N. 67 L GIUGNO – AGOSTO 2022 L ANNO XII
centro/00826/06.2015 18.06.2015
ISSN 2280-8817
La Biennale di Venezia e i legami (storici) con il mercato + Focus Austria + Accessibilità e cultura: a che punto siamo?
la grande fotografia al MAXXI Daido
MORIYAMA con
Shomei Daido Moriyama, How to create a beautiful picture, 1987. © Daido Moriyama Photo Foundation courtesy of Akio Nagasawa Gallery
TOMATSU Tokyo Revisited 14 apr > 16 ott 2022 a cura di Hou Hanru, Elena Motisi partner
Gianni Berengo Gardin, Treno Roma-Milano, 1991. © Gianni Berengo Gardin / Courtesy Fondazione Forma per la fotografia, Milano.
Gianni
BERENGO GARDIN L’occhio come mestiere 4 mag > 18 set 2022 a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro in collaborazione con
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MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo via Guido Reni, 4A - Roma | www.maxxi.art media partner
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#67 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Giorgia Basili | Irene Fanizza Giulia Giaume | Claudia Giraud Desirée Maida | Livia Montagnoli Roberta Pisa | Giulia Ronchi Valentina Silvestrini | Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA ARTRIBUNE Luca Grechi, Cielo in fiore, 2022 Tecnica mista su tela, cm 190x150 Courtesy l’artista COPERTINA GRANDI MOSTRE I Farnese. Architettura, Arte, Potere. Exhibition view at Galleria Petitot, Biblioteca Palatina, Complesso Monumentale della Pilotta, Parma 2022. Photo Giovanni Hänninen STAMPA CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 7 giugno 2022
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artribune
COLUMNS 6 L GIRO D’ITALIA Valter Scelsi Giovanna Silva || 14 L Massimiliano Tonelli È arrivato il momento dei cinema pubblici? || 15 L Marta Sollima Letizia Battaglia: una donna senza rimpianti || 16 L Renato Barilli CNAM: un vecchio nuovo corpo intermedio || 17 L Claudio Musso S(c)uole illustri || 18 L Aldo Premoli La natura ibrida dell'Antropocene || 19 L Marcello Faletra L'ultimo bardo: William Kentridge || 20 L Fabio Severino Ricominciamo a vergognarci 21 L Christian Caliandro Sfumature
NEWS 22 L STUDIO VISIT Saverio Verini Marco Vitale || 28 L LA COPERTINA Luca Grechi | NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli 10 & zero uno (Venezia) || 29 L CONCIERGE Valentina Silvestrini Se la dimora dell'architetto diventa un
boutique hotel || 30 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo Marlene Dumas || 31 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Vito Ansaldi e l'amore per l'editoria || 34 L COSE Valentina Tanni Selfie volanti et. al. || 38 L ARCHUNTER Marta Atzeni Lacol || 39 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni Investire e giocare con gli NFT | GESTIONALIA Irene Sanesi L'arte nei luoghi di lavoro || 40 L DURALEX Raffaella Pellegrino Arte digitale ed NFT: cosa dice il diritto? || 41
L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Studio La Linea Verticale (Bologna) 42 L DISTRETTI Livia Montagnoli Nuoro è ancora la piccola Atene di Sardegna || 46 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Yuval Robichek || 47 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Nebbam (Bologna) || 48 L ART MUSIC Claudia
Giraud Pele e Alma: il disco-libro-planner di yoga illustrato || 49 L SERIAL VIEWER Santa Nastro La truffa dell'arte | L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia
Pezzoli Avvertimenti in salsa cyberpunk || 50 L NUOVI SPAZI Arianna Testino Riccardo Costantini (Torino) | NECROLOGY || 52 L OSSERVATORIO NON PROFIT Dario Moalli La Portineria. Uno spazio non profit a Firenze
STORIES 58 L Livia Montagnoli Per una cultura accessibile 66 L Cristina Masturzo Il latte dei sogni che nutre i collezionisti 74 L Marco Enrico Giacomelli Austria: dove l'arte vive nei palazzi storici
GRANDI MOSTRE #29 84 L IN APERTURA Livia Montagnoli L’arte dei Farnese alla Pilotta di Parma 86 L FOTOGRAFIA Angela Madesani Un nuovo museo per Torino 90 L GRANDI CLASSICI Arianna Testino La magia del Surrealismo a Venezia 92 L DIETRO LE QUINTE Claudia Giraud Lucio Dalla nella sua Bologna 94 L OLTRECONFINE Federica Mancini Giorgio Vasari: un collezionista al Louvre || 96 L ARTE E PAESAGGIO Claudia Zanfi Land Art sul Delta del Po | IL MUSEO NASCOSTO Lorenzo Madaro Museo Artias (Faenza)
97 L ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Leonora Carrington | IL LIBRO Marco Enrico Giacomelli Il bestiario di Ulisse Aldrovandi
ENDING 132 L SHORT NOVEL Alex Urso Maurizio Lacavalla 134 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi Italia nostra
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QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Elisabeth Albrecht Vito Ansaldi Diana Anselmo Marta Atzeni Giovanni Avolio Renato Barilli Giorgia Basili Florian T. Bayer Chiara Boscolo Christian Caliandro Simona Caraceni Carolina Chiatto Anna Consolati Michele Coppola Riccardo Costantini Antonella Crippa Alessandro De Rosa Laureen Dijonne Andrea Faccani Greta Desirée Facchinato Marcello Faletra Fabrizio Federici Michael Freund Marco Enrico Giacomelli Giulia Giaume Emilia Giorgi Claudia Giraud Ferruccio Giromini Luca Grechi Lilli Hollein Matteo Innocenti Maurizio Lacavalla Lacol Giorgia Losio Lorenzo Madaro Angela Madesani Federica Mancini Cristina Masturzo Dario Moalli Livia Montagnoli Stefano Monti Claudio Musso Santa Nastro Antonio Natali Alessandro Nicosia Nina Nöhrig Vale Palmi Raffaella Pellegrino Giulia Pezzoli Ludovico Pratesi Aldo Premoli Giulia Ronchi Pierluigi Sacco Irene Sanesi Valter Scelsi Marco Senaldi Daniel Serafin Fabio Severino Maria Celeste Sgrò Giovanna Silva Valentina Silvestrini Marta Sollima Gražina Subelytė Valentina Tanni Arianna Testino Fantine Tho Massimiliano Tonelli Alex Urso Roberta Vanali Simone Verde Franco Veremondi Saverio Verini Marco Vitale Claudia Zanfi
stefano cagol IL FATO DELL’ENERGIA Ghiacci glaciali, surriscaldamento e divinazioni
a cura di Emanuele Quinz
27.05 – 30.10.2022
Evento speciale: 9 agosto h 21.30 Info orari: www.castellivaldinon.it
Ufficio stampa: T. +39 0463 830133 ufficio.stampa@visitvaldinon.it
Castel Belasi Campodenno Val di Non
Immagine: Far Before and After Us (2022) realizzata in Val di Tovel-Dolomiti per padiglione dello stato di Perak-Malesia, PERA+FLORA+FAUNA. The story of indigenousness and the ownership of history, Archivi della Misericordia,Biennale Arte 2022. Presente eccezionalmente anche a Castel Belasi.
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Genova
NEI NUMERI PRECENDENTI #58 #59/60 #61 #62 #63 #64 #65/66
VALTER SCELSI [ architetto ] GIOVANNA SILVA [ fotografa ]
er essere riconosciute, le città devono scontare un piccolo pegno simbolico: scegliere qualcosa che le rappresenti e portarselo appresso per sempre. Il pegno di Genova è la Lanterna, e non le si chiede neanche molto per giocare questo ruolo, solo una certa fotogenia. Ai piedi della Lanterna, che poi è il faro monumentale che dal XII secolo veglia sul suo porto, Genova può disordinarsi a piacere. L’immagine che fa capolino da mille scorci basta da sola a connotare positivamente il ruolo della Lanterna nella geografia urbana: come molti edifici alti, sviluppa una forma di radicamento sociale nel paesaggio e, contemporaneamente, produce un diffuso desiderio di imitazione. La sua evidenza la rende disponibile metafora e la propone alla copia. Così, quando nel 2004 l’artista americano Dennis Oppenheim viene invitato a realizzare un’installazione a Genova, nell’ambito della mostra Arti & Architettura, sceglie di collocare nel cortile di Palazzo Bianco Mobile lighthouse, un faro alto quasi otto metri appoggiato sul carapace di una tartaruga marina. In realtà, i grandi animali marini come la testuggine a Genova quasi nessuno li ha mai visti, eppure se ne ipotizza l’esistenza. Fantasia di bestie, come fantasia di naufragi. Durante l’alluvione di Genova del 2014 il Museo di Storia Naturale Giacomo Doria viene invaso dall’onda di piena del torrente Bisagno. Tra gli oggetti galleggianti nel fluido grigio compare lo spettacolo inaspettato della pinna dorsale di un pescecane. Poi, a guardare meglio alla luce delle torce elettriche, non si vede solo la pinna, ma tutto il corpo del pescione. Pare che questo squalo sia nato nel Mar Ligure all’inizio del Novecento e pescato al largo di Portofino qualche anno dopo, quindi messo in formaldeide in una teca di vetro e accostato ad altre centinaia di corpi fluttuanti dentro vasi trasparenti, corpi di animali diversissimi, serpenti, anfibi, pesci, volatili e mammiferi. Da allora è rimasto lì, nel silenzio e nella penombra dei magazzini del museo, per più di un secolo, fino a quando l’acqua del Bisagno gonfiato dalle piogge si è opposta, come altre volte, a quella del mare e ha invaso la città, in quella parte pianeggiante di Genova che poi sarebbe il bacino di espansione naturale del torrente, se non l’avessero riempito di case. Il liquido grigiastro si è impossessato degli spazi sotterranei del museo, invadendo, distruggendo, trascinando. E liberando le misteriose creature fluttuanti. Lo squalo si è trovato, suo malgrado, a nuotare dentro il limo dell’alluvione. Però, dal giorno in cui è finito nelle maglie delle reti dei pescatori il mondo è cambiato parecchio, e lui, il grosso pesce inutile le cui carni si diceva fossero perfino velenose, nel frattempo è diventato una star del cinema. Non solo del cinema, ma anche dell’arte, perché in questi anni un altro squalo morto si è trasformato in una
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Venezia Palermo Cabras (Oristano) Milano Portofino Reggio Calabria Taranto
glorificata opera contemporanea, anch’esso restando sospeso in una soluzione fluida, in una teca di vetro, dentro un museo. The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living si intitola l’opera dell’artista britannico Damien Hirst, che poi è uno squalo in formaldeide nella sua bella teca, venduta dal gallerista Charles Saatchi per la rispettabile cifra, dicono, di dodici milioni di dollari. E questa nostra piccola storia genovese potrebbe finire qui, oppure concludersi tornando nel 2004, quando, nel tentativo di mostrarmi arguto, chiesi a Edoardo Sanguineti se avrebbe mai scritto una piccola guida turistica della nostra città, sul tipo di quella di Fernando Pessoa per Lisbona, e lui mi rispose che, in effetti, lo stava proprio facendo. Poi Sanguineti partì per Lisbona (già), da dove scrisse per Genova un acrostico in sei versi, che ogni volta che lo rileggo penso come, in fondo, i posti del mondo non serva abitarli per amarli, e neppure, forse, averli mai visti per conoscerli. Sei versi che sono questi, in fine:
GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.
Guardala qui, questa città, la mia: È in riva al Tejo che io cerco Campetto, Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto, O un Cable Car su in vico Zaccaria; Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto A replicarne un po’ la psiche e il volto.
BIO Giovanna Silva (1980) vive a Milano. Accumula immagini in modo quasi compulsivo, analizza lo spazio, lʼarchitettura e la storia delle città attraverso la fotografia, per creare narrazioni oggettive e allo stesso tempo personali. Nelle sue foto il tempo risulta sospeso, la figura umana è assente e le immagini, pur provenendo da contesti geografici molto diversi tra loro, finiscono per assomigliarsi. Ha pubblicato Milan. City, I listen to your heart, Islamabad Today, Imeldific, Tehran, 17 April 1975: a Cambodian Journey, Afghanistan: 0 Rh-, Syria: A Travel Guide to Disappearance, Foxtrot Gate – Cyprus, Libya: Inch by Inch, House by House, Alley by Alley, Baghdad: Red Zone, Green Zone, Babylon (Mousse Publishing); UN, CH (bruno); Niemeyer4ever, Palmyrah (Art Paper Editions); Walk like an Egyptian, Good Boy 0372 (Motto Books) e Mr. Bawa, I Presume (Hatje Cantz). Ha partecipato alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia con il progetto Nightswimming, Discotheques in Italy from the 1960s to the present (Bedford Press). I suoi lavori sono stati esposti al MACRO di Roma, alla Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia, alla Triennale di Milano, all’American Academy di Roma. È fondatrice di Humboldt Books e San Rocco Magazine. Insegna fotografia applicata allʼeditoria allʼISIA Urbino, IUAV Venezia e NABA Milano.
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Giovanna Silva, Palazzo Lancia, Angelini, Narizzano, 1934 + San Benigno – Torre Nord – Matitone, SOM (Skidmore, Owens, Merril), Finzi, Lanata, Messina, 1981-89
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Giovanna Silva, Complesso Sportivo Valletta Cambiaso, Albini, Helg, Zappa, 1955-56
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Giovanna Silva, Università di Genova – Matematica, Fisica e Scienze Naturali, Badano, Calza, 1975-94
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Giovanna Silva, Quartiere Ina-Casa Porta degli Angeli – Casa A, Daneri, 1954-62
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Giovanna Silva, Quartiere Pegli 3 – Le Lavatrici, Rizzo, 1980-89
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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]
È ARRIVATO IL MOMENTO DEI CINEMA PUBBLICI?
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uel momento è arrivato. Punto di non ritorno. Inutile stare a raccontarsela: i cinema non ce la fanno più. Non ce la possono fare, è algebrico. Le circostanze degli ultimi due anni forse hanno accelerato l’esito, ma comunque la strada era segnata. Una scappatoia tuttavia ci deve pur essere… La riflessione mi sale a seguito dell’ultimo pasticciaccio brutto, quello di Firenze e del Cinema Odeon. Sala cinematografica dalla storia straordinaria e dai decori clamorosi, con un cursus honorum rilevante, tuttora operativa. Anche lei ha annunciato la sua trasformazione: una grande libreria della Giunti, ristoranti, bar, eventi. Cinema? Sì, forse. “Resteranno anche l’attività cinematografica e le rassegne”, dicono i promotori del nuovo corso. Ma quando un cinema viene convertito (successe, sempre a Firenze, all’Hard Rock Cafè, nato laddove c’era il Cinema Gambrinus) si dice spesso così, si promette sovente di mantenere un po’ di proiezioni, magari in una saletta ricavata alla meglio. Ma poi le promesse vengono mantenute solo parzialmente o per nulla. A Firenze in molti non l’hanno presa bene ed è partita una petizione. Del resto l’Odeon non è solo una sala mitologica, ma è anche una delle ultimissime sale attive rimaste in centro. E però la strada non può essere quella di mettere i bastoni tra le ruote ai progetti di riconversione. I cinema sono aziende private, nelle aziende private l’imprenditore deve essere libero di fare scelte, spostarsi laddove il mercato richiede, abbandonare un ambito che non ha più domanda. Non si può chiedere agli esercenti di continuare a erogare un servizio e un prodotto che sempre meno clienti desiderano. E che sempre meno spettatori sono disposti a pagare stante la concorrenza delle piattaforme, stante il cambio delle abitudini, stante la pandemia che per i cinema oltretutto – con la carognata delle mascherine obbligatorie prolungate oltre ogni ragionevolezza – pare essere infinita. Dunque come si affronta il problema? Si alza bandiera bianca, si lascia fare al mercato e si permette a tutte le sale cinematografiche di trasformarsi in qualcos’altro? Ci si arrende all’evidenza che i cinematografi faranno la fine delle edicole? In realtà una strada alternativa ci sarebbe, e ci sarebbero anche le risorse per percorrerla. Probabilmente l’unica strada possibile: quella dell’intervento pubblico. Occorre accettare il fatto che per un
Salvatore Cascio in Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore
Ci sono musei pubblici, ci sono teatri pubblici, ci sono biblioteche pubbliche. Perché mai non dovrebbero esserci cinema pubblici?
privato gestire una sala – salvo rare eccezioni – non è sostenibile. È necessario che subentri la parte pubblica laddove ritenga, come auspichiamo, questo settore meritevole di sostegno. Ci sono musei pubblici, ci sono teatri pubblici, ci sono biblioteche pubbliche. Perché mai non dovrebbero esserci cinema pubblici? Perché quel pezzo di filiera deve essere lasciato totalmente ai privati, per di più con scarsi supporti? Perché, in un ambito che sta
ricevendo una valanga di denaro statale (il Fondo per il cinema è passato negli ultimi sei anni da 400 a 750 milioni l’anno: una manna!), non si decide di destinare una percentuale robusta di questo appannaggio alle sale, rilevando quelle in difficoltà, assegnandone la gestione a comuni o associazioni, garantendo che tutte le città, tutti i territori abbiano un tot di sale in ragione della popolazione, esattamente come si fa con le biblioteche? Che senso ha finanziare in maniera così massiccia la produzione se poi vengono meno i luoghi dove distribuire i film italiani prodotti? Solo per arricchire di contenuti le già ricche piattaforme digitali? I finanziamenti per il cinema sono cresciuti enormemente ed è un bene, ma non sono distribuiti in maniera equa sulla filiera. Sembrano finanziamenti frutto di una rassegnazione di fondo: le persone fruiranno il cinema da casa e solo da casa. E invece l’esperienza della sala, ancorché minoritaria e trasformata in eccezione, è un’opzione che dovrebbe in qualche modo restare possibile.
MARTA SOLLIMA [ laureata in arti visive e studi curatoriali ]
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LETIZIA BATTAGLIA: UNA DONNA SENZA RIMPIANTI
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L’archivio palermitano è una culla esplosiva di memorie: incontri fortuiti e rispettosi con cittadini mai più visti, testimonianze storiche, bambine palermitane... Ma quali 87 anni... In quelle quasi nove decadi sono racchiusi forse centovent’anni per l’intensità di esperienze vorticose che l’hanno vista protagonista (dal fotoreportage al suo ruolo di assessore a ville e giardini con le mani “nella” terra, passando per il suo ruolo di editore per le Edizioni della Battaglia e come regista teatrale): il viaggio in camper per l’Europa e il Nord Africa è solo la punta di un iceberg. Ma al di là dei mille ruoli e delle infinite esperienze che hanno formato la personalità di questa donna libera, Letizia è stata anche una madre, una nonna e una bisnonna. Fino all’ultimo mi sono chiesta, da nipote, come potevo contribuire all’arricchimento di una vita già così ricca come la sua. Potevo, perché ne aveva bisogno. Aveva bisogno che
tutto l’amore che aveva dato al mondo le tornasse indietro, la abbagliasse come una luce. Non siamo riuscite a viaggiare insieme in camper, ma abbiamo viaggiato in altro modo: guardando film – fino a due giorni prima, un documentario sulla storia del muro di Berlino –, raccontandoci confidenze per lei storiche, per me recenti, facendo fotografie insieme. I giorni precedenti avevo abbozzato un’intervista per lei su questioni inerenti la società del XXI secolo perché non vedevo la nonna solo come un punto di riferimento sulla storia degli Anni Settanta e Ottanta del secolo e del millennio scorsi, ma come una mente vivace e analitica del mondo attuale, un mondo complesso di cui avrei voluto che lei mi esprimesse la sua visione, sempre aggiornata, lucida e mai anacronistica. Nel mio ricordo presente, l’emblema della nonna è rappresentato da quei fogli-calendario appesi alle pareti azzurre, il suo guardare avanti anche quando il corpo le suggeriva di fermarsi. Lei non si sarebbe fermata mai e di tutte le frasi che ha potuto pronunciare nella sua vita, fino all’ultimo respiro una frase non ha potuto dire: “Ah, se avessi fatto questo o quell’altro”. Il potere del rimpianto, tipicamente umano, Letizia non l’ha conosciuto.
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ia nonna Letizia, instancabile 87enne, progettava ancora tanto per il futuro. Fino all’ultimo respiro ha vissuto all’interno di una contraddizione: se il suo corpo le chiedeva tregua e le ricordava suo malgrado l’esistenza di una linea temporale della vita, la sua mente invece partoriva continuamente idee vivaci da realizzare subito e senza perdere tempo. Alle pareti azzurre della sua camera da letto, che ospita un armadio a specchio in cui ultimamente fotografava il suo volto mai del tutto stanco, erano appesi fogli che fungevano da calendario su cui annotava date di mostre e impegni da portare a termine. Quando è andata via, ho continuato a guardarli non sapendo se lasciarli al muro, come prova della sua forza estrema e del desiderio di vivere, o se rimuoverli. Non ho preso una decisione a riguardo, non spetta a me, e forse non è importante. La nonna vedeva ancora un futuro davanti a sé e si comportava come chi ha tra le mani una vita da arricchire con stimoli, incontri, nuove fotografie... Sognava di conoscere ancora il mondo, lei, che il mondo lo aveva visto in lungo e in largo, dalla Groenlandia all’India. Pochi giorni prima di andar via, mi aveva detto al telefono: “Marta, quando prenderai la patente?! Vorrei affittare un camper e girare l’Europa insieme a te”. Non sarebbe stata la sua prima volta: con il suo compagno storico, Franco Zecchin, negli Anni Ottanta ha girato con il camper la Turchia, la Gran Bretagna, l’Egitto... So da Franco che è capitato che si sia avventurata da sola per le strade del Cairo senza paura alcuna. Qualche fotografia di questi viaggi oggi si trova nel suo archivio palermitano, una culla esplosiva di memorie: incontri fortuiti e rispettosi con cittadini mai più visti, testimonianze storiche, bambine palermitane, mamme con figli il cui destino non ci è dato sapere cosa abbia riservato loro. Guardando alcune di quelle foto non si riesce a ricorrere all’immaginazione. Pochi giorni fa ho chiesto a mio fratello Matteo, che ha lavorato al suo fianco fino all’ultimo, “Matteo, dove saranno oggi questi bambini dei quartieri disagiati di Palermo?”, relativamente a foto degli Anni Ottanta, per sentirmi rispondere: “Molto probabilmente non esistono più”. In quel momento ho sentito freddo. La nonna ha reso iconicamente immortali volti e corpi di persone anonime private di un futuro, di quella stessa linea temporale della vita di cui lei è riuscita a godere fino all’ultimo respiro.
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RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]
CNAM: UN VECCHIO NUOVO CORPO INTERMEDIO
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o letto su Artribune che il nostro Ministero dell’Università e della Ricerca ha rinnovato un organo, in acronimo CNAM, ovvero Consiglio Nazionale per l’alta formazione Artistica e Musicale. Mi sfrego gli occhi incredulo, in presenza di un déjà-vu clamoroso. Infatti tanti anni fa, non ricordo quanti, sono stato invitato dall’Università a far parte di un organo incaricato più o meno dello stesso compito, il quale naturalmente è stato incapace di tirar fuori un ragno dal buco, soprattutto per l’ostilità della componente musicale. Naturalmente nulla da dire ai danni di Antonio Bisaccia, preposto alla guida di questo organo, che è un ottimo docente dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove ho avuto il piacere di soggiornare per alcuni giorni proprio su suo invito, trattato con ogni riguardo, e con tanti progetti di collaborazione futura. Fra l’altro, Bisaccia dirige una delle poche riviste ancora esistenti nel settore umanistico, Parol, che gli è stata affidata dall’estetologo Luciano Nanni, quando ha deciso di mutare pelle, cominciando dal nome. Ora si fa chiamare Nanni Menetti e conduce interessanti esperimenti d’arte in proprio, detti criografie.
I TEMPI INFINITI DELLA BUROCRAZIA
21 dicembre 1999
La legge n. 508, cioè la inattuata “riforma del settore artistico e musicale”, istituisce lo CNAM quale organo consultivo
13 febbraio 2013
È inutile insistere a creare organi intermedi, di cauto avvicinamento.
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Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi.
20 febbraio 2007
Dopo oltre sette anni si tiene la prima seduta del CNAM, quella di insediamento
È la data della 59esima “adunanza”, l’ultima alla data attuale, e coincide con l’ultimo aggiornamento del sito ufficiale www.cnam.it
Ma chi ha letto alcune delle cronache che vengo scrivendo su questa rivista sa bene qual è in merito il mio giudizio: totalmente negativo, è inutile insistere a creare organi intermedi, di cauto avvicinamento, è ora di fondere del tutto le Accademie e simili con le Università. Il grande esempio è dato da Architettura, che da quasi un secolo ha lasciato l’ancoraggio alle Belle Arti per intraprendere un cammino sempre più convinto e sicuro tra gli Atenei, con grande successo, che in qualche caso ne ha pure prodotto un raddoppio, come è avvenuto a Milano. Se le Accademie di Belle Arti si avvicinano sempre più ai Dipartimenti di Architettura, hanno tutto da guadagnare, mettendo tra parentesi le attività nobili sul tipo di pittura e scultura, allo stesso modo che i Dipartimenti di Italianistica non mirano a tirar fuori poeti e
narratori, e i DAMS puntano a fare degli esperti in arti ma non direttamente degli artisti. Tra grafica pubblicitaria, design, fumetti, arti decorative, alle Accademie, se si consente loro di procedere a braccetto con le sorelle di Architettura, si spalanca una prateria di possibilità di sbocchi professionali.
27-29 ottobre 2021
Si svolgono in via telematica le elezioni del CNAM
22 marzo 2022
Dopo nove anni, un nuovo Consiglio si insedia
28 aprile 2022
Nel corso della prima assemblea viene eletto presidente Antonio Bisaccia
Purtroppo temo che ancora una volta l’amico Bisaccia e colleghi incontreranno l’ostracismo dei musicologi, per una ragione che mi sembra addirittura di retaggio medievale, perché queste scuole hanno anche i corsi delle scuole medie inferiori, cioè per scolari decenni o poco più, che non trovano nessuna rispondenza sul fronte arti visive, dove semmai si parte dai licei, non prima. Si dice che per diventare dei provetti suonatori di piano si debbano impostare mani e dita già a dieci anni o poco più, il che appunto mi sembra una pratica di sapore medievale, questa pretesa di destinare il futuro di ragazzini alle prime armi, forse solo per compiacere vecchi sogni di gloria dei genitori. Si lasci perdere il pianoforte se impone un simile servaggio, in tempi dove si coltivano aperte possibilità di strumenti e di suoni. Neppure per il seminario oggi si prevede di imporre vocazioni tanto precoci. O in alterativa, si faccia degli studi musicali un’isola confinata in se stessa, mentre le arti visive si svincolino da una simile tirannia, e confluiscano nell’ambito aperto dei dipartimenti universitari dedicati al visivo, costringendo questi ultimi a superare eventuali residue ritrosie e ad accoglierli a braccia aperte.
CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]
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S(C)UOLE ILLUSTRI
egli ultimi anni mi sono ritrovato spesso a parlare con gli artisti della mia generazione – quella dei nati negli Anni Ottanta – di quali fossero le principali influenze del nostro immaginario visivo. Tempo fa avevo perfino provato a delinearne una rozza fenomenologia attraverso una struttura binaria sulla quale si imperniava l’indice di un’ampia selezione di testi Dalla strada al computer e viceversa (così si intitolava il volume uscito nel 2017 per Libri Aparte). Dietro i due termini del rapporto si collocavano numerose accezioni che potevano indirizzarne il campo semantico di appartenenza: nella “strada” stavano comodamente i graffiti (o Street Art e Urban Art, come usa chiamarle oggi) e tutte le forme di comunicazione pubblica più o meno autorizzate (dai cartelloni pubblicitari al guerrilla marketing); nella “tecnologia” invece si parlava di rivoluzione digitale, videogiochi e Internet (pre e post), ma anche di tutte quelle produzioni influenzate dai processi macchinici e computazionali. Tutto sensato e pertinente, ma difficilmente riconducibile a un principio unificante, a una chiave di lettura, a un denominatore comune, a un’icona capace di condensare uno spirito del tempo, un’attitudine, una formula che sottendesse gli stili individuali.
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E se fossero proprio le Air Jordan 1 a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando?
Poi la scomparsa di Peter Moore (19442022), designer e art director di marchi come Adidas e Nike, leggendario autore del disegno delle tre strisce e “padre” delle Air Jordan 1, sneaker che per la loro fama vengono battute da Sotheby’s per 15mila dollari al paio come un ricercato multiplo d’artista, mi ha (ri)condotto a un pensiero, a un’ipotesi non così assurda. E se fossero proprio loro a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando? Quelle scarpe, esimie antenate di una dinastia destinata a dominare per decenni lo streetwear, fanno il loro debutto ai piedi di Sua Ariosità (His Airness è uno dei più noti soprannomi di Micheal Jordan) nel 1985. Non si tratta solo di una rivoluzione nel mondo dello sport o nel settore delle calzature,
seppure negli anni precedenti le suole a strati uscite dai laboratori Nike avessero cambiato la scarpa da corsa; questa volta l’impatto sarebbe arrivato fuori dalla linea di fondo perfino nel mondo della cultura. Di lì a poco, infatti, il colosso statunitense scriverà pagine indelebili nella memoria degli adolescenti degli Anni Novanta grazie alla collaborazione con registi del calibro di Spike Lee o artisti come Futura2000. È innegabile quindi che i principali brand di abbigliamento sportivo abbiano caratterizzato un’epoca, dando vita a un panorama visivo fatto di poster, riviste, video e ambienti dei loro negozi, ben oltre la diffusione globale dei loro prodotti. In quest’ottica è giusto ricordare l’esperimento Swoosh curato da Sartoria Comunicazione tra il 1996 e il 2000, in cui contenuti sportivi e culturali venivano veicolati con un’estetica che pescava a piene mani dal pop e dall’underground. Non è un caso che un protagonista della nostra generazione come il compianto Virgil Abloh (1980-2021) abbia sempre inteso la scarpa come opera d’arte, riaffermandolo nelle sue produzioni e nel volume Icons. Something’s Off (Taschen, 2021).
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Peter Moore, ‘Bred’ Nike Air Jordan 1 High OG, 1985. Courtesy Sotheby’s
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ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]
LA NATURA IBRIDA DELL’ANTROPOCENE
na svolta culturale: per la prima volta, etica, storia, geografia e geologia si fondono e la distinzione tra discipline umanistiche e scientifiche, dopo secoli di separazione, collassa. È nell’Antropocene che la separazione tra realtà e rappresentazione, tra natura e cultura si dissolve. All’inizio delle sue lezioni sull’estetica, Hegel distingue il bello naturale, che esclude ogni intervento umano, dal bello artistico, prodotto della mente dell’uomo. Più tardi, Adorno si esprimerà così a proposito del dualismo tra uomo e natura: “L’immagine del bello uno e distinto nasce con l’emancipazione dalla paura provata nei confronti della schiacciante interezza e compattezza della natura”. Ma, con l’avvento dell’Antropocene, questa distinzione decade: il dominio dell’homo sapiens sulla natura si avvia al compimento, la natura è divenuta definitivamente ibrida, è l’uomo che la plasma. A quale prezzo però. Crisi degli ecosistemi, inquinamento, esaurimento delle risorse, collasso ambientale: gli esseri umani hanno guadagnato in potenza, ma hanno davvero il controllo? Per alcuni (i più pessimisti) stiamo correndo a rompicollo verso la sesta estinzione. E pure tra gli artisti la riflessione su quanto accade su Gaia si è fatta urgente. Anche solo in Italia, i lavori di Armin Linke a Matera e il padiglione del Giappone alla Biennale nel 2019, Luca Petti e Annika Yi di recente a Milano, Stefano Cagol e Bertozzi&Casoni a Trento, il cortometraggio dei Nerdo a Torino appaiono frammenti di una riflessione sempre più ampia. Dove però la tesi prevalente è quella apocalittica, conclusiva. Tuttavia, di scuole di pensiero intorno al significato ultimo del termine Antropocene ce n’è più d’una. Da sempre per i “conservatori” la scomparsa della “natura selvaggia” è qualcosa di assai pericoloso oltreché oltraggioso. Mentre gli “innovatori” non trovano nulla di male nel distaccarsene, nel correggerla e migliorarla: per questi ultimi, l’Antropocene porta a compimento il sogno illuminista dell’unico mammifero a essersi alzato in piedi. I limiti di queste tesi sono evidenti. La narrazione catastrofista – utile per rimediare alla grande cecità che ancora avviluppa molti – non lascia però possibilità di reazione. Quella secondo cui l’umanità è destinata a divenire la “specie-Dio” pare poco propensa a precauzioni, si affida a progetti scientifici di incerto successo gestiti da un’élite. Più saggio è invece immaginare azioni basate su nuove forme di
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ARTISTI E ANTROPOCENE TRENTO Stefano Cagol We are the Flood 2022 MUSE stefanocagol.com
MILANO Luca Petti Materia esotica 2022 SUPERFLUO linktr.ee/superfluoproject
Bertozzi & Casoni Antropocene 2022 GALLERIA CIVICA bertozziecasoni.it
Annika Yi Metaspore 2022 PIRELLI HANGARBICOCCA pirellihangarbicocca.org MATERA Armin Linke Blind Sensorium. Il paradosso dell’Antropocene 2019-20 MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE | EX SCUOLA ALESSANDO VOLTA arminlinke.com
Il Mediterraneo è un mare sfregiato dalla pesca con reti poi abbandonate sul fondo, pizzicato da ancoraggi senza vergogna, assediato dalla plastica e da sostanze chimiche provenienti dagli allevamenti e dall’agricoltura intensiva. partecipazione individuale che lavorino sui limiti, pratiche collettive tese a frenare la crescita di ogni genere di produzione, progettando procedure democratiche e stili di vita meno costosi, capaci di assicurare maggiore uguaglianza e significati non esclusivamente materialistici. Ho provato di recente io stesso a organizzare una mostra incentrata su questi temi in uno dei luoghi più sensibili d’Europa. Avrà luogo nel tratto sud della costa siciliana compreso tra Augusta e Pozzallo, quest'ultima sede di uno degli hotspot più ricettivi d’Europa. A questo scopo, Pozzallo è dotata un gigantesco molo dove attraccano le imbarcazioni della Guardia Costiera o delle Ong che pattugliano il tratto di mare che separa l’Europa dall’Africa. Alle porte di Siracusa invece sta
VENEZIA Motoyuki Shitamichi | Taro Yasuno Toshiaki Ishikura | Nousaku Fuminori Cosmo-Eggs 2019 PADIGLIONE GIAPPONE GIARDINI DELLA BIENNALE venezia-biennale-japan.jpf.go.jp
il polo petrolchimico, un ecomostro dotato anch'esso di un molo colossale, all’interno del quale stazionano indifferentemente cargo, navi da guerra e da crociera, di tanto in tanto riempite di migranti in attesa di destinazione. Tuttavia Acque chiare/Acqua scure (dal 17 giugno al 15 luglio) non è una mostra sul fenomeno migratorio, piuttosto un’esposizione dedicata a quello che abbiamo imparato a conoscere come il mare che nostrum non è più da molto tempo, ma in compenso è sempre più trafficato. Percorso da rotte di ogni tipo: commerciali, quelle che dalla Cina attraverso Suez raggiungono il porto di Rotterdam; schiavistiche, quelle che dalla Tunisia si dirigono verso la Sicilia; militari, quelle che da Gibilterra lo attraversano per raggiungere i Dardanelli e il Mar Nero – quel “mare oscuro” già cantato da Euripide in Ifigenia in Tauride, che bagna tanto la Crimea quanto la Russia. Il Mediterraneo è un mare sfregiato dalla pesca con reti poi abbandonate sul fondo, pizzicato da ancoraggi senza vergogna, assediato dalla plastica e da sostanze chimiche provenienti dagli allevamenti e dall’agricoltura intensiva. Non ho trovato un solo artista (sono oltre trenta), un solo collezionista, un solo gallerista che non abbia aderito a questa mostra. La paura e insieme la speranza che Gaia non si scrolli di dosso definitivamente noialtri homo sapiens percorre ormai come un brivido freddo la schiena di tutti.
MARCELLO FALETRA [ saggista ]
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L’ULTIMO BARDO: WILLIAM KENTRIDGE
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William Kentridge con gli studenti e i curatori del workshop all’Accademia di Belle Arti di Palermo, 2022 © Archivio Marcello Faletra
Kentridge non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando.
immagini che attendono di essere intercettate, trasformandosi in un archivio di lacune, di omissioni, di errori. L’illusione, dice Kentridge, ci predispone all’inatteso e scendendo delicatamente verso il contatto si trasforma in una forma figurativa della congiunzione: la danza, le ombre, i suoni, i lamenti, il reale, oscillano intrecciandosi in un unico moto orizzontale, come una processione. Qui l’illusione di Kentiridge si fa critica verso quelle immagini abbellite che occultano le lacune della storia. Questo modo di procedere è incredibilmente convergente col paradosso di Baudrillard, per il quale l’illusione non si oppone alla realtà. Abbiamo un’illusione convenzionale, ma c’è anche un’illusione antagonista. Da questo punto di vista è interessante cogliere un altro aspetto dell’opera di Kentridge. Questa volta è Diderot a suggerirci una chiave di lettura. Nella sua celebre Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono (1749), Diderot formula un paradosso: come possono i ciechi avere
un’idea del bello? Soltanto se il bello non è separato dalla sua utilità, esso allora potrà essere concepito dai ciechi, risponde. Qui è in gioco il “valore d’uso” delle parole, come avrebbe detto Marx un secolo dopo, che in Kentridge diventa il valore d’uso dell’illusione. A che servono le immagini se non ne facciamo un’esperienza che coinvolga i sensi, cioè il corpo? In diverse opere di Kentridge assistiamo a un’impresa: la riscrittura della tattilità, dell’artigianalità, a dispetto di un’età che si vuole integralmente digitale. Nelle sue opere le immagini passano per le mani, per il corpo e ne subiscono gli accidenti, le imperfezioni, sono incidentate dalle scosse e dai traumi che le fanno diventare altro da quelle per le quali erano state pensate. Si potrebbe dire che Kentridge guarda all’arte come pharmakon (una farmacologia attraverso una ritualità delle arti), in funzione di un’epica liberatoria dello sguardo, come accade nelle dissacrazioni di Jarry, o nella anti-ragion pratica di Cervantes, o nell’incertezza radicale di Svevo, che coniugano indecisione, saggezza e follia. Si tratta di una scelta di campo tra la suspence dell’incertezza manuale e la brutalità dell’evidenza dell’integralismo digitale. Questa ritualità è in gioco in molte opere di Kentridge, dove assistiamo a una specie di ritornello di Catastrophe di Samuel Beckett, nel quale emerge una sola questione: si è sicuri soltanto della propria incertezza.
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el Medioevo esisteva in Europa una categoria di cantori chiamati bardi. Il bardo illustrava imprese e gesta eroiche di persone di alto rango. Erano gli eredi degli aedi greci. I bardi erano dei cantastorie di professione al servizio dei potenti. Padroneggiavano la musica, il canto, la parola. E, come gli aedi, conoscevano la genealogia dei potenti. Trasmettevano la memoria storica dei vincitori. Possiamo dire di William Kentridge qualcosa di analogo. È una specie singolare di cantastorie. Ma, a differenza dei bardi del passato, Kentridge canta ben altre storie. Rovescia il punto di vista: canta per i “dannati della terra”. Questa espressione è di Frantz Fanon, nato nella Martinica – ex colonia dei francesi –, che si è adoperato fino alla morte per la decolonizzazione di tutti i popoli oppressi. Parlando con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, durante un workshop e una lectio magistralis (1°/3 maggio 2022, curati da Daniela Bigi, Stefania Galegati, Rosa Persico e Marcello Faletra), Kentridge rilancia la sua poetica di bardo dei dannati. Il racconto inizia dal mito di Perseo e la Medusa, che il padre gli narrò una volta da bambino. Lentamente, dal mito passa alla storia: le sconfitte e i trionfi degli ultimi, e durante la narrazione riattualizza l’epos come genere narrativo e l’energia dell’errore come metodo. In questo procedere riprende un’intuizione di Walter Benjamin, per il quale “l’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione”, ma a ripetere questa volta sono i vinti e l’artista stesso che, come un mimo, cerca qualcosa che gli sfugge: non si stanca di narrare e ricreare trionfi e lamenti, cadute e resurrezioni, come se non fosse all’altezza di ciò che sta narrando. Dice agli studenti che la prova dell’arte, nella sua opera, passa attraverso l’idea di comunità narrativa e per il sincretismo sensoriale del corpo e delle sue avventure. E aggiunge, poi, che all’atrofia dell’esperienza, generata dall’impero digitale, contrappone blocchi di corpi, suoni e voci assemblati come un composto che reintegra in una contronarrazione critica le vite di scarto. Fondamentale è in Kentridge il ruolo dell’illusione. Nel suo racconto diventa la scena primaria che è anteriore alla scena estetica. Se il regno dell’arte e dell’estetica è quello di una gestione convenzionale dell’illusione che tende a neutralizzarne gli effetti estremi, in Kentridge assistiamo a un rovesciamento di questa gestione. L’illusione si prende una rivincita: genera
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FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]
RICOMINCIAMO A VERGOGNARCI
a cultura ci salverà con la vergogna. Se la cultura è identità, lì dentro ci possiamo trovare un sacco di cose. A me sembra che la vergogna sia andata persa. Non ci si vergogna più di nulla in questa società contemporanea. Non ci si vergogna di sporcare, molestare, infastidire, rompere, rubare… niente. Non esiste il senso di comunità, ovvero quel cerchio dentro il quale ci siamo tutti. Ci sono le regole di convivenza, e, ancor prima delle sanzioni formali, ci starebbe il senso civico, il rispetto per ciò che è di tutti, mio ma anche degli altri. Mentre oggi tutti è nessuno. Siamo ognuno nessuno. Siamo tanto visibili quanto anonimi sui social. La comunicazione tra essere umani ormai pare essere solo là. Pieni di amici, quanto di solitudine. Pieni di insicurezze, quanto di tracotanza. Più siamo spavaldi e più siamo vuoti. Più esageriamo, meno abbiamo. È venuto meno il senso della vergogna. L’imbarazzo per ciò che nelle regole comuni non si può fare, non va bene farlo, non vorremmo sia fatto a noi. Oggi noi vogliamo tutto, subito e ci spetta, e non siamo disponibili a dare un bel niente. La strada, il luogo pubblico per eccellenza, dove più di altrove le persone si incrociano nei loro flussi di vita quotidiana, è dove si registra il maggior tasso di
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Alla giungla si aggiunge e la fa esplodere questo superficiale sentirsi di essere in un mondo di soli diritti, ad accessibilità continua e incondizionata. assenza di vergogna. Quando qualcuno, per lo più anziano, segnala comportamenti non consoni, la reazione del redarguito è sempre la stessa: rabbia nel sentirsi leso nel suo diritto di agire. Che in fondo niente altro è che un bisogno di esistere. La vergogna invece è quel sentimento sano di imbarazzo davanti a qualcosa che non andrebbe fatto e che qualcuno ci fa notare. Quando è ben diffusa, la vergogna ha anche funzione preventiva. Mette nelle condizioni di prevenire nel fare qualcosa che non andrebbe fatto, anticipando la recriminazione pubblica. Ma vergogna pare non ce ne sia più. In primis perché viviamo in una giungla. Questo è il sentito comune. È difficile sopravvivere, figuriamoci fare attenzione a ciò che potrebbe dare fastidio agli altri, a regole comuni che qualcuno chissà come
ha stabilito. Dimenticandosi che quel qualcuno è semplicemente “quello che non vorremmo fosse fatto a noi”. Ci piace che si parcheggi male e si impedisca la mobilità veicolare? Ci piace che si sporchi dove noi stiamo? Ci piace che si rubi qualcosa che è anche nostra (una panchina nel parco) o che la si renda inutilizzabile? La lista potrebbe essere veramente infinita, tanto quanto sia quotidiano assistere all’assenza di vergogna, ovvero al rispetto di regole condivise di vita comune con conseguente senso di imbarazzo davanti alla loro trasgressione. Alla giungla si aggiunge e la fa esplodere questo superficiale sentirsi di essere in un mondo di soli diritti, ad accessibilità continua e incondizionata. Sono venute meno le condizioni a qualsiasi partecipazione. Il digitale e la comunicazione ubiqua e pervasiva ci dà l’illusione che tutto sia nostro, tutto possiamo dire, a chiunque vogliamo, in qualsiasi momento, in qualsiasi modo. Dove abbiamo allora l’occasione di ri-trovarci? Nella cultura. Nel contenitore di noi, della nostra storia, di ciò che c’è stato prima di noi e di come e perché oggi siamo qui. Nelle radici ci sono le regole di convivenza, che non sono state dettate da un giudice, ma dalla storia umana che ci ha insegnato a vivere insieme, in tanti, tutti.
CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]
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SFUMATURE
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Il fastidio per la "rottura" dell’arte – che coincide con la finzione – è principalmente il fastidio per ioioio, per il protagonismo e l’egocentrismo. E, di contro – o meglio: su un altro, differente piano di esistenza – un approccio orizzontale che tuteli la relazione e l’interrelazione, lo “sbocciare nella reciprocità” di cui parlava Carla Lonzi negli Anni Settanta dopo essere però stata profondamente delusa proprio dalla mancata “reciprocità” da parte degli artisti alla fine del decennio precedente. L’orizzontalità riguarda naturalmente anche il tempo, organizzato non in una linea progressiva che promuove opzioni e soluzioni escludendone altre, operando sostituzioni e successioni, ma in un insieme di curve, fatte di recuperi e di ritorni. Il discorso è che, evidentemente, alcune opzioni importanti rimangono sempre uguali a se stesse, anche finendo provvisoriamente nel dimenticatoio perché “non servono più”, “non sono più utili” o “attuali”…
Occorre comprendere, ma comprendere sulla propria pelle, che l’attuale non è il contemporaneo, che l’attualità non ha nulla a che fare con il contemporaneo. Artaud è contemporaneo, certo, Kaprow è contemporaneo, il Living Theatre è contemporaneo. Si tratta probabilmente di riattivare delle funzioni, di recuperare dei codici, di reimmettere linguaggi e ricostruire situazioni.
Occorre comprendere, ma comprendere sulla propria pelle, che l’attuale non è il contemporaneo, che l’attualità non ha nulla a che fare con il contemporaneo. Un’arte sfrangiata, smagliata, aperta, e un’opera propensa a fondersi e inoltrarsi, hanno bisogno necessariamente di un altro tipo di spazio rispetto a quello espositivo, e soprattutto di un altro tipo di interazione e di incontro con gli individui rispetto a quello concesso e garantito dal dispositivo della “mostra”. L’arte sfrangiata è un’arte utile, in grado cioè di fondersi sempre più con il contesto in cui si inserisce e a cui appartiene: l’opera, in questo senso, serve a compiere un percorso. L’artista comprende così che, a un certo livello, il suo lavoro diventa realmente e non retoricamente collettivo, fatto cioè da molti, dagli individui che conosce e che incontra, e con cui condivide l’esperienza profonda, immateriale, relazionale (che è poi la vera opera, intangibile, effimera, living: l’esistenza che accade; l’esistenza nel momento stesso in cui accade). Questo vuol dire di fatto ammettere senza riserve gli stili e i non-stili, i gusti e i non-gusti distanti da sé. Ammettere cioè l’Altro, accoglierlo. In caso contrario, si ricade inevitabilmente nella routine artista-opera-dispositivo/mostra-spettatore che ammira e contempla, passivamente. Si ricade cioè nell’artista troppo concentrato sulla sua “opera”, e sul fatto che l’opera sia distinta e separata da tutto il resto, che coincide con l’eliminazione e la rimozione dell’imprevisto: vale a dire, ancora una volta, l’evento – qualsiasi evento – interpretato (erroneamente) come errore. Si ricade nell’artista che interpreta il cedere parti, porzioni, quote e gradienti di autorialità come perdita di controllo rispetto al proprio stile, alla propria ricerca e soprattutto alla propria identità.
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ggi siamo invasi, inondati da opere scagliate come oggetti aggiunti al mondo, come oggetti in più: sembra quasi che ci sia un’insegna luminosa, un grande segnale che recita: “Ehi, eccomi, sono un’opera d’arte! Guardatemi! Sono stata fatta da un artista!”. Beh, credo che questo funzionamento sia esattamente opposto a quello che ci vorrebbe in questo momento storico… Amo infatti le artiste e gli artisti in grado di costruire qualcosa che sia come “tutto ciò che scorre”, che non segnali e non indichi ossessivamente di essere un’opera ma che si interessi a tutto il resto meno che all’(auto)affermazione. Il fastidio per la “rottura” dell’arte – che coincide con la finzione – è principalmente il fastidio, ormai l’hai capito, per ioioio, per il protagonismo e l’egocentrismo che si manifestano a sfavore dell’opera e del suo funzionamento. Questa centralità fittizia, questo continuo, ossessivo riproporre formule perché esse confermano un’idea e una pratica dell’identità che è anch’essa fittizia, illusoria, artificiale (l’anticultura di cui parlava Carmelo Bene).
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SAVERIO VERINI [ curatore ]
Marco Vitale e opere di Marco Vitale sono attraversate da un sentimento non pienamente definibile. Languide, provvisorie, talvolta malinconiche: mi sembrano queste le qualità della maggior parte dei suoi interventi. Vitale cerca una riconoscibilità attitudinale, più che formale. Per questo l’artista si esprime attraverso una molteplicità di media, seguendo input concettuali che lo portano ad affrontare diverse questioni: gli inciampi e i malintesi generati dal linguaggio, la rielaborazione di riti e cliché della cultura popolare, la riflessione sulla natura di desideri e pulsioni. Nella produzione di Vitale la componente effimera è una costante. Performance, ambienti instabili e opere destinati a disfarsi – talvolta con un ruolo attivo da parte dell’osservatore – contribuiscono ad alimentare lo stato d’animo inafferrabile di cui parlavo all’inizio. La sensazione è quella di essere davanti a qualcosa che si consuma di fronte a noi, anche grazie a noi.
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Ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: "Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro".
Per definire la tua pratica credo sia fondamentale partire da esempi concreti. Ti va di raccontare il progetto che ritieni più significativo tra quelli da te realizzati? Provo a rovesciare la questione. Forse il progetto più significativo è stato quello che non ho mai realizzato. This less is lecture, una mostra del tutto compiuta a livello progettuale, con un impianto teorico ferreo, che non ha però trovato realizzazione fisica – per
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scelta personale – se non attraverso il livello magnetico della scrittura: una conversazione scritta con Giorgiomaria Cornelio, autore di cui subisco il fascino, così come la vicinanza linguistica e mentale. Abbiamo poi deciso di pubblicare questo testo-mostra online, per Kabul Magazine. Fra molte esperienze nell’arco degli ultimi dieci anni, devo ammettere che questa è stata per me un caposaldo. Chiarisce un patto con la ricerca, dove l’assenza dell’opera amplifica la sua lettura. Per chiarire il concetto, ripenso a un appunto ritrovato in un’agenda dopo molto tempo, che mi ha fatto sorridere: “Fare solo ricerca. Fanculo il lavoro”. Mi piacerebbe che ora parlassi di un intervento di fronte a un vero e proprio pubblico: The desert we sang so long, per esempio. È una performance in collaborazione con Marco Musarò, dove due ragazzi sono impegnati a baciarsi per un’ora, dietro il pagamento di 6 euro l’ora, un ipotetico minimo sindacale. Tutt’intorno, dalle finestre del chiostro dov’è eseguito il pezzo, un coro canta e reinventa continuamente il testo di Janitor of Lunacy di Nico. La canzone sembra parlare dei giochi di potere all’interno della coppia, dove l’uno può esercitare un’influenza schiacciante sull’altro. Nel lavoro questo spettro si allarga, riferendosi ad altri e più ampi sistemi di potere e assoggettamento. Il
coro è nascosto, invisibile, il canto cade dall’alto, grave, sul corpo dei due performer al piano inferiore. Viene a crearsi un contatto violento fra due elementi estremi e opposti: il lavoro salariato, contro l’archetipo presente nel gesto del bacio; il lavoro inteso come attività inferiore per eccellenza (come scriveva Arendt), contro una delle sue manifestazioni più elevate e intime: lo sforzo di una bocca sull’altra, il linguaggio orale ravvicinato fisicamente sino al suo annullamento e alla sua esasperazione. I tuoi lavori nascono da un traboccamento di idee, letture, approfondimenti teorici. Penso a Cries the man in the blue garden, in cui incroci Il rituale del serpente scritto da Aby Warburg e la decorazione della volta della Cappella degli Scrovegni. Sì, la lettura è spesso fondante. Cries the man... si pone come una riproduzione alterata della Cappella degli Scrovegni, dove la volta stellata è deposta sul piano di calpestio, i lapislazzuli blu sono trasformati in sabbia, materiale tradizionale della pittura Hopi. Un ponte fra Oraibi e Atene, come suggerisce Warburg. Un confronto per strati: visivo, architettonico, antropologico. La persistenza materica nell’arte classica, bianca, occidentale contro la temporaneità dell’approccio amerindio: l’affresco immortale contro il disegno di sabbia entro cui si scagliano i serpenti vivi affinché possano cancellarlo.
BIO Marco Vitale è nato a Brindisi nel 1992. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lecce nel 2017. Tra le mostre personali si segnala: This Less is Gesture, Edicola Radetzky, Milano, a cura di Like a Little Disaster; Cries the man in the blue garden, Progetto, Lecce, a cura di Jamie Sneider. Nel 2019 ha partecipato alla residenza d’artista alla Fondazione Morra di Napoli e alla Fondazione Lac o Le Mon di San Cesario di Lecce. Nello stesso anno è vincitore del premio AccadeMibac. Tra i suoi ultimi progetti: The desert we sang so long, performance ideata con Marco Musarò, curata da Giuseppe Arnesano e svoltasi in occasione di Palai, a Lecce, progetto delle gallerie parigine Balice Hertling e Ciaccia Levi; In sei atti, mostra collettiva ospitata dalla Fondazione Morra a Napoli con la supervisione di Cesare Pietroiusti; La Libellula, performance eseguita a Palazzo delle Esposizioni in occasione de La Quadriennale di Roma, nel 2020, nell’ambito della mostra Domani, Qui, Oggi, a cura di Ilaria Gianni. Vive a Lecce.
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Marco Vitale, Cries the man in the blue garden, 2019, dettaglio, performance, durata variabile, installazione, dimensioni variabili. Photo Raffaella Quaranta
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Marco Vitale (in collaborazione con Marco Musarò), The desert we sang so long, 2021, performance, 60’. Photo Ambra Abbaticola Marco Vitale, Eunasteria, 2016, installazione, dimensioni variabili. Photo Antonella Pappalepore
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Gli Scrovegni, il loro acquistare l’ingresso nelle sfere celesti, la purga dai peccati con la commissione dell’opera; gli Hopi che invece distruggono le pitture come rito di passaggio fra due fasi della vita – l’infante e l’adulto – o due stagioni dell’anno – siccità e pioggia. Il pubblico attraversa l’ambiente calpestando la rappresentazione celeste come fosse una decorazione propria del pavimento. Alla fine non restano che striature di sabbia irregolari e qualche stella a otto punte sopravvissuta qui e là. È un happening, un test. C’è un’attitudine quasi iconoclasta nella tua pratica, un continuo fare e disfare… Come se cristallizzare le tue visioni in una forma stabile rischiasse di ingabbiarle. Da dove deriva questo sentimento? Iconoclastia è una parola che mi è cara. Viviamo in un momento iconoclasta, benché possa sembrare il contrario, ovvero iconolatra. La nostra iconolatria è iconoclasta, siamo in conflitto perenne con le immagini, benché le adoriamo, le adoperiamo come un linguaggio. Siamo in una fase di mezzo, nel pieno di un’adolescenza della tecnologia quanto dei linguaggi. Sul cristallizzare in immagini o forme, insomma sul lasciar traccia: alcuni monaci procedono nei pellegrinaggi muniti di una scopa di ramoscelli, così
C'è ovviamente una stanchezza collettiva: ha la forma di una perla, è la nostra fortuna.
che, lungo il sentiero, possano man mano spostare dolcemente gli insetti che potrebbero finire calpestati. Mi piacerebbe errare per il mondo come loro. Che ripercussioni ha tutto ciò nel tuo “posizionamento” come artista? Come si posiziona il lavoro di un artista italiano, nato negli Anni Novanta? Se decide di vivere nel Sud Italia senza assecondare l’invito generale a muoversi altrove? Se non proviene da una classe sociale agiata? E se, per di più, la sua produzione è prevalente-
mente teorica e transitoria? Se fossimo qui a far quel che facciamo avendo la priorità di un rientro economico avremmo già smesso. Come suggeriva Giuseppe Chiari: “L’arte è finita, smettiamo tutti insieme”. Svolgiamo almeno due lavori, con quello dell’arte. Vedo menti e mani brillanti lavorare per quattro soldi come baristi, bidelli, centralinisti. La preziosità della nostra ricerca e della nostra generazione sta pure in questo insistere ottuso o illuminato: continuare, ostinarsi, ricercare senza necessariamente voler trovare dall’altro lato il cachet. E c’è ovviamente una stanchezza collettiva: ha la forma di una perla, è la nostra fortuna.
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Marco Vitale, This less is gesture, 2019, performance, 120’. Photo Salvatore Pastore
C’è qualche autore che ha contribuito a delineare questa traiettoria? Potrei fare il nome di molti artisti che hanno marcato su di me la loro influenza: Klein, Calle, Sehgal. Ma quando si tratta d’immagini non c’è regime o sistema che regga: il mosaico della Cattedrale di Otranto, la Ziqqurat di Monte d’Akkoddi, i pittogrammi della Grotta dei Cervi, il volto sontuoso e immobile della prima persona amata, il canneto che solca la fine della via in cui sono cresciuto e ondeggia nel vento, queste sono le immagini che mi hanno educato sentimentalmente.
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Napoli, 24.06–12.09.2022
Clément Cogitore Ferdinandea a cura di | curated by Kathryn Weir
Napoli, 24.06–26.09.2022
Bellezza e Terrore:
luoghi di colonialismo e fascismo a cura di | curated by Kathryn Weir
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LA COPERTINA
NUOVI SPAZI
LUCA GRECHI
Ponte Papadopoli
Ponte Tre Ponti
Artribune debutta su Twitch con il format Open Studio, curato da Carolina Chiatto. Il programma, in diretta live streaming, permette di entrare virtualmente negli atelier degli artisti per vederli lavorare alle loro opere. Il primo artista coinvolto è stato il pittore Luca Grechi, che ci ha ospitati nel suo studio Paese Fortuna, situato negli spazi del Lanificio in via di Pietralata a Roma. La ricerca di Grechi ruota intorno al processo pittorico dato da sovrapposizioni di segni e attese, giungendo a un linguaggio privo di narrazione. Cielo in fiore è il titolo dell’opera in copertina, la cui genesi è stata documentata proprio durante la diretta su Twitch. L’artista ha raccontato di voler da tempo dipingere un cielo di giorno e intraprendere una ricerca sulla fioritura che emerge dalla sedimentazione della materia. Dall’opera affiora un repertorio di ricordi elaborati dal suo modo di vedere il mondo e una riflessione sul veloce mutare dei colori. Il quadro sarà esposto a ottobre in occasione della mostra collettiva a cura di Leonardo Regano presso Labs Contemporary Art a Bologna.
10 & ZERO UNO Dopo una lunga gavetta in tre realtà veneziane – la mitica Capricorno, la Massimodeluca di Mestre e la made in.. Art Gallery, di cui ha rilevato la sede – Chiara Boscolo inaugura la sua galleria. Perché si chiama così lo potete leggere qui sotto. Come è nata l’idea di aprire la galleria 10 & zero uno? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza? Nasce dalla volontà di dar vita a uno spazio curatoriale dedicato all’arte contemporanea declinata in ogni sua forma. Vorrei dare particolare attenzione a progetti che sappiano restituire una lettura attenta e sensibile delle dinamiche che governano il nostro tempo. Questo desiderio è senz’altro frutto delle esperienze maturate finora all’interno del mondo dell’arte, ma vuole anche essere uno spunto innovativo rispetto all’offerta culturale del territorio, dando vita a una realtà ancora poco presente a Venezia: gli spazi curatoriali indipendenti. Descrivici il tuo nuovo progetto in tre righe. I tre concept alla base del progetto sono: Art come ragione di un’esistenza ispirata che influenza il nostro pensiero; Project come profonda spinta innovativa di un agire determinato al cambiamento di una realtà in continua evoluzione; Space come luogo di apertura, palcoscenico del vivere un insieme di relazioni e circostanze che divengono dimensione sociale.
Luca Grechi nasce a Grosseto nel 1985 e vive a Roma. Tra le mostre personali più recenti: Laggiù è qui, (Galleria Davide Paludetto Arte Contemporanea, Torino 2021), Mi frulla in testa un’isola (Galleria Richter Fine Art, Roma 2021), Apparire (Galleria Richter Fine Art, Roma 2019).
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Chi sei e cos’hai fatto prima? Fondamentali sono stati gli insegnamenti di Bruna Aickelin, personalità di spicco nel panorama artistico italiano e non solo, la quale ha sapientemente gestito la Galleria Il Capricorno per più di quarant’anni. A lei dedico il nome dello spazio, che fa riferimento all’orario in cui prendevo il vaporetto per recarmi in galleria quando ero sua collaboratrice. Ho poi lavorato alla Massimodeluca, dove ho assistito Marina Bastianello in progetti entusiasmanti,
Venezia Campiello Lavadori de Lana (Santa Croce 270/D) 329 4089647 c.boscolo@10zerouno.com 10zerouno.com che mi hanno portata a stretto contatto con giovani e talentuosi artisti. Infine, con la collaborazione con la made in.. Art Gallery ho potuto sviluppare diverse mostre, avvicinandomi al mondo curatoriale. A livello di staff come sei organizzata? Al momento sono autonoma ma la speranza, ovviamente, è quella di crescere. Credo molto nella collaborazione con altri professionisti del settore, poiché è proprio dal confronto che nascono le idee più interessanti. Sono in dialogo da molto tempo, ad esempio, con Giada Pellicari, curatrice e studiosa del mercato dell’arte. Inoltre, sarei felicissima di continuare la relazione iniziata durante questa Biennale con la Gervasuti Foundation e James Putnam. Su quale tipologia di pubblico punti? L’obiettivo è dar vita a un luogo di ricerca che avvicini un pubblico non elitario e sensibile ai temi della modernità attraverso un’arte che parli del mondo in cui viviamo. Un’arte che ci rappresenti e sia accessibile a tutti. Il mio motto è: “Let’s do it, contemporary!”. Un cenno ai tuoi spazi espositivi. 10 & zero uno apre, dopo alcuni interventi di rinnovo e restauro, nei pressi di Piazzale Roma, in quella che era la sede della made in.. Art Gallery. Location strategica poiché situata a due passi dai punti di accesso dell’isola dalla terraferma. Con che mostra hai inaugurato e come proseguirai? La stagione espositiva è stata inaugurata, durante la settimana d’apertura della Biennale, con Condizione di Insieme – Majority Report, bipersonale di Matteo Vettorello (Venezia, 1986) e Marzio Zorio (Moncalieri, 1985). Nelle mostre future non mancheranno d’essere toccati temi legati all’identità di genere, all’utilizzo delle nuove tecnologie e a quanto esse ci influenzino, nonché alla realtà aumentata quale strumento per una diversa analisi del quotidiano.
ITINERARI TURISTICI CLAUDIA GIRAUD
SULLE ORME DI ENEA Il nuovo itinerario culturale Rotta di Enea, certificato dal Consiglio d’Europa, promosso e gestito dall’omonima associazione romana, interessa 21 tappe lungo il Mediterraneo e comprende in Italia 6 Regioni: Puglia, Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata e Lazio. aeneasroute.org OPERA ROCK SOTTO LE ALPI Una storia di streghe in un’epoca imprecisata, ambientata in una ex cava di pietra ai piedi delle Alpi e musicata da due nomi leggendari del pop anglo-americano Anni Ottanta. The Witches Seed, spettacolare e immersiva opera rock dalle tinte horror, firmata dal geniale musicista e fondatore dei Police, Stewart Copeland, con i brani di Chrissie Hynde dei Pretenders che si aggiungono alle composizioni di Copeland e Irene Grandi, nel ruolo di protagonista, è attesa per il 22 e 23 luglio in prima mondiale in Val d’Ossola, in Piemonte. Per la precisione presso il Tones Teatro Natura, Oira Crevoladossola. thewitchesseed.com
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VOLTERRA 22 Quest’anno è d’obbligo passare qualche giorno nella città protagonista del nuovo riconoscimento della Regione Toscana, forte del suo programma lungo quasi un anno che include anche una visita al cantiere di restauro della Deposizione di Rosso Fiorentino. Si tratta di 300 appuntamenti tra eventi, mostre, spettacoli, riconducibili al tema della Rigenerazione umana in vari campi: musica con Vinicio Capossela, arte con Mariangela Capossela, teatro con la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, design con Luisa Bocchietto e i maestri volterrani dell’alabastro, territorio con lo scrittore, poeta e paesologo Franco Arminio. volterra22.it
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ELBA ISOLA DEGLI ETRUSCHI Ancora Toscana, questa volta nel suo piccolo paradiso chiamato Isola d’Elba: quest’anno celebra il suo legame con il misterioso popolo mediterraneo degli Etruschi con un anno di appuntamenti a loro dedicati. Tra mostre, archeo-trekking, ricostruzioni storiche, cene archeogourmet alla scoperta dei perduti sapori dell’antico popolo, visite guidate, laboratori sulla musica. visitelba.info
VALENTINA SILVESTRINI [ caporedattrice architettura ]
SE LA DIMORA DELL'ARCHITETTO DIVENTA UN BOUTIQUE HOTEL hotelcasasagnier.com
Photo © Rafael Vargas
Sei anni appena separano Antoni Gaudí dal collega Enric Sagnier. Più giovane del maestro della Sagrada Familia, l’architetto visse e lavorò a Barcellona, incidendo profondamente sulla sua identità urbana. Si tratta infatti del progettista con il maggior numero di opere costruite in città: oltre 380 quelle censite, riunite dal 2009 in un itinerario tematico. Esponente di spicco dell’architettura modernista, si distinse nell’edilizia residenziale, occupandosi anche di sedi istituzionali e amministrative, fra cui il Palazzo di Giustizia. Ultimata nel 1961 da uno dei suoi cinque figli, la Chiesa del Sacro Cuore, sulla sommità del monte Tibidabo, è considerata la sua opera più rappresentativa. E chissà che non abbia preso anch’essa forma al civico 104 di Rambla de Catalunya, ovvero nella dimora-studio dell’architetto. Eretto nel 1892 e originariamente chiamato Casa Dolors Vidal de Sagnier, in onore della moglie, dopo una fase di abbandono questo edificio è stato ristrutturato in ottica alberghiera per la prima volta nel 2008. Da aprile 2022, a conclusione di un recupero finalizzato alla riscoperta del suo carattere peculiare, ospita le 51 stanze (incluse le 6 suite) del nuovo boutique hotel 5 stelle Casa Sagnier; al piano terra si trova il ristorante mediterraneo e cocktail bar Cafè de l’Arquitecte. Libero dai vincoli imposti dalla committenza, in questo progetto l’architetto diede
prova della propria vocazione eclettica, combinando ad esempio negli interni elementi in stile gotico con sculture ornamentali. Animato dal desiderio di evocare con sobrietà l’atmosfera modernista, e senza riprodurre fedelmente la dimensione domestica di un tempo, Federico Turull dello studio TurullSørensen architects, di base a Barcellona, ha curato la rinascita dello stabile assieme a maestranze capaci di lavorare come avveniva all’epoca di Sagnier. Al risultato finale, denso di allusioni alla sfera artigianale, hanno contribuito le interior designer Núria Pérez-Sala ed Estrella Salietti, la fashion&graphic designer Laura Torroba, autrice di tessuti, illustrazioni e dettagli che ricordano l’atelier di un architetto, e Studio Elefante (Eva Balart e Juan Carballido), cui si devono le installazioni artistiche in omaggio a Sagnier, fra cui un ritratto composto da francobolli. Proponendo un modello di ospitalità analogo al Primero Primera (hotel aperto a Barcellona nel 2011 dalla medesima proprietà, la famiglia Pérez-Sala), Casa Sagnier risulta nel complesso una “composizione aperta, nella quale gli oggetti possono essere aggiunti nel tempo”, proprio come avviene fra le mura di casa. Funzionalità ed equilibrio compositivo prevalgono nelle camere, rinnovate puntando su un evergreen: il binomio bianco e nero.
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Riapre il Museo Reale di Belle Arti di Anversa. E intorno cresce un quartiere
[ docente di economia e mercato dell'arte ]
MARCO ENRICO GIACOMELLI L L’appuntamento è fissato al 24 settembre. È la data in cui riaprirà al pubblico il KMSKA, il Museo Reale di Belle Arti di Anversa, protagonista di un cantiere durato oltre un decennio. La storia ha inizio nel 2004, quando allo studio di architettura KAAN di Rotterdam (sono loro, insieme a una mezza dozzina di colleghi, a progettare il nuovo terminal dello Schiphol, aeroporto fra i più grandi e rilevanti d’Europa) viene assegnato l’incarico. I lavori propriamente detti iniziano nel 2011, a museo chiuso. A essere interessato è l’edificio neoclassico nel suo complesso, a partire dagli spazi esterni, dove si è operato in direzione della sostenibilità ambientale grazie alla schermatura solare del tetto e alla creazione di un giardino. Quattro cortili interni sono invece stati trasformati in spazi espositivi, guadagnando in questo modo ben il 40% di superficie e una nuova ala, dove il bianco accecante predomina – in contrasto con i colori caldi che si è scelto di ripristinare nelle sale del piano nobile – e il segno distintivo sono le continue variazioni di scala, in aperta e proficua contrapposizione alla simmetria dell’impianto neoclassico. Quanto alla collezione che sarà possibile rivedere – 650 opere su un patrimonio di oltre 8.400, che in questi anni sono state oggetto di una maestosa campagna di restauro e conservazione –, parliamo di un arco temporale compreso fra il XIV e il XX secolo, con la possibilità di percorrere magnificamente la pittura fiamminga dai Primitivi al Barocco (è un tripudio di Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Lucas Cranach, Peter Paul Rubens, Rembrandt, Antoon van Dyck, Jacob Jordaens – senza dimenticare l’incredibile Vergine con Bambino di Jean Fouquet, che è di metà Quattrocento ma sembra un acrilico di Pop Surrealism), fino ai maestri del moderno come Grosz e Magritte. A fare da trait d’union fra edificio storico e nuove sale è James Ensor, esposto in entrambi i contesti: qui è infatti conservato il suo corpus più importante a livello mondiale. Da citare infine il programma quinquennale di residenze d’artista, che vedrà coinvolti ventidue artisti contemporanei in dialogo con la collezione. E una passeggiata la merita senz’altro il quartiere, lo Nieuw Zuid urbanisticamente pensato da Triple Living, con il nascituro mega parco (le auto finiranno nel parcheggio sottostante), il lungofiume intelligentemente restituito ai cittadini, i recentissimi cluster di appartamenti, l’iconico museo d’arte contemporanea MHKA, il Palazzo di Giustizia firmato Richard Rogers e gallerie come Zeno X e Tim Van Laere. kmska.be
CRISTINA MASTURZO
MARLENE DUMAS Dall’analisi delle migliori aggiudicazioni in asta di Marlene Dumas, protagonista della recente retrospettiva a Palazzo Grassi a Venezia, emerge un mercato costruito nel tempo in modo solido e organico, immune ai picchi speculativi e agli incrementi di prezzo raggiunti repentinamente da artisti con carriere molto meno consolidate.
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The visitor, 1995, olio su tela, 180 x 300 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 1° luglio 2008 6,331,706 $
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Colorfields, 1997, olio su tela, 200 x 150 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 18 maggio 2017 4,170,000 $
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Cathedral, 2001, olio su tela, 229.9 x 60.3 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 11 febbraio 2020 4,057,202 $
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Magdalena (Underwear and Bedtime Stories), 1995, olio su tela, 200.3 x 100.3 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, New York, 16 novembre 2017 3,615,000 $
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The yellow fingers of the artist, 1985, olio su tela, 125 x 105.5 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 16 novembre 2017 3,615,000 $
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The Teacher (Sub a), 1987, olio su tela, 160 x 200 cm Christie’s, Post War and Contemporary, Londra, 9 febbraio 2005 3,349,460 $
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Red Head, 2001, olio e acrilico su tela, 229.9 x 59.7 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, New York, 11 maggio 2016 3,250,000 $
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The Baby (2), 2005, olio su tela, 130 x 110 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, Hong Kong, 6 ottobre 2020 3,145,201 $
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Magdalena (Dark Polychrome), 1995, olio su tela, 200 x 100 cm Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, Londra, 5 marzo 2019 3,015,768 $
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Night Nurse, 1999-2000, olio su tela, 200 x 100 cm Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 8 maggio 2016 2,517,000 $
Fonte: Artnet Price Database I prezzi indicati includono il buyer’s premium.
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LABORATORIO ILLUSTRATORI
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VITO ANSALDI E L'AMORE PER L'EDITORIA vitoansaldi.com
La richiesta più singolare che hai ricevuto. Onestamente non ho ancora ricevuto richieste particolarmente strane. In linea di massima però mi spiazzano quelle che, oggettivamente, non hanno nulla a che fare con il mio stile. Chi ingaggerebbe un cantante rap per cantare lo yodel o viceversa?
Siciliano di nascita e torinese d’adozione, Vito Ansaldi, classe 1981, attinge dal web ma soprattutto dai social network per esplorare il mondo, quel mondo che ama tradurre in pixel. Perizia e capacità di sintesi sono congeniali a elaborare una lucida e attenta critica alla società contemporanea. Talvolta con ferocia, altre con ironia, ma sempre con quella delicatezza capace di veicolare concetti complessi che diventano universali. Descrivi la tua personalità con tre aggettivi. Curioso, entusiasmabile e perfezionista (a volte in dosi controproducenti). Quali sono i tuoi illustratori di riferimento? Tanti. Ferenc Pintér, Emiliano Ponzi, Christoph Niemann, John Holcroft e molti altri. Credo che inevitabilmente si venga influenzati da tantissimi artisti in generale e spesso per motivi differenti, come il potere narrativo, la palette colori o la genialità nell’uso del concettuale. Cosa ti incuriosisce maggiormente della realtà che ti circonda? Da persona creativa, la risposta è tutto. Sono estremamente curioso, in generale. Una pubblicità, il titolo di un giornale o la forma di un lampadario, di un albero o di un sasso hanno più o meno la stessa chance di attrarre la mia curiosità. Capita che, banalmente camminando per strada, un dettaglio mi rapisca e mi faccia fare minuti di elucubrazioni mentali. Possono essere anche dettagli apparentemente irrilevanti o in cui sono incappato già altri miliardi di volte. Succede spesso che quel pensare porti poi a un’idea per un’illustrazione. Le scintille della creatività a volte scoccano casualmente. Come si sviluppa il processo creativo delle tue illustrazioni? Li distinguerei in due tipi, almeno per il modo in cui hanno inizio. Per le illustrazioni personali, non commissionate, l’ini-
© Vito Ansaldi per Artribune Magazine
zio è spesso pressoché casuale e ad aver dato il via potrebbe essere stata proprio una di quelle elucubrazioni di cui parlavo prima. Se sono in giro e non voglio perdere l’idea che ho avuto, registro un memo vocale sullo smartphone. È un processo più indisciplinato all’inizio, ma poi durante l’esecuzione mi riporta verso dei personalissimi automatismi essenziali al completamento del lavoro. E nel caso delle commissioni? Dopo il briefing con il cliente, prendo un foglio bianco e scrivo tutte le parole che sciamano nella mia mente riguardo al tema. Ne scrivo più che posso, sparse sull’area del foglio. Poi le rileggo affinché nella mia testa si creino delle scene diverse, ma sovrapponibili, o comunque collegabili. Mi entusiasma molto inserire elementi di contrasto, dissonanti tra di loro e provare a fonderli insieme, e dargli (almeno ci provo) una chiave di lettura efficace.
Ultimo libro letto e ultimo film visto. L’ ultimo libro è Figure di Riccardo Falcinelli, che consiglio a chi fa il mio lavoro: molto formativo. Guardo pochissimi film, preferisco le serie tv perché spesso richiedono meno attenzione e mi fanno compagnia mentre disegno senza distrarmi troppo. In ogni caso, l’ultimo film che ho visto è Green Book e sono felice di averlo visto.
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Cosa sogni di illustrare? Mi piacerebbe disegnare la mia prima copertina per un libro. Oltre a questo, c’è anche un “per chi” sogno di illustrare. È un famosissimo magazine che non nomino per scaramanzia.
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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]
Quali tecniche ti sono più congeniali? Il digitale mi rende più sicuro e lo trovo più funzionale specialmente per i lavori commissionati. Quando voglio scarabocchiare qualcosa di personale invece una buona vecchia matita ha un non so che di terapeutico. A cosa lavori in questo momento e quali progetti hai per il futuro? Al momento sto cercando di produrre e raggruppare una selezione di mie illustrazioni da poter vendere online come stampe fine art, da incorniciare. Per il futuro vorrei poter aumentare le collaborazioni con l’editoria. Le illustrazioni sui magazine sono quelle che mi regalano le maggiori soddisfazioni personali, soprattutto per la sfida di trovare soluzioni illustrate per sintetizzare argomenti sempre diversi. Per me è molto stimolante.
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HERMANN NITSCH THE ORGIES MYSTERIES THEATER
“THE 6-DAY-PLAY is a work in progress. everything i’ve ever done, my action painting, all my action performances, my music were preliminary states for the 6-day-play.“ from sunrise on july 30 to sunrise on august 31, 2022 the 1st and the 2nd day of the advanced 2. version will be performed in prinzendorf/austria. The work of Hermann Nitsch is supported by
www.nitsch-foundation.com/das-6-tage-spiel-2022
Hegelgasse 5 1010 Vienna | AUSTRIA www.nitsch-foundation.com
Waldstraße 44-46 2130 Mistelbach | AUSTRIA www.nitschmuseum.at
Vico Lungo Pontecervo 29/d 80135 Napoli | ITALY www.museonitsch.org
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VALENTINA TANNI [ scrittrice e docente ]
Selfie volanti
LE CARTE DI MARINA Il Metodo Abramović consiste in una serie di esercizi performativi volti ad aumentare la consapevolezza e la qualità della vita. Messo a punto dall’artista serba Marina Abramović ormai quasi un decennio fa e portato in giro per il mondo con mostre ed eventi, è oggi racchiuso in un esclusivo set di carte. € 22 amazon.com
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INFLUENCER IN ERBA Un set giocattolo per esercitarsi, sin da piccolissimi, nel moderno mestiere dell’influencer. Realizzato completamente in legno, comprende un cellulare, una fotocamera, un selfie-stick, una ring light e un treppiede. Il “kit del vlogger”, lanciato dalla catena australiana Kmart, sta però facendo discutere i genitori, che si dividono tra entusiasti e scandalizzati.
Dimenticate il selfie-stick: il bastone per gli autoscatti è ormai un accessorio antiquato. Per realizzare fotografie e video originali, moltiplicare i punti di vista e sperimentare ogni prospettiva possibile, oggi potete usare una macchina fotografica volante. Un foto-drone, per la precisione. Il nuovo gadget si chiama Pixy ed è stato lanciato da Snap, azienda proprietaria della famosa app social Snapchat. Pixy, che pesa solo 100 grammi, può essere attivato con un semplice bottone, impostato in quattro diverse modalità e richiamato voltando il palmo della mano verso l’alto. L’obiettivo può fermarsi di fronte ai soggetti, girargli attorno, seguirli oppure riprenderli dall’alto. Le immagini prodotte vengono poi importate su Snapchat, dove possono essere editate, arricchite con filtri in realtà aumentata, accompagnate dalla musica, pubblicate sulla app oppure esportate su altre piattaforme. Si tratta del secondo prodotto hardware dell’azienda americana, che sei anni fa aveva messo sul mercato gli Spectacles, un paio di occhiali in grado di fare foto e video e condividerli direttamente online (un’idea poi replicata anche da Ray-Ban in collaborazione con Facebook). Pixy è al momento disponibile solo in un numero limitato di unità, in vendita fino a esaurimento scorte negli Stati Uniti e in Francia. pixy.com/shop $ 230
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kmart.com.au $7
CACCIAVITE DA SERA Simone Giertz è un’inventrice svedese appassionata di robotica. Famosa per gli strani marchingegni che presenta sul suo canale YouTube, ha anche un interessante shop online. Tra i vari prodotti, questo elegante e pratico Screwdriver Ring, un anello dotato di cacciavite a stella. yetch.store $ 85
SPUGNETTE SOVVERSIVE
The Wheelbench è una comoda panchina in legno che può essere facilmente trasportata. Basta infatti sollevarla e, grazie alla ruota montata su uno dei lati, si può spostare guidandola come una carriola. L’accessorio da giardino perfetto per chi ama inseguire il sole.
Una serie di spugne pensata per chi detesta le faccende di casa. Dalla collezione di Fred&Friends, che da anni sforna gli accessori domestici più simpatici sul mercato, arrivano le Subversive Sponges. Per lavare i piatti con il giusto (contrariato) spirito.
weltevree.eu € 695
genuinefred.com $ 14.50
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PANCHINE PORTATILI
MONUMENTI FUMANTI La Battersea Power Station è un’ex centrale termoelettrica che si trova a Londra, sulle rive del Tamigi. Si tratta di un edificio iconico, reso famoso da molte apparizioni in film e video musicali. Oltre che sulla mitica cover dell’album Animals dei Pink Floyd, pubblicato nel 1977. I designer francesi di ATYPYK la rievocano in un originale posacenere.
BUONANOTTE D’ARTISTA
BROCCOLI PSICHEDELICI
Questa lampada in edizione limitata disegnata da Yoshimoto Nara è apparsa per la prima volta nella mostra For Better or Worse, inaugurata a Toyota nel 2017. La base è formata da uno stelo verde con foglie in acciaio, mentre il cappello in plastica è decorato con i tipici disegni dell’artista giapponese.
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atypyk.com prezzo su richiesta
La forma frattale del broccolo romanesco è una delle più affascinanti del mondo vegetale. L’artista e designer di Brooklyn Piera Bochner l’ha utilizzata per realizzare a mano una serie di coloratissime candele che, sciogliendosi, creano forme e colori sempre diversi. zoeschlacter.com $ 69
store.moma.org € 1979
LAMPADE APPICCICOSE Nasce dalla fantasia del misterioso designer “virtuale” Uto Balmoral la lampada Wonder di Seletti. La testa del David di Michelangelo, realizzata in resina bianca, fa da sostegno per un globo luminoso in vetro che ha la forma di una bolla di chewing-gum rosa. seletti.it € 272
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a cura di / curated by Lorenzo Balbi
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna 22 giugno / June - 9 ottobre / October 2022
Via Don Minzoni 14 | Bologna info +39 051 6496611 www.mambo-bologna.org
main partner
dettaglio da / detail from Sean Scully, Uninsideout, 2018-2020 | collezione / collection Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery, Budapest, Ungheria / Hungary | photo Sean Scully | courtesy l’artista / the artist
Sean Scully A Wound in a Dance with Love
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ARCHUNTER
MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]
LACOL lacol.coop
SprigionArti: a Procida 2022 l’ex carcere diventa museo GIULIA RONCHI L Tra i luoghi simbolo dell’isola, già edificio signorile, è stato anche Palazzo Reale borbonico e a lungo bagno penale, prima della chiusura definitiva nel 1988. Ora Palazzo d’Avalos rinasce grazie a SprigionArti – fino al 31 dicembre 2022 – diventando spazio espositivo nell’ambito di Procida Capitale italiana della Cultura 2022. La mostra, a cura del direttore di Procida 2022 Agostino Riitano, in collaborazione con Vincenzo de Bellis e sotto il matronato della Fondazione Donnaregina, racconta la storia del territorio attraverso lo sguardo di sei artisti internazionali, facendo al contempo di questa realtà un punto di riferimento per la comunità locale. Gli artisti invitati sono Maria Thereza Alves, Jan Fabre, William Kentridge, Alfredo Pirri, Francesco Arena e Andrea Anastasio, con opere esposte nelle cinque celle in passato utilizzate come luogo di detenzione. procida2022.com/sprigionarti
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Ricostruito alla Biblioteca Braidense di Milano lo studio di Umberto Eco
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Lacol, Cooperativa abitativa La Borda, Barcellona Photo © Institut Municipal de l’Habitatge i Rehabilitació de Barcelona
Tra le più interessanti trasformazioni nel campo dell’architettura dell’ultimo decennio si registra una rinnovata attenzione alla partecipazione e alla condivisione. Una svolta che ha trovato un terreno particolarmente fertile nel settore residenziale, tanto da raggiungere il riconoscimento istituzionale con il trionfo della cooperativa abitativa La Borda al Premio Emergente 2022 dello EU Mies Award. A firmare il complesso barcellonese è lo studio Lacol, il cui credo nel valore sociale della disciplina architettonica si riflette in ogni suo aspetto: dalla struttura dello studio, fondato nel 2009 da quattordici compagni di università e organizzato come una cooperativa; alla sede di lavoro, un centro culturale nel barrio Sants, condiviso con altre sette cooperative e progettato dallo stesso Lacol seguendo un processo partecipato. Ed è proprio intorno a questo luogo, ricavato in un isolato di inizio Novecento e pensato come piattaforma di interazione fra soci e popolazione locale, che il collettivo ha trovato un importante campo di azione. Oltre allo spazio cooperativo La Comunal, infatti, a Sants si trovano La Borda e la sede dell’Ateneo Cooperativo di Barcellona: interventi eterogenei e anticonvenzionali, in cui lo studio catalano ha dato prova di come “l’architettura, il cooperativismo e la partecipazione possono diventare strumenti per realizzare infrastrutture comunitarie per una vita sostenibile”.
Emblematica in questo senso è la premiata cooperativa La Borda, promossa dagli stessi utenti per poter accedere ad alloggi dignitosi e non speculativi. In collaborazione con questi, Lacol ha progettato 28 appartamenti a ballatoio distribuiti attorno a una corte centrale e dotati di spazi e servizi da condividere – cucina, lavanderia, sala polivalente, terrazze – che estendono l’abitare oltre il convenzionale ambito privato. Realizzato su un lotto municipale assegnato alla cooperativa per settantacinque anni e dotato di strategie che garantiscono un minimo consumo energetico, il complesso in CLT è stato definito dalla giuria dello EU Mies Award “un’architettura che esplora a fondo la possibilità di cambiare mentalità e politiche e la rilevanza dell’inclusione; un intervento trasgressivo poiché, mentre la costruzione di abitazioni è solitamente dominata da interessi macroeconomici, in questo caso si basa sulla condivisione di risorse e capacità”. Dopo la prestigiosa vittoria dello scorso aprile, Lacol è ora impegnato in nuovi ambiti di lavoro. In aggiunta a una serie di progetti di edilizia cooperativa a Barcellona, il collettivo sta seguendo alcuni interventi partecipati al di fuori del territorio catalano in qualità di construction manager. Inoltre, ha costituito l’associazione per la transizione energetica BATEC: con questa sta avviando una comunità energetica locale nel complesso La Bordeta, ulteriore passo verso una “transizione eco-sociale”.
GIULIA GIAUME L Osservare la biblioteca di una persona ci può dire molto sul suo carattere e la sua vita: anche per questo rivedere lo studiolo di Umberto Eco alla Biblioteca Braidense di Milano sembra restituirci un vecchio amico e un mentore, sei anni dopo la sua scomparsa. Vero cuore della stanza, come nella vita del semiologo e scrittore, sono i libri: 1.328 dei suoi volumi, tutti rari e antichi, posizionati sugli scaffali replicando alla perfezione la Bibliotheca semiologica, curiosa, lunatica, magica et pneumatica, anche nota come “stanza degli antichi”, con vista sul Castello Sforzesco. L’allestimento, curato dagli accademici dell’Università di Bologna e dal direttore della Pinacoteca e della Biblioteca di Brera James Bradburne, è a fianco della sala manzoniana e fino al 2 luglio espone i volumi secondo la “regola del buon vicino”, per la quale il libro di cui abbiamo davvero bisogno è (quasi magicamente) accanto a quello che stiamo cercando. Lo spazio ricreato è una piccola Wunderkammer con strumenti musicali, fumetti di Mandrake e pupazzi dei Peanuts. bibliotecabraidense.org
APP.ROPOSITO [ docente di virtual environment ]
INVESTIRE E GIOCARE CON GLI NFT OPENSEA
Fondato nel 2017, è stato il primo marketplace decentralizzato per lo scambio di beni digitali. Basato sulla blockchain Ethereum, permette a chiunque abbia un wallet di criptovalute di acquistare NFT. È il più vasto e vario luogo di scambio di opere e si stima che il suo volume d’affari abbia avuto un incremento nel febbraio 2020 di circa il 400%, passando da 8 a 32 milioni di dollari. Complice il fatto che gli NFT in vendita o in asta debbano avere un incremento del 5% fra un’offerta e l’altra, determinando così la rapida crescita del loro valore anche in tempi relativamente brevi. La scelta nel marketplace spazia dalla musica alla fotografia, dagli NFT legati al mondo dello sport (un fenomeno diffuso e in grande espansione) ai giochi basati sugli NFT (molto spesso simili ai giochi di carte collezionabili, come quelli sui Pokemon, tanto per intenderci) alle opere d’arte in pezzi unici o in tirature limitate. Inutile sottolineare quanto ampi siano i rischi per il capitale investito, data la fluttuazione del valore degli NFT. opensea.io
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Binance è una piattaforma in cui è possibile fare investimenti in valuta reale o scambiando differenti criptovalute. Da un anno è stato sviluppato un marketplace per NFT di artisti, i quali possono mettere in vendita le proprie opere. Attenzione però: esiste un processo di selezione e il guadagno si attesta sull’1% del valore di vendita. La piattaforma per gli NFT è rapidamente diventata così famosa e condivisa da avere anche uno spazio per le charities, ad esempio per supportare l’emergenza in Ucraina. Su Binance è anche possibile acquistare delle “mistery box”, pacchi a sorpresa in cui non sappiamo se è contenuto un NFT comune, raro, super raro o rarissimo, e il suo effettivo valore: una roulette russa dell’investimento immateriale. binance.com
SILKS
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Ottimo esempio di videogame basato sia sul metaverso che sugli NFT. Benché non sia legato al mondo dell’arte, può aiutare i principianti a capire le dinamiche di questo nuovo mondo. Ad aprile sono stati rilasciati sulla piattaforma gli NFT delle uniformi da fantini che potranno essere utilizzate nel gioco. Le uniformi, chiamate appunto silks, sono espresse in Ethereum e possono essere acquistate su Opensea. Quest’estate verranno “droppati” anche 10mila NFT di cavalli associati a purosangue del mondo delle corse, che potranno essere comprati nel metaverso Silks. Attraverso la piattaforma sarà anche possibile acquistare appezzamenti di terreno virtuale, creare scuderie virtuali e fare corse con i propri cavalli, vedendo probabilmente incrementare il valore dei propri NFT a seconda dell’andamento del gioco, ma anche del comportamento del cavallo nel mondo reale. Non è del tutto chiaro cosa accadrà al portafoglio del giocatore che possiede l’NFT di un cavallo “reale” che si infortunerà o morirà. Un motivo in più per tenere sotto osservazione questo gioco nei prossimi mesi.
L'ARTE NEI LUOGHI DI LAVORO
Non è un ossimoro l’arte nei luoghi di lavoro. Il report a cura di BBS-Lombard società benefit in collaborazione con Arte Generali, Quanto è (ri)conosciuta l’arte contemporanea all’estero?, nell’ultima presentazione veneziana (dopo Roma e Milano) ha incrociato naturaliter la ricerca di cheFare sulla mappatura dei luoghi di produzione contemporanea in Lombardia e l’esperienza di AWI, l’associazione Art Workers Italia, fornendo un quadro, probabilmente ancora incompleto ma estremamente interessante, dei luoghi deputati ad accogliere l’arte nelle sue multiformi espressioni. Emerge un insieme – che a tutt’oggi non è un ecosistema (sic) –: tante tessere diffuse nei territori che disegnano mappe insolite, fiumi carsici e macchie di leopardo. Musei (anche d’impresa), spazi pubblici all’aperto e al chiuso, luoghi della cultura (archivi, pinacoteche, parchi ecc.), beni culturali in senso ampio e gallerie d’arte hanno un ruolo centrale e insostituibile nella rappresentazione. Sono sicuramente gli spazi “on”: istituzionali, deputati, ortodossi, nati “per”, con finalità proprie di esposizione, ostensione (c’è chi ancora usa questo termine), mostre, vendita, valorizzazione, produzione culturale. In tutti ci sono persone che lavorano, e non soltanto gli art worker propriamente intesi. La domanda è: sono anche gli unici (da leggersi i soli) luoghi in cui si produce cultura? Assolutamente no. Una miriade di centri indipendenti, gestiti prevalentemente da enti del terzo settore, arricchisce la lista degli spazi “off”, svelando come spesso per i giovani artisti siano stati un trampolino di lancio, nonché gli unici (da leggersi i soli, ma anche impareggiabili) disposti a scommettere, a rischiare sul nuovo, a mettersi in gioco. La lista di questi spazi (per fortuna) è aperta e – in una logica inclusiva e non convenzionale, finanche sinestetica per via delle mille ibridazioni – ancora lunga. D’altronde, costeggiare il crinale sfidante e generativo della produzione culturale significa attivare processi partecipativi inediti che investono non solo i nonluoghi (centri commerciali, ospedali, stazioni, aeroporti, hotel), termine qui utilizzato senza alcuna venatura polemica quanto per distinguerli dai luoghi sopracitati, ma anche gli spazi dove le persone lavorano: aziende, uffici, negozi e molto altro ancora. La finalità di questa contaminazione è duplice: da un lato, l’attenzione al welfare di dipendenti e collaboratori (l’etica ha una forte componente estetica); dall’altro, un approccio di prossimità capace di generare collaborazioni, co-progettazioni e nuove occasioni di incontro tra le istituzioni culturali, i loro stakeholder e i giver, che sarebbe riduttivo ricondurre esclusivamente ai visitatori e ai turisti. Ma neppure a un’anonima forma di cittadinanza, che dice niente mentre tenta di indicare tutto. Hanno i volti, i tratti e la fisiognomica di imprenditori, professionisti, commercianti e di tutti i loro dipendenti e collaboratori. Ci sono già esperienze (oltre quelle note: penso soprattutto alle banche) e storie da raccontare.
Costeggiare il crinale sfidante e generativo della produzione culturale significa attivare processi partecipativi inediti.
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IRENE SANESI [ dottore commercialista ]
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RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]
ARTE DIGITALE ED NFT: COSA DICE IL DIRITTO? L’interazione tra arte e nuove tecnologie, tra mercato dell’arte e uso degli NFT continua a produrre casi di studio interessanti. A febbraio 2022 la Galleria Unit di Londra, in collaborazione con quattro istituzioni italiane (la Pinacoteca di Brera, il Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana e le Gallerie degli Uffizi) e un partner tecnico (Cinello), ha organizzato la mostra Eternalising Art History, in cui è stata esposta la riproduzione digitale con NFT di sei capolavori facenti parte delle collezioni delle predette istituzioni. La mostra, oltre ad aver reso accessibili le opere a un pubblico più ampio e secondo nuove modalità, è volta alla vendita delle opere digitali in edizione limitata. È inoltre recente la notizia che Madonna e Beeple hanno realizzato dei video digitali in NFT, che saranno messi all’asta. In entrambi i casi ci si trova di fronte a opere digitali rese uniche o in edizione limitata grazie agli NFT, ma con importanti differenze in termini di strategie di gestione dei diritti di proprietà intellettuale. In particolare, i video di Madonna-Beeple sono opere native digitali, create in ambiente e in formato digitale direttamente dagli autori, che gestiranno i diritti d’autore nei modi ritenuti più opportuni. Le opere nate “analogiche” e successivamente digitalizzate dai legittimi titolari dei diritti e/o dai proprietari del bene materiale devono essere gestite tenendo presente un quadro normativo più ampio, che in Italia vede coesistere – fra le altre – le norme della legge sul diritto d’autore con quelle del Codice dei beni culturali. Sul piano della gestione dei diritti d’autore, la digitalizzazione di un’opera protetta deve essere autorizzata dall’autore. Inoltre in Italia, qualora si tratti di beni culturali, vi sia un’utilizzazione per fini commerciali e non ricorrano i presupposti stabiliti dal Codice dei beni culturali per la libera ripro-
© Vito Ansaldi per Artribune Magazine
duzione di tali beni, la riproduzione deve essere autorizzata dalle istituzioni che hanno in consegna i beni. Ad ampliare il quadro normativo di riferimento c’è l’art. 14 della direttiva 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico europeo (recepita in Italia dal D.Lgs. n. 177/2021), secondo cui “gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore”. In altre parole, secondo il legislatore europeo, le riproduzioni fedeli di queste opere non dovrebbero essere protette. In Italia questa norma è stata recepita facendo salvo il Codice dei beni culturali. Sul piano pratico queste operazioni di digitalizzazione possono risultare utili a diversi fini: se, da una parte, sono in linea con gli inviti provenienti dall’Unione Euro-
pea per promuovere la digitalizzazione, l’accessibilità e la conservazione del patrimonio culturale europeo, dall’altra parte sono un modo per raccogliere fondi tramite la vendita di una riproduzione digitale unica o in edizione limitata e certificata, senza vendere l’originale, che resta nella collezione dell’istituzione. A questo punto è da vedere quali politiche adotteranno le istituzioni culturali relativamente alla digitalizzazione del proprio patrimonio, ovvero se, in un’ottica di ottimizzazione del profitto e sulla base di partenariati con privati che forniscono il necessario supporto tecnologico, punteranno a un maggiore controllo della digitalizzazione creando riproduzioni digitali uniche (o in edizione limitata) e autentiche di maggior valore economico proprio in virtù dell’unicità oppure se, in un’ottica di accessibilità del patrimonio culturale, renderanno libere le riproduzioni. Quale sarà l’andamento di questo “fenomeno” è ancora presto per dirlo, perché alla complessità delle nuove tecnologie si affiancano eventi più o meno prevedibili che incidono sulla vita dell’opera digitale in NFT. Si consideri, per esempio, l’aspetto della conservazione e della fruizione futura di queste opere in relazione alla nota tematica dell’obsolescenza tecnologica; c’è poi il problema dell’energia e della sostenibilità ambientale, essendo prodotti che necessitano di energia in tutto l’arco della loro esistenza, che va dalla creazione alla fruizione estetica, passando per la commercializzazione e la conservazione. Per il momento siamo nella fase dell’entusiasmo da NFT nell’arte e non solo, con picchi di vendite a prezzi degni degli originali, ma con tante opere che restano invendute. Vediamo come evolverà la curva: se, dopo la fase di crescita, ci sarà il crollo con eventuale conservazione ed evoluzione consapevole degli elementi realmente utili di questa nuova tecnologia.
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STUDIO LA LINEA VERTICALE Uno storico dell’arte, Giovanni Avolio, insieme a un artista Vale Palmi, sostenuti da un medico-collezionista, Luciano Merlini. È il trio che compone questa nuova galleria, che ha l’obiettivo principale di fare ricerca.
Nel cinema Odeon di Firenze sorgerà una grande libreria GIULIA GIAUME L Una libreria, un ristorante e uno spazio espositivo, tutto all’interno del mitico Cinema Odeon di Firenze. È il progetto Giunti Odeon, che trasformerà la sala del rinascimentale Palazzo dello Strozzino in una struttura polifunzionale. L’annuncio del gruppo editoriale Giunti prevede la nascita di “una delle più grandi librerie al mondo” nel monumentale spazio Art Déco, con scaffali al posto della platea, spettacoli e mostre sul palco e uno spazio in galleria con circa 180 poltrone per guardare i film. Proseguiranno dunque le rassegne cinematografiche serali curate dalla direttrice Gloria Germani e dal suo staff (tra cui il critico Marco Luceri) a fianco di una più ampia programmazione culturale e commerciale. Al momento dell’annuncio è stata prò lanciata una petizione che mette in guardia sullo snaturamento della sala storica cittadina, affiancata da una lettera sottoscritta da 48 operatori culturali della città. Il progetto, affidato allo studio d’architettura fiorentino Benaim e da inaugurarsi tra l’autunno e l’inverno 2022, si colloca sulla scia delle
Bologna Via dell’Oro 4b 392 0829558 | 335 6045420 info@studiolalineaverticale.it studiolalineaverticale.it
Chi siete? La galleria è la perfetta unione di due differenti esigenze: quella di Giovanni Avolio, la cui formazione storico-critica è culminata nel ruolo di assistente di galleria alla Labs Contemporary Art di Bologna e il cui sogno era di aprire un proprio spazio; e quella dell’artista Vale Palmi, il cui obiettivo era di circondarsi di colleghi che si occupassero della sua stessa ricerca per creare un solido gruppo. A livello di staff come siete organizzati? Lo staff della galleria è al momento composto unicamente dai due soci e da un amministratore, Luciano Merlini, medico e ricercatore appassionato d’arte. Siamo frequenti riconversioni funzionali dei palazzi e delle attività storiche, in un anno importante per l’Odeon: il suo centenario. giunti.it
Africa protagonista alla Biennale Architettura 2023 VALENTINA SILVESTRINI L Bisogna ancora attendere per conoscere partecipanti e temi della 18. Mostra Internazionale di Architettura, ma è già chiaro che l’evento sarà nel segno dell’Africa. Non solo perché profondo è il legame fra quell’area e la curatrice ghanese-scozzese Lesley Lokko, attuale direttrice dell’African Futures Institute di Accra. Intitolata Il laboratorio del futuro, la Biennale Architettura assegnerà al continente africano un ruolo centrale, elevandolo a punto di riferimento per un’analisi dal respiro globale. Dopo il successo del 2017, quando l’edizione curata da Hashim Sarkis superò i 300mila visitatori, la prima mostra a nomina diretta della
Su quale tipologia di pubblico puntate? Su chiunque abbia le idee chiare di cosa ama e cosa no in arte, ma anche su chi è stato più volte deluso da questo mondo e su chi non ci si è mai avvicinato proprio per la sua respingenza e incomunicabilità. Puntiamo a educare a un’arte pregna di significato e profondità. Un cenno ai vostri spazi espositivi e al territorio circostante. Lo spazio è piccolo e concentrato, bianco e minimale, rifinito in ogni dettaglio, il luogo ideale per smettere di fuggire verso l’esterno e, invece, indagare l’interno della coscienza e di noi stessi. Bologna la dotta, città universitaria per eccellenza, è l’ambientazione perfetta per uno spazio che dichiara la sua intenzione di studiare e ricercare. Cosa proporrete dopo la mostra inaugurale? Dopo la collettiva Immateriale–Corpo– Immateriale (fino al 16 luglio) continueremo con un format di bipersonali, un artista di questa mostra con un artista esterno a confronto. Per tenere fede alla promessa di fare ricerca, i titoli delle mostre future deriveranno sempre da un diagramma riassuntivo dello studio affrontato di volta in volta e di mostra in mostra.
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Da quali riflessioni è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? La tendenza imperante a un’orizzontale rizomaticità di intenzioni e di gusto che domina il panorama artistico contemporaneo non ci soddisfaceva. Desideravamo uno spazio che si sviluppasse in verticale, incentrandosi solo su determinate tematiche, su una linea di ricerca approfondita piuttosto che rischiare di disperderci fra mille mode restando sulla superficie di ognuna.
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accompagnati da tre bravissimi critici – Tatiana Basso, Antongiulio Vergine e Maria Chiara Wang –, coi quali abbiamo intenzione di camminare ancora a lungo.
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presidenza Cicutto sarà “complessa e necessaria”, ha anticipato la curatrice. In una fase storica contrassegnata dall’ascesa di nuovi poli geografici e dalla spinta verso condizioni più eque, la scelta di Lokko alimenta non poche aspettative. “L’Africa è il laboratorio del futuro”, ha sottolineato, si tratta del “luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondono”, oltre a quello al quale ciascuno di noi appartiene a livello antropologico. Alla dimensione collaborativa, più che all’accezione scientifica, intende richiamarsi il vocabolo ‘laboratorio’, riflesso della volontà di concepire la mostra come “una sorta di bottega artigiana”, nella quale “architetti e professionisti provenienti da un ampio campo di discipline creative tracciano un percorso fatto di esempi tratti dalle loro attività contemporanee che il pubblico, composto da partecipanti e visitatori, potrà percorrere immaginando da sé cosa può riservare il futuro”. Appuntamento a Venezia dal 20 maggio al 26 novembre 2023. labiennale.org
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PIAZZA SATTA È il cuore del centro urbano e si mostra così come l’ha ridisegnata alla metà degli Anni Sessanta lo scultore Costantino Nivola per omaggiare la figura del poeta nuorese cui è intitolata. L’artista di Orani dipinse di bianco le facciate delle case circostanti e collocò in tutta la piazza rocce di granito allo stato grezzo con statuine in bronzo di Satta. piazza satta
SPAZIO ILISSO Il centro espositivo, nato dalla casa editrice omonima per condividere l’esperienza di 35 anni di ricerca, produzione editoriale e mostre d’arte, è stato inaugurato nel 2019 all’interno di un’antica villa, Casa Papandrea. Dalla scorsa estate, il giardino della villa ospita una nuova sezione del Museo della scultura del ‘900 sardo. via brofferio 23 spazioilisso.it
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MUSEO MAN Inaugurato nel 1999 per conservare le opere più rappresentative dell’arte isolana del XX secolo, il MAN è oggi un centro all’avanguardia per la ricerca sul contemporaneo, cui contribuiscono molti giovani artisti emergenti sardi. Attività primaria restano le mostre temporanee. L’8 luglio inaugura Sensorama, da Magritte alla realtà aumentata. via satta 27 museoman.it
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MANCASPAZIO Raccogliendo l’eredità della galleria d’arte Chironi88, significativa esperienza nel panorama artistico isolano fino agli Anni Novanta, qui si punta alla scoperta o alla riscoperta degli artisti contemporanei, lasciando aperto il dialogo con quelli storicizzati, attraverso un ricco calendario di mostre e cataloghi disponibili anche in lingua inglese. via della pietà 11 mancaspazio.com
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Nuoro ancora la piccola Atene di Sardegna Via
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Sostenere il ruolo di Atene della Sardegna, attribuitole per via del fermento culturale che l’ha vista protagonista nel corso del Novecento, significa continuare a investire sull’innovazione creativa e sull’arte contemporanea. E oggi nel cuore di Nuoro si disegna un polo attrattivo che ha fatto di centri di ricerca e produzione artistica i suoi fiori all’occhiello. DESACRÈ L’acronimo sta per Design Sartoriale Creativo Ecosostenibile, che è proprio il fulcro di questa giovane impresa al femminile, al lavoro con tessuti e materiali non convenzionali per realizzare accessori di design e capi d’abbigliamento unici nel loro genere. Nello showroom anche installazioni, abiti scultura e costumi di scena. via roma 21 desacre.business.site
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IL RIFUGIO Lo promette l’insegna, lo conferma la tavola rassicurante e confortevole, specchio delle tradizioni e delle produzioni del territorio. Un indirizzo sicuro per gustare i salumi dell’isola, i culurgiones e il pane frattau, ma anche i filindeu in brodo di pecora, cotta pure in cassola, con fagiolini e patate, come ricettario popolare comanda. via mereu 28 trattoriarifugio.com
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PASTICCERIA MONNE Grazia Deledda li descrisse nel suo testo sulle tradizioni popolari, e nella cultura locale i dolci cesellati della pasticceria popolare sono un’arte da preservare. Dati gli ingredienti base – mandorle, ricotta, miele, arancio –, molteplici sono le combinazioni da provare. A cominciare dalle casadinas, specialità della casa. via rubeddu 8 pasticceriamonne.com
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NUGHE ‘E’ ORO B&B Mobili realizzati a mano da artisti locali, la terrazza per la colazione affacciata sulle colline che circondano la città, la posizione strategica per visitare le attrazioni del centro storico, l’ospitalità calorosa. Non è un caso che il b&b sia stato pensato da una coppia di incalliti viaggiatori, consapevoli di quanto conti la giusta accoglienza. via matteotti 14 nugheoro.it
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in collaborazione con
Pugliapromozione
MUSEO MARTA: ARCHEOLOGIA E CONTEMPORANEO A TARANTO
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a Puglia offre una miscela ineguagliabile di storia e paesaggio, gastronomia e musica, mare – anzi: mari, al plurale – e cultura. A spiccare in quest’ultimo ambito è il MArTA – Museo Nazionale Archeologico di Taranto, fondato nel 1887 e diretto da Eva Degl’Innocenti. Classe 1976, formatasi fra Pisa e Siena, proveniente da una serie di incarichi in Francia, ha raggiunto l’istituzione tarantina nel 2015. Quanto al museo, dallo stesso anno gode dell’“autonomia speciale” conferitagli dalla Riforma Franceschini, che permette di godere di maggiore autonomia, appunto, negli aspetti fiscali, amministrativi e gestionali. I risultati non si sono fatti attendere: in due anni le visite sono aumentate di oltre il 200%. Merito della visione della direttrice: “La nostra politica culturale si basa non su una visione passatista dell’archeologia, ma su un dialogo sempre presente con la contemporaneità”, raccontava qualche mese fa ad Artribune. Non è dunque un caso l’aver coinvolto sin dal 2016 l’arte contemporanea. “L’archeologia ha un valore importantissimo perché, intanto, ci aiuta a conoscere gli uomini e le donne che ci hanno preceduto, determinando quindi un legame identitario con il nostro passato. Come diceva il mio grande maestro Riccardo Francovich, ‘l’archeologia ci serve a comprendere, a conoscere il nostro passato per conoscere il nostro presente e per costruire il nostro futuro’”. Questa apertura le ha permesso di portare avanti una programmazione rigorosa, senza dimenticare il ruolo del museo nel territorio in cui è inserito: “Il museo è un centro di educazione, studio
MArTA Museo Nazionale Archeologico Via Cavour 10 – Taranto 099 4532112 man-ta@beniculturali.it museotaranto.beniculturali.it museoarcheologiconazionaleta martamuseo museo_marta
e ricerca e l’elemento scientifico è fondamentale per noi: è la base dell’educazione, e la funzione educativa del museo è la più importante, è il suo valore fondante”, dichiarava la direttrice. “Abbiamo protocolli d’intesa e convenzioni con istituti scolastici, atenei, centri di ricerca sia italiani che stranieri, con l’associazionismo del territorio e con gli stakeholder economici, infatti siamo anche forza lavoro.
Il lavoro lo abbiamo creato”. A conferma di tutto ciò, le due mostre in corso al MArTA. L’età dell’oro (la muta) (fino all'8 gennaio 2023) di Federico Gori (Prato, 1977, curata dalla direttrice con Lorenzo Madaro, consiste in una teca in legno e vetro trasparente strutturata su più livelli, contenente una serie di sculture in oro, argento, bronzo, rame e ferro, realizzate a partire dall’esuvia – la “pelle” – di ventotto serpenti. Una installazione contemporanea allestita all’interno del percorso museale. L’opera, inedita e site-specific, è fra i progetti vincitori del bando PAC – Piano per l’Arte Contemporanea del Ministero della Cultura. Taras e i doni del mare (fino al 31 dicembre 2022) è invece l’esito di un lungo lavoro di ricerca volto a ricostruire la storia dell’artigianato del mare, delle attività produttive che gravitavano intorno a esso e il contributo di pescatori, carpentieri, marinai alla costru-
zione dell’identità culturale di Taranto e della Puglia. Anche in questo caso, grande attenzione è stata rivolta alla ricezione della mostra da parte di differenti pubblici, nella fattispecie grazie all’accompagnamento della voce dell’attrice Erika Grillo del Teatro Le Forche e delle musiche mediterranee dell’ensemble La Cantiga de la Serena. Le mostre temporanee si affiancano alla collezione permanente: oltre 200mila reperti e manufatti che vanno dalla Preistoria al Medioevo, con l’highlight rappresentato dagli Ori di Taranto, antologia dell’arte orafa di età ellenistica che non ha sostanzialmente pari nel mondo. viaggiareinpuglia.it IN ALTO: Taranto, MArTA, photo Andrea Ruggeri IN BASSO: Taranto, MArTA, Testa in terracotta colorata, photo Soprintendenza Archeologica della Puglia
MOSTRE EVENTI SPECIALI PERFORMANCE INSTALLAZIONI REGGIO EMILIA PARMA GIUGNO DICEMBRE 2022
Le attività sono realizzate grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della cultura
reggioparmafestival.it
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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]
YUVAL ROBICHEK yuvalrob.com
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Yuval Robichek, Bra Panties | Masks | Rooftops | Take A Number
Ci si dimentica troppo spesso che anche l’esercizio dell’umorismo è un’arte; e diremmo, prima di tutto, un’arte di vivere. È un’arte, perché è un modo di interpretare la realtà e, come immediata conseguenza, di reinventarsi il mondo. L’umorista infatti, col suo sguardo (estetico ed etico) che definiamo laterale, sa vedere particolari che a noi gente comune sfuggono, o forse semplicemente ci paiono congrui, e invece d’improvviso li svela incongrui, prima a sé e poi a noi – e questo ci suscita di colpo un piccolo shock percettivo, indi una sorpresa, indi un microflash nervoso, indi una risata o almeno un sorriso, indi un lampo di benessere. Indi, sì, ogni volta l’umorista ci fa dono di un attimo di gioia di vivere, di un fugace beneficio al nostro equilibrio psicofisico, di una piccola dose di medicina contro il grande nemico, il male di vivere. Grazie umoristi, dunque, artisti del godimento dell’esistenza, che riuscite a trasformare – quand’anche solo illusoriamente e
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transitoriamente – gli stessi imprevisti negativi in opportunità viceversa positive. Grazie umoristi, perché ci fate buon sangue, perché ci regalate scintille di calore in ogni stagione dell’anno e della vita. A proposito: in Israele c’è un umorista che ama suddividere e classificare le sue opere proprio in base alle quattro stagioni. E si direbbe che si mostri specialista soprattutto dell’estate, forse perché vive sulla riva sudorientale del Mediterraneo e gode così più estate di tanti altri. Ma la stagione calda, almeno a suo vedere, si può intendere pure come la più disponibile alle influenze e agli esercizi dell’eros, probabilmente a causa dei pochi vestiti che richiede di indossare; e si sa che la vista della carne nuda suggerisce immaginazioni di sempre maggiori nudità. Ebbene, il baldo Yuval Robichek mette in moto la propria fantasia – e di conseguenza le nostre – volentieri di fronte agli indumenti più succinti che ci siano, quelli da spiaggia. I costumi da bagno in particolare
coprono lo stretto indispensabile, in fin dei conti esaltando quanto nascondono. E Rubichek si diverte a puntare esattamente lì il suo sguardo: diretto in senso letterale, ma laterale in senso figurato. Ricorrendo a un segno estremisticamente essenziale, che assegna a uomini e donne le stesse corporature snelle e squadrate e il medesimo ovale di viso, spesso privo di occhi e sempre dotato di un lungo naso rettilineo a turacciolo, il nostro umorista è capace di fissare momenti qualunque in visioni eccezionali, ovvero in concentrazioni quasi monocromatiche – perciò ancora meno distraenti, più precise – atte a catapultare fantasticherie oltre quegli straccetti di stoffa, verso l’ispirazione prettamente erotica. Ma stavolta, e ogni volta, soprattutto per ridere. Non solo per una buona estate, in definitiva, ma per una estate migliore per tutti. E sappiamo quanto bisogno ve ne sia – sempre, e ultimamente più che mai.
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Su quale tipologia di pubblico (e di clientela, naturalmente) puntate? E su quale rapporto con il territorio? A Bologna abbiamo ventiquattro anni di esperienza alle spalle, pertanto, aprendo nelle immediate vicinanze del locale storico, il passaparola è efficace. In che contesto vi trovate? Nebbam si sviluppa su due locali sotto il portico che già ospitava la mia attività storica Africa-Design.
NEBBAM Dopo un quarto di secolo, lo store Africa-Design raddoppia e diventa anche galleria d’arte. Un affare di famiglia in cui sono coinvolte la sorella e la figlia della fondatrice, Laureen Dijonne, che qui ha risposto alle nostre domande.
Descrivi brevemente il tuo progetto. Nella lingua dei pastori Peuls, nomadi dell’Africa sub-sahariana, nebbam significa
Chi c’è dietro Nebbam? Siamo Clarisse e Laurence, due sorelle métisse di madre francese e padre senegalese. Clarisse abita a Dakar e io a Bologna. Come siete organizzate? Clarisse lavora dal Senegal sulla ricerca dei prodotti. Alla gestione degli spazi partecipa mia figlia Héloise. Per la parte di galleria d’arte collabora con noi Carmen Lorenzetti, curatrice, critica e docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Ora qualche anticipazione sulla stagione in corso. Cosa proporrete dopo le prime mostre inaugurali? Subito dopo Arte Fiera partiamo con la professoressa Lorenzetti per la Biennale di Dakar, dove abbiamo già diversi appuntamenti con artisti.
“la parte migliore del latte”. Noi vogliamo far conoscere la crème de la crème della creatività e della cultura africana. Il progetto ha anche un valore sociale: lavorando con designer e artigiani che a volte si trovano in zone di conflitto, diamo la possibilità di continuare a esercitare il loro mestiere.
Il produttore Pietro Valsecchi compra la casa di Pasolini
Il programma della Triennale di Milano 2022
GIULIA GIAUME L Un gesto d’amore per Roma: così il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha accolto la donazione della casa di Pier Paolo Pasolini da parte del produttore cinematografico e televisivo Pietro Valsecchi. Acquistata a un’asta, la casa romana di PPP a Rebibbia diventerà – su indicazione dello stesso fondatore della Taodue Film, nota per aver prodotto il film con Checco Zalone Tolo Tolo (che incassò oltre 46 milioni) – il luogo dove tenere viva la memoria del grande poeta, regista, attore e drammaturgo. “Sono molto felice di poter restituire alla cittadinanza un luogo dal forte valore simbolico”, ha detto Valsecchi, “dove una figura fondamentale del Novecento come Pasolini ha vissuto i suoi primi anni, in quella Roma che ha poi magistralmente raccontato in romanzi, poesie e film”. La casa di via Giovanni Tagliere 3, dove l’intellettuale ha vissuto dal 1951 al 1953, sarà donata a Roma Capitale in occasione del centenario dalla sua nascita. “Appena entreremo in
GIORGIA BASILI L Come sarà la 23esima Esposizione Internazionale, intitolata Unknown Unknows. An Introduction to Mysteries e curata da Ersilia Vaudo e Francis Kéré? La mostra riunisce 400 artisti, designer, architetti provenienti da più di 40 Paesi. In totale oltre 600 opere e 22 partecipazioni internazionali, con una forte presenza del continente africano , rappresentato da Burkina Faso, Ghana, Kenya, Lesotho, Congo e Ruanda.. Ci sarà inoltre un focus sul Padiglione Ucraino, curato da Gianluigi Ricuperati che a maggio è stato in visita nel Paese in guerra insieme a una delegazione di attivisti, intellettuali e fotografi. Così racconta Ersilia Vaudo: “Abbiamo cercato di andare oltre le polarizzazioni (come buio/luce) ma anche le stereotipizzazioni. Al cuore c’è la volontà di presentare l’ignoto come una dimensione da abitare [...] con la consapevolezza che lo sconosciuto è innanzitutto una questione dello sguardo che abbiamo su di esso”. triennale.org/23a-triennale-di-milano
possesso dell’immobile lavoreremo per farne un luogo della memoria”, ha detto l’assessore romano alla Cultura Miguel Gotor. Due camere e cucina, la “casa di poveri, all’estrema periferia, vicina a un carcere” dove Pasolini si trasferì con la madre è stata acquisita anche con la speranza, dice Valsecchi, che “intellettuali, produttori, persone capaci si uniscano per fare qualcosa per questa città che ha bisogno di questi gesti forti. Spero che sia l’inizio di un lungo percorso per tanti amici che vogliono investire nella città”. taodue.it
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Come è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza? Il punto di partenza è l’amore. Amore per la bellezza, per l’arte, per l’Italia e per l’Africa. La voglia di rimetterci in gioco si è concretizzata durante una vacanza in Sicilia, lungo interminabili chiacchierate con mia sorella Clarisse.
Per quanto riguarda gli spazi espositivi? La scelta è stata quella di “scomparire” dietro gli oggetti, utilizzando un legno con una finitura piombo a pavimento e due non-colori: un bianco che non è bianco per pareti ed espositori e un’ombra di nero che avvolge i due locali partendo dal soffitto per scendere sulle pareti delle vetrine e su un pilastro, fino a inghiottirlo. Nello Store, a fare da contrappunto alla neutralità dell’ambiente troviamo due elementi: da un lato, il banco-cassa reclama la sua importanza vestendosi di pelle di serpente; dall’altra parte, la parete, prima liscia, si graffia accentuando il contrasto con il levigato ebano della Maternità Ndimo Makonde del Mozambico.
Bologna Via de’ Castagnoli 5b 051 3548930
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Giardino del Guasto
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ART MUSIC CLAUDIA GIRAUD
LE NUOVE APERTURE IN ITALIA CLAUDIA GIRAUD
[ caporedattrice musica ]
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PELE E ALMA: IL DISCO-LIBRO-PLANNER DI YOGA ILLUSTRATO fantinetho.com
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“La natura è l’ispirazione. L’armonia è l’obiettivo”. Con queste parole il compositore, già biografo di Morricone, Alessandro De Rosa e Fantine Tho introducono il loro primo disco insieme, Pele e Alma (versione portoghese dell’album internazionale di prossima uscita Flesh and Soul), che rappresenta una svolta nella carriera della cantautrice, performer e attivista brasiliana: vincitrice di un talent show musicale, abbandona qui il pop in direzione di un universo sonoro più contaminato, elettronico e acustico, vicino alla world music. Il tutto con il fine di contribuire ad amplificare la riflessione sulle grandi problematiche ambientali attraverso l’arte. “Sono fondatrice del gruppo di lavoro a scopo benefico e ambientale Green Atlantic e ambasciatrice della missione di riforestazione globale della IAHV – International Association of Human Values”, ci racconta Fantine Tho. “Attraverso questa organizzazione tengo seminari di scrittura di canzoni nei centri yoga in Europa e agli studenti dell’Università di Coimbra con l’obiettivo di sviluppare una leadership creativa che colleghi l’arte alle missioni. Mettiamo i sentimenti nelle parole, le parole nelle canzoni e in questo modo costruiamo foreste in Brasile. Dove ogni seme ha un’anima e ogni albero ha un nome”. Da qui l’idea del concept album che è anche un eserciziario di yoga, illustrato dall’artista italo-lussemburghese Greta Desirée Facchinato: “Arte e musica ricoprono nel libro il ruolo di risvegliare il loro rapporto ancestrale – che nella routine quotidiana tendiamo a dimenticare – risvegliando i sensi e riconnettendoci a noi stessi”. Si tratta, infatti, di un viaggio musicale e interiore, dove un’ipnotica voce femminile che rappresenta la coscienza (Alma) chiama a sé la sua controparte maschile (Pele), sfuggente e sempre all’inseguimento di qualcosa di indefinito. A unirli sono la comune ricerca di un equilibrio e le musiche epiche e cinematografiche di Alessandro De Rosa: “Le illustrazioni di Greta, insieme alle storie di Fantine, sono state una grande ispirazione visiva e concettuale, ma musicalmente non ho cercato di scrivere una musica che le ‘mimasse’. Ho scavato, invece, dentro me stesso e in ciò che negli anni ho appreso da libri, incontri e ricerche di crescita personale. Così, in modo piuttosto libero e rapido, è emersa questa musica. L’ho accettata. Credo che in un progetto che raccoglie varie forme di espressione e varie identità, la buona riuscita del loro incontro dipenda dalla capacità di sintonizzarsi sulla stessa frequenza, la stessa intenzione”.
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GALLERIE D’ITALIA A TORINO E NAPOLI Intesa Sanpaolo ha inaugurato le Gallerie d’Italia – Torino, quarto museo del Gruppo bancario, 10mila mq di percorso espositivo su 5 piani, di cui 3 ipogei, dedicati alla fotografia e al Barocco in Piazza San Carlo a Palazzo Turinetti, sede legale e storica dell’istituto di credito torinese. Un unicum che distingue la città sotto la Mole dalle altre tre gallerie del polo museale di Banca Intesa Sanpaolo a Milano, Vicenza e Napoli. Quest’ultima ha però appena aperto la sua nuova, seconda sede nel monumentale edificio dell’ex Banco di Napoli, progettato dall’architetto Marcello Piacentini e ora riconvertito in museo da Michele De Lucchi, protagonista anche del rinnovo dell’edificio a Torino. gallerieditalia.com PINACOTECA AGNELLI TORINO Il ventennale della storica collezione di Giovanni Agnelli e Marella Caracciolo e l’architettura della ex fabbrica di auto, con il nuovo giardino pensile sul tetto, hanno ispirato la programmazione della nuova direttrice dell’istituzione torinese, Sarah Cosulich: “Un progetto in collezione dedicato al rapporto tra Picasso e Dora Maar, in collaborazione con la Fondazione Beyeler; una mostra personale dedicata all’artista svizzera Sylvie Fleury e la Pista 500, il progetto di installazioni di artisti internazionali all’esterno”. Il tutto con una fruizione più aperta, che ingloba la storica pista di collaudo del Lingotto del vecchio stabilimento della Fiat e si dota di nuovi servizi come la caffetteria, gestita da Gerla 1927. pinacoteca-agnelli.it FONDAZIONE MITORAJ A PIETRASANTA La sede della neonata fondazione sarà in Versilia nello stesso museo, ancora in progress, con inaugurazione entro l’anno in corso nell’ex mercato comunale di Pietrasanta, dove è conservata la collezione dello scultore polacco. Finora sono stati firmati al Ministero della Cultura l’atto costitutivo e lo statuto dell’istituzione che gestirà il patrimonio di Igor Mitoraj, scomparso nel 2014, autore di monumentali sculture frammentate che riecheggiano i reperti archeologici del periodo classico greco-romano, rivisitate attraverso tratti postmoderni. Proprio nella città versiliese Mitoraj aveva tenuto il suo studio per quasi quarant’anni. igormitoraj.com HZERO: MUSEO DEL TRENINO A FIRENZE Hzero è il museo del trenino che ospita il gigantesco plastico creato dal marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano. Un percorso ferroviario immaginario tra casette in stile tedesco, finte Dolomiti, il mare dell’Isola d’Elba, porti e aree agricole in una sorta di Europa in miniatura al massimo livello di dettaglio. Il modellino è esposto e operativo nell’ex Cinema Ariston di Firenze. hzero.com GAN – GALLERIA DELL’ACCADEMIA DI NAPOLI Nuovo ordinamento e riallestimento della raccolta dell’antico Istituto di Belle Arti di Napoli, oggi Accademia, che punta sul carattere identitario delle collezioni. Con opere fuori dai depositi e spazi inediti. abana.it
SERIAL VIEWER
LA TRUFFA DELL'ARTE
GIULIA PEZZOLI [ registrar e curatrice ]
AVVERTIMENTI IN SALSA CYBERPUNK
CANADA – POLONIA – USA, 2021 REGIA: Agata Alexander GENERE: fantascienza SCENEGGIATURA: Agata Alexander, Jason Kaye, Rob Michaelson CAST: Alex Pettyfer, Alice Eve, Annabel Mullion, Annabelle Wallis, Benedict Samuel, Cybill Lui DURATA: 85’
La storia di Anna Delvey, protagonista della serie tv su Netflix Inventing Anna, è una storia vera. Fa riferimento, infatti, alle vicende di Anna Sorokin, interpretata qui da Julia Garner (Ruth Langmore in Ozark). Chi è Anna? Se la googlate verrà fuori la parola “truffatrice”, perché – come attesta anche la serie tv – si infiltra nel mondo dell’alta società (e dell’arte contemporanea) spendendo e spandendo, senza però mai rimetterci un soldo di tasca propria e lasciando a malcapitati hotel, ristoranti, amici, negozi di altissimo livello il conto da pagare. Si infila nei party e nelle cene più à la page. Riesce quasi a ottenere un massiccio prestito e investimento da una grande banca internazionale per creare la propria fondazione dedicata all’arte contemporanea, acquistando peraltro l’edificio poi occupato, anche nella vita reale, da Fotografiska a New York. Anna, almeno nella serie tv, crede realmente a ciò che dice di essere, una ricca ereditiera tedesca che vive ancora della paghetta di papà, in attesa che le venga sbloccato un fondo di 60 milioni, e con la sua bellezza, la sua classe, la sua capacità, la sua competenza nel settore è sempre perfetta e al momento giusto, è una socialite e una influencer con i fiocchi. Oppure è una performer, che sta interpretando la grande opera d’arte totale della vita? O ancora è l’immagine dell’American Dream, negli ultimi decenni un po’ sfilacciato e bastonato, e che nella storia di Anna assume i panni di una bella e giovane ragazza straniera pronta a tutto per affermarsi nel mondo ed essere qualcuno? Come è o come non è, Anna riesce quantomeno nel secondo intento, mentre il sogno della fondazione sfuma insieme al prestito, perché il suo nome è sulla bocca di tutti, complice anche la serie tv in onda dal 2022. Una produzione che riesce anche a far sorridere gli appassionati di arte contemporanea quando mette a nudo le debolezze e le criticità del settore, soprattutto per ciò che riguarda la sfera relazionale. Sono immagini saltuarie nel tessuto narrativo che tiene con il fiato sospeso, ma comunque delle vere chicche.
Sei storie si sfiorano per poi dissolversi l’una nell’altra come onde nel mare. Quella di David, manutentore di satelliti spaziali, fa da cornice a tutte le altre, dettando la linea temporale e acquisendo man mano il punto di vista di un narratore onnisciente. A essa si aggiungono, uno dopo l’altro, gli episodi di Charlie, un automa ormai obsoleto che non riesce a trovare un nuovo impiego, di Claire, completamente dipendente dall’app Dio 2.0, dei passionali Ben e Anna, dei romantici Nina e Liam e della sfortunata baby squillo Magda. Vincitore del Premio Méliès d’Argent al Trieste Science + Fiction Festival 2021, Warning è il primo lungometraggio della giovane regista di videoclip Agata Alexander, che presenta al pubblico un’antologia cyberpunk da manuale, composta da narrazioni lievemente interconnesse e sequenziali. Sebbene non tutte ugualmente efficaci, le brevi storie di Warning sono, come indica il titolo, “avvertimenti” di un pericolo imminente, ammonimenti senza facili moralismi, che mostrano, con lucida ironia e humour, le possibili derive di un presente caratterizzato dalla dolorosa perdita di contatto con il proprio sé. Consumismo sfrenato, assenza di empatia, di etica, deresponsabilizzazione, delega morale, sono solo alcuni degli aspetti più preoccupanti di una realtà gradualmente sempre più “supportata” da una tecnologia progettata per catturare l’attenzione, ingaggiare una dipendenza e guidare il soggetto nelle sue scelte, anche quelle più intime, violandone l’identità, confondendola per poi disperderla. Attraverso immagini semplici ed efficaci, la regista americana affronta quesiti esistenziali e riflessioni filosofiche sul nostro presente e sulle sue possibili (e tragiche) evoluzioni, descrive un’umanità sempre meno consapevole e anestetizzata, costruendo un mosaico narrativo profondo, divertente e leggero, in cui solitudini e incertezze individuali si inseriscono in una dimensione corale che converge in un inatteso, apocalittico, finale.
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USA, 2022 GENERE: drammatico CAST: Julia Garner, Anna Chlumsky, Arian Moayed, Katie Lowes, Alexis Floyd STAGIONI: 1 EPISODI: 9 (59’-82’ ognuno)
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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]
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NUOVI SPAZI
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NECROLOGY
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CARLOTTA STROBELE
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Torino Porta Nuova
1924 – 29 maggio 2022
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18 dicembre 1954 – 26 maggio 2022 L ANDY FLETCHER
RICCARDO COSTANTINI
Torino Via Goito 8 348 6703677 riccardocostantini65 @gmail.com
8 luglio 1961 – 26 maggio 2022 L VANGELIS 29 marzo 1943 – 17 maggio 2022 L
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Da Borgo Nuovo a San Salvario, dalla sonnolenza alla movida, dal white cube alla stratificazione storica. Tante le novità per Riccardo Costantini, tutte raccontate nell’intervista Passi da Borgo Nuovo, la zona più tradizionale delle gallerie torinesi, a San Salvario, area di “movida” dove l’arte manca da parecchi anni. Da quali esigenze è nata l’idea di questo trasloco? Se dovessi pensare a un sostantivo che più possa essere utile a descrivermi, la parola potrebbe essere “sfida”. Sfida è stata il trasferirmi da Milano per aprire il mio progetto a Torino; sfida è traslocare da Borgo Nuovo a San Salvario, perché il tradizionale sarà pure sinonimo di comfort zone, ma può anche esserlo di “sonnolento”. Di San Salvario si possono trovare numerosi aggettivi ma “sonnolento” è sicuramente il meno idoneo. Comunque era da tempo che pensavo di trovare una galleria differente – senza le vetrine del precedente spazio – e finalmente l’ho trovata e con un incredibile potenziale. Ci sei tu e poi? Chi fa parte del progetto? In questi nuovi locali vorremmo far convivere due realtà: una prettamente legata all’aspetto commerciale, che manterrà le caratteristiche della Riccardo Costantini Contemporary; l’altra prevede la creazione di un’associazione culturale che coadiuvi l’attività espositiva. Ho usato il plurale perché per quest’ultima sarò ovviamente affiancato da altri attori. Alcuni ci sono già, altri sono in via di definizione. L’idea è quella di sviluppare un programma di iniziative che uniscano gli aspetti artistici a scienza e letteratura. Nei locali di via Goito c’è una parte ancora non mostrata che speriamo di poter presentare al più presto. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela, naturalmente) punti? L’idea è quella di aumentare la trasversalità del pubblico che già segue la mia galleria. Mi piace che gli spazi siano frequentati
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da giovanissimi come da persone più adulte. Se parliamo esclusivamente di clientela, non mi aspetto che cambi più di tanto nella tipologia: collezionisti curiosi che non si limitino a guardare gli aspetti speculativi. Ho sempre pensato che la galleria non debba essere un luogo freddo e “inospitale”. Vorrei che il pubblico visitasse i nostri spazi con la sensazione di entrare in un luogo accogliente. Un cenno agli spazi espositivi. Come sono, come li hai impostati e cosa c’era prima? Quando ho fatto il primo sopralluogo nel nuovo spazio ho realizzato immediatamente il suo grande potenziale: una straordinaria circolarità dei locali che, inoltre, hanno un’altezza non comune. Mi ha dato un contributo fondamentale nella progettazione un artista della galleria, Carlo Galfione, che, non a caso, insegna Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Carlo mi ha aiutato a realizzare uno spazio che non fosse il consueto white cube e che mostrasse la stratificazione storica di questo luogo. Nel dopoguerra era sede di una attività/laboratorio per la fabbricazione di strumenti scientifici, negli ultimi anni sede di uno studio affermato di architettura. È così diventato uno spazio molto particolare e che, a detta di chi lo ha visitato, è unico nel suo genere. Hai inaugurato con una breve collettiva degli artisti con cui lavori e ora è in corso una personale di Saverio Todaro curata dal “nostro” Marco Enrico Giacomelli. Cosa proporrai in seguito? In questo momento la mostra di Saverio Todaro è già affiancata da una piccola e preziosa esposizione di Pierluigi Fresia nella project room. Le due mostre finiranno nei primi giorni di luglio e immediatamente allestiremo una bi-personale di Enzo Gagliardino e Piero Mollica in un dialogo fra pittura e fotografia. Dalla metà di settembre, con un programma ancora in definizione, personali di Nicola Ponzio, Nata Rampazzo e Simone Stuto.
MATTEO GUARNACCIA 19 dicembre 1954 – 13 maggio 2022 L GIANNI PISANI 20 marzo 1935 – 5 maggio 2022 L KLAUS SCHULZE 4 agosto 1947 – 26 aprile 2022 L HERMANN NITSCH 29 agosto 1938 – 18 aprile 2022 L LETIZIA BATTAGLIA 5 marzo 1935 – 13 aprile 2022 L RICCARDO DALISI 1 maggio 1931 – 9 aprile 2022 o
L FUJIKO FUJIO 10 marzo 1934 – 7 aprile 2022 L MAURIZIO SPATOLA 2 ottobre 1946 – 29 marzo 2022 L MARIO PERSICO 1930 – 27 marzo 2022 L GIANNI CAVINA 9 dicembre 1940 – 26 marzo 2022 L TAYLOR HAWKINS 17 febbraio 1972 – 25 marzo 2022 L TOMMASO RENOLDI BRACCO 14 ottobre 1970 – 13 marzo 2022
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La Portineria
Uno spazio non profit a Firenze DARIO MOALLI [ critico d’arte ]
A inizio anno vi abbiamo raccontato Mucho Mas!, il progetto non profit basato a Torino. Questa volta scendiamo a Firenze, dove opera La Portineria, spazio ospitato in un edificio che reca la firma di Oreste Poli. Qui sotto trovate il testo, nelle tre pagine successive un visual essay proposto da Matteo Innocenti. a Portineria è uno spazio progettuale per l’arte contemporanea a Firenze, ideato e diretto da Matteo Innocenti, all’interno di Palazzo Poli – edificio residenziale dell’architetto Oreste Poli, costruito nei primi Anni Settanta del Novecento. La natura del luogo è strettamente correlata alle modalità progettuali sinora messe in atto, a un doppio livello: perché il palazzo, realizzato in stile modernista – ricorrendo a volumi dinamici di cemento a vista, intervallati da inserimenti di legno bruno – costituisce un unicum architettonico nella conformazione del quartiere (Campo di Marte, a sud della città), e perché ci troviamo nello spazio che ha davvero avuto funzione di portineria per oltre trent’anni, aperto verso l’ingresso che conduce agli appartamenti nonché verso l’esterno, ovvero la strada, per la presenza di una grande vetrata. Da qui l’idea di avviare un primo ciclo di mostre dal titolo complessivo A Solo, esposizioni personali che si concentrano su un numero limitato di opere, esistenti o nuove, in dialogo diretto con il luogo, quindi, nella sostanza, dei progetti site-specific; sinora con gli artisti David Casini, Satoshi Hirose, Marco Andrea Magni, Enrico Vezzi. Al termine del ciclo inizierà un nuovo format, per l’intenzione di cambiare i termini della ricerca costantemente, nel corso del tempo. Una parte costitutiva della programmazione riguarda le collaborazioni, così da creare una modalità dialogica con altre realtà; ad esempio con lo spazio non profit e itinerante Satellite diretto da Francesco Ozzola, con il Black History Month Florence (ospitando le mostre degli artisti Ako Atikossie e Thelonious Stokes), il Museo Novecento di Firenze, l’Accademia di Belle Arti di Firenze, la Fondazione Zimei di Pescara; e altri interlocutori si aggiungeranno in futuro. Chiude l’insieme di attività Studio, una residenza di durata variabile, cui si partecipa tramite una open call progressiva, che mette a disposizione uno spazio da usare
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appunto come studio personale da parte degli artisti. La Portineria ha dunque due obiettivi sostanziali. Da una parte intende essere un centro di attività e stimolo culturale, tramite progetti di sperimentazione artistica e curatoriale, coinvolgendo artisti di varia provenienza e di differenti generazioni; dall’altra si propone di avviare una relazione effettiva con il quartiere e la città, in considerazione di una distanza, ormai quasi endemica, fra l’arte contemporanea e il pubblico di non specialisti. Anche in ragione di ciò, il prossimo programma cercherà di porsi in relazione con alcune delle questioni sociopolitiche inerenti il nostro periodo storico così critico.
BIO L’edificio di Viale Duse 30 che ospita La Portineria viene costruito nel 1974 dall’architetto Oreste Poli, all’epoca già noto costruttore. In questa fase della sua ricerca, l’architetto concepisce un palazzo che unisce la semplicità e il rigore delle linee con una forte espressività data dalla potenza materica: il colore grigio dell’elemento principale, il cemento, dialoga con le grandi vetrate e gli elementi leggeri in legno Douglas; viene movimentato dai pieni e vuoti delle terrazze e all’interno si rapporta al chiarore di un marmo nobile quale il Botticino.
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TEATRO Teatro Romano Verona ore 21.15 01.07 | 02.07 IL MERCANTE DI VENEZIA Franco Branciaroli 07.07 | 08.07 IL MIO CUORE E’ CON CESARE Alessandro Preziosi 11.07 R+G | Stefano Cordella 15.07 | 16.07 BOOMERS | Marco Paolini 01.09 | 02.09 | 03.09 ILIADE | Natalino Balasso 14.09 | 15.09 IFIGENIA IN TAURIDE Jacopo Gassmann Terrazza di Giulietta Verona ore 21.00 dal 19.07 al 26.07 (escluso 24.07) RACCONTO D’INVERNO Piermario Vescovo
in collaborazione con
www.estateteatraleveronese.it
TEATRO Teatro Camploy Verona ore 21.00 dal 22.08 al 28.08 (25.08 e 28.08 anche ore 18.00)
VERONA SHAKESPEARE FRINGE FESTIVAL DANZA Teatro Romano Verona ore 21.15 19.07 e 22.07 GIULIETTA | Eleonora Abbagnato 26.07 OTHELLO TANGO | Naturalis Labor 04.08 NOTHING LEAR | Balletto Civile dal 06.08 al 18.08 (escluso 10.08) BACK TO MOMIX | Momix MUSICA Teatro Romano Verona ore 21.00 22.06 PAOLO FRESU Ferlinghetti 23.06 ELIO Ci vuole orecchio 26.06 AVISAHI COHEN TRIO Shifting Sands 27.06 AL DI MEOLA Acoustic Trio 04.07 BLACK PUMAS 23.07 KINGS OF CONVENIENCE
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PER UNA CULTURA ACCESSIBILE LIVIA MONTAGNOLI [ storica dell’arte ]
La disabilità è ancora oggi un tema difficile da affrontare, anche in ambito culturale. Eppure esistono progetti e istituzioni attivi nell’eliminazione delle barriere – fisiche e non – che impediscono alle persone disabili di avere accesso alla creatività. Una doverosa lotta contro gli stereotipi e i pregiudizi, in Italia e non solo.
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articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ratificata nel 1948, sostiene che “ciascuno ha il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”. Oltre settant’anni più tardi, nel 2020, la Dichiarazione di Dresda ha messo in risalto il ruolo del teatro e delle arti performative come “potenti forme di espressione artistica che stimolano la riflessione, promuovono l’uguaglianza e la democrazia”, attribuendo alle arti una funzione non solo culturale, ma politica. Mentre l’articolo 30 della Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità, che le Nazioni Unite hanno sottoscritto nel 2006, riconosce non solo il diritto delle persone con disabilità a partecipare alla vita culturale, ma anche il dovere delle entità statali di assicurare che ciò avvenga. Il macrotema chiamato in causa da queste riflessioni è quello dell’accessibilità – fisica, percettiva, economica – dei luoghi della cultura, per quel che riguarda la partecipazione diretta alla produzione culturale, come pure la possibilità per tutti di fruirne.
EUROPE BEYOND ACCESS E GLI ARTISTI DISABILI
© Vito Ansaldi per Artribune Magazine
Sul versante della partecipazione è nato e si muove il progetto Europe Beyond Access (2018-2023), il più grande programma al mondo su arti e disabilità. L’obiettivo è quello di internazionalizzare le carriere degli artisti disabili e rivoluzionare la scena europea, attraverso workshop, residenze, toolkit, eventi, performance, laboratori creativi, film, affinché le persone disabili siano protagoniste dell’innovazione creativa, senza ricorrere a categorizzazioni “inclusive” che, invece di contribuire ad abbattere le barriere, rischiano di fondare l’operazione su un atteggiamento pietistico e assistenziale. L’arte è arte, sempre. Eppure il mondo si fonda ancora sul concetto dell’abilismo, comportamento esercitato diffusamente in modo più o meno consapevole che porta allo stigma e all’isolamento delle persone con disabilità fisiche o psichiche, perché altro dall’idea comune di
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DISABILITÀ E ACCESSIBILITÀ AI LUOGHI CULTURALI IN ITALIA E IN EUROPA
42 mln
disabili tra i 15 e i 64 anni in Europa
37,5%
3,1 mln
disabili in Italia
persone con limitazioni gravi che in Italia svolgono almeno un’attività di tipo artistico fonte: Istat 2019
fonte: Istat 2019
52% operatori culturali in Europa che ritengono scarsa la propria conoscenza di artisti disabili
37,5%
fonte: Time to Act
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musei italiani accessibili a persone con gravi limitazioni
20,4%
le realtà della Rete Italiana Europe Beyond Access 2021-2023
musei italiani che prevedono supporti per i ciechi
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gli istituti culturali italiani che aderiscono alla rete Museo per tutti
“normalità”. Time to Act è il titolo di una ricerca condotta nel 2021 da On the Move in quaranta Paesi europei (Italia compresa) per evidenziare quante barriere – fisiche e mentali – costituiscano ancora un serio impedimento per artisti e pubblici disabili rispetto all’accesso alla vita culturale.
GLI OSTACOLI ALL’ACCESSIBILITÀ
Nel 2019 l’UE si impegnava a promuovere una “nuova agenda culturale” fondata proprio sull’apertura alla disabilità, chiamando in causa decisori politici e operatori culturali per concretizzare un cambio di prospettiva, a vantaggio, e questo è un punto centrale, non solo di chi la disabilità la vive in prima persona, ma della collettività tutta, che dal contributo delle persone disabili alla vita culturale trarrebbe grandi benefici (favorire l’espressione di creatività è sempre una buona scelta, specie quando si sviluppa nell’alterità). Orizzonte temporale: 2021-2027. Eppure, rileva il Time to Act, c’è ancora molta strada da fare, a fronte di una popolazione disabile in età compresa tra i 15 e i 64 anni di 42 milioni di persone (il 12,8% della popolazione europea, dato Eurostat): in Europa, l’87% delle sedi culturali e dei festival non coinvolgono persone disabili nelle commissioni di selezione o nella gestione; il
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fonte: Istat 2019 riferito al 2015
In Europa esiste una popolazione disabile di 42 milioni di persone.
52,4% degli intervistati ha valutato la conoscenza degli artisti disabili come scarsa o molto scarsa; l’87% delle istituzioni culturali non adegua i propri materiali di comunicazione alle regole dell’accessibilità. E il problema si riverbera anche sulla fruizione: l’82% delle persone con disabilità in Europa dichiara di aver avuto difficoltà di accesso a eventi culturali per uno o più impedimenti non risolti all’origine dai promotori; il 73% di loro si è sentito discriminato se ha provato a partecipare.
Per la realtà italiana fa fede il rapporto Istat 2019 (Conoscere la disabilità), che individua nel Paese 3,1 milioni persone con disabilità (di cui 1,5 milioni ha più di 75 anni). Non esistono, invece, dati organizzati sul panorama nazionale della partecipazione di persone con disabilità al mondo di produzione e fruizione culturale. Ma, nel settore artistico, l’assenza di accessibilità caratterizza ancora in modo rilevante l’Italia rispetto ad altri Paesi europei, e costituisce un evidente ostacolo alla partecipazione culturale: solo il 9,3% delle persone con disabilità va al cinema, a teatro, ai concerti o nei musei (contro il 30,8% degli abili). E conta sottolineare che, tra coloro che nonostante gravi disabilità svolgono attività culturali (sia come spettatori che come artisti: in Italia il 12% delle persone con limitazioni gravi svolge almeno una attività di tipo artistico), uno su tre si dichiara “molto soddisfatto della propria vita”.
PRESENTI ACCESSIBILI. L’INCONTRO A MILANO
Perché si possa concretamente percorrere la strada del cambiamento, prendere consapevolezza dello stato dell’arte è un passaggio centrale, solo parzialmente raggiunto dagli stessi addetti ai lavori. Alla fine di aprile, Milano ha ospitato la prima edizione di
PARTECIPAZIONE FA RIMA CON AUTONOMIA
Presenti Accessibili, evento internazionale su arti performative e disabilità sul palco e in platea. A organizzarlo, l’associazione Oriente Occidente – partner del progetto Europe Beyond Access e capofila di una rete di 51 realtà del mondo della cultura italiana che si è costituita a partire dal programma europeo – in collaborazione con Al.Di.Qua Artists (di cui parleremo a breve). Ci si è così trovati – tra operatori culturali, istituzioni, artisti ed esperti – a mettere in comune buone pratiche e obiettivi da perseguire per generare consapevolezza e partecipazione. “Presenti Accessibili è stata la conferma che è giunto il tempo: il sistema culturale italiano è pronto a interrogarsi sul tema, stringere rapporti, ma dovrà poter contare su una presa in carico da parte delle istituzioni”, spiega Anna Consolati, direttrice generale di Oriente Occidente. “Il periodo di crisi aperto dalla pandemia ha fatto in modo che le minoranze inascoltate si unissero: gli artisti con
Prendere consapevolezza dello stato dell’arte è un passaggio centrale. disabilità rischiavano di essere sacrificati e invece sono emersi con maggiore determinazione. E il sistema delle arti contemporaneo ha compreso che da quella diversità può arrivare innovazione estetica e creativa. Nella danza, per esempio, aspettiamo da tempo un nuovo codice creativo, e proprio gli artisti disabili possono portare uno stimolo”. L’obiettivo primario è dunque quello di garantire loro centralità e protagonismo: “L’evento,
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Chiara Bersani. Photo © Simone Cargnoni
Qualcosa, però, sta cambiando: “Parlerei ancora di utopie, che però trovano finalmente spazio nel mondo della cultura e del contemporaneo. L’agenda europea 2030 spinge molto sulla diversity, le nuove generazioni hanno interiorizzato la consapevolezza che la diversità è un valore aggiunto. Finora il modello più avanzato è stato quello britannico: il British Council lavora da trent’anni sulla direttrice Arts & Disability, che però è espressione di una società, quella inglese (simile sotto questo aspetto a quella svedese), molto diversa dalla società italiana. E allora l’Italia deve trovare la sua strada, possibilmente superando i modelli già dati”. Ma come si superano questi modelli? “Non muovendosi soltanto all’interno dei festival ‘inclusivi’”, prosegue Consolati. “Superiamo l’idea che le Paralimpiadi siano la parte positiva per i disabili, scardiniamo i preconcetti. Esempi da evidenziare ce ne sono: Chiara Bersani che vince il Premio Ubu come miglior attrice/performer under 35, il duetto danzato sulla tattilità di Virginio Sieni e Giuseppe Comuniello, ‘Feeling Good’ di Diego Tortelli, cooprodotto con Aterballetto, la riflessione sulla parità di genere alla Biennale di Venezia… Episodi che vanno al di là delle barriere”. Fare atterrare queste istanze in un sistema nazionale capillare e radicato nei luoghi della cultura, però, è tutt’altra questione: “Le persone con disabilità devono poter contribuire allo sviluppo culturale, ma le leggi attuali le limitano all’orizzonte delle politiche sociali. La Direzione generale spettacolo ha preso un impegno, ma c’è sempre uno scollamento tra i funzionari sul territorio e la parte politica, che avrebbe bisogno di vedere. È importante raccogliere dati, mappare progetti (ma anche le barriere da eliminare) e realtà già impegnate a favorire questo processo. Istituzioni e finanziatori devono contribuire a rendere tutto ciò sistematico, per generare reali opportunità di partecipazione e autodeterminazione per minoranze e persone disabili”. Lavora concretamente sul tema l’associazione Al.Di.Qua Artists, costituitasi nel 2020 sotto la direzione di Diana Anselmo (“il contrario della disabilità non è un corpo sano, è l’accessibilità”), come organo di rappresentanza per artisti e artiste, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo con disabilità. “Ci confrontiamo continuamente con un
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GIUGNO L AGOSTO 2022
infatti, è stato curato da loro, non siamo noi a dover definire i confini della partecipazione delle persone con disabilità. C’è una parte di mondo che non conosciamo, si tratta di un immaginario mancato, che si rivela illuminante. Si tratta semplicemente di ricerca artistica, senza ulteriori connotazioni di sorta tra abili e disabili. Troppo spesso subentra ancora il pietismo, l’associazione mentale con qualcosa di negativo. La disabilità non è un tema da relegare al sociale, dinamica che invece continua a prevalere in Italia”.
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MUSEI & ACCESSIBILITÀ: LE BEST PRACTICE
GIUGNO L AGOSTO 2022
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MILANO
ROVERETO
MUSEO POLDI PEZZOLI Via Manzoni 12 museopoldipezzoli.it poldipezzoli
VARESE
MUSEO TATTILE Via Caracciolo 46 museotattilevarese.it museotattilevarese
MART Corso Bettini 43 mart.tn.it martmuseum
BERGAMO
ACCADEMIA CARRARA Piazza Carrara 82 lacarrara.it accademia_carrara
TRIESTE
MUSEO DI STORIA NATURALE Via dei Tominz 4 museostorianaturaletrieste.it
L STORIES L ACCESSIBILITÀ L
TORINO
MUSEO EGIZIO Via Accademia delle Scienze 6 museoegizio.it museoegizio
VENEZIA
COLLEZIONE GUGGENHEIM Dorsoduro 701 guggenheim-venice.it guggenheim_venice
BOLOGNA
MUSEO TOLOMEO Via Castiglione 71 cavazza.it
ANCONA
MUSEO OMERO Banchina Giovanni da Chio 28 museoomero.it museoomero
PISTOIA
MUSEO TATTILE Piazza del Duomo 3 pistoiamusei.it pistoiamusei
FIRENZE
MUSEO MARINO MARINI Piazza San Pancrazio museomarinomarini.it museomarinomarinifirenze
ROMA
PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI Via Nazionale 194 palazzoesposizioni.it palazzoesposizioni
PAESTUM
PARCO ARCHEOLOGICO Via Magna Grecia 919 museopaestum.beniculturali.it parcoarcheologicopaestum
GALLERIA NAZIONALE Via delle Belle Arti 131 lagallerianazionale.com lagallerianazionale MAXXI Via Guido Reni 4a maxxi.art museomaxxi
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PALERMO
GAM Via Sant’Anna 21 gampalermo.it gam_palermo
I PRINCIPI NORMATIVI 1948 ARTICOLO 27
della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
2006 ARTICOLO 30
della Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite
LEGGE ITALIANA DEL 3 MARZO 2009, ART. 30 COMMA 2
in ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite 2006
2018 LINEE GUIDA
2020 DICHIARAZIONE DI DRESDA
2021-2027 CREATIVE EUROPE PROGRAMME
mondo che non parla di noi, che non ha mai parlato di noi in altri termini che non fossero colorati dal pietismo o da un malinteso senso di eroismo (la differenza che passa tra concedere spazi controllati e dare reali spazi di autonomia, N.d.R.). Come ci si può accorgere di ciò che manca se non lo si è mai visto? Ecco perché è urgente che siano le nostre voci, i nostri punti di vista a infiltrarsi negli immaginari diffusi per generare delle narrazioni altre”, spiegano gli artisti dell’associazione in un potente video manifesto. “Le barriere che vorremmo abbattere sono soprattutto quelle culturali, quelle che impediscono a una persona con disabilità di immaginarsi artista professionista accedendo all’alta formazione, non tramite percorsi preferenziali, ma dall’entrata principale”. Oriente Occidente, nel frattempo, pensa già alle prossime mosse: “Il convegno con Aterballetto, previsto per la fine del 2022, sull’accessibilità del pubblico con disabilità, il lavoro con il MiC per sviluppare un circuito di esperienze, i toolkit pensati per aiutare le istituzioni culturali ad aprirsi alla disabilità”.
L’ACCESSIBILITÀ AL MUSEO IN ITALIA
L’ultimo punto introduce un’altra spigolatura, tutt’altro che trascurabile, del tema,
Gli ostacoli principali vertono su strutture e programmazioni spesso inadeguate.
legata alla fruizione: sono accessibili i luoghi della cultura in Italia? Muovendosi tra i musei, gli ostacoli principali vertono su strutture e programmazioni spesso inadeguate al cospetto dell’eterogeneità di pubblici potenziali che manifestano bisogni e aspettative diverse. “La pratica museale degli ultimi decenni ha fatto molto per colmare questo divario, soprattutto attraverso le iniziative di audience development, volte a creare un senso di accoglienza e di inclusione per raggiungere proprio coloro che non facevano parte del pubblico abituale del museo. Si tratta però di un approccio paternalistico che
L STORIES L ACCESSIBILITÀ L
per l’eliminazione di barriere architettoniche nei musei
All’ultima cerimonia degli Oscar, Troy Kotsur è salito sul palco per ritirare la statuetta come Miglior attore non protagonista 2022 per il ruolo interpretato nel film Coda – I segni del cuore (adattamento del film francese La famiglia bélier (2014) di Éric Lartigau), eletto anche Miglior film dell’anno. Classe 1968, nato sordo, all’inizio degli Anni Novanta ha fondato a Los Angeles il Deaf West Theatre, compagnia teatrale che produce spettacoli inclusivi, portando in scena la lingua dei segni, con cast che mettono insieme attori sordi e udenti (presto al lavoro su un musical tratto dal film Coda). Nel 2003, con la rappresentazione del musical Big River a Broadway, la compagnia ha avuto il merito di sollecitare in America una seria riflessione sulla partecipazione di attori non udenti al mondo del teatro professionale. Kotsur è il secondo attore sordo nella storia degli Oscar – dopo Marlee Matlin nel 1987, per Figli di un dio minore, anche lei presente in Coda – ad aggiudicarsi una statuetta. La pellicola, del resto, si concentra su una storia di sordità vissuta in famiglia, narrata con gli occhi e le ambizioni di Ruby, giovane 17enne “figlia udente di genitori sordi”, per dimostrare come la barriera tra sordi e non sordi possa essere superata – e di fatto è così nelle dinamiche di tutte le famiglie “coda” – semplicemente comunicando. Nella vita, come sul palcoscenico.
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TROY KOTSUR. IL PREMIO OSCAR E LA SORDITÀ
propone loro un modello implicitamente normativo circa ciò che dovrebbe piacergli e interessargli”, spiega Pierluigi Sacco, Professore Ordinario alla IULM di Milano e coorganizzatore di un ciclo di nove incontri dal titolo Open Doors. Il museo partecipativo oggi, che si articolano fino a novembre 2022 nell’alveo di Fondazione Brescia Musei (tanti contenuti a riguardo sul nostro sito). L’approccio moderno dovrebbe invece inquadrare il museo come spazio di scambio sociale basato sulla partecipazione attiva, spiegano i promotori del progetto, al di là di ogni possibile barriera educativa o socio-economica. Questo processo è tanto più urgente se calato nel mondo della disabilità: nel 2015 dichiaravano di essere accessibili per le persone con limitazioni gravi solo il 37,5% dei musei italiani, il 20,4% prevedeva supporti per i ciechi; solo il 17,3% delle strutture culturali garantiva un biglietto gratuito o ridotto alle persone disabili (Istat 2019).
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L STORIES L ACCESSIBILITÀ L
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Cab ipicturem raessinus sumet aceptibus dolo idi num estia duntorehent
L’accessibilità a persone con disabilità cognitive e intellettive è ancora largamente disattesa, con poche lungimiranti eccezioni che si individuano singolarmente sul territorio nazionale. Pensiamo al modello eccellente del Museo Tattile Statale Omero di Ancona o all’impegno del Palazzo delle Esposizioni di Roma, che lo scorso gennaio ha promosso il Punti di Vista Festival con un focus sulla tattilità per ribaltare lo sguardo sull’arte, sul mondo e sulla disabilità intesa come risorsa, e più diffusamente offre un serio programma di proposte educative accessibili. Sempre nella Capitale, si segnala la piattaforma digitale Mixt, che il MAXXI ha perfezionato per offrire un percorso partecipato e accessibile di scoperta e narrazione dell’architettura. Mentre il Museo e Atelier Tolomeo, fondato presso l’Istituto dei Ciechi Cavazza di Bologna da Fabio Fornasari, è
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Oggi la rete comprende 29 musei, un insieme che costituisce la più ampia offerta culturale proposta al pubblico con disabilità intellettiva.
presto diventato laboratorio per pensare e progettare esperienze di accessibilità da condividere nei luoghi della cultura. Insieme a Maria Chiara Ciaccheri, Fornasari ha recentemente firmato il libro Il museo per tutti. Buone pratiche di accessibilità (2022, La Meridiana), analizzando come è cambiato il rapporto tra società e museo, e come si sta evolvendo il modo di percepire la disabilità al museo, in quanto portatrice di nuovi codici e nuovi linguaggi che possono coinvolgere tutti.
LA RETE DI MUSEO PER TUTTI
Si distingue con merito anche il progetto Museo per tutti, ideato nel 2015 dall’associazione L’abilità con il sostegno di Fondazione De Agostini e nato con la finalità di migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità intellettiva, offrendo loro un nuovo
Stopgap Dance Company. Photo © Dougie Evans
bambini attingendo dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Si mutua, dunque, lo strumento dell’affido familiare – ma alleggerito – per valorizzare le famiglie come risorsa, in un processo condiviso di socializzazione e scambio di prospettive tra affidatari e affidati, sostenuti psicologicamente ed economicamente dal progetto per diventare protagonisti di un patto educativo. Gli affidatari – in genere genitori che già guidano i propri figli alla scoperta di attività culturali – supportano così un ciclo di uscite che si protrae per la durata di un anno, in luoghi con cui Affido Culturale ha stretto delle convenzioni. Parliamo non solo di musei, ma di teatri, cinema, laboratori
L’accessibilità a persone con disabilità cognitive e intellettive è ancora largamente disattesa, con poche lungimiranti eccezioni. degli Innocenti di Firenze, nella sua ristrutturazione più recente, ha abbattuto barriere fisiche ostative e adottato attenzioni espositive circa illuminazione e distribuzione degli spazi, funzionali a una fruizione inclusiva. Il circuito include anche beni FAI. Tra i materiali online, il progetto mette a disposi-
creativi, parchi, fattorie didattiche. La mappa delle attività e tutte le informazioni utili sono raccolte su un’app gratuita, tramite cui generare anche un qrcode che permetterà di ottenere, in biglietteria, tre gratuità per ogni bambino affidato. Inoltre, il progetto fornisce un contributo forfettario per il carburante o i biglietti dei trasporti pubblici, e garantisce ai bambini una merenda con prodotti biologici o da realtà che hanno riscattato beni confiscati alle mafie. Prossimo passo? Puntare a farne un servizio pubblico, inquadrando la funzione nell’alveo istituzionale. affidoculturale.org
L STORIES L ACCESSIBILITÀ L
spazio d’incontro e scambio nella società. Oggi la rete comprende ventinove musei, un insieme che costituisce la più ampia offerta culturale proposta al pubblico con disabilità intellettiva, comprendendo arte antica e contemporanea, beni naturalistici ed etnoantropologici (stona la ridottissima presenza di realtà nel Mezzogiorno). Alla Pinacoteca di Brera (da anni molto attiva sul tema dell’accessibilità: citiamo a riguardo il progetto DescriVedendo, rivolto ai ciechi e ipovedenti), la partecipazione alla rete ha di recente portato alla redazione di una guida (scaricabile in formato pdf) che permette al visitatore con disabilità intellettiva e al suo accompagnatore di vivere in piena autonomia l’esperienza della visita al museo. Alla Reggia di Venaria il disabile può beneficiare di un percorso sensoriale tra orto e frutteto dei giardini del palazzo torinese; il Museo
La maggior parte dei bambini italiani visita un museo, o in senso più esteso un luogo culturale, non più di una volta all’anno. A confermarlo è l’indagine dell’osservatorio sulla povertà educativa minorile di Openpolis. Da questa premessa nasce l’idea di Affido Culturale, che opera per favorire una forma di accessibilità ai luoghi culturali che abbatta barriere sociali, linguistiche ed economiche, coinvolgendo i bambini solitamente esclusi da esperienze al museo, a teatro, in luoghi di svago culturale. Un progetto maturato poco prima della pandemia, concretizzatosi – per ora – in quattro città (Napoli, Roma, Modena, Bari) grazie a un bando promosso dell’impresa sociale Con i
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FAVORIRE L’INCLUSIONE: LO STRUMENTO DELL’AFFIDO CULTURALE
zione una guida accessibile ai luoghi della rete, comprensiva di una mappa sensoriale che segnala variazioni luminose che possono causare fastidio, aree soggette a sovraffollamento ed eventuali impedimenti infrastrutturali. È invece l’Ente Nazionale Sordi a curare la piattaforma online M.A.P.S., che mappa i musei accessibili alle persone sorde (accessibitaly.it). Anche a livello ministeriale si è lavorato per mettere in rete uno strumento utile a verificare le condizioni di accessibilità ai musei e alle aree archeologiche statali aperte al pubblico. La piattaforma di riferimento è A.D. Arte (accessibilitamusei.beniculturali.it): dall’elenco dei luoghi si arriva alle singole schede descrittive che riportano tutte le informazioni su servizi, barriere architettoniche, soluzioni per favorire una fruizione inclusiva.
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59. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2022. Barbara Kruger, Untitled (Beginning/Middle/End), 2022. Photo © Irene Fanizza
IL LATTE DEI SOGNI CHE NUTRE I COLLEZIONISTI CRISTINA MASTURZO [ docente di economia e mercato dell’arte ]
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F
in dalla sua prima edizione, la Biennale rappresenta un formidabile termometro del mercato. Per chi per professione è abituato a cogliere aspetti market based, la Biennale è l’evento del biennio. Nel caso dell’edizione del 2022, posticipata di un anno per la pandemia, l’inaugurazione è stata organizzata appena dopo la diffusione della più autorevole e documentata analisi quantitativa in circolazione, l’Art Market Report curato da Clare McAndrew. Era impossibile non sovrapporre le due fotografie.
Come si concilia questo sentiment positivo con i preoccupanti scenari determinati dal conflitto in Ucraina? A Venezia, la guerra in Ucraina – crudele, vecchia, insensata – era un argomento di conversazione piuttosto che l’elemento che scuote le coscienze e preoccupa i mercati. Alla domanda del Padiglione dell’Ucraina “Can art be made after Bucha?”, la risposta implicita era affermativa. Lo stesso atteggiamento di fondo si legge tra le righe dell’introduzione al report di Marc Spiegler, Global Director di Art Basel: manifesta solidarietà e vicinanza umana agli ucraini e ai russi che protestano in patria contro la guerra, ma non fa trasparire una reale ansia. Va sottolineato però che, nel caso del report, i dati pertengono l’anno precedente, quando il conflitto non era ancora scoppiato, al contrario della settimana di Venezia, giorni in cui i suoi sviluppi erano evidenti.
L STORIES L BIENNALE L
Il report fotografa un mercato dell’arte intrecciato allo scenario generale, ma non direttamente correlato. L’inaugurazione della Biennale è stata affollatissima e ricca di eventi. Quest’anno la pressione e la partecipazione sembravano addirittura maggiori rispetto al passato, quasi una manifestazione plastica della percezione del superamento della pandemia; rientrati a casa, molti sono i positivi, il virus, qui e soprattutto in Oriente, morde ancora, ma si tende a scotomizzare. La stessa fiducia – a dire il vero un po’ smorzata durante l’evento di lancio online – emerge dai dati del 2021, che descrivono un mercato dell’arte in gran forma: dopo la più grande recessione degli ultimi dieci anni registrata nel 2020, il mercato globale dell’arte recupera il 29% sul 2020, attestandosi su valori che superano quelli del 2019, con un totale di vendite aggregate di 65.1 miliardi di dollari. È forse l’effetto di un rimbalzo, ma anche la stessa divulgazione del dato rassicura gli investitori.
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Mentre il mondo attraversa crisi geopolitiche globali e i venti di guerra soffiano impetuosi, il mercato dell’arte mostra una ripresa post pandemia e una capacità di adattamento sorprendenti, stando ai dati del report annuale pubblicato da Art Basel e UBS. Di rientro dall’inaugurazione della 59. Esposizione Internazionale di Venezia, abbiamo chiesto ad Antonella Crippa, coordinatrice Art Advisory & Fair Value della direzione Arte Cultura e Beni storici di Intesa Sanpaolo e già firma di Artribune, un commento sullo stato di salute del mercato, alla luce di ciò che è emerso in Laguna e dal report.
Quanto contano nel mercato e per il collezionismo le diverse geografie che abbiamo visto protagoniste a Venezia? Nel Padiglione centrale e all’Arsenale, due aree sono più visibili di altre. Da una
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Non si può non notare in questa Biennale la predominanza delle artiste, quella metà dell’arte a lungo e storicamente espunta dal canone dominante dell’arte. Anche tra i padiglioni nazionali sono tantissime le artiste donne, spesso di origine africana o della diaspora, nel pieno dei loro anni ma anche più giovani. Due di loro, Simone Leigh e Sonia Boyce, campionesse del Padiglione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, hanno vinto rispettivamente il Leone d’Oro per l’artista della mostra internazionale e per il padiglione nazionale. Tra le altre, risultano molto convincenti per i collezionisti Jadè Fadojutimi, Jana Euler, Christina Quarles, Kudzanai-Violet Hwami e Andra Ursuta, e le veterane Miriam Cahn,
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© Arts Economics (2022)
$475
2019 2020 2021
Germania
Italia
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Hong Kong
Taiwan
Deceduti
Valore delle Vendite
$163
Singapore
Share delle vendite Post-War e Contemporary di artisti viventi e deceduti nel 2021 Viventi
$50 $74
$68 $102 $141
$165 $153 $151
$280 $96 $142
$138
$204 $47 $72
$56 $108
$107 $132
$191 $63 $88
Francia
$ X 1.000
$304
$357
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$367 $139
UK
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© Arts Economics (2022)
Numero di lotti venduti
33% 41% 59%
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USA
UK
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Le vendite del mercato dell'arte tra 2009 e 2021
Francia
Totale
© Arts Economics (2022)
Valore (miliardi) 36,5
38,1
36,1
39,8
39,1
40,5 36,7
2009
2010
2011
2013
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2015
Share del mercato delle aste per valore 2000-2021 Post-War e Contemporary
30%
26%
Modern
29%
2016
2017
2018
2019
2020
$65,1
20
2021
© Arts Economics (2022) con dati da Artory
Altro
24%
23%
25%
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22%
29%
25%
52% 29%
30 $50,3
$64,4
$67,7
$63,7
$68,2
$63,3
2012
40
31,4
31,0
$40
38,8
$56,9
35,5
$56,7
$60
35,1
36,8
$63,8
$80
Volume (milioni)
$64,6
Quali sono invece le traiettorie artistiche e culturali? Il movimento dominante è il Surrealismo, con tutte le ricerche variamente tangenti, intrecciate o derivate. Le capsule sono ricchissime di artiste tutte da riscoprire, i cui prezzi consentono ancora buoni investimenti. A Leonora Carrington si deve il titolo e il senso complessivo della mostra. Cecilia Vicuña ha vinto, con Katharina Fritsch, il Leone d’Oro alla carriera. Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Peggy Guggenheim Collection, con la sua superba selezione di capolavori, conferma la forza e l’influenza di questi artisti sulle nuove generazioni. I primi di marzo, L’empire des lumières di René Magritte, da Sotheby’s, ha stabilito il nuovo record, poco meno di 60 milioni di sterline. Tutti elementi, e se ne potrebbero elencare altri, che vanno nella medesima direzione.
USA
$57
Anche tra i padiglioni nazionali sono tantissime le artiste donne, spesso di origine africana o della diaspora.
Valore medio di spesa dei collezionisti High Net Worth 2019–2021
$66
parte c’è l’eurocentrismo delle capsule, le mini-mostre che rappresentano le origini della narrazione, mentre l’attualità sembra essere dominata dalle Americhe, nord, centro e sud; anche nella stessa selezione degli artisti non occidentali lo sguardo sembra provenire dall’Atlantico. In parte influisce la biografia di Cecilia Alemani, italiana che vive negli Stati Uniti. In ogni modo, nel 2021 gli Stati Uniti rappresentano il mercato dell’arte più forte, quello che ha mostrato maggiore resilienza, con il suo 43% di valore venduto, seguito da più del 29% se aggreghiamo quello di Gran Bretagna. Francia, Germania, Svizzera e Spagna, e parte del residuo 8%.
$39,5
L STORIES L BIENNALE L
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32%
28%
23%
19%
26%
23%
22%
36%
36%
31% 45% 34%
35%
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49%
52%
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55%
55%
2014
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2018
2019
2020
2021
17% 2000
2006
2008
2010
2012
Share del mercato globale nel 2021
8%
UK
Cina
7%
6%
NFT venduti nel 2021
29%
Non ha venduto ed è incerto
KASSEL
dal 18 giugno al 25 settembre DOCUMENTA 15 a cura di ruangrupa documenta-fifteen.de
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BERLINO
dall’11 giugno al 18 settembre 12. BERLIN BIENNALE a cura di Kader Attia 12.berlinbiennale.de
17%
20%
© Arts Economics (2022)
43%
VENEZIA
Non ha venduto 46% e non prevede di vendere in futuro
Mrinalini Mukherjee e Paula Rego. Le artiste sono sempre più presenti anche nei cataloghi delle evening sale, dove più in generale si assiste a una crescita della quota del venduto di artisti viventi rispetto a quelli deceduti: nel 2021, nel segmento Post War and Contemporary Art, si è arrivati al 50% di vendite di opere di artisti viventi, livello mai toccato prima. A Venezia c’è poco spazio per gli NFT, mentre dal report emergono vendite in espansione: siamo passati dai 4.6 milioni di dollari del 2019 agli oltre 11 miliardi del 2021, on top rispetto al venduto totale. In effetti a Venezia non c’era quasi traccia di NFT, poca anche l’arte video e digitale. Al contrario, nel 2021 sono stati onnipresenti sulla stampa e sui social. E nella comunicazione delle case d’asta, dove però si vendono con gran profitto anche collectibles non propriamente artistici come gioielli, orologi, borse, vini e auto d’epoca. Secondo il report, solo il 6% dei dealer intervistati ha venduto NFT (che peraltro sembra rimangano nella stessa proprietà solo un mese). Appare
ISTANBUL
fino al 27 novembre 59. BIENNALE DI VENEZIA a cura di Cecilia Alemani labiennale.org
LIONE
dal 14 settembre al 31 dicembre 16. BIENNALE DE LYON a cura di Sam Bardaouil & Till Fellrath labiennaledelyon.com
dal 17 settembre al 20 novembre 17. ISTANBUL BIENNIAL a cura di Ute Meta Bauer, Amara Kanwar & David Teh bienal.iksv.org
PRISHTINA
dal 22 luglio al 30 ottobre MANIFESTA 14 a cura di Catherine Nichols manifesta14.org
A riportare il volume degli scambi ai livelli pre pandemia è stato soprattutto il numero in crescita e l’aumentata ricchezza degli acquirenti. quindi un mercato tangente ma distinto, altamente speculativo e disintermediato, molto distante da quello presidiato dalle gallerie che sostengono gli artisti presenti a Venezia. Dicevamo in apertura di una capacità di adattamento sorprendente del comparto dell’arte. O, almeno, di un suo segmento. Che l’estrema polarizzazione sia una delle
caratteristiche del mercato è noto da tempo. La pandemia non ha contribuito all’equità nelle gerarchie del mercato: le posizioni apicali sono sempre più distanti. E se tutto è in rimbalzo, a crescere in una proporzione senza precedenti è l’arte, che vale oltre i 10 milioni e a cubare di più è ancora il segmento del contemporaneo. A riportare il volume degli scambi ai livelli pre pandemia, è detto chiaramente nel report, è stato soprattutto il numero in crescita e l’aumentata ricchezza degli acquirenti – collezionisti e investitori – che sono passati dallo spendere in media 72mila dollari nel 2019 a 126mila nel 2020 e a 274mila nel 2021. Di conseguenza sono cresciuti i prezzi di alcune, specifiche tipologie di opere che hanno assorbito la perdita di interesse e quindi di valore degli altri beni d’arte. Il 55% del valore del mercato deriva da transazioni di beni dell’arte Post-War and Contemporary, cui si aggiunge il 22% di opere d’arte moderna. Il latte dei sogni nutre in egual misura chi ha entrambe le passioni.
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USA
Non ha venduto, ma prevede di farlo nei prossimi 1-2 anni
1% 2% 2%
Spagna Germania Svizzera Francia
19%
LE BIENNALI (E QUINQUENNALI) EUROPEE DA VEDERE NEI PROSSIMI MESI
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Altro
Le vendite di NFT realizzate dalle gallerie
artbasel.com/about/initiatives/the-art-market
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LA BIENNALE DEL RISCATTO SANTA NASTRO L Tra i meriti della Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani c’è quello di fare imbufalire una gran quantità di uomini di tutte le generazioni. Lo dimostrano la messe di post, commenti, appunti che la guerrilla social ha scatenato sin dai giorni della preview. Il latte dei sogni, ha, com'è ormai noto, operato una sorta di riscrittura della storia dell’arte, emancipando e riscattando quei punti di vista e quelle storie finora rimasti esclusi in un panorama governato da una visione patriarcale e occidentalizzante, lasciando disorientati la maggior parte di coloro che da quella visione, anche inconsapevolmente, si sono sentiti rassicurati (perché si è sempre fatto così), coccolati o supportati. Molti accusano Alemani di aver strizzato troppo l’occhio al politically correct, soprattutto all’immaginario che proviene dagli Stati Uniti, Paese che peraltro può per certi versi vantare di aver conquistato il Leone d’Oro conferito a Simone Leigh e nel quale ha costruito la propria vita la curatrice. Ma è evidente che, se ha creato e continua a creare tutte queste discussioni, la mostra troppo comoda non è. Tuttavia, senza entrare in quello stile di argomentazione da guerra tra bande che caratterizza i dibattiti odierni, è possibile comunque operare qualche riflessione critica.
UN’ALTRA STORIA DELL’ARTE
Molti non hanno potuto fare a meno di apprezzare lo sforzo enciclopedico che caratterizza il progetto espositivo, dando voce a una storia dell’arte alternativa. I cinque focus in mostra, su tutti La culla della strega, disseminati tra le due sedi e incorniciati dal bell’allestimento di Formafantasma, hanno offerto ampi spunti di studio e ricerca, portando alla luce nomi e vite a volte del tutto sconosciuti e offrendo una traccia, una linea, avrebbe detto Longhi, a molte ricerche successive. Ai nomi più noti di Dorothea Tanning e Leonora Carrington abbiamo potuto accostare quelli di Benedetta, Ida Kar, Alice Rahon, per citarne alcuni, e imparare qualcosa di più su di loro. Dall’altra parte, però, la cronologia dell’esposizione mostra uno scenario composto da oltre sessanta artisti nati tra gli Anni Settanta e Ottanta, una decina nati negli Anni Novanta, una ventina nati tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, oltre ottanta artisti deceduti e la restante quarantina nati tra gli Anni Trenta e Quaranta. Una scelta che denota una certa introversione verso il passato, con una buona metà di partecipazione che riscatta artiste che non ci sono più o che presenta opere di maestre ormai storicizzate. È una scelta, in larga parte condivisibile, colta ed encomiabile, che però destruttura quella che è (o che a questo punto era) la funzione della Biennale, una rassegna che mostra il
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in basso: 59. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2022. Sandra Mujinga, Mókó | Libwá | Zómi | Nkáma, 2019. Photo © Irene Fanizza a destra: 59. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2022. Simone Leigh, Brick House, 2019. Photo © Irene Fanizza
meglio dell’arte contemporanea degli ultimi due anni (lasciando il dubbio che forse tra molti anni bisognerà recuperare gli artisti rimasti esclusi oggi).
VENEZIA OLTRE LA BIENNALE
Ma c’è da dire che anche le mostre in città non hanno guardato alle nuove generazioni. Fatta eccezione per alcuni importanti progetti come Penumbra, promossa da In Between Art Film, o la mostra di Francesca Leone, promossa da Nomas Foundation, o ancora Sterling Ruby sulla facciata di Palazzo Diedo, le istituzioni hanno scelto di guardare ai grandi maestri: Anish Kapoor, Anselm Kiefer, Bruce Nauman, Louise Nevelson, Marlene Dumas, per citarne alcuni, con operazioni per lo più muscolari – anche se con mostre in larga parte bellissime –, che a un certo punto hanno fatto venir voglia di cercare respiro tra i progetti degli artisti più giovani e mid career: la bella personale organizzata da Case Chiuse, il progetto di Paola Clerico, dedicata a Tomaso De Luca; Barahonda da BarDaDino, che offriva anche l’occasione di visitare studi di artisti giovani e giovanissimi; De Rerum Natura al Circolo
della Marina, con opere di Lucia Veronesi, Francesco Simeti, Giovanni Ozzola e Matilde Sambo, tra gli altri. C’è un po’ la sensazione generale di un sistema dell’arte che, nel guardare a valori consolidati, si sta cristallizzando in un presente perpetuo e attendista. E non è solo una questione di mercato. Nel libro Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea (2017), Ludovico Pratesi opera una interessante ricostruzione della Biennale e racconta, a proposito dell’edizione del 1964, come Leo Castelli e Ileana Sonnabend sostenessero Robert Rauschenberg e Jasper Johns, allora poco più che trentenni. Un’immagine che fa riflettere rispetto all’attuale attitudine verso il futuro. Quel futuro che, ad esempio, si intravedeva in maniera chiara nel mirabolante video di P. Staff che apre e chiude idealmente la mostra ai Giardini alla Biennale. Un video che racconta l’arte del domani, una installazione, un sound che sembrano veramente venire dall’altrove, da Venere, ora, adesso, tra molti anni.
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in alto: 59. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2022. Katharina Fritsch, Elefant / Elephant, 1987. Photo © Irene Fanizza
labiennale.org
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TOSATTI FARÀ SCUOLA LUDOVICO PRATESI L Chissà cosa penserebbe Adriano Olivetti se visitasse l’opera di Gian Maria Tosatti (Roma, 1980), Storia della notte e destino delle comete, che ha trasformato il Padiglione Italia in un viaggio negli ultimi decenni di storia del nostro Paese, segnato dal fallimento della civiltà industriale. Eppure Olivetti aveva creduto in un progresso non solo economico ma soprattutto culturale. Erano anni diversi: il benessere diffuso aveva creato un clima di euforia intorno a un’idea positiva dell’industria, che aveva trovato un nucleo teorico nella rivista Civiltà delle macchine, fondata da Leonardo Sinisgalli nel 1953 e sostenuta da Finmeccanica (ora ripresa dalla Fondazione Leonardo). Tosatti ha interpretato i segni tangibili, fisici e visivi, del fallimento e li ha trasformati in un paesaggio simbolico utilizzando il proprio linguaggio, tra installazione e messa in scena. Dopo aver eliminato l’ingresso monumentale del padiglione, lo ha sostituito con un ambiente scarno e povero: un casottino dove gli operai timbravano il cartellino. Al loro posto ora ci sono i visitatori, che uno per volta entrano in un ambiente spettrale illuminato da una grande vetrata, con montacarichi e macchinari inutilizzati, come carcasse di cadaveri metallici. Il secondo stanzone è occupato da alcuni tubi di aspiratori che pendono dal soffitto, mentre da una scaletta laterale si accede a un appartamento che poteva essere abitato dal custode, caratterizzato da un decoro piccolo borghese, tra pavimenti in mattonelle, lampadari di vetro, un vecchio telefono e carte da parati fiorate, dove si staglia l’impronta lasciata da un crocefisso appeso alla parete di una camera nella quale sono rimaste solo le reti del letto. Da una vetrata l’occhio cade sulla visione dall’alto di un ulteriore ambiente, occupato da decine di macchine da cucire inutilizzate e illuminate da una luce bassa: tra rocchetti di filo e postazioni da lavoro si conclude Storia della notte.
Un corridoio conduce alla seconda parte dell’opera, Destino delle comete. Qui la frase finale dell’articolo Il vuoto del potere in Italia, pubblicato da Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, ha suggerito a Tosatti il finale, poetico e catartico: un molo immerso nell’oscurità, dal quale si scorge emergere dalle onde marine una serie di luci fioche in lontananza. Sono le lucciole delle quali il poeta lamenta la scomparsa o flebili segnali di speranza dopo l’apocalisse della civiltà occidentale?
Pier Paolo Pasolini ha suggerito a Tosatti il finale, poetico e catartico. 59. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2022. Padiglione Italia. Gian Maria Tosatti, Storia della notte e Destino delle comete. Photo © Irene Fanizza
Non possiamo negare la capacità di Tosatti di affrontare temi profondi e significativi con un pathos e una capacità epica non comuni tra gli artisti del nostro Paese. L’opera è la visione di un archeologo del futuro, che ricompone i frammenti del passato per accostarli alle schegge del presente, al fine di immaginare un orizzonte dove l’assenza di consapevolezza non è più possibile, e l’artista diventa una figura profetica che Tosatti ha paragonato a Tiresia.
CONTRO
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Gli spettatori vengono agiti, quasi "sopraffatti". Sessanta-Settanta, invece sono macchine che abbiamo preso da fabbriche fallite durante la pandemia. Questo mi fa pensare che la nostra idea del lavoro sia ferma a
decenni fa”. Ma è la prospettiva, l’ottica interpretativa in cui sono esposti che appartiene al passato: indizi in questo senso sono il timbracartellini e la radiolina del primo ambiente, così come Senza fine cantata da Ornella Vanoni e Gino Paoli, l’appartamento in cima al secondo ambiente… Il rapporto con il tempo ci conduce a quello, più complesso, con la realtà. Mi sembrava che la forza delle opere di Tosatti consistesse nel riattivare la vita sopita dei luoghi originari. Ma
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CHRISTIAN CALIANDRO L Il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti è attraversato da una serie di criticità che hanno a che fare con il rapporto tra opera e: tempo, realtà, spettatore. Il primo atto è caratterizzato da una fascinazione per il passato (gli Anni Sessanta, e soprattutto Settanta, italiani) evidente in gran parte dei suoi lavori precedenti. È quindi sorprendente che Tosatti abbia affermato: “Chi l’ha visitato ha creduto di assistere a degli scenari industriali degli Anni
quando il curatore Eugenio Viola gli chiede cosa abbia significato per lui questo “capovolgimento rispetto alla tua pratica abituale”, l’autore risponde: “Non è stato un vero sconvolgimento. Quest’opera non nasce da un capannone vuoto. Nasce da altri spazi della realtà, che però non sono a Venezia”. A me pare che il capovolgimento/sconvolgimento ci sia eccome, e consiste nel fatto che, se si trasportano dei macchinari in disuso all’interno di un guscio vuoto, l’effetto è quello della finzione di un set. Arriviamo dunque al rapporto con lo spettatore. L’idea è quella di trasformarlo nel vero performer, che compie e vive la sua esperienza all’interno dell’ambiente. Il che presuppone la sua attivazione, la trasformazione in qualcosa o qualcun altro. Ma, sin dall’ingresso, gli operatori ci avvisano di osservare un rigoroso silenzio e più avanti ci indicano il percorso da seguire. Il secondo atto, che costituisce l’ambiente più valido del progetto, rimanda a Pasolini e alla scomparsa delle lucciole. Quelle che si vedono non sono però lucciole, ma semplici lampadine. L’epifania non è una vera epifania, ma solo la sua simulazione. Ecco, forse, qual è il problema che racchiude tutti gli altri: l’esperienza è indotta. È quella che l’autore ha predisposto e allestito; è quella articolata dai contenuti e dai riferimenti sparsi in testi e comunicati e conferenze stampa (Rea, Zanzotto, Ortese, Pasolini, Saviano) che però qui, in questi ambienti ricostruiti, letteralmente non sembrano esserci. I “contenuti” sono proiettati verso l’interno, cioè nell’opera; la storia e la sua interpretazione sono uniche, e provengono anche queste da fuori; gli spettatori vengono invece agiti, quasi “sopraffatti” da ciò che stanno materialmente attraversando e dai suggerimenti immateriali di cui sono oggetto. Una volta fuori, ci si rende conto che siamo rimasti spettatori o, come avrebbe detto Carla Lonzi, l’opera – e il suo autore – ci hanno lasciati spettatori.
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UN PADIGLIONE NOSTALGICO
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Haydn Explosiv. Castello Esterházy. Photo © Andreas Hafenscher
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AUSTRIA: DOVE L’ARTE VIVE NEI PALAZZI STORICI
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Ormai lo avrete capito: ci piace uscire spesso e volentieri dalla comfort zone. Nell’ultima dozzina di anni vi abbiamo accompagnato a scoprire gli angoli più nascosti delle metropoli o a solcare territori decisamente fuori dalle rotte turistiche. Ma dev’essere sempre e per forza così? Vi invitiamo a percorrere una Vienna che miscela tradizione e innovazione, con tanto di gita fuori porta in un palazzo storico nel Burgenland dove Joseph Haydn era di casa.
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VIENNA
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MUSEUM JUDENPLATZ
BANK AUSTRIA KUNSTFORUM WIEN
Chiesa di San Pietro
Rathauspark
Cattedrale di Santo Stefano
HAWELKA
MAK
Volksgarten
MOZARTHAUS BRÄUNERHOF
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NATURHISTORISCHES MUSEUM
GALERIE KRINZINGER Hofburg ALBERTINA
Piazza Maria-Teresa
HAUS DER MUSIK
MUSEUMSQUARTIER PHILEAS HEIDI-HORTEN-COLLECTION
KUNSTHISTORISCHES MUSEUM Schillerpark
CAFÉ MUSEUM
ACCADEMIA DI BELLE ARTI
250 m
O
gni città può essere attraversata in mille modi diversi. Perché ogni città è per definizione multilayer, e i livelli si intersecano in infinite combinazioni. Il discorso vale anche per Vienna. E per una volta proviamo a non farci guidare prevalentemente dall’arte e dall’architettura contemporanee. Intanto però, per non perdere l’abitudine in maniera troppo brusca, vi consigliamo di iniziare la visita della capitale austriaca con un paio di novità contemporanee. Phileas è “un’organizzazione filantropica che cerca di rafforzare la voce degli artisti austriaci o che vivono in Austria nel panorama internazionale attraverso programmi di scambio attivi e a lungo termine”. Fondata nel 2016, a maggio ha aperto uno spazio espositivo al pianterreno di un edificio storico, a pochi passi dall’Accademia di Belle Arti, se si attraversa lo Schillerpark, e a qualche passo in più,
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Stadtpark
Resselpark
costeggiando il Burggarten, dal mitico museo Albertina – che, guarda caso, è anch’esso ospitato in un palazzo d’epoca asburgica. Seguendo questa seconda opzione, si sbatte praticamente contro la Heidi-Horten-Collection, la cui apertura è ancora più recente. Il 3 giugno ha infatti inaugurato con la mostra Open (non esattamente un guizzo di originalità) e siamo certi che in brevissimo tempo diventerà un pivot essenziale del comparto. L’area in cui ci stiamo muovendo è, per intenderci, quella adiacente al MuseumsQuartier, dove anche il più incallito frequentatore di sale museali troverà di che sfinirsi, fra Kunsthistorisches, Leopold, Naturhistorisches e via dicendo. Piegando invece verso est, ecco che naturalmente si delinea un percorso punteggiato di saliscendi culturali: si inizia con la Casa della Musica, si passa dalla sede storica della Galleria Krinzinger, si transita dalla Casa di
Mozart e si giunge infine al MAK, il Museo di Arti Applicate che ha una nuova direttrice con le idee molto chiare, come potete leggere nell’intervista nelle pagine seguenti. Sia chiaro, come dicevamo poc’anzi, gli itinerari alternativi sono un’infinità, perché la città pullula di occasioni culturali, che si segua il profumo del caffè, come suggerisce qui a fianco il co-curatore della mostra in corso al Museo Ebraico, oppure le sirene del contemporaneo, che inevitabilmente condurranno a sud verso il Thyssen-Bornemisza Art Contemporary (o meglio, conducevano, perché ormai il TBA21 di Francesca Thyssen-Bornemisza è proiettato verso altri lidi, fra Cordova, Madrid, Venezia e Lopud) oppure a nord verso il Bank Austria Kunstforum Wien. Ma non vi avevamo promesso di uscire dalla nostra comfort zone, e quindi di non subissarvi di tappe stracittadine che portano a quel disagio noto come FOMO, acronimo di
DARE FORMA AL PROPRIO TEMPO
SCHÖNBRUNN
Fischamend Mödling
Baden bei Wien Ebreichsdorf
CAVA DI SANKT MARGARETHEN Wiener Neustadt Siegendorf FORTEZZA FORCHTENSTEIN UNGHERIA
CASTELLO LACKENBACH 10 km
Fear Of Missing Out in salsa turistica? Allora l’invito è seguire il fil rouge dei palazzi storici dove sono ospitate la maggior parte delle istituzioni nominate finora, per godervi il top della storicità non solo architettonica: il Castello di Schönbrunn, magnifica architettura barocca sede della casa imperiale d'Asburgo dal 1730 al 1918, immersa in un altrettanto delizioso parco a sud-ovest della città. Ma se volete davvero strafare, la città potete addirittura abbandonarla in direzione Eisenstadt. Vale assolutamente la pena perché, come potete leggere in un’altra delle interviste pubblicate nelle pagine seguenti, ad attendervi c’è un mix di storia, vino e musica che non vi farà rimpiangere la metropoli. Almeno per un weekend.
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CASTELLO ESTERHÁZY
Vienna potrebbe apparire irriconoscibile a chi non la frequenta da qualche anno. Colta da insospettata leggerezza, la capitale austriaca ha puntato al mutamento di sé ridisegnando il proprio skyline, ovvero concedendo licenze edilizie per elevare di alcuni piani le costruzioni già esistenti, con soluzioni tecniche evolute e con l’uso di materiali tutt’altro che tradizionali. Non da oggi la città cova, nella sfera della creatività, la passione per il “nuovo”, per lo sperimentale, nell’architettura come nel design. È poi sorprendente scoprire, con la graduale uscita dalla pandemia, uno sciame di idee nuove che ha riconfigurato interni ambientali d’ogni genere, negozi, supermercati, ristoranti. Non ultimi i caffè, qui una categoria intramontabile e sempre in evoluzione, pur facendo salvi quelli tradizionali come Hawelka o il Café Museum, tipici luoghi viennesi dal fascino mitteleuropeo, sale di lettura un tempo fumose, frequentate da poeti, scrittori, artisti o gente dall’aria snob. Il noto romanziere e drammaturgo Thomas Bernhard, uomo in perenne precarietà di salute, farà dire al suo alter ego, ne Il nipote di Wittgenstein: “La malattia della frequentazione dei caffè è il più incurabile di tutti i miei malanni”. Uno dei suoi “rifugi” preferiti è stato il Bräunerhof, in Stallburggasse. Ed è proprio a un tavolino di questo café che abbiamo voluto incontrare il co-curatore di una mostra che documenta la trama del successo a Vienna dei caffè-bar di stile italiano e la vita del suo ideatore. Volgendoci alle arti visive, la nuova era – per così dire – vede, accanto ai grandi musei, il debutto di due istituzioni di notevole spessore, entrambe private, con solidissime basi finanziarie, ben collocate nel distretto più centrale di Vienna: la fondazione filantropica Phileas e la Heidi-Horten-Collection, di cui si dice che sia “la più ricca collezione privata al mondo di arte moderna”. Michael Freund è un giornalista di lungo corso tra le emissioni radiofoniche della ORF e il quotidiano Der Standard. È lui che, insieme alla curatrice Sabine Apostolo, ha lavorato alla mostra di cui abbiamo accennato sopra. “Nel 1951, nella centralissima Kohlmarkt, aprì il Café Arabia, che a tutti gli effetti era a imitazione della cultura dell’espresso e del bar all’italiana, con una macchina da caffè Gaggia. Un concept studiato dall’imprenditore Alfred Weiss, con un allestimento appropriato all’idea, una sorta di opera d’arte totale realizzata dall’architetto Oswald Haerdtl. Fu un evento che a Vienna fece grande clamore, determinando poi un trend di successo. In realtà le radici della storia hanno origine nel periodo tra le due guerre, quando Alfred Weiss, di origine ebraica, aveva avviato un’impresa d’importazione di caffè, già chiamata Arabia”. La mostra, allestita fino al 23 ottobre al Museo Ebraico, racconta l’intera storia: “Nel fatidico 1938, anno dell’Anschluss, i nazisti gliela requisirono, e lui con la famiglia dovette emigrare, prima in Belgio, poi in diversi campi d’internamento in Francia, e infine in Italia. Più precisamente a Roma, città in cui, nonostante le leggi razziali, i coniugi Weiss ebbero una vita relativamente tranquilla, assimilando anche abitudini italiane. Dopo la guerra tornarono a Vienna, dove fu restituita loro la proprietà dell’impresa. Da lì, per l’appunto, per i Weiss cominciò un’esistenza con nuove prospettive”.
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FRANCO VEREMONDI
MARCO ENRICO GIACOMELLI
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LA FAMIGLIA ESTERHAZY TRA MUSICA, ARTE E VINO Il Castello Esterházy a Eisenstadt è uno dei più bei palazzi barocchi dell’Austria e offre un affascinante affresco della vita sfarzosa vissuta un tempo alla corte dei principi Esterházy. È ancora oggi il fulcro della scena culturale del Burgenland insieme alla Fortezza di Forchtenstein, il Castello di Lackenbach e la grandiosa Cava di Sankt Margarethen. Florian T. Bayer, responsabile delle collezioni della Fondazione Esterházy, e Daniel Serafin, direttore artistico della stagione operistica nella Cava, ci hanno raccontato passato e presente di questi luoghi. Il Castello Esterházy è ancora oggi il simbolo di Eisenstadt, città a una sessantina di chilometri da Vienna. Quali sono il passato e il presente di questo sito culturale? Un tempo luogo di nascita e residenza di importanti magnati, il Castello Esterházy è situato in posizione centrale e prominente a Eisenstadt, la capitale del Burgenland. È considerato uno dei più bei castelli barocchi dell’Austria. Oggi è un museo, un luogo di cultura e di eventi. Le sue sale ospitano le collezioni private della famiglia principesca. Musica e vino si sono fusi nel corso dei secoli, anche grazie alla significativa presenza di Franz Joseph Haydn, che qui lavorò come direttore d’orchestra e compositore di corte. Già nel 1758 Esterházy produsse i primi vini monovitigno del Burgenland e portò il Pinot Nero sulle colline di Leitha. I dipendenti come Haydn avevano diritto a essere pagati con determinate quantità di vino. Uno dei più grandi musei del vino dell’Austria si trova nelle cantine del Castello, risalenti a oltre trecento anni fa. Si possono ammirare oltre settecento oggetti unici legati al vino e alla viticoltura, come il più antico torchio ad albero del Burgenland. Attualmente è in corso la mostra sulla principessa Melinda Esterházy. Possiamo conoscere qualche aneddoto su questa donna eccezionale? Melinda Esterházy era una persona dotata di molto talento. La sua carriera di ballerina classica è stata rapida, tanto da essere nominata Prima Ballerina dell’Opera di Budapest. Nel 1986 l’ultimo principe, Paul, ha designato la moglie Melinda come unica erede nel suo testamento. Nel 1994 Melinda Esterházy ha istituito tre fondazioni indissolubili. In questo modo sono stati creati i presupposti per la rapida crescita delle imprese commerciali, che oggi sono in gran parte responsabili del successo dell’azienda.
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Photo © Lennard Lindner
La mostra illustra le tappe della vita di una donna straordinaria: prima ballerina, la fuga e il nuovo inizio. Oltre al Castello Esterházy, si possono visitare anche la Fortezza Forchtenstein e il Castello Lackenbach. L’origine della Fortezza risale all’inizio del XIII secolo. Nel 1626 entrò in possesso della famiglia Esterházy, che le diede l’aspetto attuale. Nella Fortezza Forchtenstein ci sono da scoprire oggetti unici del passato. Le opere d’arte sono nascoste dietro le spesse mura del complesso storico, numerosi ritratti illustrano l’impressionante storia della famiglia Esterházy e sono esposti quattrocento anni di storia delle armi. Nella Camera del Tesoro si possono ammirare preziose rarità. Dalla prima metà del XVII secolo, la famiglia Esterházy abitò il Castello Lackenbach. Il complesso rinascimentale, situato in una posizione idilliaca nel cuore del Burgenland, è ora aperto ai visitatori. Il Museo invita i visitatori a stupirsi, a festeggiare e a indugiare con la mostra La caccia di corte dei principi Esterházy, con le ampie sale per eventi e l’incantevole parco rinascimentale.
Un altro luogo incredibile è la Cava di Sankt Margarethen, dove si tengono regolarmente grandi concerti. Quali sono i prossimi appuntamenti? L’Opera nella Cava di Sankt Margarethen è diventata negli anni un centro di attrazione per le star internazionali della lirica e per i grandi della musica. Nella stagione 2022 è in programma il Nabucco, capolavoro senza tempo di Giuseppe Verdi. La sua magnifica musica, l’appassionante storia biblica, l’ensemble di prim’ordine e il celebre coro Va, pensiero rendono la produzione operistica di quest’anno un’esperienza unica, su uno dei palcoscenici naturali più grandi d’Europa. La prima è il 13 luglio. Dall’11 al 25 settembre, invece, il direttore artistico dell’Herbstgold Festival, Julian Rachlin, porterà a Eisenstadt i grandi dell’arte e della cultura: tra questi, John Malkovich con The Music Critic e il tenore Juan Diego Flórez. Il motto del festival di quest’anno è Passione. esterhazy.at
GIORGIA LOSIO
Da settembre 2021 il Museo delle Arti Applicate ha una nuova, carismatica direttrice, Lilli Hollein, che avevamo già avuto il piacere di incontrare durante i tanti eventi che aveva organizzato alla direzione della Design Week di Vienna. In questa intervista ci ha tratteggiato il suo progetto e i prossimi. In centocinquant’anni, il MAK non aveva mai avuto una donna al timone. Cosa pensa di questa prima assoluta? È davvero notevole che, per la prima volta in oltre un secolo e mezzo, la direzione del MAK sia stata affidata a una donna. La mia nomina è un buon segnale. Tuttavia, se si guarda ai musei federali austriaci, la presenza femminile a livello di gestione è equilibrata già da tempo.
Apertura, mediazione, diversità: sono alcuni dei termini che rappresentano la nuova visione del museo. Come si posizionerà il marchio MAK in futuro? Il MAK ha una collezione multidisciplinare che rappresenta quasi tutto ciò che ha un posto nella vita quotidiana di molte persone. Questo lo rende un luogo assai democratico. Da qui vorrei sviluppare un’identità forte e inconfondibile, dove la multidisciplinarietà si apre alla diversità sociale. Negli ultimi mesi sono stati compiuti diversi passi in avanti: fra l’altro, abbiamo sviluppato una nuova corporate identity che offre nuove possibilità, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione, sia nella sfera analogica che in quella digitale. Uno dei nostri obiettivi è quello di diventare un attore sociale attivo come museo, con il nostro programma e la nostra attività di divulgazione. Quali sono i progetti espositivi in arrivo? Abbiamo appena inaugurato una nuova serie nella sede del Geymüllerschlössel, Contemporary Fashion Showcase. Per me è fondamentale che il MAK sia un luogo importante per la moda. Con questo programma
Photo © Katharina Gossow/MAK (dettaglio)
offriamo un forum non solo per le mostre, ma soprattutto per i talk e gli incontri. Sono felice che siamo riusciti ad aggiudicarci la rinomata designer 3D Julia Körner, e per le successive mostre anche Susanne Bisovsky e Jojo Gronostay. E oltre a questo nuovo focus sulla moda? Ci tenevo particolarmente a presentare Das Fest. Tra rappresentazione e rivolta come tema della prima grande mostra della mia direzione. È molto di più che un’opulenta cultura della tavola o dei costumi. La mostra allarga lo sguardo sulla festa come un ambiente disegnato in cui rifugiarsi tramite il costume e che annulla – almeno temporaneamente – le differenze sociali. La festa non è solo multidisciplinare dal punto di vista stilistico, ma anche profondamente politica. A livello internazionale stiamo preparando una mostra per il 2024 insieme al DAM di Francoforte, rappresentiamo l’Austria alla Triennale di Milano quest’estate e la Biennale di Shenzhen riprende un progetto del MAK. Sono in programma ulteriori collaborazioni nell’ambito degli scambi scientifici.
Uno dei suoi obiettivi dichiarati è quello di creare un legame più forte, più emotivo con il pubblico. Ha già lavorato in questo senso durante gli anni di brillante direzione della Design Week, creando sinergie e impulsi creativi in vari distretti di Vienna. Come intende operare con i pubblici del museo? Stiamo promuovendo sempre di più la diversità nel programma, con una maggiore mediazione e una reale accessibilità, che creerà più vicinanza al pubblico. Abbiamo riassegnato la direzione della mediazione e riadattato al pubblico l’imponente ex MAK Direktion. Uno dei miei obiettivi è quello di espandere e aprire il museo allo spazio urbano. Ad esempio, stiamo progettando di utilizzare lo Stubenbrücke in collaborazione con KÖR – Kunst im öffentlichen Raum e di rendere accessibile al pubblico il giardino del museo. Il MAK dovrebbe essere un luogo di ispirazione per molte persone, un luogo da visitare spesso.
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Nel programma di quest’anno, la MAK Galerie presenta mostre personali di donne di spicco. Continuerà a dare risalto alla produzione femminile in ambito creativo? Mi sta a cuore offrire alle posizioni femminili, soprattutto nell’ambito delle arti applicate, un palcoscenico maggiore o diverso rispetto al passato, sia per quanto riguarda il continuo riesame della collezione del MAK, sia per quel che concerne l’offerta nel contemporaneo. L’attuale focus di MAK Galerie – con posizioni femminili e non binarie, tra cui Anna Jermolaewa, Birke Gorm e l’avatar LaTurbo Avedon – crea le basi per nuove narrazioni.
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IL MAK HA UNA NUOVA DIRETTRICE
mak.at GIORGIA LOSIO
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DOVE LA MUSICA È DI CASA
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Photo © Hanna Pribitzer
Vienna è conosciuta come la capitale mondiale della musica. L’autrice e poetessa austriaca Ingeborg Bachmann ha descritto perfettamente questa condizione: “Alcune delle nostre città si distinguono dalle altre e vengono chiamate ‘Città della musica’. Tra queste, bisogna immaginare città in cui la musica, risuonando e svanendo, diventa parte integrante dell’architettura”. La Haus der Musik propone un’esperienza interattiva attraverso un accesso sorprendente alla musica e ai mondi sonori. E rende omaggio al grande Mozart con il progetto interattivo Namadeus, grazie al quale i visitatori possono trasformare il proprio nome in un’interpretazione originale del compositore. Elisabeth Albrecht, responsabile della mediazione musicale della Haus der Musik, ci ha raccontano uno dei luoghi simbolo di Vienna. Dove ha sede la Casa della Musica? È ospitata nello storico palazzo dell’arciduca Karl, che ospitò anche il Dorotheum, che in seguito si trasferì nella Dorotheergasse. Otto Nicolai – direttore d’orchestra, compositore e fondatore dell’Orchestra Filarmonica di Vienna – ha vissuto qui dal 1841 al 1847. Oggi il primo piano ospita la mostra dei Filarmonici e il loro intero archivio. Dopo molteplici utilizzi, dal 2000 il palazzo è sede della Casa della Musica.
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Non si tratta però di un tradizionale museo... Il direttore Simon K. Posch descrive il nostro museo in questi termini: particolarmente importante – oltre agli elementi storici – è l’interazione tra produzione sonora naturale ed elettronica, tra analogico e digitale. I contenuti musicologici implementati dal punto di vista estetico e artistico costituiscono un ponte fra tradizione e innovazione. Ballare un valzer o dirigere virtualmente la Filarmonica di Vienna: qui la musica viene presentata in modo nuovo. I grandi maestri della musica classica, come eccezionali compositori di sonate, quartetti e sinfonie, attendono di essere scoperti in tutte le loro sfaccettature. Uno degli obiettivi è far accedere i bambini alla musica. Abbiamo una guida per smartphone in dieci lingue e il nostro è un museo hands on. L’uso delle mani è incoraggiato! Le numerose stazioni interattive lo rendono possibile. Dopo il rilancio in occasione del 20esimo anniversario del Museo del Suono nel gennaio 2020, un intero piano è ora dedicato a nuove installazioni ed esperimenti sonori: Sonotopia Universe. Un unico universo sonoro riempie lo spazio. Le creature e le forme che si muovono
sul soffitto sono chiamate “clong”. Queste forme sonore uniche si armonizzano visivamente e acusticamente e vengono create da tutti i visitatori utilizzando le più recenti tecniche di realtà virtuale. Nell’adiacente Sonotopia Lab è possibile creare e modellare la propria creatura sonora secondo la propria immaginazione, per poi darle vita visivamente e acusticamente. E per quanto riguarda la Sala Mozart con il gioco Namadeus? Con il terminale interattivo Namadeus è possibile trasformare il proprio nome in una composizione storica di Wolfgang Amadeus Mozart. È sufficiente digitare il proprio nome per ottenere un suono “alla Mozart”. L’opera musicale KV 516f, ideata da Mozart intorno al 1787 per la sua allieva di pianoforte Franziska von Jacquin, è l’ambientazione musicale di Mozart dell’alfabeto. A ogni lettera è assegnata una specifica combinazione di note, due battute. La partitura personale con la calligrafia originale di Mozart può essere ascoltata subito dopo tramite il terminale e acquistata come souvenir musicale nel gift shop. hausdermusik.com
GIORGIA LOSIO
L’ULTIMA DIMORA DI MOZART
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La Mozarthaus offre agli appassionati di tutte le età una presentazione completa delle principali opere del compositore e dell’epoca in cui è vissuto. In nessun altro luogo Mozart ha scritto così tanta musica. Qui visse infatti con la sua famiglia dal 1784 al 1787 e vi compose ad esempio Le nozze di Figaro e i tre dei sei Quartetti Haydn. Nina Nöhrig, direttrice della comunicazione della Casa di Mozart, ce ne ha raccontato la storia e gli eventi culturali in corso. Può dirci qualcosa di più sulla vita di Mozart in questa affascinante casa nel cuore di Vienna? Mozart ha vissuto in ben quattordici case durante i suoi dieci anni a Vienna. Quella in Domgasse 5 è l’unica rimasta. Qui ha trascorso due anni e mezzo e si è trovato benissimo. Non è un caso che vi abbia composto più musica che in qualsiasi altro luogo. È anche l’appartamento più grande, più costoso e più bello che ha avuto a Vienna. L’atmosfera è ancora unica! Oltre ai documenti e agli oggetti appartenuti al compositore, il museo propone mostre temporanee, come quella attuale su Mozart e le donne. La mostra Mozart e le donne presenta opere dell’artista Oskar Stocker sulle varie donne che hanno circondato Mozart. Donne
Mozart ha vissuto in ben quattordici case durante i suoi dieci anni a Vienna. Quella in Domgasse 5 è l’unica rimasta.
che hanno accompagnato la vita di Mozart e figure femminili conosciute nelle sue opere. Attraverso questi ritratti di donne emerge anche un ritratto indiretto e ombroso del compositore. Stocker ritrae sei donne che hanno segnato la vita di Mozart: la madre, la sorella, la moglie, l’amante, un’allieva e una mecenate. Questi ritratti sembrano assomigliarsi – dopotutto, i personaggi sono prototipi della vita delle donne nel XVIII secolo. Inoltre, vi sono schizzi di personaggi e cantanti d’opera, per alcuni dei quali Mozart scrisse letteralmente delle arie: come la Regina della Notte, Susanna o Donna Anna. Queste donne di fantasia appaiono del tutto
individuali. I ritratti sono emozioni dipinte, condensate in immagini potenti. È nostra intenzione portare al centro dell’attenzione le diverse figure femminili della vita di Mozart e contribuire così alla comprensione del suo genio musicale.
L STORIES L AUSTRIA L
Photo © Alexander Ch. Wulz
La suggestiva volta barocca del secondo piano interrato della Mozarthaus è stata trasformata in uno straordinario spazio multifunzionale che unisce antico e moderno. E c’è un ampio programma di concerti... Tra i concerti estivi che a luglio e agosto si tengono ogni giovedì alle 16, vorrei segnalare quello in cui si possono ascoltare dal vivo opere di Wolfgang Amadeus Mozart nel luogo in cui egli stesso le ha composte! Le nozze di Figaro, il Rondò per pianoforte in fa maggiore KV 494 o il Rondò per pianoforte in re maggiore KV 485: sono opere create da Mozart proprio nel suo appartamento di Domgasse 5 oltre duecento anni fa. mozarthausvienna.at GIORGIA LOSIO
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FARNESE/PARMA • SURREALISMO/VENEZIA
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IN APERTURA / FARNESE / PARMA
L’arte dei Farnese alla Pilotta di Parma Livia Montagnoli
una piccola parte: si tratta di un cantiere ambizioso, ne apprezzeremo i risultati tra un anno.
N
egli ultimi cinque anni, il complesso monumentale della Pilotta ha cambiato volto. O meglio, ha ritrovato la sua identità. Il percorso di rinascita ha coinciso con la nomina alla direzione di Simone Verde all’inizio del 2017. Fino al suo arrivo, il monumentale edificio voluto dai Farnese – prestigioso vessillo di una corte cosmopolita con mire teocratiche – ed ereditato dai Borbone aveva finito per assommare una serie di nuclei museali giustapposti, con ingressi separati, che penalizzava la visione d’insieme di un magniloquente progetto politico e culturale. Anche come entità museale, del resto, la Pilotta – che oggi raccoglie un’imponente collezione di oggetti preziosi, libri, documenti, opere d’arte, reperti archeologici, oltre a custodire il teatro ligneo della corte seicentesca, ricostruito dopo i bombardamenti del ’44 – fu concepita precocemente come unità complessa, ma discendente da un progetto unitario, che in questi anni si è puntato a recuperare. Oggi la Pilotta è ancora un cantiere aperto. Ma moltissimo è già stato fatto. Testimonianza ulteriore della rinascita che si respira visitando la “nuova” Pilotta è la mostra sui Farnese. A ventisette anni dall’ultima esposizione sul tema, l’approccio si è concentrato sulla committenza del potente casato per indagarne l’affermazione sulla scena politica e culturale tra il XVI e il XVIII secolo. L’arte, dunque, diventa strumento di legittimazione e proprio il complesso della Pilotta conferma l’assunto.
INTERVISTA A SIMONE VERDE 2017-2022. Sono trascorsi cinque anni, non semplici, perché “interrotti” dalla pandemia. Il programma di rinnovamento e riallestimento della Pilotta, però, è andato avanti. È stato, ed è ancora, molto faticoso, non posso negarlo. Ma tutto ciò che avevamo previsto si sta concretizzando. E con il Covid abbiamo fatto di necessità virtù, avendo ben presente il fatto di essere alle prese con un unicum: la Pilotta è l’unico museo enciclopedico d’Italia. Come si lavora per non snaturarne l’identità? Ogni contesto ha una storia a sé, non esiste una regola univoca. Si può però sviluppare una prassi: io ho applicato dei metodi di management culturale che si usano in tutto il mondo. Centrale è il discorso sulle mostre, che devono essere utilizzate come momento di
È difficile allestire un percorso museale in uno spazio così articolato, per fornire ai visitatori la possibilità di comprenderlo? In Italia abbiamo un’idea un po’ strana di museo, legata alle vecchie gallerie principesche: entri, contempli, esci con immagini meravigliose negli occhi, hai fatto un’esperienza immersiva, e finisce lì. Un museo non è questo. Un museo sta all’arte come una biblioteca sta ai libri: tu entri, chiedi in prestito il libro che ti serve, lo leggi, approfondisci un tema; se scopri qualcosa che non conoscevi, e ti incuriosisce, ti ritrovi ad approfondirla. Anche il museo funziona così, è un luogo in cui puoi aprire mille cassetti, e ci si torna a più riprese, per aprirne ogni volta uno diverso. Un museo è un luogo dove si vive, si torna. E dev’essere piacevole da vivere. I pubblici sono molteplici e diversi: sta a noi fornire un’offerta che generi un desiderio di scoperta. I musei possono avere un ruolo nel sollecitare un cambio di passo? I musei devono essere questo, uno strumento di educazione e istruzione permanente, che serva alla società per essere al passo della ricerca scientifica. Luoghi dove si condividono nuove acquisizioni e si attualizza il senso dell’istruzione ricevuta. Ma il museo è anche il luogo in cui si fa istruzione per recuperare il senso civile dello stare in comunità. I musei sono fondamentali, in questo Paese tanto più che in altri. consacrazione scientifica e non come specchietto per attirare i turisti, che nel secondo caso diffonderebbero un’opinione sbagliata e non qualitativa del luogo e di quello che facciamo. A che punto è arrivato il riallestimento? Cos’è stato fatto e cosa si farà ancora? Abbiamo già riallestito diversi spazi: restituendo dignità alla collezione dei fiamminghi; restaurando i saloni borbonici; riallestendo la Rocchetta Viscontea legata al mecenatismo ottocentesco di Maria Luigia, con opere che tracciano il fenomeno della riscoperta di Correggio in ambito parmigiano nel XIX secolo. Ma abbiamo anche recuperato nei depositi opere del periodo manierista, finora bistrattate, restaurandone alcune che giacevano in condizioni pessime. Non meno importante è il lavoro avviato nella Biblioteca Palatina: ci sono state nuove acquisizioni importanti. Del Museo Archeologico, invece, è stata completata solo
Del fatto che la cultura debba essere una risorsa economica, però, anche in Italia si inizia a prendere consapevolezza... Sul concetto di risorsa economica io ho molti dubbi, se non in termini di impatto indiretto. La cultura produce delle esternalità, perché rende il sistema Paese più coeso e qualitativo. I musei si reggono su una scommessa uscita dalla Rivoluzione francese: la liberazione degli uomini dal bisogno produce una creatività che avvantaggia il sistema economico e lo rende più competitivo. È una intuizione illuminista: la ragione svincolata dalla materia produce opulenza e benessere. Che poi è il principio su cui si reggono le democrazie. Se vogliamo che i musei siano risorsa economica, dunque, devono essere concepiti come strumento di creatività, centri di ricerca e innovazione, di formazione permanente, in grado di alimentare una società molto più competitiva, e dunque più ricca.
IN APERTURA / FARNESE / PARMA
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LA MOSTRA
L’EPOPEA FARNESE
1534
Elezione al soglio pontificio di Alessandro Farnese, con il nome di Paolo III
1545
Paolo III crea per suo figlio Pier Luigi i ducati di Parma e Piacenza
1539
Gli Indios donano a Paolo III la Messa di San Gregorio in seguito alla bolla Sublimis Deus
fino al 31 luglio 2022
1586
la Tazza Farnese, appartenuta a Lorenzo il Magnifico, entra nelle collezioni di famiglia
“Nel concepire la mostra abbiamo applicato un approccio curatoriale poco praticato in Italia, quello della storia connessa e globale, che illumina le vicende umane in ottica più ampia rispetto agli strumenti tipici della storiografia di ascendenza ottocentesca. Valutando i rapporti politici e storici tra le popolazioni si è costretti a far ricorso all’antropologia, alla sociologia e agli strumenti delle scienze sociali. Trattiamo la storia globale del collezionismo cinquecentesco attraverso il caso studio dei Farnese: collezionare non significava assommare beni, ma riedificare una prospettiva storica”. Simone Verde ha curato in prima persona la mostra che vede collaborare la Pilotta con l’Archivio di Stato di Parma, il Museo e Real Bosco di Capodimonte e il MANN, sull’asse Parma-Napoli che segnò le vicende dei Farnese. La committenza della famiglia è protagonista di un percorso sviluppato intorno a tre nuclei tematici (Architettura, Arte, Potere) e articolato tra i Voltoni del Guazzatoio, il Teatro Farnese, la Galleria Petitot della Biblioteca Palatina e la Galleria Nazionale, in oltre 300 opere. Premessa fondamentale è la Restauratio Romae di Papa Paolo III (1534-49) – come reazione al Sacco dei Lanzichenecchi e risposta all’impero di Carlo V –, che portò a codificare un’estetica classicista fondata sul cosmopolitismo di ascendenza imperiale, in cui identificare il potere del casato sotto l’egida della tradizione cristiana. Strategia mutuata nei due secoli successivi nei ducati di Parma e Piacenza. A testimoniarlo, in mostra, duecento disegni sull’opera urbanistica di “colonizzazione” del territorio, dipinti commissionati a grandi artisti dell’epoca (da Raffaello a El Greco a Tiziano), oltre ottanta rarità ed exotica che componevano la camera delle meraviglie rinascimentale dei Farnese. E molti testi e documenti d’archivio che orientano la visita.
I FARNESE ARCHITETTURA, ARTE, POTERE a cura di Simone Verde Catalogo Electa COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA Piazzale della Pilotta 15 – Parma complessopilotta.it a sinistra: Tazza Farnese, cammeo in agata sardonica, diam. 20 cm. Napoli, Museo Archeologico Nazionale © per concessione del Museo Archeologico Nazionale di Napoli in alto: Parma, Palazzo della Pilotta, Teatro Farnese, veduta del boccascena. Photo © Giovanni Hänninen
1628
All’interno della Pilotta si inaugura il Teatro Farnese
1708
Ranuccio II Farnese istituisce una Galleria delle cose rare e preziose alla Pilotta
1724
Negli Orti farnesiani di Roma vengono rinvenuti i due Colossi, oggi nella tribuna ovale della Pilotta
1734
Dopo l’estinzione della casata, le raccolte Farnese sono trasferite a Napoli da Carlo di Borbone
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FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO
Un nuovo museo per Torino
FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO
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Angela Madesani
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iazza San Carlo è una delle più belle piazze di Torino, il salotto della città. Al numero 156, sotto i portici, si aprono le porte di Palazzo Turinetti, un concentrato di armonia e magnificenza barocca. È la quarta sede delle Gallerie d’Italia, che Intesa Sanpaolo dedica all’arte, nello specifico alla fotografia, la quale va ad aggiungersi al prezioso patrimonio di opere di arte antica come le nove grandi tele seicentesche di proprietà della banca, realizzate per decorare l’Oratorio della Compagnia di San Paolo. Il progetto architettonico del palazzo, la sua sistemazione a museo, è a cura di Michele De Lucchi – AMDL CIRCLE.
LA FOTOGRAFIA DI PAOLO PELLEGRIN
Due sono le mostre presentate per l’occasione. La fragile meraviglia. Un viaggio nella natura che cambia è incentrata su Paolo Pellegrin (Roma, 1964), uno dei più grandi fotoreporter internazionali, che qui è stato chiamato a comporre un lavoro sul tema del cambiamento climatico. Ancora una volta ci attende una sorpresa. Pellegrin, oltre a un’indagine territoriale e sociale, compie un’analisi linguistica sul senso stesso della fotografia, facendola uscire dalla facile categorizzazione di genere. Quelle che vediamo nella mostra ordinata da Walter Guadagnini sono immagini di paesaggi antropizzati, dove l’uomo è solo apparentemente assente. Presente, invece, è la sua azione spesso distruttiva. Efficace la scelta dei punti di vista, delle luci. In talune foto, realizzate dalla Namibia all’Islanda, dall’Italia al Costa Rica, ci troviamo di fronte a manifestazioni naturali di rara bellezza. Quando il colore emerge dal fondo scuro, soprattutto nelle immagini di dimensioni più contenute, sembra di osservare delle nature morte barocche. È questa una mostra densa di opere, in cui dall’iceberg, presentato come un’opera d’arte concettuale su diversi livelli di stampa, si giunge al grande spettacolo dei fuochi vulcanici.
GLI SCATTI DELL’ARCHIVIO PUBLIFOTO
Alle Gallerie torinesi ha sede l’Archivio Publifoto, agenzia fondata nel 1937 da Vincenzo Carrese, che la banca acquisì anni fa. L’archivio sarà oggetto di mostre nel corso del tempo. La prima, intitolata Dalla guerra alla luna 1945-1969. Sguardi dall’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo, curata da Giovanna Calvenzi e Aldo Grasso, ci pone di fronte a uno spaccato della complessa storia del nostro Paese. Le foto esposte sono state ristampate ingrandite rispetto all’originale, ma al centro degli spazi ci sono tavoli con i materiali vintage, che aiutano a capire la storia e il senso degli scatti. Alcune di queste fotografie hanno costruito il nostro immaginario – basti pensare a quelle ambientate ad Africo, in Calabria, dove la povera gente dormiva con il maiale, o a quelle delle mondine, che raccontano l’Italia degli Anni Cinquanta. Ma anche alle foto dell’Italia della ricostruzione, con i viadotti autostradali e le automobili di quanti tornavano in vacanza nei paesi d’origine o che andavano a fare le prime gite fuori porta.
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FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO
INTERVISTA AL DIRETTORE MICHELE COPPOLA Qual è stato il criterio che vi ha spinti a inaugurare la sede di Torino, dove esiste già un “contenitore” per la fotografia come Camera, di cui siete sponsor? Si tratta del completamento del circuito delle Gallerie d’Italia lungo il Paese, completamento che era già stato annunciato dal Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, nel 2011. È l’idea di trasformare palazzi storici di proprietà, legati all’identità dei territori di riferimento, in luoghi che valorizzino le radici, la cultura e l’arte italiana, proprio come l’Archivio Publifoto. Publifoto è un archivio prettamente italiano, che attraversa la storia del nostro Paese dalla seconda metà del XX secolo. Mi pare che attraverso di esso possa attuarsi un interessante incontro tra Milano, sede di Banca Commerciale che diviene Banca Intesa, e capitale morale d’Italia, e Torino, sede della Banca San Paolo ma anche imprescindibile luogo di industria. Questa è una chiave di lettura interessantissima proprio perché l’Archivio Publifoto, che occuperà una parte importante della sede torinese, si può leggere come un punto di partenza dal quale generare attività. È un approccio attuale, con una componente tecnologica forte. Si viene a creare una sorta di dialogo, di proiezione in avanti che deve, tuttavia, sempre ricordare il punto di origine. Grazie a questo archivio è possibile vedere come è cambiato il ruolo dell’immagine. Nasceva con il mondo analogico, con la fotografia stampata in fretta e in furia per l’uscita sui giornali. È un mondo che per alcuni versi è finito, ma che aiuta coloro che anagraficamente non c’erano a capire cos’è stata la fotografia. La mostra di Paolo Pellegrin termina proprio in una sezione dedicata all’Archivio Publifoto, per mostrare come una fotografia dell’oggi possa essere letta, colta, compresa nella sua complessità, guardando quello che è avvenuto nel passato.
L’ARCHITETTURA DI GALLERIE D’ITALIA – TORINO IN 4 PUNTI
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La storia del palazzo emerge dalla scelta di rendere visibili le tracce di cemento armato, ciottoli di fiume e laterizi ottocenteschi.
La vostra banca è sempre più impegnata nella cultura, mi pare un buon segno. Intesa Sanpaolo è il risultato della fusione di circa 500 banche e istituti di credito locali. Nella crescita di questo grande gruppo c’è tutto quel rispetto, quell’attenzione nei confronti dell’arte, della cultura, delle comunità, che sono tipici di un’istituzione che è rimasta fortemente legata al territorio.
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Il colonnato in legno sulla parte sinistra della corte richiama il disegno del porticato secentesco in pietra sul lato opposto.
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Le sale sotterranee di Palazzo Turinetti, un tempo adibite a caveau, archivi e parcheggi, sono diventate uno spazio espositivo.
Come dialogano i due mondi presenti nel palazzo – arte barocca e fotografia? Sono in perfetto equilibrio tra loro, un equilibrio creato dal magistrale lavoro di Michele De Lucchi. Si tratta di una sorta di ponte tra
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Una gradinata monumentale in pietra di Luserna consente l’accesso al museo ipogeo e diventa, insieme alla corte interna, uno spazio di incontro e socialità.
fino al 4 settembre 2022
LA FRAGILE MERAVIGLIA a cura di Walter Guadagnini
DALLA GUERRA ALLA LUNA 1945-1969 a cura di Giovanna Calvenzi e Aldo Grasso Cataloghi Gallerie d’Italia | Skira GALLERIE D’ITALIA – TORINO Piazza San Carlo 156 gallerieditalia.com
nella pagina precedente: Gallerie d’Italia – Torino. Photo Michele D’Ottavio in alto: Vulcano Fagradalsfjall, penisola di Reykjanes. Islanda, 2021 © Paolo Pellegrin/Magnum Photos a destra: Fila di automobili al casello di Firenze dell’autostrada Firenze-Pisa, 1962. Fotografia di Tino Petrelli – Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo
FOTOGRAFIA / GALLERIE D'ITALIA / TORINO
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LE NUOVE GALLERIE D’ITALIA A NAPOLI Gli spazi partenopei delle Gallerie d’Italia triplicano, grazie alla risistemazione dell’ex Banco di Napoli, progettato dall’architetto Marcello Piacentini, in via Toledo 177. Anche in questa sede De Lucchi ha compiuto un interessante intervento di trasformazione dello spazio, che tiene conto, tuttavia, della monumentalità dell’architettura fascista. Le opere della collezione permanente sono distribuite lungo tre itinerari tematici. Al primo piano è esposta una selezione di dipinti e sculture di ambito napoletano e meridionale dagli inizi del XVII ai primi decenni del XX secolo, curata da Fernando Mazzocca, in cui il Martirio di sant’Orsola del 1610, ultima opera di Caravaggio, fa la parte del leone. Il secondo piano ospita una sezione curata da Fabrizio Paolucci con ceramiche attiche e magnogreche, e la terza sezione, a cura
passato e futuro, che va dalle sale nobili del secondo piano, tornate all’antico splendore, alle sale voltate sotterranee che erano depositi, dove oggi c’è l’archivio fotografico. L’idea è di ospitare mostre originali, create su committenza, intorno ad argomenti che siano legati ai principali temi di attualità, a partire dai quali costruire dibattiti, laboratori, momenti di approfondimento con le scuole e le università. Qual è il programma futuro? Dopo Pellegrin ci saranno Gregory Crewdson, Luca Locatelli con Ellen MacArthur Foundation, Paolo Verzone con l’Agenzia Spaziale Europea e Cristina Mittermeier con il National Geographic. In sostanza la fotografia, per forza, immediatezza e anche efficacia, diventa lo strumento che consente di ragionare intorno all’attualità e alle grandi questioni proprie del nostro tempo. E il cambiamento climatico ne è un esempio puntualissimo, come le splendide immagini di Paolo Pellegrin ci mostrano. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]
di Luca Massimo Barbero, riunisce opere dalle collezioni di arte moderna e contemporanea. La mostra inaugurale temporanea è la XIX edizione di Restituzioni, il programma biennale di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico nazionale che Intesa Sanpaolo conduce da oltre trent’anni in collaborazione con il Ministero della Cultura. “Sono ormai quasi duemila le opere non di proprietà della banca ma appartenenti al patrimonio dei musei, delle chiese, delle fondazioni culturali italiane, restaurate in questi anni”, spiega il direttore Michele Coppola.
GALLERIE D’ITALIA – NAPOLI Via Toledo 177 gallerieditalia.com
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GRANDI CLASSICI / SURREALISMO / VENEZIA
La magia del Surrealismo a Venezia Gražina Subelytė
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olte artiste e scrittrici si associano al Surrealismo, in particolare durante gli Anni Trenta. Le loro interpretazioni della donna sicura di sé e dedita alla ricerca, oppure maga e non più musa, destabilizzano le tipologie femminili formulate da una cerchia esclusivamente maschile. Artiste come Leonora Carrington, Leonor Fini e Remedios Varo riconoscono il potenziale surrealista e le possibilità offerte dall’interesse del movimento per il mito e l’occulto, che impiegano per promuovere strategie e obiettivi di emancipazione protofemministi.
LEONORA CARRINGTON
3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA
Alla fine degli Anni Trenta l’inglese Leonora Carrington (Chorley, 1917 – Città del Messico, 2011) diventa una delle figure centrali del Surrealismo. La relazione con Max Ernst, tra il 1937 e il 1940, alimenta la sua fascinazione per la magia, nonostante inizi a studiarne la storia e il simbolismo ben prima di associarsi al movimento, di cui riprende i temi in maniera del tutto personale. Di origini anglo-irlandesi, fortemente attratta dal folklore celtico, Carrington adotta la figura della strega come alter ego, trasformandola in un’icona dell’emancipazione femminile. Attingendo da una conoscenza approfondita dell’esoterismo, coniuga riferimenti alla magia e all’occulto con un’iconografia fantastica ispirata all’arte medievale e rinascimentale, soprattutto a Hieronymus Bosch.
L’idea della mostra prende forma 7 anni fa, durante il dottorato di ricerca della curatrice al Courtauld Institute of Art di Londra. La perfetta coincidenza coi temi della Biennale è dunque casuale
Nel 1943 si trasferisce in Messico, dove matura il suo talento artistico e dove rimane per il resto della vita. Nel 1948 vengono pubblicati due libri fondamentali per Carrington: lo studio della mitologia di Robert Graves, La Dea bianca, che Carrington considera la “rivelazione più grande” in assoluto, e Lo specchio della magia di Kurt Seligmann. Le opere principali di Carrington includono I piaceri di Dagoberto (1945), La gigantessa (Guardiana dell’uovo) (1947), La donna gatto (La Grande Dame) (1951) e La cucina aromatica di nonna Moorhead (1975).
fino al 26 settembre 2022
SURREALISMO E MAGIA. LA MODERNITÀ INCANTATA a cura di Gražina Subelytė Catalogo Prestel COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Dorsoduro 701 – Venezia guggenheim-venice.it
L’interesse per la magia s’intreccia con il sostegno all’ecologia e ai diritti delle donne, soggetti politici che nella sua arte sono inestricabili. Le figure della strega e della dea sono l’incarnazione del rispetto per la natura e le sue risorse, mentre i personaggi femminili sono spesso a difesa della vita in opere infuse di un sentimento antipatriarcale. Da notare come negli Anni Settanta Carrington dia corso al primo gruppo di liberazione della donna del Messico, quando nel Paese il femminismo inizia a organizzarsi in un movimento.
REMEDIOS VARO
Surrealismo e magia. La modernità incantata. Exhibition view at Collezione Peggy Guggenheim, Venezia 2022. Photo © Matteo De Fina
Per sfuggire alla Seconda Guerra Mondiale, anche la pittrice spagnola Remedios Varo (Anglès, 1908 – Città del Messico, 1963) emigra in Messico, dove rimane per il resto della vita. Negli Anni Cinquanta numerose influenze confluiscono nelle sue composizioni di per-
All’ingresso è proiettato il cortometraggio La culla della strega, della regista americana, di origine ucraina, Maya Deren, girato nel 1943 all’interno del museo-galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century
sone impegnate in riti magici, attività alchemiche o viaggi mistici, con una precisone del tratto che deriva dai disegni scientifici e particolareggiati del padre, ingegnere idraulico. Varo a volte propone la scienza come campo creativo alternativo, capace di cogliere il meraviglioso. Spronata dal dialogo costante con Leonora Carrington, Varo si immerge nell’iconografia esoterica e dell’occulto, in particolare la storia della stregoneria, da cui trae i temi delle opere. L’intreccio eclettico tra occultismo e scienza occupa un posto centrale nelle sue opere, che spesso cercano di criticare la rigidità delle metodologie positiviste e di convalidare epistemologie alternative. Le opere principali includono La creazione degli uccelli (1958) e Nutrimento celeste (1958). In quest’ultima vediamo una donna sola, seduta in una torre ottagonale, che macina materia stellare con cui nutre una falce di luna in gabbia. Nutre la luna quasi fosse un neonato da riportare alla pienezza. Se da un lato Varo affronta l’isolamento percepito dalle donne nella sfera domestica, dall’altro descrive il rituale materno più comune come un modo per accedere al regno celeste. Seppur intrappolate, le donne sono costantemente in contatto con il cosmo, un’importante fonte mistica di sostentamento.
LEONOR FINI
Cresciuta in Italia, la pittrice Leonor Fini (Buenos Aires, 1907 – Parigi, 1996) rifiuta l’e-
tichetta di surrealista, ma a partire dagli Anni Trenta è in contatto costante con il gruppo e si rapporta all’esplorazione surrealista della magia e della sessualità. Fini radica la sua arte nei miti di dee indipendenti e nell’immaginario della stregoneria medievale, spesso in uno stile che ricorda la pittura manierista. Le sue opere sono popolate da donne che incutono timore, spesso seduttrici letali, e ibridi femminili come la sfinge, guardiana di segreti e simbolo di enigmi, con cui si identifica. Queste figure sono protagoniste di rituali che si svolgono in ambienti fantastici al di fuori del tempo e dello spazio. Quando compaiono, gli uomini sono passivi, belli e deboli. Attraverso le interpretazioni delle relazioni di potere, Fini mette in discussione gli stereotipi dei ruoli di genere. Fini rifiuta la nozione della donna come accessorio passivo nella ricerca di avventura e supremazia dell’eroe. Le sue tele in genere collocano la donna al centro di un universo panteista di cui controlla il ciclo naturale della vita e della morte, come in La sfinge regina (1943) e La fine del mondo (1949). Fini ritrae con i propri lineamenti figure ibride feline o mostruose, trasformandole in guardiane misteriose dell’ultraterreno. Per esempio, La fine del mondo è dominata dal busto maestoso di una donna bionda che regna su una palude primordiale. Il suo riflesso felino e cupo trasmette la pericolosità del suo doppio, mentre gli occhi e i teschi degli uccelli che affiorano dall’acqua ne rafforzano il potenziale violento e mortale. 3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA
3 CURIOSITÀ SULLA MOSTRA
GRANDI CLASSICI / SURREALISMO / VENEZIA
Dopo la tappa veneziana, la mostra sarà ospitata dal Museum Barberini di Potsdam, dal 22 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023
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LA MOSTRA ALLA COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Si dipana attorno al filo sottile e persistente che unisce Surrealismo e magia la mostra omonima ospitata dalla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, con la curatela di Gražina Subelytė. A diventare fulcro espositivo è l’interesse di Breton e compagni nei riguardi dell’occulto e di una dimensione “altra”, spesso celata al di là o al di sotto della superficie (della pittura, del mondo così come lo conosciamo, della coscienza, del dato sensibile). Il medesimo interesse attraversò la passione collezionistica della “padrona di casa” Peggy Guggenheim, la quale fece del Surrealismo uno dei punti di ancoraggio della propria raccolta – conservata nella sua ex dimora, Palazzo Venier dei Leoni, oggi sede della Collezione che porta il nome della mecenate – e uno snodo espositivo della galleria newyorchese Art of This Century prima e della sede lagunare poi. Parte dei lavori in mostra sono infatti custoditi dalla stessa Collezione Peggy Guggenheim, mentre altri provengono da musei e raccolte internazionali. Il risultato è un mosaico dai contorni potentissimi, le cui tessere sono rappresentate da opere-manifesto – come l’Ofelia (1937) di André Masson, la Vestizione della sposa (1940) di Max Ernst, Lo specchio (1950) di Dorothea Tanning – e da rarità formidabili realizzate da una triade d’eccezione – Leonora Carrington, Remedios Varo e Leonor Fini, emblema del ruolo chiave giocato dalle donne sullo sfondo del movimento surrealista e delle sue declinazioni. Interpreti di istanze che anticipano le lotte femministe e lo scardinamento degli stereotipi di genere, queste artiste gettano le basi per il rifiuto di logiche strettamente binarie, trovando nell’androginia e nella definizione di una grammatica visiva inedita, che scava nell’inconscio, nella mitologia e nell’occulto, gli strumenti per sovvertire le granitiche certezze della società patriarcale del secolo scorso. La mostra alla Collezione Peggy Guggenheim riporta in auge l’eccezionale attualità del Surrealismo, le cui radici affondano in un’epoca che riecheggia con implacabile ferocia il tempo presente, dominato dallo spettro di una guerra globale. Oggi come allora, il potere dell’immaginazione, della sfera onirica, della magia e dell’universo alchemico diventa un alleato per combattere la crudeltà della Storia. Arianna Testino
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DIETRO LE QUINTE / LUCIO DALLA / BOLOGNA
Lucio Dalla nella sua Bologna Claudia Giraud
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econdo Mimmo Paladino, amico di lunga data di Lucio Dalla (Bologna, 1943 – Montreux, 2012), la sua casa di Bologna è una specie di Wunderkammer dove è raccolto tutto ciò che amava, senza alcuna logica se non quella del cuore. Che è poi la stessa che ha guidato l’ideazione della mostra Lucio Dalla. Anche se il tempo passa: un doveroso omaggio a dieci anni dalla morte e a quasi ottanta dalla nascita di questo musicista eclettico, cantautore e interprete appassionato che amava la pittura, il cinema, il teatro e le altre arti e che ha trovato nel jazz il collante di tutte le sue passioni. “Lucio era animato da una curiosità insaziabile ed è questo che lo ha portato a esplorare tante altre forme d’arte sia come fruitore, sia cimentandosi ed esprimendo la propria genialità anche in ambiti artistici diversi da quello musicale”, ci racconta suo cugino Andrea Faccani, presidente della Fondazione Lucio Dalla, con sede proprio nella sua quarta abitazione in via Massimo d’Azeglio – a un solo isolato di distanza dall’esposizione al Museo Civico Archeologico, cui faranno seguito le tappe a Roma, Napoli e Milano.
NON SOLO MUSICA PER LUCIO DALLA
“La musica è certamente sempre stata centrale ma, curioso di conoscere, di capire, di provare, Lucio ha coltivato per tutta la vita tantissime altre passioni”. Come si evince dall’allestimento con le sue dieci sezioni che, tra memorabilia, testimonianze video e opere d’arte legate alla sua breve esperienza da gallerista dello spazio No Code, percorrono le sue tante vite: da quella di bambino prodigio a teatro a quella nel cinema. “Non solo componendo colonne sonore, ma come attore, e sono tanti e tra loro diversi i personaggi che Lucio ha interpretato a partire dagli Anni Sessanta”, conclude Faccani, “lavorando con i Fratelli Taviani nella pellicola ‘I sovversivi’, sino ad arrivare al Sancho Panza di ‘Quijote’, del 2006, dell’amico Mimmo Paladino. L’opera era un’altra grande passione di Lucio e da questa, oltre a diverse regie teatrali, è nata ‘Tosca. Amore disperato’, che Lucio scrisse ispirandosi alla ‘Tosca’ di Puccini, forse uno dei suoi progetti meno conosciuti, ma ai quali era più legato”. Il tutto concepito all’interno di un percorso coinvolgente che non manca di emozionare, grazie ai tanti frammenti sonori tratti dai suoi brani più famosi come Caruso e Come è profondo il mare, titolo quest’ultimo con cui Dalla avrebbe voluto nominare la Fondazione, già nella sua testa dal 1996 e poi realizzata dagli eredi nel 2014.
fino al 17 luglio 2022
LUCIO DALLA ANCHE SE IL TEMPO PASSA a cura di Alessandro Nicosia Catalogo Skira MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO Via dell’Archiginnasio 2 – Bologna mostraluciodalla.it
Lucio Dalla. Anche se il tempo passa. Exhibition view at Museo Civico Archeologico, Bologna 2022. Photo Massimo Palmieri
INTERVISTA AL CURATORE ALESSANDRO NICOSIA
La mostra è un omaggio a Dalla, ma anche un evento. Perché l’idea del tour a Roma, Napoli e Milano? Lucio Dalla è una figura nazionale nonché internazionale e la scelta di queste città non è casuale. Roma, città dove ha vissuto e che ha segnato una fase importante della sua carriera; Napoli, perché Dalla ha sempre avuto un particolare affetto per Napoli, ci andava spesso ed era attratto dal suo calore; Milano, dove ha lavorato e a cui ha dedicato anche una canzone, facendone un lucido ritratto, affettuoso e duro nello stesso tempo. La struttura espositiva sarà la stessa, contestualizzata nei vari siti che ci ospiteranno e arricchita via via di nuovi documenti, oggetti e contributi che arriveranno dai tanti artisti che lo hanno conosciuto. Lei ha curato molte mostre monografiche di personaggi del cinema e della musica. In cosa eccelle questa?
DIETRO LE QUINTE / LUCIO DALLA / BOLOGNA Lucio Dalla. Anche se il tempo passa ha una sua specifica unicità. L’esposizione è nata dal desiderio di raccontare un Dalla inedito che potesse rappresentare l’essenza più vera dell’artista e dell’uomo. Per avere un quadro più attento e preciso, ho condotto con i miei collaboratori un lungo e approfondito lavoro di ricerca. Sono partito ben conoscendo la sua produzione artistica ma, attraverso i tanti, meravigliosi incontri con la sua vastissima cerchia di amici, familiari, colleghi e collaboratori, si sono aperte, strada facendo, tante porte di accesso alla sua vita privata e al suo percorso artistico. Sono stato colpito da un’ondata di spunti interessantissimi che non potevo non raccontare. L’allestimento in uno spazio così connotato e grande poteva essere un rischio. Come vi siete mossi? Una scelta che effettivamente poteva sembrare rischiosa, ma nella quale ho sempre creduto e che di fatto si è rivelata particolarmente fortunata. Sono proprio i grandi spazi classici come questo a dare risalto ai contenuti. Si è creata un’interessante interazione tra contenitore e contenuto, che ricreeremo anche per la tappe successive come a Napoli, nella prestigiosa cornice del MANN – Museo Archeologico Nazionale.
LUCIO DALLA: L’UOMO E L’ARTISTA
“Lucio era incuriosito dagli esordi degli artisti perché secondo lui l’inizio di ogni opera rispecchiava quello che avevano dentro: avendole pensate per più tempo, venivano direttamente dal cuore”, ricorda il cugino Andrea Faccani. Forse perché gli ricordavano il suo passato da enfant prodige che, a soli cinque anni, recitava nella compagnia teatrale Primavera d’arte, diretta dal maestro Bruno Dellos, esibendosi in giro per l’Italia; senza dimenticare gli spettacoli a Manfredonia come apripista delle sfilate della madre modista. Poi, a quindici anni, l’ingresso nel jazz, prima con la band del regista Pupi Avati, dove è un clarinettista sui generis, e più tardi in quella dei Flippers a Roma, su segnalazione di un giovane Ennio Morricone. “Non ho mai imparato a suonare il clarinetto sul serio”, si legge in una dichiarazione di Lucio Dalla in mostra. “Però avevo un modo tutto mio: lo suonavo ritmicamente. Era questo che suscitava curiosità in quanti mi ascoltavano”. Da lì le partecipazioni al Cantagiro, ai vari Sanremo, con la consacrazione, nel 1971, grazie al suo brano più famoso, che porta nel titolo la sua data di nascita: 4 marzo 1943. Fino alla storia recente, quando negli Anni Novanta fa anche il gallerista della No Code (negli spazi del vecchio studio di registrazione Fonoprint, dove incide Caruso, con cui raggiungerà la consacrazione internazionale), l’organizzatore di eventi, il talent scout (tra i suoi pupilli, Luca Carboni e Samuele Bersani), con l’etichetta discografica da lui fondata Pressing Line (la sede è presso la casa-museo Fondazione Lucio Dalla).
LUCIO DALLA IN 10 DISCHI
1971
Storie di casa mia
1977
Come è profondo il mare
1979
Lucio Dalla
1980 Dalla
1990
Cambio
1993
Henna
1996
Canzoni
1999 Ciao
2001
Luna Matana
2003 Lucio
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MOSTRE, MITI E TERRITORI Nell’eterogeneo mondo che lega arte, musei, cittadini, turisti e territorio, le mostre sono un prodotto con caratteristiche molto peculiari che, per struttura dei costi e obiettivi, può presentare grandi margini di adattabilità. Nel nostro Paese, tuttavia, quando il dibattito pubblico si occupa di mostre, tende a privilegiare il segmento più alto dell’offerta, che è sicuramente in grado di richiamare grandi flussi di visitatori, ma che costituisce soltanto una specifica tipologia di prodotto-mostra. Accanto a tale prodotto-mostra, tuttavia, esistono altre configurazioni culturali che variano per intensità dell’investimento richiesto, per tipologia di ricerca, per sfera di influenza del prodotto culturale (regionale, nazionale ecc.). Tra le varie configurazioni possibili, una categoria di prodotto-mostra cui guardare con attenzione è quella che individua nella comunità e nei cittadini il proprio interlocutore privilegiato, ancorché non esclusivo. Si tratta di mostre che hanno l’obiettivo di raccontare ai cittadini una parte della storia remota e recente del proprio territorio e che pertanto mirano a creare, con la comunità, un importante livello di scambio e reciprocità. Spesso le mostre di questo tipo tendono a privilegiare la selezione di tematiche archeologiche: condizione importante, che racconta la storia del territorio e le sue evoluzioni, incrementando il senso di appartenenza. Pur riconoscendo la rilevanza culturale delle mostre archeologiche, è necessario sottolineare che i nostri territori sono anche il risultato di una storia recente e che tale storia merita di essere valorizzata. Da sempre la narrazione culturale ha avuto anche l’obiettivo di creare identità: non sono infrequenti i casi in cui la comunicazione ufficiale ha generato miti che incarnassero quelli che si voleva fossero i valori di un determinato territorio. Un caso concreto può essere la mostra dedicata a Lucio Dalla dal Museo Civico Archeologico di Bologna. Rivolta a tutti i cittadini italiani, la mostra però celebra oggi un personaggio che ha le caratteristiche per divenire mito, con i riflessi positivi che questa dimensione comporta. Certo, non tutte le città hanno avuto Lucio Dalla, ma va anche detto che non tutte le città hanno davvero fatto un investimento per celebrare i propri cittadini illustri all’interno di una cornice espositiva, anche ammiccante se vogliamo, ma che può contribuire a definire una nuova narrazione del nostro Paese. Territorio dopo territorio, valorizzare il recente significa infatti superare quel divario che distingue la nostra Storia e il Paese attuale. Significa riconoscere, e riconoscerci, un valore che spesso siamo i primi a sottostimare. Stefano Monti
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OLTRECONFINE / GIORGIO VASARI / PARIGI
Giorgio Vasari: un collezionista al Louvre Federica Mancini
S
arebbero bastati solo i fogli esposti nella prima sezione della mostra Giorgio Vasari, Le Livre des dessins: destinées d’une collection mythique, al Museo del Louvre, per restare incantati da tanta qualità grafica e dare un’idea del gusto raffinato di Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), pittore, architetto e storiografo presso la corte dei Medici. L’intenzione di Vasari nel collezionare opere quali il delicato Ritratto di donna di Andrea del Verrocchio del Louvre o la gustosa scena con la ragazzetta che ride del bambino morso da un gambero di Sofonisba Anguissola, da Capodimonte, fu di illustrare l’attività dei grandi maestri di cui egli stesso aveva scritto nelle sue Vite. Lo scopo fu anche di garantirsi la posterità. Prima di incollare gli esemplari grafici all’interno del suo Libro dei disegni, venendo a comporre forse la prima collezione del mondo moderno, li dispose su un carta più spessa, tecnicamente detto “montaggio”, che decorò con guizzanti figure allegoriche tracciate a penna e inchiostro, a mo’ di incorniciatura disegnata, come nello strepitoso Ritratto di vecchio con gli occhi chiusi di Ghirlandaio del National Museum di Stoccolma.
I MISTERI DEL LIBRO DEI DISEGNI
Anche se dopo la morte di Vasari il volume passò intatto nelle mani del granduca fino al 18 luglio 2022
GIORGIO VASARI, LE LIVRE DES DESSINS: DESTINÉES D’UNE COLLECTION MYTHIQUE a cura di Louis Frank e Carina Fryklund Catalogo Musée du Louvre éditions / Lienart MUSEE DU LOUVRE Rue de Rivoli – Parigi louvre.fr
in alto: Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero, 1554 ca. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Gabinetto Disegni e Stampe. Photo © Scala, Firenze, Dist. RMN-Grand Palais a destra: Domenico Ghirlandaio, Testa di vecchio con gli occhi chiusi, 1490 ca. Photo © Nationalmuseum Stoccolma | Cecilia Heisser
L’IDENTIKIT DI GIORGIO VASARI Delle arti in cui Giorgio Vasari s’impegnò quella che meno si presta a dar conto delle sue virtù è la pittura. Fu certamente prolifico come pittore. Ebbe incarichi ragguardevoli e un séguito nutrito di collaboratori e seguaci. Ma a fargli sovente difetto fu la vena poetica; che invece s’avverte (e vibrante) nell’architettura degli Uffizi. Fabbrica che s’allunga fra terra e cielo. Edificio solido eppure leggero; e financo trasparente, per via d’una sequenza serrata di pieni e di vuoti, di luci e d’ombre. Un’architettura nata con scopi diversi da quelli cui nel tempo s’è poi prestata; sempre però riuscendo a risultare funzionale, in forza d’un progetto che oggi si direbbe flessibile. I requisiti che Vasari concreta negli Uffizi sono gli stessi da lui esaltati negli edifici degli architetti del Quattrocento ch’erano nelle sue grazie. “Bellezza, comodità et ornamento” sono i pregi che Vasari attribuiva a due grandi del secolo precedente, Brunelleschi e Michelozzo: architetti d’ideologie e culture differenti, ma entrambi votati a promuovere la comodità e la funzionalità nelle loro creazioni. Chi – nella stagione di Vasari – fosse sbucato nella rossa Piazza dei Signori dai vicoli che venivano dal Duomo si sarebbe trovato al cospetto dei tre monumentali fornici della Loggia della Signoria e avrebbe con lo sguardo
costeggiato sulla sinistra il palazzo massiccio del governo cittadino; esso pure sortito da un restauro condotto dallo stesso Vasari. Tutto evocava la più nobile tradizione fiorentina, possente e austera. Ma subito l’occhio era forzato a incunearsi nel canale elegante che s’apriva a sinistra della Loggia, spingendosi fin sull’Arno, in quel seguitare di colonne messe a reggere la fabbrica nuova che Vasari s’era inventato. E il cuore ne trasaliva. È il medesimo trasalimento che son capaci di cagionare molte pagine delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, pubblicate da Giorgio nel 1550 e poi (in veste ampliata) nel 1568. Innumeri sono le memorie d’assoluto valore storico che le Vite serbano di tanti artisti, a partire dal Medioevo. Ma è nel racconto veridico e dettagliato di biografie d’artefici del Cinquecento, segnatamente toscani e fiorentini, ch’è dato godere d’una scrittura toccata da una forte partecipazione emotiva. D’altronde la commozione, il turbamento degli affetti e il pathos d’ascendenza ellenistica sono i caratteri peculiari della “maniera moderna” che Vasari decanta nel vivido Proemio alla terza parte delle Vite. Antonio Natali
OLTRECONFINE / GIORGIO VASARI / PARIGI
LE I M
1550-52
ESE DI VA PR
Dà il via alla fabbrica degli Uffizi
Francesco I de’ Medici, se ne persero quasi subito le tracce. Nacque così il mito della sua collezione, che appassionati e studiosi di grafica hanno tentato di ricomporre. Nel 1730 Pierre-Jean Mariette, grandissimo collezionista di disegni, considerò vari fogli con montaggi a motivi ornamentali come certamente provenienti dal Libro, a cui ne furono aggiunti altri, per osmosi, con inquadramenti simili ma più architettonici. Dall’idea di un solo libro si passò a quella di vari album. L’arcano fu svelato negli Anni Cinquanta del secolo scorso quando, forti di un sapere vastissimo e un occhio accorto, Arthur Popham e Philip Pouncey dimostrarono che il foglio con la Caduta di Icaro di Giulio Romano, conservato al Louvre (ma esposto solo nella successiva tappa della mostra, a Stoccolma), citato da Vasari come suo, era poi passato nella collezione di Niccolò Gaddi. La presenza sul montaggio dell’emblema di famiglia, il falcone, e il motto “tant que je vivrai” furono elementi importanti per capire che molte delle incorniciature associate al Libro dei disegni erano state fabbricate ex novo sotto Gaddi.
1570
1563
È tra i fondatori dell’Accademia delle Arti del disegno a Firenze
Elabora il progetto per Villa Giulia a Roma
1560
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Progetta il Palazzo delle Logge ad Arezzo
RI SA
1550 Pubblica la prima edizione delle Vite
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1568
Pubblica la seconda edizione delle Vite
UNA QUESTIONE DI CORNICE
Andrew Morrogh ne ha in seguito precisato le tipologie come pure i vari “incorniciatori” e la seconda parte della mostra si snoda proprio attraverso una meravigliosa carrellata di “montaggi Gaddi”, tanto più spassosi quanto ricchi di dettagli ricercati. Per una volta, le incorniciature diventano più opera dell’opera. L’apoteosi, in termini di comprensione visiva dei passaggi da una collezione all’altra, è data dal montaggio del Mascherone di Girolamo Miruoli del Louvre, che in un colpo d’occhio esplicita il suo transito presso Gaddi, Jabach e Mariette. Se la varietà dei soggetti rappresentati e delle tecniche utilizzate (punte metalliche su carte preparate, matite, inchiostro, acquarelli e rialzi di biacca) è una gioia per gli occhi del visitatore, l’opportunità di vedere esposti dei disegni e montaggi appartenuti a Vasari e Gaddi, che tanta parte hanno avuto nella storia del collezionismo successivo, ricorda in maniera originale e accattivante che il prestigio di un disegno consiste certamente nelle sue qualità intrinseche ma anche nella storia di chi lo ha posseduto.
VASARI OGGI Vasari icona pop: chissà se messer Giorgio avrebbe apprezzato la definizione. Da devoto cristiano quale era, sì; come cantore dell’epopea dell’arte italiana, che dall’astratta rigidità delle icone bizantine si è avventurata verso altri lidi, meno. In ogni caso, non si può negare il fatto che l’artista e biografo aretino abbia nel mondo contemporaneo una discreta, e per molti versi sorprendente, visibilità. Non tanto il Vasari pittore e architetto (anche se i suoi Uffizi continuano a destare ammirazione), quanto l’autore delle Vite: cui si dedicano articoli, volumi, mostre; che nei percorsi espositivi è di continuo evocato come fonte o come auctoritas; che sui social, nelle pagine e nei profili in cui si parla di arte e di storia dell’arte, viene spesso tirato in ballo. A volte lo si prende un po’ in giro: molti lo dileggiano per il suo fiorentinocentrismo, prolungando in forme più lievi la polemica che già fu dei Mancini, dei Boschini, dei Malvasia. Altre volte è la sua immagine di uomo serioso, orgoglioso e barbuto, quale ce la trasmette l’autoritratto degli Uffizi, a essere stravolta in mille guise, all’insegna di un sentimento misto di sberleffo e affetto. La centralità di Vasari nella storia dell’arte italiana spiega questo successo, e la frequenza con cui il suo nome ricorre nei programmi di esame e dunque il suo essere spauracchio di generazioni di studenti. Ma forse c’entra anche la vorticosa trasformazione delle discipline umanistiche e in particolare della storia dell’arte negli ultimi anni: un universo in cui l’arte italiana non occupa più la centralità di un tempo, e in cui si moltiplicano gli approcci più lontani dai modelli di indagine tradizionali. Vasari assurge in questo senso a simbolo di un certo modo di fare storia dell’arte, in cui il Rinascimento ritrova la sua posizione privilegiata e soprattutto in cui la ricerca si basa, più che su fantasiose congetture, su una solida conoscenza delle fonti e dei contesti. Certo, le Vite non sono una lettura facile, né rapida: ma riservano grandi soddisfazioni, sia come miniera di informazioni che per la piacevolezza di certi passaggi. L’invito pertanto non può essere che uno: leggete Vasari! Fabrizio Federici
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RUBRICHE
ARTE E PAESAGGIO
IL MUSEO NASCOSTO
I corsi d’acqua rappresentano un elemento di particolare valore del paesaggio. Fonte fertile per l’esistenza dell’intera umanità, componente essenziale per tutti gli esseri viventi, hanno un’importanza che è stata riconosciuta nei miti e nella filosofia fin dalle epoche più antiche. L’acqua è un elemento forte dal punto di vista dell’immagine del paesaggio. Il progetto Waterways, a cura dell’Associazione CRAC Ravenna, con installazioni di Land Art lungo il Delta del Po, è un percorso ciclo-pedonale naturalistico che per la prima volta collega varie frazioni nel Comune di Conselice con il capoluogo. LAND ART E NATURA La rete dei canali sul Delta è molto frequentata da turisti, amanti delle passeggiate e della mobilità dolce, che apprezzano questi luoghi di bellezza e benessere, dove il visitatore è accompagnato dal suono dell’acqua e cammina con passo leggero. Le vie d’acqua sono spazi senza confini. Attraverso l’inserimento di opere di Land Art, l’intento è di riconnettere l’essere umano con la sua parte più visionaria e nascosta: quella artistica in dialogo con la natura. Tracciare un percorso è talvolta sufficiente a creare un nuovo paesaggio, rivelando e collegando viste, scene, luoghi preesistenti. Questi percorsi offrono inoltre peculiarità botaniche, con specie vegetali tipiche delle zone d’acqua. GLI ARTISTI DI WATERWAYS Per il progetto Waterways sono stati invitati sette artisti: Federico Bartolini con Matteo Gritti, Rosa Banzi, Antonio Caranti, Antonella De Nisco, Fausto Ferri, Maria Giovanna Morelli e Laura Rambelli, presentati insieme alle performance della Scuola Teatro La Bassa e alla sonorizzazione al sax di Sanzio Guerrini. Il sette è il numero della creazione. Rappresenta anche il perfezionamento della natura umana quando congiunge in sé il ternario divino con il quaternario terrestre. Torna prepotente la natura terrestre. Quella dei cicli, quella che crea l’ambiente adatto alla vita e prepara il territorio all’accoglienza inclusiva, all’abbondanza e alla prosperità. Questo “museo a cielo aperto”, in un territorio di bonifica unico e ricco di storia, dà inizio a un percorso verso una maggiore consapevolezza. È ormai risaputo che l’ambiente naturale ha un effetto positivo e di benessere sugli esseri umani. Il turismo slow necessita di questi paesaggi e di queste iniziative, in cui arte e natura fanno da traino per azioni di rigenerazione. Claudia Zanfi
LAND ART SUL DELTA DEL PO cracarte.it
Waterways Photo Claudia Zanfi
“Non ho avuto voglia di fare altri mestieri, ho semplicemente avuto i desideri dei giovani. A vent’anni sognavo di diventare aviatore, come tutti. Solo che l’idea della pittura mi ha rapito molto presto. Ma sono partito male, perché le mie ambizioni non corrispondevano per niente alle mie doti! Ero in conflitto con tutti, si pensava che iniziassi a fare un mestiere per il quale non ero qualificato”. È una storia di grandi passioni, di sacrifici intensi e soprattutto di un amore viscerale per la pittura e la ceramica, e di un intenso nomadismo intellettuale ed esistenziale, quella di Philippe Artias, nato a Feurs, in Francia, nel 1912, e morto a novant’anni in Italia. Ma la storia del museo che gli è stato meritoriamente dedicato, immerso nella campagna appena fuori Faenza, è anche frutto di dialoghi a distanza e felici coincidenze, che hanno spinto due architetti, Rita Rava e Claudio Piersanti, a concepire Sacramora, dal nome della via che lo accoglie, agriturismo con vocazione culturale, tanto che oltre al museo c’è una biblioteca di architettura, design e arte a disposizione degli ospiti per un turismo lontano dalla frenesia di altre località vacanziere. LA STORIA DI PHILIPPE ARTIAS Il museo è nato da un rapporto profondo con la vedova dell’artista, Lydia, che è stata parte integrante del lavoro di ricognizione compiuto dai due architetti nella costruzione del percorso espositivo, in grado di investigare tutti i momenti significativi del lavoro di Artias con un approccio insieme rigoroso e divulgativo. Da un lato c’è il lavoro sulla storia – francese, anzitutto, come rivela il complesso ciclo sulla Rivoluzione e in particolare sulla figura di Robespierre –, e poi, ed è l’aspetto più stimolante, tutto il discorso sul rapporto tra forma e colore, che riguarderà la maturità, a partire dagli Anni Settanta, quando con cromie piatte Artias porterà avanti un itinerario che poi tornerà al figurativo, soprattutto al paesaggio, con ispirazioni italiane. PITTURA E DISEGNO Nelle sale del complesso museale c’è quindi la possibilità di investigare tutti i momenti chiave della sua riflessione su pittura e disegno, pratica quest’ultima che ha sempre messo in campo con impegno sistematico, mentre alcune pubblicazioni permettono di approfondire la sua intensa biografia – frequentò Picasso nel buen retiro di Vallauris, dove Artias si avvicinò alla ceramica. Da un fare pittorico che si sgancia dall’immagine per muoversi sui territori dell’informale alle sinuose forme anatomiche dipinte con colori fluo, camminando in compagnia di Rita Rava – guida d’eccezione – si entra nel ritmo di un lavoro in cui la pittura è segno tangibile di un sentire. Lorenzo Madaro
FAENZA MUSEO ARTIAS Via Sacramora 12 sacramora-12.it
Museo Artias, veduta del percorso espositivo. Courtesy Museo Artias, Faenza
RUBRICHE
ASTE E MERCATO
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IL LIBRO
Dopo aver nutrito, con le sue suggestioni, la 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia curata da Cecilia Alemani, che dal titolo di un suo libro di favole, Il latte dei sogni, ha preso il nome e le mosse, ed essere stata, sempre in Laguna, tra le protagoniste e i protagonisti della mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Peggy Guggenheim Collection, Leonora Carrington (Chorley, 1917 – Città del Messico, 2011) ha brillato a maggio anche sulla scena delle grandi aste di New York, facendo registrare un nuovo record assoluto di aggiudicazione. THE GARDEN OF PARACELSUS DI CARRINGTON La Modern Art Evening Sale di Sotheby’s a New York il 17 maggio è filata via spedita sin dall’avvio, con rapide offerte a conquistare le prime opere in catalogo, fino al lotto 5, dove era atteso appunto, di Leonora Carrington, il dipinto The Garden of Paracelsus. Eseguita nel 1957, l’opera è un’efficace sintesi delle capacità tecniche e immaginative dell’artista britannica. Quattro coppie di figure incandescenti, chiare e scure, vi appaiono intente in una danza mistica. Al centro della composizione, la presenza di un uovo, oggetto di rara potenza simbolica nei tragitti della storia dell’arte e impiegato da Paracelso, fisico, alchimista e filosofo svizzero del XVI secolo, come metafora della composizione dell’universo. Che il momento fosse carico di aspettative lo si è intuito chiaramente da come la sale room ha cominciato a fibrillare e lo hanno confermato poi i rilanci che si sono susseguiti in velocità. Dai 900mila dollari di partenza, il valore dell’opera è andato subito su, fino ad arrivare, con una battaglia ai telefoni che ha tenuto per lunghi minuti spettatori e bidder col fiato sospeso, oltre i 2 milioni e da lì, dopo il “fair warning” e la dichiarazione di rito di “last chance”, a un risultato finale di 3,2 milioni di dollari, nuovo record d’asta per l’artista che ha fatto esclamare, a buon diritto, all’auctioneer Oliver Barker: “Fantastic auction battle!”. LEONORA CARRINGTON SOTTO I RIFLETTORI Riferimento centrale nella costruzione di una Biennale che resterà nella storia per la netta quanto inedita prevalenza di artiste donne e artisti non binari e per la volontà di scandagliare tematiche in grado di polarizzare, anche oltre l’ambito delle arti visive, il dibattito pubblico contemporaneo, Leonora Carrington, e, insieme a lei, tutta una più ampia e variegata produzione di gusto surrealista, torna ora così in piena luce. E si aprono possibilità di riconsiderare fascino, intuizioni, motivazioni di un’artista che, quasi inosservata, ha attraversato, scrivendo e dipingendo, tutto il Novecento. E di correggere il tiro, anche, sul riconoscimento del valore economico della sua produzione, come specchio, finalmente meno deformato, di un originalissimo portato di immaginazione e magia, trasformazione e metamorfosi, mistero, rêverie. Cristina Masturzo
SOTHEBY’S LEONORA CARRINGTON
Leonora Carrington, The Garden of Paracelsus, 1957. Courtesy Sotheby’s
Quale meraviglioso mondo è quello dell’editoria – della piccola editoria. Nel 2018 a Roma è nata Moscabianca. L’autopresentazione pubblicata sul suo sito internet si conclude così: “Ecco i generi di cui andiamo ghiotti: fantascienza, weird, new weird, distopico, fantasy, realismo magico, bizarro fiction, gotico, surreale”. E pensare che ognuno di questi generi ha un mondo al suo interno, e magari noi manco sapevamo che esistessero. La meraviglia tuttavia non si esaurisce nella scoperta di ignoti – per chi non frequenta con assiduità queste nicchie – autori contemporanei; la meraviglia, al contrario, aumenta quando si spulcia il catalogo e spunta Ulisse Aldrovandi. CHI ERA ULISSE ALDROVANDI Siamo a Bologna nel 1522. Ulisse Aldrovandi nasce in una nobile famiglia ma resta orfano di padre a sette anni. Ad appena dodici parte per Roma, torna nella città natale, studia matematica, va a lavorare a Brescia, riparte per Roma, poi cammina fino in Galizia – precisamente a Finisterre – e in seguito lo ritroviamo a Bologna, dove studia lettere, diritto e filosofia. Approfondisce la sua formazione a Padova, ma è a Bologna che si appassiona alla botanica, ed è sempre a Bologna che viene accusato di eresia: anche se abiura, viene condotto a Roma, ma fortunatamente Giulio III succede a Paolo III e Aldrovandi viene prosciolto. Sembra la sintesi di una lunga vita, ma all’epoca il nostro ha appena ventisette anni. Nel 1551 inizia a comporre il suo mitico Erbario, prende un dottorato in medicina e filosofia, inizia a insegnare; nel 1564 lo troviamo sul Monte Baldo, sopra il Lago di Garda, in spedizione scientifica; nel 1568 fonda l’Orto Botanico e, di fatto, uno dei primi musei di storia naturale al mondo. Adesso sì che la vita si è svolta, e abbondantemente, considerata l’epoca: quando muore, nel 1605, ha 83 anni. LA MONSTRORUM HISTORIA Il libro proposto da Moscabianca uscì postumo nel 1642 grazie all’attività curatoriale di Bartolomeo Ambrosini. Un volumone di oltre mille pagine (qui s’è fatta un po’ di ragionata selezione) composto a partire da un brogliaccio piuttosto grezzo, in cui a spiccare sono innanzitutto le illustrazioni, di grande qualità, nonché – come sottolinea il curatore dell’attuale edizione – l’enciclopedismo di Aldrovandi, che arricchisce il suo catalogo teratologico di “pagine di etimologia e storia delle parole, digressioni storiche e mitologiche, rassegne di curiosità, superstizioni e credenze”. L’Illuminismo è di là da venire, ma è a Bologna, un secolo prima, che si fa la semina. Marco Enrico Giacomelli
ULISSE ALDROVANDI MONSTRORUM HISTORIA
a cura di Lorenzo Peka Moscabianca, Roma 2022 Pagg. 320, € 24 ISBN 9788831982290 moscabiancaedizioni.it
June 16–19, 2022 Photograph taken at Kunstmuseum Basel
ALEX URSO [ artista e curatore ]
I
l suo è un disegno intrigante ed ermetico, fatto di zone d’ombra e spazi vuoti (che non vogliono essere riempiti). Parliamo di Maurizio Lacavalla, talento del fumetto noir italiano.
Cosa vuol dire per te essere fumettista? Compromettermi. Ossia rendermi scomodo con ogni nero che stendo, ma anche trovare il compromesso che non avevo messo in conto tra quel che non può scrivere un disegno e quel che non può disegnare una didascalia.
GIUGNO L AGOSTO 2022
Maurizio Lacavalla
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Mi aiuti a presentarti a chi non ti conosce? Nasco a Barletta nel 1992; la fuga a Bologna risale al 2011, per studiare all’Accademia di Belle Arti. La sperimentazione di quei primi anni è stata rumorosa e a tratti confusa: gesso, cemento, plexiglas e trapano. Ho deciso di lasciare tutta la polvere nelle aule dell’accademia e sono partito per Amburgo con solo carta e china. Qualche anno dopo sono usciti due fumetti con Edizioni BD: Due attese e Alfabeto Simenon. Recentemente collaboro con La Stampa. Da quasi due anni mi occupo di mediazione e didattica museale presso il MAMbo.
Nelle tue tavole a parlare sono soprattutto i silenzi: poco movimento, molta stasi, e immagini cupe che attraggono e respingono allo stesso tempo. Se ripenso a quando il mio immaginario ha iniziato a formarsi, ricordo alcuni anni molto belli in compagnia di un caro amico, Alessio. Lui, più grande di me, mi ha introdotto ad alcuni di quelli che oggi sono miei capisaldi: la Socìetas Raffaello Sanzio, Bergman, Bacon, Ciprì e Maresco. Grigi pastosi, primi piani, lingue quasi incomprensibili. Figure come statue di sale sulla spiaggia. Questa è stata l’educazione dei miei occhi.
L SHORT NOVEL L
I tuoi fumetti sono a tratti indecifrabili, sembrano sfidare il lettore mettendo in discussione certezze e verità. Cosa ti interessa raccontare? Mi interessano i fantasmi. Dei fantasmi mi intriga l’àncora che gettano tra i tempi: sono presenti quando ciò di cui sono fatti è passato.
Alfabeto Simenon è il tuo ultimo libro (insieme ad Alberto Schiavone), nel quale rappresenti graficamente la vita del creatore di Maigret. Com’è stato confrontarti con un autore tra i più maestosi del Novecento? Prima che mi venisse proposto il fumetto avevo letto per caso due suoi romanzi “duri” e un Maigret e, anche se poco, era stato sufficiente per intendere: ho riconosciuto subito l’impossibilità di afferrare Simenon, ma il desiderio di immergermi nelle sue nebbie. L’idea dell’alfabeto e della divisione dei capitoli, così come il loro contenuto, è tutta frutto dello studio e delle letture di Alberto. D’altronde il tuo fumetto ha una fortissima componente letteraria... Altaleno tra la ricerca della parola esatta che sappia sostituire intere vignette e, all’opposto, la composizione di immagini tali da rendere superfluo qualsiasi testo. La sfida è non avere voce nell’immagine e riferimento visivo nel testo. E la tavola che hai realizzato per Artribune, invece, di cosa parla? È l’evocazione di un incontro avvenuto qualche anno fa in treno. È, ancora una volta, la storia di un fantasma. Si intitola Padre, padre, padre. maurizio_lacavalla
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GIUGNO L AGOSTO 2022
#67
C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica.
Photo © Guido Andrea Pautasso
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ella. Anzi bellissima. Anzi, e mi concedo anche il solecismo di un doppio dativo, così bella che, a me, l’Italia, mi piace. Mi piace tutta, da una costa all’altra, da una riva di lago a una spiaggia di mare, da un agrumeto siculo a un ghiaione delle Dolomiti, dalle lagune chiozzotte alle nevi che non ti aspetti sul Gennargentu o sul Gran Sasso. Ma, oltre che geograficamente, mi piace anche storicamente: perché come ti giri in una città qualunque, rischi di imbatterti in una cappella romanica, in un affresco barocco o in un edificio razionalista. O anche in riusciti esempi di architettura contemporanea. E poi filosoficamente, dato che, se ci si pensa bene, per il Paese relativamente minuto che siamo, con una lingua che è praticamente sconosciuta all’estero, abbiamo regalato al mondo una fila di geni che gli altri si sognano. Eppure, niente, continuiamo a maledire questa nostra Italia come la “Terra delle mezze verità”, e, non potendo prendercela con nessuno fuor che noi stessi, continuiamo a odiarci ferocemente in un modo che,
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visto da fuori, risulta incomprensibile e finanche comico. Sarebbe come vedere un coreano che maledice la Samsung, o un francese che non vuol essere sepolto al Panthéon “perché ci sta quell’altro”: un atteggiamento autolesionista che gli altri popoli, per fortuna loro, non conoscono. Ho provato spesso a spiegare questo sentimento nostrano ad amici stranieri, ma senza successo. Non lo capiscono. Anche perché, come quasi tutti nel mondo, ci amano. E allora perché noi ci odiamo tanto? Queste riflessioni mi vengono alla mente davanti alla retrospettiva dedicata a un arci-italiano come Julius Evola (MART, Rovereto, a cura di Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara con il contributo di Guido Andrea Pautasso, fino al 18 settembre), sottotitolata significativamente Lo spirituale nell’arte, che è un richiamo assai cogente non tanto a Kandinsky quanto a quello che mi pare il tratto più specifico di una certa “estetica italiana”. Un tratto che consiste proprio nel nostro innato spiritualismo. C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica. Non c’è filosofo nostrano che non abbia scritto d’arte, e non c’è artista italiano che non abbia flirtato con qualche filosofia: de Chirico era influenzato da Schopenhauer, Piero Manzoni aveva studiato l’esistenzialismo e Piero Simondo – il vero creatore del Situazionismo – si era laureato con Abbagnano. Per citare Pasquale Panella, in Italia anche chi ignora la filosofia “è immerso in essa comunque / e di essa è intriso / come un cardo dal gambo reciso” – e per i nostri artisti questo è vero in un modo così squisitamente unico che Evola, ancorché sia assai più famoso per i suoi libri di taglio iper-hegeliano (Fenomenologia dell’individuo assoluto) o le sue ricerche sul pensiero alchemico o tantrico (Metafisica del sesso), è stato anche esponente di un dadaismo artistico inimitabile.. Ma... già sento echeggiare un grido lacerante: “Evola è fascista!”. Quindi, in base a un insopprimibile automatismo ideologico, che deve ridurre per forza qualunque pensiero a cliché di se stesso, lui, la sua opera, la complessità delle sue idee, va tutto cancellato, depennato, annientato, e così ciò che lo riguarda, come sembra testimoniare lo strano silenzio mediatico che è subito calato su questa iniziativa del MART. D’accordo: come non detto. Continuiamo a farci del male, dài.
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ITALIA NOSTRA testo di
MARCO SENALDI [ filosofo ] L