Il coraggio e la generosità delle ‘portatrici carniche’ sono già stati evidenziati nelle pagine 25-26 e ora vengono riproposti per farci conoscere la figura di Rosa Tolazzo di Treppo Carnico, una delle ‘portatrici’ trasferitasi a Santa Lucia dopo il matrimonio.
La Rosa Ciarniela, una ‘portatrice carnica’ La straordinaria vicenda delle ‘portatrici carniche’ si colloca nella storia della prima guerra mondiale come fatto unico, forse, nella storia dei conflitti armati. Esse operarono dall’agosto 1915 all’ottobre 1917 sul fronte carnico. Per meglio inquadrare l’attività di queste donne eccezionali, giova conoscere i compiti dell’Esercito italiano che era contrapposto a quello austriaco dallo Stelvio al mare. Grande importanza era attribuita al fronte carnico, perché costituiva l’anello di congiunzione tra le armate schierate alla sua sinistra (in Cadore e attorno al Trentino) e quelle alla sua destra (nelle Prealpi Giulie e sul Carso): soprattutto rappresentava, per il nemico, la chiusura della via del Passo di Monte Croce Carnico e del Fella. Quindi la preziosa opera delle ‘portatrici carniche’ aveva un’ampiezza frontale di 16 km. Era una «linea calda»: lo dimostra il fatto che dopo soli quaranta giorni dall’inizio della guerra viene conferita all’8° Reggimento Alpini la Medaglia d’Argento al Valore Militare. Ma i soldati, per vivere e combattere nelle migliori condizioni di efficienza materiale e morale, dovevano essere vettovagliati ogni giorno e riforniti di munizioni, medicinali, materiali di rafforzamento per le postazioni e attrezzi di vario tipo. Dal fondo della valle, dove erano dislocati i magazzini e i depositi militari, fino alla linea del fronte, non esistevano percorsi che consentissero il transito di automezzi e di carri a traino animale: si potevano seguire a piedi solo piste, sentieri e qualche mulattiera. Ogni rifornimento ai reparti schierati a difesa del confine doveva perciò avvenire col trasporto a spalla; per effettuarlo non si potevano sottrarre militari alla prima linea senza ridurre l’efficienza 11°
Rosa Tolazzo in veste giovanile.
Rosa con il marito Giacomo Gislon.
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Un dolce profilo di Rosa in età avanzata.
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operativa delle varie unità soprattutto d’inverno. Il Comando Logistico della zona e quello del Genio furono costretti a chiedere il concorso della popolazione, ma gli uomini validi erano tutti alle armi e nelle case erano rimasti solo gli anziani, i bambini e le donne, le quali, avvertendo la gravità della situazione, non esitarono a mettersi a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla loro stesse quanto occorreva agli uomini della Prima linea. «Andiamo, sennò quei poveretti muoiono anche di fame». Abituate da secoli ad una pesante fatica per l’estrema povertà, queste donne indossarono la gerla di casa, per portarla questa volta al servizio della Patria. Solo che invece di riempirla di granoturco, patate e fieno necessari alla casa e alla stalla, con uno slancio generoso le riempirono di granate, cartucce, viveri ed altro materiale, col peso di 3040 chili e oltre. In breve tempo si costituì un vero e proprio Corpo di Ausiliarie formato da donne dai 15 ai 60 anni di età. Venivano dotate di un apposito bracciale rosso con stampigliato il numero del reparto da cui dipendevano. Nei casi di particolare necessità potevano essere chiamate in ogni ora del giorno e della notte, erano compensate con una lira e 50 centesimi, circa 3 euro attuali.
lettere dal fronte DAGLI ARCHIVI PRIVATI...
Cartolina postale, datata 22 gennaio 1919, firmata dal soldato Gio Maria Angelin e indirizzata al padre Giuseppe Angelin Pelat, annunciando la sua liberazione dalla prigionia (proprietà Luciano Angelin).
Fatto il carico della gerla, partivano a gruppi di 1520 senza guide, imponendosi loro stesse una disciplina di marcia; dovevano superare dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri. Giunte a destinazione, curve sotto il peso della gerla, con disumana fatica specie d’inverno con la neve fino alle ginocchia, scaricavano il materiale, portavano agli Alpini anche le novità del paese e magari la biancheria pulita, ritirata da lavare nei giorni precedenti. Al ritorno in famiglia, le attendevano gli anziani, i bambini, il governo della casa e della stalla. Qualche volta, nel viaggio di ritorno, trasportavano a valle in barella militari feriti o caduti in combattimento. Una piccola parte di ‘portatrici’ fu anche dislocata permanentemente, alloggiata in baracche poco dietro il fronte, a disposizione del Genio militare, per il trasporto dei materiali, pietrisco, lastre, cemento, legname, necessari alla costruzione di ricoveri e al consolidamento di mulattiere e sentieri. La loro opera non era certo priva di rischi e pericoli. Una di loro, Maria Plozner Metil, giovane madre di 32 anni, fu ferita mortalmente da un cecchino austriaco: a lei, unica donna, è intitolata la caserma degli Alpini di Paluzza. Nel 1992 fu inaugurato il monumento alla povera donna e alle ‘portatrici’,
sempre a Paluzza. Nel 1969 fu concessa la Medaglia d’oro al ricordo, l’onorificenza di ‘Cavalieri di Vittorio Veneto’ e un assegno annuo vitalizio di L.60.000, poi portato a 150.000 lire. Tra queste gloriose donne ci fu Rosa Tolazzo di Treppo Carnico, paese collocato tra Paularo e Paluzza, dove era nata nel 1898. Era venuta a vivere a Santa Lucia sposando Giacomo Gislon. Abitava in quella strada che porta alla chiesetta al colle e che chiamiamo il ‘Ghetto’. Ricordiamo con affetto la sua cordialità e la sua solarità, il suo sguardo acuto e vivace suscitava un’immediata simpatia appena la incontravi. Ricordava e parlava volentieri del suo passato da portatrice, mai con ostentazione o vanto, ma come momento della sua vita di ragazza. Guardando una foto d’epoca, si vedono alcune donne che, con la gerla in spalla, nel tempo, facevano calzini coi ferri. Ecco, Rosa Cjarnela me ne aveva fatti un paio per mia figlia Giovanna quando era appena nata. Ovviamente li conservo come un religioso ricordo. Ora noi siamo fieri di lei, io, in particolare, perché mi mandava a salutare dicendo «dica la sua amica del ghetto!».
voLanTInI InfoRmaTIvI pLuRILInguE dIffuSI TRa I SoLdaTI auSTRo-ungaRICI L’avviso, datato ‘Pordenone 5 marzo 1918’ e diffuso nei nostri paesi, riguarda la severa proibizione di tenere piccioni per timore che i volatili fossero usati a scopi comunicativi, pena punita con pene severe. Durante il conflitto mondiale, infatti, i colombi viaggiatori misero in evidenza le loro qualità ed ebbero un ruolo fondamentale nelle sorti della prima Guerra Mondiale. In Italia, un utilizzo esteso di questo mezzo di comunicazione si ebbe solo a partire dal 1917, lungo tutto il fronte. Grazie ad essi il servizio di collegamento tra la prima linea e la zona arretrata fu sempre garantito, specialmente quando i mezzi di comunicazione dell’epoca erano messi fuori uso dal nemico o dalle intemperie. Il piccione viaggiatore fu impiegato da quasi tutti gli eserciti del mondo.
LEONTINA BUSETTI
Foto-cartolina. Un gruppo di soldati ritratti accanto ad un’enorme granata (proprietà Luciano Angelin). (Archivio storico Giovanni Bufalo).
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L’aRTIgIanaTo dI TRInCEa I soldati in trincea raccoglievano nei campi di battaglia il metallo bellico, che riadattavano e incidevano, realizzando ogni sorta di oggetti utili: dagli accendini agli strumenti musicali... alla bottiglia dell’acqua calda, come quella rappresentata a destra nella foto, per riscaldarsi mani o piedi congelati dalle rigide temperature. Granate austro-ungariche di bachilite furono conservate fino ad alcuni decenni fa nelle case e qualcuna di esse continuava ad essere usata nella quotidianità, come la botha de l’aga cialda, conservata nella casa paterna di Carlo Carlon Masoneta, alle Crositole, sede del comando militare austro–ungarico, ed ora esposta insieme con altri resti bellici nello «Chalet Belvedere». Il soldato che l’ideò incise un mazzo di ciclamini per ricordare la bellezza naturale dei monti, in quegli anni devastati dall’orrore e dalla malvagità dell’uomo. Quei combattenti, pur nella terribile sofferenza della guerra di trincea, riuscivano a conservare parte della loro umanità e attraverso la creatività esprimevano sentimenti positivi. Non era raro trovare nelle abitazioni e sugli altari delle chiese anche le granate di ottone, pure queste incise con ornamenti, utilizzate come vasi per i fiori recisi.
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«LE MEMORIE» DI
Antonio Parmesan
La guerra continua e da tutti si sente che l’Austria si trova in brutte condizioni e per questo tutti dicono che in poco tempo deve finire. Da tutti sono conosciuto e benvoluto, mi chiamano per nome e mi fanno qualche piccolo regalo (sigarette, frutti dolci…), sono sempre ben trattato [...], mi considerano un bravo lavoratore. Il 15 ottobre (1918) mi mancano le forze, sto male, cado a terra e la proprietaria dei forni manda a chiamare un medico che abita nella stessa via. In pochi minuti questo arriva, mi trova la febbre, mi dice che per guarire bastano tre o quattro giorni di riposo e mi ordina anche delle polverine, che paga lui stesso e mi regala 20 corone. I contadini mi portano del latte e delle uova, tutti quelli della via si prendono premura di venirmi a trovare e mi portano qualche cosa. Alla sera la mia signora avvisa i miei superiori che sono ammalato e mi tiene in casa sua fino a che sarò completamente guarito. [...] Mi assistono come fratello per cinque giorni. Il primo novembre ritorno al lavoro, ma lungo la strada trovo un movimento insolito, vedo una grande confusione di soldati che se ne vanno per conto loro alle loro famiglie. Un soldato austriaco mi informa e mi dice queste parole: «Italiani, Italia, soldati austriaci tutti casa sua, Italia vinto Trieste, Italiani niente più prigionieri, Italiani tutti buoni amici». [...] La guerra era finita con una grande Vittoria Italiana. Oggi il lavoro resta sospeso, tutto il popolo si trova in rivoluzione, vedo molti uomini armati con fucile che saccheggiano negozi e magazzini. Alla sera ritorno dai miei compagni e sento che già alcuni erano partiti per ritornare in Italia. Il giorno 2 si sentono le mitragliatrici che sparano per le vie della città. Noi prigionieri abbiamo tanta paura e non si sa la nostra sorte. Varie persone entrano nel nostro alloggio e gridano ad alta voce, ma ci baciano, ci stringono tra le braccia. Uno con voce alta pronuncia queste parole:«Italiani, voi da questo momento non siete più prigionieri, siete liberi cittadini dell’Italia, siamo amici e con voi Italiani siamo fratelli, potete andare liberamente alle vostre case. L’Austria non esiste più, tutto il suo popolo
la cronologia 1918
si trova in rivoluzione e i soldati abbandonano le armi. Voi italiani potete liberamente camminare per la Città». Siamo contenti e usciamo per le vie, raggiungo i forni e vado a salutare la mia Signora e tutti coloro che furono buoni con me e tanto premurosi. Tutti avevano deciso di partire per l’Italia, ma all’interno dell’Austria era molto pericoloso girare per la grande rivoluzione. Il giorno 3 novembre quasi tutti erano partiti, anche noi, che siamo cinque amici inseparabili, andiamo alla stazione ma c’è troppa confusione e nessuno può partire. Decidiamo di rimanere uniti e di aiutarci durante il viaggio [...], le mitragliatrici intanto sparano. All’una di notte sentiamo che un treno parte per Vienna ma è già tutto occupato. Molta gente si trova sul coperto del treno, cerchiamo anche noi un posto. Io mi siedo a cavallo di un repulsore della macchina e vicino a me ci sono i miei compagni. Solo alle sei del mattino il treno parte e dopo sei ore arriviamo a Cracovia e qui si cambia treno e direttamente si riparte per Vienna, dove si arriva alle undici di notte. Alle cinque del mattino si parte con un treno merci e fa molto freddo, dopo qualche stazione si cambia treno e possiamo entrare in seconda classe, dove posso dormire qualche ora, ma quando mi sveglio vedo che siamo ancora fermi. Il treno parte alle tre del pomeriggio e ci porta a Lubiana, qui troviamo i bersaglieri italiani che avevano occupato la città. Si piange di gioia nel vederli. Ci dicono che anche la Germania domandava l’armistizio. Molti ufficiali italiani entrano nelle vetture e chiedono come è stata la prigionia. Sono quattro giorni che non mangiamo [...]. Tutti chiedono del pane. Durante la prigionia io fui tra i più fortunati, perché continuamente occupai posti buonissimi e con questo trovai continuamente il modo di sfamarmi, ma molti e molti soffrirono la fame, i patimenti e le torture. Ora che in Italia siamo tornati è finito il nostro soffrire ma in eterno ricorderemo i patimenti, le torture, la fame [...]. Il giorno 9 poco prima di mezzogiorno arrivo a Miramare; il treno si ferma e a piedi andiamo a Monfalcone. Io sono sempre assieme ai miei quattro compagni. Lì arriviamo a sera tarda e troviamo altri prigionieri e con loro veniamo rinchiusi in una casa, sorvegliati dai carabinieri, perché il mattino seguente si doveva partire tutti per un luogo di concentramento [...] Noi non vogliamo essere internati in Italia. La mattina seguente si comincia a camminare scortati dai carabinieri, ma noi cinque fuggiamo per una strada campestre
e andiamo verso Palmanova e lì troviamo alloggio in una stalla, mentre gli altri procedono verso Latisana. Il mattino dell’11, arriviamo a Codroipo e uniti ad altri prigionieri andiamo verso Casarsa. Passato il Tagliamento, troviamo il modo di fuggire nuovamente; arriviamo a Casarsa e passiamo la notte in una casa. Alle 6 del 12 novembre si parte per Pordenone. Anche qui i prigionieri provenienti dall’Austria sono molti e tutti veniamo rinchiusi in un giardino e ben circondati dalle sentinelle. Non mi perdo di coraggio e a tutti i costi devo andare a vedere in che condizioni si trova la mia famiglia. Mi presento ad una sentinella e domando se per favore mi lascia bere alla fontana vicina e attendo il momento favorevole per scappare. Attraverso orti e prati raggiungo la Comina e sono contento perché tra poche ore vedrò la mia famiglia. Sulla mia stessa strada vedo due donne e in pochi passi le raggiungo. Una è mia cugina Luigia Ianna detta Simon e l’altra è sua cognata; loro mi riconoscono e mi offrono della polenta e chiedo notizie della mia famiglia che gode ottima salute. Nonostante fossi stanco, la strada mi vola sotto i piedi, saluto le due donne e cammino veloce, poi trovo un camion e con questo arrivo al Campo d’aviazione di Aviano; continuo a piedi verso Villotta e la strada per Castello d’Aviano e su verso Dardago. Entro in casa di mia sorella Anna [...] e la trovo insieme con i suoi figli, bacio lei e i miei nipotini e chiedo di mio cognato Sante, anche lui prigioniero. Mia sorella manda la Sunta per avvisare la famiglia del mio arrivo. Vedo che dal portone di casa mia esce mio cognato Antonio Moro con il mio Chechi in braccio e dietro di lui c’è mia moglie con la mia Rosina. Le gambe mi tremano, li bacio tutti ma non trovo la forza di parlare. Non mi sembra vero di trovarmi nella mia famiglia. Mia madre è al pascolo con l’armenta, mentre mio padre si trova profugo ma non so dove. Il 18 novembre arriva il parroco don Romano Zambon per riferire che aveva ricevuto notizie di mio padre. Tutti i giorni arriva qualcuno che ritorna dalla prigionia con qualche breve licenza.
6-7 settembre armistizio tra Imperi centrali e U.S.A. 29 settembre e 30 ottobre Si arrendono rispettivamente Bulgaria e Turchia. 18 ottobre Il generale Armando Diaz decide un’offensiva, ma per il cattivo tempo la battaglia viene posticipata. 24 ottobre Inizia l’offensiva sul fronte del Piave, a un anno esatto da Caporetto. Il coraggio e l’abnegazione dei nostri soldati fanno sperare nell’inizio di una grande svolta. Sono giorni di dura battaglia, ma sulle acque del fiume, denominato poi «sacro alla Patria», si gioca la sorte del nostro Paese. 26 ottobre Nella notte si costruiscono alcuni ponti che consentono di attaccare Valdobbiadene, Falzè e Cimadolmo. Nello stesso giorno, tre ponti permettono il passaggio degli italiani e degli inglesi nei pressi di Papadopoli. 27 ottobre L’Austria offre all’Italia possibilità di pace separata. 28 ottobre Le truppe alleate superano il Piave. 30 ottobre Tutto il fronte delle Alpi è in movimento. L’Esercito italiano sfonda sul Grappa. Segue la vittoria italiana al Piave e a Vittorio Veneto. 31 ottobre Con il ritiro degli austriaci anche dal Grappa, si consentono la liberazione di Feltre e l’inseguimento dei nemici in ritirata verso Belluno e il Trentino. In pianura, con il passaggio del ponte della Priula si è aperta la via verso i territori perduti nel 1917. Recando bandiera bianca, il generale delle forze nemiche si presenta al generale Diaz per la richiesta di armistizio. Gli austriaci prigionieri sono 400. 000 in pochi giorni.
[CONTINUA]
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1918 3 novembre L’armistizio viene firmato a Villa Giusti, presso Padova. 4 novembre Le ostilità cessano alle ore 15.00 e la lunga ed estenuante guerra è finita. Trento e Trieste sono ‘redente’. Il Bollettino numero 1268 diffonde il testo dell’armistizio che resterà nella storia: «La guerra contro L’Austria–Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re duce supremo, l’Esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta e asprissima per 41 mesi, è vinta. L’Esercito austro–ungarico è annientato; esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza». La guerra è vinta ma lascia solo distruzione e 600.000 morti.
i nostri eroi
la cronologia
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Giovanni risulta essere un soldato del 2° Reggimento Artiglieria da Campagna disperso in combattimento il 1° ottobre 1917, sul Monte Nero. Non si riesce a capire come un soldato italiano che combatteva nel Carso, sia portato in un ospedale militare francese e, oltretutto, nell’estremo nord della Francia! Suona strano anche il 58° Battaglione (in un Reggimento i battaglioni sono molto meno di 58) Molto più verosimile sarebbe la morte sul Monte Nero il 1 ottobre 1917.
Lorenzo umberto Lachin terzogenito di Pietro e di Favret Rosa, nasce il 30 maggio 1896, a Santa Lucia. *** È arruolato nel 34° Reggimento Fanteria con il grado di soldato. Muore per malattia, a Roma, il 2 ottobre 1918.
6 novembre Gli Italiani entrano a Bolzano. 17 novembre Gli Italiani entrano a Fiume. 24 novembre Il Parlamento celebra l’evento con le parole di Orlando: «L’Italia è compiuta. Il grido di dolore dell’Italia intera è soddisfatto. Nessun piede straniero calpesterà più il Trentino nostro, Trieste figlia di Roma, né altra nostra terra». La linea del nuovo confine è quella fissata il 26 aprile 1915 dal Patto di Londra, stipulato tra il governo italiano e i rappresentanti della Triplice Intesa: dal Giogo di Santa Maria o Passo dell’Umbrail, a nord dello Stelvio, lungo le Alpi Retiche, fino alle sorgenti dei fiumi Isarco, al Brennero, e Adige presso il Passo Resia nell’Alta Val Venosta procedendo verso la Sella di Dobbiaco; lungo gli spartiacque delle Alpi Carniche, fino a Tarvisio, e delle Alpi Giulie fino al passo Podbrdo e Idria; a sud– est verso Monte Nevoso fino al Golfo del Quarnaro; infine, la provincia di Dalmazia.
agostino vettor di Luigi e di Zambon Rosa nasce a Dardago, il 10 aprile 1896. Di professione cameriere. *** Arruolato nel 50° Reggimento Fanteria con il grado di soldato. Muore per malattia nell’Ospedale di guerra n° 51, il 10 ottobre 1918.
giovanni del maschio di Giuseppe e di Signora Vincenza nasce l’11 febbraio 1897, in Budoia. Di professione calzolaio. *** Arruolato nel 2° Reggimento Artiglieria 58° Battaglione con il grado di soldato. Come riporta la documentazione inserita nel Registro dei Morti della Parrocchia di Budoia, muore di polmonite il 2 ottobre 1918 nell’ospedale militare di Hautmont, nella regione francese del Nord-Passo di Callais, ed è sepolto nel cimitero della città, nella Tomba n° 567. L’avviso di morte è firmato dal Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Gasparri, in data 6 agosto 1919, ma la comunicazione giunge in parrocchia soltanto l’11 aprile 1921. Risulta diversa la documentazione riportata nell’Albo d’Oro dei Caduti:
giovanni angelin quintogenito di GioBatta e di Carlon Angela, nasce il 1° luglio 1887 (Parrocchia di Budoia, Registro Battesimi). Ammogliato con Giovanna Panizzut, sposata il 22 gennaio 1913, la coppia
ha due figli: Luigi Giobatta, nato il 20 agosto 1914, e Santa, nata il 24 ottobre 1915. *** È arruolato nel 127° Reggimento Fanteria – 2a Sezione Lancia Torpedinieri con il grado di soldato. Muore in seguito a polmonite all’età di trentuno anni, il 19 novembre 1918, all’Ospedale di Guarnigione di Trieste e sepolto nel Cimitero Militare della medesima città.
È arruolato nel 40° Colonna Salmeria e Carreggio con il grado di sergente. Muore a 37 anni per broncopolmonite da influenza, nell’Ospedaletto da Campo 178 a Trieste, il 6 dicembre 1918, ed ivi viene sepolto.
degli eventi bellici. Sin dal 1916 appare evidente che il nemico più insidioso si chiama colera o malaria e la truppa è colpita in modo massiccio tanto da rendere arduo portare avanti azioni con truppe sufficienti. Giovanni Battista, promosso sergente il 9 febbraio 1917, muore a conflitto concluso, il 27 dicembre 1918, all’età di trentaquattro anni per broncopolmonite influenzale nell’infermeria del 3° Battaglione in Zemonico, in Dalmazia, durante il ritorno in Patria. Viene sepolto nel Cimitero del Convento dei Trappisti della stessa città, lontano dai suoi affetti, lasciando nel lutto la povera madre Rosa alla quale nel frattempo muore pure il marito.
giuseppe Bocus Dolfin secondogenito di Celeste e di Busetti Maria, nasce il 15 agosto 1893 in Dardago. Celibe, di professione studente.
antonio matteo Carlon Saccon antonio osvaldo Zambon Pala di Giobatta e di Ianna Caterina nasce il 19 maggio 1893. *** Arruolato nel 2° Reggimento Artiglieria di Montagna con il grado di soldato. Muore per ferite riportate in combattimento, nell’Ambulanza Chirurgica d’Armata n° 4, il 27 ottobre 1918.
secondogenito di Vittorio Martino e di Burigana Elena Spinel, nasce il 18 maggio 1897, nelle case di via Bianco in Budoia. È celibe. Il padre era carabiniere.
*** Arruolato nel 1131° Compagnia Mitraglieri con il grado di soldato. Muore all’età di 25 anni per broncopolmonite influenzale per fatto di guerra, nell’Ospedaletto da Campo 107, il 27 ottobre 1918.
*** Giovanni Battista aveva svolto il periodo di leva al 93° Reggimento Fanteria in Udine dal 1° gennaio 1905 al 4 settembre 1906. In tale occasione ricevette un encomio semplice dal Ministero della Guerra con la seguente motivazione: Per l’opera prestata in occasione del terremoto in Calabria, per aver mantenuto salda la disciplina e per essersi distinto per attività, buon volere, energia, con plauso dei cittadini di Orviesti, San Marco Argentano, Castrolibero e Lucido in provincia di Cosenza. Non è presente nell’Albo d’Oro dei Caduti.
*** È arruolato nel 387° Plotone Autonomo Carabinieri Reali con il grado di Carabiniere a piedi, numero di matricola 14318. Muore a ventuno anni per bronco-polmonite, il 26 ottobre 1918, a Donada, nel Rodigino, e ivi viene sepolto.
giovanni Cadinaro di Domenico e di Signora Maria nasce il 26 settembre 1893, a Budoia. *** Non si conosce il reggimento di appartenenza. Il suo nome appare nel Monumento ai Caduti del capoluogo. Muore di «broncopolmonite» in casa, l’8 ottobre 1918, e il 9 si svolgono le esequie.
antonio Ianna Moro di Felice e di Carlon Luigia nasce il 13 giugno 1881 in Budoia. Sposa Luigia Carlon di Vincenzo il 22 gennaio 1906 e dalla loro unione nasce Antonia Amalia, il 3 luglio 1912.
giacomo angelin Tonela Morto 10 dicembre 1918. (cfr. articolo di Adelina Ariet). Non è presente nell’Albo d’Oro dei Caduti.
giovanni Battista angelin penultimo dei dieci figli di Sebastiano e di Zambon Rosa, nasce il 13 febbraio 1884 a Budoia. L’8 gennaio 1913, sposa Teresa Sanson che muore il 15 settembre 1916, dopo aver dato alla luce Maria Santa Rosa, il 1° maggio dello stesso anno. In due anni la piccolina rimane orfana di ambeduei i genitori. *** Chiamato alle armi per mobilitazione il 10 ottobre 1915 al 38° Rgt Fanteria. È arruolato con il numero di matricola 29139, nel 16° Reggimento Fanteria 640 Compagnia, che viene impiegato in Albania, dal 23 novembre 1915 fino alla conclusione
Cornelio Zambon Marin di Romolo e di Besa Angela nasce l’8 agosto 1892 . Di professione muratore. *** Arruolato nell’ 8° Reggimento Alpini con il grado di soldato. Muore per malattia, a Modena, il 13 dicembre 1918. È sepolto nel cimitero della città emiliana.
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I mIEI CaRI nonnI, SaCRIfICaTI pER La paTRIa A CURA DI ADELINA ARIET CON IL FIGLIO VLADI DE NADAI
La tragedia della Grande Guerra mi privò dei miei nonni, sia quello materno sia quello paterno. Entrambi morirono a conclusione della guerra, il primo nel mese successivo e l’altro cinque anni dopo. Anche dopo cent’anni noi nipoti ricordiamo questi avi che si sono sacrificati per la Patria.
il 25 giugno 1885 a Budoia, nella casa di via Casale. Sposò Maria Del Maschio ed ebbe tre figlie, Maria, Lucia e Regina. Durante la Grande Guerra fu fatto prigioniero e deportato in Prussia. Morì a trentatré anni a Vicenza il 10 dicembre 1918 in seguito alle ferite riportate in battaglia. Nonna Maria rimase vedova con le bimbe piccole da allevare.
giacomo angelin Tonela quartogenito di nove figli di Antonio e di Zambon Maria, nacque
giuseppe ariet figlio di Giobatta di Matteo e di Panizzut Luigia, nacque il 25 gennaio1881. Fu sposato con Maria Gislon di Santa Lucia di Budoia che gli diede sei figli: Matteo, Giuseppe, Luigia, Giovanni, Italia e Rosina. All’inizio del Novecento, nonno Giuseppe emigrò come scalpellino a Chàteau des Pres, nel Di-
partimento francese di Giura nella regione della Borgogna-Franca Contea. A trentaquattro anni fu chiamato alle armi. Ferito gravemente in battaglia, rimase paralizzato agli arti inferiori e costretto all’uso della sedia a ruote fino al termine della sua esistenza, avvenuta a 42 anni dopo atroci dolori, il 15 gennaio 1923 nella casa paterna di via Panizzut. «Solenne è il funerale», annotava il curato don Pietro Corona nel Registro dei Morti. I nipoti lo ricordano con grande affetto.
La nonna Maria Del Maschio da giovane.
Il nonno Giacomo con uno dei quattro fratelli. I nomi dei fratelli: Lorenzo, Angelo, Giuseppe Tommaso, pure lui arruolato in guerra, e Pietro.
Giuseppe Ariet con la moglie Maria Gislon e la piccola «Luiseta» (Luigia), in Francia, nel 1913.
Giuseppe Ariet a Chàteau des Pres durante il lavoro di scalpellino.
La foto-cartolina era stata indirizzata al «compare» Giovanni Panizzutti che lavorava a Venezia e dimorava in Crosera San Pantalon, nella Calle dei Preti.