Grandi Mostre #43

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Le molte età dell’oro tra antichi e contemporanei

Chi è stato a Venezia durante la 60. Biennale Arte ha potuto aggiungere al proprio carnet di visita una preziosa mostra che dalla Galleria nazionale dell’Umbria ha portato nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro una serie di opere provenienti dal museo umbro, a confronto con le opere di artisti contemporanei. Preziosa, non solo per la qualità del progetto, ma anche per il filo conduttore che lega maestri della storia dell’arte a figure rappresentative del dibattito presente. L’oro, randello e voluttà del potere, simbolo mistico e di trascendenza, elemento luminoso e accessorio ammaliante, è protagonista della mostra L’età dell’oro, nella sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, in un percorso, con il patrocinio del Dicastero per la

Cultura e l’Educazione della Città del Vaticano, che attraversa nove secoli, dal Medioevo a oggi. Questo programma trasversale tra antico e contemporaneo, certo sull’idea che esistono linguaggi e temi che hanno trasformato la storia dell’arte, è nelle linee strategiche del direttore Costantino D’Orazio, da inizio anno alle redini del museo. Racconta, infatti: “Negli ultimi anni la Galleria Nazionale dell’Umbria, che gode del bellissimo allestimento realizzato da Marco Pierini, ha valorizzato giustamente la presenza di Perugino in collezione, compiendo un grande lavoro di ricerca sulle sue opere. Ho voluto spostare l’attenzione su quelli che si definiscono “i primitivi”, sulla grande collezione di fondi oro che rende la nostra istituzione un grande museo internazionale alla pari con il Metropolitan di New York e i Musei Vaticani. La mia idea è

che sia giusto tentare di dare nuove letture dei maestri del passato, portando avanti la ricerca accademica, come stiamo facendo, ma anche provocare la mente dei visitatori riattivando il patrimonio con lo sguardo dei contemporanei. Da questa idea nasce ‘L’età dell’oro’, dove il metallo nobile si presta benissimo all’obiettivo, da strumento qual è stato nella storia dell’arte per costruire uno spazio trascendentale e paradisiaco assume nelle mani dei contemporanei connotati diversi di una spiritualità più laica”. Nella mostra, curata da Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi, opere di artisti come il Maestro di San Francesco, Duccio di Boninsegna, Gentile da Fabriano, Taddeo di Bartolo, Niccolò di Liberatore, Bernardino di Mariotto, il Maestro del Trittico del Farneto, Bartolomeo Caporali dialogano con Carla Accardi, Alberto Burri, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Jan Fabre, Fausto Melotti, Gilberto Zorio, Yves Klein, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Elisa Montessori, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Andy Warhol. Le opere si guardano, si parlano, si confrontano e si scontrano. Da inni sacri alzano gli occhi a rimirare le volte del cielo, magari in un’apoteosi che è più degli elementi della natura; le icone della spiritualità cristiana tornano alla propria natura fisica, il metallo è talvolta spogliato dalla ricchezza e diventa testimone della tragedia, della storia, elemento di tessitura, assunzione intellettuale, riscatto di povertà, tra le trombe d’oro della solarità per dirla con Montale.

Fino al 19 gennaio 2025

L’ETÀ DELL’ORO.

I capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria incontrano l’arte contemporanea

A cura di Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi Galleria Nazionale dell’Umbria - Perugia gallerianazionaledellumbria.it

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Michelangelo

Pistoletto, Biella; Photo credits Damiano Andreotti

a destra: Jean Du Vivier, Reliquiario

Santa
sinistra:
Pistoletto, Autoritratto oro, 1960, olio, acrilico e oro su tela, Collezione Fondazione
di Sisto V XIV – XVI sec., Argento; oro; niello; ferro; vetri, spinelli, perle, cammeo in agata sardonica, Museo Sistino Vescovile, Montalto Marche

IL MITO E IL SIMBOLO. INTERVISTA ALLE CURATRICI DELLA MOSTRA

Che cosa ha rappresentato l’oro nell’arte dal Medioevo a oggi? Ne abbiamo parlato con le curatrici della mostra L’età dell’oro Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli, Carla Scagliosi

Che cosa ha rappresentato l’oro nella storia dell’arte del passato?

Un materiale quasi sovrannaturale che non a caso compare già nelle sepolture del tardo neolitico come offerta agli dei per la sua forza, la sua qualità energetica, la sua luce assoluta. Unico metallo che non conosce ossidazione, inalterabile all’acqua e all’aria, malleabile eppure forte diventa la materia simbolo del divino già nelle religioni primitive. Nel Medioevo poi l’oro acquista nelle arti visive il potere di trasformare la figurazione in manifestazione stessa di Dio, del sacro e della luce celeste.

Perché ancora oggi l’oro esercita un fascino così forte nell’immaginario politico, sociale e anche sul glamour?

Con l’introduzione delle monete d’oro a Firenze e Genova nel 1252 il metallo simbolo del sacro diventa profano e misura della ricchezza del mondo. Anche quando il rapporto fra moneta e riserva aurea viene interrotto, l’oro mantiene la sua potenza simbolica sia per le sue intrinseche caratteristiche di forza e luce, che, come abbiamo detto, lo rendono il principe dei metalli, sia per la storia e soprattutto la storia

dell’arte, che ne hanno consolidato la potenza simbolica

Come gli artisti contemporanei si confrontano invece con quello che non è solo un colore? Lo interpretano, lo dissacrano, lo sacralizzano, lo detournano…

Ci sono due modi per un artista di accostarsi all’uso dell’oro: il primo può essere puramente decorativo per arricchire superficialmente una figurazione, l’altro invece si assume la responsabilità di confrontarsi con un materiale che porta con sé storia, mito, simbolo. Nella mostra abbiamo scelto solo artisti che ne hanno fatto un uso consapevole, spesso in diretto dialogo con la potenza delle icone dei grandi maestri del passato.

Dall’anteprima veneziana a Perugia, come cambia il percorso espositivo?

L’anteprima veneziana, che si è tenuta in un’unica sala, ci ha dimostrato che un incontro ravvicinato fra un capolavoro della collezione della Galleria Nazionale dell’Umbria e un’opera di un grande artista dei nostri giorni non solo era possibile ma illuminava il presente con la luce del passato e viceversa. A Perugia invece in uno spazio molto più grande, l’idea è di avere una dimensione corale dove le voci si moltiplicano e la distanza di tempo si annulla. E questa cosa è resa possibile solo da un coefficiente magnetico come l’oro.

Come dialogano a Perugia i maestri dell’antico con i colleghi del presente?

Il nostro scopo era potenziare lo sguardo di un visitatore attraverso un corto circuito che annullasse il tempo. Un’opera di Spalletti rivela la sua vicinanza a un polittico, un sacco di Burri è testimonianza del dolore dell’uomo quando un crocefisso su tavola medievale, la scelta dell’oro e del blu dell’Accardi rimanda ai colori

LA KLIMT REVOLUTION

L’Ipogeo dei Volumni, monumentale tomba che conduce alla camera sepolcrale di Arunte e Lars Volumnio, nel duecentesco Convento di San Domenico

Il museo di Palazzo Baldeschi al corso, dentro un’antica residenza nobiliare risalente al Trecento

Il Centro per l’arte contemporanea Trebisonda, che coinvolge artisti, curatori e operatori culturali nell’indagine sulle forme interdisciplinari del contemporaneo

mariani.... le forme si rincorrono e simboli si ripetono. Questo intreccio crea una coralità e allo stesso tempo ci riporta alla ragion d’essere di ogni opera. In fondo come scrive Pavel Florenskij nelle Porte regali: Qualsiasi arte pittorica ha come scopo quello di trasportare lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela che sono percepibili sensibilmente e condurlo in una determinata realtà, e allora l’opera condivide con tutti i simboli in generale la loro caratteristica ontologica fondante: essere ciò di cui sono simbolo

La mostra L’età dell’oro offre non solo nuove visioni, ma anche la possibilità di avanzare nella ricerca sulle opere d’arte. Grazie a un accordo tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e la Galleria Nazionale dell’Umbria, infatti, sono state condotte delle analisi sull’opera Le tre età di Gustav Klimt, di proprietà del Museo romano e in prestito a Perugia fino a gennaio. Le operazioni hanno visto la collaborazione di un team di ricercatori degli Istituti di Scienze e Tecnologie Chimiche “G.Natta” (CNR-SCITEC) e di Scienze del Patrimonio Culturale (CNR-ISPC) del CNR e del Centro di Eccellenza SMAArt (Scientific Methodologies applied to Archaeology and Art) dell’Università degli Studi di Perugia, per un approfondimento scientifico su alcuni aspetti conoscitivi dei materiali e della tecnica impiegati per la realizzazione di questo capolavoro. Le operazioni sono state coordinate dall’Ufficio Diagnostica e Restauro della Galleria Nazionale dell’Umbria. I risultati hanno evidenziato la presenza di argento, oro e platino in lamine e polveri metalliche nell’opera del maestro della secessione viennese, sia negli sfondi che nei corpi delle donne raffigurate, per dare iridescenza. Una novità che aggiunge maggiore comprensione sulle tecniche e la pratica dell’artista e che rende il capolavoro della collezione romana un vero e proprio quadro gioiello.

Galleria Nazionale dell’Umbria

La parabola dell’Arte Povera si celebra a Parigi. Intervista alla curatrice

Nicola Davide Angerame

Quando nel novembre del 1967, Germano Celant pubblica su Flash Art il suo Appunti per una guerriglia l’Arte Povera prende forma come un movimento organico teso a rivoluzionare il panorama artistico italiano. Adesso, quasi sessant’anni dopo, la Bourse de Commerce – Pinault Collection di Parigi ospita la più ampia esposizione dedicate al movimento che riunisce oltre 250 opere dei tredici esponenti del movimento: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio.

UN NUOVO RAPPORTO CON LA NATURA, LE SUE FORZE E I SUOI PROCESSI

Celant definisce l’Arte Povera come un movimento che si oppone alle convenzioni del mercato e della tradizione artistica, rifiutando la monumentalità ed i materiali preziosi per esprimere una nuova libertà creativa che sia naturaliter una critica alla società consumistica e alla mercificazione dell’arte. Il modo per far ciò è impostare un nuovo rapporto con la natura, le sue forze e i suoi processi: la trasformazione, la crescita e il mutamento, avvicinano l’artista alla vita procurando un superamento delle distinzioni tra arte e realtà quotidiana, integrando materiali e oggetti comuni, senza artificiosità.

Il tutto è inteso come un ritorno all’essenziale, alla semplicità, alla materia e all’esperienza. È il frutto di uno sguardo poetico senza pari: non si tratta di far evolvere il linguaggio dell’arte in un superamento formale (come fanno la Op, la Pop o l’Arte minimalista), ma di negare che l’arte sia soltanto linguaggio piuttosto che esperienza viva, pura e trasformatrice sia dell’opera che dell’artista, che del fruitore.

LA RIVINCITA DELL’ARTE POVERA

Oggi, dopo oltre mezzo secolo di vita, gli artisti poveri sono una ricchezza per il sistema dell’arte, e la mostra a casa del patron di Christie’s sembra un altro degli innumerevoli paradossi della Storia (non soltanto dell’arte) in cui si può rispecchiare una sconfitta (quella del fine rivoluzionario) ma anche una possibile rivincita nella misura in cui i messaggi di questi pionieri potranno offrire ancora modalità per affrontare la crisi devitalizzante di un futuro incerto

LA CURATRICE CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV RACCONTA LA MOSTRA

Con una carriera da Premio Nobel dell’arte, dopo aver diretto la Biennale di Sydney, documenta (13) a Kassel e la 14a biennale di Istanbul e dopo aver guidato il Castello di Rivoli fino alla fine del 2023, Carolyn Christov-Bakargiev è

oggi la maggior conoscitrice dell’Arte Povera, di cui ha scritto a fine Anni Novanta una monografia decisiva per Phaidon Press.

Questa è la mostra più importante mai fatta sull’Arte Povera?

Credo di sì, almeno per numero delle opere e superficie del museo. E’ più grande delle mostre organizzate da Tate, Ps1, Walker Art Center o dall’Hermitage.

Tutto è partito nel settembre ‘67, nella piccola galleria La bertesca di Genova.

Una mostra piccola ma importantissima, curata da Germano Celant; esponeva sei opere nella sezione Arte Povera (l’altra era Im spazio), di cui cinque sono qui, come il Pavimento (tautologia) di Fabro e la prima carboniera di Kounellis o le otto lettere della parola “lo spazio” di Paolini.

Come nasce la mostra, da quale idea o conversazione?

Nasce da Monsieur Pinault, che ha una collezione d’arte strepitosa. Tra le 150 opere di Arte Povera di sua proprietà ne ho selezionate cinquanta. Ha capolavori di dieci dei tredici artisti, non ha Prini, Marisa Merz e Pascali. La direttrice Emma Lavigne mi ha proposto la curatela poco prima che andassi in pensione a metà del 2022.

Cosa è oggi l’Arte Povera?

L’Arte Povera è una corrente artistica italiana, io non uso il termine movimento, ha inventato il concetto di installazione sebbene senza definirlo. Prini, che ho visitato spesso a Roma, diceva “noi abbiamo quattro arti: la pittura, la scultura, l’architettura e l’Arte Povera. Ma già Bernini per me è Arte Povera, in quell’idea di metamorfosi tra artificiale e naturale. Se avessi potuto, poi, avrei staccato dal muro un affresco di Masaccio.

Fino al 20 gennaio 2025 ARTE POVERA

a cura di Carolyn Christov-Bakargiev Bourse de Commerce, Pinault Collection Parigi pinaultcollection.com/boursedecommerce

nella pagina a fianco: Giuseppe Penone, Alpi marittime — Ho intrecciato fra loro tre alberelli, 1968-1985, Pinault Collection; Alpi marittime, Pinault Collection; Alpi marittime — Mi sono aggrappato a un albero, 1968-1985, Pinault Collection. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli-Torino), photo Gérard Rondeau. © Adagp, Paris, 2024.

Luciano Fabro, L’Italia, 1971. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli-Torino)

in alto: Ritratto di Carolyn Christov-Bakargiev, Courtesy of Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, photo: Sebastiano Pellion.

Tu getti una luce anche sugli eredi. David Hammons faceva i body print e scoprendo l’Arte Povera ha voluto liberare i materiali, andando a Roma per conoscere Kounellis. William Kentridge fa un cinema povero negli anni del digitale e della Pixar. Olafur Eliasson conosceva l’esistenza di Calzolari, il suo ghiaccio non arriva dal nulla, così come il cane di Pierre Huyghe è un erede del cane albino dagli occhi rossi di Calzolari.

Nella definizione della squadra dell’Arte Povera, però, tre nomi sono in ballo: Gianni Piacentino, Emilio Prini e Marisa Merz. Piacentino era amico loro ma dovrebbe essere in una mostra sul minimalismo, ha esposto qualche volta ma anche Richard Long era nella mostra di Amalfi. Non erano alla Bertesca né nel ‘71 a Monaco, mentre Emilio Prini è con il suo perimetro d’aria nella mostra del ‘67. Il suo carattere difficile, però, non ha aiutato la collaborazione con Celant.

E Marisa Merz?

Germano non la include, ma nella primavera del ‘67 Tommaso Trini scrive un lungo articolo sulla sua mostra da Sperone. All’epoca le donne non erano molto accettate nel mondo dell’arte, ma io l’ho inserita nel mio libro della Phaidon a fine anno ‘90 e nell’articolo del 1987 sul ventennale dell’Arte Povera. Non averla considerata è stato un errore, lei ha avuto influenze su Zorio e su Mario. Ad esempio non includo Carol Rama perché non è Arte Povera ma assemblaggio neodada e surrealista con i suoi occhi nei quadri. Se si rimane nella superficie del quadro non si è Arte Povera, la quale esige proprio

lo slittamento fuori dalla pittura e dalla scultura per accedere ad un campo energetico.

Poi c’è Carla Accardi.

Al principio ha influenzato l’Arte Povera, la metto insieme ai precedenti dell’Arte Povera come Manzoni, Fontana e Burri. I suoi segni organici, che si sviluppano come una crescita, sono antesignani dei lavori di Mario Merz. Fabro era sua assistente, è lui che monta la prima Tenda (1966) di Carla alla Biennale di Venezia. Solo in seguito sarà lei ad essere influenzata dall’Arte Povera.

La tua mostra vanta tutte le opere aurorali dell’Arte Povera.

Per me era importante essere accessibili al grande pubblico, i capolavori ci sono tutti ma volevo contribuire alla ricerca storico artistica fare una mostra anche per i conoscitori e per mostrare cose poco o mai viste. Volevo fare il punto sulla nascita dei lavori. Lo spirato (1968) di Fabro è fondamentale, è quasi la prima volta che esce dall’Italia. Ci sono i tre grandi alberi di Alpi marittime (1968) che Penone ha preso prima che costruissero un’autostrada. Ho trovato la prima Direzione (1967) di Anselmo nella collezione Pinault: non lo sapevano perché non era stata indagata la storia relativa all’oggetto. Anselmo, lavorando con me sulla mostra mi ha detto “ma questa ma è la mia prima Direzione in assoluto”, dove l’ago magnetico è custodito dentro un parallelepipedo di formica. L’opera dimostra la sua lontananza dal minimalismo di Donald Judd. E poi abbiamo il primo piccolo albero di Penone riportato al suo 12esimo anno di età. Sono opere dai concetti aurorali, e questa ultima opera dimostra che si può fare arte figurativa senza fare rappresentazione, non si raffigura ma si rivela la figura, è geniale. Poi c’è il primo lavoro ghiacciante di Calzolari, una semplice asta di rame che condensa l’umidità nell’aria, il materiale più “povero” al mondo; è poggiata su un prato artificiale, un resto del prato artificiale usato l’anno prima in Il filtro è benvenuto all’angelo. Il naturale e l’artificiale sono in continuità, per loro, da qui capisci che non erano ecologisti ingenui, che pensavano ogni materiale come naturale. Ho trovato anche un piccolo disegno di Kounellis, tra le carte della prima moglie, del 1968 circa: è uno schizzo dell’opera Senza titolo (Cavalli) esposta alla galleria L’Attico del gennaio 1969.

Il catalogo sarà occasione di approfondimento? Sì, ci ho lavorato su con il team fantastico di Pinault, dell’editore Dilecta e con miei assistenti: Silvia Cammarata per il catalogo e Fabio Cafagna per la mostra.

Quale sarà secondo te il futuro dell’Arte Povera diciamo tra cent’anni?

Non so neppure se esisterà ancora un mondo tra cento anni, ma l’Arte Povera sarà ancora lì tra trecento milioni di anni.

Il Surrealismo e l’Italia. La mostra alla Fondazione Magnani-Rocca di Parma

Èesistito, o si può propriamente parlare, di un Surrealismo italiano? Curzio Malaparte già se lo chiedeva nel 1937. Nonostante la questione rimbalzi tra scritti e saggi da quasi un secolo, non esiste una risposta banale. A malapena si può dire che esista una risposta: è tuttavia possibile tentare di dipanare quella matassa di nomi, esposizioni e contaminazioni coagulatasi in un (vivacissimo) pugno di anni tra le due guerre, per poterne restituire la complessità e l’impatto sul panorama artistico del tempo. Quale strada migliore, allora, del confronto diretto tra le opere europee e italiane, con il supporto delle folte collezioni in terra italica, per osservare i punti di contatto e le innovazioni? Così nasce la mostra Il Surrealismo e l’Italia in apertura alla Fondazione Magnani-Rocca di Mamiamo di Traversetolo, fuori Parma, proprio nell’anno del Centenario del Manifesto Surrealista.

I GRANDI COLLEZIONISTI ITALIANI

Mediato (o forse inibito?) dall’opera dei fratelli Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, di ritorno da Parigi, il Surrealismo è stato rappresentato nei lavori dei maestri italiani con una grande varietà estetica, mediale e formale. I contributi alla creazione di un universo trasformativo della percezione della realtà sono stati molteplici e sfaccettati. Non senza una “mano dall’alto”, certo. Fondamentali, in questo senso, sono stati un pugno di nomi di altissimo livello, tra collezionisti e galleristi, attivi in Italia al tempo: abbiamo, senza dubbio, Peggy Guggenheim, e poi Arturo Schwarz, che con le sue gallerie milanesi, tra Via Sant’Andrea e Via Gesù, fu la principale figura di riferimento per la diffusione del Surrealismo in Italia nella seconda metà del Novecento; ma anche Carlo Cardazzo, che con il Naviglio prima e il Cavallino poi si contende con Schwarz il ruolo di nume tutelare del movimento in terra italiana. E ancora Gasparo Del Corso, Irene Brin, Bruno Sargentini, Alessandro Passaré e molti altri. Una storia densa e affollata, che è anche la storia dell’arte italiana del Novecento.

DAL SURREALISMO STORICO

ALLA RICEZIONE ITALIANA

Tre le aree di studio principali, che trovano un riscontro diretto nell’allestimento nella Villa dei Capolavori (che custodisce anche opere di

Dal 14 settembre al 15 dicembre 2024

IL SURREALISMO E L’ITALIA

A cura di Alice Ensabella, Alessandro Nigro, Stefano Roffi Fondazione Magnani-Rocca Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it

a destra: Max Ernst, Il bacio (Le Baiser), 1927, olio su tela © Max Ernst, by

Cézanne, Tiziano, Dürer, Goya, Canova, Burri). Il percorso si apre con il Surrealismo storico nella Francia tra le due guerre, di cui si osservano le ramificazioni internazionali fino al 1945 e oltre: dal portabottiglie di Marcel Duchamp e il guanto di André Breton si arriva alle visioni di André Masson e all’eclettica esplosione di Max Ernst, Salvador DalÍ e Joan Miró. Si passa quindi alle collezioni italiane in cui il Surrealismo ha avuto un’importanza significativa: da centri come Roma, Venezia e Savona si arriva anche a località più piccole come Vergiate, in provincia di Varese, e Gallarate, fuori Milano, con capolavori rispettivamente di Toyen, Victor Brauner e René Magritte, Enrico Baj e Wifredo Lam. Si analizza, infine, la ricezione italiana del movimento, divisa tra il filone degli artisti “visionari”, fantastici e neo-romantici – Savinio e Alberto Martini su tutti - e le contaminazioni surrealiste tra Informale e neoavanguardie, con le opere di Julius Evola e Ugo Sterpini.

sopra: Alberto Savinio, Tombeau d’un roi maure, 1929, olio su tela
SIAE 2024

DUE PAROLE CON I CURATORI

ALICE ENSABELLA, ALESSANDRO NIGRO E STEFANO ROFFI

La mostra affonda le radici in una querelle ostica, ossia se sia mai esistito un Surrealismo italiano: la domanda resta aperta?

La domanda resta senz’altro aperta e forse tale rimarrà. Certamente l’Italia rimase fuori dal circuito di internazionalizzazione del Surrealismo tra le due guerre; però gli studi hanno permesso di accertare una certa conoscenza delle istanze del Surrealismo nell’Italia di quegli anni (con il pionieristico ruolo della critica di Carlo Bo dal 1935), anche se il Fascismo ne ostacolò e condizionò la ricezione.

Quali scambi c’erano tra Francia e Italia in questo senso?

Anche se André Breton non venne mai in Italia, nel Manifesto del 1924 la cultura italiana del passato e del presente è citata almeno tre volte: un riferimento al possibile surrealismo di Dante Alighieri, la menzione d’onore per Paolo Uccello e infine l’omaggio alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico, che rimase, nonostante i successivi acerrimi diverbi, un punto di riferimento fondamentale per il movimento. Sfuggente e ambigua fu invece la posizione del fratello, Alberto Savinio, che fu a Parigi fra la fine degli Anni Venti e i primi Anni Trenta, frequentò i surrealisti e ne fu influenzato, anche se ne parlava in termini negativi… Fu proprio Savinio, insieme ad Alberto Martini, a costituire il punto di riferimento per un “Surrealismo italiano” inteso come tendenza a una pittura fantastica e visionaria.

C’è, nel rapporto con il passato, una spinta surrealista?

Fu lo stesso Breton, nel Manifesto, a sottolineare che si poteva ricercare una sensibilità surrealista anche nel passato, distinguendo tra un Surrealismo sovrastorico e

un Surrealismo storico e militante. A volte si tende oggi a dimenticare la dimensione politicamente e socialmente impegnata dei surrealisti, che ambivano a una liberazione non solo dell’individuo ma della società tutta.

I maestri, i grandi galleristi e le collettive, i legami con l’informale e le neoavanguardie: quale di questi, e altri, elementi è stato secondo voi il più influente nella creazione di un contesto italiano? Per la creazione di un “contesto italiano” del Surrealismo, le influenze degli antichi maestri sono certamente state importanti per artisti come Fini, Clerici o i neoromantici Berman e Tchelitchew; galleristi come Cardazzo e Schwarz hanno invece attivamente contribuito a creare un legame ideale tra Surrealismo storico e neoavanguardie italiane (Spazialismo, Nuclearismo); più eclettico, anche se altrettanto importante, fu l’apporto di galleristi come Brin/ Del Corso (Galleria L’Obelisco) a Roma e Tazzoli a Torino (Galleria Galatea). Un bilancio importante, per il rapporto della cultura d’avanguardia italiana con il Surrealismo, fu quello proposto nel 1966 dal numero speciale delle riviste Marcatré/Malebolge intitolato Surrealismo e Parasurrealismo

Ci sono anche tanta letteratura, fotografia, design, moda che hanno preso a piene mani dal Surrealismo. Quali gli esempi più riusciti secondo voi?

Rimandando idealmente all’ampio catalogo, si ricordano qui brevemente alcuni nomi: Alberto Savinio, Antonio Delfini e Aldo Palazzeschi per la letteratura; Wanda Wulz e Carlo Mollino per la fotografia; Aldo Tura, Piero Fornasetti, Officina 11 e Gaetano Pesce per il design. Più complessa la messa a fuoco dell’influenza del Surrealismo sulla moda italiana, ma basti qui ricordare che i modelli di Elsa Schiaparelli, nonostante il suo rifiuto del Fascismo, continuarono ad ispirare le case di moda italiane negli Anni Trenta.

Dal Romanticismo alle visioni oniriche, dalla mitologia alla decolonizzazione: nella grande libertà garantita dal Surrealismo, quali temi hanno preso più piede in Italia?

Il Romanticismo fu invocato da Alberto Savinio come premessa di una possibile pittura surrealista italiana nel celebre numero monografico della rivista Prospettive intitolato Il Surrealismo e l’Italia (1940). La cultura romantica fu uno dei punti cardine

della sua formazione e di quella del fratello. Visioni oniriche e mitologia abbondano negli artisti che hanno visto nei fratelli de Chirico dei precursori, come Fini, Clerici, Lepri, Colombotto Rosso. Il tema della decolonizzazione è stato recepito con ritardo dalla cultura italiana; un ruolo importante in questo senso, anche se non privo di ambiguità, è certo stato svolto da Wifredo Lam, che retrospettivamente affermò che la sua pittura era un atto di “decolonizzazione”, così come da Roberto Matta, durante gli anni del suo soggiorno in Italia.

La mostra appura la presenza delle opere surrealiste in Italia, e già dai primi anni: quali collezioni italiane oggi sono un punto di riferimento a livello internazionale?

La mostra della Fondazione Magnani Rocca, con circa 150 opere tutte di provenienza italiana, è una straordinaria dimostrazione della presenza niente affatto secondaria del Surrealismo nelle collezioni pubbliche e private italiane. Uno degli obiettivi della mostra è stato proprio quello di documentare tale presenza. Oltre alle collezioni celebri, come quella di Peggy Guggenheim, di Arturo Schwarz, di Carlo Cardazzo, in mostra sono presenti, fra gli altri, significativi nuclei della collezione personale di artisti dada e surrealisti di Enrico Baj, della raccolta del medico milanese Alessandro Passaré e della collezione dell’imprenditore Enrico Lucci oggi a Biella. È inoltre presente una scelta di opere di Leonor Fini degli Anni Quaranta che erano state raccolte nella sua villa sul lago di Como da Renato Wild, che fu con Edward James il più importante collezionista dell’artista italo-argentina.

L’esperienza immersiva dell’Assunzione della Vergine di Correggio, sulla cupola di San Giovanni Evangelista, realizzata in occasione dei 500 anni dalla realizzazione del ciclo

Le vetrate dell’artista Mimmo Paladino per il Teatro Due

La grande mostra su Toulouse-Lautrec, tra circo e vita a Montmartre, aperta a Palazzo Della Rosa Prati

Fondazione Magnani Rocca Parma

La grande mostra di Andy Warhol che torna a Napoli

Promuovere l’arte e la cultura italiane: una missione, quella del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che si concretizza nel progetto pluriennale che anima le Gallerie d’Italia di Milano, Vicenza, Torino e Napoli, rendendo fruibile una selezione di oltre 35mila opere, dall’archeologia al contemporaneo, con progetti espositivi ospitati nelle diverse sedi. Tra questi, spicca Andy Warhol. Triple Elvis, la mostra dedicata al padre della Pop Art allestita in via Toledo fino al febbraio 2025. Il progetto, a cura di Luca Massimo Barbero, presenta un significativo corpus di opere del leggendario artista, tra cui tre grafici riuniti per la prima volta e provenienti dalla Collezione Luigi e Peppino Agrati, un’importante raccolta d’arte confluita nel patrimonio storico-artistico tutelato da Intesa Sanpaolo grazie al lascito del Cavalier Luigi Agrati.

IL LEGAME TRA

ANDY WARHOL E NAPOLI

Il percorso va così a restituire al pubblico l’originale ricerca dell’artista americano a partire dal Triple Elvis del 1963, anno in cui - in occasione della mostra dedicata agli Elvis Paintings, alla Ferus Gallery di Los Angeles - sperimenta per la prima volta la ripetizione seriale. A questa si affiancano i tre importanti cicli grafici di Marilyn, Mao Tse-Tung e Eletric Chairs, da cui è possibile notare l’evoluzione di Warhol negli Anni Sessanta e nei primissimi Anni Settanta. Nello specifico, nelle dieci Electric Chairs si nota come l’immagine di una sedia elettrica possa diventare un’icona politica, così come una meditazione sull’umanità e sulla morte. Nelle stampe che ritraggono Norma Jeane Mortenson/Marylin, realizzate nel 1967, si consacra il firmamento dei miti hollywoodiani, oggi emblema dell’artista americano. Infine, nel 1972, l’uso del colore si fa sempre più deciso e profondo, come nei ritratti dell’ex presidente della Repubblica Popolare Cinese.

LA SERIE VESUVIUS

L’ampia retrospettiva si conclude con i due Vesuvius realizzati da Warhol nel 1985, esposti nell’estate di quello stesso anno nel Salone dei Camuccini al Museo di Capodimonte in una mostra organizzata dal gallerista Lucio Amelio e curata da Michele Bonuomo e Angela Tecce. Queste, entrate a far parte della collezione di Intesa Sanpaolo, rientrano in un ciclo di diciotto acrilici su tela e di venticinque serigrafie su cartone: praticamente delle prove

d’autore firmate. La peculiarità delle opere è l’evoluzione – più raffinata e ricercata – del processo creativo, che prende le distanze dai sistemi di riproduzione fotomeccanici utilizzati in precedenza. L’intervento diretto dei colori sul supporto fotografico lascia intendere le volontà dell’artista, ovvero quello di dare l’impressione che l’opera sia stata dipinta subito dopo l’eruzione. “È semplice, per me l’eruzione è un’immagine sconvolgente, un avvenimento straordinario ed anche un grande pezzo di scultura”, raccontava l’artista a Bonuomo. “Credo sia un po’ come la bomba atomica Forse qui a New York l’unica cosa che potrebbe somigliare al Vesuvio è l’Empire State Building se improvvisamente andasse a fuoco”.

INTERVISTA A MICHELE COPPOLA, DIRETTORE CENTRALE ARTE, CULTURA E BENI CULTURALI DI INTESA SANPAOLO

Dalla nascita delle Gallerie d’Italia ad oggi il ruolo del gruppo bancario guidato da Carlo Messina si è evoluto da sponsor a protagonista del sistema, diventando parte attiva nell’organizzazione dell’offerta culturale. Come definisce questa crescita?

Il rapporto delle banche con l’arte e la cultura è parte della storia italiana fin dal Rinascimento, lo abbiamo raccontato in una magnifica mostra alle Gallerie di Piazza Scala due anni fa, partendo dai Medici fino ai casi più recenti di mecenatismo internazionale. Ma è evidente che quel legame nel tempo si è modificato e oggi, oltre a una condizione di mecenatismo e filantropia, il lavoro e la visione di Intesa Sanpaolo a favore della cultura attiene maggiormente ad un coinvolgimento diretto. Ne è chiara testimonianza la trasformazione di palazzi in musei per condividere le collezioni di proprietà, per realizzare mostre originali e offrire laboratori a scuole e pubblici fragili. La nostra Banca richiama un modello di impresa, da sempre sostenuto dal presidente emerito Giovanni Bazoli e da tutto il management, per il quale è importante generare profitto ma anche creare valori e contenuti culturali e sociali per la crescita del Paese.

Con Andy Warhol. Triple Elvis ad essere protagonista non è solo la ricerca di Warhol, ma anche la città di Napoli a cui l’artista era molto legato, come si evince nei due Vesuvius della collezione Intesa Sanpaolo presenti in mostra nel museo di Via Toledo. Come è nato il progetto e come si racconta il legame tra l’artista e il capoluogo campano nel percorso espositivo?

Ciascuna delle sedi di Gallerie d’Italia vive in profonda relazione, direi in simbiosi, con la propria città. Non c’è separazione tra via Toledo e l’ingresso del nostro museo ed è pertanto naturale che i visitatori trovino raccontata all’interno delle Gallerie anche una parte della storia di Napoli. La vivacità e la genialità dei lavori di Warhol certamente raccontano Napoli e

l’occasione di presentare per la prima volta le opere del grande artista americano nelle nostre collezioni offre il modo di sottolineare l’amore che Warhol ha avuto nei confronti di questa incredibile città.

“La ricchezza di capolavori presenti nelle raccolte d’arte della Banca rafforza la volontà di condividerne sempre più la varietà nelle nostre Gallerie d’Italia”. Ebbene, dopo la grande mostra dedicata al padre della Pop Art, quali altri capolavori saranno protagonisti nelle future esposizioni?

Alla raccolta di Intesa Sanpaolo, una delle maggiori collezioni corporate al mondo, dedichiamo costanti attività di studio che aggiungono sempre nuovi elementi di conoscenza e offrono continue suggestioni per esposizioni originali. Abbiamo parlato di Warhol, ma voglio ricordare anche la mostra inaugurata di recente a Vicenza che prende avvio dalla nostra Caduta degli angeli ribelli, una scultura che lascia letteralmente senza parole per la sua complessità e bellezza, permettendo ora la riscoperta di un artista straordinario del Settecento. Alcuni giorni fa abbiamo allestito nelle Gallerie di Milano un monumentale un dipinto di Ryman dalla collezione Agrati, presentato per la prima volta al pubblico. Le esposizioni temporanee di Gallerie d’Italia si arricchiscono sempre della presenza di opere di proprietà, tra altri prestiti. Ne sono esempio le Officine a Porta Romana di Boccioni inserite nella mostra Il Genio di Milano attesa fra qualche settimana in Piazza Scala, un’opera che descrive la modernità di Milano a inizio Novecento. Certamente la condivisione è il punto di forza del sistema delle collezioni e delle sedi museali della nostra Banca.

Fino al 16 febbraio 2025 ANDY WARHOL. TRIPLE ELVIS

A cura di Luca Massimo Barbero Gallerie d’Italia - Napoli gallerieditalia.com

nella pagina a fianco: Andy Warhol, Triple Elvis, 1963. Collezione Luigi e Peppino Agrati - Intesa Sanpaolo © Foto Luca Carrà, Milano. Artwork © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. by SIAE 2024.

in basso: Andy Warhol, Vesuvius (rosso), 1985. Collezione Intesa Sanpaolo © Archivio Patrimonio Artistico / foto Luciano Pedicini, Napoli. Artwork © The

a sinistra: Andy

Agrati - Intesa Sanpaolo © Foto Luca Carrà, Milano. Artwork © The Andy

for

Nel futuro delle Gallerie d’Italia che progetti ci sono?

Dopo la mostra dedicata a William e Lady Hamilton nelle Gallerie di Napoli e dopo il Genio di Milano, nel museo di Piazza San Carlo, dove abbiamo da poco inaugurato American nature del grande fotografo Mitch Epstein, ci sarà una nuova edizione dell’Ospite illustre che permetterà di ammirare due preziosi dipinti dalle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma. La ricchezza di proposte espositive rende le Gallerie d’Italia luoghi dinamici, con iniziative di valore che parlano a un pubblico eterogeneo, incuriosiscono e invitano i visitatori a tornare.

L’ultima opera del programma Napoli Contemporanea, “Tu si na cosa grande” del grande designer Gaetano Pesce

Il nuovo museo sulla storia gastronomica della città (che non è un museo della pizza)

La stazione dell’arte San Pasquale, disegnata dall’architetto Boris Podrecca per evocare il relitto di un’imbarcazione nelle profondità marine

Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. by SIAE 2024.
Warhol Marilyn, 1967. Collezione Luigi e Peppino
Warhol Foundation
the Visual Arts Inc. by SIAE 2024.

Munch e la metamorfosi. La mostra a Milano

L’ultimo dei Romantici, il primo dei contemporanei: con il suo corpus di lavori che si dipana tra Ottocento e Novecento, Edvard Munch (Adalsbruck, 1863 – Oslo, 1944) attraversa e descrive magistralmente un cambio di paradigma storico, filosofico ed estetico che ancora oggi ci influenza profondamente. Un percorso che l’artista coglie in maniera estremamente attendibile ma anche del tutto personale, rimanendo sempre un po’ discosto rispetto al discorso e all’estetica dominante.

INTERIORITÀ E MONDO

La mostra curata da Patricia G. Berman che il Palazzo Reale di Milano dedica all’artista norvegese, intitolata Il grido interiore, ha il grande pregio di immergere lo spettatore in questa lenta e continua metamorfosi, di fargliela percepire prima ancora di razionalizzarla. Dall’Uomo postromantico che si scopre libero protagonista del mondo ma subisce la conseguente inestinguibile angoscia, si giunge percorrendo le sale all’uomo nuovo novecentesco, segnato fin nelle sue fattezze dagli stravolgimenti della Storia. Ecco perché una visione esclusivamente introspettiva o psicologizzante

dell’opera di Munch non risulta adatta a comprendere del tutto il suo linguaggio: come dimostra l’esposizione, interiorità e mondo, pensiero ed esperienza, finitezza e trascendenza ingaggiano nella sua opera una sfida inesausta e senza vincitore.

UN PERCORSO FUORI DAL COMUNE

Cosa non scontata in rassegne di questo tipo, la quantità e la qualità delle opere riunite sono fuori dal comune. La capacità di penetrazione

delle visioni dell’artista si manifesta pienamente in mostra, quasi confondendo per la serrata successione di folgorazioni delle quali si può godere - si finisce così per perdonare i troppi intralci costituiti dai momenti “didattico-spettacolari-interattivi” che costellano le sale. Un continuo alternarsi di opere di fine Ottocento e inizio Novecento caratterizza le prime sezioni, ed è come assistere alla gestazione di uno stile che diventerà proverbiale. L’Autoritratto del 1881-82 cattura lo sguardo con quanto in esso c’è di realistico ma assieme di trasfigurato e caratterizzato psicologicamente, per lasciare subito il posto a un’espressione tipicamente munchiana dell’angoscia affidata alla fusione tra figura umana e ambiente: Malinconia del 1900-01. Tutte le carte della tipica gamma di temi e stili dell’artista vengono subito gettate in tavola: l’acuto tono parodistico e assieme tragico delle scene di genere, illustrative in senso alto come nelle diverse variazioni del Circolo bohémien di Kristiania; il macabro-grottesco di un’opera come Visione del 1892; la stilizzazione delle linee in Chiaro di luna I (1896); il tema della morte e della malattia trattato in un’intera sala; e non ultima, la straordinaria modernità delle incisioni

Le sculture di pane dell’artista e attivista LGBTQ+ La Chola Poblete, esposte al Museo delle Culture di Milano

La Cappella Portinari, una delle meraviglie segrete di Milano: incastrata tra i Navigli e San Lorenzo, ospita gli affreschi del maestro Vincenzo Foppa

La prima grande retrospettiva dedicata a Jean Tinguely dopo la sua morte, da vedere all’Hangar Bicocca

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Palazzo Reale

dell’artista. Il celeberrimo Urlo viene poi proposto in una versione litografica del 1895 ed accompagnato da una espressione analoga su tela, Disperazione del 1894.

LA SVOLTA

Ma il punto di svolta del percorso è Bambina in procinto di affogare (datato intorno al 1904). Fa infatti qui il suo ingresso sulla scena l’altro Munch, quello tutto sommato meno conosciuto, che si immerge nella rivoluzione linguistica delle Avanguardie – rivoluzione che ha in parte contribuito a determinare. Inizia qui la seconda parte dell’esposizione, che per la sua ricchezza è possibile restituire solo a campione. Disegno e colore si fondono sempre più, così come le figure e i paesaggi. E si fondono i corpi, avvinghiati in strette che hanno a che fare tanto con l’amore carnale che con la mortalità: memento mori ricchi di sensualità, dove volti e corpi si compenetrano a causa di un bacio (Coppie che si baciano nel parco, 1904), dove la luce assume toni consoni all’umore dei personaggi e assieme lo determina (Danza sulla spiaggia, 1904), dove il morso di un vampiro diventa desiderabile e voluttuoso (Vampiro nella foresta, 1916–18), ma non meno temibile.

MUNCH E L’ITALIA

Una breve ma interessante sezione sul rapporto tra Munch e l’Italia, con vedute romane e veneziane, conduce alle ultime sale che abbracciano la produzione degli ultimi trent’anni di vita. Munch è qui pienamente espressionista eppure già tende a superare quello stile; sembra a tratti di vedere già espressioni della seconda metà del Novecento, come quella di Maria Lassnig, per citare solo un nome tra i tanti contemporanei che potrebbero essere ascritti alla sua ascendenza (una recente mostra all’Albertina di Vienna, d’altronde, individuava tale ascendenza in Georg Baselitz, Miriam Cahn, Peter Doig, Marlene Dumas, oltre al citazionismo appropriazionista di Andy Warhol, che fece suo

Fino al 26 gennaio 2025 MUNCH. IL GRIDO INTERIORE

a cura di Patricia Berman Palazzo Reale - Milano palazzorealemilano.it

l’Urlo). In questi lavori, la deformazione dello spazio in base alle sensazioni dei personaggi non è mai puro espediente psicologizzante e non sfocia mai nel narrativo. Tutte le invenzioni dell’artista sono pienamente moderne, esatte dal punto di vista pittorico per quanto spesso paradossalmente scorrette rispetto al canone

novecentesco. Tra i passaggi migliori e più inaspettati che si ritrovano dunque nelle ultime sale del Palazzo reale, va citata almeno la sala che raccoglie figure maschili di bagnanti (Uomini che fanno il bagno, 1913–15, Uomo che fa il bagno, 1918). Si capisce qui chiaramente come Munch si adatti, certo, allo spirito novecentesco ma allo stesso tempo insista più di molti suoi coevi su una coesistenza di trascendenza e razionalità – propendendo in fondo per la prima come sottolinea il titolo di una delle sezioni, L’universo invisibile. È poi hockneyana ante litteram la Donna sui gradini della veranda del 1942, neoespressionista con decenni d’anticipo l’allegorico La storia, 1913, cinematografico e letterario Il viandante notturno del 1923–24. E si conclude incontrando prima una gamma di autoritratti a confronto, infine altri classici munchiani come Autoritratto all’inferno, 1903 e Le ragazze sul ponte, 1927. La magia di Munch, che in mostra vive fortemente, risiede in fondo non solo nell’impatto fuori dal comune dalle sue visioni, ma anche nella sua capacità unica di rappresentare i mutamenti nello spirito del tempo in modo imprevisto. Ovvero tenendosi sempre in una posizione estetica decentrata, anticanonica, bizzarra e “allucinata” – è il caso di dirlo.

disegni giovanili: copia illustrazioni di un libro su Roma

disegno giovanile da Raffaello (Ritratto di giovane uomo → opera in mostra)

primo viaggio in Italia: Firenze, Pisa, Roma

secondo viaggio: Como e dintorni (a Mendrisio, viene sospettato di essere l’assassino di Umberto I, subito scagionato)

1922 di nuovo a Como in direzione di una mostra a Zurigo

1926 viaggio a Milano e Venezia (Ponte di Rialto, pastello su carta → opera in mostra) 1927 un mese a Roma (al cimitero acattolico, raffigura la tomba di Peter Andreas Munch, storico di professione e zio di Munch, che ebbe accesso agli archivi segreti del Vaticano → opera in mostra)

1937 non dà seguito all’invito della Biennale di Venezia

a sinistra in alto: Edvard Munch, L’artista e la sua modella, 1919–21, Olio su tela, 128x152,5 cm, Photo © Munchmuseet
in basso: Edvard Munch, La morte di Marat, 1907, Olio su tela, 153x149 cm, Photo © Munchmuseet
a fianco: Edvard Munch, Il bacio 1897 Olio su tela, 100x81,5 cm Photo © Munchmuseet

Matisse e la luce del Mediterraneo. L’esposizione a Mestre

Nel 1951 Henri Matisse pubblica il suo testamento spirituale. Si sofferma sugli inizi del proprio lavoro quando in pittura si accettano solo dipinti sottomessi al dato. “Un minimo accenno alla fantasia e alla memoria veniva considerato borioso e privo di valore. Bisognava copiare la natura senza pensare”. Così, dopo averlo sperimentato, si oppone al Realismo, e all’Impressionismo, che giudica un “pullulare di sensazioni contraddittorie”. Ma chi era Matisse, il mancato avvocato di Le Cateau-Cambrèsis che sarebbe stato definito tailleur de lumière e come arriva alla pittura? Un artista che inquadra nel suo orizzonte tutto ciò che è riconducibile al “lusso, calma e voluttà” per dirla con Baudelaire, facendo della gioia di vivere la meta ultima della sua ricerca pittorica impastata nella visione decorativa.

L’INIZIO

Veramente insolito il suo percorso: studia giurisprudenza all’università di Parigi, a vent’anni comincia a far pratica, ma scopre molto presto di non provare nessun interesse per le sentenze. Una malattia intestinale lo salva dalle rigide procedure dei codici: relegato in un letto, per distrarsi inizia a dipingere. Abbandona gli studi di giurisprudenza. Gira diverse accademie fino a quando conosce André Derain e Maurice de Vlaminck. Nasce il gruppo dei Fauves. L’esposizione dei loro quadri, a partire dal Salon d’Automne parigino del 1905, sconvolge critica e pubblico per la violenza dei colori, il contrasto dei toni, la spregiudicatezza degli accostamenti

MATISSE, SOVVERTITORE DEL SENSO COMUNE

Matisse si avvia a sconvolgere l’arte del XX Secolo. Sovverte il senso comune, frantuma il doppio canone della verosimiglianza e della bellezza, chiude in un cassetto a doppia mandata la rappresentazione fenomenica. Anche se i suoi quadri conservano un certo impatto documentario, rivendicano a gran voce la peculiarità della pittura, interpretata come un insieme libero di segni, facendo leva solo sui colori. Si possono intuire i frammenti referenziali che danno inizio al dipinto, ma sono solo suggestioni che vengono depurate. A questo grande

maestro della pittura del Novecento, il Centro

Culturale Candiani di Mestre dedica la mostra, Matisse e la luce del Mediterraneo, a cura di Elisabetta Barisoni. Cinquanta le opere selezionate. Sette le sezioni che la scandiscono: La modernità viene dal mare, La Luce del Mediterraneo, L’età dell’oro, Il Mediterraneo, un paradiso unico, Arabesco e decorazione, Lusso, calma e voluttà, Il disegno del piacere.

IL DIALOGO CON PIERRE BONNARD

Matisse, artista dalle cromie intense innaturali stranianti, dialoga in mostra con gli autori con i quali condivide l’attrazione per le luminosità mediterranee, del Mezzogiorno francese, liberando il colore delle asprezze espressioniste. Località come Nizza, Arles, Saint-Tropez diventano icone dell’arte e della cultura del Novecento. Un rapporto importante è quello che lega il pittore di Le Cateau-Cambrèsis a Pierre Bonnard, fondatore del gruppo dei Nabis. Pur abbracciando estetiche diverse entrambi inseguono la luce particolare della Provenza, traducendola nella tela rispettando ognuno il proprio stile. Nel Nudo allo specchio del 1931, Bonnard riprende il tema, frequente nella sua pittura, della moglie Marthe, colta nell’intimità della stanza da toilette. Ciò che lo avvicina a Matisse è il ruolo fondamentale del colore intenso e vibrante come fondamento della poiesis pittorica.

LE OPERE DI MATISSE IN MOSTRA

Fisicità ed espressività del colore, prima accennati, sono riscontrabili ne La finestra aperta del 1919: il soggetto del quadro offre il paesaggio della sua casa di Nizza, dipinto tra interno ed esterno. Particolare rilievo assume il blu del Mediterraneo che diventa un quadro nel quadro, con la balaustra che fa da ostacolo come ulteriore stratagemma visivo. In Odalisca gialla, del 1937, Matisse privilegia il motivo delle odalische rifacendosi a quelle raffigurate da Eugène Delacroix o a quelle altrettanto famose di Ingres. Ritornano i colori chiari e brillanti, le linee curve sinuose e la serena gioia di vivere del periodo fauve.

Il 1947 vede la luce Parigi Jazz, un testo di 152 pagine scritte da Matisse. A corredo, venti illustrazioni realizzate tra il 1943 e il 1947, con una tecnica già sperimentata dal pittore: le gouaches découpées, carte colorate a tempera, ritagliate, incollate su carta e poi riprodotte a stampino. Tra queste la mitica figura di Icaro, schiacciata nel cielo durante la sua caduta libera tra le stelle. Una sagoma in volo completamente nera ma con il pulsare violento di un cuore rosso rubino. In Lusso, calma e voluttà, del 1904, Matisse si ispira ad una poesia di Baudelaire. Si vedono veneri o ninfe nelle vicinanze di un paesaggio marino: sembra evidente l’eco delle Bagnanti di Cézanne, nelle figure seminude in piedi mentre si asciugano. La capacità espressiva dell’opera nasce da un uso irrealistico dei colori che non vogliono imitare la realtà ma suscitare emozioni.

fino al 4 marzo 2025 MATISSE E LA LUCE DEL MEDITERRANEO a cura di Elisabetta Barisoni Centro Culturale Candiani - Mestre muvemestre.visitmuve.it

Henri Matisse Odalisca gialla, 1937, Philadelphia Museum of Art, The Samuel S. White 3rd and Vera White Collection, 1967

WILLIAM BLAKE / VENARIA REALE

William Blake alla Reggia di Venaria. La vita è sogno

Può sembrare un paradosso che William Blake (Londra, 1757 - 1827) , la cui poesia non è meno della sua pittura, si sia abbeverato fin da bambino a un sentimento religioso non convenzionale ma di una forza capace di determinarne l’opera. La famiglia è di confessione protestante e non anglicana, non vanno in chiesa e non seguono il clero. La Bibbia è la fonte unica della loro fede ed è il primo libro di Blake, che viene educato dalla madre e iniziato alla professione di incisore, mentre il padre lo indirizza verso una visione mistica e la ricerca di un contatto personale con il divino. Apprendista incisore, disegna tombe nell’Abbazia di Westminster e qui apprende come il gotico non sia tanto uno stile quanto una forma d’immaginazione capace di stimolare le sue visioni più profetiche e cupe, cui va soggetto. Accolto nella nascente Royal Academy, vi compie studi che lo portano a diffidare della pittura di genere, nello specifico il ritratto, che la borghesia emergente richiede in gran quantità. Blake diventa presto un outsider

INSEGUENDO I PROPRI FANTASMI

Dibattendosi tra una poesia allucinata e incantevole e un’arte poliedrica e simbolista, il bibliofilo Blake confeziona una forma d’arte che oggi

chiamiamo libro d’artista con la tecnica originale dell’illuminated printing, con testi e incisioni colorate a mano Sono libri fatti a mano e come dei cahiers des voyage agli inferi, da parte di un novello Dante (illustrerà la Divina Commedia). Distante dal mercato dell’arte, Blake si auto-promuove, ma son pochi gli ammiratori che lo collezionano, segnando così per lui una strada di povertà ma non d’infelicità: al suo fianco avrà sempre l’amata Catherine Boucher, donna analfabeta che lui istruisce e che lo aiuterà nella sua produzione: lui la considera il suo angelo. A questa dimensione più intima e domestica della vita dell’artista si contrappone il flusso ininterrotto di visioni cosmiche, universali e apocalittiche da parte di un’immaginazione allevata come il sommo bene e come la chiave per accedere all’infinito. Una posizione romantica e perduta che fanno di Blake il capostipite dei “maledetti” di ieri e di oggi.

LA MOSTRA ALLA

REGGIA DI VENARIA

La mostra è divisa in sei sezioni tematiche e collega Blake ai contemporanei che lo hanno ispirato, come Henry Fuseli, Benjamin West e John Hamilton Mortimer. Le sezioni toccano i temi del sublime e dell’orrore, gli incantesimi, le creature fantastiche, il gotico, la romantizzazione del passato e la figura di Satana, che

per il Blake ammiratore di Milton, di cui illustra Il paradiso Perduto, diventa una figura tragica, simbolo del desiderio umano di trascendere i propri limiti. Per lui, che veste il berretto rosso dei rivoluzionari francesi e si batte per l’uguaglianza delle razze e dei sessi, la ribellione (anche quella satanica) è un atto di libertà che sprofonda nel senso tragico dell’esistere, illustrato attraverso il tormento a cui i suoi corpi sono sottoposti e che esprimono la lotta dell’uomo contro le forze cosmiche e interiori che lo straziano

LE PORTE DELLA PERCEZIONE

“Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come realmente è, infinito”, scrive Blake. L’autore de Il mondo nuovo, Aldous Huxley ne riprenderà il concetto intitolando Le porte della percezione il libro in cui descrive gli effetti liberatori e mistici della mescalina su di sé, nel 1953. Meno di due decenni dopo i Doors si chiameranno così in onore del libro di Huxley, mentre ancor più recentemente è il grande drago rosso (custodito al Brooklyn Museum) a finire in uno dei thriller più celebri della storia del cinema (la saga di Hannibal Lecter), chiudendo una linea di influenza che nasce quando il critico inglese John Ruskin entusiasticamente paragona Blake a Rembrandt, dopo aver visto le Illustrazioni del Libro di Giobbe

Nel 1826, un anno prima di morire, Blake dipinge a inchiostro e tempera su mogano, il suo Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate; sembra un’opera testamentaria in cui Giobbe subisce il supplizio estremo da parte dell’angelo caduto ma potrebbe vedersi anche come un rito di passaggio, quasi una resurrezione in quella dimensione infinita, e comunque alternativa al reale, in cui Blake ha vissuto tutta la sua esistenza di demiurgo di mondi ultraterreni.

Dal 31 ottobre al 2 febbraio

BLAKE E LA SUA EPOCA. VIAGGI NEL TEMPO DEL SOGNO

A cura di Cristina Acidini con la collaborazione di Alessandra Baroni La Venaria Reale lavenaria.it

William Blake, House of Death 1795-c.1805 - © Tate / Tate Images

Come ti comunico l’evento espositivo

Artribune ufficializza i rumor: Studio Esseci, fondato nel 1986 da Sergio Campagnolo, dal 1° gennaio 2026 muterà pelle. L’attività di ufficio stampa farà capo a una nuova società gestita dai due professionisti dello studio, Roberta Barbaro e Simone Raddi, mentre il titolare, con Studio Esseci Sas, amplierà i servizi offrendo consulenze per la cultura e il turismo, progettazione di eventi e formazione. In quest’intervista, Campagnolo illustra le peculiarità di un ufficio stampa specializzato nell’ambito delle mostre.

Perché chi organizza una grande mostra dovrebbe rivolgersi a un ufficio stampa?

Il servizio che può offrire un ufficio stampa è decisamente rilevante, poiché consente di raggiungere molti media diversi e pubblici diversi, con costi più competitivi rispetto ad altri strumenti.

Quali sono i fattori più importanti per ottenere dei buoni risultati?

Sono fondamentali le tempistiche: uno degli errori più gravi che si possono compiere organizzando una mostra è preoccuparsi di tutto, pensando all’ufficio stampa solo a ridosso dell’apertura. In questo caso gran parte dell’investimento si rivela improduttivo. Quando possibile, noi

proponiamo una “rincorsa lunga” che ci consente di parlare ai giornalisti della mostra o dell’evento con largo anticipo e di emettere un primo comunicato di annuncio vari mesi prima dell’evento. Il grosso del lavoro inizia tuttavia 90 giorni dal primo del mese dell’inaugurazione: questo è il tempo necessario per raggiungere i periodici, mentre nelle settimane successive si contattano gli altri mezzi di informazione.

Come si svolge, in concreto, il vostro lavoro?

Prima di tutto prepariamo una cartella stampa il più esaustiva possibile: non sempre le informazioni complete sono già disponibili tre o quattro mesi prima dell’inaugurazione e i materiali vanno quindi perfezionati con l’approssimarsi dell’opening. Inviamo poi un primo comunicato, che però non rivela tutta la sostanza del progetto, ma lo preannuncia in modo accattivante; contestualmente pubblichiamo sul sito sia il comunicato sia alcune immagini. A quel punto possiamo dare il via a una campagna teaser, divulgando a cadenza mensile aspetti curiosi e interessanti della mostra e nel frattempo contattiamo telefonicamente quei giornalisti che riteniamo essere “giusti” per occuparsi del progetto, raccontandolo loro in modo personalizzato. Successivamente gestiamo gli inviti alla conferenza stampa e seguiamo tutte le azioni necessarie, fino a giungere alla pubblicazione di notizie e recensioni.

Come è cambiato il lavoro di un ufficio stampa negli ultimi decenni?

Quando mi sono avvicinato a quest’attività si inviavano i comunicati via posta o via fax… Dal punto di vista tecnico vista le cose oggi sono profondamente diverse, ma non è mutata la necessità di creare e coltivare rapporti di natura diretta e personale con tutti i possibili interlocutori. Il rapporto umano consente di poter ragionare insieme al giornalista per cercare il taglio giusto del racconto. Va da sé che l’online ha assunto un rilievo prima inesistente, inoltre ora è fondamentale raggiungere e fidelizzare categorie come gli organizzatori dei gruppi culturali e turistici o i tour operator.

Ha ancora senso, oggi, non divulgare comunicati, immagini e materiali stampa prima della conferenza stampa?

Dipende: un comunicato di primo annuncio, che riporti solamente gli elementi essenziali, a mio avviso va diffuso il prima possibile; le informazioni più complete vanno invece fornite all’ultimo. Per i periodici la disponibilità della cartella stampa va garantita in anticipo, ma sotto embargo. È infine fondamentale continuare ad alimentare l’interesse sulla mostra anche dopo l’apertura.

Preview e conferenza stampa della mostra Henri CartierBresson e l'Italia a Palazzo Roverella di Rovigo, foto Antonio Jordan

MILANO

Fino al 26 gennaio 2025

MUNCH

Il grido interiore

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 9 febbraio 2025

BAJ CHEZ BAJ

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 16 febbraio 2025

NIKI DE SAINT PHALLE

MUDEC - Museo delle Culture mudec.it

Fino al 2 febbraio 2025

JEAN TINGUELY

Pirelli Hangar Bicocca pirellihangarbicocca.org

Fino al 16 febbraio 2025

MARINA ABRAMOVIĆ

BETWEEN BREATH AND FIRE

Gres Art 671 gresart671.org

Dal 18 ottobre 2024

IL RINASCIMENTO A BRESCIA Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552

Museo di Santa Giulia bresciamusei.com

Fino al 2 febbraio 2025

TINA MODOTTI L’opera

Camera - Centro Italiano per la Fotografia camera.to

Fino al 2 febbraio 2025

BLAKE E LA SUA EPOCA

Viaggi nel tempo del sogno

La Venaria Reale lavenaria.it

Fino al 2 marzo 2025 1950-1970

La grande arte italiana

Musei Reali di Torino museireali.beniculturali.it

Fino al 9 marzo 2025

BERTHE MORISOT

Pittrice impressionista

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea www.gamtorino.it

Dall’8 ottobre 2024 BAJ CHEZ BAJ

Museo della Ceramica di Savona e MuDA – Museo Diffuso Albisola musa.savona.it/museodellaceramica

Fino al 26 gennaio 2025

HELEN FRANKENTHALER: DIPINGERE SENZA REGOLE

Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org

Fino al 23 febbraio 2025

IMPRESSION, MORISOT

Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it

Fino al 30 marzo 2025

LISETTA CARMI

Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it

Dal 31 ottobre 2024

VASARI

Il Teatro delle Virtù

La Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea e l’ex Chiesa di Sant’Ignazio www.vasari450.it

ROVERETO

Fino al 9 marzo 2025

ITALO CREMONA

Tutto il resto è profonda notte

Mart mart.tn.it

VENEZIA PARMA

Fino al 15 dicembre 2024

IL SURREALISMO E L’ITALIA

Fondazione Magnani-Rocca

Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it

Fino al 19 gennaio 2025 L’ETÀ DELL’ORO

Galleria Nazionale dell’Umbria gallerianazionaledellumbria.it

NAPOLI

Fino al 16 febbraio 2025

ANDY WARHOL

Triple Elvis Gallerie d’Italia gallerieditalia.com

Fino al 3 marzo 2025

MARINA APOLLONIO

Oltre il cerchio

Peggy Guggenheim Collection guggenheim-venice.it

Fino al 4 marzo 2025

MATISSE

Centro Candiani (Mestre) muvemestre.visitmuve.it

BOLOGNA

Fino al 28 Febbraio 2025

ANTONIO LIGABUE

Palazzo Pallavicini palazzopallavicini.com

Fino al 4 maggio 2025

AI WEIWEI. WHO AM I?

Palazzo Fava operalaboratori.com

ROMA

Fino al 19 gennaio 2025

FERNANDO BOTERO

La grande mostra Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it

Fino al 23 febbraio 2025

MIRÓ

Il costruttore di sogni Museo Storico della Fanteria esercito.difesa.it/storia/musei/ Museo-Storico-della-Fanteria

Dal 31 ottobre 2024

GUERCINO

L’era Ludovisi a Roma

Scuderie del Quirinale scuderiequirinale.it

Dal 3 dicembre 2024

IL TEMPO DEL FUTURISMO

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea lagallerianazionale.com

PERUGIA

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