 che aveva raggiunto quota £137,7 milioni ma con 87 lotti, anziché i 51 di questo catalogo 2025. I risultati migliori sono stati quelli di alcuni dei top lot annunciati, tra cui, allo stesso totale di £6,6 milioni, Francis Bacon, con Portrait of Man with Glasses III e Portrait du Docteur Boucard di Tamara De Lempicka. Sul podio con loro un altro ritratto, di Antonio Modigliani, Portrait de Lunia Czechowska, passato di mano a £6,2 milioni. E a seguire il nuovo record per Michael Andrews, artista in scuderia da Gagosian, con School IV: Barracuda under Skipjack, a quota £6 milioni. Ottimi risultati poi anche per le artiste più giovani, e in altri range di prezzo, Danielle Mckinney (classe 1981), con il suo dipinto Other Worldly arrivato ben oltre le stime preasta di 40.000-60.000 sterline a quota £264.600, aggiornando il record d’asta dell’artista, e Sanya Kantarovsky (classe 1982) e il suo The House of the Spider, passato di mano a £289.800, da stime di 70.000100.000 sterline.

LA FEBBRE SURREALISTA DA CHRISTIE’S

Continua incrollabile il desiderio del mercato per l’arte surrealista, sull’onda lunga del 100° anniversario di un movimento che evidentemente continua a risuonare, soprattutto in questo preciso momento storico. In una serata da £48 milioni, se il top lot della serata – e dell’intera sessione delle aste di Londra – si è riconfermato il grande e ricercatissimo maestro René Magritte, con La reconnaissance infinie del 1933 a quota £10,3 milioni, oltre la stima massima di 9 milioni, le star incontrastate da Christie’s sono stati tre lotti di un artista più raro da trovare in asta come Paul Delvaux, provenienti da un’illustre collezione privata e in vendita per la prima volta dopo oltre 30 anni. Ad aprire la successione di opere è stato Nuit de Noel (1956), passato di mano per £2,3 milioni, che però è apparso rapidamente solo un riscaldamento di quanto doveva accadere. A cominciare dall’ottimo risultato, il migliore della serie e subito a seguire, di La ville endormie, a £6,1 milioni, da stime di 1,2-1,8 milioni (secondo miglior risultato in asta per l’artista belga e non lontanissimo dall’attuale record

LE ASTE

DI MARZO 2025 A LONDRA

Sotheby's Modern and Contemporary Evening Auction

3/2025 → £ 62,7 mln

3/2024 → £ 99,7 mln

di £7,3 milioni), e poi ancora di Les belles de nuit (Comédie du soir ou La comédie), a quota 4,4 milioni di sterline, da stime di 500.000-1 milione. Sul terzo gradino del podio, subito dopo Delvaux, è salito di nuovo Magritte, con La lumière du pôle, passato di mano per £4,9 milioni.

LA VENDITA DI PHILLIPS CHIUDE LA SETTIMANA DI PRIMAVERA

Christie’s 20th / 21st Century: London Evening Sale

3/2025 → £ 82,2 mln 3/2024 → £ 137,7 mln -55,5%

Christie’s The Art of the Surreal Evening Sale

3/2025 → £ 48 mln

3/2024 → £ 59 mln -11%

Phillips

Modern & Contemporary Art Evening Sale

3/2025 → £ 15,4 mln

3/2024 → £ 13,7 mln

Per parte sua e in conclusione delle Evening Sales londinesi, il 6 marzo 2025 Phillips si è attestata su un risultato totale di 15,4 milioni di sterline con la sua Modern & Contemporary Art Evening Sale. Poco sotto le stime preasta, ma superiore al risultato dell’anno scorso da £13,7 milioni.

Buona la percentuale di venduto per lotti, al 90%, così come per valore, dell’87%. Diverse però le aggiudicazioni al di sotto delle stime minime o nei valori più bassi, compresi alcuni dei top lot in catalogo. Nuovi record d’asta da aggiornare, invece, per l’arte ultra-contemporanea di Nathanaëlle Herbelin e Florian Krewer e tanti i lavori che arrivavano per la prima volta sul mercato, circa il 75% dei 29 lotti in catalogo da Phillips a Londra.

A guidare l’asta è stato Canada II (1975) di Joan Mitchell, venduto per £2,7 milioni, sotto le stime preasta di £3-5 milioni. A seguire, sul podio delle migliori aggiudicazioni, Pattya (1984) di Jean-Michel Basquiat. Stimato £2-3 milioni, il lotto è passato di mano per £1,7 milioni. Ancora oltre il milione, e tra i tre migliori risultati, Christopher Wool con Lester’s Sister (My Brain) del 2020, aggiudicato per £1,4 milioni (da stime di £1,2-1,8 milioni).

nella pagina a fianco: Banksy, Crude Oil (Vettriano) . Courtesy Sotheby’s in alto: Christie’s, The Art of the Surreal Evening Sale, 5 marzo 2025. Courtesy Christie’s Images Ltd. a sinistra: Paul Delvaux, La ville endormie . Courtesy Christie’s Images Ltd. a destra: Ding Shilun, The adoption of the maiden Courtesy Phillips

Tra gli artisti e le artiste delle ultime generazioni, che aprivano il catalogo della sessione serale di Phillips, parecchi i risultati ben oltre le aspettative, a cominciare dal primo lotto, The adoption of the maiden (2021), di Ding Shilun, che da stime di £20.00030.000 è volato a un prezzo finale di £114.300. Ha superato di gran lunga le previsioni e segnato anche un nuovo record d’asta per l’artista franco-israeliana Nathanaëlle Herbelin, nata a Tel Aviv nel 1989, l’opera Max (2015-2022), venduta a £57.150 da una stima di £25.000-35.000. Sempre dal versante ultra-contemporaneo della Evening Sale e di aggiornamento di record d’asta, Untitled di Florian Krewer (classe 1986), venduto £40.640, poco oltre la stima massima.

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DESTINAZIONE 2030: 20 STUDI ITALIANI

DI ARCHITETTURA

DA TENERE D’OCCHIO

Dalla (vivace) scena architettonica emergente italiana abbiamo selezionato 20 realtà: a ciascuna abbiamo chiesto di descriversi con un progetto rappresentativo e un breve questionario. Con l’auspicio che tra cinque anni gli studi in ascesa siano anche molti di più.

VALENTINA SILVESTRINI

Quando due anni fa il gruppo curatoriale Fosbury Architecture (Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino e Claudia Mainardi) sceglieva di concentrare il Padiglione Italia alla 18. Mostra Internazionale di Architettura sulla generazione di progettisti italiani under 40, forse non in molti avrebbero scommesso sugli esiti dell’operazione, ricordata anche per la sua estensione oltre la dimensione fisica della Biennale di Venezia (in nove contesti variamente fragili del Paese). Eppure oggi, a metà esatta del decennio in corso e con il conto alla rovescia verso la Biennale Architettura 2025 ufficialmente avviato, per decifrare come sta cambiando il contesto professionale nel Paese e quali realtà stanno emergendo, quell’esperienza rappresenta un imprescindibile punto di partenza teorico. In Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri, Fosbury Architecture ha infatti contribuito a ribaltare la concezione del manufatto costruito come “fine ultimo” dell’architettura. Ha mostrato cosa c’è oltre lo stereotipo dell’architetto artefice, in apparente autonomia, di processi ad alto grado di complessità come quelli derivanti dalla disciplina. Mettendo l’accento su concetti come la transdisciplinarietà, ha posto le condizioni affinché emergessero nomi che operano, con pari interesse, in ambiti affini o tangenti all’architettura canonica, fieri della loro dimensione collettiva e capaci di addentrarsi in territori inclini alla contaminazione. Orizzontale, (ab)Normal, BB (Alessandro Bava e Fabrizio Ballabio), Captcha Architecture, HPO, Lemonot, Parasite 2.0, Post Disaster, Studio Ossidiana, Giuditta Vendrame, ovvero i nove progettisti coinvolti in quel Padiglione Italia, sembrano aver in

Scannerizza il QR code qui a fianco per leggere gli articoli di Silvia Lugari sui giovani studi di architettura italiani

parte raccolto il testimone del Padiglione Italia 2023, proseguendone simbolicamente la mission. Forse non è un caso che alcuni di loro siano coinvolti nei progetti dei dieci festival di architettura, vincitori del bando del Ministero della cultura, in programma ad aprile 2025 in giro per l’Italia.

L’ARCHITETTURA EMERGENTE IN ITALIA

NEGLI ANNI VENTI DEL XXI SECOLO

Oltre alla presenza nella Biennale 2023, all’inizio degli Anni Venti del nuovo secolo a oggi, l’analisi sullo stato dell’architettura emergente in Italia ha ispirato progetti espositivi, editoriali, di ricerca, dimostrando di essere un tema meritevole di essere indagato. Nel biennio 2022-2023, Triennale Milano ha ospitato il convegno a cura di Matteo Ghidoni, Enrico Molteni e Vittorio Pizzigoni Altre 15 architetture italiane, nel corso del quale sono state presentate opere costruite o in corso di realizzazione da parte di altrettanti studi emergenti, con un parallelo focus sulle condizioni operative dei professionisti. Successivamente è stata la volta della mostra 10 architetture italiane, in cui il presente dell’architettura nazionale è stato restituito attraverso gli esiti di una generazione (all’epoca intorno ai trentacinque anni d’età), che includeva AMAA, Armature Globale, Associates Architecture, BB (Alessandro Bava e Fabrizio Ballabio) con Effe Minelli, Fondamenta, Parasite 2.0, Studio Ossidiana, SuperSpatial, Supervoid Architects, VG13 Architects. “Hanno tutti un percorso di ricerca alle spalle, grande senso pratico e attenzione alle opportunità che gli si propongono. Studiano materiali e tecniche costruttive con grande impegno e questo genera un forte senso del mestiere, quasi sorprendente per la loro età” raccontava Ghidoni ad Artribune nel 2022, identificando alcuni punti di contatto tra gli studi selezionati. Nel 2024, un’ulteriore istantanea è stata tracciata dal libro e dalla mostra Viaggio in Italia. Itinerari di architettura contemporanea che nella cornice della Rocca Estense di Lugo (Ravenna) ha offerto “uno spaccato significativo del lavoro di una nuova generazione di architetti: professionisti che conducono la loro ricerca attraverso l’accademia e il cantiere, passando per i concorsi di architettura come via preferenziale verso la qualità del progetto” come indicava Roberto Bosi, curatore della mostra insieme a Mattia Pavarotti. In quell’occasione, privilegiando il legame tra spazio pubblico e privato, esterno e interno, sono stati esposti i progetti di a25architetti, AM3 Architetti Associati, AMAA, ArchisbangAssociates Architecture, BALANCE, BDR bureau, Ciclostile Architettura, DEMOGO, ellevuelle architetti, ErranteArchitetture, FONDAMENTA, Messner Architects, MD41, OASI architects, orizzontale, studio wok, Supervoid Architects, VG13 Architects. Dal 2022 al 2024, un ciclo di interviste pubblicate sul nostro sito a cura di Silvia Lugari ha chiamato a raccolta la comunità dei giovani studi italiani, riunendo anche voci attive al di là dei confini nazionali.

AMAA, Caffè Nazionale ad Arzignano (Vicenza). Foto Mikael Olsson

VENTI PROMETTENTI STUDI

DI ARCHITETTURA ITALIANI

PER IL PROSSIMO QUINQUENNIO

Attraverso un processo di selezione a cura della sottoscritta, nel quale figure legate a vario titolo alla disciplina architettonica, volutamente appartenenti a diverse generazioni (Alessandra Coppa, Bianca Felicori, Alessandro Benetti, Manuel Orazi, Simona Galateo, Antonio Salvi), sono state invitate ad avanzare segnalazioni, è stata stilata la lista con venti giovani studi italiani promettenti per il prossimo quinquennio che vi proponiamo. A ogni realtà è stato chiesto di rispondere al medesimo questionario, con domande legate al settore professionale attuale, ai riconoscimenti conseguiti, alle aspirazioni future, alla propria relazione con il settore della comunicazione e con i concorsi. Sgombrando il campo da qualsiasi volontà competitiva, alla base di questa “indagine” si colloca piuttosto l’idea di delineare una panoramica dei progettisti con le carte in regola per affermarsi (o crescere ulteriormente, a seconda dei casi) nel contesto architettonico nazionale da qui al 2030. Nati negli Anni Ottanta e Novanta del Novecento, sono alla guida di studi attivi in tutti i principali campi architettonici; talvolta non disdegnano la dimensione dei concorsi. Come strumento di condivisione social del loro lavoro impiegano (quasi!) all’unanimità Instagram (talvolta affiancato a LinkedIn), in larga parte seguendone la copertura in prima persona senza consulenti esterni. Limitato, almeno in questa fase, il ricorso agli uffici stampa di settore, saltuariamente coinvolti come partner per specifici lanci.

UN RITRATTO DEFINITIVO?

In realtà l’augurio è che il numero degli studi che nel prossimo quinquennio farà decisivi passi in avanti sia ben più cospicuo dei venti nomi che stiamo per presentare. Molti di più, auspichiamo, saranno infatti i soggetti che sapranno sorprenderci con la loro ascesa, contribuendo a generare un impatto rilevante sull’ecosistema dell’architettura italiana, anche a livello internazionale. Volutamente eterogenea, questa istantanea riunisce realtà appena nate (i cui fondatori hanno all’attivo esperienze che, sulla carta, sembrerebbero costituire una solida base per i successivi step), e studi che già vantano riconoscimenti e incarichi importanti, proiettati in potenza verso un’affermazione piena e duratura. Al di là di queste previsioni, quanto ci interessa è registrare le energie che attraversano il settore, conoscere le risorse che lo animano, dare conto della maggiore versatilità e varietà nella composizione delle singole società di progettazione rispetto ai decenni scorsi. Ogni studio selezionato possiede un’attitudine tecnica o teorica, incarna una specifica propensione verso uno o più ambiti, dispone di un’impostazione interna che lascia presagire scenari di interesse: dalla capacità di saper lavorare con cura materiali preziosi, come il legno, alla “sfida” del lavoro collettivo in una collocazione geografica diffusa, passando per la ricorrente attenzione verso i temi del riuso, della rigenerazione, della progettazione dello spazio pubblico, dimostrando piena consapevolezza per le questioni legate al consumo delle risorse disponibili (a partire dal suolo). E non dimenticano la ricerca. Una materia in costante divenire, quella dell’architettura emergente: così da nostra tradizione, restiamo in ascolto e accogliamo ogni segnalazione utile.

COSA FANNO I GIOVANI STUDI IN ITALIA?

TENET ARCH Milano, 2023

TARANTINO MARCHESI Milano, 2023

GREGORIO PECORELLI STUDIO Milano, 2021

AROUND Rotterdam (Paesi Bassi), 2020. Milano, 2022

SABOTAGE PRACTICE Milano, 2024

STUDIO MUSA Milano, 2023

ATELIER REMOTO Bergamo e Trento, 2016

LLABB ARCHITETTURA Genova, 2013

ASSOCIATES ARCHITECTURE Brescia, 2017

SOFIA ALBRIGO Coira, (Svizzera), 2022

COLLETTIVO CTRL+S Italia, 2021

BARBARA BREDA Bolzano, 2018

FACCHINELLI DABOIT SAVIANE 2019, Alpago (BL)

CINQUE A Treviso, 2018

AMAA Venezia, 2012 Arzignano (VI), 2015

GMA - GIOVANNI MECOZZI ARCHITETTI Ravenna, 2019 Loretello (AN), 2024 QB ATELIER Ferrara, 2017

GRAZZINI TONAZZINI COLOMBO Roma, 2021

VELIA Roma, 2024 Zurigo (Svizzera), 2024

AM3 ARCHITETTI ASSOCIATI Palermo, 2011

Luogo e anno di fondazione

Numero fondatori e loro anno di nascita

Numero eventuali collaboratori ed età media dello staff Settore/i professionale/i di riferimento Account Instagram

1.0 Apt Roma, 2022, ristrutturazione

Lo spazio della casa è definito da un processo di sottrazione. Rimuovendo i materiali di rivestimento e le partizioni superflue, la struttura originale viene rivelata. Questo crea uno spazio continuo e aperto, esposto alla città. Una trave in alluminio brunito collega tutte le stanze e funge da principale sistema di illuminazione.

Coira, (Svizzera), 2022

1 fondatrice: Sofia Albrigo (1991)

4 collaboratori, età media 30 anni

Architettura residenziale, riuso, interni, allestimenti, design @sofia.albrigo

COLLETTIVO CTRL+S

Arco, Quando soffia il tempo, Triennale di Milano, 2023

Quando soffia il tempo è un workshop di architettura per bambini che è stato progettato per Triennale Milano ed incluso nel programma dell’Arch Week 2023: Around peripheries. L’attività consisteva in due fasi: la prima indagava le trasformazioni del Palazzo dell’Arte, sede di Triennale, attraverso incontri fisici e simbolici (i bambini intraprendeva un insolito viaggio all’interno del Palazzo per scoprirne le modifiche subite nel tempo); la seconda fase è stata un laboratorio in cui i bambini hanno costruito uno degli elementi architettonici più distintivi di Triennale Milano: l’arco.

Italia, 2021: collettivo ctrl+S non nasce in un luogo fisico, ma è una collaborazione tra persone che vivono in diverse parti d’Italia ed Europa

10 co-founder: Luciana Di Marzo (1993), Rebecca Felline (1993), Giovanni Garrisi (1993), Monica Galeotti (1993), Paola Ghiano (1992), Francesca Girolami (1993), Francesco Hamard (1994), Marco Iembo (1992), Laura Ingargiola (1993), Francesca Lauretta (1994)

Non sono presenti collaboratori al momento Spazio pubblico, installazioni, allestimento, rigenerazione urbana, workshop @collettivoctrl

← a sinistra: il progetto BC

Apt. Foto ©Louis de Belle a destra: un ritratto del team. Foto © SAGG Napoli

a sinistra: Birreria di Birra del Gargano. Peschici (FG). Foto Filippo Ferrarese a destra: un ritratto di Fabio Bovio e Luca Attardi. Foto Filippo Ferrarese →

AROUND

Birreria di Birra del Gargano, Peschici (FG), 2022 Lo spazio per Birra del Gargano è luogo di incontro e vetrina per raccontare il progetto della beerfirm. Il design degli interni unisce elementi legati al carattere industriale delle brewery e alla mediterraneità del luogo. Il progetto degli esterni reinterpreta lo spazio del dehor come salotto pubblico che crea relazioni inusuali con il contesto.

Rotterdam (Paesi Bassi), 2020. Dal 2022 ha sede a Milano

3 fondatori: Luca Attardi (1990), Fabio Bovio (1990), Francesca Vanelli (1991)

Non sono presenti collaboratori al momento Architettura pubblica e residenziale, sia di nuova costruzione che riuso di edifici esistenti. Contemporaneamente lo studio porta avanti progetti di interni residenziali e commerciali, allestimenti oltre ad alcuni progetti di ricerca @ around_architects

L← a sinistra: il progetto Arco, Quando soffia il tempo, Triennale Milano. Foto di Marco Iembo, collettivo ctrl+S a destra: un ritratto del team. Foto di Filippo Tagliabue, FT FOTO

a sinistra: il progetto di una casa privata, Milano, 2024. Foto © Agnese Bedini

DSL Studio a destra: un ritratto del team. Foto © Agnese Bedini

DSL Studio →

TARANTINO MARCHESI

Casa privata, Milano, 2024

Il progetto predilige una distribuzione flessibile e nuda, eliminando l’originale frammentarietà dello spazio. La camera è un involucro trasparente che, come una serra, si pone in continuità spaziale con la terrazza. La luce diventa protagonista, risaltando i materiali naturali e neutri dello spazio.

Milano, 2023

2 fondatrici: Cecilia Tarantino (1995), Martina Marchesi (1994)

Lo studio ad oggi non ha collaboratori fissi ma instaura, a seconda del progetto, collaborazioni con professionisti esterni e studi di architettura

Progetti a diverse scale architettoniche, dall’arredo alla progettazione di spazi pubblici. I progetti in corso riguardano l’architettura residenziale e di interni (a Milano) e interventi di rigenerazione urbana (tra cui la progettazione di un parco pubblico, in un borgo nelle Marche) @tarantinomarchesi

SABOTAGE PRACTICE

Plateau, 2025

Intervento di ricerca e progetto di paesaggio, con la realizzazione di strutture orizzontali attrezzate con tecnologie e dispositivi che occupano il suolo di un bosco, generando un paesaggio disfunzionale.

Milano, 2024

1 fondatrice: Valentina Noce (1991)

1 architetto collaboratore, età 28 anni Ricerca, paesaggio, edifici, riuso @sabotagepractice

← a sinistra: Plateau, 2025: ricerca su paesaggio e infrastruttura tecnologica. Crediti: sabotage practice a destra: un ritratto. Foto ©Piercarlo Quecchia ©DSL studio

a sinistra: Como Lakehouse. Foto © Francesca Iovene a destra: un ritratto. Foto © Francesca Iovene →

GREGORIO PECORELLI STUDIO

Restauro di un'abitazione privata, 2024 Il restauro di una storica casa con darsena sul Lago di Como, preservando la patina originale e l’intimità del giardino. Completata nel 2024, la casa ha materiali naturali e tante soluzioni di arredo custom che la rendono un rifugio sospeso nel tempo. Un grande soggiorno sull’acqua, una suite in legno scuro e una spa privata sotterranea dialogano con il paesaggio lacustre.

Milano, 2021

1 fondatore: Gregorio Pecorelli (1989)

2 collaboratrici, età media 30 anni

Lo studio opera prevalentemente nel settore degli interni di alta gamma e nell’architettura residenziale. Lavora a più scale con progetti che approfondiscono tematiche differenti, come riallestimento museale, riuso restauro, progetti pubblici e masterplan @gregoriopecorellistudio

LSTUDIO MUSA

Playground carpet, Milano, 2023

Presentata ad Alcova, durante il Salone del Mobile, questa installazione rappresenta la realtà di Studio Musa, in quanto combina progettazione architettonica, allestimento e design, legati da un pensiero creativo attento e consapevole. Nel progetto Studio Musa interpreta e rappresenta una personale visione del mondo; formato da moduli di legno laccati colorati di diverse tonalità, questo simbolico tappeto rappresenta un messaggio di unione ed inclusività composto da diverse forme archetipe, integrate tra loro con un motivo variegato e mutevole che accetta ed esalta i pieni ed i vuoti che le diverse figure creano tra di loro.

Milano, 2022

2 fondatrici: Rebecca Peretti (1994) Francesca Malagni, (1994)

2 collaboratori, under 30

Retail, temporary architecture, allestimenti, design @studiomusa___

← a sinistra: il progetto Playground Carpet . Foto © Agnese Bedini Piercarlo Quecchia DSL Studio a destra: un ritratto del team. Foto @agf_281

a sinistra: il progetto di trasformazione di un fienile in abitazione, Mornago (Varese).

Foto © Francesca Iovene a destra: un ritratto del team. Foto © Francesca Iovene →

TENET ARCH

Trasformazione di un fienile in abitazione, Mornago (Varese), 2023-2025

L’intervento di adaptive reuse riguarda la trasformazione di un fienile in abitazione. Una nuova struttura in calcestruzzo a vista organizza gli spazi della casa e ne definisce il carattere, dialogando con l’identità tradizionale dell’edificio e affermando la propria autonomia. Aree di rappresentanza e zona notte sono divise da un nucleo centrale che contiene anche la scala che porta al loggiato.

Milano, 2023

2 fondatori, 3 partners: Leonardo Chironi (1987-founder/partner), Stefano Passamonti (1988-founder/partner), Letizia Pella (1985-partner) 2/3 collaboratori, età media 26 anni

Adaptive reuse, architettura residenziale, allestimento, commerciale, interni @tenet_arch

ATELIER REMOTO

Dandalò, summer temporary pavilion, L’Aquila, 2022

La copertura in tubi colorati di alluminio ondeggia al vento come un canneto e risuona piano, attraversata dall’aria che vi scivola attraverso. Le ondulazioni del paesaggio appenninico che circonda la città sembrano essersi mosse verso il centro storico per divenire riparo e ombra colorata, per chi esce dal museo MAXXI, per chi passa per la piazza o per chi viene a ballare la sera, quando i tendaggi metallici si illuminano a festa.

Bergamo e Trento, 2016

2 fondatrici: Valentina Merz (1990), Lara Monacelli Bani (1990)

Mai avuto collaboratori fissi né dipendenti; a seconda del progetto si instaurano collaborazioni con architetti, uffici ed altri professionisti Interni, residenziale, commerciale, allestimenti, rigenerazione urbana, divulgazione culturale, ambito accademico

@atelier_remoto

ASSOCIATES ARCHITECTURE

Cappella del Silenzio, Botticino (BS), 2017 È situata al confine tra il vasto bosco che domina il paesaggio della valle di Botticino e un vigneto che degrada dolcemente, fungendo da soglia tra i due sistemi territoriali. La Cappella, pur essendo laica, è un luogo di culto, silenzio e preghiera, aperto a tutti. Avvicinandosi, si viene accolti da un monolitico raccoglitore d’acqua piovana in marmo di Botticino, scavato in superficie. Il primo spazio della Cappella conduce a un frammento di bosco, incorniciato da un’apertura in ferro; il secondo, e principale, incornicia il bosco esterno e un menhir in marmo di Botticino.

Brescia, 2017

2 fondatori: Nicolò Galeazzi (1987), Martina Salvaneschi (1989)

4 collaboratori, 26 anni

Architettura in ogni suo campo, dalla scala

dell’oggetto a quella del territorio

@associates.architecture

← a sinistra: il progetto Dandalò, Padiglione temporaneo per il museo MAXXI L'Aquila, Premio NXT, 2022. Foto Marta Tonelli a destra: un ritratto del team. Foto Nathanael Guzman

a sinistra: restauro conservativo dell’ex Cappella dello stabilimento ex-Alumix, Bolzano. Foto Tommaso Riva a destra: un ritratto. Foto wow projectFrancesco Ippolito →

Restauro conservativo dell’ex Cappella dello stabilimento ex-Alumix, presso il NOI Techpark, Bolzano, 2020. (Con arch. Markus Scherer e Draw studio)

Lo spazio, non più dedicato all’uso liturgico, si configura come area di lavoro o luogo meditativo per scopi individuali e collettivi libero da dispositivi digitali. Gli arredi sono disegnati e prodotti per questo ambiente con materiali coerenti al contesto e cari alla tradizione degli Anni Cinquanta.

Bolzano, 2018

1 fondatrice: Barbara Breda (1982)

Non sono presenti collaboratori Interni, rigenerazione, restauro

No

L← a sinistra, un altro progetto dello studio: Echo of the mountain , Dossena. Foto ®ATELIER XYZ

a destra: un ritratto del team. Foto Leonardo Anker Vandal

a sinistra: il progetto della Nuova Scuola Secondaria di Primo Grado a Puos d’Alpago (Belluno). Foto Gustav Willeit

a destra: un ritratto del team. Foto courtesy facchinelli daboit saviane →

FACCHINELLI DABOIT SAVIANE

Nuova Scuola Secondaria di Primo Grado a Puos d’Alpago (Belluno), 2018-2024

La scuola si sviluppa attorno al tema della “piazza coperta”, seguendo un’idea di insediamento quasi primitiva, costituita da un volume sospeso su quattro nuclei che genera uno spazio coperto in diretta continuità tra interno ed esterno, con la funzione di centro civico nell’orario extrascolastico.

Alpago (BL), 2019

fondatori: Gianluca Facchinelli (1989), Celeste Da Boit (1989), Giada Saviane (1989)

Non sono presenti collaboratori al momento

Sia architettura pubblica (scolastica, culturale, infrastrutture, mobilità, servizi), che privata (interni, residenziale, ricettiva, riuso e rigenerazione)

@facchinellidaboitsaviane

STUDIO CINQUE A

Progetto per un mercato coperto Ancona, Piazza d’Armi, 2018-In corso

Questo progetto di riqualificazione urbana della piazza esistente e realizzazione di un mercato coperto mira a dare identità a uno spazio frammentato tramite un landmark urbano. Il complesso include un volume che ospita il mercato coperto, posizionato sull’asse longitudinale della piazza e un’ampia piazza che ospita il mercato settimanale. La copertura dell’edificio, in grecata metallica, passa da una geometria a padiglione a una geometria piana. La semplicità formale ma iconica del volume è veicolo per la riqualificazione dell’intera area.

Treviso, 2018

5 fondatori: Matteo Benigna (1984), Matteo Cecchi (1984), Diego Collini (1985), Marco Gatti (1991), Giovanni Manzoni (1989)

Attualmente 2 collaboratrici, età media 26 anni

Architettura pubblica (in prevalenza), ma anche di architettura residenziale, ristrutturazioni e di disegni costruttivi per il settore navale (navi da crociera)

@studiocinquea

AMAA COLLABORATIVE ARCHITECTURE OFFICE FOR RESEARCH AND DEVELOPMENT

Threshold and Treasure, Arzignano (Vicenza), 2022

Threshold and Treasure, l’intervento di recupero che ha portato alla realizzazione, nel 2022, di una galleria d’arte nel centro della città di Arzignano (Vicenza) è un progetto che mette in discussione il ruolo della soglia e del tesoro nel mondo dell’arte, dell’architettura e, nello specifico, delle gallerie quali spazi per esporre.

Venezia, 2012. Dal 2015 i fondatori stabiliscono AMAA Workshop a Arzignano (Vicenza); dal 2024 è attivo un pop-up office a New York 2 fondatori: Marcello Galiotto (1986), Alessandra Rampazzo (1986) 17 collaboratori in partita iva, età media dello staff (inclusi i fondatori) è 30 anni

Residenziale, pubblico, recupero @amaa_office

← a sinistra: il progetto di riqualificazione urbana e del mercato coperto in Piazza d’Armi, Ancona. Render courtesy Cinque A a destra: un ritratto un team. Foto Livio Lacurre

a sinistra: il progetto di allestimento di Palazzo Schifanoia, Ferrara. Foto Pietro Savorelli a destra: un ritratto del team. Foto © Valentina Sommariva →

L← a sinistra: il progetto Threshold and Treasure. Foto © Simone Bossi, courtesy of AMAA a destra: un ritratto del team. Foto Mikael Olsson

a destra: un ritratto del team. Foto Mikael Olsson a sinistra: il progetto Gironda, Ravenna. Foto © Simone Bossi a destra: un ritratto. Foto Omar Sartor →

Allestimento Palazzo Schifanoia, Ferrara, 2021 Il progetto architettonico si configura in una successione di apparati espositivi, arredi e dispositivi spaziali dalla geometria semplice e rigorosa, che accompagnano l’intero percorso di visita all’interno degli spazi recuperati dopo i danni causati dal terremoto del 2012.

Dal 2010 alla sera e nei fine settimana; dal 2017 con una sede fissa, a Ferrara 2 soci fondatori: Filippo Govoni (1985), Federico Orsini (1982)

2 collaboratrici di 28 e 29 anni

Studio multidisciplinare, che passa dal design alla progettazione del paesaggio @qbatelier

GMA - GIOVANNI MECOZZI ARCHITETTI

Gironda, Ravenna, 2023-2024

Gironda è un intervento interior design con una spiccata complementarietà tra la dimora storica e l’abitare contemporaneo. La nuova architettura si svela negli interni, dove le storiche sale vengono ridefinite da imponenti strutture d’arredo che ospitano le nuove diverse funzioni. Gli intensi colori evocano l’essenza dei mosaici paleocristiani e bizantini della storia ravennate.

Ravenna, 2019. Dal 2024 ha una seconda postazione operativa presente a Loretello (Ancona)

1 fondatore: Giovanni Mecozzi (1981); 1 partner dal 2025: Cecilia Verdini (1988)

2 collaboratori stabili attuali presenti in sede: Filippo Minghetti (1995) e Matteo Pala (1999). Collaborazione esterna con ing. Marco Rinaldi (1978), per tutti i lavori pubblici

Giovanni Mecozzi si occupa di architettura e interior design in ambito residenziale, commerciale e/o pubblico. Dal 2025 lo studio ha ampliato il proprio ambito di riferimento grazie all’entrata in società dell’architetto del paesaggio Cecilia Verdini @giovanni.mecozzi.architetti

LLABB ARCHITETTURA

Riviera Cabin, La Spezia, 2017 Il progetto Riviera Cabin rappresenta un momento di svolta per lo studio. Si passa infatti dalla realizzazione di elementi d’arredo al progetto e realizzazione dell’allestimento di un appartamento, dove l’oggetto disegnato e realizzato, una parete funzionale, plasma lo spazio diventando esso stesso architettura.

Genova, 2013

2 fondatori: Luca Scardulla (1987), Federico Robbiano (1991)

10 collaboratori, età media 30 anni

Nati falegnami, principalmente ora si occupano di interior, ma con un importante focus sui beni sottoposti a vincolo. Si stanno dirigendo verso il pubblico @llabb_architects

GRAZZINI TONAZZINI COLOMBO

Quintessenza - Padiglione MAXXI NXT, Roma, 2023 Quintessenza è un’installazione che coniuga l’architettura teatrale al concetto di origine aristotelica, secondo cui ai quattro elementi tradizionali se ne aggiungeva un quinto, etereo, puro e incorruttibile, che costituiva la sfera celeste. L’intervento, concepito come un volume astratto dalla forte plasticità, è una sequenza di piani verticali in lamiera zincata, una scenografia, un dispositivo lunare cangiante e riflettente da esplorare e scoprire.

Roma, 2021

3 fondatori: Michele Grazzini (1991), Andrea Tonazzini (1992), Giorgia Colombo (1989) Paola Venturi, Giovanni Manfolini, Tamara Mračevic, Taewoo Jin, età media: 25 anni

Architettura culturale, residenziale, pubblica, sacra, allestimento, installazioni, interni @grazzinitonazzini

← a sinistra: un altro progetto dello studio: The Hermitage Cabin, Val Trebbia. Foto Anna Positano e Gaia Cambiaggi | Studio Campo

a destra: un ritratto del team. Foto Giovanni Battista Righetti

a sinistra: il progetto Casa Bottega. Foto © Simone Bossi

a destra: un ritratto del team. Foto © Davide Curatola Soprana →

VELIA

Residenza e studio, Roma, 2024, Il progetto sorge a Trastevere, in una piazza segnata dalla facciata del complesso di S. Cecilia. Originariamente destinato a ospitare cavalli al piano terra e abitazioni ai piani superiori, l’edificio conserva la sua eredità con uno studio al pianterreno e spazi abitativi al piano superiore. La configurazione massimizza la flessibilità, integrando lavoro e quotidianità.

Roma, 2024 - Zurigo, 2024 2 fondatori, nati nel 1991 1 collaboratore, età 28 anni Residenziale, riuso e rigenerazione, allestimento, insegnamento e ricerca @velia.biz

← a sinistra: il progetto del Padiglione MAXXI NXT. Foto © Grazzini Tonazzini Colombo

a destra: un ritratto del team nel 2022. Foto © Grazzini Tonazzini Colombo

a destra: il progetto della Chiesa Villaggio Mosé, Agrigento. Foto Davide Curatola Soprana.

a sinistra: un ritratto del team. Foto Davide Curatola Soprana →

AM3 ARCHITETTI ASSOCIATI

Nuova aula liturgica e recupero del complesso parrocchiale del Cuore Immacolato di Maria a Villaggio Mosè (Agrigento), fine lavori nel 2022. La chiesa evoca il passato del paese, storica area degli estrattori di zolfo, diventando un fulcro sociale e spirituale. L’ingresso, costituito da una profonda spaccatura, introduce a un’aula accogliente, avvolta da un tetto fluido che, come il manto della Madonna, protegge la comunità sotto una luce trascendente.

Palermo, 2011

3 fondatori: Marco Alesi (1980), Cristina Calì (1985), Alberto Cusumano (1984)

Lo studio si avvale complessivamente di 6 collaboratori interni (Liucija Berezanskyte, Giuseppe Infantino, Floriana Gentile, Vincenzo Barone, Carlotta Fazio, Francesca Mazzola), complessivamente di età media 31 anni. Collabora attivamente con altri studi di ingegneria, architettura e visuali

Progetti in ambito pubblico, istituzionale e privato, con opere in contesti di pregio storico e paesaggistico. Tra i settori professionali di riferimento: architettura pubblica, architettura sacra, architettura paesaggistica, restauro, allestimento, architettura residenziale @am3architetti

GIOVANI STUDI DI ARCHITETTURA E CONCORSI DI PROGETTAZIONE: UN CASO VIRTUOSO DA MAROSTICA

Il quadro tratteggiato dal “campione” preso in esame nella nostra indagine si rivela piuttosto frammentato per quanto attiene la questione dei concorsi di progettazione. Data la selezione effettuata, probabilmente l’esito non poteva che essere così disomogeneo, ci sono studi con all’attivo partecipazioni (e successi) in Italia (spesso privilegiando i territori circostanti la sede) e all’estero (in alcuni casi, si guarda a Paesi in cui si registra un notevole fermento come l’Arabia Saudita) e che considerano questo strumento come imprescindibile per la propria ricerca, e altre realtà che, almeno per ora, dichiarano, non esplorano questo campo. Ma indipendentemente dal singolo livello di interesse, quante e quali possibilità vengono offerte dai concorsi? A fine novembre

2024 la sala multimediale dell’ex opificio di Marostica – circa 14mila abitanti, in provincia di Vicenza – ha ospitato la presentazione pubblica delle proposte candidate al concorso di progettazione a inviti organizzato dalla Fondazione Rubbi. Di base nella medesima città veneta, l’istituzione nata vent’anni fa si è fatta promotrice di un percorso concorsuale nel quale cinque studi emergenti – Carlana Mezzalira Pentimalli, AMAA, ETB Studio, Didonè Comacchio Architects, Enrico Dusi e Matteo Ghidoni –sono stati sollecitati a progettare un nucleo residenziale per persone affette da demenza. Un edificio da affiancare all’esistente Casa per anziani, gestita dalla medesima Fondazione. La giuria, composta dai membri dirigenti della Fondazione Rubbi e da due architetti professionisti (Fabio Zampese, Associato presso David Chipperfield Architects Milano, e Luca Bosco che opera in Syncopestudio srl) ha decretato il successo della proposta sviluppata da Carlana Mezzalira Pentimalli. Denominato Vite, quello vincitore è “un progetto che in modo personale ci ha visti coinvolti nell’immaginare noi stessi in un tempo e in uno stato futuro: l’esito è stata un’architettura che in modo naturale e spontaneo risultasse al servizio di una comunità così speciale” spiegano i tre architetti dello studio, accomunati agli altri partecipanti dall’essere di base in Veneto. Come raccontano Zampese e Bosco, coinvolti fin dalle prime battute dell’iter (ovvero già dalla stesura delle linee guida del bando), tale dato geografico non costituisce una casualità: si tratta infatti di un preciso indirizzo assegnato all’operazione dalla Fondazione, che ha voluto concentrare gli inviti su realtà emergenti e attive nel contesto regionale, in prossimità del territorio oggetto dell’intervento. “Non perché siano gli unici talenti in ascesa in Italia – chiariscono ad Artribune Zampese e Bosco – ma perché il soggetto vincitore po-

Il plastico del progetto
Vite. Courtesy Carlana Mezzalira Pentimalli

GIOVANE

ARCHITETTURA ITALIANA: COME RESTARE AGGIORNATI?

L’OSSERVATORIO

Ideato da Michela Anzivino, Alessandra Coppa, Michela Locati e Raffaella Fossati nuovarchitettura.it è il portale di osservazione, studio e comunicazione sulla giovane architettura italiana, finalizzato alla promozione e comunicazione dell’attività delle/gli architette/i emergenti sul territorio italiano. Oltre al sito, concepito come rivista online che punta a dare visibilità ai gruppi di architette/i selezionate/i, sul fronte offline il progetto nuovarchitettura (a sua volta nato nel 2021) collabora con gli Ordini degli Architetti PPC in tutta Italia con iniziative, come eventi e concorsi. Nell’autunno 2025 si terrà la seconda edizione del premio (associata a una mostra); sarà organizzata con l’Ordine degli Architetti di Napoli, proprio nel capoluogo campano.

DA LEGGERE

Roberto Bosi e Mattia Pavarotti (a cura di), Viaggio in Italia. Itinerari di architettura contemporanea LetteraVentidue, 2024

L’INIZIATIVA

Casabella 967, in uscita a marzo 2025: un numero monografico sull’Italia con un focus su sei giovani studi attivi nel Paese.

Promosso dalla Fondazione Architetti Firenze, il format EMERGENTI | studi d’architettura sta tratteggiando uno scenario delle nuove tendenze dell’architettura contemporanea in Italia. L’iniziativa si focalizza, volta per volta, L’iniziativa si focalizza, volta per volta, su singoli studi selezionati, protagonisti di una mostra e di un incontro alla Palazzina Reale di Firenze SMN (attuale sede di Ordine e Fondazione, nel complesso della stazione ferroviaria Santa Maria Novella). Al progetto, curato dai consiglieri della Fondazione Architetti Firenze Francesca Cappelli e Antonio Salvi con il supporto di un comitato scientifico, si affianca l’omonima produzione editoriale. Dopo VG13 Architects e QB Atelier, il terzo appuntamento si focalizzerà su AM3 Architetti Associati.

tesse trovarsi nella condizione più facile per seguire, in modo ravvicinato e continuativo, le fasi successive”. Inoltre, anziché adottare una modalità concorsuale aperta o prevedere un più cospicuo numero di invitati, la Fondazione ha preferito la formula della partecipazione a cinque “per garantire un compenso economico a tutti e poter controllare con serenità il processo”. Al di là delle qualità riconosciute al progetto vincitore, che si inserisce in un’area a ridosso del centro storico medievale di Marostica introducendo una peculiare relazione con i volumi esistenti e l’area verde di pertinenza, della sua fattibilità tecnica e della rapidità esecutiva prevista, è anche all’iniziativa in sé che vanno attribuiti alcuni meriti. Non sempre in Italia un soggetto privato decide di attivare un percorso concorsuale su un tema così specifico (e sempre più urgente, data la composizione della nostra società e le patologie che l’affliggono), che richiede di acquisire competenze specifiche sulle modalità di progettazione di spazi adatti ai degenti e agli operatori che li affiancano, coinvolgendo una rosa di professionisti in

I PREMI

Il premio annuale Giovane Talento dell’Architettura Italiana, promosso dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori (CNAPPC), viene assegnato a una/un architetta/o, pianificatrice/tore, paesaggista o conservatrice/tore, con meno di 40 anni di età al momento della pubblicazione del bando, iscritta/o ad un Ordine italiano, cittadina/o italiana/o (e presente sull’Albo Unico nazionale), che singolarmente o in team, anche internazionale, si distingue “per l’attività professionale svolta con particolar attenzione alla promozione e diffusione della cultura architettonica in ambito trasformativo”.

All’ultima edizione, il riconoscimento è stato assegnato all’architetto Emanuele Scaramellini.

Realizzato in collaborazione da MAXXI e Triennale Milano, il Premio italiano di Architettura include il riconoscimento al miglior giovane progettista under 35 (conferito ad anni alterni al vincitore del programma NXT del MAXXI e del Premio TYoung Claudio De Albertis di Triennale Milano). Nella più recente edizione, datata 2024, a vincerlo è stato lo studio Grazzini Tonazzini Colombo (con l’installazione Quintessenza).

Frequenza biennale per il Premio di architettura Federico Maggia, intitolato all’ingegnere e architetto biellese scomparso nel 2003; è promosso da Fondazione Sella con gli Ordini degli Architetti e Ingegneri di Biella. Si rivolge a progettisti under 30, invitandoli a sviluppare interventi di recupero e sviluppo nel territorio biellese. Nell’ultima edizione, organizzata nel 2022, si è imposto il progetto di PRACTICE+ (Erasmo Bitetti, Clara Faccio e Federico Giorgio) con Giacomo Pavanello.

una fase di crescita delle rispettive carriere. Attivare un’esperienza che incentivi la buona architettura può essere superficialmente considerata una scelta dispendiosa, ma spesso si rivela più competitiva, lungimirante ed efficace che realizzare un progetto in velocità. “Con l’opportunità di aumentare la ricettività con un nucleo Demenze, il CDA, ispirandosi anche alla Carta Europea dei Diritti degli Anziani – al “Diritto a condurre una vita dignitosa” – e considerando che 3 persone su 10 a 80 anni saranno soggette a disturbi cognitivi, si è chiesto: “Cosa vorremmo per noi e per i nostri affetti in quella fase?” raccontano Riccardo Bonan e Pierantonio Zampese, rispettivamente direttore e presidente della Fondazione Rubbi. “Questo ci ha spinti a dare anche una connotazione culturale all’operazione, coinvolgendo giovani studi emergenti di progettazione architettonica per elaborare nuove idee rispondenti a queste necessità. Il Concorso di Idee ci è sembrato da subito lo strumento più indicato” concludono. L’intenzione della Fondazione è portare avanti il progetto: un obiettivo, da perseguire anche attraverso il reperimento di ulteriori risorse, che speriamo possa ispirare pure altrove esperienze a sostegno delle generazioni emergenti. E, più generale, a favore della qualità architettonica applicata a qualsiasi fase della vita umana.

LA POLONIA È NATA A POZNAŃ

Una piccola e dinamica metropoli sulla strada che da Berlino porta a Varsavia: Poznań è un concentrato di storia, tradizione e cultura polacca. Vi portiamo attraverso i suoi luoghi più e meno noti, ma anche i musei, le gallerie e le manifestazioni che la rendono una delle più interessanti realtà artistiche del Paese

Poznań è la quinta città della Polonia per numero di abitanti (circa 550mila, con l’area metropolitana che raggiunge il milione), al centro di una regione, la Wielkopolska (Voivodato della Grande Polonia), fra le più dinamiche e ricche del Paese. Da sempre è città di fiere e di commerci, aiutata dalla posizione geografica che la pone praticamente a metà strada fra Berlino e Varsavia. Negli ultimi anni (a parte la parentesi della pandemia) il turismo, soprattutto domestico ma sempre più anche internazionale, favorito dai voli low-cost (dall’Italia sono circa due ore di volo), ha contribuito alla vitalità del tessuto economico. Crocevia di scambi, la città è stata a lungo (dal 1848 al 1918) sotto l’influenza germanica, prima come parte della Prussia e poi dell’Impero Tedesco che qui si estendeva verso Oriente con la provincia della Posnania. Un passato che, a livello architettonico, è ancora facilmente osservabile in certi quartieri della città.

LA CITTÀ CHE HA ISPIRATO FRITZ LANG

PER LE SCENOGRAFIE DI METROPOLIS

C’è un episodio, seppur marginale, che meglio di altri, suggerisce il mescolarsi burrascoso di vicende storiche e culturali che hanno avuto Poznań come protagonista. Fritz Lang nel suo film Metropolis (1927) per rappresentare la torre dove risiede la potente famiglia Fredersen, si ispira direttamente alla Torre dell’Alta Slesia realizzata a Poznań nel 1911 dall’architetto tedesco Hans Poelzig, uno degli esponenti della Deutscher Werkbund. La torre, che aveva un corpo circolare ed era coronata da una cupola, oggi non esiste più e al centro dell’area fieristica è stato ricostruito nel secondo dopoguerra un padiglione di aspetto più moderno. Il quartiere della fiera si trova di fronte alla stazione centrale e qui – come nella vicina area del Poznań Financial Centre e dell’Andersia Tower (l’edificio più alto della città, 102 metri) – si coglie la spinta al rinnovamento urbanistico che sta caratterizzando lo skyline di molte città della Polonia.

Poznań Polonia Veduta del centro storico dal Castello Reale Photo Adam Ciereszko Visitpoznan.pl

ENIGMA CIPHER CENTRE: UN PARTICOLARE

MUSEO SULLA CRITTOGRAFIA

Il Museo Enigma è dedicato al lavoro di tre brillanti matematici polacchi dell’Università di Poznań, Marian Rejewski, Jerzy Różycki e Henryk Zygalski, che fin dal 1932 riuscirono a decifrare il codice di Enigma. Si trattava di un apparecchio elettromeccanico usato dall’esercito tedesco per cifrare i messaggi e renderli, appunto, apparentemente indecifrabili. Il lavoro dei tre polacchi, poi condiviso con le altre forze alleate (alla vicenda Hollywood ha dedicato un paio di film, Enigma del 2001 e The imitation game del 2014), servì a decriptare i messaggi della Germania nazista rendendo un grande servizio allo sforzo bellico. Il museo, uno dei più recenti inaugurati nella città polacca, coinvolge i visitatori in modo interattivo. La prima sezione è dedicata alla storia della crittografia, partendo da modelli storici come il Cifrario di Cesare per arrivare alle tecniche più attuali. La seconda parte ricostruisce la storia della decifrazione del Codice di Enigma e delle macchine inventate dai polacchi e poi da francesi, inglesi e americani per “craccare” il codice tedesco. La terza parte dell’esposizione è dedicata alla rivoluzione informatica che inizia dopo la Seconda Guerra Mondiale e prosegue fino ai giorni nostri. Il museo ha trovato posto nell’edificio della vecchia Facoltà di Storia, esattamente di fronte al Castello Imperiale che nell’anteguerra ospitava l’Università dove lavoravano i tre matematici. Proprio davanti al castello un monumento, a forma di prisma progettato da Grazyna Bielska-Kozakiewicz e Marius Kozakiewicz con impresse sequenze di numeri, celebra l’impresa intellettuale che ha contribuito a cambiare le sorti del conflitto mondiale.

L’ISOLA DELLA CATTEDRALE, LA CITTÀ DELLE ORIGINI

Per capire la storia della città, rispettiamo la cronologia e iniziamo dall’Ostrów Tumski (Isola della Cattedrale), poco a nord del centro storico, luogo del primo insediamento nel IX Secolo. Qui, a partire dal 968, venne eretta la Cattedrale di San Pietro e Paolo che diventa luogo di sepoltura dei re polacchi. Miecislao I, il primo sovrano, si ipotizza sia stato battezzato a Poznań nel 966, una data che segna idealmente la nascita del regno cristiano e della nazione polacca. La prima cattedrale è un luogo dal forte valore simbolico e identitario, dove vale la pena entrare per visitare le tombe dei re – oltre a Miecislao I e II, ci sono Boleslao, Casimiro, Przemysl I e II – e ammirare numerose opere d’arte nella Cappella d’Oro. La chiesa è sempre stata un importante centro per il canto corale che a Poznań ha una lunga tradizione fin dal Medioevo. Capita spesso, inoltrandosi fra le navate, di assistere alle prove dei gruppi musicali e dedicare qualche minuto ad ascoltarli è quanto mai suggestivo. Tutta l’isola è un luogo di pace in cui si passeggia nel verde fra

in alto a sinistra:

Poznań. Polonia. Enigma

Cipher Centre Photo Adam Ciereszko Visitpoznan.pl

in alto a destra: Poznań Polonia. Veduta del centro storico © Photo Dario Bragaglia

a destra: Poznań Polonia. Il Castello Reale ospita il Museo delle Arti Applicate dove si racconta la storia della bambola Barbie

Photo Adam Ciereszko Visitpoznan.pl

stradine selciate, ville residenziali e dove si incontrano altri luoghi interessanti da visitare, come la piccola chiesa di Santa Maria, il Museo Arcidiocesano e il centro archeologico Genius Loci.

STARY L’ELEGANTERYNEK,SALOTTO DELLA CITTÀ

STARY

RYNEK, LA

PIAZZA

DEL VECCHIO MERCATO, È IL CUORE MONUMENTALE

CITTÀ

Stary Rynek, la piazza del Vecchio Mercato, è il cuore monumentale della città, un grande e omogeneo insieme architettonico, con quattro lati regolari di circa 140 metri. Ai lati, le colorate case rinascimentali e barocche, al centro il monumentale Palazzo comunale, capolavoro del Rinascimento polacco. La bella facciata con tre livelli di logge si deve all’architetto luganese Giovanni Battista di Quadro che è ricordato da una statua in un angolo della piazza. Sull’alta facciata del municipio, l’orologio è dotato di un meccanismo che allo scoccare del mezzogiorno (e alle 15, a favore dei turisti) fa uscire due caproni, simbolo della città, che si scontrano per 12 volte. All’interno del palazzo si può visitare il Museo storico di Poznań (in corso di rinnovamento), una carrellata sulla storia della citta dal XIII secolo alla metà di Novecento. La parte più vecchia dell’edificio, quella risalente all’epoca gotica è comunque visitabile e la Town Hall è aperta al pubblico.

UNA PIAZZA CHE RACCONTA LA STORIA DI POZNAŃ, DAL RINASCIMENTO

AL MODERNISMO

Ci sono ben dodici strade che convergono verso Stary Rynek: nella grande piazza si trovano ristoranti, terrazze, caffè, birrerie, negozi, gallerie d’arte. Nel mese

di giugno si svolge la Fiera di San Giovanni in occasione della quale si possono acquistare opere d’arte, oggetti d’antiquariato, d’artigianato e gustare le specialità della cucina regionale. Al centro della piazza le colorate case dei mercanti ricordano l’antica vocazione di quest’area dove si svolgeva il mercato del pesce, del sale, delle candele e di altre merci. Commistione di stili dovuti alla ricostruzione post bellica, Stary Rynel ha al centro anche un’isola “modernista” che ospita GaMa, acronimo che sta per Municipal Gallery Arsenal, uno spazio dedicato a mostre di arte contemporanea con un ricco bookshop.

Poco distante, la statua di una donna in abiti contadini che porta due secchi d’acqua, ricorda i coloni tedeschi arrivati in città trecento anni fa e soprannominati Bambers, in riferimento alla loro città di origine, Bamberga. Nell’Ottocento e inizio Novecento, quando la città era formata da comunità di polacchi, tedeschi ed ebrei, la parlata locale era un dialetto slavo con molte parole di origine tedesca introdotte dai coloni bavaresi.

Prima di allontanarci dalla piazza centrale, qualche metro in direzione sud ci porta di fronte alla chiesa di San Stanislao che chiude scenograficamente ulica Swietoslawska. È una delle più monumentali chiese barocche della Polonia, ricca di sculture, stucchi e dipinti, famosa anche per il suo organo con 2.600 canne, capolavoro ottocentesco del costruttore di organi tedesco Friedrich Ladegast. Suggestivi anche i dintorni della chiesa con il retrostante parco Chopin e la piazza Kolegiacki, spesso usata per esposizioni fotografiche all’aperto.

POZNAŃ: LE MOSTRE E GLI EVENTI DEL 2025

Chełmoński Project al Museo Nazionale di Poznań

Una mostra dedicata a Józef Chełmoński (1849-1914), uno dei più importanti pittori polacchi della sua epoca nata dalla collaborazione fra i musei nazionali di Varsavia, Cracovia e Poznań. Estate indiana, Cicogne, Aratura sono fra i suoi quadri più famosi, esemplari della rappresentazione della natura, della campagna polacca e dei suoi abitanti fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Dal 6 marzo al 29 giugno 2025

Next Fest Music Showcase & Conference L’evento migliore per conoscere la scena musicale indipendente. Su diversi palchi si esibiranno oltre cento formazioni per concerti della durata fissa di 30 minuti. Gli artisti esordienti hanno la possibilità di condividere il palco con personaggi già arrivati al successo.

Dal 24 al 26 aprile 2025

Malta Festival

Uno degli eventi più importanti in Polonia e nell’Europa orientale. Prende il nome dal lago che si trova alla periferia della città, luogo dove il festival è nato nei primi Anni Novanta, inizialmente come evento dedicato al teatro di strada. In oltre tre decenni di vita, ha allargato il campo di interesse creando un dialogo tra discipline diverse come danza, musica, arti visive, cinema, arti performative con un programma sempre aperto alle sperimentazioni.

Dal 20 al 28 giugno 2025

St Martin’s Street Name Day

La grande e festosa sfilata nelle vie del centro dedicata a San Martino, la cui figura a cavallo guida il corteo. È in questa occasione che si mangiano i famosi croissant che prendono il nome del santo, una delle specialità gastronomiche di Poznań. L’11 novembre è anche il giorno dell’Indipendenza della Polonia, che a Poznań viene celebrato con particolare partecipazione popolare. 11 novembre 2025

UN’ESCURSIONE FUORI CITTÀ:

IL ROGALIN PALACE MUSEUM

Poco a sud di Poznań, nella valle del fiume Warta, merita un’escursione il Museo Rogalin creato nel 1948 nell’antico palazzo della famiglia Raczynski circondato da un magnifico parco, dove ancora vegeta la più antica quercia polacca, a cui gli esperti attribuiscono 800 anni di vita. La residenza in stile rococò, già influenzata dal primo classicismo, ospita la galleria d’arte creata da Edward Aleksander Raczynski, un importante esperto del settore e a lungo presidente della Società degli Amici delle Belle Arti di Cracovia. Gli acquisti effettuati tra gli Anni Ottanta dell’Ottocento e Venti del Novecento hanno dato vita a una delle più ricche collezioni di arte moderna in Polonia, per un totale di quasi 500 opere. La galleria contiene attualmente 250 dei circa 300 oggetti salvati dalla collezione prebellica. Nonostante le lacune dovute alle perdite del periodo bellico e alle opere trasferite al Museo Nazionale di Poznań, la presentazione attuale dà un’idea precisa della disposizione voluta dal suo fondatore. L’allestimento è stato ricostruito sulla base della Guida della galleria d’arte di Rogalin del 1926 e di foto d’archivio. A partire dalle sale d’ingresso, il museo testimonia il gusto collezionistico dell’epoca, con un gruppo di opere che fanno riferimento a pittori polacchi ispirati da Edvard Munch, fino all’ultima e più grande sala, dominata da La Pulzella di Orléans (Giovanna d’Arco) di Jan Matejko (1838-1893), il più famoso pittore polacco dell’Ottocento. Un’opera enorme, 47 metri quadrati, la più grande mai dipinta da Matejko. Presenti anche noti dipinti di Jacek Malczewski, ispirati dal Simbolismo, e opere di A. Gierymski, W. Podkowiński, O. Boznańska, J. Fałat, L. Wyczółkowski, J. Mehoffer e W. Weiss.

STARY BROWAR, L’ANTICO BIRRIFICIO TRASFORMATO IN CENTRO COMMERCIALE E ARTISTICO

Da Stary Rynek partono itinerari per approfondire la conoscenza di Poznań in ogni direzione. Poco a sud, attraversando il bel parco Dabrowskiego, si raggiunge velocemente l’area di Stary Browar che, tradotto, significa antico birrificio. In questo enorme complesso in mattoni risalente alla metà dell’Ottocento aveva infatti sede il birrificio Huggerow, ora trasformato in un centro commerciale e artistico.

Le gallerie d’arte si mescolano alle oltre 200 boutique, caffé, ristoranti, hotel, cinema, spazi teatrali e per concerti disseminati su 130.000 metri quadrati di superficie. Nel 2005, Stary Browar è stato premiato come miglior esempio europeo di riconversione da spazio industriale ad area commerciale e culturale dall’International Council of Shopping Centers (nella categoria medium-sized commercial buildings). Per rendersi conto delle dimensioni impressionati che aveva il birrificio è sufficiente soffermarsi in una delle hall centrali dove campeggia Thsuki-nohikari (Moonlight), una monumentale scultura di Igor Mitoraj (Oederan, 1944 – Parigi, 2014), diventata uno dei più popolari punti di ritrovo del centro commerciale che attira ogni anno 9 milioni di visitatori.

IL PARCO DELLA CITTADELLA, MEMORIE BELLICHE, ARTE E SENTIERI NEL VERDE Uscendo da Stary Rynek in direzione nord e percorrendo ulica Wroniecka si esce dal centro storico davanti alla Nuova Sinagoga (dopo lo sterminio della comunità ebraica fu adibita a diversi usi, oggi è in precario stato di conservazione) davanti alla quale oggi ha sede Puro, uno dei migliori boutique hotel di Poznań. Superati i viali esterni percorsi dalle linee tramviarie si sale verso il Park Cytadela, che con i suoi 100 ettari è il più grande spazio verde della città. Il nome richiama la precedente destinazione d’uso di quest’area prossima al centro: il parco è stato infatti stato creato sui resti di una delle più imponenti fortezze prussiane (1828-1860). Ma prima ancora su queste collinette esposte a sud, attorno al villaggio di Winiary, veniva coltivata la vite (in polacco, winorośl). L’antica funzione militare del luogo è comunque ancora richiamata dalla presenza del Museo degli Armamenti e dal Museo dell’Esercito dove sono raccolti esempi di equipaggiamento militare polacco, tedesco e sovietico. Nell’area sud del parco alcuni spazi sono riservati ai cimiteri militari con tombe di soldati sovietici e inglesi. Ma il Park Cytadela riserva sorprese anche agli appassionati d’arte perché vi sono disseminate diverse sculture di Magdalena Abakanowicz (Falenty, 1930 - Varsavia, 2017), l’artista che nel 2015 ha rappresentato la Polonia alla Biennale di Venezia con l’opera Crowd and Individual. Da vedere in particolare NierozPoznańi (Non riconosciuto), la più grande opera esposta all’aperto dell’artista polacca.

È la data in cui si ipotizza sia stato battezzato Miecislao I, il primo sovrano del regno polacco cristiano di cui si ha documentazione.

Inizia l’edificazione della Cattedrale di Poznań, la prima della Polonia, che diviene luogo di sepoltura dei primi monarchi polacchi.

La città comincia ad espandersi sulla sponda sinistra del fiume Warta, dove si trova tutt’oggi. La legge che autorizzava l’espansione venne emanata dai Piast, la dinastia che governò il Ducato e poi il Regno di Polonia fino al 1370.

Con la dinastia degli Jagelloni inizia un periodo molto fiorente della città che entra a far parte della Confederazione polacco-lituana. Si registra lo sviluppo del commercio, dell’artigianato e soprattutto della tessitura, nonostante alcuni grandi incendi ne abbiano rallentato il progresso.

Inizia il cosiddetto Diluvio svedese, l’invasione della Confederazione polacco-lituana da parte di russi e svedesi che pone fine a un periodo economicamente fiorente. Successivamente, tra il 1700 e il 1721, Poznań viene coinvolta nella Grande Guerra del Nord e nella Guerra di successione polacca.

La città cade sotto il dominio della Prussia e, dopo la parentesi napoleonica, nel 1815 diventa la capitale del Granducato di Poznań dove i tedeschi arrivano a costituire quasi il 40% della popolazione, a seguito di una dura politica di germanizzazione.

Poznań entra a far parte della rinata Polonia, ma continua ad avere una cospicua minoranza tedesca su cui si concentrano le mire revisionistiche della Germania nazista, che nel 1939 annette il suo territorio al Reich.

Nel giugno del 1956 gli operai della città si ribellano al regime comunista, dando vita a quella passata alla storia come Rivolta di Poznań che innesca la sollevazione ungherese dello stesso anno.

La città vanta due squadre di football di alto livello, il Lech Poznań e il Warta Poznań, e ha ospitato alcune partite degli Europei di calcio nel nuovo stadio Miejski, la più grande struttura sportiva della regione.

VISITARE POZNAŃ. PAROLA A WOJCIECH MANIA MANAGER DI VISIT POZNAŃ

Il manager dell’organizzazione turistica Visit Poznań, Wojciech Mania, ci racconta la città polacca e le sue prospettive per un turismo sempre più culturale e di qualità.

Poznań, una nuova destinazione per gli appassionati d’arte?

È una città che può essere apprezzata da tutti coloro che cercano un’esperienza autentica, in un luogo carico di storia. Ma scoprire Poznań richiede un po’ di attenzione. Certamente non si avranno difficoltà a visitare i principali musei, ma la città è piena di tesori nascosti.

Ci può fare qualche esempio?

Il Museo Arcidiocesano ospitato in un edificio rinascimentale espone una ricca raccolta di arte sacra a partire dal Medioevo. Nel Museo degli Strumenti Musicali sono esposti e si possono ascoltare gli strumenti tradizionali della Polonia, ma anche vedere il clavicembalo suonato da Mozart e memorabilia legati a Chopin.

Anche l’arte contemporanea riserva qualche sorpresa?

Sì, ci sono alcuni indirizzi di nicchia, come l’Archiwum Idei (L’archivio delle idee) che raccoglie una collezione unica nel suo genere, quella del professor Jarosław Kozłowski, un artista concettuale con stretti legami, tra gli altri, con il movimento Fluxus.

Negli ultimi anni in Polonia si sono fatti importanti investimenti nei musei e più in generale in edifici destinati alla cultura. Qual è la situazione a Poznań?

Negli scorsi anni è stato aperto l’Enigma Cipher Centre che ha permesso di far scoprire la storia della crittografia a un pubblico più vasto. The Arsenal, la Galleria municipale d’arte è stata rinnovata e con il nuovo brand GaMA presenta artisti contemporanei polacchi nel pieno centro della città, lo Stary Rynek. Nel Palazzo Municipale sono in corso importanti lavori di rinnovamento e nel giro di un paio di anni avremo il nuovo Museum of the Citizen of Poznań dedicato alla storia della città.

La lunga e, in certi momenti, travagliata storia della città e della regione ha già diversi luoghi dove è raccontata, anche in modo moderno e interattivo come a Porta Posnania. Entro la fine del 2026, sarà pronto il Museum of the Wielkopolska Uprising 1918-1919 che, nonostante il suo nome faccia riferimento a eventi militari, sarà un moderno museo che presenterà la storia di Poznań e della sua regione a partire dai primi anni del XIX Secolo. Ovvero il momento in cui è nata la moderna identità nazionale. Sarà la grande novità dei prossimi anni, un’esposizione che attrarrà visitatori da tutto il mondo.

in alto a sinistra: Poznań, Polonia. Porta Posnania Heritage Centre. Photo Malwina Łubieńska Visitpoznan.pl

sopra: Wojciech Mania

POZNA

Cechia Lituania Slovacchia Ucraina Germania

Poznań Varsavia

POLONIA

MUSEI

MUSEO DEGLI ARMAMENTI

MUSEO DELLE ARTI APPLICATE

MUSEO NAZIONALE DI POZNAŃ

ZAMEK CULTURE CENTER - CASTELLO IMPERIALE

MUSEO DELLE ARMI CORAZZATE

EGO GALLERY

L’ARTE A POZNAŃ, TRA MUSEI E GALLERIE

MUSEO NAZIONALE DI POZNAŃ

È uno dei musei più antichi, grandi e importanti della Polonia, erede del Museo della Grande Polonia che nel 1919, dopo la riconquista dell’indipendenza, incorporò collezioni polacche e prussiane. Attualmente è composto da due parti: quella vecchia (del 1904) e quella nuova (del 2001). La visita alla mostra permanente inizia nel nuovo edificio dove le collezioni di arte polacca sono esposte su tre piani. Nel vecchio edificio (si può accedere solo attraverso il terzo piano del nuovo edificio) sono raccolte le collezioni di arte europea, del Medioevo e del Barocco polacco e le antichità. La pittura fiamminga è largamente rappresentata con opere di Jan van Goyen, Salomon Ruysdael e Willem Claesz Heda. Presenti anche dipinti di Sofonisba Anguissola, Bronzino, Bellini e Strozzi, mentre la pittura tedesca della prima metà del XIX secolo è presente con tele di Arnold Böcklin e Johann Overbeck. Alcune opere di Zurbarán, Ribera e Velázquez sono rari esempi di pittura classica spagnola presenti in collezioni polacche. Il Museo Nazionale si fa vanto di esporre La spiaggia a Pourville, l’unico dipinto di Claude Monet visibile in Polonia. Un quadro che ha una storia rocambolesca da raccontare: oggetto di un audace furto nel 2000 è stato ritrovato dieci anni dopo ed è tornato tra le mura del Museo nel 2010.

MUZALEWSKA GALLERY

ENIGMA CYPHER CENTRE

STARE MIASTO

PIEKARY GALLERY

MUSEO DELL’AGRICOLTURA a SZRENIAWA

PORTA POSNANIA HERITAGE CENTRE

Situato in un nuovo edificio minimalista (accessibile ai disabili e accogliente per le famiglie con bambini) è il più moderno e interattivo fra i musei della città. Si trova a poca distanza dalla Cattedrale, sull’isola di Ostrów Tumski, e racconta l’origine di Poznań e dello stato polacco che avvenne proprio in quest’area nel IX Secolo. Salendo sul terrazzo si godrà di una bella vista sulla chiesa gotica circondata da una zona verde attraversata da due fiumi. Con un biglietto cumulativo si possono visitare le altre attrazioni dell’isola: oltre alla Cattedrale, il Museo Arcidiocesano e il sito archeologico Genius Loci.

ZAMEK CULTURE CENTER

CASTELLO IMPERIALE

Completato nel 1910, il Castello di Poznań è l’ultima residenza imperiale costruita in Europa L’imponente complesso in stile neo-romanico è stato un simbolo del dominio germanico in questa regione e ospitava Guglielmo II nel corso delle sue visite ai territori orientali. Il massiccio trono di marmo dove Guglielmo II si sedeva è ora diventato un’attrazione per i turisti. Durante il Terzo Reich venne anche allestito un ufficio per Adolf Hitler che si può visitare (ora gli spazi sono vuoti). Oggi l’ex castello ospita il centro culturale Zamek, uno dei più importanti della Polonia con circa 2500 eventi organizzati ogni anno nell’ambito delle arti visive, teatro, cinema, musica e letteratura.

MUSEO ARCHEOLOGICO

GALLERY STARY BROWAR

Tra i festival più importanti ci sono l’Ethno Port Poznań e l’Off Cinema dedicato al cinema documentario. Nel corso del 2025 è prevista l’apertura al pubblico del cortile principale del castello: uno spazio in precedenza utilizzato come parcheggio e ora trasformato in giardino.

MUSEO DELLE ARTI APPLICATE

Il museo, centralissimo, ha trovato spazio nel Castello di Przemysl, su una collina nel cuore di Poznań. Si tratta di una recente ricostruzione (2010-2013) del castello reale collegato al palazzo della famiglia Raczynsky. La torre ricostruita sui ruderi di quella originale del XIII Secolo si eleva fino a 43 metri e costituisce un punto panoramico straordinario sulla città. Il Museo delle Arti Applicate è unico nel suo genere in Polonia e su uno spazio complessivo di quasi 1500 metri quadrati espone 2mila pezzi dal Medioevo ai nostri giorni. Mobili, ceramiche, vetri, oggetti in metallo, armi, gioielli, tessuti, costumi e accessori sono esposti facendo riferimento alle varie epoche. Ripropongono il gusto estetico, il clima culturale, le tendenze del collezionismo in diversi momenti della storia. Fra le curiosità, c’è una ciocca di capelli di Napoleone conservata in un piccolo reliquiario di vetro. L’imperatore francese soggiornò a Poznań almeno tre volte, aiutando i Polacchi ad ottenere l’indipendenza all’inizio dell’Ottocento e diventando per questo motivo oggetto di una vera e propria venerazione. Un’altra chicca è il piccolo

RODRIGUEZ GALLERY

I 10 MUSEI PIÙ VISITATI DI POZNAŃ*

Galleria dipinti e sculture

Museo Arti applicate al Castello Reale

omaggio che il museo fa alla creatrice di Barbie Ruth Handler era infatti figlia di emigrati ebrei polacchi. Fu lei a presentare il 9 marzo del 1959 alla New York Toy Fair la inedita bambola con fattezze di donna adulta destinata ad avere un successo planetario.

MUSEO ARCHEOLOGICO

Nel 2017 il museo ha festeggiato iI suo 160° anniversario. È una delle più antiche istituzioni culturali di Poznań: nel 1857 la locale Società per il Progresso delle Arti e delle Scienze fonda il Museo delle Antichità Slave e Polacche per mettere in valore i reperti relativi alla nascita della nazione polacca. Dal 1967 il museo ha trovato sede nel suggestivo Górka Palace in ulica Wodna. Dalla regione della Wielkopolska (Grande Polonia), e dall’Africa (Egitto e Sudan) arrivano molti dei reperti esposti fra le collezioni permanenti. Sono il frutto di scavi e di missioni all’estero organizzate dai precedenti direttori del museo. La sezione “Preistoria nella Grande Polonia” illustra la vita dei primi insediamenti nella regione che oggi ha come capoluogo Poznań: attraverso la ricostruzione di personaggi, animali, insediamenti, tombe i visitatori fanno conoscenza con i primi abitanti di quest’area occidentale dell’attuale Polonia.

Museo dell’agricoltura a Szreniawa

Castello di Kórnik

Porta Posnania (Heritage Centre)

Rogalin Palace Museo Archeologico

Enigma Cypher Centre

Museo degli Armamenti

Museo delle armi corazzate

IL TURISMO A POZNAŃ*

1.395.892 pernottamenti

1.024.807 nazionali

GALLERY STARY BROWAR

La galleria situata nel grande centro commerciale nato dalla riconversione di un vecchio birrificio è uno dei pochi spazi in Polonia con un regolare programma che combina arte e moda. Le passate esposizioni hanno avuto come protagonisti Björk, David LaChapelle, Daniel Lismore, Iris van Herpen e Gianni Versace. Da ricordare anche l’esposizione monografica dedicata a Ryszard Kaja nel 2019, la collaborazione con il Poznań Design festival e la University of Arts.

ul. Półwiejska 42

PIEKARY GALLERY

Galleria specializzata nell’arte polacca del XX e XXI Secolo, comprese tutte le maggiori tendenze d’avanguardia. È stata fondata nel 2003 da Cezary Pieczynski e negli anni si è specializzata sulla fotografia, l’astrazione geometrica, l’arte concettuale, cercando di dare spazio ad artisti delle nuove generazioni che si esprimono attraverso la fotografia, i video, le performance, le installazioni o le proposte multimediali.

Ul. Sw. Marcin 80/82

EGO GALLERY

Fondata nel 1998 con l’obiettivo di valorizzare l’opera dei migliori artisti polacchi che si dedicano all’astrazione geometrica e alla tradizione del Color Field. Nel 2002 la galleria si è dedicata a

360.691 internazionali

10.394 italiani

L’Italia è il sesto paese di provenienza di visitatori stranieri della città (+32% rispetto al 2022)

celebrare l’opera di Stanisław Fijałkowski (Ucraina, 1922 - Lodz, 2022), pittore astratto e incisore (alcune sue opere sono al Museum of Modern Art di New York e alla Tate Britain). L’anno successivo la galleria è stata fra i co-organizzatori della retrospettiva che il Museo Nazionale di Poznań ha dedicato al maestro polacco.

Ul. Wyspiańskiego 41/3

MUZALEWSKA GALLERY

La galleria organizza presentazioni di artisti contemporanei, in stretta collaborazione con loro. In alcuni casi, organizza mostre di artisti deceduti (Tadeusz Kantor, Andrzej Szewczyk) incentrate su particolari momenti del loro lavoro. Le mostre sono accompagnate da pubblicazioni con documentazione fotografica della mostra in corso, oltre che da un’intervista con l’autore o l’autrice.

ul. Głogowska 29/3 m. 6

RODRIGUEZ GALLERY

Galleria di arte contemporanea fondata nel 2015 che lavora con artisti emergenti per presentare e promuovere quelle che vengono considerate le tendenze più interessanti della scena contemporanea polacca. Non manca qualche incursione nel panorama internazionale per stimolare un proficuo confronto con l’ambiente locale.

Ul. Wodna 13/4

* Dati relativi al 2023

LA CRITICA D’ARTE

È DAVVERO AL CAPOLINEA

O SI STA TRASFORMANDO?

Quella della scomparsa della critica è un’emergenza evidenziata da molti. Abbiamo coinvolto critici e studiosi di diverse generazioni per provare a fare il punto. Ne è emerso un dibattito serrato e non univoco, su diverse questioni: la critica può fare a meno della scrittura? Cosa differenzia un critico e un curatore? E infine, la critica d’arte può ancora essere una professione?

a cura di CATERINA ANGELUCCI

Tornare su dibattiti ampi, stratificati e complessi può spesso risultare ripetitivo e, dunque, superfluo, ma ci sono certi temi che non cessano mai di esaurirsi. Ne è un caso la querelle sulla critica d’arte in Italia, di cui spesso e volentieri ci si è occupati e su cui spesso e volentieri si è tornati. Ma determinate riflessioni, essendo specchio non solo dello stato dell’arte ma anche della società stessa che gira attorno a questa, richiedono un continuo aggiornamento e un attivo confronto. Cercherò di non banalizzare né sostenendo che la critica d’arte è morta (espressione oltremodo abusata) né che naturalmente questa non necessiti di essere ripensata, problematizzata e adattata al contemporaneo, insieme a tutte le sue urgenze. Cambiano i mezzi di comunicazione, cambiano le dinamiche tra gli attori del

sistema, cambiano le ricerche degli artisti e i loro riferimenti e si introducono nuove figure che portano ad altrettante nuove necessità. L’obiettivo, infatti, non è prendere una posizione radicale, ma inserirsi nella complessità di una pratica a cui vanno mutuati nuovi strumenti e metodologie per far sì che possa accompagnare nuovi modi e tempi. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: probabilmente è in questa chiave che va sciolto il nodo e dunque diventa imprescindibile conoscere la storia della critica d’arte per delinearne nuovi confini. Numerosi e diversificati quesiti, dalle riflessioni sul capitalismo artistico-culturale alla professionalizzazione del critico di oggi, sono stati posti a ricercatori e intellettuali appartenenti a più generazioni per offrire una panoramica aggiornata sul dibattito, che non vuole essere un punto di arrivo ma, al contrario, l’inizio di ulteriori e molteplici prospettive. Gli interventi raccolti, infatti, sono dei campioni, esempi autorevoli e voci “emergenti” (mi si passi il termine dato anche il tema di questo numero) che non hanno la pretesa di esaurire l’argomento né tantomeno di individuarne un’univoca lettura.

UNA PIATTAFORMA DI SCAMBIO

INTELLETTUALE SULLO STATO DELLA CRITICA D’ARTE IN ITALIA

“Credo che ci sia un margine di manovra immenso per la critica d’arte contemporanea: sta a noi decidere se relegare questa tradizione di studi malmessa al passato remoto o se chiederci come rigiocarla nel presente; se ristabilire i fatti per nutrire gli annali della letteratura artistica italiana o se far sì che la critica torni a essere un laboratorio di idee operoso e sfaccettato, un’arma impropria e non un’arma spuntata”, scrive Riccardo Venturi in Natura pictrix. Adalgisa Lugli e il meraviglioso, intervento pubblicato lo scorso anno nel volume Armi Improprie (per Johan & Levi editore) che raccoglie gli interventi di riconosciute figure del panorama della critica d’arte italiana, insieme a studiosi, dottorandi, ricercatori e docenti, tenutisi in occasione del convegno Armi improprie. Lo stato della critica d’arte in Italiaospitato dall’Università IULM di Milano il 27 e 28 aprile 2023. L’evento, curato dallo storico e critico d’arte Vincenzo Trione, preside della facoltà di Arti e Turismo dell’università, si poneva, infatti, l’obiettivo di offrire una piattaforma di scam-

bio intellettuale sullo stato della critica d’arte italiana valutando l’esistenza di un presunto canone. Tra i temi affrontati il contributo della critica d’arte sulla stampa, il complesso sistema di equilibri tra editoria, critica d’arte e politica culturale, la relazione tra pratica artistica e discorso critico e il rapporto tra arte e tecnologia, oltre l’approfondimento di alcuni storici dell’arte come Francesco Arcangeli, Eugenio Battisti, Roberto Longhi, Roberto Salvini e Carlo Ludovico Ragghianti. A cui si sono aggiunti Giulio Carlo Argan, Adalgisa Lugli, Enrico Crispolti, Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Carla Lonzi e Lea Vergine, tra gli altri.

I PRECEDENTI

Sempre del 2023 è l’articolo Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte, pubblicato il 3 settembre sul Domenicale del Sole 24 Ore a firma di Gian Maria Tosatti, che è diventato un’ulteriore occasione di dibattito e scambio, tanto che ha “provocato” tutta una serie di risposte, sia sulle stesse pagine del quotidiano (di Michele Dantini e Christian Caliandro arrivate il 17 settembre) sia in altre testate e sui social. “In Italia ci sono centinaia di artisti ma manca una pubblicistica di peso”, è questo il sottotitolo del contenuto, che si apre sul rifiuto della critica da parte degli artisti di oggi. La dichiarazione è il frutto di una ricerca fatta dalla Quadriennale negli anni della direzione di Tosatti, da cui è stato prodotto un annuario che ha raccolto tutta la produzione critica pubblicata nel 2022 prendendone a riferimento degli estratti. Uno dei dati principali, riporta l’artista, scrittore e giornalista, è che su circa 700 artisti attivi in Italia sotto i 70 anni, collocabili a un livello di carriera rilevante, soltanto di circa 300 si è scritto e la somma degli articoli di critica che nomina artisti o opere d’arte è stato di circa 530. “Ci rendiamo conto che sono misure molto ridotte per un paese come l’Italia che sulla critica può vantare pagine importanti della sua storia”, ha dichiarato Tosatti ai microfoni di RSI il 5 ottobre 2023 (in occasione di un confronto radio tra quest’ultimo, Dantini e Caliandro), spiegando che l’articolo nasce da questa evidenza. Tra i vari argomenti esaminati sicuramente quello che ha destato l’attenzione e la penna di storici dell’arte e critici sono state le interviste, lette come strumento di semplificazione e lettura superficiale del lavoro di un artista. Non ha dunque tardato l’intervento di Michele Dantini che mette in discussione la scelta di tale metodologia parlando di un silenzio della critica che va interrogato appellandosi allo sciopero argomentativo di Carla Lonzi. Dantini sostiene che il censimento di Tosatti non sia del tutto rilevante, perché ci sono dei silenzi ben più eloquenti della cronaca artistica o delle interviste, che non riconosce, nemmeno lui, un genere critico: “Credo che il termine critica sia vetusto e che dovremmo anche allargare il fuoco, che si scriva o meno di artisti sotto i 70 anni non è così significativo. Basti pensare che il più importante testo critico, e dunque immediatamente produttivo per l’arte contemporanea, è un libro di Longhi su Piero della Francesca. Si può dunque usare anche l’antico in mancanza di un contemporaneo soddisfacente”. Ma cosa c’è allora alla base di una lettura pessimista della critica d’arte? E qui interviene Christian Caliandro: “Tralasciando i problemi strutturali della pratica, che non appartengono solo agli ultimi anni e che non riguardano solo l’Italia, da chiamare in causa è sicura-

mente lo strapotere del mercato dell’arte, che non sa letteralmente che farsene della figura del critico e che infatti l’ha sostituita con quella del curatore, come sostenuto anche da Dantini. Queste due diverse figure, però, con i rispettivi ruoli e funzioni, sono spesso confuse. Tuttavia, non credo di poter dichiarare in maniera definitiva che la critica in Italia non ci sia perché basta andarsi a guardare anche solo le uscite editoriali degli ultimi due e tre anni, sia di editori più grandi ma anche e soprattutto di realtà indipendenti che stanno portando avanti un grande lavoro di ricerca. Questi difendono un panorama ricco e variegato. Dunque, il punto di partenza deve essere il riconoscimento reciproco, perché non credo possa uscire nulla di buono dalla negazione del lavoro altrui”.

CRITICI E CURATORI: LE POSIZIONI CONTRASTANTI

a sinistra: " Critici d'arte in attesa di scrivere un altro saggio sulla crisi della critica d'arte" Dalla pagina Instagram @freeze_ magazine in alto: Il convegno Armi improprie. Lo stato della critica d'arte italiana allo IULM di Milano, 2023

Si arriva così alla questione forse più calda del dibattito. Chi è e cosa fa il critico? E chi è e cosa fa il curatore? Tosatti comprende la posizione di Dantini su Carla Lonzi, ma ribadisce che non è possibile giustificare il silenzio critico come lo sciopero di un intero comparto. “Certamente Lonzi aveva le sue ragioni”, spiega, “ma ci sono centinaia se non migliaia di giovani che, una volta usciti dalle facoltà di storia dell’arte, sono orientati verso una carriera critica anche se poi sono portati a una serie di azioni che prevedono solo l’analisi di opere e progetti. La differenza tra critico e curatore è molto semplice e risiede nelle parole con cui definiamo i ruoli stessi: critico viene da crisi e curatore viene da cura. Entrambi hanno una radice medica, la crisi è un momento di distinguo, in cui si capisce se si sopravvive o si muore, mentre la cura è l’impegno a rendere positiva una circostanza che tende al neutro o al negativo. Anche dietro l’attività di curatore c’è una direzione critica, ma tendenzialmente quello che poi va a fare è promozione e questo fa comodo al mercato. L’attività critica è più complessa, c’è l’obiettivo di creare un’argomentazione più scientifica possibile, cercando di conoscere le ragioni di tanti gesti compiuti dall’artista all’interno di un percorso, per poi cercare di definire gli elementi sommersi e quelli salvati”. Caliandro si accoda, sostenendo che il critico è un disturbatore perché la critica non può essere contemporaneamente dentro e fuori il sistema: “Oggi è difficile fare critica per questo, perché la critica è fuori dal sistema”.

QUANTO È IMPORTANTE

LA SCRITTURA PER LA CRITICA D’ARTE?

LE OPINIONI DI VINCENZO TRIONE E VALENTINO CATRICALÀ A CONFRONTO

VINCENZO TRIONE

Oggi, per ricostruire una critica significativa, occorre guardare fuori dall’arte. È paradossale che in ambiti come il cinema o la letteratura sia ancora richiesta una competenza specifica, mentre nel mondo dell’arte chiunque si senta legittimato a scrivere. Questo non è un fenomeno isolato, ma il risultato di vent’anni di degrado culturale. Si è spezzato quel legame fondamentale tra storia dell’arte e critica, un nesso che studiosi come Francesco Arcangeli, Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan consideravano indissolubile. Oggi, invece, ci troviamo in una situazione di confusione imbarazzante, in cui si vanta persino di non avere contezza della storia dell’arte e si aderisce passivamente alle tendenze del momento. La critica si è ridotta a poco più di un comunicato stampa. Achille Bonito Oliva sosteneva che, mentre la curatela si occupa della ‘manutenzione del presente’, il critico è colui che interroga e va alle radici. Tuttavia, oggi assistiamo a una netta separazione tra chi insegna storia dell’arte e chi si occupa di curatela, senza che vi sia un vero dialogo tra le due professioni. Germano Celant fu tra i pochi a percepire questa deriva con lucidità e dedicò gli ultimi anni della sua vita a ricucire il legame tra storia dell’arte e critica. La figura del curatore, così come si è evoluta in Italia, è il compimento di questa deriva. A differenza di quanto accade in Francia, dove esistono ruoli ben distinti come il conservatore o lo storico dell’arte, in

Italia il curatore è diventato una figura indefinita: un po’ producer, un po’ architetto, un po’ allestitore, ma senza assumere una vera identità. La prova più evidente di questo impoverimento è che nessun curatore oggi scrive libri: ci si limita a testi brevi, semplificati all’estremo o, al contrario, inutilmente ostici. L’ultimo momento di grande rilevanza della critica in Italia fu la Biennale d’Arte del 1993, curata da Achille Bonito Oliva: un evento visionario, accompagnato dalla pubblicazione di due grandi volumi che raccoglievano il meglio del pensiero critico dell’epoca, coinvolgendo filosofi e intellettuali a interrogarsi sull’arte del tempo. Dopo quel periodo, la critica ha iniziato un lento declino, complice un sistema che ha smesso di considerarla centrale. E gli epigoni di Oliva e Harald Szeemann hanno contribuito, forse inconsapevolmente, a questo impoverimento. Già Umberto Eco si era accorto che la critica d’arte si era ridotta a un esercizio di stile, riprendendo concetti e riflessioni provenienti da altri saperi, in particolare dalla filosofia e dall’antropologia. In questo gioco perverso, la critica ha perso il proprio oggetto, fino ad arrivare a una resa clamorosa, come la pubblicazione di cataloghi in cui il testo critico viene sostituito da interviste, segno di una rinuncia definitiva al suo ruolo interpretativo. Ne è un esempio il catalogo della Biennale curata da Cecilia Alemani.

VALENTINO CATRICALÀ

Se la figura professionale del critico è definita solo da ciò che scrive, questo rimarrà confinato all’accademia. La vision e, infatti, è limitante: il critico non è semplicemente chi pubblica libri o articoli, ma chi porta un atteggiamento critico all’interno del dibattito artistico, chi offre una visione capace di stimolare la riflessione. Un atteggiamento critico lo possiamo trovare non solo in chi scrive, ma anche in progetti curatoriali di ricerca, o in altre forme di divulgazione, come documentari, podcast, ecc. Il critico di oggi è colui che riesca a portare avanti una ricerca, e, dunque, un’interpretazione del mondo attraverso i media che ci permettono di accedere all’informazione, trovando così nuovi strumenti di discussione. Il modello tradizionale, rappresentato da figure come Ragghianti, che creavano dibattito tramite giornali e libri, non è più sufficiente in un contesto in cui questi hanno perso centralità. La critica deve diversificarsi, adattarsi ai nuovi linguaggi e ai nuovi ritmi della comunicazione senza perdere di vista la ricerca e l’approfondimento. La scrittura ha un ruolo ancora importantissimo ma è fondamentale riportare in primo piano il critico come figura che genera confronto, che approfondisce e che sa muoversi tra diversi strumenti per restituire un pensiero articolato. Il futuro della critica è nella capacità di interpretare la complessità del presente.

a sinistra: Vincenzo Trione

a destra: Valentino Catricalà, Simposio. Foto Cristina Vatielli

SI PUÒ FARE CRITICA D’ARTE ATTRAVERSO UNA CURATELA DI RICERCA?

PAROLA A IRENE SOFIA COMI E VINCENZO DI ROSA

IRENE SOFIA COMI

Se tra gli anni Novanta e i primi dieci, quindici anni del Duemila si sono affermate figure curatoriali spesso al centro della scena (che quasi hanno oscurato il primato del ruolo dell’artista), oggigiorno la curatela è una categoria alle volte snobbata. Si trova al centro di ironiche battute o di prese di posizione snobiste: dalla curatela i critici si discostano, così come altri attori del sistema sono convinti che se ne possa fare a meno per creare una mostra riuscita. Sorprendentemente tale atteggiamento ha dei punti di contatto con quello instauratosi nel tempo per la critica, che più intellettuali dichiarano oggi assente o che altri attori, generalmente più inseriti nel sistema del mercato, ritengono meno utile (poiché poco produttiva nel breve termine). Forse cominciare a discernere una curatela più di ricerca e una curatela più “manageriale”, orientata a competenze che hanno più a che fare con le pubbliche relazioni, con la produzione o con aspetti più vicini all’advisory, sarebbe un primo passo per revisionare e sfumare ruoli che raramente – da quando si è affermata la curatela – sono stati del tutto agli antipodi. Nel rinnegarsi, la critica e la curatela rischiano di indebolirsi a vicenda L’autonomia reclamata oggi dalla critica, così come la conosciamo, così come l’abbiamo ereditata, non è adatta al contemporaneo. La critica, come singola azione e disciplina, è in un processo di costante e progressiva evoluzione. Occorre non affezionarsi al permanente per lasciare spazio a una sua nuova riformulazione nel presente. Con questo non intendo certo dire che non occorra fare critica (anzi, ve n’è estremamente bisogno nel sistema post-capitalistico e tecnocratico nel quale viviamo), ma ciò che mi domando è: davvero riconsiderare la possibilità di una critica d’arte attraverso l’attività della curatela di ricerca può essere oggi interpretata come una mistificazione?

DI ROSA

Almeno a partire dagli Anni Novanta, la figura del curatore ha conquistato sempre più spazio e potere e, oltre ad aver offuscato quella del critico, ha messo in ombra gli stessi artisti. Credo che, nello scenario attuale, critica e curatela siano due pratiche radicalmente diverse e per certi aspetti inconciliabili. Sebbene ogni gesto curatoriale implichi (o dovrebbe implicare) un processo di valutazione e selezione, nella maggior parte dei casi, il lavoro del curatore non può prescindere da un rapporto strettissimo con il mondo dell’arte e le sue dinamiche. Troppo spesso, i curatori sembrano schiacciati dal presente, non mirano a supportare orientamenti linguistici, sono i miglior alleati di un sistema che considera l’artista come l’ultima ruota del carro, che riduce l’opera a illustrazione di tematiche che cambiano di mese in mese. Ed è deprimente che gli artisti abbiano smesso di immaginare un’alternativa, che siano fin troppo felici di assecondare questo andamento. In tal senso, credo che la critica debba rivendicare una sua autonomia e una sua indipendenza ritagliandosi sacche di resistenza che le permettano di sopravvivere al di là del sistema dell’arte. Allo stesso tempo, però, non può prescindere da uno sguardo allargato che, senza rinunciare a un confronto costante con le opere d’arte, sia capace di focalizzare la sua attenzione anche sugli apparati che ne

governano la fruizione, sui meccanismi di ricezione, sul modo in cui vengono presentate e comunicate. In sintesi, credo che la curatela stia alla critica d’arte così come la dama sta al gioco degli scacchi. Di questo svilimento della pratica sono complici non solo gli artisti stessi ma anche le riviste d’arte che da quando hanno svenduto il proprio immaginario al mondo della moda, la critica ha perso ogni spazio di autonomia, influenza e profitto, tanto che troppo spesso gli artisti vengono scelti sulla base del numero di follower che hanno su Instagram, per le loro soggettività marginalizzate, per la visibilità che possono portare al brand o alla rivista stessa. Il risultato di queste operazioni è infimo: senza profondità né futuro. L’approfondimento critico di un’opera o di una pratica risulta noioso, quasi fuori luogo. Si preferisce il formato dell’intervista, più veloce, meno impegnativo. La moda ha portato tanti soldi ma anche tanta mediocrità. La professione che produce profitto oggi è quella del ciarlatano.

sinistra: Irene Sofia Comi.

destra: Vincenzo Di Rosa

VINCENZO

QUELLA DEL CRITICO

NON È PIÙ UNA PROFESSIONE SOSTENIBILE

L’OPINIONE DI GIORGIO DI DOMENICO E GIULIA ZOMPA

GIORGIO DI DOMENICO

Di fronte allo strutturarsi di imponenti sistemi istituzionali ed economici legati all’arte contemporanea, la critica giudicante, capace di stabilire e determinare ‘valore’, ha perso di mordente, di forza e di senso. Il dibattito sullo stato della critica, sulla sua morte e sulle sue possibilità di rilancio mi appare dunque inevitabilmente anacronistico e del tutto slegato dalle condizioni imposte dal presente. Senza accogliere acriticamente, con rassegnazione passiva, le tendenze internazionali, penso che sia comunque più sensato accettare, anche banalmente a livello lessicale, l’idea che la critica venga rimpiazzata, anche in Italia, da forme più o meno consapevoli di art writing (scrittura d’arte? scrittura sull’arte? scrittura per l’arte?). Nessuno, soprattutto tra i più giovani, in un sistema di potere in cui gli artisti emergenti si trovano spesso nella stessa condizione di impotenza e dipendenza economica di chi dovrebbe scriverne, si sente più a suo agio a scrivere negativamente di qualcosa che non gli è piaciuto. A chi gioverebbe? Meglio tacere.

In questo contesto, il potere dello scrivente, proporzionato alla sua indipendenza economica, si limita alla possibilità di rifiutare una commissione, di “dire no” quando le esigenze alimentari non impongano un “sì” controvoglia.

Ovviamente, in un sistema in cui l’indipendenza economica appare come un miraggio irraggiungibile, tale potere si annulla, è una vecchia storia: nel 1978 a Montecatini Celant definiva il critico italiano medio “un marchettaro, che cambia partito, cambia ricerca, ogni tanto salta su un cavallo che tira di più”, mentre Georg Jappe si presentava rassegnato come “un galoppino stipendiato, uno scrittore tutt’altro che indipendente”. Tragicamente, cinquant’anni più tardi, l’aggettivo “stipendiato” suona quasi utopico e l’art writer, come il curatore e persino lo storico dell’arte, si sta trasformando sempre di più in un lavoro da ricchi, appannaggio esclusivo di chi può permettersi – beato lui! – di non guadagnare dal proprio mestiere. In un sistema così disastrato, spesso incapace di riconoscere la necessità e il valore economico della scrittura d’arte, lamentarsi che essa dipenda da dinamiche commerciali o di promozione rivela una totale sconnessione dalla realtà, implicitamente ipocrita.

GIULIA ZOMPA

Se scrivere un testo critico è pagato una miseria, è inevitabile che l’energia venga incanalata altrove o che, semplicemente, il tempo dedicato alla ricerca e alla scrittura si riduca drasticamente. La sostenibilità di una critica approfondita e accurata è un problema centrale, che incide direttamente sulla qualità del pensiero critico e sulla sua capacità di incidere nel dibattito artistico. Credo che oggi esista già una nuova forma di critica, profondamente diversa rispetto al passato. La critica militante, ovviamente, non esiste più, eppure tutti la invocano, la rimpiangono. Ma il sistema è cambiato troppo, è diventato troppo precario perché possano ancora esistere figure disposte ad esporsi in modo netto e radicale. La frammentazione del panorama artistico, la crescente dipendenza dalle dinamiche di mercato e la mancanza di spazi realmente autonomi per il pensiero critico hanno reso sempre più difficile l’esistenza di una critica capace di avere un impatto reale. Servirebbe una rivoluzione culturale, un cambio di prospettiva che riporti al centro la sinergia tra critico e artista, che restituisca alla scrittura un valore intellettuale. Tornare a credere che il pensiero critico non sia un esercizio marginale, ma una pratica essenziale, e che, in quanto tale, debba essere riconosciuta e retribuita. La vedo difficile, ma senza questo passaggio la critica resterà confinata ai margini di un sistema che non sembra più averne bisogno.

a sinistra: Giorgio Di Domenico, credits Marea Art Project a destra: Giulia Zompa

LA SCRITTURA D’ARTE OGGI: CLICHÉ E VIE D’USCITA

Nel dibattito sulla scrittura critica viene evidenziato come questa sia oggigiorno caratterizzata da un eccesso di teorizzazione, una qualità stilistica spesso trascurata e una difficoltà crescente nel comunicare in modo efficace con il pubblico. E a questo si aggiunge una produttività frenetica che penalizza l’approfondimento. Le soluzioni qui avanzate conducono al ritorno di una scrittura più semplice e accessibile, capace di valorizzare il lavoro degli artisti e di restituire alla critica il suo ruolo essenziale: essere un ponte tra l’opera e il pubblico, anziché un esercizio di stile.

“Al di là delle condizioni economiche soggiacenti”, si riallaccia Di Domenico, “vero nodo del problema, mi sembra comunque auspicabile che inizi a definirsi professionalmente e a livello formativo, anche in Italia, una figura specializzata in art writing, non necessariamente incardinata in ruoli curatoriali, accademici o editoriali, capace di produrre scritture che affianchino, supportino e sostengano le ricerche artistiche. Una maggiore professionalizzazione potrebbe anche contribuire a evidenziare l’effettiva necessità di quelle figure per il sistema, favorendo un progressivo riconoscimento anche del valore economico della scrittura. In questo contesto, al di là della formazione specifica, sarebbe auspicabile un investimento collettivo sulla qualità della scrittura, ormai avvilita da una sciatteria dilagante. Scorrendo comunicati stampa, fogli di sala, articoli in riviste, interviste, saggi in catalogo e cartellini di mostre e musei capita sempre più frequentemente di imbattersi in una brutta scrittura, macchiata da errori evidenti, senza arrivare a scomodare l’ambizione a una qualche dignità stilistica, che pure, in un sistema sano, sarebbe pienamente legittima. Ad aggravare

la situazione, quella brutta scrittura serve spesso da contenitore per un sistema ristrettissimo di riferimenti teorici, spesi ossessivamente, senza una vera attinenza all’opera commentata, nel tentativo maldestro di assicurare allo scritto una presunta dignità intellettuale che altrimenti non potrebbe vantare. Il risultato è inevitabilmente grottesco”. E conclude: “Mi sembra dunque necessaria, al di là di una banale riduzione quantitativa di scritture spesso superflue o ridondanti, un’iniziativa collettiva di pulizia, di deteorizzazione e di recupero di una scrittura più semplice, più corretta e, in definitiva, più accessibile, capace di mettersi al servizio delle opere e degli artisti, delle istituzioni e dei suoi pubblici”. Così, come ha fatto notare Vincenzo Trione, un apparato pesantemente teorico e un linguaggio oltremodo ostico o inadeguatamente erudito e sconnesso dal presente hanno fatto della critica d’arte un esercizio fine a se stesso e sulla questione non sembra esserci chi la pensa diversamente: “Un grosso problema nell’ambito della scrittura è stata l’ondata di citazionismo theory che, almeno da dieci anni a questa parte, ha colpito la critica d’arte e la cu-

ratela. È stata un’ondata che ha portato all’affermarsi di mode teoriche che hanno avuto la vita delle farfalle. Si pensi all’object-oriented-ontology, al realismo speculativo, all’accelerazionismo o a tutti i neologismi che sono nati attorno al postumanesimo. Qualche anno fa si faceva a gara a citare Mark Fisher, Timothy Morton o Rosi Braidotti: erano tutti autori e autrici che, puntualmente, ritrovavi nei comunicati stampa e nei testi curatoriali. Nella maggior parte dei casi, il risultato applicativo di queste teorie è stato goffo, maldestro: si è cercato di piegare riflessioni nate altrove e per altri obiettivi a opere che neanche lontanamente riuscivano a rispecchiarle. Credo che la strategia per fronteggiare l’iperproduttività del sistema dell’arte contemporanea, e la bulimia quasi endogena della curatela –che ha sempre bisogno di nuovi artisti, di nuove tematiche, di nuove mode teoriche da assecondare – sia quella della lentezza. Fare critica oggi, per me, significa stare accanto agli artisti, seguirne pochi, essere sempre aggiornati sui loro lavori, ascoltarli senza credere a tutto quello che dicono, e, nella scrittura, non dire mai nulla che non possa essere indicato, partire sempre dall’opera e non dalle teorie. Sono per una critica lenta e partigiana”, spiega Di Rosa a cui si aggiunge Zompa sostenendo che talvolta si imbatte in testi ben scritti, con idee originali e una reale conoscenza dell’artista ma, spesso, a prevalere è un’analisi superficiale: “Non ne faccio una colpa al singolo, è un fenomeno sistemico: scrivere richiede tempo, così come pensare, conoscere gli artisti e studiare. Viviamo in un mondo sempre più veloce e orientato alla performance, in cui la quantità prevale sulla qualità, e l’arte non fa eccezione. La superficialità mi sembra sempre più inevitabile, e riguarda tutti noi, da vicino. Ma poi questi testi vengono letti? Non ne sono sicura. Credo che ci leggiamo davvero in pochi e, forse, siano soprattutto gli artisti stessi a leggerci quando parliamo di loro”. E la sintesi di questo ampio discorso dedicato alla scrittura è avanzata, in conclusione, da Di Domenico che ritorna sulla figura dell’art writer “ideale e necessario” che dovrebbe essere “una sorta di mediatore, un alleato dei pubblici, sempre dalla parte degli artisti, pagato dal sistema per rendere facili, con belle parole, cose difficili” perché “in Italia, troppo spesso, si fa il contrario: si rendono difficili, con brutte parole, cose facili”.

sopra: " Io? Mi sto solo divertendo a leggere le recensioni negative degli altri ." Dalla serie degli Artoons di Pablo Helguera

L’EREDITÀ DELLA TRADIZIONE E IL RAPPORTO TRA CRITICA E STORIA DELL’ARTE IL PUNTO DI VISTA DI RICCARDO VENTURI

Pare quindi serpeggiare ancora nell’orizzonte che incoraggia un rinnovamento della pratica critica il “fantasma” della tradizione, di quel legame indissolubile che in passato la vedeva a braccetto con la storia dell’arte e che oggi si è trasformato più in un esercizio di stile che un’autentica conoscenza della disciplina o in un suo funzionale utilizzo. E se per Trione il patto venuto meno tra le due ha portato a un’incapacità di leggere l’arte del nostro tempo, per lo storico dell’arte e critico Riccardo Venturi la crisi della critica è dovuta alla crisi della storia dell’arte ma perché nel dibattito odierno la critica d’arte è ancora considerata un’estensione della storia dell’arte, da cui mutua quell’approccio storiografico che non produce sapere e dibattito: “Ho l’impressione che i grandi temi della contemporaneità, come il femminismo, il postcolonialismo o l’ecologia, vengano trattati come semplici temi storici, anziché come questioni vive e attuali. Questo approccio rischia di ridurre il dibattito critico a una mera narrazione storica, invece di affrontare il presente con strumenti adeguati”. Dunque, secondo Venturi, la critica non può essere confinata all’ambito accademico come la storia dell’arte, ma piuttosto, per incidere sul presente deve dialogare con le scienze umane e naturali. E a sostegno della tesi, riporta ad Artribune il testo con cui si è aperta la trattazione, il saggio Wunderkammer di Adalgisa Lugli, uscito postumo per Allemandi nel 1997 e raccontato su Armi Improprie, che diventa paradigma di un’esemplare metodologia per fare critica e su cui Venturi avanza una lettura inedita: “Le camere delle meraviglie raccolgono oggetti privi di uno statuto artistico definito, estremamente variegati, e per comprenderli è necessario un metodo che superi i confini della storia dell’arte tradizionale. In questo contesto, le scienze naturali diventano interlocutori fondamentali. Questo modello di pensiero, basato sul dialogo tra discipline, è ciò che rivendico per la critica contemporanea. Wunderkammer è un libro incompiuto ma anche un’opera aperta. Aperta a cosa? Senza dubbio al rapporto con le scienze natu-

rali. A riguardo mi torna in mente la posizione di un autore desueto e da noi storici dell’arte dimenticato quale John Ruskin, che sosteneva: ‘I was interested in everything, from clouds to lichens’. Personalmente l’ho utilizzato come esergo per un articolo sui licheni, come se cercassi una giustificazione per occuparmi di un elemento vegetale che non sembra far parte dei temi trattabili da uno storico dell’arte, qualsiasi sia il ‘suo’ periodo. E la botanica in genere appassionava i miei professori per questioni d’erudizione o iconologiche: ‘quel frutto lì sta per la passione di Cristo’ e nello ‘stare per’ risiede il problema, riducendo le opere d’arte a testi da decifrare e tradurre in parole. L’inciso di Ruskin è forse una delle migliori professioni di fede di quel meraviglioso, di quelle mirabilia che appassionavano Lugli e molti artisti visivi contemporanei. Riprendere Wunderkammer oggi può comportare, più generalmente, la volontà di riscrivere o di testare l’origine delle immagini, di interessarsi a una storia naturale delle immagini. Un movimento parallelo a quanto avviene nell’estetica o nelle mostre d’arte”, si legge nel testo, che poi prosegue: “Che le mirabilia descritte da Adalgisa Lugli in Wunderkammer e in altri lavori abbiano un futuro nella critica d’arte, nell’arte contemporanea e persino in un’ecologia del sensibile?”.

PER UN RITORNO DELLA CRITICA: RAGIONARE CON L’OPERA E NON PIÙ SULL’OPERA

sopra: Riccardo Venturi

a destra: Angela Vettese

Foto di Fabrizio Fenucci

Infatti, come spiega Venturi citando il sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour, affrontiamo il presente con gli strumenti della guerra precedente, rimanendo letteralmente disarmati di fronte ai cambiamenti. E questa rigidità è aggravata dalla struttura dei programmi accademici, dall’età media elevata dei docenti e dalla persistenza di tradizioni didattiche superate. A differenza della Francia, dove il critico vive da oltre vent’anni, in Italia la storia dell’arte viene insegnata sin dalle scuole superiori, ma questo porta spesso “a una formazione sclerotizzata”, che ragiona “per generazioni e generalizzazioni”, trascurando le individualità del nostro contemporaneo. Di conseguenza, fatichiamo a comprendere l’emergenza del presente e continuiamo a parlare di “influenze”, anche quando non sono più necessarie. Tuttavia, continua, la disciplina può ancora avere un ruolo ma è necessario che il critico instauri un dialogo con l’artista, superando la rigida distinzione tra critico e curatore e tornando a ragionare con l’opera: “Come sostiene l’antropologo Tim Ingold, non si deve più pensare sull’opera, ma con l’opera. Il futuro della critica risiede in questo cambio di paradigma: dialogare con l’artista, con l’immagine, con l’arte in tutte le sue forme. L’arte contemporanea è sempre più orientata alla sperimentazione e alla ricerca e spesso richiede il contributo e il coinvolgimento di scienziati, per esempio. Di conseguenza, la critica deve evolversi per accompagnare questi processi, diventando un luogo di confronto interdisciplinare. Un tempo la critica funzionava perché il contesto artistico

era diverso: dominavano pittura e scultura, discipline più ancorate alla tradizione. Oggi, invece, tre quarti dell’arte si muovono nella sfera della sperimentazione. Per questo, la critica non può più essere un’ancella della storia dell’arte: deve dialogare con altre discipline e ragionare con l’opera, non più sull’opera. Solo in questo modo può avere un futuro”. E alla posizione di Venturi aderisce anche Di Rosa auspicando un rapporto più diretto con le opere d’arte poiché “troppo spesso gli storici dell’arte sembrano accontentarsi di minime scoperte filologiche che consegnano alle pagine di riviste che nessuno legge e nessuno conosce. Non partecipano al dibattito pubblico e sono disinteressati alla produzione artistica contemporanea”.

IN CONCLUSIONE

Come anticipato in apertura del contenuto, ogni posizione è insieme punto di arrivo e punto di partenza per ulteriori riflessioni e confronti. Eloquenti, infatti, sono i contributi esaminati finora: le prospettive di ognuno contrastano o si accordano a seconda delle questioni affrontate e non necessariamente l’appartenenza a diverse generazioni è un fattore divisivo, anzi. È un dato di fatto che la critica d’arte in Italia abbia perso centralità nel dibattito contemporaneo e capacità interpretative, lasciando spazio a pratiche che fanno gioco al mercato. Tuttavia, credo non sia funzionale prendere le distanze dalle tendenze del nuovo millennio arroccandosi sulla tradizione illustre della critica, ma piuttosto pare necessario mettersi in ascolto delle esigenze di questo contemporaneo, con tutte le sue contraddizioni e urgenze. Il ruolo del critico va ridefinito e in questa sua revisione può essere accompagnato da altre discipline oltre alla storia dell’arte: la critica può trovare nuova linfa nell’interdisciplinarità dei saperi, in un confronto più ravvicinato con le opere d’arte e nella sperimentazione di nuovi linguaggi. La questione (o scommessa?) è aperta e quanto più viva, tanto che entro l’estate verrà presentata una nuova rivista semestrale, diretta da Vincenzo Trione, proprio dedicata al recupero della pratica e aperta alle arti, ai media e alle culture visuali. Si chiamerà Zona Critica e interrogherà i modi e le forme del presente, con le sue sfaccettature fluide e labirintiche.

CRISI DELLA CRITICA

PAROLA AD ANGELA VETTESE

In conclusione, abbiamo deciso di ripercorrere le tante tematiche emerse in queste pagine con la docente, storica e critica d’arte Angela Vettese, che ci dice la sua su quanto effettivamente, oggi, la critica sia utile o meno. Si può dire che si è smesso di fare critica? La pratica, oggi, reclama una sua autonomia?

Non direi che si sia mai smesso, se per critica si intende commento e valutazione su varie sedi: dal giornale alla rivista specializzata, sotto forma di recensione a mostre ed eventi. Certamente la critica non è più una guida che determini in modo importante le fortune di un artista, anche se ci sono firme, poniamo quella di Roberta Smith negli Stati Uniti, che ancora possono determinare o smontare delle carriere. Oggi questo ruolo pertiene molto di più a curatori e galleristi, che agiscono con i fatti (inserire in una mostra, produrre un lavoro) che con le parole. La critica dovrebbe essere un controcanto libero all'azione di curatori e galleristi, ma non sempre ne è capace, anzi spesso diventa un momento di approvazione ulteriore delle scelte di queste categorie. D'altra parte, ripeto, se per critica si intende l'attività di scrittura, forse il suo ruolo migliore è quello di approfondire e far capire il lavoro di un artista. In questo senso andrebbero ripensate le riviste d'arte e in generale gli organi di informazione, che troppo spesso hanno uno sguardo superficiale, amano le classifiche, si attestano su descrizioni scandalistiche e non fanno un lavoro di approfondimento.

Come si inserisce la figura del curatore?

Il curatore sceglie alcuni artisti da portare in evidenza e a cui dare il privilegio di essere presenti con le loro opere in una mostra, più o meno importante. Spesso lo fa garantendosi che la produzione sia pagata da una galleria commerciale, perché è l'unico soggetto che ha il denaro per farlo. Quindi esiste un'alleanza tra curatori e galleristi che, peraltro, c'è stata dal Novecento in poi. Sono stati galleristi come Leo Castelli e Ileana Sonnabend in America, Plinio De Marchis, Fabio Sargentini, Gianenzo Sperone (tra gli altri) che hanno finanziato ciò che definiamo "neoavanguardie": cioè non solo arte commerciale ma anche esperimenti come la Process Art, la Land Art, il concettuale più immateriale.

Che ruolo gioca l’attuale capitalismo culturale-artistico?

C'è sempre stato, da quando si è affermata l'idea di arte come la concepiamo oggi: la famiglia Borghese a Roma, il signor Correr a Venezia, i Rockefeller a New York, coloro a cui Vollard, Durand-Ruel, Kahnweiler vendevano i quadri prima degli impressionisti e poi dei cubisti... la committenza è stata sempre legata al capitale, anzi, ne abbiamo persi due pezzi, perché un tempo c'era anche il capitale del potere politico e quello del potere ecclesiastico. Non c'è via di uscita, anche se si cerca di dare una ripulita apparente in termini di correttezza politica. Chi paga le grandi commissioni delle opere densamente politiche di Steve McQueen o di Isaac Julien o di El Anatsui?

Chi ha consentito le grandi serie di opere nella Turbine Halle della Tate Modern, se non grandi imprese che sono protagoniste del capitale? Sono contraddizioni irrisolvibili, che Hans Haacke ha messo in luce già da decenni.

L’aumento di testi critici è indirettamente proporzionale al loro impatto nel sistema. È d’accordo con questa affermazione?

Non capisco la questione: i testi servono quando c'è una mostra da spiegare. Come introduzioni o come recensioni. Non si dovrebbe chiedere a un testo più di quello che ha da dare, cioè una spiegazione convincente di una poetica artistica. Non è richiesta alcuna operazione di lancio commerciale. Per quello ci sono i galleristi, i curatori e anche quei nuovi soggetti che sono i musei, con il loro curatori interni e la loro forza di proposta. In effetti ciò che crea il successo di un artista sono le mostre che fa, dentro a mostre estemporanee, dentro a una delle mille biennali, dentro alle stanze di un'istituzione autogestita o di un museo nazionale. Credo che difficilmente un cattivo artista abbia successo, mentre penso che molti artisti di pregio non abbiano l'occasione di farsi notare. Ma la responsabilità non può ricadere sui critici, che hanno un potere bassissimo perché a loro manca la possibilità di far produrre, esporre, vedere le opere di un artista. Anche nel tempo dei social, le opere devono esistere in carne e ossa e il potere per fare questo è in mano a galleristi e curatori, non ai critici.

In occasione del bicentenario della nascita di Giovanni Fattori, Piacenza dedica una grande mostra al “genio” dei Macchiaioli

Corpose dosi di colore si addensano su tele e tavole. Pennellate larghe e piatte definiscono i volumi e le distanze, prendendo forma in figure e paesaggi. La realtà si presenta per quella che è, senza idealizzazioni, rendendo Giovanni Fattori uno dei più importanti interpreti del naturalismo europeo della seconda metà dell’Ottocento, e protagonista indiscusso del movimento dei Macchiaioli

Nato a Livorno nel settembre del 1825, il pittore crebbe in un contesto storico e culturale di grande fermento, segnato dagli ideali riposti nell’Unità d’Italia, il loro crollo e gli orrori della guerra. Distante da una retorica celebrativa, la sua produzione è stata accompagnata da una personale riflessione etica rappresentando una delle testimonianze più autentiche - e coerenti - del Risorgimento italiano.

A duecento anni dalla sua nascita, il Centro d’arte contemporanea XNL di Piacenza gli rende omaggio con Giovanni Fattori 1825-1908. Il ‘genio’ dei Macchiaioli, la mostra a cura di Fernando Mazzocca, Giorgio Marini ed Elisabetta Matteucci e promossa dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano.

LA MOSTRA

Con 170 opere (di cui 100 dipinti e 70 tra disegni e incisioni) il progetto espositivo porrà l’attenzione sulle caratteristiche di Fattori, distintosi fra i colleghi per la resa dei paesaggicontraddistinti da una natura incontaminata studiata en plein air - e delle scene di vita rurale. A queste si affiancheranno gli intensi ritratti, le scene di battaglia e di esercitazione militare, molto apprezzate anche dai sovrani dell’epoca. L’obiettivo del pittore era “mettere sulla tela le sofferenze fisiche, e morali, di tutto quello che disgraziatamente accade”, ponendo una riflessione universale sugli orrori e sull’inutilità della guerra.

Particolarità della mostra sarà il dialogo tra i grandi capolavori pittorici e la produzione grafica dell’artista, e più precisamente con le acqueforti, che testimoniano l’evoluzione stilistica dell’artista e il suo impatto sulla grafica italiana del Novecento

A concludere il percorso espositivo sarà un’area dedicata agli scatti del fotografo paesaggista

tedesco Elger Esser che entreranno in dialogo con il naturalismo ottocentesco di Giovanni Fattori.

LE ACQUEFORTI

“Il Fattori incisore nasce tardi, e nella grafica del nostro fine-Ottocento s’affaccia quasi come un estraneo, verosimilmente a ridosso del 1880. Ma le motivazioni del suo interesse per questa nuova attività restano difficili da inquadrare, così come non è agevole stabilire se sia una forma di rilettura dei propri dipinti nello spazio compresso delle lastre, a riprenderne le inquadrature, o piuttosto un modo di prepararne i soggetti in continuità coi suoi disegni, ‘disegnando’ con la punta d’acquaforte quasi come sui fogli degli album”, spiega il dottor Giorgio Marini, curatore del progetto espositivo e autore del saggio Le acqueforti di Fattori: materia, segno e luce. “Audace esperimento di contaminazione di tecniche, il corpus delle acqueforti di Fattori è un monumento

Dal 29 marzo al 29 giugno 2025 GIOVANNI FATTORI 1825–1908 IL ‘GENIO’ DEI MACCHIAIOLI

A cura di Fernando Mazzocca, Giorgio Marini ed Elisabetta Matteucci Il catalogo della mostra Giocanni Fattori 1825 - 1908. Il genio dei Macchiaioli è edito da Dario Cimorelli Editore Centro d’arte contemporanea XNL Via Santa Franca 36, Piacenza xnlpiacenza.it

a sinistra: Giovanni Fattori, La strada bianca, 1887 circa. Collezione privata a destra: Giovanni Fattori, Signora in giardino, 1875 circa. Collezione privata in basso: Giovanni Fattori, Bovi al carro, 1870 circa Collezione privata (part.) nel box: Luchino Visconti

impressionante delle possibilità espressive e della radicalità del ‘bianco e nero’ incisorio. Ecco allora che l’occasione del bicentenario fattoriano invita a una loro rilettura sotto il profilo della materialità, per indagarne la genesi anche attraverso le morsure, le carte, gli inchiostri, persino i danni della corrosione o gli errori esecutivi, dall’esame delle matrici, e tutti quei caratteri che – solo apparentemente tecnicistici – possano rivelarcene i più intimi significati. Perentorio, istintivo, spesso eloquente dello sforzo della sua ‘fisicità’, questo aspetto della produzione di Fattori resta per molti versi, sorprendentemente, un territorio ancora da esplorare e passibile di ulteriori scoperte, nonostante gli ormai fitti interventi critici”.

IL SEGNO COME OPERA A SÉ STANTE

“La produzione grafica resta in ogni caso per lui la dimensione più libera dalle costrizioni formali, la cui poetica fa perno sulla quotidianità, già eletta a soggetto dei suoi dipinti, ma che viene ora reinventata in tutta la sua asciuttezza”, continua Giorgio Marini. “Le sue acqueforti presentano infatti cifre segniche quasi subliminali, attraverso cui l’artista ha enucleato la forma, dall’astrattismo alla concettualità, e dove il segno diventa opera a sé stante. Il più delle volte l’artista propone gli stessi soggetti trattati anche in pittura, ma non ispirandosi alle tele quanto ai bozzetti e ai numerosi studi preliminari disegnati dal vero. Tradotti

GIOVANNI

nel piccolo formato e nel segno sintetico del bianco e nero, questi finiscono per acquisire una fisionomia tutta nuova: in questa rivisitazione della realtà la ricerca di Fattori si concentra sulla potenza della luce e l’essenzialità della forma, confermandone anche in questo campo la grande novità formale”.

FATTORI:

TRA ARTE, CINEMA E LETTERATURA

Noto per il suo stile realistico, Giovanni Fattori non solo si è reso testimone autorevole dell’Unità d’I talia, ma ha anche forgiato la rappresentazione visiva della realtà nella cinematografia italiana.

A trarre ispirazione da alcune sue opere è infatti il regista Luchino Visconti (Milano, 1903 – Roma, 1976), ritrovando riferimenti iconografici e stilistici nei film Senso (1954) e Il Gattopardo (1963), entrambi ambientati in epoca risorgimentale.

Nel film Senso, il regista italiano riflette sulla decadenza di una società e sull’intensità delle passioni – e le loro disastrose conseguenze -, elementi che richiamano la pittura di Fattori, dove la tensione psicologica si esprime attraverso contrasti di luci e ombre.

Tra eleganza e decadenza è invece la linea su cui si sviluppa Il Gattopardo (tratto dall’omonimo libro di Tomasi di Lampedusa), rispecchiando le scene di vita quotidiana che il pittore sapeva restituire nelle sue tavole.

L’arte di Fattori ha lasciato un’impronta indelebile anche sulla cultura del XX secolo, come documentano saggi critici e opere di artisti contemporanei come Ugo Ojetti, Emilio Cecchi e Giorgio de Chirico.

GIOVANNI FATTORI / PIACENZA

Quando Brancusi scolpiva il volo. La mostra al Parco Archeologico del Colosseo

Constantin Brancusi nasce nel 1876 a Hobița, un villaggio romeno in cui la scultura è una pratica quotidiana. Fin da bambino intaglia il legno, sviluppando un legame profondo con la materia. La sua arte non nasce tra le stanze di un’accademia, ma in piena natura, osservando la semplicità delle forme arcaiche presenti in essa. Nel 1904 lascia la Romania e, a piedi, raggiunge Parigi. Nel 1907 lavora nello studio di Auguste Rodin, ma se ne distacca presto, scegliendo un percorso indipendente. Non modella l’argilla come il suo collega francese, ma scolpisce direttamente il marmo, il legno e il bronzo, ricercando la purezza della forma, quasi un Adolf Loos della scultura. La materia non deve subire costrizioni, ma deve esprimere la sua energia interna. Si tratta di togliere il giusto, come vuole Michelangelo. Le superfici lisce riflettono la luce, dissolvendo i contorni e creando un senso di sospensione. La sua ricerca si concentra sul movimento, sulla tensione verso l’alto, sulla leggerezza che trasforma il peso in slancio.

TRA REALE E SPIRITUALE

“Non è l’uccello che voglio rappresentare, ma il dono, il volo, lo slancio”, dichiara Brancusi. Le sue sono sculture che non descrivono, ma evocano. Leda, realizzata nel 1920, è una metamorfosi compiuta: il cigno e la donna si fondono in un’unica figura, che appare sospesa e risolta, ben diversa dalle tensioni erotiche di un suo modello antico esposto in mostra e proveniente da Venezia. L’Oiselet II, scolpito nel 1928 riduce l’uccello a una forma pura, senza peso, una presenza del tutto astratta. Nel 1935 è Le Coq a riprendere lo slancio del famoso uccello brancusiano, ma questa volta dotato di una cresta di un gallo che spezza la linea creando un’eco di angolature nette e affilate su cui la luce sbatte e rimbalza, proiettandoci verso una verticalità quasi futurista e meccanica, ma pur sempre essenziale. Brancusi trasforma la scultura in un’esperienza visiva e mistica. Il bronzo lucidato e il marmo bianco catturano riflessi ed emanano luci mutevoli che dissolvono i confini tra idea e forma, significato e significante, staticità e dinamismo. Il suo volo non è soltanto fisico, ma profondamente spirituale: la scultura diventa tensione verso l’infinito.

BRANCUSI E L’ANTICO

La mostra accosta le tre opere di Brancusi – prestito eccezionale del Centre Georges

Pompidou di Parigi – ad una selezione di sculture antiche provenienti da collezioni archeologiche italiane. Balsami, sonagli e statue di epoca romana ed etrusca sembrano condividere la stessa essenzialità, la stessa tensione spirituale. Nell’arte antica gli uccelli sono figure sacre, messaggeri del divino. Le loro raffigurazioni non sempre imitano la natura. Brancusi si muove nella stessa direzione, le sue sculture non sono oggetti, ma idee, archetipi che sfuggono al tempo. L’incontro tra le sue opere e quelle antiche non è una semplice giustapposizione, ma una continuità. Le Uccelliere Farnesiane offrono lo spazio ideale per questa riflessione, sospesa tra passato e presente.

LA

SCULTURA

IN MOVIMENTO

Negli Anni Venti e Trenta, Brancusi passa attraverso la fotografia (grazie all’amico Man Ray) ed il cinema (ispirato a Duchamp) per esplorare la sua ricerca. Con lui gli scatti scatti non sono semplici documentazioni, ma studi di luci e ombre che trasformano le sculture in presenze enigmatiche. Nel film Leda in movimento (1936), la statua ruota su un disco di acciaio lucido, riflettendosi all’infinito. La scultura non è più statica ma cambia in ogni momento, diventando un oggetto magico. Con i mezzi di riproduzione meccanica dell’immagine, Brancusi dissolve il concetto tradizionale di scultura, aprendola al rapporto continuo e fluido con lo spazio e con la luce.

L’ATELIER COME OPERA D’ARTE TOTALE

Lo studio che Brancusi dona allo Stato francese – e che viene ricostruito davanti al Centre Pompidou a Parigi – non è soltanto un luogo di lavoro ma è un’installazione ante litteram, un luogo, una dimensione esposta a un magnetismo evidente a tutti coloro che lo visitino. Le sue sculture non vivono isolate, ma in compagnia le une delle altre, in una relazione il cui equilibrio l’artista ha studiato nei minimi dettagli. La sua donazione è il gesto più intelligente per tramandare il senso del suo operato, ripreso nell’allestimento della mostra dall’architetto Dolores Lettieri.

Fino all’11 maggio 2025

BRANCUSI: SCOLPIRE IL VOLO

A cura di Philippe – Alain Michaud, Alfonsina Russo, Maria Laura Cavaliere e Daniele Fortuna

Parco Archeologico del Colosseo

Piazza S. Maria Nova 53, Roma colosseo.it

Brancusi Scolpire il volo foto Simona Murrone

GUIDI / ROMA

Il tempo nelle fotografie di Guido

Guidi in mostra al Museo MAXXI

Esiste un dipinto di Giorgione conservato all’Accademia di Venezia che suscita particolare affetto in Guido Guidi. Su uno sfondo scuro è rappresentata una donna anziana ritratta a mezza figura, in posizione di tre quarti. Diretto verso lo spettatore, il suo sguardo è segnato da un’espressione di evidente sofferenza, mentre la bocca, appena dischiusa, sembra voler pronunciare le parole riportate sul cartiglio che tiene in mano: “Col tempo”. Più volte Guidi mi ha spiegato il significato di quest’opera: la donna ci mostra la propria condizione di transitorietà, dicendo “col tempo io sono diventata vecchia”. Preso in prestito dall’opera di Giorgione, Col tempo è diventato il titolo della mostra antologica dedicata al Maestro italiano ospitata al Museo MAXXI di Roma e a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia.

LA FOTOGRAFIA PER GUIDO GUIDI

Il progetto ricostruisce la carriera del fotografo italiano riunendo quasi 500 scatti realizzati fra il 1956 e il 2024 e la prima impressione che si ha visitando la mostra è la rigorosa coerenza del processo che l’artista porta avanti da sempre. Chi lo ha visto a lavoro sa che utilizza un pesante banco ottico, a dimostrazione che

l’atto del fotografare è per sua natura faticoso. Il processo continua con la stampa a contatto del negativo, di conseguenza quasi tutte le immagini (tranne quelle scattate all’inizio della sua carriera con macchine più piccole) misurano 20x25 cm, dimensione mantenuta rigorosamente anche nel catalogo della mostra. La superficie del negativo corrisponde a quella della stampa e la nitidezza delle immagini ci fa riscoprire il potere intrinseco della fotografia, senza modifiche, manipolazioni o trucchi.

Fino al 20 aprile 2025

GUIDO GUIDI

COL TEMPO 1956 – 2024

A cura di Pippo Ciorra, Antonello Frongia, Simona Antonacci

Museo MAXXI

Via Guido Reni 4a, Roma maxxi.art

Scopri tutte le mostre da vedere a Roma su

LA RIFLESSIONE SULL’ATTO DEL VEDERE

Composto da 39 serie suddivise in cinque categorie, il percorso espositivo non si fonda su una scelta prettamente cronologica ma su assonanze, svelando come l’allestimento sia parte dell’espressione poetica dell’autore. Tutta l’opera di Guidi è una chiara celebrazione del tema della qualsiasità zavattiniana: nessuna gerarchia fra le immagini, piuttosto un unico grande lavoro che, attraverso il tempo, mostra uno sguardo democratico verso i luoghi, le persone, i dettagli e soprattutto verso quei bordi del paesaggio di cui la poetica di Guidi si fa portatrice.

LA CAPACITÀ DELLA FOTOGRAFIA DI FISSARE IL TEMPO

La mostra si apre con la serie a colori dedicata ad una casa di Preganziol (1983), una straordinaria riflessione sul potere del tempo che lo strumento fotografico è in grado di cogliere nella sua fissità. Lo stesso magico disvelamento di segni lo ritroviamo più avanti, nella celebre serie dedicata alla Tomba Brion a San Vito di Altivole, l’opera incompiuta dell’architetto Carlo Scarpa. Guidi l’ha fotografata nell’arco di diversi mesi, e proprio l’atto del permanere sul luogo porta l’autore a mostrare una nuova dimensione nella lettura dello spazio. Frecce, triangoli, linee, ombre e luci ridisegnano l’architettura del monumento, riconsegnandocela con nuovi significati. Ad arricchire il percorso è la presenza di bacheche contenenti libri, provini, disegni, testi, manoscritti, utili a comprendere al meglio le profondità e le sfaccettature culturali dell’autore. Conclude la mostra un’installazione video a tre canali di Alessandro Toscano, un delicato racconto che restituisce il quotidiano di Guidi, nella sua casa-archivio di Ronta di Cesena, circondato da amici, studenti, studiosi.

in alto: GuidoGuidi, RiminiNord, 1991
Artribune
GUIDO

ARTE SALVATA / MESTRE

Arte salvata dalle bombe. A Mestre i capolavori del Museo di Le Havre

Cent’anni dopo la sua fondazione, il Museo di Belle Arti di Le Havre si trova a ricominciare da zero. Il 1945 è un anno di dolorosa ripartenza, di doverosa ricostruzione, per tutta l’Europa e anche per il museo francese, pesantemente colpito dai bombardamenti dell’anno precedente. Per sedici anni Le Havre resta senza il suo museo, che riapre ufficialmente nel giugno 1961 con il nuovo nome di Musée d’art moderne André Malraux (MuMa), dedicato al ministro francese che tanto aveva promosso la sua ricostruzione. La mostra Arte Salvata. Capolavori oltre la guerra dal MuMa di Le Havre al M9 – Museo del ‘900 di Mestre intende mostrare al pubblico italiano oltre 50 opere scampate al bombardamento, grazie ad un’attenta operazione di prevenzione. Abbiamo chiesto alla direttrice del museo veneziano Serena Bertolucci, alla curatrice Marianne Mathieu e alla direttrice del MuMa Geraldine Lefebvre di raccontarci la genesi di questa mostra e la storia del Museo di Le Havre.

Quali sono i punti di contatto tra Mestre e Le Havre e in che modo la mostra li evidenzia?

Il senso di questa unione ruota intorno al concetto di rigenerazione urbana attraverso la cultura, campo in cui Le Havre è pioniera a livello europeo e all’interno della quale Mestre, oggi, ricopre un ruolo di rilievo a livello italiano. La memoria della rigenerazione, quella idea straordinaria del museo che cresce con la città, partecipato e partecipante, che Le Havre delinea fin dal 1845, è carburante ed energia per la rigenerazione culturale di oggi, che ha ancora a che fare con le medesime tematiche: accessibilità, identità, condivisione, partecipazione. Provare a ricollocare la necessità di rigenerazione al di fuori della retorica ma alla luce di esempi precedenti, credo possa fare la differenza. Resta poi un ulteriore richiamo che ci viene fornito dall’anniversario della fine del secondo conflitto mondiale e dalla contemporanea esistenza, in questo momento, di conflitti che scuotono il nostro pianeta. Quale può essere il ruolo della cultura anche qui in ottica rigenerativa e ricostitutiva dopo i conflitti? Come sono chiamati ad agire oggi i musei in questo contesto? Anche qui l’esempio di Le Havre apre lo spazio a numerose riflessioni alle quali non ci possiamo sottrarre.

Da cosa nasce l’idea di questa mostra? Le collezioni del Musée du Havre sono tra le più ricche di Francia e sono le più ricche collezioni impressioniste del XIX secolo, dopo Parigi. Non avendo mai viaggiato, rimangono poco conosciute, soprattutto al di fuori della Francia. Il nostro intento primario è stato quello di selezionare i gioielli di questa collezione di grande interesse nazionale.

In effetti, l’esposizione è l’occasione per mostrare capolavori di maestri della pittura francese, che hanno operato a Le Havre…

Quello che ci interessava era ovviamente condividere una scoperta, e mostrare gli artisti più celebri e quelli meno celebri, ma anche e soprattutto sottolineare l’importanza della città di Le Havre come centro artistico di primo piano nella storia dell’arte francese. Le Havre è soprattutto il luogo di nascita dell’Impressionismo. Claude Monet vi giunse all’età di cinque anni. Studiò con i suoi maestri Boudin e Jonquine, le cui opere sono esposte nella mostra. E fu a Le Havre che dipinse il famoso Impressione, sole nascente, che diede il nome agli impressionisti. Con lui e intorno a lui, molti artisti, tra cui Renoir e Sisley, sono presenti nella mostra. È evidente che Le Havre è un centro culturale importante nella storia dell’arte francese. Ma non solo. Ha continuato a esserlo anche all’inizio del XX Secolo. Grazie alla presenza di collezionisti locali estremamente dinamici, era diventata un importante centro espositivo, con opere d’avanguardia.

Ad esempio?

Due artisti locali, in particolare, avrebbero incarnato e colto le innovazioni del nuovo secolo: Raoul Dufy e Auton Friese, che rappresentano l’interpretazione locale del Fauvismo e del Cubismo. Le Havre, attraverso queste figure principali, emerge quindi come luogo di influenza per le avanguardie pittoriche del primo Novecento.

Com’è nato il museo di Le Havre e in che modo i suoi capolavori si sono salvati dai bombardamenti del 1944?

Nel 1845, la città in piena espansione costruì da zero un museo-biblioteca per illustrare il suo potere e la sua influenza. Tra il 1845 e la Seconda Guerra Mondiale, le collezioni furono arricchite da una serie di opere importanti. Tra queste, i dipinti di Monet, donati alla città nel 1910, e quelli di Gauguin, Renoir e dei preimpressionisti. All’epoca della Prima Guerra Mondiale, la Francia fu scossa dalla portata dei primi bombardamenti, in particolare dalla distruzione della Cattedrale di Reims. Fu quindi organizzato un piano di salvataggio per le opere d’arte. Ed è proprio questo piano di salvataggio che è stato messo in moto durante la Seconda Guerra Mondiale. Così, nel 1942, i dipinti di Le Havre furono trasportati nei castelli del dipartimento di Sarthe (nella Loira), trasformati in depositi d’arte ufficiali. Purtroppo,

le sculture (troppo pesanti per essere trasportate) non poterono essere salvate e furono distrutte durante i bombardamenti. L’80% della città di Le Havre fu distrutta e dovrà essere ricostruita quasi da zero.

La ricostruzione di Le Havre è un grande esempio di rivincita sulla distruzione delle guerre. In che modo è rinato il museo?

Ad Auguste Perret fu chiesto di progettare una nuova città, il cui centro storico è oggi patrimonio mondiale dell’UNESCO. Il museo è uno degli elementi fondamentali della rinascita di Le Havre: viene concepito come una casa aperta a tutti, come una scatola di vetro aperta sulla città dove gli abitanti potranno imparare divertendosi, senza dover avere una conoscenza accademica delle opere e del patrimonio. Il museo è visto come una casa per tutti, una “casa della cultura”, per usare le parole di André Malraux, il Ministro della Cultura dell’epoca. La storia del Musée du Havre, la sua distruzione e ricostruzione, illustra la vitalità e la preziosità del nostro patrimonio e la necessità di salvaguardarlo.

Cosa caratterizza oggi il Musée du Havre?

Le collezioni del Musée du Havre hanno continuato ad arricchirsi da quando il museo è stato riaperto all’inizio degli Anni Sessanta, e non di poco. Nel 1963 la vedova del già menzionato

Raoul Dufy donò un rilevante nucleo di opere d’avanguardia, in particolare Fauves. Nel 2004, un’importante collezione impressionista è stata donata al Musée du Havre dalla collezione Senn. Ne abbiamo alcuni magnifici esempi in questa mostra, in particolare uno proveniente da Vétheuil.

Sebbene il conflitto che ha distrutto il museo si sia concluso 80 anni fa, siamo ben lontani da un mondo senza guerre. La mostra vuole far riflettere anche sul patrimonio artistico attualmente in pericolo?

Esatto, con questa mostra vogliamo sottolineare come l’arte sia una base di partenza per l’unità, uno spazio vitale in cui ci riconosciamo e in cui ci uniamo al di là delle guerre.

Dal 15 marzo al 31 agosto 2025 ARTE SALVATA.

CAPOLAVORI OLTRE LA GUERRA DAL MUMA DI LE HAVRE

a cura di Marianne Mathieu e Geraldine Lefebvre

M9 Museo del ‘900 Via Giovanni Pascoli 11, Venezia Mestre m9museum.it

a sinistra: Pierre-Auguste Renoir, L’escursionista, 1888 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Lascito Charles-Auguste Marande, 1936

© MuMa Le Havre / David Fogel

in basso: Eugène Boudin, Studio di nuvole su cielo blu, 1888-1895 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Louis Boudin, 1900, © MuMa Le Havre / David Fogel

Alfred Sisley, La Senna a Point-du-Jour, 1877, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Pieter van der Velde, 1912, © MuMa Le Havre / David Fogel

Eugène Boudin, Le scogliere di Etretat, 1890-1891 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Louis Boudin, 1900

© MuMa Le Havre / Florian Kleinefenn

in alto: Paul Gauguin, Paesaggio a Te Vaa, 1896, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Lascito Charles-Auguste Marande, 1936, © MuMa Le Havre / Florian Kleinefenn

Follia, malattia, sessualità e morte: Carol Rama al Kunstmuseum di Berna

Se si pensa alla parabola di trasformazione vissuta da Torino da inizio Novecento ai Giochi Olimpici Invernali nel 2006, si comprende il contenuto della grande mostra che vede Carol Rama (Torino, 1918 - 2015) protagonista del Kunstmuseum di Berna. Nata nell’ex Capitale del Regno d’Italia in una famiglia “da bene” con il padre impegnato a produrre componenti per automobili, l’artista partecipa personalmente alla crescita industriale della città, incarnata nel miracolo FIAT. Un’evoluzione economico-sociale che muta presto pelle, rendendo nota Torino per le lotte operaie e, più di recente, come meta turistica connessa agli sport invernali. Un simile percorso trasformativo si ritrova nella sua ricerca artistica, che segue le rivoluzioni della scena del Novecento, reinventandosi di continuo.

UNA TORINESE PROVOCATORIA

Considerando il contesto in cui si muove - una Torino con tanto di salotti benestanti e ancora “ingessati” nei loro pregiudizi e stereotipi - Carol Rama è una rivoluzionaria irriverente e provocatoria. E lo si osserva fin da subito, quando negli Anni Trenta e Quaranta scandalizza il pubblico con i suoi acquerelli. Figure (soprattutto femminili) guizzanti come serpentelli, provocanti fin quasi all’osceno. Celebri per le “lingue” rosso brillante, rivolte all’osservatore, che lo stuzzicano e lo attraggono senza scrupoli. A ingenerare questo spirito fuori dalle regole è

quasi certamente la serie di traumi infantili, che la segnano nel profondo. Prima il crollo finanziario del ‘29, che trascina nel baratro l’attività del padre, tanto da condurlo al (probabile) suicidio. Poi la madre, distrutta dalla depressione, la quale è ricoverata in un ospedale psichiatrico. Proprio lì Rama si impossesserà delle immagini delle altre malate, rendendole protagoniste delle sue opere. Donne fuori di sé, ma che esprimono un certo ideale di libertà. Libertà dalle costrizioni morali, incarnata in figure dall’aspetto vicino a Schiele e Klimt, con il capo coronato di fiori. Con la consapevolezza di questi fatti biografici, i quattro temi della mostra - follia, malattia, sessualità e morte - si riempiono di senso.

LA MOSTRA

Sono oltre 110 le opere riunite per la prima grande retrospettiva a lei dedicata dal titolo Carol Rama. Ribelle della modernità, invitando a riscoprire il lato di radicalità e sperimentazione insito in tutta la poetica dell’artista. Autodidatta dall’inizio alla fine (si vede infatti rifiutare l’ammissione all’Accademia Albertina) e svincolata da ogni movimento. Questa è l’immagine, personalissima e anticonvenzionale, che si trae scorrendo i lavori esposti.

La pittura di Carol Rama è una “pittura da studio”. Nasce dalla sua casa-officina di lavoro torinese, che funge al contempo da luogo d’incontro per voci esterne: intellettuali e creativi, accolti da una padrona di casa dalle abitudini notoriamente bizzarre.

“APPASSIONATA”: UN TITOLO E UNA DESCRIZIONE

Nel percorso espositivo si incontra Appassionata. Nome della serie di acquerelli degli Anni ‘40 ispirati alle malate della casa di cura, ma anche aggettivo buono a descrivere un po’ ogni fase produttiva a cui ci si accosta. Si vedono infatti oli su tela che fungono da anti-ritratti, tanto sono folli e grottesche le loro espressioni. E ancora, i suoi esperimenti di “bricolage”, accostati all’Arte Povera, dove l’artista sfonda la seconda dimensione aggiungendo a smalti e vernici trucioli di metallo, occhi di bambola e molto altro. Tutte opere mosse dalla passione del suo animo, come per le Gomme: pneumatici che si fanno materia viva, appassionata appunto, di composizioni minimaliste dal forte sottofondo autobiografico.

Fino al 13 luglio 2025 CAROL RAMA. RIBELLE DELLA MODERNITÀ

A cura di Livia Wermuth Kunstmuseum Bern

Hodlerstrasse 8, Berna, Svizzera kunstmuseumbern.ch

in alto a sinistra: Carol Rama, Appassionata, 1940, GAM – Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, Turin, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, Courtesy Fondazione Torino

Musei.
Photo: Studio Fotografico Gonella, by courtesy of the Fondazione Torino Musei © 2025 Archivio Carol Rama, Torino
sopra: Carol Rama in her home and studio, 1994. Photo: Pino Dell’Aquila © 2025 Pino Dell’Aquila
CAROL RAMA / BERNA

Vilhelm Hammershøi: il pittore del silenzio in mostra a Rovigo

Ci sono silenzi rilassanti e altri inquietanti, che scaturiscono da atmosfere sospese, in cui pesa l’assenza umana. Una poetica attorno alla quale la città di Rovigo dedica un progetto espositivo dove, al centro, giganteggia la figura di Vilhelm Hammershøi, il più importante pittore danese vissuto tra la fine del XIX Secolo e gli inizi del XX. Ospitata a Palazzo Roverella e curata dall’impeccabile Paolo Bolpagni, la mostra comprende 14 opere di Hammershøi e un ampio “contorno” dedicato ad altri pittori del silenzio, quelli cioè

Fino al 29 giugno 2025 HAMMERSHØI E I PITTORI DEL SILENZIO

A cura di Paolo Bolpagni

Palazzo Roverella

Via Giuseppe Laurenti 8/10, Rovigo palazzoroverella.com

in alto: Vilhelm Hammershøi Luce del sole nel salotto III. Strandgade 30, 1903. Stoccolma, Nationalmuseum © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser

a destra: Vilhelm Hammershøi, Luce del sole nel salotto III, 1900 circa. Stoccolma, Nationalmuseum © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser

che scelsero di raffigurare ambienti domestici privi di persone o con figure solitarie e spesso immobili. Una tradizione che affonda le radici nei dipinti dei maestri del Seicento olandese e fiammingo, oltre che della Scuola dell’Aja affermatasi nella seconda metà dell’Ottocento.

ASCETICO, ANTINARRATIVO E MAGNETICO

Il confronto con i lavori di Charles-Marie Dulac, Georges Le Brun, Xavier Mellery e tanti altri, è funzionale a ricreare il contesto dell’arte di Hammershøi, nonché l’ispirazione che ne ricavarono alcuni pittori, anche italiani, che subirono il fascino delle sue atmosfere (da Oscar Ghiglia, Giuseppe Ar e Umberto Prencipe, a Carl Holsøe e Charles Mertens). Ma l’accostamento mette pure in risalto la perfezione formale e il potere magnetico delle tele del danese, le cui scene si connotano anche per una rigorosa impostazione geometrica: “Quello che mi fa scegliere un soggetto sono spesso le sue linee, quel che io chiamo il carattere architettonico del quadro. E poi, naturalmente, la luce, che importa molto”, dichiarò lo stesso artista. Alle stanze vuote Hammershøi - “irriducibile a ogni categorizzazione” secondo il curatore Bolpagni - alternò ambienti in cui compare la figura della moglie, spesso di spalle, intenta a suonare la spinetta, affacciata a una finestra o ancora

affaccendata in mansioni domestiche. Si tratta di tele ascetiche, antinarrative, connotate da un repertorio limitato e da una gamma cromatica tenue, giocata sulle tonalità dei grigi, dei marroni e degli azzurri. Diventano così visibili l’incomunicabilità – aspetto che emerge anche e soprattutto nei ritratti – e l’impossibilità di accedere al mondo interiore degli altri.

UNA FORTUNA RITROVATA

Dopo decenni di oblio, l’artista sta vivendo una clamorosa riscoperta. Proveniente da una famiglia borghese, Vilhelm Hammershøi ebbe una formazione accademica ed elaborò poi il suo stile personale che praticò, pressoché inalterato, fino alle ultime opere. Già all’inizio del XX Secolo ottenne grandi successi: nel 1900 si aggiudicò la medaglia d’argento all’Esposizione Universale di Parigi seguita, nel 1911, dal primo premio all’Esposizione Internazionale di Roma. Dopo la sua morte, racconta Bolpagni, una sorta di “maledizione” calò su Hammershøi, complice la sua siderale distanza dalle avanguardie storiche allora dominanti. Un velo di silenzio si posò sui suoi quadri – con qualche eccezione, come il regista Carl Theodor Dreyer che li citò spesso nei suoi film – fino ai primi Anni Ottanta, quando il Musée d’Orsay acquistò Il Riposo e organizzò poi la prima grande retrospettiva moderna sull’artista. Si ricominciò così a parlare di Hammershøi e ora le sue quotazioni sono altissime, i dipinti ricercati e i musei gelosi delle sue opere: ecco perché aver riunito un nutrito nucleo di lavori a Rovigo ha del miracoloso. La mostra dà conto di varie tematiche, dalle vedute cittadine a una curiosa sezione dannunziana, fino a un gruppo di “paesaggi silenziosi” di autori ascrivibili o paragonabili ad Hammershøi. Sono anch’essi “pittori del silenzio” che ci accompagnano in un universo solitario, fuori del frastuono e dal caos.

Io sono Leonor Fini. A Milano la mostra della pittrice che superò il Surrealismo

“Io sono principalmente interessata a me, e le donne sono io”. Osservando Leonor Fini (Buenos Aires, 1907 - Parigi, 1996) nelle centinaia di scatti e autoritratti giunti fino a noi, leggendo i suoi scritti e ascoltandola parlare in video, è impossibile pensare che sia stata dimenticata. Piuttosto, è facile supporre che l’ombra calata sulla su a fama nella seconda metà del Novecento sia intenzionale, una repressione piccata contro una donna che non poteva essere controllata, omologata, racchiusa in una sola facile identità. Perché questo era Fini, che oltre a palesarsi come artista folgorante ed eclettica è stata anche e soprattutto una sciamana misterica, un’apparizione ora ctonia ora bacchica. E così appare nella grande mostra che Palazzo Reale, a Milano, le dedica.

UNA VISIONE SFAVILLANTE DI FANTASIA

La retrospettiva curata da Tere Arcq e Carlos Martín – che l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi ci tiene a definire una “declinazione milanese”, visto il legame con l’archivio del Teatro

alla Scala, con quella famosa mostra nel 1929 e con una delle retrospettive di “riscoperta” da Tommaso Calabro, nel 2022 – è un’ambiziosa raccolta delle molte anime dell’artista italo-argentina. Oltre alla settantina di dipinti sono presenti disegni e fotografie, costumi d’opera e progetti di scenografie, libri illustrati e video d’epoca: comune a tutte queste declinazioni è una visione sfavillante di fantasia, popolata da figure femminili mitologiche e dominatrici, da uomini delicati, da gatti e angeli, teschi e piume, che compongono panorami ora macabri, ora folgoranti, o più spesso le due cose assieme. È il caso della dea silenziosa de Le Bout du monde (1948), ultima creatura sulla terra, e delle odalische di alabastro di Rasch, Rasch, Rasch mein Puppen Warten! (1975), e, andando ancora più addentro al mistero, della pletora di sfingi, streghe e alchimiste cui sono giustapposti gli uomini, terreni e quasi gracili (come nel Portrait de Nico, Monte Carlo 1942), funebri nature morte e corpi dissezionati (L’Ange de l’anatomie, 1949). Un interesse, questo, per il macabro, in cui il curatore Carlos Martín ha rintracciato “una pulsione di morte, un istinto che contiene il suo opposto, l’élan vitale e il desiderio”.

OLTRE LE CONVENZIONI

Attraversando le nove sezioni tematiche di cui si compone il percorso, aperto fino al 22 giugno, ci si addentra nell’immaginario “surraffaellita” di Fini, che attinge e rielabora la cultura del proprio tempo, tra le letture di Svevo, Freud e Jung e l’osservazione dei colleghi e amici Ernst, Dalí, Man Ray, senza tralasciare la lezione dei grandi maestri del passato, Piero della Francesca, Michelangelo e i manieristi. Superando la semplice declinazione di temi ricorrenti, Fini sviluppa tematiche assolutamente personali, creando un modello originale dal sapore archetipico e matriarcale da cui gemmano delle nuove considerazioni sulla società e la famiglia – la sua per molti anni è quella, a tre, con Stanislao Lepri e Constantin Jelenski –, così come sui concetti di mascolinità e femminilità. Categorie alle quali, nonostante venga accostata al femminismo della differenza, si affidava sempre meno: “Gli uomini sono meno virili di quanto credono o fingono di credere. È un atavismo antichissimo che li porta ad accentuare questi tratti a scapito di altri più profondi. Io sono a favore di un mondo di sessi non differenziati”.

Questa decostruzione, frutto di anni di osservazione della realtà e di una sua decodificazione e ricodificazione, è messa in pratica soprattutto dalla metà degli Anni Sessanta con le castrazioni dei personaggi maschili, secondo Peter Webb la sua “svolta politica”. A partire da Le Fait accompli (1967), avviene un progressivo “rifiuto dell’idea di superiorità fallica”, e soprattutto “una indagine molto più seria sulle origini delle

Fino al 22 giugno 2025

IO SONO LEONOR FINI

Curata da Tere Arcq e Carlos Martín Palazzo Reale, Milano palazzorealemilano.it

Giulia Giaume
in alto: Leonor Fini, Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen Warten!, 1975, Private Collection
© Leonor Fini Estate, Paris
a destra: Leonor Fini, Dans la tour (Autoportrait avec Constantin Jelenski), 1952, Private Collection
© Leonor Fini Estate, Paris

costruzioni fallocentriche di genere e sessualità della società”. Anche per questo la rappresentazione dei genitali femminili diventa sempre più vivida, con l’approdo finale alla carnosa vagina-farfalla de La Leçon de Botanique (1974). Opera che riflette anche un rapporto con la natura “primordiale, selvaggio e profondamente pagano” che la portò a scegliere “di vivere la sua vita al di fuori dei vincoli e dei costumi di una cultura di cui non si sentiva parte o nemmeno rispettava”, sottolineano la curatrice Tere Arcq e la professoressa Susan Aberth nel catalogo edito da Moebius (che raccoglie anche dei testi di Fini, autrice di romanzi, storie e fiabe).

LA COMPLESSITÀ IRRIDUCIBILE

DI LEONOR FINI

Vicina a molte artiste del proprio tempo –come le grandi Meret Oppenheim, Dora Maar, Leonora Carrington, Lee Miller, Dorothea Tanning, Frida Kahlo e Alice Rahon –, Fini sperimentò una fortuna più ardua delle colleghe. “L’opera di Fini rimane meno conosciuta di

LEONOR FINI, ARTISTA COSMOPOLITA

Milano

Approdata nel 1928, Leonor conquista dopo poco la sua prima mostra alla Galleria Milano, poi Barbaroux. Frequenta la scuola di Achille Funi (circolano voci, smentite, di una relazione) e amplia il suo giro di conoscenze nell’élite culturale italiana.

Trieste

Madre e figlia si spostano nella città di confine nel 1908, secondo alcuni studiosi per scappare da Herminio. Leonor sviluppa una forte passione per l’arte, i travestimenti e i gatti. Nel 1924 la prima collettiva.

Buenos Aires

Eleonora Elena Maria Fini vi nasce il 30 agosto 1907. Il padre Herminio proveniva da una famiglia di Benevento, la madre Malvina era triestina.

Parigi

Arriva nel 1931 e subito conosce Broglio, de Chirico, de Pisis, che la introducono a Ernst, Picasso, Cocteau, Breton e Dalì, e ancora Cartier-Bresson, Dior, Carrington e altri. Iniziano le collaborazioni con il Surrealismo, viaggia a New York con Julien Levy, espone al MoMA, si avvicina alle arti applicate. Tornata, conosce Fabrizio Clerici, a cui sarà legata da un duraturo sodalizio umano e professionale.

quella di altre artiste associate al movimento surrealista, questo è forse dovuto non solo alla sua vita personale decisamente anticonvenzionale, ma anche al fatto che il suo regno visivo è complesso da decifrare”, scrivono Arcq e Aberth. È questa complessità, con il categorico rifiuto ad appartenere a una corrente o un determinato movimento (femminismo incluso), la vera cifra dell’artista, che per tutta la vita si cimentò nei più diversi ambiti creativi realizzando opere uniche e impressionanti. La mostra a Palazzo Reale è una scoperta continua di questi spunti e delle sue libere incursioni nelle arti, che spaziano dalle illustrazioni del Satyricon alla grande boccetta disegnata per il profumo Shocking di Schiapparelli, dall’armadio misomorfo a cappelli e abiti pensati per Otto e mezzo di Fellini e il Ratto dal Serraglio di Mozart. In queste creazioni, così come nella vita privata, tra balli in maschera e soggiorni spiritici al monastero abbandonato di Nonza, si ravvisa una medesima qualità, propria di Fini: quella di immaginare, di osare, di brillare.

Monte Carlo Nel 1940, al mutare del clima politico, si sposta da Parigi a Monte Carlo con gli artisti che non vogliono (o possono) emigrare in America. Conosce il console Stanislao Lepri e instaurano una lunga relazione.

Roma & Parigi

Spostatasi nella capitale, tiene esposizioni di grande rilievo. Resta tuttavia fraintesa dai più, e il suo personaggio mondano tende a oscurare la sua opera.

Fini torna a Parigi dal 1946, vive con Lepri e Constantin (Kot) Jelenski, e si realizza sempre più compiutamente. Molte le mostre e le collaborazioni con balletto, teatro e cinema: è un periodo di intensa attività, e raggiunge il successo internazionale. Dagli Anni Settanta si dedica a illustrazione e letteratura, e sperimenta temi come sessualità, trasformazione e mistero. Nel 1996, alla morte, viene sepolta accanto a Lepri e Kot.

Parigi
Trieste
Milano
Roma
Monte Carlo
Parigi

Marisa Merz. La Signora dell’Arte Povera al Kunstmuseum di Berna

Èsempre una donna ad essere al centro della seconda proposta espositiva del Kunstmuseum per il 2025. Qui, però, l’Arte Povera non è un temporaneo avvicinamento. Con Marisa Merz (Torino, 1926 - 2019) si ha a che fare con una dei protagonisti. Una… e unica: sola donna ad aver preso parte alla prima mostra del ‘67 alla Galleria Bertesca di Genova, sola a risultare nel nucleo centrale della corrente che fece dei materiali umili il medium artistico d’elezione. A sei anni dalla morte, l’istituzione di Berna la ricorda con la mostra Marisa Merz. Ascoltare lo spazio riunendo un corpus di 80 lavori che restituiscono la sua produzione multimaterica, arricchita da un ricco apparato documentale.

LA SIGNORA DELL’ARTE POVERA

Maria Luisa Truccato, poi nota come Marisa Merz, nasce nella Torino del Primo Dopoguerra, di cui presto esplora la scena artistica, frequentandola già negli Anni Quaranta. Fa da modella a Felice Casorati e intanto visita i musei di arte antica, si lascia incuriosire dal Futurismo. Tutti elementi che ritorneranno in futuro. Le sue prime opere importanti sono senza dubbio le Living Sculptures, presentate, ai tempi, alla Galleria Sperone nel ‘67, quando ha già conosciuto (e sposato) Mario Merz, da cui prenderà ovviamente il cognome. Un anno dopo comincia a sperimentare con fil di rame e nylon, aprendo la strada alle creazioni a metà tra arte e artigianato, oggi poste sotto il nome di Arte Povera. Ma la sua ricerca creativa non si limita al materiale; come restituiscono i documenti

poca distanza da Roma, dove Claudio Abate la fotografa mentre abbandona piccole opere di nylon sulla sabbia, lasciando che siano le onde del mare a portarle via. Muovendosi tra storia dell’arte e quotidianità, mette in discussione la tradizione, dando valore e significato alla materia più umile e inerte.

LA MOSTRA

Il Kunstmuseum realizza la più grande esposizione dell’artista tenutasi in Svizzera da 30 anni. Un complesso di disegni, dipinti, sculture e installazioni in cui l’artista torna sugli stessi motivi, sugli stessi materiali, mutando però di volta in volta il significato. E se nel suo - soprattutto femminile - sembra di rivedere la classicità della statuaria greca e romana, nella sostanza, nelle inattese maglie di nylon, si rileva una contemporanea originalità. Se ci si pensa, esiste un certo parallelismo anche in riferimento alla questione . Un dibattito acceso nell’antichità - ove il prestigio intellettuale di creavano con le mani” era scarsamente riconosciuto - quanto vero anche per Merz. Il suo impegno nel superare la dicotomia tra artigianato e arte è un carattere costante della sua produzione. Scorrendo le opere, emerge la loro serialità, che pur nella ripetizione si articola in minime, attraenti, variazioni. Si è spinti a cercare le differenze, a cogliere il susseguirsi di volti prima rilucenti della loro copertura in

foglia d’oro, poi avvolti nel filo di rame. Ancora, li si vede poi riprodotti dipinti su carta e tele, in ulteriori rimodulazioni, frutto di studio e, sicuramente, di un certo divertimento nel ricercare ogni ora il diverso nell’apparente ordinarietà. Nel rendere prezioso ciò che di norma è grezzo.

Fino al primo giugno 2025 MARISA MERZ. ASCOLTARE LO SPAZIO

A cura di Livia Wermuth

Kunstmuseum Bern

Hodlerstrasse 8, Berna, Svizzera kunstmuseumbern.ch

in

a sinistra: Marisa Merz, Untitled, n. d., Merz Collection.
Photo: Renato Ghiazza © 2025, ProLitteris, Zurich
alto a sinistra: Marisa Merz, Senza titolo, 2002–2003, Merz collection. Foto: Renato Ghiazza. Courtesy Fondazione Merz – Gladstone Gallery, New York – Thomas Dane Gallery, London in alto a destra: Marisa Merz in Florence, 1996. Foto: Gianfranco Gorgoni © Maya Gorgoni

Cos’è un curatore? Parola a Luca Massimo Barbero

Èuno dei curatori più richiesti in Italia e non solo. Luca Massimo Barbero ha una formazione atipica che lo ha portato prima a studiare Agraria, poi a iscriversi a una scuola d’arte visive e fotografia negli Stati Uniti, approdando quindi all’Università di Ca’ Foscari a Venezia con il professor Giuseppe Mazzariol e cominciando a lavorare ancor prima di aver conseguito la laurea. Barbero – che per oltre 15 anni è stato Associate Curator alla Collezione Peggy Guggenheim – tra le mostre più significative della sua carriera ne cita quattro: quella di disegni di Lucio Fontana allestita a Verona nel 1986, “una sorta di incosciente amore per l’artista cui poi dedicherò una parte della mia vita”; la grande rassegna su Peter Greenaway nel 1993 al Museo Fortuny a Venezia; Time & Place: Milano/Torino al Moderna Museet di Stoccolma nel 2008 e ancora Lucio Fontana. Venice / New York al Guggenheim di New York, un progetto che ha visto tornare il maestro dello Spazialismo nella Grande Mela nel 2006 dopo una lunghissima assenza. “Inoltre ricevo grandi soddisfazioni dalle mostre che faccio con i giovani e i giovanissimi artisti, perché mi divertono molto”, aggiunge il curatore che abbiamo raggiunto per svelare il suo punto di vista sulle grandi mostre.

in alto: Luca Massimo Barbero. Foto Lorenzo Palmieri a destra: Andy Warhol, Marilyn, 1967, particolare della mostra: Andy Warhol. Triple Elvis Gallerie d’Italia Napoli 25 settembre 2024– 04 maggio 2025. Foto: Luciano Romano

Secondo lei cos’è una grande mostra? Sempre più spesso una grande mostra può essere una mostra dossier o un progetto che comporta significative difficoltà per riuscire a ottenere le opere, oppure che rappresenta un approfondimento, come nel caso di Picasso. Sulla spiaggia (sempre alla Collezione Peggy Guggenheim, nel 2017) dove erano esposti tre importantissimi dipinti e rarissimi disegni di Picasso - opere mai più riunite da allora - in due sole sale. L’idea di grande mostra dipende da quanto lavoro richiede. Inoltre io cerco, anche nel caso di artisti che studio da tanti anni, di non ripetere solo ciò che un tempo si chiamava il “cavallo di battaglia”.

Una volta deciso il tema della mostra, come si svolge il suo lavoro?

Innanzitutto non esiste un incarico di curatore se prima non c’è un’idea curatoriale. Inoltre non posso curare o ideare una mostra senza avere chiaro un pensiero critico, e poi devo capire il metro, il ritmo, l’idea del luogo in cui l’esposizione prenderà corpo, perché il passo e lo sguardo rispetto all’architettura sono molto importanti. Insomma, io “cammino lo spazio”, lo stesso con cui i visitatori si dovranno confrontare. Generalmente cerco sempre uno scarto, che sia spostare una parete, metterne una nuova, scegliere un colore. Poi si tratta di “orchestrare” il tutto, di fare sostanzialmente la regia del progetto

insieme alle altre figure: i registrar, chi si occupa di trasporti o assicurazioni, i conservatori. Tutti si devono sedere attorno a un tavolo e non può esserci un curatore “superstar”.

Quali sono le maggiori problematiche che affliggono il settore delle grandi mostre?

Oggi ci sono enormi criticità, a partire dai costi immensi che devono affrontare l’istituzione o il committente per allestire un’antologica e che non riguardano solo i valori delle opere, ma anche l’imballaggio, il trasporto, l’assicurazione, ecc.. Il background è oneroso e talvolta, devo dire, discutibile: sarebbe necessario pensare più eticamente a delle mostre che abbiano un senso rispetto al budget. Inoltre ci sono criticità legate alla conservazione, aspetto che è senz’altro positivo, ma si riverbera sulla possibilità di ottenere dei grandi capolavori. Vige oggi una nuova idea di tutela derivata dalla preziosità dell’oggetto e che ci costringe a indirizzarci verso delle mostre mirate, perché i grandissimi capolavori ormai non si muovono più. Per l’arte italiana c’è un altro problema, quello dei vincoli e delle difficoltà di spostare opere che hanno più di 70 anni, che si scontra con l’esigenza dell’Italia di far vedere i nostri maestri all’estero. Da ultimo ci sono i costi sempre crescenti dei diritti di riproduzione che influiscono negativamente sulle pubblicazioni, sugli studi e sulla comunicazione.

MILANO

Dal 28 marzo all’8 giugno

SHIRIN NESHAT

Body of Evidence

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea pacmilano.it

Fino al 16 marzo

IL GENIO DI MILANO. Crocevia delle arti dalla Fabbrica del Duomo al Novecento

Gallerie d’Italia gallerieditalia.com

Fino al 16 marzo

IL NOSTRO TEMPO, CINÉFONDATIONCARTIER

Triennale Milano triennale.org

Fino al 23 marzo

LA GRANDE BRERA / MARIO CEROLI.

La forza di sognare ancora

Palazzo Citterio palazzocitterio.org

Fino al 13 aprile

ETTORE SOTTSASS

Architetture, paesaggi, rovine

Triennale Milano triennale.org

Fino al 18 maggio

GEORGE HOYNINGEN – HUENE

Glamour e Avanguardia

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 22 giugno

LEONOR FINI

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 29 giugno

CASORATI

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

BRESCIA

Fino al 15 giugno

LA BELLE ÉPOQUE

L’arte nella Parigi di Boldini e De Nittis

Palazzo Martinengo mostrabelleepoque.it

Dal 25 marzo al 24 agosto

JOEL MEYEROWITZ - A Sense of Wonder

Museo di Santa Giulia bresciamusei.com

TORINO

fino al 25 agosto

VISITATE L'ITALIA!

Promozione e pubblicità turistica 1900-1950

Palazzo Madama - Museo Civico d'Arte Antica di Torino palazzomadamatorino.it

Fino al 2 giugno 2025

HENRI CARTIER Bresson e l’Italia

Camera Centro italiano per la Fotografia camera.to

Fino al 7 settembre 2025

OLIVO BARBIERI. SPAZI ALTRI

Gallerie d’Italia gallerieditalia.com

PIACENZA

Dal 29 marzo al 29 giugno

GIOVANNI FATTORI 1825 – 1908

Il ‘genio’ dei Macchiaioli

XNL Piacenza xnlpiacenza.it

Dal 16 marzo al 20 luglio 2025

TRACEY EMIN

SEX AND SOLITUDE

Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org

PERUGIA

Fino al 23 marzo

DOROTHEA LANGE

Museo della città Palazzo della Penna  turismo.comune.perugia.it

Dal 22 marzo al 13 luglio 2025

GIORGIO GRIFFA. DIPINGERE L’INVISIBILE

Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it

Fino al 4 maggio

Dal 17 aprile al 22 luglio

TOMASO BINGA. EUFORIA

Museo Madre madrenapoli.it

CELEBRATING PICASSO

Palazzo Reale  federicosecondo.org

ROVIGO

Fino al 29 giugno

HAMMERSHØI E I PITTORI

DEL SILENZIO TRA IL NORD

EUROPA E L’ITALIA

Palazzo Roverella palazzoroverella.com

TRIESTE

Fino al 27 aprile

FOTOGRAFIA WULZ.

Trieste, la famiglia, l'atelier

Magazzino delle Idee magazzinodelleidee.it

FORLÌ

Fino al 29 giugno

VENEZIA

Dal 6 aprile al 4 gennaio 2026

TATIANA TROUVÉ

La strana vita delle cose

Palazzo Grassi pinaultcollection.com/palazzograssi

Dal 6 aprile al 23 novembre

THOMAS SCHÜTTE

Genealogies

Punta della Dogana pinaultcollection.com/palazzograssi

Dal 15 marzo al 31 agosto

ARTE SALVATA

Capolavori oltre la guerra

dal MuMa di Le Havre

M9 – Museo del ‘900 (Mestre) m9museum.it

Dal 12 aprile al 15 settembre

MARIA HELENA VIEIRA DA SILVA Anatomia di uno spazio

Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it

IL RITRATTO DELL'ARTISTA

Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it

Fino al 20 aprile

CHIARA FUMAI

Chiara says Chiara

Fondazione Pino Pascali fondazionepascali.it

BOLOGNA

Fino al 7 settembre

FACILE IRONIA. L'ironia nell'arte italiana tra XX e il XXI Secolo MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna museibologna.it

Fino al 30 marzo ANTONIO LIGABUE

La grande mostra Palazzo Albergati palazzoalbergati.com

Fino al 4 maggio

AI WEIWEI. WHO AM I? Palazzo Fava operalaboratori.com

Fino al 4 maggio

TONY CRAGG

Infinite forme e bellissime

Terme di Diocleziano  museonazionaleromano.beniculturali.it

Fino all’11 maggio 2025

BRANCUSI: SCOLPIRE IL VOLO

UCCELLIERE FARNESIANE

Parco Archeologico del Colosseo colosseo.it

Fino al 27 aprile

GUIDO GUIDI

Col tempo, 1956 -2024

Museo MAXXI maxxi.art

Fino al 6 luglio

CARAVAGGIO 2025

Palazzo Barberini barberinicorsini.org

Fino al 31 agosto

L’ARTE DEI PAPI.

Da Perugino a Barocci

Castel Sant’Angelo direzionemuseiroma.cultura.gov.it

BARI
ROMA

GRA Z I A I NS E R IL L O

Un seme p r ofond o a c ura d i G i anna P ani c ol a

4 marzo – 30 aprile 2025

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L’ARTE DEVE PRENDERE

POSIZIONE DI FRONTE ALLE

EMERGENZE DEL PRESENTE?

Il presente in cui viviamo ci costringe quotidianamente ad attraversare ed affrontare una attualità stringente. È necessaria una presa di posizione inequivocabile? Lo abbiamo chiesto a 9 artisti e curatori

FLAVIO FAVELLI

ARTISTA

Il presente passa, l’arte di meno. È importante prendere posizione rispetto allo scenario del mondo dell’arte e della società, ma non con le opere. Le opere sono e devono restare autonome, a distanza dalla realtà, com’è la natura dell’arte. E nessuno vive in una torre d’avorio e quindi i significati e concetti si rincorrono e passano in tanti modi. Non ci sono temi urgenti perché l’arte ha a che fare in qualche modo con l’urgenza. Poi arrivano quelli del realismo, che credono di essere come Pasolini o che mettono gli alberi d’ulivo in mostra, che credono di cambiare il mondo o combattere, che so, il capitalismo o l’inquinamento. Auguri. Il fatto è che chi è per un’arte impegnata presuppone che sappia la differenza fra bene e male. Ancora auguri. Quando venne censurato Ultimo Tango a Parigi, nel 1976, i difensori della causa contro la censura, che poi persero, cercarono di ribadire l’assoluta indipendenza dell’arte dall’atto morale.

CESARE

PIETROIUSTI ARTISTA

È del tutto ovvio che lo sterminio e la distruzione finalizzata alla trasformazione di una comunità in una “riviera” di lusso con tanti posti di lavoro da cameriere, suscitino indignazione e rabbia. Cionondimeno, chi si occupa di ricerca artistica non dovrebbe cadere nella trappola di tale ovvietà, e fraintendere una presa di posizione indiscutibilmente giusta per un’opera d’arte indiscutibilmente buona.

L’urgenza, per l’arte, non cambia: aprire possibilità per il pensiero e “ridistribuire”, anzi ampliare, l’accesso alle svariate forme del sensibile - sensazioni e significati, articolazione del linguaggio e consapevolezza critica, olfatto e spiriti, manufatti e danze. Tenere attiva, anche di fronte all’orrore, e prima di tutto dentro di sé, l’idea che la ricerca artistica è una dinamis che elabora le contraddizioni e non una riduttiva semplificazione antagonista. Disattivare gli atteggiamenti punitivi che, al fondo, sono forme di moralismo, che confermano i valori cui ci si voleva opporre. Rileggere, ancora, Nietzsche.

Dare forza e visibilità a tematiche di estrema urgenza è sempre complesso, gli artisti devono avere quell’alta dose di ironia e lirismo per non cadere nella retorica. In quest’ottica credo Mario Merz con l’opera Che fare?, possa rispondere alla questione posta. Nel 1968 poneva la fatidica domanda leniniana dando voce ai dubbi che correvano nei movimenti studenteschi, una domanda esistenziale quasi una chiamata alle armi ai movimenti artistici dell’epoca. Personalmente ho sempre preferito le allusioni alle declamazioni, l’arte dovrebbe risvegliare un erotismo sottile e magnetico, trasportando lo spettatore in un vortice di sollecitazioni e altre aperture che altrimenti rimarrebbero semplici asserzioni giornalistiche. Gli artisti fungono da recettori potenti della realtà, mentre noi curatori dovremmo essere degli attenti portavoce delle idee e dei messaggi che ci vengono proposti. In particolare, credo l’arte pubblica e partecipata possa essere un potente strumento di riflessione, incarnando le tensioni, le speranze e le contraddizioni della società.

ELENA QUARESTANI ASSAB ONE

Dall’arte, da un dipinto, da un brano musicale, da una performance io mi aspetto di essere sorpresa, commossa, folgorata, riorientata o disorientata. Vorrei che mi invitasse a lasciarmi abitare da pensieri nuovi. E, possibilmente, dalla bellezza, non dall’ennesima cronaca dei fatti. Per questo non potrei mai suggerire a un artista di quali temi si dovrebbe occupare. Non credo che fare politica sia compito dell’arte, anche se a volte accade (mi riferisco a Géricault, a Picasso, a Richter, solo per fare alcuni esempi). Penso che quello dell’arte debba essere, per chi la produce, uno spazio totalmente libero in cui esprimersi. Saranno poi le opere a inaugurare un dialogo, probabilmente diverso, possibilmente fertile, con ciascuno degli spettatori. Ovvio che tutti noi, artisti e non artisti, mentre assistiamo alle stesse tragedie, alle stesse esplosioni di bellezza e di orrore, abbiamo la responsabilità di prendere una posizione e di far sentire la nostra voce.

BENEDETTA CARPI DE RESMINI CURATRICE
a cura di SANTA NASTRO

BENEDETTA CASINI

CURATRICE

Ci sono artisti come Giulio Paolini che hanno rivendicato in tutti i modi la necessità di un’autonomia dell’arte e pure sono stati in grado, con i loro lavori, di stimolare riflessioni urgenti e attualissime (nel caso di Paolini la crisi dell’io, lo statuto dell’immagine e del contesto entro cui le immagini si muovono e operano). Chi ha esplicitamente espresso la necessità di occuparsi di attualità attraverso l’arte non sempre si è dimostrato altrettanto incisivo. Personalmente sono interessata a chi, più che porsi come interprete di realtà complesse troppe volte banalizzate in chiave poetica, ha il coraggio di mettersi in gioco in prima persona, veicolando attraverso il proprio lavoro questioni che lo toccano da vicino, intercettando sofferenze comuni alla generazione di cui fa parte, non di rado sintomatiche di storture sistemiche a maggiore scala: penso ad artisti come Antonio Della Guardia, o a Luca Marcelli Pitzalis, che attraverso il loro lavoro mettono al centro le problematicità del sistema entro cui si muovono, assumendo le contraddizioni che questo comporta.

MATTEO LUCCHETTI CURATORE

Credo che l’arte abiti uno spettro che comprende molteplici approcci e possibilità, più o meno legati all’attualità ma comunque espressioni della nostra epoca da registrare. Allo stesso tempo il posizionamento non è qualcosa da relegare esclusivamente all’opera, anzi talvolta la cosa può risultare opportunista, ma piuttosto da esprimere nella pratica, le metodologie, lo spazio discorsivo che l’artista costruisce intorno al proprio lavoro. In questo spettro poi esistono artistə, che sono forse quelle/i con le/i quali mi trovo più spesso a lavorare, che scelgono questo posizionamento etico, che è quindi intrinsecamente politico, nel modo in cui lavorano, nei temi che li interessano e li preoccupano, ma non per questo l’opera risulta in una formalizzazione didascalica. Ciò che, ad esempio, ricerchiamo a sosteniamo col progetto Visible da quindici anni, sono quegli artisti che si dedicano, in maniera più o meno esclusiva, a processi di lungo termine per immaginare, attraverso l’arte, possibili soluzioni ai problemi che affliggono la nostra contemporaneità.

DANILO ECCHER CURATORE

È più rivoluzionario un quadro come L’origine del mondo di Gustave Courbet che tante installazioni di fili spinati o di immagini di combattimenti e distruzioni. Quando l’arte cammina sul bordo del baratro tra retorica e aspetto didascalico è sempre perdente, soprattutto oggi quando stiamo attraversando un incredibile momento storico che va assaporato e analizzato in ogni aspetto. Non credo in quegli artisti, curatori, collezionisti, istituzioni pubbliche e private che mascherano un’idea di partecipazione rincorrendo un pensiero comune totalmente pilotato. Non credo nemmeno negli ignavi che fuggono dalle responsabilità per nascondersi nella fantasiosa purezza neutrale dell’arte.

Ma ancor più non credo nelle ‘anime belle’ pronte a scandalizzarsi e a indicare colpevoli e maligni ovunque non si concordi con loro. Mi piace invece credere nelle solide realtà: artisti, curatori, collezionisti, istituzioni pubbliche e private che diffidano dell’opinione pubblica, che scrutano le informazioni, che rifiutano vicinanze inutili o dannose, che non devono esibire la loro rocciosa presenza, che conservano l’autonomia del pensiero. Allora, solo a questi è concesso di incidere sulla realtà, allora solo questi potranno scrutare dalla cima il ‘mare di nebbia’, solo loro potranno creare, presentare, acquistare, sostenere anche un piccolo acquarello che potrà essere più esplosivo di una molotov.

CECILIA GUIDA

CURATRICE

L’artista si relaziona sempre al suo tempo, non in modo didascalico ma ribaltando il punto di vista e offrendo nuove prospettive. Non esistono temi più urgenti di altri: tutto lo è, e l’artista sa scavarne nel fondo la complessità. Per non sembrare astratta, faccio un esempio. Quando Marina Abramović lo scorso giugno al Festival di Glastonbury ha chiesto 7 minuti di silenzio a 200mila persone dicendo: “Stiamo davvero affrontando un momento oscuro della storia umana. Quindi cosa si può fare? Penso sempre che la violenza porti più violenza, la rabbia porti più rabbia. Qui, cerchiamo di fare qualcosa di diverso: possiamo davvero dare tutti insieme amore incondizionato l’uno all’altro, possiamo cambiare il mondo”, ha mostrato pubblicamente ciò che l’arte rende possibile. Un’utopia? Un rischio? Un intervento pretenzioso? Forse. Ma sicuramente quelle 200mila persone non dimenticheranno di aver vissuto un’esperienza incredibile, unite come un corpo collettivo, impegnate in un obiettivo comune.

MARCO SCOTINI CURATORE

La data è quella del 27 aprile 1934. A Parigi Benjamin tiene un eccezionale discorso dal titolo L’autore come produttore. Attacca subito con la questione se l’autore debba essere libero di non schierarsi oppure se debba invece seguire una tendenza. A differenza dell’autore borghese che non riconosce nessuna alternativa e si disinteressa del problema. Che dire? La storia si ripete e, purtroppo, non come farsa… Invitavo la cultura a prendere posizione già prima che ci trovassimo in questa drammatica situazione e adesso ci siamo dentro fino al collo: ritorno della censura di stato, sospensione nei musei americani del programma DEI, commissioni disciplinari a documenta, chi più ne ha più ne metta. A quando la riedizione della mostra sulla Entartete Kunst? Eppure, ci siamo riusciti. Non è vero che andavamo matti per Scene and Herd di Artforum, per la Top 100 di Art Review e per Claudia Schiffer alla Frieze Art Fair? Grazie all’arte siamo riusciti a far ri-apparire la ricchezza un fatto naturale! Così come il museo occidentale dissimulava il carattere criminale della storia istituendosi a deposito dell’universale. Mi pare che la cultura sia giunta al capolinea. Sennò ci sono sempre “i telefoni bianchi”.

CHE CONTRIBUTO DANNO LE REGIONI ITALIANE ALLA CULTURA?

inizio di marzo 2025 si è contraddistinto su Artribune all’insegna di una serie di articoli nati per criticare un’operazione di arte pubblica a Firenze e finiti per riflettere sul ruolo della Regione Toscana circa le politiche culturali del territorio.

Si tratta di un’ottima occasione per ragionare più in generale sul contributo che oggi le Regioni italiane danno alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale. Si scoprirà probabilmente che la Toscana non è l’unica regione che interpreta questo compito in maniera discutibile.

Nate nel 1970 per favorire un serio decentramento delle funzioni e dei poteri sul territorio, le Regioni hanno passato fasi alterne riguardo al loro rapporto con la cultura. Spesso armonizzate non con le reali esigenze del territorio e coordinate con gli altri enti locali ma appiattite sui gusti e sui personalismi del presidente di turno. Le Regioni, ancorché previste in Costituzione, sono nate solo nel 1970 e il loro ruolo sulla cultura ha immediatamente subìto un rallentamento già nel 1975 quando nacque il Ministero dei Beni Culturali che per certi versi centralizzò di nuovo alcune funzioni e decisioni. Ad un livello amministrativo inferiore poi le Regioni hanno comodamente demandato ai Comuni (peraltro sempre più fiaccati da risorse insufficienti e da tagli decisi a Roma) l’onere di organizzare mostre, produrre cultura, promuovere teatri e biblioteche, proporre stagioni estive, gestire musei e farne nascere di nuovi.  Dunque, le Regioni – strette tra la presenza dello Stato e la riconoscibilità da parte dei cittadini dei Comuni – cosa fanno se si parla di cultura? Spesso appunto si trovano a disposizione un margine di manovra eccessivo ed una scarsa attenzione mediatica che le porta a fare quel che è si è visto a Firenze: eventi scadenti privi di un coordinamento e di una linea scientifica. Oppure orientando lauti finanziamenti su contenuti di interesse del presidente in carica pro tempore. Anche quando qualche regione si è mossa in maniera proattiva, all’insegna della qualità e profondendo investimenti di impatto, le motivazioni di base sono state personalistiche. Non scelte strutturali o statutarie, ma decisioni del singolo principe che in quel

L'installazione delle sculture di Emanuele Giannelli in Piazza Duomo a Firenze

momento aveva deciso così. È il caso senz’altro della Campania di Bassolino o della Puglia di Vendola solo per fare due esempi.

E si noti come il riferimento è sempre il presidente dell’ente piuttosto che l’assessore alla cultura che molto spesso neppure c’è, come nel caso della Toscana di cui abbiamo parlato nei giorni passati. Un caso in senso contrario è stato Michele Coppola il quale, ancora under 40, svolse il suo di assessore alla cultura nella Regione Piemonte prima di buttarsi nell’avventura delle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo. Ma anche, più recentemente, di Mauro Felicori che dopo aver diretto brillantemente la Reggia di Caserta venne scelto da Bonaccini all’assessorato alla cultura della Regione Emilia-Romagna.

Casi sporadici ed eccezioni che confermano la regola a fronte di intere regioni importantissime per la società, la politica e l’economia italiana che quando si parla di cultura nella migliore delle ipotesi scompaiono. E nella peggiore inanellano figuracce tipo la Toscana di cui sopra. È il caso della Lombardia, economicamente più popolosa e ricca di una media nazione europea, con un’assessora alla cultura totalmente trasparente per anni e assurta ai disonori delle cronache (anche di questo abbiamo parlato su Artribune qualche settimana fa) solo quando, strumentalizzando alcuni problemi tecnici del Louvre, chiese provocatoriamente di poter ospitare in Lombardia la Monna Lisa di Leonardo Da Vinci…

Il Veneto anche fa fatica a distinguersi e quando si deve affacciare sul palcoscenico dell’arte che conta (la regione ospita la mostra d’arte contemporanea più importante al mondo, la Biennale di Venezia) lo fa con un padiglione regionale – chiamato Padiglione Venezia – quasi sempre molto deludente, provinciale, folkloristico. Ma è un problema diffuso delle regioni che hanno al loro interno una città di così grande richiamo capace di monopolizzare le attenzioni: provate – passando al Lazio – a dirci cosa rappresenta l’impegno culturale nella città di Roma dell’ente regionale: non ci riuscirete. Tutto è “comunale” o “nazionale”, la regione non esiste nella Capitale. Si limita ad occuparsi di sanità e trasporti pubblici, non sempre efficacemente. Discorso a sé fanno giocoforza le regioni a statuto speciale dotate di deleghe e compiti diversi e talvolta protagoniste in positivo e ben più spesso in negativo. A fronte di qualche attività sporadica e concreta del Friuli, abbiamo avuto varie scelte discutibili in Sicilia o in Trentino, dove politici locali senza scrupoli (ma soprattutto senza la minima esperienza) sono riusciti a squalificare nel giro di pochi anni un’istituzione come il Mart di Rovereto che solo oggi azzarda un difficilissimo rilancio.

Sarebbe facile dare la colpa all’inadeguatezza dei singoli politici di turno. Il problema è invece che queste figure, non sempre all’altezza, si muovono in un contesto discrezionale. Dove possono fare quello che gli pare abbastanza di nascosto, sfruttando la presenza di enti più visibili e riconoscibili come lo Stato a monte e i Comuni a valle. In un quadro di competenze che andrebbe quindi risistemato. Si può decidere che le Regioni non facciano nulla sulla cultura, assegnando tutte le competenze (e le risorse!), che oggi le regioni orchestrano senza grande efficacia, agli altri enti. Oppure si può decidere che le Regioni facciano molto e si prendano le loro responsabilità rispondendone ai cittadini, agli elettori, ai contribuenti e agli operatori culturali. Quello che non si dovrebbe perpetrare è lo status quo, con Regioni che fanno poco e a casaccio a seconda degli umori del momento.

Museo Leonardo3: un patrimonio d’interesse pubblico da tutelare

Il Comune di Milano

vuole chiudere

il Museo Leonardo3

Sostienici con una visita o scrivendo un’e-mail a press@leonardo3.net

Museo Leonardo3

Piazza della Scala, ingresso Galleria

Milano

Con il dovuto rispetto, trovo profondamente sconcertante che il Comune di Milano, anziché sostenere il Museo Leonardo3 e confermarne la presenza nella sua posizione privilegiata nella Galleria, dove attrae oltre un quarto di milione di visitatori all’anno, sembri fare il contrario.

Percorrendo il braccio centrale della Galleria, si incontra questo notevole museo dedicato alle conquiste della più grande personalità che abbia mai vissuto e lavorato nella famosa città di Milano. Guardando poco oltre la Galleria, dall’ingresso del museo, si può vedere il grande monumento a Leonardo da Vinci in Piazza della Scala. Cosa potrebbe esserci di più appropriato?

Sono supervisore scientifico di Leonardo3 da oltre tre anni. Inizialmente, ero riluttante a essere coinvolto, dato il livello generalmente scarso dei musei privati in Italia dedicati al Maestro. Inoltre, come accademico, sono propenso a non farmi coinvolgere in questo tipo di attività. Invece, una volta che mi sono impegnato con il museo, sono stato totalmente conquistato dalla serietà con cui il suo team conduce il lavoro di ricerca per ciascuno dei nuovi progetti presentati ogni anno e per i contenuti offerti nelle sale del museo. La ricerca è di prim’ordine: è condotta da un eccellente giovane studioso, Marco Versiero, e dall’ingegnoso Edoardo Zanon. A quest’ultimo si deve poi la realizzazione di modelli funzionanti, la migliore che io abbia mai visto in qualsiasi altro luogo. Questa eccellenza è alla base dei loro programmi didattici e degli eventi pubblici. Anche l’accoglienza della stampa è molto favorevole, come posso testimoniare essendo stato coinvolto direttamente nei loro eventi. È un privilegio essere parte di tutto questo. Leonardo3 svolge un lavoro di divulgazione in favore del pubblico che si distingue da quello del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. Nei suoi spazi più piccoli, propone itinerari di scoperta brillantemente concepiti secondo una fondata autenticità. L’esperienza dei residenti locali e dei visitatori di varia provenienza risulta enormemente arricchita dalla presenza di questo museo nel centro di Milano. Confido che questa esperienza verrà mantenuta in questa posizione così strategica della città. Siamo adesso a 12 anni di successi dalla sua apertura e il Museo Leonardo3 merita ampiamente di essere sostenuto da tutte le Autorità, locali e nazionali.

Esprimo infine il mio pieno sostegno al validissimo direttore di Leonardo3, Massimiliano Lisa.

Martin Kemp

Professore emerito del Trinity College di Oxford, Gran Bretagna

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n°6 di 75 musei specializzati a Milano

n°14 di 349 musei a Milano

1,9 milioni di visitatori dal 2013

270 mila visitatori nel 2024

Membro di ICOM e AICC

Premio di Rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

IL BOTANICAL TURN DELL'ARTE CONTEMPORANEA

Non occorre avere toni allarmistici per sapere che l’emergenza più grave, e vastamente avvertita dagli artisti di tutto il mondo, è quella del cambiamento climatico. Le preoccupazioni ecologiche sono nate con la rivoluzione industriale e sono state presenti nella sensibilità di molti già dalla metà dell’Ottocento: il libro di avvertimento

Walden-Vita nei boschi del poeta americano Henry David Thoreau (1854) ha formato generazioni e sta alla base persino dei primi specchi portati nella natura da Robert Smithson e fotografati per un notorio articolo seminale sulla rivista Artforum (1968). L’ecologia alla quale si è iniziato a pensare dagli Anni Sessanta, e quindi tutta la Land Art, partiva però da presupposti filosofici che si opponevano a un’idea generale della natura imprevedibile (Lucrezio), divina (Spinoza), assoluta (Schelling) o matrigna (Leopardi); mancava ancora un allarme provato dalla scienza riguardo al nuovo atteggiamento estrattivo, dominante e lesivo da parte dell’uomo. Il primo serio Rap-

L’atteggiamento delle nuove generazioni

è più consapevole, più disperato, più informato che nel secolo scorso

porto sullo stato del pianeta fu pubblicato dal MIT solo nel 1970. Oggi abbiamo economisti come Tim Jackson che avvertono anche in sedi ufficiali, dai convegni universitari americani al Parlamento Europeo, della necessità di sostituire l’accoppiata Growth/Wealth (crescita basata sul PIL) con quello Health/Care (salute centrata sulla cura). È evidente che gli artisti di ora non sono semplici camminatori, come gli inglesi Richard Long o Hamish Fulton, o costruttori di strutture inerti in differenti deserti, come gli statunitensi Nancy Holt, Michael Heizer, James Turrell, Walter De Maria. L’atteggiamento delle nuove generazioni è più consapevole, più disperato, più informato che nel secolo scorso e cerca di fare opere che agiscano nell’ambiente ma non lo occupino in modo invasivo. Al massimo ci si ispira a esperienze come la Spiral Jetty di Smithson (1969/70), con la sua disponibilità a farsi modificare e anche annullare dal

tempo, o al mimetismo nell’ambiente delle Settemila Querce (1982) di Joseph Beuys o ancora alla pazienza monacale con cui Wolfgang Laib raccoglie pollini e cere per farne quadri e ambientazioni. Ciò a cui si guarda ora sono soprattutto gli eventi che il regno vegetale sa generare da solo o con l’aiuto di programmi computerizzati, nel segno di un’autocritica dell’antropocentrismo e della convinzione che la Terra non abbia affatto bisogno dell’uomo. Le basi teoriche si mescolano spesso a un femminismo che si estende a tutti i deboli e che quindi si riversa nella natura, con madri celebri come Rosi Braidotti e Donna Haraway e un padre pazzo ma lungimirante come Timothy Morton; almeno due italiani sono costantemente citati, il fito-neurologo Stefano Mancuso con (The Revolutionary Genius of Plants) e lo storico dell’arte Giovanni Aloi (Botanical Speculations, 2021 e Vegetal Entwinements, 2023).

Da queste premesse e dalla voglia degli artisti di mescolarsi ai processi vegetali è nato in particolare un “Botanical Turn” che si precisa in mostre sempre più interessanti. A Non-History of Plants (2024), il raffinato catalogo dell’esposizione tenutasi lo scorso autunno a Parigi, curata da Victoria Aresheva e Clothilde Morette, espone artisti che lavorano sulla simbiosi, la metamorfosi e la mutazione delle piante, con fotografie perturbanti come quelle di Ali Kazma, Almudena Romero, Angelika Roderer, Gohar Dashti, Agnieszka Polska tra gli altri. Non stupisce che il prossimo padiglione temporaneo della Serpentine Gallery, che si attende per giugno 2025, sia stato affidato all’architetta bengalese Marina Tabassum, il cui progetto prevede di costruire una sorta di serra divisa in quattro parti in modo da crearvi una temperatura piacevole per gli umani ma, anche, per le piante che vi alloggeranno. Proprio la Serpentine Gallery,

del resto, ha tenuto a battesimo la prima manifestazione di lunga durata su questo tema, General Ecology un contenitore nato nel 2019 a cura di Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos al cui interno hanno luogo conferenze, podcast, mostre e altri progetti. Il lavoro più noto nato in General Ecology è probabilmente quello che Alexandra Daisy Ginsberg ha dedicato agli impollinatori, realizzato a nei giardini di Londra ma anche, per esempio, al Vitra di Weil am Rhein, il centro tedesco alle porte di Basilea dove si susseguono ricerche di design ecologico del territorio Virtualmente, molti lavori sono ricreabili ovunque, poiché basati su algoritmi che presiedono alla scelta dei vegetali da giustapporre. Non si tratta di decisioni estetizzanti come nel caso, per esempio, di Patrick Blank, ma di sistemi, come nel caso di Ginsberg, pensati per gli occhi non-umani degli insetti che lo frequentano e di cui si vuole favorire l’attività impollinatrice.

Alcuni artisti presentano il lato ambiguo e talvolta velenoso del mondo vegetale: come si è visto alla Biennale del 2022, Precious Okoyomon utilizza un rampicante invasivo particolare e legato alla storia della schiavitù; in altri casi ha creato serre in cui le farfalle sembrano lottare con le piante per lo spazio vitale. Nell’ultima Biennale di Lione, Ugo Schiavi ha creato un’installazione abnorme in cui le erbe rampicanti riguadagnavano la loro libertà e il loro invasivo disordine presso il museo abbandonato di Storia Naturale. Spela Petric sostiene di avere avuto insegnamenti sulla necessità di non idolatrare il verde, dato che in casi come la Cuscuta, una pianta incapace di fotosintesi, la predazione resta comunque carnivora. Rashid Johnson, visto da Hauser & Wirth, utilizza le piante archiviandole in grandi mensole come fossero già in estinzione e dovessimo tenerne un catalogo che sia anche un memento. Daniel Steegmann Mangrané coltiva microorganismi in gelatina, oltre a chiudere piante in serre dalle aree biomorfe e raccogliere erbari improbabili. Hubert Duprat nutre un tipo di verme che, per crearsi il bozzolo, ingloba bacche e fogliame, ma anche perle, pietre preziose, oro, tutto ciò che avidamente gli serve per rendere più solido il suo corpo.

Ciò a cui si guarda ora sono

soprattutto gli eventi che il regno vegetale sa generare da solo o con l’aiuto di programmi computerizzati

È ovvio che tutto ciò non nasce adesso, e oltre agli esempi lontani ci sono stati esperimenti subentranti dagli Anni Ottanta e Novanta: la riappropriazione di terra, fango e fiori nelle Siluetas di Ana Mendieta, a mostrare un’unità corpo-natura che abbiamo dimenticato; i campi coltivati a grano da Agnes Denes vicino ai cantieri, da New York a Milano, per rammentare che ogni suolo costruito è stato prima terra fertile; le serre forzate da luci artificiali o in spazi contratti di Meg Webster, per parlare di come le piante resistano anche alle condizioni più infami; il recupero del riso originario thailandese presso The Land di Rirkrit Tiravanija (dal 1998) nell’ottica del recupero di antiche pratiche lavorative e sociali legate a una coltivazione che oggi non fa profitto; le delicate composizioni di sterpi, fiori e reticoli vegetali di Christiane Lohr, con un accento sull’interazione uomo-natura e la fragilità dei risultati; fino alle molte coltivazioni con-

divise il cui surplus viene diviso tra tutti, attraverso la consuetudine del lumbung, raccontate dalla documenta dei Ruangrupa. Già nella dOCUMENTA(13), del resto, René Gabri e Ayreeen Anastas avevano proposto il tema della produzione autarchica e organica del cibo, tema toccato spesso anche dalla slovena Marjetica Potrč. Purtroppo, le nostalgie di un’altra ruralità restano, appunto, rimpianti e denunce, ma non portano a sconfiggere i monopoli della monocultura. Esiste poi un mondo di creatori di ascendenza felicemente postumana che manipolano soprattutto funghi, per esempio creando fibre tessili per la moda o fotografando e disegnando il mondo fantasmagorico dei miceti: Yasmine Ostendorf-Rodriguez ha pubblicato il catalogo Let’s Become Fungal (Amsterdam 2023) che porta l’attenzione su artisti come Francisca Alvarez Sánchez, Carolina Caycedo, Annalee Davis, Sofia Gallisá Muriente e che ci spiega come le varie specie fungine reagiscono al collasso climatico. Anicka Yi è stata la più esplicita nel mostrarci la bellezza giocosa, mostruosa, catastrofica, forse mortale e forse invece salvifica delle metaspore che frequentano la nostra stessa aria. Anche in Italia molti stanno lavorando su questo versante, con una mostra e un volume a cura di Bertolino, Comisso, Guida e Pioselli su Bright Ecologies. Caretto/Spagna (2024), nonché il manifesto Art for Radical Ecologies (Venezia, 2024) curato da Baravalle, Braga, Riccio e Timeto. È lecito attendersi molte riflessioni sul tema della natura intrecciata alle reti urbane nella prossima Biennale Architettura, che apre a maggio per la cura di Carlo Ratti. Sappiamo da Voltaire che “coltivare il proprio giardino” è una ricetta per la vita felice. Ma in questo primo quarto di secolo, e sempre più intensamente, gli artisti citati e i moltissimi che mancano all’appello stanno indicando di non coltivarlo per odorarne le rose, in vista di un benessere sensuale e interiore, ma nell’ottica della sola via di scampo per proteggere un ecosistema che sopporti la specie umana.

Precious Okoyomon, the sun eats her children , 2023. Courtesy of the artist and Sant'Andrea de Scaphis. Photo Daniele Molajoli

ECOFEMMINISMO: UNA STORIA DI FANTASMI E DI MOSTRI

ANNA DETHERIDGE

Forse qualcuno ricorderà il bellissimo progetto delle sorelle australiane Margaret e Christine Wertheim e del loro Institute For Figuring, ispirato alle barriere coralline a rischio di sparizione nel mondo a causa del riscaldamento globale e l’incuria dell’uomo. Il Crochet Coral Reef Project che è stato esposto alla Biennale di Venezia nel 2019, oltre che in molti luoghi del mondo, è stato realizzato all’uncinetto, antica tecnica da sempre identificata con il genere femminile, replicando in lana, seta o cotone ma anche in plastica riciclata quelle forme meravigliose create dalla natura. L’idea progettuale nasce nel 2005 dal dolore delle due sorelle Wertheim per i crescenti danni alla Grande Barriera corallina del Queensland, la loro terra di origine. Negli anni il progetto ha visto la partecipazione entusiasta di comunità e gruppi di persone in tutto il mondo, quasi fosse un lutto collettivo, oppure una sorta di ponte di valore simbolico per elaborare la perdita di quei paesaggi coralline di una bellezza incomparabile. Ma quelle magnifiche ricostruzioni artigianali a volte in grandi dimensioni rappresentano anche una metafora di qualcosa di più profondo. Ideate da Margaret, biologa e scrittrice di scienze e Christine, laureata in letteratura e semiotica, docente alla California Institute of the Arts, corrispondono a una visione ecologica che unisce arte e scienza a partire da una geometria iperbolica ossia “delle superfici a curvatura negativa”, secondo i modelli di una matematica non euclidea. Nel Coral Reef Project le opere all’uncinetto diventano paesaggi fantascientifici, metafore ibride lavorate a mano, con una evoluzione propria che in qualche modo replica quella biologica. Il progetto viene descritto e portato avanti sul filo della metafora affiancando l’evoluzione biologica del reef e del suo artefatto costruito in maniera analogo. Un linguaggio comune unisce la biologia marina e i paesaggi corallini artigianali, fatti di fili, filamenti, fibre, membrane, tessuto, rete, ecc. Arte, scienza e attivismo sono al centro del celebre saggio Staying with the Trouble di quasi dieci anni fa di Donna Haraway, femminista e studiosa transdisciplinare dell’Università della California Santa Cruz. In un’intervista ri-

Come vivremo, dunque, in un mondo patriarcale che crede ancora nella tecnofix, la dose che risolverà tutto?

lasciata ad Artforum poco dopo la pubblicazione del suo libro, Haraway afferma: “Uno dei compiti più urgenti che noi creature mortali (critters nell’originale) abbiamo, è quello di creare parentele (making kin) con e tra gli altri esseri umani e non umani (...). Propongo di creare delle affinità non genealogiche, una priorità assoluta per gli oltre undici miliardi di esseri umani entro la fine di questo secolo – un tema che è già terribilmente importante. Sono interessata a prendermi cura della Terra in un modo che faccia della giustizia ambien-

tale multispecie, il mezzo e non soltanto il fine”. Gli scritti di Donna Haraway includono spesso parole gergali e terminologie oscure rubate alle scienze, che rivitalizzano il linguaggio introducendo nuovi concetti attraverso metafore che appartengono agli stessi mondi che descrive, soprattutto dalla microbiologia, un campo in cui molte donne illustri hanno aperto strade nuove. Haraway illumina percorsi e nuove connessioni simbiotiche, spesso rivisitando vecchie idee, non necessariamente per confutarle, ma aggiungendo nuove prospettive.

La studiosa femminista, che ha compiuto 80 anni, fa parte di un’avanguardia intellettuale che è stata spesso liquidata con sufficienza in quanto femminista, e quindi “inaffidabile”, accusata di attivismo ideologico e, come

se non bastasse, di mescolare le discipline in uno stile di prosa creativo quanto critico nei confronti di nozioni patriarcali e gerarchiche che sottendono molti approcci alla ricerca scientifica. Eppure, il mondo scientifico, come anche quello dell’arte, deve molto al pensiero e all’attivismo femminista. Il femminismo e in particolare l’ecofemminismo nato negli Anni Sessanta-Settanta, oggi molto vicino all’ambientalismo sociale, combatte da decenni una battaglia sostanzialmente inascoltata contro poteri chiamati di volta in volta forti, patriarcali, egemonici, ma comunque autoritari, che oggi sembrano essere tornati con una veemenza inaspettata, determinati a distruggere ad ogni costo ogni cosa che contrasti con i propri interessi illiberali.

Negli ultimi decenni molte scienziate

che spesso non si limitano a essere ricercatrici, ma sono anche scrittrici, narratrici, artiste, animate da una spiccata volontà di raccontarsi anche al di fuori dal mondo scientifico, hanno contribuito a forgiare un’immagine della ricerca scientifica un po’ diversa, meno impettita e “tutta d’un pezzo”, preferendo invece una narrazione più veritiera, più vicina a un processo “sporco”, fatto di ipotesi, sperimenti e fallimenti, metafora del processo utilizzato dalla ricerca stessa. Come disse una volta Gregory Bateson, “coloro cui sfugge completamente l’idea che è possibile avere torto, non possono imparare nulla tranne la tecnica”.

Il nostro mondo non è più quello che era, e forse quel mondo non tornerà mai più

Rachel Carson (1907-1964) biologa e scrittrice, autrice di Silent Spring (1962), ispiratrice dei movimenti ambientalisti di base (grassroots environmentalism) è stata tra le prime a promuovere le campagne contro i pesticidi e il DDT, ad affrontare il tema degli ecosistemi attraverso libri quali The Edge of the Sea che esplorava la natura stranamente arcaica della vita marina costiera e a mettere in dubbio il paradigma del “progresso” scientifico che è stato il vanto della cultura statunitense del secondo dopoguerra.

In tempi più recenti due conferenze seminali avvenute nel 2014 con lo stesso titolo, Anthropocene: Arts of Living on a Damaged Planet, a maggio all’Università della California, Santa Cruz (UCSC) e in ottobre ad Aarhus, Danimarca, hanno visto la presenza di molti studiosi “intersezionali” o transdisciplinari da tutto il mondo: biologi, antropologi, filosofi, nomi illustri tra i quali James Clifford, Donna Haraway, Ursula K. Le Guin, Anna Tsing, Nils Bubant e molti altri. Gli interventi partono dalla domanda implicita nel titolo, “come vivremo su un pianeta danneggiato?”. Un’antologia di testi dallo stesso titolo risponde alla sfida di un cambio radicale di prospettiva a partire da due figure chiave: i fantasmi ossia paesaggi spettrali che popolano i nostri peggiori incubi come quelli di Gaza, e i mostri, creature a noi scono-

sciute che intrattengono relazioni interspecifiche quali licheni, formiche, pipistrelli gigante, i fanghi vulcanici, rifiuti radioattivi ecc.

In una conferenza recente Haraway parla della sua passione per le ricerche dei bio-ingegneri che hanno un interesse specifico per il biodesign, una disciplina altamente tecnologica che da un lato studia ciò che c’è di più bello e poetico come le api, ma con un interesse per ciò che potrà sostituirle, dei droni robot. Si tratta di una ricerca a volte anche militare che è a un passo dall’appropriazione e dall’obliterazione. La rimozione, non a caso, costituisce un problema di fondo della nostra società.

Come vivremo, dunque, in un mondo patriarcale che crede ancora nella tecnofix, la dose che risolverà tutto?

Se vogliamo sapere come si potrà vivere in un tempo di espropriazioni di massa non abbiamo che da chiederlo agli indigeni oppure ai migranti, ossia a coloro che bussano alla nostra porta perché il loro mondo è stato devastato dalla desertificazione, dalla fame o dalle guerre. Il nostro mondo non è più quello che era, e forse quel mondo non tornerà mai più.

L’ecofemminismo porta alla ribalta tematiche dei nostri giorni che riguardano la giustizia sociale, le ambiguità del mondo tecnologico, l’etica ambientale, le espropriazioni di massa, nel tentativo di risvegliare le coscienze assopite nei confronti della crescente violenza, l’indigenza, il negazionismo in dirittura d’arrivo. Al tempo stesso mette in evidenza i temi del riscatto, della cura, del recupero, del riciclo, le metafore di simbiosi e la nostra stessa creatività che fanno parte della Natura della quale siamo una piccola parte, e senza la quale non possiamo neanche immaginare di sopravvivere.

Christine e Margaret Werthelm, Crochet Coral Reef . Installation view alla Biennale di Venezia 2019.
Photo Italo Rondinella

FINCHƒ GLI HOTEL SARANNO INSUFFICIENTI, L'OVERTOURISM SAR Ë UN PROBLEMA

La sterminata diffusione di scolarizzazione e benessere economico nel mondo ha tra i suoi frutti l’alimentazione della curiosità. La curiosità si nutre più di tutto con il viaggiare: vedere, esplorare e conoscere luoghi diversi dai propri abituali. Viaggiare è il modo più semplice, immediato e divertente per imparare. Imparo le lingue viaggiando, i costumi altrui, la storia, l’arte, le tradizioni. Probabilmente è l’emblema del learning by doing. Quindi l’aumento costante di turismo è un fenomeno naturale e fisiologico della modernità, del progresso e della democrazia.

Ovviamente i luoghi che accolgono forestieri non sono pensati né preparati per quantitativi anche di poco maggiori ai loro abitanti abituali. I mezzi di trasporti pubblici, il sistema viario, le porte di accesso, i luoghi di stazionamento sono costruiti per i propri cittadini, per quel quantitativo di flussi di persone. Molte persone in più impattano sul loro congestionamento, sull’anticipazione dell’usura, sui malfunzionamenti e sul disagio degli utenti abituali – i cittadini – che le infrastrutture della collettività (mezzi di trasporto, strade e stazionamenti) li usano per la loro vita quotidiana. Facciamo quindi chiarezza sull’overtourism. Innanzitutto come appena scritto è un fisiologico fenomeno del progresso. Segmenti di popolazioni nel mondo acquisiscono capacità economica e capacità intellettiva e la prima cosa che intendono fare (e anche con frequenza) è vedere luoghi nuovi. Da oltre vent’anni è esploso il fenomeno delle compagnie low cost, ovvero accanto ai vettori aerei (e ormai anche treni) di bandiera sono nate imprese che sfruttando la domanda crescente e forniture a basso costo (gli aeroporti secondari e le località minori) hanno creato un’offerta facilmente accessibile. Il web ha portato alla portata di pochi click – dopo che già costa pochi denari – la pianificazione di un viaggio. Non c’è alcun ostacolo alla mobilità è questo è un bene, questo è progresso e libertà vera. Quando poi però tutte queste persone si muovono, facilmente arrivano in posti nuovi… ma dove dormono?

Il sistema alberghiero, quello italiano in particolare, è in uno stato di arretratezza d’offerta imbarazzante. Gli hotel

non schiodano dal loro modello insoddisfacente e anacronistico e per lo più anche costoso. Allora in tutta risposta il privato cittadino, pragmatico, offre la propria casa in locazione breve turistica. E più c’è domanda e più c’è offerta. E meno c’è lavoro e tutele sociali sui mestieri tradizionali e più cresce l’offerta. L’italiano ha l’uni-

Il sistema alberghiero, quello italiano in particolare, è in uno stato di arretratezza d’offerta imbarazzante

Piazza di Spagna, turisti sulla scalinata di Trinità dei Monti

cum che il 75% di essi ha una casa di proprietà. Adesso che anche gli italiani hanno voglia di viaggiare e andare altrove, cosa ci si deve fare di tutte queste case? Lavoro non ce n’è, o non basta, o non soddisfa, allora si affitta anche casa, quella di nonna, di mamma, di un amico che beato a lui ha altro a cui pensare, e così si integra il reddito (motivo originario perché è stato reso facile l’affitto turistico in case private). Si parla tanto di arginare il fenomeno dell’eccesso di case private a destina-

zione turistica (che andrebbero invece solo regolamentate, rese di qualità, sicure e niente più, sarà poi il mercato della domanda che ne determinerà il volume) ma non si parla mai di come ci arrivano tutti questi turisti nelle case. Ogni comunità si è battuta per avere il proprio aeroporto, ogni regione, nella follia del turismo italiano in mano agli enti locali e non nazionali, promuove la propria terra con decine di milioni di pubblicità sui vettori e con i vettori per attrarre turisti. Ma poi questi, una volta arrivati, dove tutto fino a quel punto è stato facile (cercare, trovare, comprare, arrivare) devono pur dormire da qualche parte. Gli hotel non ci sono, o sono pochi, o sono inadeguati, ci si rivolge allora all’offerta privata del piccolo proprietario immobiliare che non ha “mestiere” ma ha fortuna ereditata e mette sul mercato turistico la propria offerta.

OVERTOURISM BLUES

FABRIZIO FEDERICI

Probabilmente il turismo ha sempre comportato dei problemi, non solo per chi si mette in viaggio, ma anche per chi abita nelle località che costituiscono le mete dei viaggiatori. Chissà, magari già al tempo del Grand Tour c’era chi si lamentava: “Ah, questi milordi, rientrano nel cuore della notte e ubriachi fradici si mettono a cantare e a suonare la spinetta!”. Certo, oggi il fenomeno sta assumendo proporzioni sempre più impattanti, e ce ne adiriamo, anche perché c’è stata la pandemia: quell’epoca terribile, con i suoi morti e le sue pesanti conseguenze a livello sociale ed economico, che tuttavia può essere vista con una certa nostalgia, ripensando alle strade semivuote e ai monumenti finalmente fruibili, e mettendoli

Si è lasciato che molti settori produttivi andassero in malora, nell’illusione che si possa campare solo di turismo

a confronto con l’attuale carnaio. Quanta retorica in quei giorni: niente sarà più come prima, non torneremo alla normalità, perché quella normalità non ci piaceva. Invece ci siamo tornati eccome, e l’abbiamo superata in peggio! D’altra parte, non c’è da sorprendersi, pensando al fatto che – in Italia, ma forse anche altrove – si è lasciato che molti settori produttivi andassero in malora, nell’illusione che si possa campare solo di turismo. Che magari ci si campa anche, ma non bene. E così viviamo in una situazione schizofrenica: da un lato, facciamo di tutto per attrarre vaste masse di visitatori, a cominciare da campagne promozionali di dubbio gusto (ogni riferimento alla Venere Santanchè è puramente inevitabile); dall’altro, sopportiamo con fatica crescente i problemi che l’overtourism comporta, dai luoghi di straordinaria bellezza ormai inaccessibili alle conseguenze sul mercato immobiliare. E non sappiamo bene cosa fare, a parte lamentarci. Arte in cui siamo bravissimi (pensiamo al Lamento d’Arianna di Monteverdi), ma a cui in questo caso ricorriamo con un certo impaccio, consapevoli di essere noi stessi parte del problema. Vittime del sovraturismo a

casa nostra, complici e killer quando prendiamo un aereo, un treno, un bastimento. Tutti feroci con l’overtourism degli altri. Qualche iniziativa concreta inizia a registrarsi. Il presidente Macron, di fronte alla minaccia di Rita De Crescenzo di indirizzare una carovana interminabile di torpedoni alla volta di Parigi, con l’obiettivo di cingere d’assedio la Gioconda, ha pensato bene di rimuovere dal Louvre il celebre ritratto, nascondendolo al sicuro. Il destino della Lisa più amata (dopo la Simpson) è ormai segnato: la sua ostensione avverrà in una nuova sala, con biglietto a parte. Non tutti i mali, si potrebbe dire in questo caso, vengono per nuocere: lo spostamento del dipinto leonardesco comporterà forse una fruizione più agevole per le altre opere del museo, liberato dai tanti che lo affollano solo per un selfie con lo sfortunato feticcio rinascimentale. Di sicuro, saranno contenti dello spostamento gli altri dipinti della Salle des États, capolavori solitamente trascurati dalla folla, che ha occhi solo per Lisa.

Al di qua delle Alpi non mancano le proposte. Alcune sono state ritenute troppo radicali, come quella di elettrificare le famigerate keybox, in modo tale da fulminare all’istante il rapace forestiero. Altre godono invece di un ampio consenso, come quella di moltiplicare i musei diocesani, autentici dissuasori, con le loro parate di pissidi e ostensori, di ogni forma di turismo. Su un punto tutti concordano: è necessario spalmare il flusso turistico su tutto il territorio nazionale, evitando che si concentri, come ora, su pochi centri arcinoti, ormai al collasso. In quest’ottica, stanno per essere adottate misure drastiche: chi vorrà soggiornare per quattro giorni a Venezia, ne dovrà fare almeno due a Potenza. Chi è intenzionato a farsi un bel fine settimana ad Amalfi, dovrà trascorrere il resto della settimana a Piadena. Finalmente il decollo turistico di Foggia sarà realtà.

LE CENERI DI PASOLINI

Chi ha visto anni fa il documentario Videocracy di Erik Grandini (2009), avrà constatato quanto sia vero il principio taoista secondo cui le trasformazioni profonde sono silenziose, impercettibili. Nel documentario si mostrava come nell’arco di due generazioni un Paese intero si scopriva impotente, povero e scorticato dalla lenta aggressione allo stato sociale, e in parte della costante erosione dei diritti costituzionali. La tesi del documentario era semplice: è stato sufficiente immettere nel circuito mediatico una lenta ma costante serie di spettacoli idioti – travestiti da patina “nazional-popolare” – dove la competizione si trasforma in una lotta per evitare sconfitte schiaccianti, per propagarsi come un virus nelle abitudini quotidiane. Videocracy delineava quanto gli spettacoli di massa fossero diventati un’istituzione totale, nella misura in cui ognuno si identifica col potere da cui è però sconfitto. Più che il ‘68 o il ‘77, con le loro utopie rivoluzionarie di cui si sono perse le tracce, è stato lo spettacolo mediatico di massa l’agente che lentamente ha rovesciato le sorti di un Paese, rispetto al quale anche il destino dei partiti paga il suo tributo. È stato sufficiente provvedere ad alimentare pian piano la vita privata di mitologie consumistiche, sogni irraggiungibili, desideri mimetici (scimmiottare eroi mediatici, e oggi culto dei follower, ecc.), centrifugandoli in scenari depoliticizzati, dove ridere è sempre un deridere. Si è trattato di colonizzare la sfera del privato fino al punto da rendere naturale concepire soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche. Si è scritto molto su questo. Ma la valanga non si arresta. D’altra parte, le immagini non veicolano né dubbi né incertezze, ma offrendosi nella loro libera associazione giudicano senza l’ausilio della ragione, includono o escludono, forniscono un punto di vista esclusivo (un’ottica) del mondo, stimolano sentimenti in quanto agiscono nel profondo come i sogni. Ora, le immagini televisive – osservava Pasolini – escludono il dialogo: “il video è una cattedra, e parlando dal video si parla, necessariamente ex cathedra. Non c’è niente da fare, il video consacra, dà autorità, ufficialità… Insomma, il video rappresenta l’opinione e la volontà di un’unica fonte d’informa-

Le immagini non veicolano né dubbi né incertezze, ma offrendosi nella loro libera associazione giudicano senza l'ausilio della ragione

zione, che è quella, appunto, genericamente, del potere” (Giornalisti, opinioni e TV, 1968). Il fascismo mediatico nella prospettiva di Pasolini, lentamente, in forma sottile, dopo anni e anni di manipolazione della storia e delle contraddizioni sociali, non guarda più al passato, ma ritorna in modo subdolo, non con l’olio di ricino o col confino, ma sotto forma di corruzione come stile di vita politicamente condiviso, socialmente ramificato, moralmente tollerato. Il fascismo storico – osservava già Pasolini nel dicembre del 1973 (Acculturazione e acculturazione) – “proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta… Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro [mezzi di comunicazione di massa] è totale e incondizionata”. Il fascismo di ieri ebbe inizio pubblicamente con la performance della “marcia su Roma”. Oggi, dopo la “società dello spettacolo”, e nell’era della cosiddetta Intelligenza Artificiale, si fa strada attraverso l’uso manipolatorio-ingegneristico della verità sulle mai spente guerre imperialistiche, e sull’uso intimidatorio e censorio dei media. Altrove Pasolini (L’articolo

delle lucciole, 1975) parla di “arcaicità pluralistica”, che viene smantellata dal “livellamento industriale”. Questo livellamento avrebbe un precedente storico nel nazismo. La formazione delle masse non è possibile senza una pianificazione tecnico-industriale che ingloba la sfera individuale. In un’intervista rilasciata nel 1975 – Tuttolibri, inserto de la Stampa dell’8 novembre – l’intervistatore (Furio Colombo) chiese a Pasolini se avesse nostalgia della letteratura impegnata di stampo francese (Sartre, ecc.), Pasolini rispose senza mezzi termini: “No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone”. Aveva già registrato l’assenza di quella gente “povera e vera”, che oggi inneggia al padrone che li deruba e li sfrutta, rifilandogli come consolazione quotidiana overdose di spettacoli, che hanno il sapore di videocrazie. Il darwinismo mediatico, questa Università del disastro (vince il più forte), è l’effetto di una società che elegge l’individualismo accompagnato dalla forza e dalla corruzione a sola condizione d’esistenza. Esso produce un modo di concepire le relazioni sociali dove non c’è spazio per pensare che vi possa essere una società sbagliata, di conseguenza non vi può essere spazio per pensare a una società giusta. L’idea di una società diversa è così esclusa in partenza. Sradicate dalle loro culture d’origine le masse restano un costrutto mediatico alla mercé delle mutazioni tecnologiche e soggette a quelle “infezioni psichiche” di cui ha parlato Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’io) soggette cioè alla “pulsione gregaria”, alla riduzione del singolo a un dato statistico, cellulare, biologico. Come le immagini che le accompagnano, le controriforme sono lente, silenziose, impercettibili, come i tumori...ma una volta compresa la truffa potrebbe essere troppo tardi.

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