STILL LIFE
I colori della natura
Galleria Canesso Lugano
Testi a cura di Maurizio Canesso Ginevra Ventimiglia Agliardi
STILL LIFE
I colori della natura
20 SETTEMBRE 20 DICEMBRE 2018
Galleria Canesso PARIGI - LUGANO
Introduzione alla natura morta C’è uva e uva. Nel 400 a.C. ad Atene Zeusi, il maggiore pittore dell’Antichità, dipingeva uva, duemilatrecento anni dopo a Parigi Picasso dipingeva ancora uva. Eppure, che differenza! Le cose che nel mondo reale sono sempre uguali a loro stesse, attraverso l’arte appaiono sempre diverse. Il genere pittorico della natura morta ha origini antichissime e, ancora oggi, prosegue il suo secolare cammino. Frutti, fiori e oggetti, rappresentati nella loro intrinseca bellezza nell’Antichità, furono poi completamente subordinati al trascendente durante il Medioevo, per riconquistare lentamente la loro laicità nel corso del Rinascimento. Nel Quattrocento rigogliosi festoni di frutta circondavano i tondi dei Della Robbia e decoravano le pale di Mantegna e Crivelli, mentre singoli frutti simbolici trovavano posto sulle balaustre delle Madonne del Bellini. Poi giunsero gli studi sulla natura di Leonardo, i brani naturali dei suoi seguaci, il peltro ricolmo di pomi del Moretto ai piedi della Vergine e, poco a poco, la Natura si riappropriò, dopo la parentesi medievale, di un suo spazio nella pittura italiana. Nel tardo Cinquecento in Lombardia, mentre Caravaggio si formava a Milano, un interessante crogiolo di artisti, ognuno con una propria, originale personalità, creò quel terreno fertile che porterà alla nascita definitiva del nuovo genere pittorico della natura morta: Vincenzo Campi, influenzato dalla pittura fiamminga, dipinse le sue scene di genere, Arcimboldo inventò le «teste reversibili» (ceste ricolme di verdure che, ruotati di 180 gradi, acquistavano le ben note fattezze umane), Jan Brueghel dipinse microscopie floreali, Ambrogio Figino creò il Piatto con pesche, mentre i giovani Fede
Galizia e Panfilo Nuvolone svolgevano il loro tirocinio. Quando Caravaggio arrivò a Roma, forte di questo bagaglio culturale, dipinse la Canestra, realizzando quella che Zeri ha definito la «pietra miliare del genere della natura morta, punto di arrivo di un’elaborazione già secolare, punto di partenza del nuovo corso moderno.» Da quel momento in poi la natura morta italiana si declinò in mille interpretazioni: memento mori con clessidre, teschi e orologi a ricordarci che tutto è fugace, tavole ricolme di frutti, pesci, cacciagioni, vasi di fiori o strumenti musicali. Così gli oggetti diventarono protagonisti, scardinando definitivamente la visione antropocentrica del Rinascimento. Con la nascita del nuovo genere pittorico, l’arte ridimensionava la sua funzione rappresentativa e celebrativa per diventare intimità: il cuore dell’uomo instaura ora un dialogo interiore con gli oggetti dipinti, affidando loro sentimenti, segreti e desideri. Vi è inoltre un preludio dell’idea dell’arte fine a se stessa, dell’arte per l’arte. Il pittore sente il fascino della forma e cerca di carpirla, di interpretarla, alla ricerca della composizione perfetta, lasciando che il silenzio s’insinui nel dipinto, per trasformarsi in silenzio eloquente, e prova a cogliere la perfezione della natura, sottraendola al suo inevitabile deterioramento. Stupisce che ogni artista, dipingendo semplicemente frutta e oggetti, riesca a interpretare il tempo e il luogo in cui vive, restituendoci l’anima del suo mondo. Riusciremo ancora noi, abitanti di un mondo globalizzato, assuefatti all’abbondanza di cibi perfetti, e ormai ignari di quali siano i frutti di stagione, a intuire il vero senso delle nature morte? Saremo in grado di capire il profondo desiderio che un dipinto pieno di frutti maturi e rigogliosi sapeva suscitare in un uomo del XVII secolo?
Anonimo Lombardo Attivo in Lombardia tra il 1620 e il 1630
Mele e uva in una coppa, fiori in un vaso, cedri, melograni, limoni verdi e insetti olio su tela, cm 65 x 93
Seppur nella ricchezza degli elementi compositivi, il carattere asciutto e sobrio di questa raffinatissima natura morta, ahimè ancora anonima, ci riporta alla Lombardia di inizio Seicento. Al centro spicca una crespina in maiolica di Faenza ricolma di mele, melograni e uva, la cui immacolata bianchezza viene esaltata dai colori caldi dei frutti e dai bruni dello sfondo. Sui lati ci sono altre due composizioni dai dettagli minuti. A destra un vaso con umili fiori di campo nel cui vetro verde si riflette, con un realismo di sapore fiammingo, una finestra piombata. A sinistra uno still life da set fotografico, come un piccolo quadro nel quadro, dalla modernità sorprendente: un cedro, un limone e un melograno sono accarezzati da una luce radente che, esaltando la ruvidità delle bucce, le rende tangibili. Un divertente gioco di confronti si può fare tra questa tela e quella del Cavarozzi riprodotta nella pagina seguente. Stesso sfondo bruno, frutti simili, insetti che con i loro sfarfallii e i loro graziosi balletti animano la scena. La prima, seppur ricca, è sobria e misurata, mentre l’altra ha un’esuberanza sensuale e barocca di spirito romano. Questi due dipinti, simili negli elementi ma diversi nell’animo, rappresentano egregiamente il carattere delle terre che li hanno generati.
Bartolomeo Cavarozzi Viterbo, 1587 – Roma, 1625
Canestra di frutta olio su tela, cm 51 x 67
«In questa notevole canestra di frutta sarà da riconoscere un altro esito di Bartolomeo Cavarozzi nel settore delle nature morte autonome. Da diversi anni ho formulato l’ipotesi che il grande pittore viterbese abbia eseguito anche nature morte prive di figure e che a lui spettino alcuni dipinti che avevano fatto parte del corpus dell’anonimo Maestro dell’Acquavella. Cavarozzi sarà dunque da considerare come il più grande autore di nature morte dell’ambito caravaggesco.» (Gianni Papi) Il modo in cui Cavarozzi sa dipingere la luce per modellare le forme della natura è unico e magistrale. La sua luce radente, dai chiaroscuri intensi è una luce che fa brillare i colori rendendoli squillanti, puri, audaci, mai cupi. I neri non sono assoluti e le ombre, profonde ma mai drammatiche, giocano su sfumature grigio-blu. Alcuni dei frutti che strabordano dal cesto sono ancora integri con le loro bucce lucide, quasi provocanti nella loro rigogliosità, altri invece sono aperti, come spaccati dall’eccessiva esposizione al sole, ed esibiscono sensualmente la propria polpa. Le foglie dalla lucentezza argentea si stagliano in tutta la loro bellezza sullo sfondo bruno.
Panfilo Nuvolone (attribuito a) Cremona, 1581 – Milano, 1651
Le tre fasi della vita olio su tela, cm 98 x 150
Questa grande vanitas è un gioco intellettuale destinato a una committenza maschile colta, dal gusto raffinato, in cui occhi e mente sono invitati a collaborare per coglierne il messaggio celato. Una chiave di lettura potrebbe essere questa: i tre diversi tavoli rappresentano tre fasi della vita di un nobiluomo. Il tavolo ricoperto da una tovaglia in damasco rosso con la frutta fresca, la brocca ricolma d’acqua e i fiori ancora in boccio, è un inno alla vita e rappresenta gli agi e la freschezza della giovinezza. Su esso è però posto un segno del tempo che passa: un orologio con una bussola che vuole indicare la via da seguire. Il secondo piano rappresenta la maturità di un nobiluomo adulto. Sul tavolo in legno massiccio sono appoggiati gli oggetti della quotidianità: la cacciagione, la pipa, le carte da gioco e un bellissimo esemplare di pistola. Poi un secondo segno del tempo che passa: una miccia accesa che, rapidamente e inesorabilmente, si consuma. Infine il terzo ripiano in pietra: un vero e proprio memento mori che rimanda alle pietre tombali. Su esso giacciono esanimi alcuni uccelli, un arancio avvizzito, delle noci marce e un violino appoggiato sul proprio archetto, simbolo per eccellenza del trapasso. Un silenzio intenso avvolge tutta la composizione e invita alla meditazione.
Famiglia Stanchi Attivi a Roma nel XVII secolo
Cascata di uva, frutta, sedano e fringuelli con basamento di pietra olio su tela, cm 100 x 75
La bottega della famiglia Stanchi, composta dai tre fratelli Giovanni (Roma, 1608-1678), Niccolò (Roma, 1623-1690) e Angelo (Roma, 16261673), era tra le più accreditate nel genere della natura morta nella Roma barocca seicentesca. Inizialmente Giovanni lavorò in modo autonomo, ma dal 1640 Niccolò, e in seguito Angelo, cominciarono a collaborare con lui. Da quella data in poi diventa quasi impossibile distinguere le singole mani. «Queste considerazioni, datando l’opera in esame non prima del quarto decennio del Seicento, per tratto e per materia, prevedono di accreditare la tela all’operare congiunto di Giovanni e Niccolò, riconoscendo che, come logico nelle botteghe, spetti al maggiore dei due l’impaginazione della scena.» (Maria Silvia Proni) Una rigogliosa composizione di frutta è letteralmente «messa in scena» in una cascata cromatica accesa e ricca di riverberi verdi e vermigli. In un luminoso e terso paesaggio è inserito un basamento in pietra aggettante, una sorta di altare, su cui viene offerto allo sguardo in un ricco cesto di frutta. Dietro a esso rigogliosi pampini di vite, da cui pendono cangianti grappoli d’uva nera, creano una sorta di tendaggio botanico. Ogni valenza simbolica, religiosa o stagionale cede il passo alla resa naturalistica e atmosferica dalla grande intensità emotiva.
Mario Nuzzi detto Mario de’ Fiori Roma, 1603 – 1673
Vaso di fiori su basamento di pietra olio su tela, cm 70,5 x 61
Il giardino di Penna in Teverina in cui crebbe Mario Nuzzi era famoso per la varietà e la bellezza dei fiori che vi crescevano. Il padre di Mario era infatti un collezionista e cultore di fiori rari, tale da poter approvvigionare i più esclusivi giardinieri romani. Il piccolo Mario passava le ore nel giardino ad aiutare e a ritrarre le diverse varietà floreali. Il padre, constatando il suo talento pittorico, decise di mandarlo a bottega a Roma presso lo zio, il pittore caravaggesco Tommaso Salini. In questo bouquet, presentato su un basamento di pietra, luci e ombre donano vita e drammaticità ai fiori rendendoli quasi dei personaggi. La fitta composizione di rose, narcisi gialli e a tazetta, giacinti, anemoni, gelsomini, garofani e, in alto, una passiflora, non impedisce la chiara leggibilità di ogni dettaglio. Un caldo fascio di luce, cadendo in diagonale dall’alto verso il basso, illumina lo sfondo bruno e rivela una reminiscenza caravaggesca. Mario Nuzzi, detto Mario de’ Fiori, mostra nelle composizioni floreali la sua adesione al Barocco. In esse regna un’atmosfera raffinata e introspettiva caratterizzata però da uno stile fastoso e libero.
Simone del Tintore Lucca, 1630 – 1708
Vaso con rami di castagno, frutta, fiori e funghi olio su tela, cm 72 x 93
In questa bella natura morta si ritrovano alcuni motivi tipici di Simone del Tintore: funghi di ogni genere e specie, foglie di ogni sfumatura di verde, dal chiaro e tenero al cupo e profondo. Altri elementi invece sono nuovi all’interno del linguaggio artistico del pittore lucchese, come ad esempio il vaso bianco e dorato o i rami di castagno. Il primo, posto sulla destra, compensa con la sua luminosità i bagliori creati dal frutto posto al centro della tela o generati dai petali dei fiori e dalle cappelle dei porcini riverse sulla sinistra. Sullo sfondo bruno si stagliano due rami di castagno dalle lunghe foglie vibranti, espressive, che paiono animati e donano vitalità a tutta la composizione. Vi sono ancora attaccati i ricci, che lasciano intravedere dalle loro spaccature le lucide bucce delle castagne. La composizione riesce in modo suggestivo a dar voce pittoricamente all’autunno, raccontando tutta la dolcezza della sua malinconica bellezza.
«Si dice che Parrasio sia venuto in competizione con Zeusi, il quale presentò un dipinto raffigurante acini d’uva: erano riusciti così bene, che alcuni uccelli volarono fin sulla scena. Lo stesso Parrasio, a sua volta, dipinse un drappo, ed era così realistico che Zeusi – insuperbito dal giudizio degli uccelli – lo sollecitò a rimuoverlo, in modo che si potesse vedere il quadro. Ma non appena si accorse del suo errore, con una modestia che rivelava un nobile sentire, Zeusi ammise che il premio l’aveva meritato Parrasio. Se infatti Zeusi era stato in grado di ingannare gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui, un artista.» Plinio il Vecchio Storia Naturale, XXXV 65-66
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