

In occasione del bicentenario della nascita di Giovanni Fattori, Piacenza dedica una grande mostra al “genio” dei Macchiaioli
Valentina Muzi
Corpose dosi di colore si addensano su tele e tavole. Pennellate larghe e piatte definiscono i volumi e le distanze, prendendo forma in figure e paesaggi. La realtà si presenta per quella che è, senza idealizzazioni, rendendo Giovanni Fattori uno dei più importanti interpreti del naturalismo europeo della seconda metà dell’Ottocento, e protagonista indiscusso del movimento dei Macchiaioli
Nato a Livorno nel settembre del 1825, il pittore crebbe in un contesto storico e culturale di grande fermento, segnato dagli ideali riposti nell’Unità d’Italia, il loro crollo e gli orrori della guerra. Distante da una retorica celebrativa, la sua produzione è stata accompagnata da una personale riflessione etica rappresentando una delle testimonianze più autentiche - e coerenti - del Risorgimento italiano.
A duecento anni dalla sua nascita, il Centro d’arte contemporanea XNL di Piacenza gli rende omaggio con Giovanni Fattori 1825-1908. Il ‘genio’ dei Macchiaioli, la mostra a cura di Fernando Mazzocca, Giorgio Marini ed Elisabetta Matteucci e promossa dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano.
LA MOSTRA
Con 170 opere (di cui 100 dipinti e 70 tra disegni e incisioni) il progetto espositivo porrà l’attenzione sulle caratteristiche di Fattori, distintosi fra i colleghi per la resa dei paesaggicontraddistinti da una natura incontaminata studiata en plein air - e delle scene di vita rurale. A queste si affiancheranno gli intensi ritratti, le scene di battaglia e di esercitazione militare, molto apprezzate anche dai sovrani dell’epoca. L’obiettivo del pittore era “mettere sulla tela le sofferenze fisiche, e morali, di tutto quello che disgraziatamente accade”, ponendo una riflessione universale sugli orrori e sull’inutilità della guerra.
Particolarità della mostra sarà il dialogo tra i grandi capolavori pittorici e la produzione grafica dell’artista, e più precisamente con le acqueforti, che testimoniano l’evoluzione stilistica dell’artista e il suo impatto sulla grafica italiana del Novecento
A concludere il percorso espositivo sarà un’area dedicata agli scatti del fotografo paesaggista

tedesco Elger Esser che entreranno in dialogo con il naturalismo ottocentesco di Giovanni Fattori.
LE ACQUEFORTI
DI GIOVANNI FATTORI
“Il Fattori incisore nasce tardi, e nella grafica del nostro fine-Ottocento s’affaccia quasi come un estraneo, verosimilmente a ridosso del 1880. Ma le motivazioni del suo interesse per questa nuova attività restano difficili da inquadrare, così come non è agevole stabilire se sia una forma di rilettura dei propri dipinti nello spazio compresso delle lastre, a riprenderne le inquadrature, o piuttosto un modo di prepararne i soggetti in continuità coi suoi disegni, ‘disegnando’ con la punta d’acquaforte quasi come sui fogli degli album”, spiega il dottor Giorgio Marini, curatore del progetto espositivo e autore del saggio Le acqueforti di Fattori: materia, segno e luce. “Audace esperimento di contaminazione di tecniche, il corpus delle acqueforti di Fattori è un monumento

Dal 29 marzo al 29 giugno 2025 GIOVANNI FATTORI 1825–1908 IL ‘GENIO’ DEI MACCHIAIOLI
A cura di Fernando Mazzocca, Giorgio Marini ed Elisabetta Matteucci Il catalogo della mostra Giocanni Fattori 1825 - 1908. Il genio dei Macchiaioli è edito da Dario Cimorelli Editore Centro d’arte contemporanea XNL Via Santa Franca 36, Piacenza xnlpiacenza.it
a sinistra: Giovanni Fattori, La strada bianca, 1887 circa. Collezione privata a destra: Giovanni Fattori, Signora in giardino, 1875 circa. Collezione privata in basso: Giovanni Fattori, Bovi al carro, 1870 circa Collezione privata (part.) nel box: Luchino Visconti
impressionante delle possibilità espressive e della radicalità del ‘bianco e nero’ incisorio. Ecco allora che l’occasione del bicentenario fattoriano invita a una loro rilettura sotto il profilo della materialità, per indagarne la genesi anche attraverso le morsure, le carte, gli inchiostri, persino i danni della corrosione o gli errori esecutivi, dall’esame delle matrici, e tutti quei caratteri che – solo apparentemente tecnicistici – possano rivelarcene i più intimi significati. Perentorio, istintivo, spesso eloquente dello sforzo della sua ‘fisicità’, questo aspetto della produzione di Fattori resta per molti versi, sorprendentemente, un territorio ancora da esplorare e passibile di ulteriori scoperte, nonostante gli ormai fitti interventi critici”.

IL SEGNO COME OPERA A SÉ STANTE
“La produzione grafica resta in ogni caso per lui la dimensione più libera dalle costrizioni formali, la cui poetica fa perno sulla quotidianità, già eletta a soggetto dei suoi dipinti, ma che viene ora reinventata in tutta la sua asciuttezza”, continua Giorgio Marini. “Le sue acqueforti presentano infatti cifre segniche quasi subliminali, attraverso cui l’artista ha enucleato la forma, dall’astrattismo alla concettualità, e dove il segno diventa opera a sé stante. Il più delle volte l’artista propone gli stessi soggetti trattati anche in pittura, ma non ispirandosi alle tele quanto ai bozzetti e ai numerosi studi preliminari disegnati dal vero. Tradotti

GIOVANNI
nel piccolo formato e nel segno sintetico del bianco e nero, questi finiscono per acquisire una fisionomia tutta nuova: in questa rivisitazione della realtà la ricerca di Fattori si concentra sulla potenza della luce e l’essenzialità della forma, confermandone anche in questo campo la grande novità formale”.
FATTORI:
TRA ARTE, CINEMA E LETTERATURA
Noto per il suo stile realistico, Giovanni Fattori non solo si è reso testimone autorevole dell’Unità d’I talia, ma ha anche forgiato la rappresentazione visiva della realtà nella cinematografia italiana.
A trarre ispirazione da alcune sue opere è infatti il regista Luchino Visconti (Milano, 1903 – Roma, 1976), ritrovando riferimenti iconografici e stilistici nei film Senso (1954) e Il Gattopardo (1963), entrambi ambientati in epoca risorgimentale.

Nel film Senso, il regista italiano riflette sulla decadenza di una società e sull’intensità delle passioni – e le loro disastrose conseguenze -, elementi che richiamano la pittura di Fattori, dove la tensione psicologica si esprime attraverso contrasti di luci e ombre.
Tra eleganza e decadenza è invece la linea su cui si sviluppa Il Gattopardo (tratto dall’omonimo libro di Tomasi di Lampedusa), rispecchiando le scene di vita quotidiana che il pittore sapeva restituire nelle sue tavole.
L’arte di Fattori ha lasciato un’impronta indelebile anche sulla cultura del XX secolo, come documentano saggi critici e opere di artisti contemporanei come Ugo Ojetti, Emilio Cecchi e Giorgio de Chirico.
GIOVANNI FATTORI / PIACENZA
Quando Brancusi scolpiva il volo. La mostra al Parco Archeologico del Colosseo
Nicola Davide Angerame
Constantin Brancusi nasce nel 1876 a Hobița, un villaggio romeno in cui la scultura è una pratica quotidiana. Fin da bambino intaglia il legno, sviluppando un legame profondo con la materia. La sua arte non nasce tra le stanze di un’accademia, ma in piena natura, osservando la semplicità delle forme arcaiche presenti in essa. Nel 1904 lascia la Romania e, a piedi, raggiunge Parigi. Nel 1907 lavora nello studio di Auguste Rodin, ma se ne distacca presto, scegliendo un percorso indipendente. Non modella l’argilla come il suo collega francese, ma scolpisce direttamente il marmo, il legno e il bronzo, ricercando la purezza della forma, quasi un Adolf Loos della scultura. La materia non deve subire costrizioni, ma deve esprimere la sua energia interna. Si tratta di togliere il giusto, come vuole Michelangelo. Le superfici lisce riflettono la luce, dissolvendo i contorni e creando un senso di sospensione. La sua ricerca si concentra sul movimento, sulla tensione verso l’alto, sulla leggerezza che trasforma il peso in slancio.
TRA REALE E SPIRITUALE
“Non è l’uccello che voglio rappresentare, ma il dono, il volo, lo slancio”, dichiara Brancusi. Le sue sono sculture che non descrivono, ma evocano. Leda, realizzata nel 1920, è una metamorfosi compiuta: il cigno e la donna si fondono in un’unica figura, che appare sospesa e risolta, ben diversa dalle tensioni erotiche di un suo modello antico esposto in mostra e proveniente da Venezia. L’Oiselet II, scolpito nel 1928 riduce l’uccello a una forma pura, senza peso, una presenza del tutto astratta. Nel 1935 è Le Coq a riprendere lo slancio del famoso uccello brancusiano, ma questa volta dotato di una cresta di un gallo che spezza la linea creando un’eco di angolature nette e affilate su cui la luce sbatte e rimbalza, proiettandoci verso una verticalità quasi futurista e meccanica, ma pur sempre essenziale. Brancusi trasforma la scultura in un’esperienza visiva e mistica. Il bronzo lucidato e il marmo bianco catturano riflessi ed emanano luci mutevoli che dissolvono i confini tra idea e forma, significato e significante, staticità e dinamismo. Il suo volo non è soltanto fisico, ma profondamente spirituale: la scultura diventa tensione verso l’infinito.
BRANCUSI E L’ANTICO
La mostra accosta le tre opere di Brancusi – prestito eccezionale del Centre Georges

Pompidou di Parigi – ad una selezione di sculture antiche provenienti da collezioni archeologiche italiane. Balsami, sonagli e statue di epoca romana ed etrusca sembrano condividere la stessa essenzialità, la stessa tensione spirituale. Nell’arte antica gli uccelli sono figure sacre, messaggeri del divino. Le loro raffigurazioni non sempre imitano la natura. Brancusi si muove nella stessa direzione, le sue sculture non sono oggetti, ma idee, archetipi che sfuggono al tempo. L’incontro tra le sue opere e quelle antiche non è una semplice giustapposizione, ma una continuità. Le Uccelliere Farnesiane offrono lo spazio ideale per questa riflessione, sospesa tra passato e presente.
LA
SCULTURA
IN MOVIMENTO
Negli Anni Venti e Trenta, Brancusi passa attraverso la fotografia (grazie all’amico Man Ray) ed il cinema (ispirato a Duchamp) per esplorare la sua ricerca. Con lui gli scatti scatti non sono semplici documentazioni, ma studi di luci e ombre che trasformano le sculture in presenze enigmatiche. Nel film Leda in movimento (1936), la statua ruota su un disco di acciaio lucido, riflettendosi all’infinito. La scultura non è più statica ma cambia in ogni momento, diventando un oggetto magico. Con i mezzi di riproduzione meccanica dell’immagine, Brancusi dissolve il concetto tradizionale di scultura, aprendola al rapporto continuo e fluido con lo spazio e con la luce.
L’ATELIER COME OPERA D’ARTE TOTALE
Lo studio che Brancusi dona allo Stato francese – e che viene ricostruito davanti al Centre Pompidou a Parigi – non è soltanto un luogo di lavoro ma è un’installazione ante litteram, un luogo, una dimensione esposta a un magnetismo evidente a tutti coloro che lo visitino. Le sue sculture non vivono isolate, ma in compagnia le une delle altre, in una relazione il cui equilibrio l’artista ha studiato nei minimi dettagli. La sua donazione è il gesto più intelligente per tramandare il senso del suo operato, ripreso nell’allestimento della mostra dall’architetto Dolores Lettieri.
Fino all’11 maggio 2025
BRANCUSI: SCOLPIRE IL VOLO
A cura di Philippe – Alain Michaud, Alfonsina Russo, Maria Laura Cavaliere e Daniele Fortuna
Parco Archeologico del Colosseo
Piazza S. Maria Nova 53, Roma colosseo.it
Brancusi Scolpire il volo foto Simona Murrone
GUIDI / ROMA
Il tempo nelle fotografie di Guido
Guidi in mostra al Museo MAXXI

Silvia Camporesi
Esiste un dipinto di Giorgione conservato all’Accademia di Venezia che suscita particolare affetto in Guido Guidi. Su uno sfondo scuro è rappresentata una donna anziana ritratta a mezza figura, in posizione di tre quarti. Diretto verso lo spettatore, il suo sguardo è segnato da un’espressione di evidente sofferenza, mentre la bocca, appena dischiusa, sembra voler pronunciare le parole riportate sul cartiglio che tiene in mano: “Col tempo”. Più volte Guidi mi ha spiegato il significato di quest’opera: la donna ci mostra la propria condizione di transitorietà, dicendo “col tempo io sono diventata vecchia”. Preso in prestito dall’opera di Giorgione, Col tempo è diventato il titolo della mostra antologica dedicata al Maestro italiano ospitata al Museo MAXXI di Roma e a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia.
LA FOTOGRAFIA PER GUIDO GUIDI
Il progetto ricostruisce la carriera del fotografo italiano riunendo quasi 500 scatti realizzati fra il 1956 e il 2024 e la prima impressione che si ha visitando la mostra è la rigorosa coerenza del processo che l’artista porta avanti da sempre. Chi lo ha visto a lavoro sa che utilizza un pesante banco ottico, a dimostrazione che
l’atto del fotografare è per sua natura faticoso. Il processo continua con la stampa a contatto del negativo, di conseguenza quasi tutte le immagini (tranne quelle scattate all’inizio della sua carriera con macchine più piccole) misurano 20x25 cm, dimensione mantenuta rigorosamente anche nel catalogo della mostra. La superficie del negativo corrisponde a quella della stampa e la nitidezza delle immagini ci fa riscoprire il potere intrinseco della fotografia, senza modifiche, manipolazioni o trucchi.
Fino al 20 aprile 2025
GUIDO GUIDI
COL TEMPO 1956 – 2024
A cura di Pippo Ciorra, Antonello Frongia, Simona Antonacci
Museo MAXXI
Via Guido Reni 4a, Roma maxxi.art
Scopri tutte le mostre da vedere a Roma su
LA RIFLESSIONE SULL’ATTO DEL VEDERE
Composto da 39 serie suddivise in cinque categorie, il percorso espositivo non si fonda su una scelta prettamente cronologica ma su assonanze, svelando come l’allestimento sia parte dell’espressione poetica dell’autore. Tutta l’opera di Guidi è una chiara celebrazione del tema della qualsiasità zavattiniana: nessuna gerarchia fra le immagini, piuttosto un unico grande lavoro che, attraverso il tempo, mostra uno sguardo democratico verso i luoghi, le persone, i dettagli e soprattutto verso quei bordi del paesaggio di cui la poetica di Guidi si fa portatrice.
LA CAPACITÀ DELLA FOTOGRAFIA DI FISSARE IL TEMPO
La mostra si apre con la serie a colori dedicata ad una casa di Preganziol (1983), una straordinaria riflessione sul potere del tempo che lo strumento fotografico è in grado di cogliere nella sua fissità. Lo stesso magico disvelamento di segni lo ritroviamo più avanti, nella celebre serie dedicata alla Tomba Brion a San Vito di Altivole, l’opera incompiuta dell’architetto Carlo Scarpa. Guidi l’ha fotografata nell’arco di diversi mesi, e proprio l’atto del permanere sul luogo porta l’autore a mostrare una nuova dimensione nella lettura dello spazio. Frecce, triangoli, linee, ombre e luci ridisegnano l’architettura del monumento, riconsegnandocela con nuovi significati. Ad arricchire il percorso è la presenza di bacheche contenenti libri, provini, disegni, testi, manoscritti, utili a comprendere al meglio le profondità e le sfaccettature culturali dell’autore. Conclude la mostra un’installazione video a tre canali di Alessandro Toscano, un delicato racconto che restituisce il quotidiano di Guidi, nella sua casa-archivio di Ronta di Cesena, circondato da amici, studenti, studiosi.
in alto: GuidoGuidi, RiminiNord, 1991
Artribune
GUIDO
ARTE SALVATA / MESTRE
Arte salvata dalle bombe. A Mestre i capolavori del Museo di Le Havre
Alberto Villa
Cent’anni dopo la sua fondazione, il Museo di Belle Arti di Le Havre si trova a ricominciare da zero. Il 1945 è un anno di dolorosa ripartenza, di doverosa ricostruzione, per tutta l’Europa e anche per il museo francese, pesantemente colpito dai bombardamenti dell’anno precedente. Per sedici anni Le Havre resta senza il suo museo, che riapre ufficialmente nel giugno 1961 con il nuovo nome di Musée d’art moderne André Malraux (MuMa), dedicato al ministro francese che tanto aveva promosso la sua ricostruzione. La mostra Arte Salvata. Capolavori oltre la guerra dal MuMa di Le Havre al M9 – Museo del ‘900 di Mestre intende mostrare al pubblico italiano oltre 50 opere scampate al bombardamento, grazie ad un’attenta operazione di prevenzione. Abbiamo chiesto alla direttrice del museo veneziano Serena Bertolucci, alla curatrice Marianne Mathieu e alla direttrice del MuMa Geraldine Lefebvre di raccontarci la genesi di questa mostra e la storia del Museo di Le Havre.
Quali sono i punti di contatto tra Mestre e Le Havre e in che modo la mostra li evidenzia?
Il senso di questa unione ruota intorno al concetto di rigenerazione urbana attraverso la cultura, campo in cui Le Havre è pioniera a livello europeo e all’interno della quale Mestre, oggi, ricopre un ruolo di rilievo a livello italiano. La memoria della rigenerazione, quella idea straordinaria del museo che cresce con la città, partecipato e partecipante, che Le Havre delinea fin dal 1845, è carburante ed energia per la rigenerazione culturale di oggi, che ha ancora a che fare con le medesime tematiche: accessibilità, identità, condivisione, partecipazione. Provare a ricollocare la necessità di rigenerazione al di fuori della retorica ma alla luce di esempi precedenti, credo possa fare la differenza. Resta poi un ulteriore richiamo che ci viene fornito dall’anniversario della fine del secondo conflitto mondiale e dalla contemporanea esistenza, in questo momento, di conflitti che scuotono il nostro pianeta. Quale può essere il ruolo della cultura anche qui in ottica rigenerativa e ricostitutiva dopo i conflitti? Come sono chiamati ad agire oggi i musei in questo contesto? Anche qui l’esempio di Le Havre apre lo spazio a numerose riflessioni alle quali non ci possiamo sottrarre.

Da cosa nasce l’idea di questa mostra? Le collezioni del Musée du Havre sono tra le più ricche di Francia e sono le più ricche collezioni impressioniste del XIX secolo, dopo Parigi. Non avendo mai viaggiato, rimangono poco conosciute, soprattutto al di fuori della Francia. Il nostro intento primario è stato quello di selezionare i gioielli di questa collezione di grande interesse nazionale.
In effetti, l’esposizione è l’occasione per mostrare capolavori di maestri della pittura francese, che hanno operato a Le Havre…

Quello che ci interessava era ovviamente condividere una scoperta, e mostrare gli artisti più celebri e quelli meno celebri, ma anche e soprattutto sottolineare l’importanza della città di Le Havre come centro artistico di primo piano nella storia dell’arte francese. Le Havre è soprattutto il luogo di nascita dell’Impressionismo. Claude Monet vi giunse all’età di cinque anni. Studiò con i suoi maestri Boudin e Jonquine, le cui opere sono esposte nella mostra. E fu a Le Havre che dipinse il famoso Impressione, sole nascente, che diede il nome agli impressionisti. Con lui e intorno a lui, molti artisti, tra cui Renoir e Sisley, sono presenti nella mostra. È evidente che Le Havre è un centro culturale importante nella storia dell’arte francese. Ma non solo. Ha continuato a esserlo anche all’inizio del XX Secolo. Grazie alla presenza di collezionisti locali estremamente dinamici, era diventata un importante centro espositivo, con opere d’avanguardia.
Ad esempio?
Due artisti locali, in particolare, avrebbero incarnato e colto le innovazioni del nuovo secolo: Raoul Dufy e Auton Friese, che rappresentano l’interpretazione locale del Fauvismo e del Cubismo. Le Havre, attraverso queste figure principali, emerge quindi come luogo di influenza per le avanguardie pittoriche del primo Novecento.
Com’è nato il museo di Le Havre e in che modo i suoi capolavori si sono salvati dai bombardamenti del 1944?
Nel 1845, la città in piena espansione costruì da zero un museo-biblioteca per illustrare il suo potere e la sua influenza. Tra il 1845 e la Seconda Guerra Mondiale, le collezioni furono arricchite da una serie di opere importanti. Tra queste, i dipinti di Monet, donati alla città nel 1910, e quelli di Gauguin, Renoir e dei preimpressionisti. All’epoca della Prima Guerra Mondiale, la Francia fu scossa dalla portata dei primi bombardamenti, in particolare dalla distruzione della Cattedrale di Reims. Fu quindi organizzato un piano di salvataggio per le opere d’arte. Ed è proprio questo piano di salvataggio che è stato messo in moto durante la Seconda Guerra Mondiale. Così, nel 1942, i dipinti di Le Havre furono trasportati nei castelli del dipartimento di Sarthe (nella Loira), trasformati in depositi d’arte ufficiali. Purtroppo,


le sculture (troppo pesanti per essere trasportate) non poterono essere salvate e furono distrutte durante i bombardamenti. L’80% della città di Le Havre fu distrutta e dovrà essere ricostruita quasi da zero.
La ricostruzione di Le Havre è un grande esempio di rivincita sulla distruzione delle guerre. In che modo è rinato il museo?
Ad Auguste Perret fu chiesto di progettare una nuova città, il cui centro storico è oggi patrimonio mondiale dell’UNESCO. Il museo è uno degli elementi fondamentali della rinascita di Le Havre: viene concepito come una casa aperta a tutti, come una scatola di vetro aperta sulla città dove gli abitanti potranno imparare divertendosi, senza dover avere una conoscenza accademica delle opere e del patrimonio. Il museo è visto come una casa per tutti, una “casa della cultura”, per usare le parole di André Malraux, il Ministro della Cultura dell’epoca. La storia del Musée du Havre, la sua distruzione e ricostruzione, illustra la vitalità e la preziosità del nostro patrimonio e la necessità di salvaguardarlo.
Cosa caratterizza oggi il Musée du Havre?
Le collezioni del Musée du Havre hanno continuato ad arricchirsi da quando il museo è stato riaperto all’inizio degli Anni Sessanta, e non di poco. Nel 1963 la vedova del già menzionato

Raoul Dufy donò un rilevante nucleo di opere d’avanguardia, in particolare Fauves. Nel 2004, un’importante collezione impressionista è stata donata al Musée du Havre dalla collezione Senn. Ne abbiamo alcuni magnifici esempi in questa mostra, in particolare uno proveniente da Vétheuil.
Sebbene il conflitto che ha distrutto il museo si sia concluso 80 anni fa, siamo ben lontani da un mondo senza guerre. La mostra vuole far riflettere anche sul patrimonio artistico attualmente in pericolo?
Esatto, con questa mostra vogliamo sottolineare come l’arte sia una base di partenza per l’unità, uno spazio vitale in cui ci riconosciamo e in cui ci uniamo al di là delle guerre.
Dal 15 marzo al 31 agosto 2025 ARTE SALVATA.
CAPOLAVORI OLTRE LA GUERRA DAL MUMA DI LE HAVRE
a cura di Marianne Mathieu e Geraldine Lefebvre
M9 Museo del ‘900 Via Giovanni Pascoli 11, Venezia Mestre m9museum.it
a sinistra: Pierre-Auguste Renoir, L’escursionista, 1888 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Lascito Charles-Auguste Marande, 1936
© MuMa Le Havre / David Fogel
in basso: Eugène Boudin, Studio di nuvole su cielo blu, 1888-1895 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Louis Boudin, 1900, © MuMa Le Havre / David Fogel
Alfred Sisley, La Senna a Point-du-Jour, 1877, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Pieter van der Velde, 1912, © MuMa Le Havre / David Fogel
Eugène Boudin, Le scogliere di Etretat, 1890-1891 circa, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Donazione Louis Boudin, 1900
© MuMa Le Havre / Florian Kleinefenn
in alto: Paul Gauguin, Paesaggio a Te Vaa, 1896, Le Havre, Musée d’Art Moderne André Malraux, Lascito Charles-Auguste Marande, 1936, © MuMa Le Havre / Florian Kleinefenn
Follia, malattia, sessualità e morte: Carol Rama al Kunstmuseum di Berna

Emma Sedini
Se si pensa alla parabola di trasformazione vissuta da Torino da inizio Novecento ai Giochi Olimpici Invernali nel 2006, si comprende il contenuto della grande mostra che vede Carol Rama (Torino, 1918 - 2015) protagonista del Kunstmuseum di Berna. Nata nell’ex Capitale del Regno d’Italia in una famiglia “da bene” con il padre impegnato a produrre componenti per automobili, l’artista partecipa personalmente alla crescita industriale della città, incarnata nel miracolo FIAT. Un’evoluzione economico-sociale che muta presto pelle, rendendo nota Torino per le lotte operaie e, più di recente, come meta turistica connessa agli sport invernali. Un simile percorso trasformativo si ritrova nella sua ricerca artistica, che segue le rivoluzioni della scena del Novecento, reinventandosi di continuo.
UNA TORINESE PROVOCATORIA
Considerando il contesto in cui si muove - una Torino con tanto di salotti benestanti e ancora “ingessati” nei loro pregiudizi e stereotipi - Carol Rama è una rivoluzionaria irriverente e provocatoria. E lo si osserva fin da subito, quando negli Anni Trenta e Quaranta scandalizza il pubblico con i suoi acquerelli. Figure (soprattutto femminili) guizzanti come serpentelli, provocanti fin quasi all’osceno. Celebri per le “lingue” rosso brillante, rivolte all’osservatore, che lo stuzzicano e lo attraggono senza scrupoli. A ingenerare questo spirito fuori dalle regole è
quasi certamente la serie di traumi infantili, che la segnano nel profondo. Prima il crollo finanziario del ‘29, che trascina nel baratro l’attività del padre, tanto da condurlo al (probabile) suicidio. Poi la madre, distrutta dalla depressione, la quale è ricoverata in un ospedale psichiatrico. Proprio lì Rama si impossesserà delle immagini delle altre malate, rendendole protagoniste delle sue opere. Donne fuori di sé, ma che esprimono un certo ideale di libertà. Libertà dalle costrizioni morali, incarnata in figure dall’aspetto vicino a Schiele e Klimt, con il capo coronato di fiori. Con la consapevolezza di questi fatti biografici, i quattro temi della mostra - follia, malattia, sessualità e morte - si riempiono di senso.
LA MOSTRA
Sono oltre 110 le opere riunite per la prima grande retrospettiva a lei dedicata dal titolo Carol Rama. Ribelle della modernità, invitando a riscoprire il lato di radicalità e sperimentazione insito in tutta la poetica dell’artista. Autodidatta dall’inizio alla fine (si vede infatti rifiutare l’ammissione all’Accademia Albertina) e svincolata da ogni movimento. Questa è l’immagine, personalissima e anticonvenzionale, che si trae scorrendo i lavori esposti.
La pittura di Carol Rama è una “pittura da studio”. Nasce dalla sua casa-officina di lavoro torinese, che funge al contempo da luogo d’incontro per voci esterne: intellettuali e creativi, accolti da una padrona di casa dalle abitudini notoriamente bizzarre.
“APPASSIONATA”: UN TITOLO E UNA DESCRIZIONE
Nel percorso espositivo si incontra Appassionata. Nome della serie di acquerelli degli Anni ‘40 ispirati alle malate della casa di cura, ma anche aggettivo buono a descrivere un po’ ogni fase produttiva a cui ci si accosta. Si vedono infatti oli su tela che fungono da anti-ritratti, tanto sono folli e grottesche le loro espressioni. E ancora, i suoi esperimenti di “bricolage”, accostati all’Arte Povera, dove l’artista sfonda la seconda dimensione aggiungendo a smalti e vernici trucioli di metallo, occhi di bambola e molto altro. Tutte opere mosse dalla passione del suo animo, come per le Gomme: pneumatici che si fanno materia viva, appassionata appunto, di composizioni minimaliste dal forte sottofondo autobiografico.

Fino al 13 luglio 2025 CAROL RAMA. RIBELLE DELLA MODERNITÀ
A cura di Livia Wermuth Kunstmuseum Bern
Hodlerstrasse 8, Berna, Svizzera kunstmuseumbern.ch
in alto a sinistra: Carol Rama, Appassionata, 1940, GAM – Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, Turin, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, Courtesy Fondazione Torino
Musei.
Photo: Studio Fotografico Gonella, by courtesy of the Fondazione Torino Musei © 2025 Archivio Carol Rama, Torino
sopra: Carol Rama in her home and studio, 1994. Photo: Pino Dell’Aquila © 2025 Pino Dell’Aquila
CAROL RAMA / BERNA
Vilhelm Hammershøi: il pittore del silenzio in mostra a Rovigo

Marta Santacatterina
Ci sono silenzi rilassanti e altri inquietanti, che scaturiscono da atmosfere sospese, in cui pesa l’assenza umana. Una poetica attorno alla quale la città di Rovigo dedica un progetto espositivo dove, al centro, giganteggia la figura di Vilhelm Hammershøi, il più importante pittore danese vissuto tra la fine del XIX Secolo e gli inizi del XX. Ospitata a Palazzo Roverella e curata dall’impeccabile Paolo Bolpagni, la mostra comprende 14 opere di Hammershøi e un ampio “contorno” dedicato ad altri pittori del silenzio, quelli cioè
Fino al 29 giugno 2025 HAMMERSHØI E I PITTORI DEL SILENZIO
A cura di Paolo Bolpagni
Palazzo Roverella
Via Giuseppe Laurenti 8/10, Rovigo palazzoroverella.com
in alto: Vilhelm Hammershøi Luce del sole nel salotto III. Strandgade 30, 1903. Stoccolma, Nationalmuseum © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser
a destra: Vilhelm Hammershøi, Luce del sole nel salotto III, 1900 circa. Stoccolma, Nationalmuseum © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser
che scelsero di raffigurare ambienti domestici privi di persone o con figure solitarie e spesso immobili. Una tradizione che affonda le radici nei dipinti dei maestri del Seicento olandese e fiammingo, oltre che della Scuola dell’Aja affermatasi nella seconda metà dell’Ottocento.
ASCETICO, ANTINARRATIVO E MAGNETICO
Il confronto con i lavori di Charles-Marie Dulac, Georges Le Brun, Xavier Mellery e tanti altri, è funzionale a ricreare il contesto dell’arte di Hammershøi, nonché l’ispirazione che ne ricavarono alcuni pittori, anche italiani, che subirono il fascino delle sue atmosfere (da Oscar Ghiglia, Giuseppe Ar e Umberto Prencipe, a Carl Holsøe e Charles Mertens). Ma l’accostamento mette pure in risalto la perfezione formale e il potere magnetico delle tele del danese, le cui scene si connotano anche per una rigorosa impostazione geometrica: “Quello che mi fa scegliere un soggetto sono spesso le sue linee, quel che io chiamo il carattere architettonico del quadro. E poi, naturalmente, la luce, che importa molto”, dichiarò lo stesso artista. Alle stanze vuote Hammershøi - “irriducibile a ogni categorizzazione” secondo il curatore Bolpagni - alternò ambienti in cui compare la figura della moglie, spesso di spalle, intenta a suonare la spinetta, affacciata a una finestra o ancora
affaccendata in mansioni domestiche. Si tratta di tele ascetiche, antinarrative, connotate da un repertorio limitato e da una gamma cromatica tenue, giocata sulle tonalità dei grigi, dei marroni e degli azzurri. Diventano così visibili l’incomunicabilità – aspetto che emerge anche e soprattutto nei ritratti – e l’impossibilità di accedere al mondo interiore degli altri.
UNA FORTUNA RITROVATA
Dopo decenni di oblio, l’artista sta vivendo una clamorosa riscoperta. Proveniente da una famiglia borghese, Vilhelm Hammershøi ebbe una formazione accademica ed elaborò poi il suo stile personale che praticò, pressoché inalterato, fino alle ultime opere. Già all’inizio del XX Secolo ottenne grandi successi: nel 1900 si aggiudicò la medaglia d’argento all’Esposizione Universale di Parigi seguita, nel 1911, dal primo premio all’Esposizione Internazionale di Roma. Dopo la sua morte, racconta Bolpagni, una sorta di “maledizione” calò su Hammershøi, complice la sua siderale distanza dalle avanguardie storiche allora dominanti. Un velo di silenzio si posò sui suoi quadri – con qualche eccezione, come il regista Carl Theodor Dreyer che li citò spesso nei suoi film – fino ai primi Anni Ottanta, quando il Musée d’Orsay acquistò Il Riposo e organizzò poi la prima grande retrospettiva moderna sull’artista. Si ricominciò così a parlare di Hammershøi e ora le sue quotazioni sono altissime, i dipinti ricercati e i musei gelosi delle sue opere: ecco perché aver riunito un nutrito nucleo di lavori a Rovigo ha del miracoloso. La mostra dà conto di varie tematiche, dalle vedute cittadine a una curiosa sezione dannunziana, fino a un gruppo di “paesaggi silenziosi” di autori ascrivibili o paragonabili ad Hammershøi. Sono anch’essi “pittori del silenzio” che ci accompagnano in un universo solitario, fuori del frastuono e dal caos.

Io sono Leonor Fini. A Milano la mostra della pittrice che superò il Surrealismo

“Io sono principalmente interessata a me, e le donne sono io”. Osservando Leonor Fini (Buenos Aires, 1907 - Parigi, 1996) nelle centinaia di scatti e autoritratti giunti fino a noi, leggendo i suoi scritti e ascoltandola parlare in video, è impossibile pensare che sia stata dimenticata. Piuttosto, è facile supporre che l’ombra calata sulla su a fama nella seconda metà del Novecento sia intenzionale, una repressione piccata contro una donna che non poteva essere controllata, omologata, racchiusa in una sola facile identità. Perché questo era Fini, che oltre a palesarsi come artista folgorante ed eclettica è stata anche e soprattutto una sciamana misterica, un’apparizione ora ctonia ora bacchica. E così appare nella grande mostra che Palazzo Reale, a Milano, le dedica.
UNA VISIONE SFAVILLANTE DI FANTASIA
La retrospettiva curata da Tere Arcq e Carlos Martín – che l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi ci tiene a definire una “declinazione milanese”, visto il legame con l’archivio del Teatro
alla Scala, con quella famosa mostra nel 1929 e con una delle retrospettive di “riscoperta” da Tommaso Calabro, nel 2022 – è un’ambiziosa raccolta delle molte anime dell’artista italo-argentina. Oltre alla settantina di dipinti sono presenti disegni e fotografie, costumi d’opera e progetti di scenografie, libri illustrati e video d’epoca: comune a tutte queste declinazioni è una visione sfavillante di fantasia, popolata da figure femminili mitologiche e dominatrici, da uomini delicati, da gatti e angeli, teschi e piume, che compongono panorami ora macabri, ora folgoranti, o più spesso le due cose assieme. È il caso della dea silenziosa de Le Bout du monde (1948), ultima creatura sulla terra, e delle odalische di alabastro di Rasch, Rasch, Rasch mein Puppen Warten! (1975), e, andando ancora più addentro al mistero, della pletora di sfingi, streghe e alchimiste cui sono giustapposti gli uomini, terreni e quasi gracili (come nel Portrait de Nico, Monte Carlo 1942), funebri nature morte e corpi dissezionati (L’Ange de l’anatomie, 1949). Un interesse, questo, per il macabro, in cui il curatore Carlos Martín ha rintracciato “una pulsione di morte, un istinto che contiene il suo opposto, l’élan vitale e il desiderio”.
OLTRE LE CONVENZIONI
Attraversando le nove sezioni tematiche di cui si compone il percorso, aperto fino al 22 giugno, ci si addentra nell’immaginario “surraffaellita” di Fini, che attinge e rielabora la cultura del proprio tempo, tra le letture di Svevo, Freud e Jung e l’osservazione dei colleghi e amici Ernst, Dalí, Man Ray, senza tralasciare la lezione dei grandi maestri del passato, Piero della Francesca, Michelangelo e i manieristi. Superando la semplice declinazione di temi ricorrenti, Fini sviluppa tematiche assolutamente personali, creando un modello originale dal sapore archetipico e matriarcale da cui gemmano delle nuove considerazioni sulla società e la famiglia – la sua per molti anni è quella, a tre, con Stanislao Lepri e Constantin Jelenski –, così come sui concetti di mascolinità e femminilità. Categorie alle quali, nonostante venga accostata al femminismo della differenza, si affidava sempre meno: “Gli uomini sono meno virili di quanto credono o fingono di credere. È un atavismo antichissimo che li porta ad accentuare questi tratti a scapito di altri più profondi. Io sono a favore di un mondo di sessi non differenziati”.
Questa decostruzione, frutto di anni di osservazione della realtà e di una sua decodificazione e ricodificazione, è messa in pratica soprattutto dalla metà degli Anni Sessanta con le castrazioni dei personaggi maschili, secondo Peter Webb la sua “svolta politica”. A partire da Le Fait accompli (1967), avviene un progressivo “rifiuto dell’idea di superiorità fallica”, e soprattutto “una indagine molto più seria sulle origini delle
Fino al 22 giugno 2025
IO SONO LEONOR FINI
Curata da Tere Arcq e Carlos Martín Palazzo Reale, Milano palazzorealemilano.it
Giulia Giaume
in alto: Leonor Fini, Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen Warten!, 1975, Private Collection
© Leonor Fini Estate, Paris
a destra: Leonor Fini, Dans la tour (Autoportrait avec Constantin Jelenski), 1952, Private Collection
© Leonor Fini Estate, Paris
costruzioni fallocentriche di genere e sessualità della società”. Anche per questo la rappresentazione dei genitali femminili diventa sempre più vivida, con l’approdo finale alla carnosa vagina-farfalla de La Leçon de Botanique (1974). Opera che riflette anche un rapporto con la natura “primordiale, selvaggio e profondamente pagano” che la portò a scegliere “di vivere la sua vita al di fuori dei vincoli e dei costumi di una cultura di cui non si sentiva parte o nemmeno rispettava”, sottolineano la curatrice Tere Arcq e la professoressa Susan Aberth nel catalogo edito da Moebius (che raccoglie anche dei testi di Fini, autrice di romanzi, storie e fiabe).
LA COMPLESSITÀ IRRIDUCIBILE
DI LEONOR FINI
Vicina a molte artiste del proprio tempo –come le grandi Meret Oppenheim, Dora Maar, Leonora Carrington, Lee Miller, Dorothea Tanning, Frida Kahlo e Alice Rahon –, Fini sperimentò una fortuna più ardua delle colleghe. “L’opera di Fini rimane meno conosciuta di
LEONOR FINI, ARTISTA COSMOPOLITA
Milano
Approdata nel 1928, Leonor conquista dopo poco la sua prima mostra alla Galleria Milano, poi Barbaroux. Frequenta la scuola di Achille Funi (circolano voci, smentite, di una relazione) e amplia il suo giro di conoscenze nell’élite culturale italiana.
Trieste
Madre e figlia si spostano nella città di confine nel 1908, secondo alcuni studiosi per scappare da Herminio. Leonor sviluppa una forte passione per l’arte, i travestimenti e i gatti. Nel 1924 la prima collettiva.
Buenos Aires
Eleonora Elena Maria Fini vi nasce il 30 agosto 1907. Il padre Herminio proveniva da una famiglia di Benevento, la madre Malvina era triestina.

Parigi
Arriva nel 1931 e subito conosce Broglio, de Chirico, de Pisis, che la introducono a Ernst, Picasso, Cocteau, Breton e Dalì, e ancora Cartier-Bresson, Dior, Carrington e altri. Iniziano le collaborazioni con il Surrealismo, viaggia a New York con Julien Levy, espone al MoMA, si avvicina alle arti applicate. Tornata, conosce Fabrizio Clerici, a cui sarà legata da un duraturo sodalizio umano e professionale.
quella di altre artiste associate al movimento surrealista, questo è forse dovuto non solo alla sua vita personale decisamente anticonvenzionale, ma anche al fatto che il suo regno visivo è complesso da decifrare”, scrivono Arcq e Aberth. È questa complessità, con il categorico rifiuto ad appartenere a una corrente o un determinato movimento (femminismo incluso), la vera cifra dell’artista, che per tutta la vita si cimentò nei più diversi ambiti creativi realizzando opere uniche e impressionanti. La mostra a Palazzo Reale è una scoperta continua di questi spunti e delle sue libere incursioni nelle arti, che spaziano dalle illustrazioni del Satyricon alla grande boccetta disegnata per il profumo Shocking di Schiapparelli, dall’armadio misomorfo a cappelli e abiti pensati per Otto e mezzo di Fellini e il Ratto dal Serraglio di Mozart. In queste creazioni, così come nella vita privata, tra balli in maschera e soggiorni spiritici al monastero abbandonato di Nonza, si ravvisa una medesima qualità, propria di Fini: quella di immaginare, di osare, di brillare.
Monte Carlo Nel 1940, al mutare del clima politico, si sposta da Parigi a Monte Carlo con gli artisti che non vogliono (o possono) emigrare in America. Conosce il console Stanislao Lepri e instaurano una lunga relazione.
Roma & Parigi
Spostatasi nella capitale, tiene esposizioni di grande rilievo. Resta tuttavia fraintesa dai più, e il suo personaggio mondano tende a oscurare la sua opera.
Fini torna a Parigi dal 1946, vive con Lepri e Constantin (Kot) Jelenski, e si realizza sempre più compiutamente. Molte le mostre e le collaborazioni con balletto, teatro e cinema: è un periodo di intensa attività, e raggiunge il successo internazionale. Dagli Anni Settanta si dedica a illustrazione e letteratura, e sperimenta temi come sessualità, trasformazione e mistero. Nel 1996, alla morte, viene sepolta accanto a Lepri e Kot.
Parigi
Trieste
Milano
Roma
Monte Carlo
Parigi
MARISA MERZ / BERNA
Marisa Merz. La Signora dell’Arte Povera al Kunstmuseum di Berna
Emma Sedini
Èsempre una donna ad essere al centro della seconda proposta espositiva del Kunstmuseum per il 2025. Qui, però, l’Arte Povera non è un temporaneo avvicinamento. Con Marisa Merz (Torino, 1926 - 2019) si ha a che fare con una dei protagonisti. Una… e unica: sola donna ad aver preso parte alla prima mostra del ‘67 alla Galleria Bertesca di Genova, sola a risultare nel nucleo centrale della corrente che fece dei materiali umili il medium artistico d’elezione. A sei anni dalla morte, l’istituzione di Berna la ricorda con la mostra Marisa Merz. Ascoltare lo spazio riunendo un corpus di 80 lavori che restituiscono la sua produzione multimaterica, arricchita da un ricco apparato documentale.
LA SIGNORA DELL’ARTE POVERA
Maria Luisa Truccato, poi nota come Marisa Merz, nasce nella Torino del Primo Dopoguerra, di cui presto esplora la scena artistica, frequentandola già negli Anni Quaranta. Fa da modella a Felice Casorati e intanto visita i musei di arte antica, si lascia incuriosire dal Futurismo. Tutti elementi che ritorneranno in futuro. Le sue prime opere importanti sono senza dubbio le Living Sculptures, presentate, ai tempi, alla Galleria Sperone nel ‘67, quando ha già conosciuto (e sposato) Mario Merz, da cui prenderà ovviamente il cognome. Un anno dopo comincia a sperimentare con fil di rame e nylon, aprendo la strada alle creazioni a metà tra arte e artigianato, oggi poste sotto il nome di Arte Povera. Ma la sua ricerca creativa non si limita al materiale; come restituiscono i documenti

poca distanza da Roma, dove Claudio Abate la fotografa mentre abbandona piccole opere di nylon sulla sabbia, lasciando che siano le onde del mare a portarle via. Muovendosi tra storia dell’arte e quotidianità, mette in discussione la tradizione, dando valore e significato alla materia più umile e inerte.
LA MOSTRA
Il Kunstmuseum realizza la più grande esposizione dell’artista tenutasi in Svizzera da 30 anni. Un complesso di disegni, dipinti, sculture e installazioni in cui l’artista torna sugli stessi motivi, sugli stessi materiali, mutando però di volta in volta il significato. E se nel suo - soprattutto femminile - sembra di rivedere la classicità della statuaria greca e romana, nella sostanza, nelle inattese maglie di nylon, si rileva una contemporanea originalità. Se ci si pensa, esiste un certo parallelismo anche in riferimento alla questione . Un dibattito acceso nell’antichità - ove il prestigio intellettuale di creavano con le mani” era scarsamente riconosciuto - quanto vero anche per Merz. Il suo impegno nel superare la dicotomia tra artigianato e arte è un carattere costante della sua produzione. Scorrendo le opere, emerge la loro serialità, che pur nella ripetizione si articola in minime, attraenti, variazioni. Si è spinti a cercare le differenze, a cogliere il susseguirsi di volti prima rilucenti della loro copertura in

foglia d’oro, poi avvolti nel filo di rame. Ancora, li si vede poi riprodotti dipinti su carta e tele, in ulteriori rimodulazioni, frutto di studio e, sicuramente, di un certo divertimento nel ricercare ogni ora il diverso nell’apparente ordinarietà. Nel rendere prezioso ciò che di norma è grezzo.

Fino al primo giugno 2025 MARISA MERZ. ASCOLTARE LO SPAZIO
A cura di Livia Wermuth
Kunstmuseum Bern
Hodlerstrasse 8, Berna, Svizzera kunstmuseumbern.ch
in
a sinistra: Marisa Merz, Untitled, n. d., Merz Collection.
Photo: Renato Ghiazza © 2025, ProLitteris, Zurich
alto a sinistra: Marisa Merz, Senza titolo, 2002–2003, Merz collection. Foto: Renato Ghiazza. Courtesy Fondazione Merz – Gladstone Gallery, New York – Thomas Dane Gallery, London in alto a destra: Marisa Merz in Florence, 1996. Foto: Gianfranco Gorgoni © Maya Gorgoni
Cos’è un curatore? Parola a Luca Massimo Barbero

Marta Santacatterina
Èuno dei curatori più richiesti in Italia e non solo. Luca Massimo Barbero ha una formazione atipica che lo ha portato prima a studiare Agraria, poi a iscriversi a una scuola d’arte visive e fotografia negli Stati Uniti, approdando quindi all’Università di Ca’ Foscari a Venezia con il professor Giuseppe Mazzariol e cominciando a lavorare ancor prima di aver conseguito la laurea. Barbero – che per oltre 15 anni è stato Associate Curator alla Collezione Peggy Guggenheim – tra le mostre più significative della sua carriera ne cita quattro: quella di disegni di Lucio Fontana allestita a Verona nel 1986, “una sorta di incosciente amore per l’artista cui poi dedicherò una parte della mia vita”; la grande rassegna su Peter Greenaway nel 1993 al Museo Fortuny a Venezia; Time & Place: Milano/Torino al Moderna Museet di Stoccolma nel 2008 e ancora Lucio Fontana. Venice / New York al Guggenheim di New York, un progetto che ha visto tornare il maestro dello Spazialismo nella Grande Mela nel 2006 dopo una lunghissima assenza. “Inoltre ricevo grandi soddisfazioni dalle mostre che faccio con i giovani e i giovanissimi artisti, perché mi divertono molto”, aggiunge il curatore che abbiamo raggiunto per svelare il suo punto di vista sulle grandi mostre.
in alto: Luca Massimo Barbero. Foto Lorenzo Palmieri a destra: Andy Warhol, Marilyn, 1967, particolare della mostra: Andy Warhol. Triple Elvis Gallerie d’Italia Napoli 25 settembre 2024– 04 maggio 2025. Foto: Luciano Romano
Secondo lei cos’è una grande mostra? Sempre più spesso una grande mostra può essere una mostra dossier o un progetto che comporta significative difficoltà per riuscire a ottenere le opere, oppure che rappresenta un approfondimento, come nel caso di Picasso. Sulla spiaggia (sempre alla Collezione Peggy Guggenheim, nel 2017) dove erano esposti tre importantissimi dipinti e rarissimi disegni di Picasso - opere mai più riunite da allora - in due sole sale. L’idea di grande mostra dipende da quanto lavoro richiede. Inoltre io cerco, anche nel caso di artisti che studio da tanti anni, di non ripetere solo ciò che un tempo si chiamava il “cavallo di battaglia”.
Una volta deciso il tema della mostra, come si svolge il suo lavoro?
Innanzitutto non esiste un incarico di curatore se prima non c’è un’idea curatoriale. Inoltre non posso curare o ideare una mostra senza avere chiaro un pensiero critico, e poi devo capire il metro, il ritmo, l’idea del luogo in cui l’esposizione prenderà corpo, perché il passo e lo sguardo rispetto all’architettura sono molto importanti. Insomma, io “cammino lo spazio”, lo stesso con cui i visitatori si dovranno confrontare. Generalmente cerco sempre uno scarto, che sia spostare una parete, metterne una nuova, scegliere un colore. Poi si tratta di “orchestrare” il tutto, di fare sostanzialmente la regia del progetto
insieme alle altre figure: i registrar, chi si occupa di trasporti o assicurazioni, i conservatori. Tutti si devono sedere attorno a un tavolo e non può esserci un curatore “superstar”.
Quali sono le maggiori problematiche che affliggono il settore delle grandi mostre?
Oggi ci sono enormi criticità, a partire dai costi immensi che devono affrontare l’istituzione o il committente per allestire un’antologica e che non riguardano solo i valori delle opere, ma anche l’imballaggio, il trasporto, l’assicurazione, ecc.. Il background è oneroso e talvolta, devo dire, discutibile: sarebbe necessario pensare più eticamente a delle mostre che abbiano un senso rispetto al budget. Inoltre ci sono criticità legate alla conservazione, aspetto che è senz’altro positivo, ma si riverbera sulla possibilità di ottenere dei grandi capolavori. Vige oggi una nuova idea di tutela derivata dalla preziosità dell’oggetto e che ci costringe a indirizzarci verso delle mostre mirate, perché i grandissimi capolavori ormai non si muovono più. Per l’arte italiana c’è un altro problema, quello dei vincoli e delle difficoltà di spostare opere che hanno più di 70 anni, che si scontra con l’esigenza dell’Italia di far vedere i nostri maestri all’estero. Da ultimo ci sono i costi sempre crescenti dei diritti di riproduzione che influiscono negativamente sulle pubblicazioni, sugli studi e sulla comunicazione.

MILANO
Dal 28 marzo all’8 giugno
SHIRIN NESHAT
Body of Evidence
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea pacmilano.it
Fino al 16 marzo
IL GENIO DI MILANO. Crocevia delle arti dalla Fabbrica del Duomo al Novecento
Gallerie d’Italia gallerieditalia.com
Fino al 16 marzo
IL NOSTRO TEMPO, CINÉFONDATIONCARTIER
Triennale Milano triennale.org
Fino al 23 marzo
LA GRANDE BRERA / MARIO CEROLI.
La forza di sognare ancora
Palazzo Citterio palazzocitterio.org
Fino al 13 aprile
ETTORE SOTTSASS
Architetture, paesaggi, rovine
Triennale Milano triennale.org
Fino al 18 maggio
GEORGE HOYNINGEN – HUENE
Glamour e Avanguardia
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 22 giugno
LEONOR FINI
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 29 giugno
CASORATI
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
BRESCIA
Fino al 15 giugno
LA BELLE ÉPOQUE
L’arte nella Parigi di Boldini e De Nittis
Palazzo Martinengo mostrabelleepoque.it
Dal 25 marzo al 24 agosto
JOEL MEYEROWITZ - A Sense of Wonder
Museo di Santa Giulia bresciamusei.com
TORINO
fino al 25 agosto
VISITATE L'ITALIA!
Promozione e pubblicità turistica 1900-1950
Palazzo Madama - Museo Civico d'Arte Antica di Torino palazzomadamatorino.it
Fino al 2 giugno 2025
HENRI CARTIER Bresson e l’Italia
Camera Centro italiano per la Fotografia camera.to
Fino al 7 settembre 2025
OLIVO BARBIERI. SPAZI ALTRI
Gallerie d’Italia gallerieditalia.com
PIACENZA
Dal 29 marzo al 29 giugno
GIOVANNI FATTORI 1825 – 1908
Il ‘genio’ dei Macchiaioli
XNL Piacenza xnlpiacenza.it
Dal 16 marzo al 20 luglio 2025
TRACEY EMIN
SEX AND SOLITUDE
Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org
PERUGIA
Fino al 23 marzo
DOROTHEA LANGE
Museo della città Palazzo della Penna turismo.comune.perugia.it
Dal 22 marzo al 13 luglio 2025
GIORGIO GRIFFA. DIPINGERE L’INVISIBILE
Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
Fino al 4 maggio
Dal 17 aprile al 22 luglio
TOMASO BINGA. EUFORIA
Museo Madre madrenapoli.it
CELEBRATING PICASSO
Palazzo Reale federicosecondo.org
ROVIGO
Fino al 29 giugno
HAMMERSHØI E I PITTORI
DEL SILENZIO TRA IL NORD
EUROPA E L’ITALIA
Palazzo Roverella palazzoroverella.com
TRIESTE
Fino al 27 aprile
FOTOGRAFIA WULZ.
Trieste, la famiglia, l'atelier
Magazzino delle Idee magazzinodelleidee.it
FORLÌ
Fino al 29 giugno
VENEZIA
Dal 6 aprile al 4 gennaio 2026
TATIANA TROUVÉ
La strana vita delle cose
Palazzo Grassi pinaultcollection.com/palazzograssi
Dal 6 aprile al 23 novembre
THOMAS SCHÜTTE
Genealogies
Punta della Dogana pinaultcollection.com/palazzograssi
Dal 15 marzo al 31 agosto
ARTE SALVATA
Capolavori oltre la guerra
dal MuMa di Le Havre
M9 – Museo del ‘900 (Mestre) m9museum.it
Dal 12 aprile al 15 settembre
MARIA HELENA VIEIRA DA SILVA Anatomia di uno spazio
Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it
IL RITRATTO DELL'ARTISTA
Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it
Fino al 20 aprile
CHIARA FUMAI
Chiara says Chiara
Fondazione Pino Pascali fondazionepascali.it
BOLOGNA
Fino al 7 settembre
FACILE IRONIA. L'ironia nell'arte italiana tra XX e il XXI Secolo MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna museibologna.it
Fino al 30 marzo ANTONIO LIGABUE
La grande mostra Palazzo Albergati palazzoalbergati.com
Fino al 4 maggio
AI WEIWEI. WHO AM I? Palazzo Fava operalaboratori.com
Fino al 4 maggio
TONY CRAGG
Infinite forme e bellissime
Terme di Diocleziano museonazionaleromano.beniculturali.it
Fino all’11 maggio 2025
BRANCUSI: SCOLPIRE IL VOLO
UCCELLIERE FARNESIANE
Parco Archeologico del Colosseo colosseo.it
Fino al 27 aprile
GUIDO GUIDI
Col tempo, 1956 -2024
Museo MAXXI maxxi.art
Fino al 6 luglio
CARAVAGGIO 2025
Palazzo Barberini barberinicorsini.org
Fino al 31 agosto
L’ARTE DEI PAPI.
Da Perugino a Barocci
Castel Sant’Angelo direzionemuseiroma.cultura.gov.it
BARI
ROMA

GRA Z I A I NS E R IL L O
Un seme p r ofond o a c ura d i G i anna P ani c ol a
4 marzo – 30 aprile 2025
STUDIO MASIERO via e. villoresi 28 – secondo cortile - milano martedì- venerdì ore 16.00 – 19.00 - per altri gior ni e orari su appuntamento info@monicamasiero.it +393358455470