ASA Magazine Anno 1 – Numero 2 – Novembre 2017 – Rivista bimestrale
LA RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE STAMPA AGROALIMENTARE ITALIANA Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 – Tutti i diritti riservati – Dir. Resp. Roberto Rabachino
Inchiesta
BIO: Chi sono i primi della classe? Una statistica molto interessante con la classifica delle città più BIO in Italia
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ASA al servizio della corretta comunicazione
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’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è uno strumento di raccordo e di sintesi, di stimolo e di supporto, di analisi e di costruttiva critica. La nostra mission è offrire supporto e collaborazione a tutti quei giornalisti e/o operatori dell’informazione che hanno nella serietà, nella moralità, nella sensibilità, nel rispetto e della deontologia professionale, le loro principali caratteristiche. Iniziative, progetti, eventi collegati ai nostri associati troveranno il giusto spazio all’interno del nostro sito, nei nostri social, nella nostra rivista e nella nostra newsletter inviata settimanalmente a più di 30.000 iscritti. Sensibile alle tematiche legate alla professionalità degli operatori della comunicazione di settore, ASA è anche uno strumento di formazione per i propri iscritti con un programma di corsi specialistici a loro dedicati in forma gratuita.
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ASA MAGAZINE n. 2 / 2017 – Novembre 2017 – Rivista Bimestrale Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 Direttore Responsabile N. 2 / NOVEMBRE 2017 Rivista Bimestrale
Roberto Rabachino C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 direttore.asamagazine@asa-press.com
Redazione Centrale e Editing
Enza Bettelli C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 redazione.asamagazine@asa-press.com bettelli@asa-press.com
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Comitato di Redazione e Controllo
Roberto Rabachino, Giorgio Colli, Patrizia Rognoni, Riccardo Lagorio e Saverio Scarpino
Hanno collaborato a questo numero
Gudrun Dalla Via, Carlin Petrini, Ufficio Stampa Slow Food, Marcello Masi, Carlo Ravanello, Rosanna Cavaglieri, Gladys Torres Urday, Paolo Alciati, Jimmy Pessina, Saverio Scarpino, Giovanna Turchi Vismara, Enza Bettelli, Alice Lupi, Gianna Bozzali, Silvana Delfuoco, Settimia Ricci, Nicoletta Curradi e Giorgio Colli
Per la fotografia
Jimmy Pessina, Roberto Rabachino, Gladys Torres Urday, Carmen Guerriero, Enza Bettelli e immagini di Redazione
Sommario EDITORIALE Fake News a cura di Roberto Rabachino, Presidente Nazionale ASA
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APPROFONDIMENTO BIO: chi sono i primi della classe? di Gudrun Dalla Via
Un Ministero dell’alimentazione con immediata attivazione di politiche di cooperazione internazionale di Carlin Petrini
Trattato CETA, chi è a favore e chi contro a cura di Roberto Rabachino
La responsabilità del nostro territorio di Marcello Masi
Criteri di riconoscimento e tracciabilità dei prodotti agricoli: perplessità di un Presidente di Commissione di Degustazione di Carlo Ravanello
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BIO Piacere, sono il Microbioma di Gudrun Dalla Via
Volete sapere tutto sul BIO? Allora vi serve una banca dati di Gudrun Dalla Via
Le nuove sfide del biologico di Rosanna Cavaglieri
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TURISMO NAZIONALE L’Italia si conferma leader nel turismo di Gladys Torres Urday
La cucina del ‘600 protagonista in tavola a Foligno: è “Gareggiar de’ Convivi” di Paolo Alciati
L’Arcipelago delle Isole Pelagie: la bianca Lampedusa, la nera Linosa e lo sperduto isolotto di Lampione di Jimmy Pessina
La Maremma, meta per i romantici e i buongustai di Jimmy Pessina
Matera: città da Scoprire di Saverio Scaripino
Prato, una città legata da una Cintola di Giovanna Turchi Vismara
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TURISMO INTERNAZIONALE
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Bora Bora, dove l’acqua è più blu di Jimmy Pessina
Hawaii, l’arcipelago di fuoco di Jimmy Pessina
AGROALIMENTARE NAZIONALE
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Dolce Natale di Enza Bettelli
Taste of Rome, si legge menù si legge sinfonia di Alice Lupi
È il simbolo della Sicilia: il Fico d’India di Gianna Bozzali
Castelmagno: un paese e il suo formaggio di Silvana Delfuoco
La carne d’Asino di Settimia Ricci
AGROALIMENTARE INTERNAZIONALE
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Cheese 2017, Slow Food lancia una rete mondiale per aiutare i produttori di formaggi a latte crudo di Gladys Torres Urday
Caviale da Storione crudo, l’eccellenza che non ti aspetti nel Canton vallese di Nicoletta Curradi
NEWS DALL’ITALIA
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Il concorso miglior sommellier professionista d’Italia ASPI di Nicoletta Curradi
Vinibuoni d’Italia 2018
CURIOSITA’
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Cibo, Fiabe, Streghe e bevande allucinanti di Paolo Alciati
Aspettando l’anno nuovo di Enza Bettelli
Fake News Esistono da sempre ma oggi sono diventate tremendamente ingombranti e pericolose
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l termine inglese “fake news” indica articoli redatti con informazioni inventate o ingannevoli, resi pubblici nell’intento di disinformare attraverso i mezzi di informazione tradizionali, sia cartaceo sia digitale, amplificati dai social media tramite la rete.
In pratica è una malevola attività mirata a fornire e diffondere deliberatamente informazioni false, distorcendo o alterando la realtà dei fatti allo scopo di confondere o modificare le opinioni di qualcuno verso una persona, un argomento, un prodotto, una situazione. Le fake news sono sempre esistite. La storia è costellata da eventi, notizie e personaggi che hanno ingannato tutti. Dai diari di Hitler fino all’autopsia dell’alieno di Roswell. Dalla carne altamente cancerogena al Prosecco che danneggia i denti. Oggi, grazie alla portata capillare di Internet, questa maleducata forma di comunicazione introduce nella società elementi di forte criticità e pericolosità che producono una disinformazione dilagante e incontrollata. Un’arma micidiale che provoca nella stragrande maggioranza dei casi danni irreparabili. Anche la comunicazione agroalimentare non è esente dal fenomeno delle bufale (termine italiano di fake news). Le notizie false sono tanto più diffuse (virali) quanto più socialmente controverso è l’argomento di cui sono oggetto. Cambiamenti climatici, sicurezza alimentazione, Ogm, cancerogenicità di certi alimenti, sono le fake più gettonate. Più creano timore, più includono terrore e più diventano popolari e pericolose. Necessarie saranno le regole. La posta in gioco è grande. Non è solo una questione di tipo economico. La posta in gioco è culturale e sociale. Nell’epoca delle “post-verità” necessario sarà capire (e far capire) di quali informazioni ci si deve davvero fidare. Rimettiamo al centro il valore etico ed estetico della comunicazione e il rispetto dei suoi principi cardini: obiettività, completezza, trasparenza, precisione, professionalità, ricerca, conferma delle notizie e delle fonti. Ricominciamo a fare questo. Potrebbe essere un buon inizio! Buona comunicazione a tutti! Roberto Rabachino, Presidente Nazionale ASA
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BIO: chi sono i primi della classe?
Una statistica molto interessante è stata appena pubblicata sul Rapporto Bio Bank 2017 e classifica le città più “bio” in Italia. di Gudrun Dalla Via
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l settore bio è in costante crescita – mese per mese, anno per anno, leggiamo le statistiche sui consumi, differenziati per fasce di popolazione/di età/di reddito/ di cultura, superfici di vendita, settori di mercato (non solo food!), le statistiche delle derrate più richieste come fresco, conservato, surgelato, pronto all’uso ecc. e le sta-
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tistiche sulle nazioni con la percentuale più alta di produzione bio o di terreno coltivato con agricoltura biologica o biodinamica. Una statistica molto interessante è stata appena pubblicata sul Rapporto Bio Bank 2017: quali sono le città più “bio” in Italia? Il rilevamento si basa sulla raccolta di dati riguardanti varie tipologie di
“attività bio”, principalmente punti di vendita, ma anche ristoranti e agriturismi che si firmano “bio”. Le attività monitorate nel Rapporto e censite da Bio Bank nel 2016 sono 9.706, in 3.313 comuni d’Italia. Sentiamo un po’ il polso del bio in Italia. Logicamente nelle grandi città ci aspettiamo un maggior numero di punti vendita e di
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Piemonte e nel Veneto e arrivare quindi gradualmente nel resto dell’Italia.
attività in generale. Infatti, al posto numero 1 troviamo Roma con 276 attività, al secondo posto Milano con 201, al terzo Torino con 91, Bologna al quarto con 83 e Firenze al quinto con 70. Sorprende invece che in alcune città piuttosto grandi nel Centro-Nord il bio sia meno presente, almeno in numeri di attività, rispetto al Sud d’Italia. Napoli ha 35 attività bio, Palermo ne ha 30, Catania 28, mentre Venezia, Bolzano e Trieste ne hanno “solo” 23. Sorprende perché la filosofia del biologico è nata prima nei Paesi Centro-Europei, per poi diffondersi in Alto Adige, in
Un fatto che colpisce, anche se non stupisce, è che in alcune città piccole o addirittura molto piccole, c’è una concentrazione relativamente molto alta di attività “bio”. Tra queste spicca, per fare un esempio, San Gimignano, comune con 7.820 abitanti, che raggiunge il 20° posto in classifica per l’alto numero di attività agrituristiche. Ma probabilmente anche altri fattori concorrono al fenomeno. San Gimignano si trova, infatti, in un’area storicamente popolata da molti stranieri – turisti o residenti –
che per educazione e cultura sono più interessati al biologico o biodinamico, sia nella coltivazione sia nei consumi. Questo compendio di dati insegna che c’è ancora molto spazio per il bio, quanto a consumi: numerosi territori sono ancora da dischiudere o da aprire maggiormente. Ma soprattutto per quel che riguarda le attività produttive, c’è da auspicare che nelle regioni fortemente agricole e ancora di più laddove si potrebbero ricuperare dei terreni che rischiano l’abbandono e il degrado, si convertano sempre maggiori spazi all’agricoltura biologica. ▣
C I T TA’ L E A D E R 2 0 1 6 In grassetto le città metropolitane, tra parentesi il numero di attività. Dati Bio Bank. 1 Roma (276) 2 Milano (201) 3 Torino (91) 4 Bologna (83) 5 Firenze (70) 6 Verona (54) 7 Genova (48) 8 Forlì (39) 9 Padova (36) 10 Napoli, Cesena (35) 11 Reggio Emilia (34) 12 Ravenna (32) 13 Pesaro (31) 14 Palermo (30)
15 Urbino, Catania, Bergamo (28) 16 Trento, Perugia, Parma (27) 17 Ferrara, Faenza (RA) (26) 18 Rimini, Modena (24) 19 Venezia, Trieste, Bolzano (23) 20 San Gimignano (SI), Cagliari, Brescia (22) 21 Senigallia (AN), Gubbio (PG) (21) 22 Spoleto (PG), Ancona (20) 23 Vicenza, Imola (BO), Fano (PU) (19) 24 Matera (18) 25 Bassano del Grappa (VI), Bari, Arezzo, Andria (BT) (17) 26 Siena, Pescara, Montepulciano (SI), Macerata, Lucca, Alessandria (16) 27 Udine, San Lazzaro di Savena (BO), Pisa, Livorno (15)
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Un Ministero dell’alimentazione
con immediata attivazione di politiche di cooperazione
i n terna z i on a le Voglio incominciare questo mio messaggio identificando quello che a mio avviso sarà una delle tendenze principali del futuro che ci attende: lo spostamento progressivo, già in atto da anni per la verità, di grandi masse di persone dalle campagne verso le città. di Carlin Petrini – Fondatore Slow Food
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’agricoltura ha e avrà un ruolo decisivo sul futuro della nostra umanità, sulla sua
capacità di affrontare le sfide degli anni a venire e di garantire una vita degna o meno a tutti i suoi membri, sulla possibilità di vivere in armonia
con l’ambiente o di distruggere la sua casa comune. Voglio incominciare identificando quella che a mio
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avviso sarà una delle tendenze principali del futuro che ci attende: lo spostamento progressivo, già in atto da anni per la verità, di grandi masse di persone dalle campagne verso le città. Un inurbamento che interessa tutte le aree del mondo e che ha come protagonisti soprattutto i giovani, che sempre più difficilmente concepiscono il proprio progetto di vita in campagna. Questo rappresenta un grande problema, sia dal punto di vista della produzione agricola sia da quello della sostenibilità sociale delle aree urbane, dove il pericolo è la creazione di veri e propri deserti alimentari che rischiano di trasformarsi in ghetti. Le principali cause di questo fenomeno sono sostanzialmente due: 1/ Negli ultimi anni il cibo ha perso valore e la gratificazione economica di chi lavora in campagna si sta riducendo al lumicino, non consentendo di fare dell’attività agricola un mestiere appetibile e socialmente riconosciuto. 2/ La qualità della vita nelle aree rurali non è più consona
alle attese e alle prospettive dei giovani del XXI secolo, cresciuti in un contesto globalizzato, in connessione con il mondo, con aperture e prospettive di ampio respiro. Per affrontare compiutamente questi due fattori e invertire la tendenza, occorre pensare a un intenso lavoro di costruzione di una nuova ruralità che da un lato rispetti le peculiarità di ciascun contesto territoriale e dall’altro che
sia in linea con una modernità che non si può e non si deve né arrestare né tantomeno rifiutare, semmai provare a governare. Ecco allora che diventa necessario concepire risposte internazionali e trasversali, anche in considerazione del fatto che negli ultimi anni stiamo assistendo alla progressiva e apparentemente inarrestabile concentrazione di potere nella filiera alimen-
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tare, sempre più diffusamente appannaggio di pochissimi soggetti transnazionali capaci molto spesso di aggirare anche gli interventi dei singoli governi. Le nuove politiche alimentari (termine che preferisco rispetto a politiche agricole) devono dunque armonizzarsi ed essere pensate in un’ottica di rete per poter supportare quelle economie locali che davanti a questi potentati rischiano di essere fragili e senza strumenti. I tempi, tra l’altro, sono maturi per chiedere con forza ai governi qui rappresentati di riconoscere la piena dignità politica alla questione alimentare, creando di conseguenza uno specifico ministero dell’alimentazione in grado di farsi carico della complessità di questa tematica. Oggi già 5 dei paesi rappresentati al G7 hanno la parola “alimentazione” a fianco di “agricoltura” nel titolo vostro del Ministero di competenza (e solo nel caso tedesco l’alimentazione precede l’agricoltura), ma sarebbe il caso di portare la tematica a una nuova e più evidente centralità, non come mera appendice di un’attività produttiva. Parlare di cibo, infatti, non può ridursi
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nell’ambito della produzione, al contrario ha ripercussioni e attinenze con l’economia, la sanità, la cultura, l’educazione. I confini entro cui si estrinseca la competenza dei vostri ministeri non consentono di avere gli strumenti necessari per un’azione complessiva e trasversale quale il cibo richiede, e nello stesso tempo è certamente dall’agricoltura che può e deve partire questo nuovo paradigma amministrativo.
come afferma la stessa FAO nei suoi rapporti più recenti, garantiscono la sicurezza alimentare in buona parte del mondo, allora l’obiettivo deve essere quello di decolonizzare il nostro pensiero e concepire queste esperienze non come forme obsolete di fare agricoltura, semmai come un modello alternativo di modernità che ha al centro il rispetto dell’ambiente, la dignità delle comunità, un futuro degno per tutti.
È indubbio, infatti, che sia la politica a fare la differenza. Se questa ritiene che la vera ricchezza risieda anche nella moltitudine di realtà di piccola e media scala che,
La concentrazione e la massificazione della produzione alimentare, infatti, favoriscono la trasformazione del cibo in commodity globale, deterritorializzata, producendo danni
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ambientali considerevoli e creando situazioni di dumping nei confronti delle produzioni locali. In questo modo si distruggono le opportunità dei giovani di avere un ruolo attivo e soddisfacente a casa propria. Se questo è vero in ogni parte del mondo, compresi i paesi che voi rappresentate qui, queste criticità si amplificano e assumono proporzioni drammatiche proprio in quelle aree del pianeta in cui ancora si fa i conti con la malnutrizione e la fame (il numero di persone interessate da questi problemi è poco inferiore agli 815 milioni secondo i dati FAO). È evidente allora che qual-
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siasi politica governativa di aiuto e di sostegno allo sviluppo non possa ignorare questa situazione di partenza. Diversamente qualunque azione, per incisiva che possa apparire, avrà poco più che l’effetto di un turacciolo per tappare la falla di una nave. Ridare valore al cibo si può ed è un obiettivo nobile che consente a chi produce bene di vivere bene. La garanzia di essere parte di
una rete mondiale e di poter utilizzare i nuovi strumenti tecnologici al servizio di una buona agricoltura, infatti, fa delle piccole e medie comunità locali non un residuato archeologico che guarda a un passato glorioso mai esistito, piuttosto un nuovo paradigma vincente di sviluppo locale, connesso con il mondo, socialmente attivo, economicamente remunerativo. Il mio auspicio è che la politica, qui rappresentata ai suoi più alti livelli, tuteli e difenda questa moltitudine di realtà territo-
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riali e che lo faccia con un approccio allargato, che non si limiti a un singolo Paese ma che sappia promuovere una nuova logica di fraterna collaborazione e cooperazione internazionale alternativa a un sistema globale che le uccide. Il concetto di libero scambio in senso classico, che si concretizza nei grandi trattati internazionali, spesso non è adeguato a considerare la fragilità. ▣
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Trattato CETA, chi è a favore e chi è contro
Il 21 settembre è entrato in vigore in via provvisoria il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada. a cura di Roberto Rabachino – fonti ufficiali varie
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Il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda in merito all’entrata in vigore dell’Accordo di Libero Scambio UE-Canada. L’entrata in vigore, oggi, anche se solo a titolo provvisorio, del CETA è una buona notizia: è una tappa importante di un percorso iniziato nel 2009 con l’adozione delle prime direttive negoziali. A distanza di otto anni
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l’Accordo potrà finalmente produrre i suoi benefici per le nostre aziende, soprattutto piccole e medie, e per i nostri cittadini. Con il CETA verrà abolito il 99% delle tariffe doganali canadesi con picchi in alcuni dei settori di
punta del nostro export, verranno rimosse alcune impor-
tanti barriere non tariffarie, garantita l’apertura del mercato degli appalti pubblici alle aziende europee così come l’accesso al mercato dei servizi, assicurata la tutela della proprietà intellettuale secondo gli standard più avanzati e, per la prima volta in un sistema anglosassone, avremo il riconoscimento di 171 indicazioni geografiche europee (di cui 41 italiane). L’Italia beneficerà immediatamente dell’abbattimento di dazi su beni molto impor-
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tanti per il nostro export come macchinari industriali (1 miliardo di export e dazi fino al 9,5%), mobili (128 milioni di export gravati dal 9,5% di dazi), calzature (dazi al 20%), ma anche vino (300 milioni di export e dazi fino ai 7 centesimi al litro), pasta (fino all’8,5%), cioccolato (fino al 6%), pomodori (fino all’11,5%), acque minerali (esportazioni 39 milioni di euro, dazi 11%), prodotti in pelle, di cui il nostro Paese è il principale esportatore Ue verso il Canada (50 milioni di export, dazi fino a 13%). Si tratta di vantaggi significativi per le nostre aziende, soprattutto per quelle piccole e medie. Il nostro Paese ha raggiunto, lo scorso anno, la cifra record 417 miliardi di euro di export, con un saldo positivo di più di 51 miliardi ed un contributo alla formazione del PIL intorno al 30%. Per rafforzare ulteriormente la crescita abbiamo bisogno di agganciare in maniera strutturata la domanda globale, che continua ad essere in espansione. Per questo dobbiamo portare più PMI a esportare e possiamo riuscirci solo se apriamo per loro i mercati esteri negoziando nuovi accordi commerciali. Non dobbiamo dimenticare che le multinazionali possono affrontare facilmente ostacoli burocratici mentre le piccole imprese non hanno queste possibilità. Per questa ragione gli accordi
di libero scambio sono importanti soprattutto per le nostre PMI: per aiutarle a diventare stabilmente esportatrici favorendo la loro proiezione internazionale. L’Accordo con il Canada, Paese al quale siamo legati da profondi vincoli di amicizia e di affinità culturale, nonché dalla condivisione di principi e valori, non mette in alcun modo in pericolo gli alti standard sanitari, ambientali e sociali la cui tutela è una nostra priorità a difesa dei cittadini europei.
- denuncia la Coldiretti - in un trattato internazionale la pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali, dall’Asiago alla Fontina dal Gorgonzola ai Prosciutti di Parma e San Daniele, ma sarà anche liberamente prodotto e commercializzato dal Canada il Parmigiano Reggiano con la traduzione di Parmesan.
Diverso, invece, è invocare questi standard come un alibi per nascondere ingiustificate spinte protezionistiche, pericolose per un Paese come l’Italia che vive di esportazioni.
La svendita dei marchi storici del Made in Italy agroalimentare non è solo un danno sul mercato canadese ma è soprattutto un pericoloso precedente nei negoziati con altri Paesi anche emergenti che sono autorizzati cosi a chiedere le stesse concessioni. Secondo la Coldiretti su un totale di 291 denominazioni italiane riconosciute, ben 250 non godono di alcuna tutela come ha denunciato la maggioranza dei Consorzi di tutela
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Coldiretti è da sempre contrario al CETA. L’accordo CETA è un regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare che colpisce il vero Made in Italy e favorisce la delocalizzazione, con riflessi pesantissimi sul tema della trasparenza e delle ricadute sanitarie e ambientali. E’ quanto afferma la Coldiretti in occasione dell’entrata in vigore provvisoria dell’accordo economico e commerciale globale tra l’Ue e il Canada. Per la prima volta nella storia l’Unione Europea legittima
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Il CETA uccide il grano duro italiano con il crollo dei prezzi favorito dall’azzeramento strutturale dei dazi per l’importazione dal Canada, dove peraltro viene fatto un uso intensivo di glifosate nella fase di pre-raccolta, vietato in Italia. E peserebbe anche l’impatto di circa 50.000 tonnellate di carne di manzo e 75.000 tonnellate di carni suine a dazio zero. ▣
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La responsabilità del nostro
T E R R I TO R I O Le scelte responsabili non sono più rinviabili e sono la strada giusta verso un futuro migliore. di Marcello Masi – Conduttore Linea Verde RAI1
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l 15% del nuovo secolo è andato. Sono stati definiti gli anni zero e credo sia una definizione calzante. Sono stati anni veloci velocissimi che lasciano un sapore agro con rare punte di dolcezza. Il mondo ha avuto le sue guerre e le sue ingiustizie, alti e bassi, come sempre, non distribuiti equamente. Le speranze e l’euforia che avevano accompagnato i primi giorni
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del duemila sembrano preistoria e abbiamo imparato a fare i conti con nuove emergenze, prima fra tutte quella del terrorismo. Siamo molto informati su tutto, continuamente e con strumenti sempre più sofisticati ed interattivi, eppure non ci abbandona un senso di insicurezza e di solitudine. Viviamo in un futuro tecnologico che convive con fame e povertà, contraddizioni sempre più
grandi che avvelenano le coscienze delle persone sensibili. In questo quadro affrontiamo l’oggi e ci prepariamo al domani. Possiamo tranquillamente continuare a vivere senza preoccuparci troppo di quello che accadrà, oppure possiamo impegnarci un po’ di più. La scelta è nostra, solo nostra. Per cominciare si potrebbe fare un piccolo sforzo per
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mantenere il nostro Territorio così come la natura ce l’ha consegnato. Piccoli gesti di buona creanza e buon senso sarebbero sufficienti. Sporcare di meno, per esempio, non è difficile basta un po’ d’amore per il prossimo. E’ davvero sconsolante vedere galleggiare sul nostro meraviglioso mare buste e bottiglie di plastica gettate lì senza pensare. Un piccolo gesto può davvero fare la differenza. Minimalismo demagogico? No, realismo pragmatico. Cominciamo dai rifiuti del nostro consumismo ormai fuori controllo per raddrizzare un po’ la nostra strada. I grandi della terra litigano per trovare un accordo condiviso sul clima, non va bene, ma noi cominciamo a fare la nostra parte. Molte nostre città sono trattate come pattumiere a cielo aperto e rappresentano un vulnus alla nostra cultura. Di abuso in abuso abbiamo ferito la terra ed ora si moltiplicano i disa-
stri. E’ ipocrita dare la colpa solo al nuovo clima. Abbiamo cementificato, sradicato foreste, imbrigliato acque reflue e fiumi, cosa dovevamo aspettarci, un premio? Scelte responsabili non sono più rinviabili. Anche in agricoltura c’è bisogno di maggiore attenzione. La scienza ci mette a disposizione continuamente nuovi strumenti per coltivare ed allevare in maniera meno invasiva ed inquinante. Non voltiamo la testa dall’altra parte. I costi minori di oggi si riveleranno costi insostenibili domani per le nuove generazioni. Riflettiamo su questo, confrontiamoci, consultiamoci, approfondiamo. La qualità della nostra vita è più preziosa di qualsiasi dividendo. In molti hanno scoperto, complice la crisi economica che ancora stiamo subendo, che investire nella qualità è un ottimo investimento. Piccole aziende che hanno scommesso sul biologico e l’ecosostenibilità
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cominciano a raccogliere frutti destinati a durare nel tempo. I consumatori sono maturati e si moltiplicano le richieste di certificazione dei prodotti. Il made in Italy è sulla cresta dell’onda, ma questa non va persa. Dobbiamo insistere senza illuderci. Il lavoro intelligente è l’unica garanzia di successo che non teme le congiunture. Guai a fermarci ora. Siamo ad un bivio e solo una strada porta ad un futuro migliore anche se non è in discesa. L’altra è lastricata di un materiale luccicante, ma sottile e scivoloso, promette, ma non mantiene e disprezza ogni regola di solidarietà e umanità. Non percorriamola perché non porta a nulla, anzi porta proprio al nulla. Il nostro destino è anche nelle nostre mani, pensare che non sia così equivale a fare come lo struzzo che secondo la leggenda mette la testa sotto terra per non vedere il pericolo e scaricarsi così la coscienza. ▣
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Criteri di riconoscimento e tracciabilità dei prodotti agricoli: perplessità di un
Presidente di Commissione
di Degustazione Che il sistema di tracciabilità sull’origine, la produzione e lo sviluppo dei prodotti alimentari in Italia sia uno dei più articolati e severi al mondo è ormai cosa nota; e di questo possiamo tranquillamente farcene un vanto. di Carlo Ravanello, Presidente della Commissione di Degustazione delle DOP Valpolcevera e Golfo del Tigullio - Portofino (Genova)
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ià nel 1994, nel corso del Marrakesh Round - uno dei passi dovuti per la creazione della nuova WTO (World Trade Organisation) - Francia, Italia e poche altre coraggiose Nazioni ebbero la volontà di introdurre con il XV° Emendamento il principio della “proprietà intellettuale”, ovvero il principio ormai universalmente accettato che un prodotto alimentare di una determinata località debba rispondere, oltre che a precisi parametri chimico-fisici, abbastanza facilmente determinabili attraverso analisi strumentali, anche a parametri organolettici identificabili attraverso un’ulteriore analisi, definita appunto organolettica, ovvero con l’intervento degli organi di senso (vista, olfatto e palato) di degustatori adusi a questo tipo di osservazione grazie all’esperienza sviluppata negli anni negli specifici territori di produzione. Forse non tutti sanno che questa analisi organolettica viene gelosamente custodita dai vari produttori locali raccolti in Associazioni e Consorzi e debitamente inserita nei Disciplinari di Produzione nati nelle varie Regioni con, in molti casi, l’intervento stesso dello Stato cui è demandata la creazione delle DOC e IGT divenute poi, per volontà dell’Unione Europea, DOP e
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IGP. Capostipite di questa ottima iniziativa, che risale ormai a oltre 50 anni, fu il vino insieme all’olio d’oliva extravergine e a qualche altro prodotto agroalimentare: formaggi, carni suine e bovine, frutta e a pochi altri. A questo punto tutti gli Enti interessati si videro costretti, sotto la spinta proveniente dai collettivi di produzione, a definire i parametri di cui abbiamo parlato usando una specifica terminologia adattata ad ogni singolo prodotto, ma proprio qui sono sorte e sorgono diverse difficoltà… Ritornando a parlare di vino, infatti, a partire dal 1964, poco o nulla è stato fatto per meglio aggiornare e definire il linguaggio, adottato oltre mezzo secolo fa, nella fase pionieristica di creazione delle prime DOC del vino. Questo parla ancor oggi, - ad esempio nel caso di un vino bianco - di colore giallo paglierino talvolta con riflessi verdognoli, di odore caratteristico, delicato, fruttato e di sapore secco, sapido, armonico. Oppure, trattando di un vino rosso, di colore da rosso cerasuolo a rosso rubino, fruttato, intenso, persistente, sapido, di buon corpo, armonico e profumato. Per non menzionare definizioni ancor più criptiche come minerale,
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sapido, speziato, vinoso, fresco, franco, e così via. Non ci sembra che sia questa la via giusta per rendere tracciabile un vino, come un qualsiasi altro prodotto agroalimentare. Questo deve poter essere tracciabile innanzitutto attraverso un’idonea documentazione che ne attesti l’origine e/o la provenienza e i passaggi manipolatori della trasformazione
ma, fatto questo, per poter affermare il concetto di proprietà intellettuale sono indispensabili le 2 analisi (chimico-fisica ed organolettica) di cui abbiamo già fatto cenno. I Francesi, già da secoli, hanno inventato e fatto proprio il lemma terroir, termine intraducibile nella lingua italiana, che però contiene in esso le 2 proprietà di cui sopra, in un
tutt’uno immediato e comprensibile. Quando si dice terroir du Médoc, ad esempio, non si intende solo il territorio posto a sinistra dell’estuario della Gironda ma si intende anche tutto ciò che è in esso contenuto in termini di opera dell’uomo e di produzioni altamente specializzate. L’uso della complessa e a volte quasi infantile terminologia d’antan cui abbiamo fatto cenno più sopra e che viene adottata in quasi tutti i settori dell’agroalimentare, umilia i degustatori storici che riconoscono d’istinto l’autenticità e la tipicità di un prodotto ma, nel contempo, fornisce materia per l’uso di definizioni pretenziose e farraginose (come dolcemente setoso, abbastanza croccante o decisamente ruvido) inculcando nei giovani volonterosi di imparare il falso convincimento che questa conoscenza la si possa acquisire sulle fin troppo numerose Guide, sul web o, peggio ancora, seguendo gli pseudo-insegnamenti di fantasiosi flying winemakers che volano su e giù per la Penisola - e oltre - distribuendo ad ogni piè sospinto preziose perle di conoscenza. ▣
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“Occorre un microbioma particolarmente esteso per mantenere in piedi questo albero...”
PIACERE, SONO IL MICROBIOMA La vita del terreno, da pochi millimetri a diversi metri sotto la superficie, è importante quanto la parte sopra. di Gudrun Dalla Via disegno di Giorgia Borgomaneri, foto https://unsplash.com
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i conoscevate? Se la risposta è no, arrivate in tempo per
l’aggiornamento. Il termine bioma, infatti, è stato usato principalmente per definire ampie porzioni di biosfera o sistemi ambientali complessi
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ma comunque di una certa estensione. Però il termine è applicabile anche a sistemi su scala ridotta, e le ricerche scientifiche degli ultimi anni ci
dimostrano come ogni metro cubo di bioma buono sia importante per la salute della terra, del pianeta, nostro. Questo è il microbioma, l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi di un ambiente definito. Un ambiente definito potrebbe essere, secondo Wikipedia, un intero organismo (per esempio, un essere umano) o parti di esso (per esempio, l’intestino o la cute o l’ambiente radicale di una pianta). Se vi è capitato di comprare una rosa per il vostro
giardino o delle piantine di cavoli per l’orto, vi avranno offerto di volta in volta soluzioni diverse: la rosa “a radice nuda”, con quest’ultima appena protetta da un involucro, oppure un mazzetto di piantine di cavoli o finocchi con le radici in bella vista; oppure la rosa in vaso, e i piccoli cavoli o altro in vaschette, con una zolla di terra intorno. E forse avete notato che le piante fornite con terra attecchivano molto più facilmente. Magari avete sentito anche il proverbio “non si trapiantano gli alberi adulti”; estirpare,
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trasportare e ripiantare un albero già grande è dispendioso; occorrono mezzi meccanici e di trasporto non indifferenti. Ma non è tutto qui! Qualunque trapianto vogliate effettuare, ricordate sempre di trasportare, insieme alla pianta, la maggior parte possibile del terreno che la circonda nel sito originario: terreno colto sia in larghezza che in profondità. Infatti, ormai è un dato scientificamente assodato: ogni pianta è circondata da un suo bioma, specifico e quasi “personalizzato”, preposto a garantire il suo benessere.
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Immaginate di dovervi trasferire in un continente lontano, in territori completamente sconosciuti. Se vi trasferite insieme ad un nucleo familiare o di amici consistente, vi ambienterete più velocemente e più facilmente. Il bioma è quella parte della vita vegetale che noi non vediamo. Ma in natura, in un ambiente naturale e sano, le radici di un albero o di qualsiasi pianta si estendono sotto terra, in diametro e in profondità, quanto la parte sopra terra (detta “aerea”). E questa parte sotterranea, normalmente non visibile per noi, è almeno altret-
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tanto importante quanto quella sopra la terra. Perché nel terreno intorno alle radici si trova appunto il bioma, un insieme di microrganismi che provvedono a rendere fertile il terreno, a mantenerlo umido, morbido e della compattezza ideale. Ciò è quel che avviene in ambienti naturali e sani e in terreni coltivati con sistemi biologici o biodinamici. In quei suoli è presente una quantità di “biomassa” almeno del 50% superiore a quella presente in suoli coltivati con metodi convenzionali, e i microbi naturalmente presenti in questa biomassa sono attivi fino all’84 % in più rispetto ai suoli coltivati con metodi convenzionali. Questi dati emergono da un meta-
studio di FiBL (vedi: http:// www.fibl.org/de/medien/ medienarchiv/medienmitteilung/article/mehr-mikrobenim-bioboden.html, https:// www.ncbi.nlm.nih.gov/pubme d/?term=Bacteria+and+fungi+ can+contribute+to+nutrients+ bioavailability+andaggregate+ formation+in+degraded+soils) recentemente pubblicato sulla rivista specializzata PLOS ONE (PLOS = Public Library of Science). In questo metastudio sono state utilizzate 57 pubblicazioni scelte, a livello mondiale.
matici e comunque nell’area mediterranea. (leggi qui lo studio https://www.ncbi.nlm. nih.gov/pubmed/?term=Tropi cal+soils+degraded+by+slas h-and-+burn+cultivation+can +be+recultivated+when+ame nded+with+ashes+and+com post).
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l bioma e il clima del pianeta
La maggiore quantità di biomassa/bioma nel suolo è importante anche per il clima. I suoli coltivati con metodi biologici immagazzinano maggiori quantità di humus e pertanto catturano Un ulteriore effetto benefico il gas serra CO2 dall’aria, sul bioma viene ottenuto con legandolo al suolo. Del resto, la semina di leguminose nella questo dato (già evidenziato rotazione vegetativa che nella piattaforma BIO del sito comunque dovrebbe essere www.asa-press.com) viene sottolineato anche dall’AIAB, durante un evento Lo studio dell’11 dimostra settembre inoltre che 2017. Mediamente, la resa dei suoli coltivati biologicamente il metaboSecondo è minore del 20 % rispetto ai metodi convenzionali. lismo dei un loro Sembra un paradosso, considerando la maggiore fertimicrorganicomunilità dei suoli bio. Gli esperti ci confortano dicendo che smi nei suoli cato, se ciò dipende sia dalla rinuncia a certi artifici (pesticidi e “bio” è martutte le concimi di sintesi) sia alla necessità di trovare (o ritrocatamente superfici vare) delle specie vegetali particolarmente adatte a più attivo. In agricole questo tipo di coltivazione. Infatti, vi sono sempre più altre parole, fossero colevidenze che l’uso di specie adatte permette rese più questi tivate con stabili anche in annate siccitose. microbi riemetodi bioscono a tralogici, le sformare le emissioni sostanze di CO2 organiche, come per esempio varia, come in effetti avviene causate dall’agricoltura il compost, più rapidamente in in agricoltura biologica e biopotrebbero ridursi del 23% in dinamica. sostanze nutritive utilizzabili Europa e del 36% negli Usa. poi dalle piante. Questo viene evidenziato Un dato più tecnico ma anche dal risultato pubblicato Questo effetto positivo sull’at- importante: l’agricoltura bio nel 2013 di uno studio diretto influisce positivamente sul tività microbica è particolarda Andreas Gattinger (FiBL pH del suolo e sul suo tenore – Istituto di ricerca per l’agrimente marcato in climi caldi in carbonio, altri fattori benee secchi – un fattore di parcoltura biologica, Svizzera) e fici per la vita microbica nel ticolare interesse in vista di portato avanti da un gruppo sottosuolo. potenziali cambiamenti clidi ricercatori internazionali
PERCHE’ LA RESA DEL “BIO” E’ SPESSO MINORE?
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che ha esaminato i risultati di numerosi studi internazionali i quali hanno paragonato gli effetti sul terreno delle coltivazioni biologiche e di quelle convenzionali. Lo studio ha dimostrato che l’agricoltura biologica permette di fissare nel terreno quantità di carbonio significativamente superiori, con ciò offrendo un importante contributo per frenare il riscaldamento globale. Le riduzioni di CO2 determinate dall’uso del bio corrisponderebbero
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a circa il 13% della riduzione complessiva necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici fissati per il 2030. A ciò si aggiungono i risultati dello studio «Enviromental impact of different agricultural management practices: conventional versus organic agriculture», apparso sulla rivista «Critical Reviews in Plant Sciences», realizzato dai ricercatori guidati dal professor Maurizio Paoletti del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in
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collaborazione con l’Università di Cornell, Usa: “I terreni gestiti con il metodo bio hanno una maggiore capacità di sequestrare CO2 e di trattenere acqua, con conseguente miglior rendimento in condizioni climatiche di scarsità di precipitazioni”. (leggi qui lo studio: http://www.fibl. org/en/switzerland/research/ soil-sciences/bw-projekte/ dok-trial.html) ▣
Volete sapere tutto sul BIO? Allora vi serve una banca dati La vita invisibile, cioè nel sottosuolo, è almeno altrettanto importante di quella “sopra”, visibile al nostro occhio. di Gudrun Dalla Via
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ggi le imprese in partenza si chiamano “startup” e per accompagnarle nei primi passi ci sono appositi acceleratori e incubatori che forniscono strumenti e spazi utili. Un quarto di secolo fa si faceva da soli. Si partiva da un’idea, si metteva a punto un progetto e si percorreva passo dopo passo tutta la trafila organizzativa e commerciale per realizzarla. Così è avvenuto anche per Bio Bank, la banca dati del bio, fondata da Achille Mingozzi e Rosa Maria Bertino nel 1993 (nella foto). L’intuizione fu quella di creare una raccolta sistematica ed organizzata di dati sul mondo del biologico in Italia. Dopo un anno e mezzo di
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banche dati e mappe e sui social network collegati. Non manca l’approfondimento con i report statistici digitali consultabili gratuitamente su Issuu: il Rapporto Bio Bank e i Focus Bio Bank. lavoro il risultato fu il primo annuario Tutto Bio, che uscì nel 1994 con 128 pagine fitte di dati e informazioni su 1.200 operatori del settore. Uno strumento utile per conoscere chi produceva alimenti da agricoltura biologica o biodinamica, le associazioni, i tecnici, le aziende di mezzi tecnici, gli organismi di controllo e la legislazione. Ma anche per sapere se vicino a casa c’erano negozi di alimenti bio o quali prodotti bio si potevano trovare nei supermercati. E, naturalmente, anche un modo per produttori e tecnici di far conoscere il loro impegno, di conoscersi tra loro, di collegarsi e creare sinergie. Perché l’agricoltura biologica era “roba da idealisti” e materia sconosciuta per la maggior parte delle persone.
a domicilio (le famose “cassette”), mercatini bio con luoghi e date, aziende con vendita diretta al pubblico, gruppi di acquisto (i cosiddetti Gas), ristoranti, agriturismi, negozi, supermercati con marche bio. E persino il non-food, con le aziende di cosmesi e detergenza biologica e naturale e le bioprofumerie. Per i genitori attenti all’alimentazione dei figli, anche i Comuni dove vengono serviti pasti con prodotti bio nelle mense scolastiche e gli indirizzi delle fattorie didattiche dove prendere contatto con la realtà. Una cosa di cui c’è assolutamente bisogno, se è vero che i bambini, quando vedono per la prima volta una gallina viva e ruspante, scrivono poi nel tema di classe che hanno visto una gallina vestita.
Nel 2017 Bio Bank ha pubblicato la 23ª edizione di Tutto Bio, (link) - 328 pagine con oltre 11mila attività bio censite: associazioni, vendita
Un’informazione che prosegue anche sulla Rete con il portale biobank.it dove sono liberamente consultabili i dati di oltre 10mila attività tra
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Insomma, una vera e propria marea di dati, rispetto alla prima spartana edizione dell’annuario. Perché da allora tutto è cambiato, come scrivono gli autori all’inizio del Rapporto Bio Bank 2017: “Oggi sono tutti pazzi per il cibo biologico. Prima erano pazzi quelli che credevano nell’agricoltura biologica, promuovendola e praticandola in un contesto ostile. Per questa giravolta di 180 gradi, per questo cambio di atteggiamento e di prospettiva c’è voluto un quarto di secolo. I fautori del bio non sono cambiati, anzi sono cresciuti e si sono moltiplicati. È semplicemente cambiato il mondo intorno. L’abbiamo sempre pensato e scritto: il vero successo del biologico non è solo nella sua crescita e nel suo sviluppo contro ogni pronostico, ma nella capacità di imprimere un cambiamento verso la sostenibilità a tutto l’agroalimentare e più in generale agli stili di vita”. ▣
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er cominciare, le buone notizie. Oggi il biologico è un successo, chi l’avrebbe detto solo una manciata di anni fa? Sì. Solo le aziende sono più di 70 mila, e, tanto per dare un’idea, coprono un territorio pari a Toscana, Marche, Umbria, Liguria e Molise messe assieme. Sia il numero delle aziende che l’entità delle superfici nel 2016 sono aumentate di oltre il 20%, dopo essere aumentate intorno all’8% nel 2015 e di circa il 6% nel 2014. Il fenomeno non è solo italiano: in Francia, per fare un altro esempio, ne nascono venti nuove al giorno. Per chi ha scommesso su questo settore fin dagli anni Ottanta è sicu-
Le nuove sfide del biologico Dodicimila nuove aziende bio solo nell’ultimo anno. Impennata di vendite. Il biologico va con il vento in poppa. Ma quali sono i punti critici, che potrebbero pregiudicare il futuro di questo promettente settore? ASA Magazine ne ha parlato con Roberto Pinton, segretario di AssoBio e figura di di Rossana Cavaglieri
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CHI E’ ROBERTO PINTON Giovane dirigente d’azienda, nel 1984 Roberto Pinton ha appeso la cravatta al chiodo ed è stato tra i fondatori di una delle prime cooperative agricole biologiche italiane. Negli anni Novanta è stato per sei anni responsabile dell’area “servizi ai soci” di un’associazione nazionale di produttori biologici e direttore editoriale dell’allora unica rivista italiana di agricoltura biologica. Successivamente ha diretto un consorzio di imprese biologiche e ha collaborato in qualità di esperto a diversi progetti di ricerca europei. E’ stato per nove anni membro del comitato di salvaguardia dell’imparzialità in un organismo nazionale di controllo, componente lo Sherpas Group all’High
ramente una grande soddisfazione. Nel tempo ci siamo guadagnati anche il rispetto dell’establishment agricolo convenzionale: un settimanale agricolo che negli anni Ottanta ci guardava con sospetto, definendoci “mesti cantori della vanessa e del grillo”, ora ospita in ogni numero articoli tecnici, di mercato e normativa sull’agricoltura biologica. Ma una crescita così rapida
Level Forum for a Better Functioning Food Supply Chain della Commissione Europea, ed è tuttora componente del Sotto Comitato Settoriale di Accreditamento delle Produzioni Agroalimentari (SCSAPA) di Accredia, l’ente unico di accreditamento. Dalla fondazione nel 2006 è segretario di AssoBio, l’associazione nazionale delle imprese di trasformazione e distribuzione dei prodotti biologici (associa 85 delle maggiori imprese del settore), organizzazione no profit che rappresenta la categoria nella Federazione Interprofessionale Italiana FederBio, nelle organizzazioni internazionali (come Ifoam Organics International) e, per gli ambiti di pertinenza, nei rapporti con le autorità competenti. E’ consigliere delegato di FederBio, l’organizzazione che rappresenta la quasi totalità del settore biologico italiano, dalla produzione alla trasformazione, dai servizi alla ricerca. E’ autore di diversi volumi; l’ultimo si intitola Biologico, la parola alla scienza. Quando serve, ristacca una cravatta dal chiodo.
non comporta dei rischi? Certo. Dal lato delle aziende agricole possiamo temere rischi di improvvisazione. Teniamo presente che l’agricoltura convenzionale è in crisi nera: nel 1990 avevamo 2.800.000 aziende agricole, che sono sprofondate a 1.600.000 nel 2010, e l’emorragia continua. Il reddito agricolo è crollato: ormai allevare vacche da latte o coltivare pomodori o fruBI O
mento non paga più, quindi c’è anche chi si avvicina al biologico per questioni di sopravvivenza aziendale più che per le motivazioni ideali dei pionieri. Ma non è un fatto negativo: come si dice, non importa che il gatto sia nero o bianco, basta che acchiappi i topi. Quello che è fondamentale è che diminuisca la pressione della chimica di sintesi sull’ambiente, che ha raggiunto livelli davvero preoc-
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cupanti: abbiamo il 34% delle acque superficiali e il 25% delle acque profonde contaminate da pesticidi, non è possibile continuare così. Ma nelle aziende al posto dei padri stanno entrando anche i figli, che vedono le cose in modo diverso e hanno spesso buone competenze tecniche. I nuovi arrivati, però, devono essere formati per evitare di incorrere in errori. Nonostante quelle biologiche rappresentino quasi il 15% del totale delle superfici agricole italiane, nonostante da dieci anni crescano numero delle aziende, mercato interno ed esportazioni, rendendo fondamentale la presenza di tecnici qualificati, da noi manca del tutto una formazione specialistica in agricoltura biologica. Nelle università non c’è una cattedra di agricoltura biologica, negli istituti tecnici non ne parliamo. Buona parte dei tecnici che operano in Italia si è formata all’estero, chi in Olanda, chi in Germania o nel Regno Unito. Che il sistema dell’istruzione del Paese leader europeo
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nella produzione biologica non sia pronto a sfornare le professionalità necessarie è un controsenso. FederBio ha dovuto quindi attivare specifici pacchetti di formazione per accompagnare le aziende nella fase della conversione, che è la più delicata. Chi è oggi l’agricoltore bio tipo? In tre casi su quattro è un diplomato o laureato, spesso
non in agraria, ma in altre discipline. Conosco astronomi e storici dell’arte che sono diventati agricoltori di successo! Il fenomeno non va visto in senso negativo, come mancanza di preparazione. In buona parte si tratta di figli di produttori, che fin da piccoli respirano l’aria dell’azienda, ma che hanno voluto anche
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seguire le proprie curiosità e i propri interessi culturali. E stanno portando una visione diversa nell’agricoltura, con interessi ed esperienze più ampie stanno realizzando un cambiamento epocale che avvicina produttori e consumatori nel comune interesse per l’ambiente, per la qualità della vita, anche per i nuovi media. Pensiamo alle fattorie didattiche, ai gruppi di acquisto, a internet (usa il web più del 60% delle aziende agricole biologiche, l’11% ha un suo sito, il 6% vende on-line: 6 o 7 volte la media degli agricoltori italiani) . Oggi il consumatore vuole vedere come nasce il proprio cibo e trova le risposte nell’agricoltura biologica. Non puoi portare i bambini a visitare una fattoria dove le galline stanno in gabbia e si spargono veleni sui campi. L’agricoltura bio non solo dà prodotti buoni da mangiare: è anche bella da vedere. Già. La filiera della qualità inizia nei campi. Ma chi ci
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Ogni anno SANA, la più grande Fiera italiana del biologico, registra i trend del settore tramite il suo Osservatorio, promosso e finanziato da BolognaFiere, con il patrocinio di FederBio e AssoBio e realizzato da Nomisma. Gli ultimi dati, presentati lo scorso settembre alla ventinovesima edizione della Fiera, confermano che l’intero sistema dell’alimentare biologico è in crescita. Le ultime stime relative alle vendite 2016 nella GDO evidenziano un +16% e una quota
garantisce la qualità? Il punto dei controlli è fondamentale. Un settore in veloce espansione come quello bio ha bisogno di elevata competenza e professionalità anche di chi svolge le ispezioni e rilascia la certificazione. FederBio ha promosso tra gli organismi aderenti codici per uniformare approccio e procedure, così come la gestione di banche dati in comune per la tracciabilità di ogni singola transazione. Gli organismi hanno dato
dell’organic sul totale delle vendite alimentari pari al 3,5% (5 volte in più rispetto al 2000). Aumentano del 20% anche le superfici e gli operatori bio sul territorio italiano: le superfici coltivate con metodo biologico hanno sfiorato quota 1,8 milioni nel 2016 (vs 1,5 del 2015). Sono stati convertiti al biologico oltre 300 mila ettari e con loro sono passati al bio anche moltissimi operatori, cresciuti del 20,3% e arrivati a 72.154. Ma l’interesse per il bio è forte anche fuori dai confini nazionali: nel 2016 l’export bio Made in Italy ha sfiorato i 2 miliardi di euro, con un peso del 5% sull’export agroalimentare italiano. Sul fronte dei consumatori, oggi quasi 8 famiglie su 10 hanno acquistato almeno una volta nell’ultimo anno un prodotto biologico e in soli 5 anni il numero di famiglie acquirenti è aumentato di oltre 6 milioni.
vita anche alla propria associazione Assocertbio per la gestione coordinata di servizi per rendere più efficiente l’attività. A nostro avviso le ispezioni dovrebbero essere più frequenti nelle nuove aziende, negli almeno due anni necessari per la conversione, ma non basta: dovrebbero essere affiancate anche da assistenza tecnica qualificata e assidua, così da indirizzare gli operatori verso il modo corretto di operare. Va da sé che l’assistenza tecnica non può essere svolta dagli BI O
organismi di controllo e che dovrebbe essere garantita dalle Regioni, cui è attribuita la competenza sulle questioni agricole. E qui c’è qualche nota dolente: l’offerta pubblica zoppica, sia per carenza di risorse che per debolezza di visione strategica. E stiamo parlando di un modello di agricoltura non facile da mettere in pratica, vero? Indubbiamente il biologico è più impegnativo del con-
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venzionale. Non potendo usare tutto l’armamentario di presìdi e trattamenti a scadenze prestabilite, ci si basa sulla prevenzione, ma si deve anche stare nei campi per valutare, per esempio, se è il caso di intervenire per difendere le colture dall’attacco di un insetto e quando è il momento giusto. Devi essere più attento e competente, valutare di volta in volta gli equilibri e questo richiede una preparazione ben precisa. Dicevamo che però i tecnici mancano… Sì, lo dicevamo. La formazione scolastica è praticamente assente. A fronte di
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una fortissima domanda di professionalità, dove pensiamo di pescare le risorse? Di positivo c’è che il Piano d’azione nazionale sul biologico adottato dal Ministero prevede l’impegno a favorire specifici percorsi didattici nelle università. Il piano, che ha ricevuto anche il consenso delle Regioni, però, è da due anni in un cassetto, da cui è necessario esca presto per tradursi in realtà. Venendo alla distribuzione, in Francia è scoppiata recentemente una polemica sui prezzi dell’ortofrutta bio nella GDO, giudicati troppo alti. E’ vero anche da noi? L’inchiesta della rivista di
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consumatori Que choisir? ha denunciato speculazioni sul biologico nella GDO d’oltralpe, che arriva a ricaricare anche il 100% su alcune referenze. Non ha molto senso confrontare il prezzo pagato al produttore per un prodotto in cassoni con quello di un prodotto cernito, selezionato, confezionato in un vassoio incellophanato, ma il problema senz’altro c’è. Il bio non dovrebbe essere un prodotto di lusso, e in Italia compete con i prodotti convenzionali di alta qualità: è con questi che deve essere confrontato, non col prodotto di primo prezzo. La differenza di prezzo si è via via ridotta, e calerà in modo significativo con il costante
aumento dei volumi, ma non si potrà mai arrivare ai prezzi del prodotto convenzionale. Il pubblico guarda con solidarietà alle manifestazioni degli agricoltori che, meno spesso di quanto servirebbe, scendono in piazza coi trattori per denunciare di essere allo stremo perché industria e distribuzione impongono cifre da fame. Se i prezzi dei prodotti convenzionali sono iniqui e fanno fallire le aziende nei campi, mi pare evidente che non li si può prendere come termine di paragone. Un pollo conven-
zionale mangia mais (OGM, per di più) per 45 giorni, un pollo biologico mangia mais (biologico) almeno per 81 giorni: come ci si può stupire di differenze di prezzo? Lo scontrino sarà sempre più o meno leggermente superiore perché senza camionate di prodotti chimici di sintesi, con la scelta di varietà particolari e con la necessità di rotazioni spesso le rese per ettaro sono più basse. Ma così si contribuisce a disinquinare quel quarto di acque di falda inquinate da diserbanti e altri pesticidi. Se
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il criterio “chi inquina paga” inciso sui trattati europei venisse davvero applicato, addebitando i costi della decontaminazione del territorio a chi immette ogni anno nell’ambiente 4 milioni di tonnellate di pesticidi e fertilizzanti chimici, vedremmo che, in realtà, il prezzo dei prodotti convenzionali è terribilmente più alto e che a conti fatti l’opzione biologica è anche la più economica. ▣
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L’Italia si conferma leader nel turismo Con l’autunno finisce una stagione turistica particolarmente positiva in crescita del 9%, con 38 milioni di Italiani che hanno deciso di trascorrere una vacanza durante l’estate 2017, ma un segnale positivo viene anche dall’aumento degli arrivi dei turisti stranieri. di Gladys Torres Urday – Fonte dati Coldiretti
È
quanto emerge da una indagine Coldiretti/ Ixe’ divulgata in occasione della Giornata Mondiale del Turismo che conclude a livello internazionale la migliore stagione del decennio sulla base delle previsioni della World Tourist Organization (UNWTO).
legati al terrorismo anche in relazione ad altre destinazioni europee. E se è il mare a fare la parte del leone per 7 Italiani su 10
(69%), seguito dalla montagna con il 17%, si assiste al successo di alternative meno affollate con la campagna scelta dal 9% dei vacanzieri. La tranquillità garantita dalla
Ben il 78% degli Italiani è restato in Italia, ma l’abbandono di mete considerate pericolose riguarda in realtà il turismo internazionale nel suo complesso, con la Turchia, la Tunisia, l’Egitto in grande sofferenza. Al contrario, si registra un aumento degli stranieri che scelgono l’Italia come Paese più sicuro rispetto ai problemi
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campagna è un fattore importante, ma è sempre la qualità dell’alimentazione l’elemento che spinge maggiormente a scegliere l’agriturismo. Circa un terzo della spesa di Italiani e stranieri in vacanza in Italia è destinato alla tavola per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di
strada o specialità enogastronomiche. L’Italia ha conquistato la leadership mondiale nel turismo enogastronomico grazie a 291 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario, ma ha conquistato anche il primato green con quasi 60mila aziende agricole biologiche in Europa e ha fatto la
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scelta di vietare le coltivazioni OGM a tutela del patrimonio di biodiversità, senza dimenticare gli oltre 22mila agriturismi, i circa 10mila mercati e fattorie dove acquistare a chilometro zero direttamente dagli agricoltori, le centinaia di città dell’olio, del vino, del pane e i numerosi percorsi enogastronomici, feste e sagre di ogni tipo. ▣
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La cucina del ‘600 protagonista in tavola a Foligno: è “Gareggiar de’ Convivi” Un’avvincente e meticolosa ricostruzione storica che da oltre 40 anni coinvolge pubblico e grandi nomi dello spettacolo. di Paolo Alciati
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n principio fu la “Gara Gastronomica”, ideata nel 1975 da Lino Procacci, famoso regista televisivo legatissimo all’Umbria - terra natia - e in particolar modo a Foligno, dove si spense nel 2012. Forte del suo ruolo coinvolse illustri gastronomi, popolari attori, noti cantanti e celebri personaggi dello spettacolo, da Ave Ninchi a Luigi Veronelli, da Vincenzo Buonassisi a Luigi Carnacina, da Bobby Solo a Domenico Modugno, da Aldo Fabrizi a Corrado, Mike Bongiorno, Enrico Mentana e tanti altri,
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a giudicare in qualità di esperti i prelibati piatti preparati dai cuochi folignati in occasione della Giostra della Quintana, proponendo un Concorso Gastronomico tra i Rioni o meglio, tra le taverne
dei dieci Rioni di Foligno – Ammanniti, Badia, Cassero, Contrastanga, Croce Bianca, Giotti, La Mora, Morlupo, Pugilli, Spada, in rigoroso ordine alfabetico - punti di ritrovo e di aggregazione dei
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contradaioli. L’idea di giudicare piatti elaborati su ricette del ‘600 ebbe immediato successo, grazie anche alla partecipante collaborazione dei numerosi per-
sonaggi famosi chiamati in causa, tra i quali grandi attori come Ugo Tognazzi e Gigi Proietti che, da veri artisti, regalarono indimenticabili momenti di puro spettacolo. Parallelamente, per nobili-
tare la “Gara”, incominciò un’importante opera di ricerca storica sulla cucina barocca e grande fu l’abilità dei cuochi nel cucinare i manicaretti col massimo rispetto delle ricette originarie per poi presentarle alle giurie di esperti che di anno in anno si avvicendavano per giudicare con rigore e severità e proclamare il piatto vincitore. Nel corso degli anni la naturale evoluzione della “Gara Gastronomica” portò ad una serie di cambiamenti e dalle taverne ci si spostò in ambienti molto più ampi per poter contenere anche raffinati spettacoli, coreografie e danze in costumi d’epoca con l’accompagnamento di bravi musicanti a suonare brani rinascimentali con antichi strumenti. Anche i giurati si nobilitarono con abiti ricchi e preziosi, creati dalle capaci mani di abili sarti su severe documentazioni iconografiche utilizzando pregiati velluti, lussuosi broccati, finissimi ricami e passamanerie dorate per riprodurre fedelmente i decori seicenteschi e i gioielli e adornare con cura gli sfarzosi costumi dei protagonisti. E nel 1994, anno dell’avvicendamento di Lino Procacci con il giovane produttore vinicolo Marco Caprai, la “Gara Gastronomica” si trasformò nel “Gareggiar de’ Convivi” trasferendo il banchetto
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barocco nelle sale riccamente affrescate dei palazzi nobiliari al fine di donargli quell’aura di fastosità e magnificenza tipica delle corti rinascimentali.
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“Buona cucina e buon vino, è il paradiso sulla terra”. Questa incontestabile verità, presa dall’Enrico IV di William Shakespeare, si sposa perfettamente con le intenzioni degli organizzatori dell’evento di quest’anno: le prelibate portate, via via presentate durante le cene conviviali, abbinate ai grandi vini del territorio, sono state esaltate dagli allestimenti scenici che celebrano in modo aulico gli opulenti banchetti introdotti da titoli profondamente significativi: “A tavola con le Dee”, “Desinar nel Paradiso della Regina Sibilla” e altri sullo stesso tema.
tettonica che ha esaltato le intense rappresentazioni artistiche dal forte impatto coreografico - ingioiellate da spettacolari giochi di luce che dipingevano l’ambiente con magiche pennellate di colore - messe in scena dalle compagnie che si sono succedute nelle cinque serate della disfida: dee e fate, ninfe e satiri, giocolieri e mangiafuoco, giullari e musicanti, danzatrici e acrobati, performances canore e coups de théâtre hanno impreziosito i golosi banchetti dei dieci Rioni che a due a due si sono avvicendati con un elevatissimo livello qualitativo e organizzativo, fastosamente curati in ogni particolare, dagli originali addobbi alle ricche decorazioni, dal raffinato vasel-
lame al prezioso tovagliato, dagli splendidi costumi dei paggi che introducevano ogni portata alle mirabili scenografie allegoriche e alle coinvolgenti coreografie. La rigorosa e accurata ricerca della storicità è stata utilizzata anche per le soavi descrizioni delle saporite portate. Per alcune di queste la poesia del testo di presentazione non è sicuramente inferiore all’eleganza delle vivande servite: leggendo i menù non si può non rimanere affascinati da veri affreschi linguistici come un Primo servito di credenza – “Lingua di vitello con pepe, tartuffole, zafferano, agresto condito e regalata di insalata cotta. Meloni e fichi brugiotti con
E il paradiso gastronomico è stato abilmente riprodotto nella grande sala dell’Auditorium di Santa Caterina, affascinante cornice archi-
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neve sotto, canella et anisi, capi di latte regalati di fiori, biancomangiare regalato di zuchero et mustaccioli” oppure un Secondo servito di cucina – “Per far pasticcio di presciutti, salsa verde, tartufoli stufati con olio e pepe e sugo di melangole e butirro di amandole” o, ancora, un Terzo servito di cucina – “Trionfo di faraona coscio e sovraccoscio con i suoi fegatini, grasso di prosciutto e fichi secchi all’ippocrasso, coratella ed isolata d’ali, galantina di petto tartufata e giardiniera all’ippocrasso”.
finale, che cito solo per dovere di cronaca, è andata ai Rioni Pugilli e Cassero risultati i migliori nella valutazione dei piatti in gara nel loro aspetto generale e storico e del corretto abbinamento con il vino, dai tre qualificati giudici, Alex Revelli Sorini, giornalista e docente universitario, autore di saggi storici sull’alimentazione, Emore Paoli, storico e professore dell’Università di Tor Vergata di Roma e Marco Servili,
maestro coppiere e direttore dell’Association de la Sommellerie Internationale. La vera vittoria è però da attribuire con grande merito all’Ente Giostra della Quintana - di cui il Gareggiar de’ Convivi è parte integrante - e al Gal Valle Umbra e Sibillini presieduto da Giampiero Fusaro che, con un sostanzioso finanziamento, ha contribuito concretamente alle iniziative di soli-
La vittoria
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darietà alle aziende colpite dal terremoto del Centro Italia: infatti ogni Rione ha utilizzato zafferano, tartufo nero, prosciutto e olio prodotti nel territorio compreso tra Assisi, Spoleto, la Valnerina e i Monti Sibillini, oltre ai vini di Montefalco e dei colli spoletini. Grande la soddisfazione del Presidente dell’Ente, Domenico Metelli, per il quale “…l’edizione di quest’anno è stata davvero memorabile perché non ha offerto solo grandi spettacoli ma solidarietà e aiuto concreto alle popolazioni colpite dal sisma di un anno fa”. Si apre dunque un nuovo capitolo per questo importante evento che, da piacevole pretesto di aggregazione cultural-gastronomica condito dagli interventi iniziali di personaggi noti a far da cassa di risonanza, è via via cresciuto a livello qua-
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litativo sino ai giorni nostri e diventando a pieno titolo “Ambasciatore del Gusto” per Foligno e per la valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche tipiche di questa incomparabile regione che è l’Umbria, unito alla Giostra della Quintana - della quale è importante emanazione - e al suo valore culturale e storico poiché la gara equestre si ispira proprio alla Giostra cavalleresca disputata il 10 febbraio 1613.
sfilata dell’imponente Corteo Storico composto da oltre 800 personaggi, tra nobili e nobildonne, Madonne e Messeri, armati, alfieri, tamburini e trombettieri e da maestosi carri allegorici raffiguranti quadri storici ispirati - proprio come nel ‘600 - ai periodi romani e greci o a figure mitologiche, draghi, elfi, ninfe e con artisti, abili giocolieri e coreografici balletti.
E poi la Giostra… il Bando, l’agonismo, le Contrade, la rivalità, il Campo de li Giochi, La Quintana, in attesa di essere inserita nel patrimonio il belli simulacrum, i cavalieri, i destrieri e le lance, gli anelli, immateriale dell’Unesco, ha dalla sua la storia e una tradi- la corsa nella corsa, il Palio, la gioia e le grida, la sconzione di oltre 71 anni di passione contradaiola, coinvolgi- fitta e la rabbia, la Vittoria e la mento puro sia per la bellezza grande festa: “…Tutte accorrete, o genti de’ Rioni, tutte degli abiti e delle variopinte insegne rionali, sia per l’orgo- accorrete a gioir di Vittoria, anco se arride altrui, ché gliosa fierezza dei cavalieri la concordia e l’amor de la ritti nelle eleganti armature Cittade tutta son pur Vittoria e e la radiosa bellezza delle dame, magnifiche e seducenti bella e grande!”. ▣ nei sontuosi costumi. Ma, soprattutto, per la magia della
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Sai che esiste un luogo ricco di natura, emozione, cultura e gastronomia a pochi passi da te? L’Oltrepò Pavese con le sue colline, i fiumi, i borghi storici, le terme, i vini e la buona tavola ti invita per una gita fuori porta o una lunga vacanza. Grazie alle sue strutture ricettive, l’Oltrepò Pavese è il posto ideale per trascorrere meravigliosi momenti con la tua famiglia e i tuoi amici. Lasciati ispirare dai numerosi percorsi che si snodano tra le colline o lungo il Grande Fiume, goditi una passeggiata tra i verdi filari di vite, concediti una piacevole pausa sotto il bersò di un ristorante con i piatti tipici della zona, accompagnati dagli ottimi vini per cui l’Oltrepò è famoso e conosciuto da sempre. E adesso rilassati, sei in Oltrepò Pavese.
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Così vicino, così sorprendente.
L’Arcipelago delle Isole Pelagie:
la bianca Lampedusa, la nera Linosa e lo sperduto isolotto di Lampione Le isole di ”alto mare”, significato di Pelagie in greco, sono situate a circa 200 chilometri a sud di Agrigento, tra l’isola di Malta, la Tunisia e la Libia. L’arcipelago rappresenta il gioiello più meridionale del sistema nazionale delle aree marine protette italiane. Testo e foto di Jimmy Pessina
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e Isole Pelagie racchiudono in un unico arcipelago tesori e caratteristiche ambientali che appartengono a due continenti distinti: L’Africa e l’Europa. Quasi un ponte attraverso il bacino del Mediterraneo, esse testimoniano l’interdipendenza delle dinamiche ecologiche dalla quale non si può prescindere in nessun programma di protezione dell’ambiente. L’arcipelago comprende la grande isola, la bianca Lampedusa, e due piccoli isolotti: la nera Linosa e lo sperduto Lampione. Quest’ultimo, “abitato” solo da un faro, si immerge nel mare con pareti quasi verticali per circa 60 metri di profondità ed è quindi un fondale incontaminato, vero paradiso per i subacquei che qui possono incontrare
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cernie, aragoste, astici, corallo giallo e rosa e lo squalo grigio. Tutt’ora sede di attente politiche di tutela dell’ambiente, l’isola di Lampedusa è una tavola calcarea che termina, a nord, con un’impressionante falesia, mentre a sud la costa è frastagliata e forma lunghi promontori e calette profonde che si chiudono con spiaggette di sabbia. Più vicina all’Africa che all’Italia (e, in effetti, poggia sulla piattaforma africana) è circondata da un mare spettacolare dalle incredibili sfumature che vanno dal trasparente al turchese, al verde smeraldo al blu. Gli abitanti ignorano completamente l’agricoltura e l’interno dell’isola, bianco ed ocra, pietroso ed arido, ha un aspetto desertico.
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Si occupano invece di pesca, come testimonia l’importante flotta ancorata in una rada ben riparata. Nel 1843 l’isola apparteneva all’illustre famiglia di Lampedusa (e Giuseppe, autore del Gattopardo ne è il membro più noto), ma venne poi acquistata da re Ferdinando che vi installò un penitenziario e vi fece approdare alcuni coloni. Bellissimo è lo spettacolo che si presenta agli occhi di chi, armato di maschera e pinne, naviga lungo le coste rocciose: donzelle pavonine dai colori sgargianti, scorfani, bavose sfingi (nascoste nelle piccole cavità degli scogli), stelle marine, salpe, le sottili aguglie,
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polpi, lepri e cetrioli di mare. Il fondale, a tratti roccioso o candido e sabbioso, si tinge improvvisamente di verde scuro. E la posidonia, la pianta acquatica chiamata anche polmone del Mediterraneo per l’ossigeno che rilascia nell’acqua, che forma vere e proprie praterie
sommerse. Chi invece è dotato di bombole scopre un mare ricchissimo di coralli, spugne, madrepore, alcuni coloratissimi pesci pappagallo e, nei pressi di Capo Grecale (ma solo fino a 50 metri di profondità), le aragoste. Da non perdere il giro dell’isola in barca per il
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quale è sufficiente recarsi al porto dove molti barcaioli lo propongono a prezzi contenuti. L’escursione dura normalmente tutta la giornata, con partenza intorno alle 10 e rientro verso le 17. Il giro è descritto in senso orario. La costa bassa e frastagliata è ricca di insenature e calette tra cui
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spicca La Tabaccara, bellissima baia raggiungibile solo in barca, bagnata da un incredibile mare turchino, seguita dalla Baia dell’isola dei Conigli. Si giunge a Capo Ponente, estremità occidentale dell’isola, dove il panorama si trasforma: la costa che caratterizza tutto il lato nord dell’isola è un’alta parete scoscesa che si affaccia al mare con numerose e suggestive grotte. Subito oltre la bella Baia della Madonnina (così chiamata perché se ne ravvisa la forma in una
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roccia in alto) si incontrano gli imponenti scogli del Sacramento, di fronte l’omonima grotta molto profonda e il Faraglione. L’estremità nord-orientale, Capo Grecale, ospita il faro, visibile fino a 60 miglia di distanza. Subito oltre Cala Pisana, la Grotta del Teschio “nasconde” una spiaggia di 15 metri di lunghezza raggiungibile attraverso un passaggio sulla destra. Dato che la strada che compie il giro completo dell’isola non è tutta asfaltata si consiglia di noleggiare dei motorini.
Albero del Sole 133 metri, è il nome del punto culminante di Lampedusa. Una piccola costruzione circolare custodisce un crocifisso ligneo. Alle spalle del muretto di pietra si gode una vista impressionante sul Faraglione, chiamato anche Scoglio Vela, e sulle falesie a strapiombo sul mare. Ritornando sui propri passi bisogna imboccare la strada semi asfaltata, costeggiando una zona di rimboschimento della forestale. Poi, alla fine del muretto di recinzione, si segue un sentiero in
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terra battuta, vagamente tracciato, che porta fino a una piccola croce di ferro. A destra, un promontorio offre un’incantevole vista sullo Scoglio del Sacramento. In lontananza, sulla sinistra, l’isolotto di Lampione. Ritornando di nuovo sulla strada principale e proseguendo verso sud si raggiunge così l’Isola dei Conigli. L’ampia baia, coronata da bianche falesie e occupata al centro da un’isoletta, ospita la più bella spiaggia dell’isola. E’ un
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angolo caraibico, con una sabbia bianchissima che digrada dolcemente in un mare trasparente dai toni sfumati che vanno dal turchese allo smeraldo. Ogni anno, le tartarughe Caretta - Caretta vengono regolarmente a deporre qui le uova. Linosa, bella, nera di roccia lavica, staglia i profili dei suoi tre monti contro il cielo azzurrissimo. E’ un’isola di origini diverse e, si vede subito, i vulcani ormai spenti le hanno conferito un aspetto più inquietante. L’unico
centro abitato, caratterizzato da graziose costruzioni dai colori pastello e con spigoli, porte e finestre profilati a contrasto, si raccoglie intorno al piccolo porticciolo. Da qui si possono effettuare escursioni a piedi, alla conquista delle “vette”, o in barca. Orlata da scogli lavici, molto frastagliati, Linosa viene considerata un paradiso per le immersioni e per gli appassionati di “seawatching”, per la fauna e la flora. ▣
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LA MAREMMA, META PER I ROMANTICI E BUONGUSTAI La Maremma rappresenta ancora oggi la meta preferita per il viaggiatore “romantico”, attratto dall’intreccio di antiche civiltà e tradizioni popolari, da una natura rigogliosa che si conserva all’interno delle numerose riserve naturali e dai sapori antichi dell’enogastronomia del territorio. Scoprire la Maremma è un’esperienza che si rinnova di volta in volta. Testo e foto di Jimmy Pessina
È
un alternarsi di lunghissime e attrezzate spiagge di sabbia finissima accompagnate da rigogliose pinete, di piccole calette dal mare cristallino, di spiagge
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deserte a ridosso di paradisi naturali, di isole incontaminate dal mare incantato, di borghi e castelli austeri, di paesaggi dolcissimi ricchi di natura e di storia. La Maremma si scopre anche seguendo i suggestivi per-
corsi trekking o mountain bike che portano a splendide terrazze naturali. Poche parti d’Italia permettono di raggiungere velocemente dalla costa numerosi e incantevoli borghi, eredità delle antiche civiltà etrusca e romana o gioielli
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dell’architettura medioevale. La Maremma si scopre anche attraverso la ricchezza dei sapori che sa offrire e legati sapientemente al mare e
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all’entroterra da una vecchia saggezza culinaria che si accompagna con le fragranze mediterranee dell’olio e con i rinomati vini. Per accorgersi
dal vivo che la Maremma fa bene. Nella provincia di Grosseto sono numerose le località di interesse archeologico, monumentale e artistico che rendono il patrimonio della Maremma fra i più importanti in Italia. I resti archeologici, i castelli medioevali, le chiese, le abbazie e i borghi distribuiti sul territorio, testimoniano la storia e le antichissime origini di questa terra, dove
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diverse culture sono riuscite a incontrarsi e integrarsi in una perfetta armonia di architetture. La Maremma è una terra in cui l’uomo si è insediato da secoli con rispettosa contemplazione: dagli Etruschi le cui vestigia ci sono state tramandate copiose e diffuse in un connubio armonioso con l’ambiente, ai Romani che hanno lasciato tracce del grande Impero insediandosi con riservata delicatezza. Dagli Aldobrandeschi, che hanno governato per secoli nel Medioevo lasciando torri agili e svettanti, castelli, rocche,
fortificazioni, borghi ben armonizzati con il carisma del territorio, ai Medici e Lorena che hanno lasciato opere e fortezze di grande suggestione, quasi con l’intento di proteggere la natura che li ospitava, più che dominarla. Le necropoli Etrusche e le colonie fondate dai Romani caratterizzano alcune località privilegiate della Maremma, come Vetulonia, Roselle, Cosa o Sovana. Infine, non esiste borgo o paese nella storia della provincia che non offra al visitatore l’improvviso spettacolo di fortezze, pode-
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rosi bastioni, antiche cattedrali, monasteri e pietrose abbazie che invitano alla serenità della meditazione. La qualità dell’enogastronomia maremmana vale da sola un viaggio in questa provincia. Non c’è solo il richiamo del mare, della collina o della montagna: basta un’acqua cotta, il piatto per eccellenza della cucina maremmana, o prelibate pappardelle alla lepre, o tortelli ripieni di bietola e ricotta e conditi con sughi di carne, per motivare un viaggio o un week-end in
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questa terra. Per apprezzare la Maremma è importante conoscerla ed essere capaci di cogliere i suoi sapori forti e dolci, profumati e decisi. In questo scenario parlare di enogastronomia è semplice: prodotti genuini, dai sapori ancora integri, oggi apprezzati più di ieri. Un viaggio in Maremma è sempre anche un viaggio nella natura. La Maremma si contraddistingue per le numerose aree naturalistiche protette. Il Parco Naturale della Maremma, che si estende lungo il tratto meridionale della costa da Principina a Mare fino a Talamone a ridosso dei Monti dell’Uccellina, è stata una delle prime aree italiane tutelate. ▣
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Matera: città da scoprire Da patrimonio dell’Umanità a Capitale Europea della Cultura 2019. di Saverio Scarpino
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arlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” descriveva questa città come bellissima, pittoresca e impressionante. Sono tre termini che ancora
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oggi possono ben rappresentare Matera, ma con una valenza superiore perché questa città ha saputo conservare nel tempo quello straordinario ecosistema urbano che mantiene intatti i suoi legami storici, dal più lontano
passato fino ai tempi nostri. Matera è caratterizzata da un insieme morfologico unico al mondo. E’ situata sul fianco di una gravina tra i Sassi della vecchia città e le caverne preistoriche del Parco della Murgia materana. Nel Parco
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sono presenti centinaia di chiese rupestri che con i Sassi rappresentano una concreta testimonianza di una civiltà millenaria ormai scomparsa ma che ha lasciato segni tangibili dei suoi modi di concepire la vita in un territorio difficile, vivibile solo con il buon uso delle risorse naturali: il sole, la roccia e l’acqua. Degli insediamenti primitivi rimangono alcune caverne, recuperate nella loro essenzialità, ma ciò che crea in questa città un’atmosfera indescrivibile è il sapiente recupero delle abitazioni facenti coronamento all’area urbana che si identificano
come il Sasso Baresano e il Sasso Caveoso. Entrambi questi quartieri sono effettivamente un paesaggio culturale. E’ questo uno dei motivi che li ha resi Patrimonio mondiale dell’Unesco. Matera dunque è città da scoprire, con le sue cento chiese e bellissimi palazzotti, dove il barocco meridionale dà una straordinaria connotazione e lustro alla vita di tutti i giorni. I quartieri dei Sassi sono in gran parte recuperati e tra le abitazioni scavate nella roccia hanno trovato collocazione stupendi e pittoreschi alberghi, cosiddetti “diffusi”, perché le stanze, o i piccoli appartamenti oppure le straordinarie suite sono sparsi in tutto il quartiere dei Sassi. Tassativamente questo centro storico è vietato alla circolazione dei mezzi, tranne che ai taxi perchè portano i turisti nelle varie abitazioni. Tra i Sassi è consentito acquistare immobili solo a chi intende risiedervi stabilmente e quindi è così scongiurata la speculazione con le seconde case. Passeggiare alla sera in Matera è molto suggestivo per le luci delle case dei Sassi che la fanno apparire come un immenso cielo stellato. Questa città ha ispirato grandi autori del cinema da Mel Gibson, che girò qui gli esterni della “Passione di Cristo” e che definì Matera luogo ideale per l’ambientazione di Gerusalemme, a
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Pierpaolo Pasolini che girò “Il Vangelo secondo Matteo”, a Francesco Rosi con “Cristo si è fermato a Eboli” fino a “Ben-Hur” di Timur Bekmambetov. Insomma, dovunque si vada a Matera si respira cultura. La gente di questo luogo è consapevole dell’importanza che sta assumendo questa straordinaria città e vive questi tempi con un preciso senso di responsabilità offrendo ai turisti il massimo, con naturalezza e spontaneità. Orgogliosamente radicata nelle tradizioni anche la cucina lucana che qui viene proposta in ogni sua declinazione e si caratterizza, infatti, di prodotti esclusiva-
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mente locali. Immaginiamoci in una sera d’estate, con temperatura ideale e cenare in una terrazza affacciata al Sasso Baresano o Caveoso. Saremo circondati da una splendida luminaria, quasi da presepe e soddisfatti dalle delizie culinarie che i ristoratori lucani preparano con tanta sapienza. Mi è rimasto impresso nella mente il piatto degli antipasti del ristorante Cola Cola, dove Valeria e Giuseppe, perfezionisti delle tradizioni gastronomiche locali, preparano con il pane fatto in casa, i bocconcini, i nodini di latte di pecora, gli immancabili peperoni cruschi, la caponata di verdure, i salumi con le salcicce secche e gli sformati vari. Il tutto accompagnato da vini locali e del territorio, essenzialmente Aglianico e Primitivo per i rossi, ma non mancano
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i rosati e i bianchi. Da qui al 2019 il tempo è abbastanza breve e Matera si sta preparando per aprirsi a tutto il mondo. Una visita a Matera è veramente un valore e la speranza di poter dire un giorno che Cristo non si è fermato a Eboli ma ha proseguito per Matera è l’augurio migliore che possiamo fare. ▣ T URI S MO NAZ IONAL E
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Prato, una città legata da una Cintola La mostra offre un’occasione da non perdere per visitare questa città, famosa per i tessili e le sue opere d’arte ma anche per una gastronomia davvero speciale. di Giovanna Turchi Vismara foto di Enza Bettelli
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rato, importante centro toscano in provincia di Firenze, deve principalmente alla tessitura la sua fama nel mondo. Negli ultimi decenni, anche a causa di una notevole immigrazione, la città ha dovuto affrontare notevoli problemi, dai quali tuttavia si sta riprendendo facendo forza sulle proprie potenzialità, tante e diverse, rivolte anche all’arte e alla gastronomia. Oggi Prato, città multietnica e laboriosa, pur rimanendo uno dei centri più importanti per le produzioni di filati e tessuti di lana, guarda con particolare attenzione allo sviluppo di un turismo colto e consapevole che valorizzi sia numerose testimonianze artistiche sia i prodotti del territorio. Da alcuni anni non sono solo protagonisti i monumenti e le chiese ma costituiscono un punto focale le numerose mostre d’arte di altissimo livello internazionale, ideologicamente collegate anche all’evoluzione nel tempo dei tessuti più preziosi. Sede principale di tali rassegne sono gli spazi del rinnovato Museo di Palazzo Pretorio, accanto all’antico stabilimento tessile divenuto oggi museo archeologico. La mostra attualmente in corso - Legati da una cintola - fino al 14 gennaio 2018, si T URI S MO NAZ IONAL E
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collega all’anima stessa della città indelebilmente legata alla storia della venerata cintura della Vergine, reliquia e simbolo religioso e civile. Secondo la leggenda, inserita in un testo apocrifo del V-VI secolo, la Cintola fu donata a San Tommaso dalla Madonna stessa nell’atto dell’Assunzione. Il prezioso oggetto, dopo varie peripezie fu portato a Prato dalla Terra Santa nel 1141 dal mercante Michele e donato in punto di morte nel 1172 al proposto della Pieve. Divenuta anche motivo di disputa tra Chiesa e Comune, la Cintola, quale segno dell’elezione della città santificata e motore delle vicende artistiche pratesi, ha da sempre rappresentato per la
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cittadinanza un incredibile intreccio di politica, arte e devozione. Nei secoli la città ne è stata gelosissima custode, tanto che quando nel 1312 il pistoiese Musciattino tentò di rubarla venne punito con la morte. Per la custodia della Reliquia sono state stabilite varie collocazioni fino alla definitiva nella cappella all’interno della Cattedrale di Santo Stefano, eretta alla fine del XIV secolo, con le pareti affrescate da Agnolo Gaddi tra il 1392 e il 1395, e chiusa dalla meravigliosa cancellata realizzata nel 1442 da Maso di Bartolomeo. Tale reliquario che custodisce questa sottile striscia di lana finissima, color verdolino,
lunga 87 centimetri, broccata in filo d’oro, con ai capi due cordicelle, si può aprire solo con l’uso di tre chiavi, due tenute dal sindaco e una dal vescovo. La mostra vuole dunque raccontare al mondo l’evoluzione di questa storia raffigurata in arte per la prima volta in una scultura del secolo XII del Maestro di Cabestany, attivo in Spagna e in Toscana. Tra le tele di importanti maestri del Trecento e del
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Quattrocento che hanno ripreso il soggetto spicca, ricomposta per l’occasione, la monumentale Pala dell’Assunta di Bernardo Daddi, realizzata tra il 1337 e il 1338. La pala era stata divisa tra tre sedi, una parte a Prato, una presso la Pinacoteca Vaticana e una presso il Metropolitan Museum di New York. Nella parte alta della tavola la Vergine, circondata da angeli, tende dalla mano destra la cintola, verde come la reliquia conservata a Prato, verso la mano di San Tommaso.
Nelle due predelle sono raccontate la migrazione della reliquia da Gerusalemme a Prato e in parallelo quella del corpo di Santo Stefano da Gerusalemme a Roma. Ad indicare quanto sia stato forte nel tempo il valore simbolico della Cintola, associata anche all’idea di un grembo fecondo, sono presentate in mostra tante cintole profane del XV secolo, in tessuti ricercati, finemente decorate e tempestate di pietre preziose. A completamento della mostra si trovano altre documentazioni della sacra
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Cintola in diversi luoghi della città. Il Museo dell’Opera del Duomo conserva una selezione di contenitori di reliquie; la Biblioteca Roncioniana offre una serie di manoscritti e pubblicazioni del Settecento e Ottocento sul tema della Cintola; l’Archivio di Stato traccia un ideale filo che lega la storia cittadina dai primordi a oggi. Per ulteriori informazioni: www.palazzopretorio.prato.it Ma non solo l’arte e il tessile sono i grandi ambasciatori di Prato. Alcuni prodotti di enogastronomia sono tra i più
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conosciuti al mondo come i Biscotti di Prato e la tipica Bozza, un pane salato, ora prodotto anche con i grani coltivati a km zero, che ben si abbina alla Mortadella di
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Prato, ultimo dei prodotti tipici a ottenere il marchio IPG. E poi ci sono, vere eccellenze del territorio, oltre alla produzione di Olio d’Oliva, i vini di Carmignano che vantano
il primato di essere la prima DOCG al mondo, il Chianti del Montalbano e il vino di Montemurlo. â–Ł
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CONSORZIO TUTELA VINI DELLA MAREMMA TOSCANA
diversificate che incidono profondamente sulle caratteristiche della
Il Consorzio Tutela Vini della Maremma Toscana nasce nel 2014
Attraverso la partecipazione a manifestazioni internazionali o la
dopo il conferimento della DOC con l’obiettivo di promuovere la qualità dei suoi vini e garantire il rispetto delle norme di produzione previste dal disciplinare, dedicandosi, inoltre, alla tutela del marchio
ricca e variegata gamma di vini proposta.
presenza presso sedi istituzionali sia in Italia che all’estero, il Consorzio è inoltre impegnato nella valorizzazione della Denominazione Maremma Toscana e del territorio da cui essa proviene con l’obiettivo
e all’assistenza ai soci sulle normative che regolano il settore.
di far conoscere la peculiare produzione della Maremma Toscana
Oggi il Consorzio conta 269 aziende associate, di cui 193 viticoltori
risalgono ai tempi degli Etruschi.
(per la maggior parte conferenti uve a cantine cooperative), 1 imbottigliatore e 75 aziende “verticali” - che vinificano le proprie uve e imbottigliano i propri vini - per un totale di 5,5 milioni di bottiglie
DOC e la storia di questa originale zona vitivinicola, le cui origini
Importanti azioni di incoming destinate a operatori del settore italiani e stranieri, oltre a un ricco programma di eventi, tavole rotonde e
prodotte all’anno.
convegni, permettono al Consorzio di presentare l’eterogenea realtà
Il Consorzio opera nell’intera provincia di Grosseto, una vasta area
storica e culturale, promuovendo al contempo le migliori tecnologie
della Maremma non solo enologica, ma anche turistica, agricola,
nel sud della Toscana che si estende dalle pendici del Monte Amiata e raggiunge la costa maremmana e l’Argentario fino all’isola del Giglio, corrispondente alla zona di produzione della DOC Maremma Toscana, dove sono presenti 8.770 ettari di vigneto. Un’area geografica caratterizzata da condizioni pedoclimatiche molto
nel rispetto della natura. Lo scopo della DOC Maremma Toscana è oggi quello di affascinare e stupire gli amanti del bello e del buono di tutto il mondo, valorizzando le diversità di questo sorprendente territorio e ampliando gli orizzonti del gusto toscano attraverso la varietà e la qualità di questi pregiati vini.
www.consorziovinimaremma.it | info@consorziovinimaremma.it
BORA BORA , dove l’acqua è più blu
L’aereo galleggia monotono e silenzioso tra cielo e mare, in un sandwich d’azzurro senza confini apparenti. Così per ore e ore nel paesaggio che non cambia mai, migliaia di chilometri lontano dal mondo conosciuto e dalle sue stagioni. Testo e foto di Jimmy Pessina
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a costa della California è a 6.500 km, Parigi a 18.000, quasi agli antipodi. Dopo 20 ore di volo l’aereo scende all’aeroporto di Papeete, epicentro di tutti i collegamenti tra le isole della Società, come in una lenta, esasperante zoomata e straordinariamente le macchie brune e verdi sul tavolato piatto dell’oceano diventano isole tonde inanellate di acqua chiara o, al contrario, anelli di terra intorno a minuscoli laghi. O, ancora, creste di montagne come iceberg scuri. Siamo in Polinesia francese. Se la Polinesia non ci fosse stata la si sarebbe dovuta inventare: dove collocare altrimenti il luogo deputato all’evasione, se non nel cuore di un oceano sconfinato? Che differenza c’è tra la Polinesia mitologica, quella del nostro immaginario collettivo a quella reale e contingente? Questo arcipelago, sbriciolato nel nulla e lontano 11 fusi orari, conserva ancora oggi (e nonostante tutto) scenari che incantano e ammaliano. Però non è più possibile contemplarlo senza tenere conto del “valore aggiunto” del nostro sguardo e dell’immagine T U RI S M O I NT E RNAZ IONAL E
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mentale che ne abbiamo. La Polinesia va vissuta con questa consapevolezza. E’ allora che nella luce vivida del Pacifico ogni isola, ogni ambiente umano e naturale, esprimerà un’emozione vera e non mistificata. L’isola di Bora Bora, sono in molti a considerarla “l’isola più bella del mondo”. Il perché lo si capisce arrivando in aereo. Il volo da Papeete dura un’ora: scegliete i posti sulla destra e, dalle nuvole, comparirà la sagoma inconfondibile di Bora Bora che, vista dall’aereo, è indimenticabile: l’intenso color sme-
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raldo della vegetazione contrasta con il blu e il turchese dell’immensa laguna chiusa dall’ovale bianco delle onde che si infrangono sulla barriera corallina. Tutto intorno, alcuni motu (isolette di sabbia coronate da palme di cocco). Ed è su un motu che l’aereo atterra: qui l’aeroporto (che fino al 1960 era l’unico di tutta la Polinesia francese) è stato costruito nel 1942 dagli Americani impegnati nella Seconda guerra mondiale nel Pacifico. I 6.000 soldati che componevano la guarnigione vanno considerati dei miracolati della guerra: lontano dai combattimenti, di stanza
in un autentico paradiso terrestre, hanno lasciato il segno del loro passaggio negli occhi azzurri di alcune “vahinè”, le bellissime ragazze locali. Poche le attrazioni a terra: non perdete tempo a Vaitape, il villaggio capoluogo. L’isola, grande più o meno come Lipari, si gira in un attimo. Fermatevi al villaggio di Tiipoto, dal quale si gode il miglior panorama sulle montagne. Ammirate la spiaggia di Punta Matira, dove si affacciano i migliori alberghi dell’isola (tra questi il Bora Bora Sofitel Marara, fu aperto da Dino de Laurentiis per
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ospitare la troupe del film “Hurricane”). L’unica esperienza straordinaria è quella di salire in jeep fino alle pendici del mone Pahia. Per arrivare in cima e godersi il panorama più bello sulla laguna occorre però continuare a piedi per circa tre ore. E’ più che comprensibile se rinunciate e decidete di godervi solo la laguna, il vero spettacolo di Bora Bora: ci vivono oltre 300 specie diverse di pesci, dai trombetta dal corpo allungato della tonalità dell’acqua
ai coloratissimi Picasso. Oltre, naturalmente, agli squali, squaletti piccoli, dalla pinna con la punta nera che all’interno della laguna sono tranquilli come tonni. Ve ne renderete conto durate una delle escursioni organizzate da tutti i principali hotel: mentre sarete in acqua con maschera e pinne un pescatore darà da mangiare a questi pescicani che, con il loro bel pezzo di carne in bocca, passeranno a pochi centimetri da voi. Più emozionante ancora è l’incontro ravvicinato
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con le razze, che passano fino a sfiorarvi con le loro morbide ali. Il modo migliore per godere della laguna è quello di starsene sdraiati al sole sulla spiaggia di un motu: la sabbia qui ha il colore e la consistenza del talco, il mare riflessi blu unici. Il più bello è il Motu Tapu, diventato un po’ il simbolo della Polinesia. C’è ne sono comunque decine, tutti da sogno, come il grande Motu Toopua, l’isola sacra degli abitanti di Bora Bora. ▣
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HAWAII L’arcipelago
di fuoco Hawaii, isole di sogno e di fuoco. Uno dei tanti “ultimi paradisi” dei sogni d’evasione occidentali; una sorta di Eden di celluloide che sembra fatto soltanto di mare, sole e donne meravigliose; un mondo remoto e innocente, forse un po’ finto ma tale da solleticare tutte le corde dell’immaginario collettivo. Testo e foto di Jimmy Pessina
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ppure quest’ultimo e meraviglioso lembo di Stati Uniti è molto più di tutto questo: in quel grande libro aperto che è la vita del nostro pianeta, le Hawaii formano un segmento, forse più impressionante di quello che i geologi chiamano “anello di fuoco”, quel minaccioso rosario di vulcani attivi che, dalle Ande all’Asia, circonda tutto l’oceano Pacifico. Qui, infatti, alle Hawaii, lungo una direttrice che si sviluppa a ovest-nordovest a sud-sudest, per circa 2400 chilometri si trovano alcuni dei vulcani attivi più grandi del mondo, giganti la cui massa supera talora i 4000 metri d’altezza (come il Mauna Kea, alto 4204 metri), che poggiano su piattaforme sottomarine ancora più vaste e profonde. Il tutto sparso su una decina di isolette delle quali soltanto le due più grandi, Maui e Hawaii, sono sedi di vulcani. Le prime attività eruttive di cui si ha notizia risalgono a due secoli fa: ma questo spazio di tempo è poco più di un fiato nel grande respiro della terra, che si misura con ben altro metro se è vero che le più antiche vulcaniti hawaiane risalgono al Tardo Terziario, vale a dire qualcosa come sette milioni di anni orsono. I vulcani hawaiani più attivi oggi sono il Mauna Loa (4170 T U RI S M O I NT E RNAZ IONAL E
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metri) e il Kilauea (1222 metri), entrambi nell’isola Hawaii, tipici “vulcani scudo”, cioè caratterizzati da una base ampia con fianchi a debole pendenza, con eruzioni che si localizzano lungo le grandi fratture collegate alle strutture profonde della piattaforma oceanica su cui poggiano le isole stesse. E proprio lungo tali fratture dette anche rifts o “linee di debolezza”, i giganti hawaiani eruttano, sprigionando spettacolari e terrificanti fontane di lava i cui zampilli possono raggiungere l’altezza di centinaia di metri. Tuttavia, normalmente sono molto più deboli data la fluidità della lava (di natura basaltica, come tutti i vulcani impiantati sulle grandi dorsali oceaniche) e la sua temperatura, compresa fra i 1100 e i 1800 °C. Colate che finiscono con l’assumere quell’aspetto continuo e ondulato, quasi di cordami, che gli hawaiani chiamano pahoehoe, distinguendoli così dagli aa, efflussi più modesti e frammentati.
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l Mauna Loa, con la sua enorme mole, è forse il simbolo stesso dell’arcipelago. Su di esso si esercitò il primo tentativo umano di cambiare direzione al corso naturale di un flusso lavico con mezzi moderni: accadde durante la terribile eruzione del 1935,
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quando si tentò di deviare con grandi colate laviche dirette a valle, anche in direzione un bombardamento aereo sudest. la colata che minacciava la città di Hilo. Ancor oggi, l’attività del Mauna Loa si manil Kilauea, anch’esso festa prevalentemente lungo tipico “vulcano scudo”, i fianchi sudovest e nordest, è stato l’altro grande nella direzione cioè dei due protagonista della rifts più importanti; inoltre, nel recente vicenda vulmarzo del 1984, il suo cratere canica delle Hawaii: la sua principale, inattivo da quasi sommità presenta una grande un decennio, ha incominciato “caldera”, cratere di sproa esplodere aprendo una fondamento, sede di un serie di fratture laterali con lago di lava attivo per molti
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HALEKALA Nell’isola di Maui, non è un vulcano spento, ma “dorme” dal 1970. L’interno del cratere (situato a 3200 metri circa e con una circonferenza di oltre 30 km) offre uno spettacolo di incredibile bellezza: un paesaggio lunare con i colori del Grand Canyon. Nella cavità non solo si può entrare, ma si può trascorrervi la notte, alloggiati nelle capanne gestite dal Parco Nazionale, per assistere al sorgere del sole, la cui sfera infuocata si affaccia all’alba al bordo del cratere. Poiché il vulcano è soggetto a repentini mutamenti climatici, si consiglia sempre di telefonare per le previsioni prima di affrontare l’avventurosa escursione. Per raggiungere la cima, dalla cittadina di Kahului si sale per un’ora e mezzo per i tornanti di Haleakala Road.
decenni, fino a quando le ultime colate di quest’attività sgorgarono nella regione di Kapoho, lungo il rift orientale; nel tentativo di contenerne e deviarne il deflusso furono costruiti argini di terra battuta, ma anche qui l’esperimento riuscì solo parzialmente. Le lave raggiunsero il mare modificando notevol-
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mente il paesaggio costiero, a conferma delle immani forze in gioco nel laboratorio geologico hawaiano. La storia del vulcanismo in questo splendido angolo del Pacifico ha assunto perciò importanza scientifica proprio per le sue peculiarità eruttive: fontane di lava, assenza quasi totale di vere attività esplo-
sive, notevole durata degli efflussi, grande estensione dell’area ricoperta dalle lave. Manifestazioni che ben si distinguono, per esempio, da quelle del nostro Etna, dove la diversa composizione chimico-mineralogica dei materiali vulcanici comporta invece la presenza di attività esplosiva. ▣
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DIAMOND HEAD Nell’isola di Oahu, oltre 400.000 anni di vita. Dalla cima si gode una vista meravigliosa su tutta Honolulu e l’oceano Pacifico. Si sale in auto lungo Diamond Road che gira tutt’intorno al cratere, poi si imbocca un sentiero tracciato aperto tutti giorni. Punchbwl: nell’isola di Oahu, vicinissimo a Honolulu. Basta attraversare la cittadina, deviare sulla Pali Highway in direzione nord e seguire le indicazioni per il National Memorial Cemetery of the Pacific, il cimitero dove sono sepolti oltre 31.000 soldati americani caduti in guerra, situato proprio all’interno del cratere. Mauna Loa e Kilauea: si trovano sull’isola di Hawaii e sono tra i vulcani più attivi e studiati del mondo. Vicini l’uno all’altro, sono facilmente accessibili dalla cittadina di Hilo imboccando la H-11 West (circa 30 km). Raggiunto il Visitors’ Center (centro informazioni) dell’Hawaii Volcanoes National Park, situato sulla cima del Kilauea (1200m circa), si può proseguire per varie escursioni: al Thurston Lava Tube, dove attraverso una fitta foresta di felci si giunge a un tunnel di lava solidificatasi; o al Mauna Ulu, la “montagna che cresce” nata nel 1969; o al Kilauea Caldera, il lago di lava attivo fino al 1970. L’albergo e il ristorante “Volcano House” del Hawaii Volcanoes National Park sono aperti tutto l’anno.
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DOLCE NATAL E In Italia ogni regione, se non addirittura ogni provincia e città, ha un suo dolce dedicato al Natale. Tante tradizioni che vale la pena riscoprire e gustare. Testo e foto di Enza Bettelli
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n questi ultimi anni il Panettone, versione raffinata di un semplice antico pane rustico, è divenuto il simbolo dolce del Natale e della tradizione italiana anche fuori dai nostri confini. Il Panettone, che deve essere basso se vuole rispettare la vera tipicità, è però solo il più cono-
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sciuto degli innumerevoli dolci che costituiscono il patrimonio tradizionale delle feste natalizie in Italia. E se quello milanese è il Panettone per antonomasia, basta una breve ricerca per scoprire che di panettoni ne esistono altri. A cominciare dalla Veneziana, anch’essa milanese e simile al Panettone,
ma con la sommità ricoperta di zucchero granella e mandorle tostate. La Bisciola, con noci, fichi secchi e uvetta, è il panettone della Valtellina e viene preparato utilizzando anche la locale farina di segale. Pure il Pandoro di Verona, la cui ricetta è abbastanza recente e si ispira probabilmente a un dolce
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In questa pagina, dall’alto: Panettone Basso, Bisciola. Nella pagina seguente, in senso orario: Panforte, Pandoro, biscotti al cioccolato, Gubana. A pagina 85, dall’alto verso il basso: Carteddate, biscotti sardi, biscotti. A pagina 86, dall’alto verso il basso: Tronchetto, Torrone Gelato, Casetta di marzapane.
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del tempo della Repubblica Veneta, ricorda il Panettone, ma ha un impasto estremamente soffice e dorato grazie all’abbondante presenza di uova e burro. Panettone e Pandoro hanno una lavorazione particolarmente lunga e complicata e quindi sono raramente preparati in casa. Il Panettone, in particolare, è oggi presente nelle pasticcerie artigianali anche variamente farcito e decorato con glassatura di cioccolato e marzapane. Oltre a questi due famosissimi dolci, le nostre regioni ci propongono un vasto repertorio di ricette tradizionali. Per esempio, a Genova il panettone si chiama Pandolce, è rustico e compatto, molto ricco di canditi e frutta secca e aromatizzato con anice, acqua di fior d’arancio e Marsala. Ugualmente rustico il Pan Giallo, tipico di Umbria e Lazio, che ricorda il Pandolce genovese ma ha tra gli ingredienti anche miele, canditi e fichi secchi. In Abruzzo, il Parrozzo, celebrato dai versi di Gabriele D’Annunzio, è una versione dolce che risale agli inizi del secolo scorso di un semplice pane dei pastori, opera di un pasticciere di Pescara che l’ha arricchito con mandorle e ricoperto con un’invitante glassa di cioccolato. Ovviamente a Natale non si preparano solo pani dolci. Basta una carrellata, anche A GROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E
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se inevitabilmente incompleta, da Nord a Sud nell’Italia gastronomica per scoprire con quanta creatività viene celebrato il lato dolce delle feste natalizie. In Piemonte, molto vicino alla Francia e non solo geograficamente, il Tronchetto è un raffinatissimo rotolo farcito di crema e ricoperto di cioccolato. All’estremità opposta, a Gorizia, la Gubana è una specie di chiocciola riccamente farcita con frutta secca e canditi. La tradizione vuole che si prepari anche con settimane di anticipo e che le ultime fette, divenute ormai un po’ asciutte, siano servite bagnate generosamente con la grappa. In Alto Adige si preparano biscotti di panpepato di forme ispirate alle feste, da regalare o addirittura da appendere all’Albero di Natale. E con i biscotti, le Casette ugualmente di panpepato sono una divertente prova di abilità nella quale si cimentano insieme grandi e bambini. L’Alto Adige condivide con il Trentino l’usanza dello Zelten, un impasto compatto a base di miele, uvetta e frutta secca abbondantemente decorato con canditi e mandorle. Continuando a scendere lungo lo Stivale, il Pan Speziale di Bologna è una specie di torta a lunga conservazione la cui ricetta si deve ai monaci della Certosa di Bologna che ogni anno a Natale inviavano il dolce in
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dono al Cardinale Lambertini. E’ a base di miele, canditi, frutta secca e cioccolato e ricorda il Panforte di Siena, che però è più alto e morbido, famoso quasi quanto il Panettone milanese. A Siena e nel resto della Toscana, i Ricciarelli, delicati biscotti alle mandorle a forma di losanga, fanno compagnia al Panforte sulla tavola di Natale. A Napoli si prepara anche la Pastiera, la tipica crostata di ricotta, che però ha una connotazione più pasquale che natalizia. Scendendo ancora, il Buccellato siciliano è una corona di pasta frolla farcita di frutta secca e fichi, aromatizzata con varie spezie, a volte preparata di dimensioni davvero enormi. Durante tutto il periodo natalizio vengono preparati anche molti piccoli dolci da offrire ad amici e parenti per lo scambio
e decorate con confettini e di auguri. Oltre ai biscotti, ricordano gli Struffoli napocome i già citati Ricciarelli letani e la Cicerchiata in uso toscani e quelli di panpepato nelle Marche e in Umbria. dell’Alto Adige, non dimentiTra tutti questi piccoli dolci chiamo la piccola pasticceria sarda, spesso a base di man- trionfa il Torrone di Cremona, dorle e profumata all’arancia, che con il tempo ha affiancato al tradizionale aspetto presentata anche avvolta candido e alla consistenza nella tradizionale veste di vetrosa anche versioni carta velina colorata e sfranal cioccolato e al pistacgiata. Le Seadas, altra spechio e più o meno morbide. cialità sarda, ricordano dei Torroncini piccoli, morbidi e a grossi ravioli di pasta frolla volte ricoperti di cioccolato si farciti con la ricotta e ricopreparano in Sicilia in alterperti di miele o zucchero. Le nativa all’antica Cubaita, una Carteddate pugliesi sono sorta di torrone-croccante con strisce di pasta dentellate, miele, sesamo, mandorle e arrotolate, fritte e cosparse arancia. E poi c’è il Torrone di miele. Ricordano la Pitta Gelato calabrese, che non è ‘mpigliata calabrese, che affatto un torrone ma un dolce però è cotta in forno come una torta e si ottiene farcendo di marzapane di vari gusti e colori che si serve tagliato a le strisce di pasta con noci, fette. uvetta, fichi secchi, spezie e allineando poi le “rose” otteNon c’è quindi che nute in una teglia, fissandole l’imbarazzo della scelta, e il con il miele. La Pignolata calabrese, invece, sono soffici Natale non potrà che essere dolce. ▣ palline disposte a piramide
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TA S T E O F R O M E si scrive menù
si legge sinfonia Un festival degli chef, è questo il payoff di Taste of Rome, alla sua sesta edizione, che si è tenuto nella Capitale presso l’Auditorium Parco della Musica dal 21 al 24 settembre dedicato ai gourmet e agli amanti del mangiar bene. di Alice Lupi
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uattro giorni con un tripudio di cuochi, di cibo di alta qualità, di partecipanti e all’insegna di giornate assolate. Grandi nomi hanno firmato le “sinfonie del gusto” come Alessandro Narducci, Kotaro Noda, Cristina Bowerman, Angelo Troiani, Daniele Usai, Francesco Apreda, Heinz Beck, Fabio Ciervo, Alba Esteve Ruiz, Roy Caceres, Stefano Marzetti, Giulio Terrinoni, Luigi Nastri, Massimo Viglietti e Adriano Baldassarre con quattro piatti ciascuno. Sinfonie? Sì, nel senso che la struttura organizzativa ha deliberatamente scelto di adattare il tema musicale alla kermesse. Dunque, i menù hanno seguito l’argomento melodia quale filo conduttore, dividendoli in quattro momenti: allegro, adagio, minuetto e rondò. Così, le chiavi di violino hanno aperto menù come spartiti, ricchi di note gustose. 60 portate gourmet su un pentagramma culinario che coincide con il 15° anniversario di attività dell’Auditorium Parco della Musica:
«Per questo compleanno gli chef hanno deciso di fare un regalo all’Auditorium – racconta José R. Dosal, Amministratore Delegato della Fondazione Musica per Roma - e a tutti i buongustai: la tradizionale formula che consente a tutti di assaggiare tre prelibatezze dei grandi chef si arricchirà di un quarto piatto dedicato al nostro Auditorium e ispirato al connubio tra cucina e musica. La scelta del nostro assaggio è ricaduta su
Angelo Troiani del ristorante Il Convivio Troiani che ha proposto un gustoso sandwich di fiori di zucca, mozzarella di bufala e alice e un piacevolissimo primo piatto di spagolino alla chitarra, astice, basilico, limone e verdurine tritate. I partner dell’evento sono stati la sezione più partecipativa dell’evento, più divertente
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ed istruttiva. Basti pensare ai corsi proposti da “La Scuola di Pasticceria” organizzata da Electrolux, oppure a quelli de “La cucina di casa” social cooking di Esselunga. Illy ha ideato degli appuntamenti dedicati a scoprire le diverse tipologie di gusto dei caffè. Anche l’area bimbi con l’iniziativa “I diti in pasta” era istruttiva e divertente con corsi di musica, teatro, inglese e creatività dedicati ai più piccoli. Un evento organizzato molto bene, teso a proporre l’alta cucina dei nostri cuochi, prodotti e ingredienti di pregio. Certo, non si può dire che tutto questo fosse alla portata di borsellino di ogni partecipante. Infatti, oltre al pagamento di un biglietto di ingresso, occorreva pagare i singoli assaggi proposti dagli chef intervenuti, caricando anticipatamente una card valuta, la SesterziCard (il cambio era 1 sesterzio =1 euro) la quale era l’unico strumento valido per acquistare presso i ristoranti e i bar. Anche questo, fa parte della sinfonia. ▣
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È il simbolo della Sicilia: il Fico d’India
Grazie a una moderna e qualificata produzione, questo antico e caratteristico frutto dalle mille virtù contribuisce a valorizzare il territorio e l’economia dell’isola. di Gianna Bozzali
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stico ma succulento frutto dell’Opuntia, tipico dell’area mediterranea, ha trovato proprio in quest’isola le condizioni ambientali ottimali
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per la sua crescita. È il ficodindia nelle sue tre gustose varietà che si distinguono per la colorazione della polpa: la Sanguigna o Rossa, succosa dal gusto corposo, la Sulfarina o Gialla, consistente e saporita, e la Muscaredda
o Bianca, dal sapore delicato. In Sicilia, filari immensi di ficodindia segnano le strade e colorano le campagne, e se un tempo erano destinati a limitare i confini, a trattenere i dirupi, a frantumare la lava ai pendii dell’Etna e a nutrire
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contadini ed animali, oggi questi frutti sono un simbolo di una regione che sta puntando molto sulla sua coltivazione. Attualmente si può contare su una base produttiva di circa 2000-2500 ettari (ogni ettaro produce in media circa 100 quintali di prodotto) nei quattro poli produttivi siciliani quali San Cono, Santa Margherita del Belice, Roccapalumba nel palermitano e tutta l’area etnea con Militello in Val di Catania e Biancavilla fra i territori più interessanti. Un vero e proprio distretto produttivo che vede insieme diverse aziende ed enti pubblici al fine di avere un maggior potere contrattuale nei mercati massimizzando lo A GROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E
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sviluppo di filiera. Ovviamente si tratta di una produzione specializzata che ha visto nell’ultimo ventennio sempre più imprenditori agrumicoli affiancare questa coltura alla loro attività incrementando il proprio reddito. “Il prodotto come fresco – precisa Antonio Lo Tauro, promotore del Distretto Ficodindia di Sicilia- arriva nei mercati del Centro Nord Europa, Francia, Germania e Belgio. Si contano in Sicilia circa 200 aziende che puntano sul fresco, anche che se molte di loro stanno da poco cercando di arricchire l’offerta con dei trasformati come le confetture. Da non dimenticare la quarta
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gamma, ossia il frutto fresco pronto all’uso, molto richiesto nel Nord Italia”. A detta degli esperti il giro d’affari della ficodindiacoltura nel solo sud ovest etneo è di appena 20milioni di euro come valore del condizionato, anche se la commercializzazione del frutto rappresenta solamente la punta dell’iceberg dell’economia che questo comparto può generare. “Abbiamo fatto fare degli studi per capire cosa si potesse ottenere dal frutto in termini di valore aggiunto -afferma Carmelo Danzì, Ricercatore presso l’Università di Catania- e abbiamo scoperto che utilizzando i frutti non idonei alla commercializzazione, quelli cioè al di sotto dei 70
grammi, i frutti compromessi dalla grandine o dalla mosca della frutta, dalla loro buccia si possono ottenere, con dei processi biochimici di estrazione, diverse sostanze quali pectine, coloranti ed oli essenziali mentre dai semi del ficodindia si può ottenere dell’olio pregiatissimo”. Secondo la ricerca condotta da un team di ricercatori del CNR e degli Atenei di Palermo e Catania e pubblicata sull’European Journal of Lipid Science and Technology, l’olio contenuto nei semi di fichidindia coltivati in Sicilia presenta una qualità superiore rispetto agli oli contenuti nei frutti coltivati in altre regioni del
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Mediterraneo come Algeria, Marocco o Tunisia. In particolare, pur avendo un profilo simile a quello coltivato in Tunisia, inclusa un’elevata quantità di acido vaccenico, a differenza dell’olio dei frutti del Paese nordafricano, il frutto siciliano presenta una quantità più elevata di altri acidi grassi insaturi a lunga catena, associati a diversi benefici per la salute cardiovascolare dell’uomo. Inoltre, l’olio di ficodindia ha proprietà nutraceutiche uniche, incluso un elevatissimo contenuto di vitamina E. Questo risultato conferma non solo l’eccellenza della produzione siciliana, ma apre le porte a una valorizzazione economica dei frutti di scarto e dei residui
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di lavorazione del frutto, con notevoli effetti positivi per le imprese del territorio. Infatti, tra gli elementi di rilievo di questo studio c’è la dimostrazione di come la conversione di una tonnellata di frutti non idonei a essere posti in commercio consenta alle imprese di generare un reddito extra non indifferente contribuendo così in modo significativo alla sostenibilità economica, oltre che ambientale, della coltivazione del ficodindia in Sicilia. “Giusto per fare qualche calcolo – spiega ancora Danzì - un kg di pectine di buona qualità può variare il suo prezzo sul mercato da 50 a 100 euro al kg, mentre un kg di olio di semi sui 500 euro a kg circa. Da una tonnel-
lata di questo prodotto fresco possiamo ottenere 100 kg di semi, e da 100 kg di semi un kg di olio, quindi la resa di olio è di uno per mille, cioè un kg per ogni tonnellata di frutto utilizzato. Siamo davanti ad una nuova frontiera di green economy, siamo nell’ambito dell’agroindustria -conclude Carmelo Danzì-. Se noi mettessimo a reddito tutta l’intera filiera con la valorizzazione dei sottoprodotti solo nel sud ovest etneo potremmo parlare di un giro d’affari di circa 50milioni di euro, creeremmo un vero e proprio indotto che attiverebbe l’industria della biochimica, della nutraceutica, della cosmesi”. ▣
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Castelmagno: un paese e il suo formaggio Bianco o erborinato? Questo il problema… di Silvana Delfuoco
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ggi sono in molti a preferirlo bianco, come se le sue bellissime muffe blu, quelle assolutamente naturali che ne garantiscono il giusto grado di maturazione, quasi fossero un “difetto di fabbrica”. Problema di questo nostro strano mondo, quando
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i gusti spesso si omologano per mancanza di tempo, o di voglia, di approfondire l’origine dei prodotti che arrivano sulla nostra tavola. Perché basterebbe conoscerlo più da vicino, il Castelmagno, andando ad incontrarlo nelle verdi valli del Cuneese dove nasce, e matura. Un viaggio “fuori porta” che, a chi non si è mai avventurato nella zona,
potrebbe riservare non poche sorprese, e non soltanto culinarie.
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a strada del Castelmagno
Si percorre agevolmente in auto la Val Grana, da Caraglio, a pochi km fuori Cuneo, su su fino a Castelmagno dove, a
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1760 metri di altezza, sorge il Santuario di San Magno, che della vallata è eponimo e protettore. Collocato non a caso sulle vie di transito dei pastori, che da tempo antichissimo si spostavano tra le valli Grana, Stura e Maira, il luogo già in epoca romana ospitava un tempio dedicato al dio Marte, a testimoniare la sacralità del luogo, che ancora oggi è meta di continui pellegrinaggi. Lungo il percorso si incontrano paesi dai nomi antichi ed evocativi, come Pradleves e Monterosso Grana, anch’essi zona DOP del Castelmagno. Basta fermarsi, seguendo una delle indicazioni che invitano
a visitare un’azienda. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, da quelle storiche associate nel Consorzio a quelle piÚ giovani e innovative, come La Meiro, in Alta Valle.
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na Valle da gustare
Soltanto cosÏ si potrà seguire da vicino l’intero processo di produzione, dal latte riscaldato a 35 °C nelle caldaie di rame, allo sgrondo della cagliata nei teli, alle forme già salate pressate nelle fascere. Ma, soprattutto, si potrà godere dello spettacolo, odoroso e impressio-
nante, dei formaggi in maturazione sugli scaffali delle sale a temperatura controllata, quando non addirittura nelle grotte. Forme e colori in continua trasformazione, dal candore perlaceo dei giovani Castelmagno al rosseggiare dell’ocra di quelli, ridotti in peso e dimensione, lasciati ad invecchiare. PerchÊ non provare, lÏ sul luogo, una degustazione in verticale? Per assaggiare, conoscere, capire e‌ imparare a scegliere. ▣
CASTELMAGNO DOP del 1/07/1996 modificata al 31/03/2005
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Territorio: Il formaggio “Castelmagno prodotto della montagna� deve essere prodotto e stagionato nel territorio amministrativo dei seguenti comuni in provincia di Cuneo: Castelmagno, Pradleves, Monterosso Grana.
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Aspetto: Si presenta di forma cilindrica a facce piane del diametro di 15-25 cm. Lo scalzo è di 12-20 cm. Il peso di una forma varia dai 2 ai 7 kg.
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Pasta: Formaggio presamico pressato a pasta semidura dal colore bianco perlaceo/ avorio, che tende al giallo ocrato con eventuali venature blu verdastre all’interno col progredire della stagionatura. Nasce dal latte vaccino con eventuale aggiunta di latte ovino e/o caprino in percentuale massima del 30%
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Crosta: Non edibile, sottile di colore giallo-rossastro, liscia, tendente al rigido; assume un colore piĂš scuro, si ispessisce e diventa rugosa con il progredire della stagionatura.
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La carne d’Asino
Con questo servizio sulla carne d’asino inizia una mia breve panoramica sulle carni alternative reperibili sul mercato. Con buona pace dei miei amici vegani e vegetariani, per i quali ho, fra l’altro, un grande rispetto, parlerò delle carni che si possono portare in tavola in luogo della solita e abusata fettina di vitello. di Settimia Ricci
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a scarsa diffusione e il suo perché
La prima cosa da chiarire sulla carne d’asino è la sua scarsa diffusione, al punto che l’Italia sembra essere uno dei pochissimi
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Paesi al mondo dove se ne registra il consumo, limitato per lo più alle regioni del Nord. Il motivo va ricercato nella indispensabile funzione di animale da lavoro svolta dagli asinelli nelle campagne del Meridione dove erano e sono tuttora apprezzati per
la loro resistenza e mansuetudine. Preziosa forza lavoro dunque, ma anche comodo mezzo di trasporto, ovvero una autentica risorsa per chi vive e lavora in campagna, utilizzata e apprezzata anche al Nord. Ma allora, vien da chiedersi, perché al Nord si mangia? La spiegazione va ricercata nella minor varietà e quantità di verdure presenti sulle tavole del Settentrione a causa dei rigori del clima e alla conseguente tendenza ad utilizzare tutto senza buttare mai nulla, pur di arricchire e variare una alimentazione che altrimenti, specie in passato, rischiava di ridursi esclusivamente a polenta, rape e patate. Questo spiega non solo il consumo di carne d’asino ma anche il fatto che, specie anticamente, si utilizzava sempre carne di animali vecchi, ormai non più utili per lavoro e nemmeno come mezzi di locomozione. E non
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a caso le ricette prevedono quasi tutte tempi di cottura molto lunghi e il taglio della carne cosiddetto “al coltello”...
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roprietà e caratteristiche
Ciò premesso, la prima domanda che sorge spontanea è: “ma che sapore ha la carne d’asino”? C’è chi giura che somiglia in tutto a quella di cavallo, in particolare per il tipico retrogusto dolce, non a tutti gradito. A nostro avviso invece si avvicina di più a quella di suino. In ogni caso è molto saporita e nello stesso tempo delicata e digeribile. Altra domanda frequente è “dove si può acquistare”? In genere la si trova
nelle macellerie equine che, su richiesta, possono anche ordinarla. Ma ciò che non va dimenticato è che garantisce un apporto proteico superiore a quella bovina: le proteine sono infatti pari al 21,7 per cento. Presenta poi una minore quantità di grassi pari solo al 2,7 per cento, ai quali si aggiungono carboidrati dello 0,5 per cento, acqua al 74,1 per cento, colesterolo al 59 per cento, sodio al 44 per cento. Per ciò che concerne le calorie, sono pari a circa 113 contro le 200 della carne bovina, poi fornisce un concreto apporto di ferro e fosforo, ed è infine l’unica carne a contenere glucidi. Per queste sue notevoli caratteristiche è vivamente consigliata dai medici nutrizionisti a chi soffre di anemia e anche a chi
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è a dieta. Scusate se è poco.
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’origine tra storia e leggenda
La ricetta italiana più nota a base di carne d’asino è il Tapulon (termine usato nella zona del Piemonte attorno al lago d’Orta) o Tapelucco (termine diffuso nell’alto Vergante sulla riva piemontese del lago Maggiore), servito di solito con una calda, morbida e fumante polenta. La ricetta è legata fra l’altro a una simpatica storia, a metà fra tradizione e leggenda. Si narra, infatti, che tredici pellegrini, di ritorno da una visita al Santuario di San Giulio sul lago d’Orta, rimasero senza
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viveri. Stanchi e affamati, si resero conto che la via del ritorno era ancora lunga e che rischiavano di morire di fame e di stenti. Allora uccisero l’asinello che li trasportava e lo cucinarono tritandone finemente le carni: era nato il Tapulon (dal termine dialettale piemontese “ciapulè”, ovvero tritare). Dopo essersi così rifocillati, si resero conto che senza mezzo di trasporto difficilmente sarebbero tornati a casa e allora, guardandosi intorno, e verificata l’amenità dei luoghi, decisero di stabilirsi lì, dando vita in tal modo al primo agglomerato della città di Borgomanero. Ancora oggi, il Tapulon è il piatto tipico più servito nei ristoranti della cittadina.
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lano più soltanto animali anziani ma anche asinelli provenienti dai pochi allevamenti piemontesi, oppure importati dalla Francia o dai paesi dell’Est. E, a questo proposito, anche alla luce della crisi economica che sembra non voler finire mai, a dispetto di ogni ottimistica previsione, molti ritengono auspicabile l’incremento di questo tipo di allevamento, sicuramente in grado di
e ricette
Oltre al già citato Tapulon, esistono il brasato, lo stracotto, il ragù, i ravioli ripieni di carne d’asino e conditi con il ragù dell’animale stesso. E tutte, come abbiamo già detto, sono caratterizzate da una cottura lenta e lunga che in passato, quando venivano macellati solo gli asinelli che non avevano più nulla da dare come forza lavoro o come mezzo di trasporto, serviva a rendere più tenera la carne. Tutte infine prevedono che la carne venga tritata o affettata finemente, sempre per il medesimo motivo. Oggi non si macel-
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fornire ottima carne a un prezzo inferiore rispetto a quella di importazione.
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l nuovo locale a Milano
Di recente a Milano è stato aperto un nuovo locale, DonHot, anagramma di donkey hot, che tradotto alla lettera significa asino piccante. Il locale è gestito da giovani cinesi che propongono il recupero dei piatti della tradizione del loro Paese ormai quasi scomparsi, da loro riportati in auge e reinterpre-
tati in chiave attuale. I media ne hanno parlato come della prima hamburgeria di carne d’asino in Italia, anche se pare ne esista già da tempo una simile a Cagliari. Ad ogni modo le proposte sono varie e cercano di accontentare anche i palati più esigenti. Il brand, fra l’altro, sarebbe già da tempo noto in Cina, in quanto nato a Pechino circa dieci anni fa. Secondo noi merita una visita se non altro per scoprire ricette diverse da quelle della nostra tradizione regionale. I giovani Cinesi propongono, infatti, una ricca carrellata di specialità: hamburger e zuppa di miglio, asino al curry e riso, il super
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hamburger di asino, lingua d’asino in salsa piccante, funghi neri in agro-piccante, spaghetti di riso con ossa di maiale, zuppa di miglio e zucca, radice di loto in salsa piccante, pollo al curry e riso. Il locale si trova in via Aleardi, nel cuore della Chinatown milanese.
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on solo carne ma anche latte
Non si può concludere degnamente questa panoramica senza parlare del latte delle asine il cui uso, da tempo immemorabile, spazia da quello alimentare a quello terapeutico e cosmetico. Il primo ad accorgersi delle preziose proprietà del latte d’asina è Ippocrate, il padre della medicina, che lo consiglia per i problemi al fegato, per la cura degli edemi, contro i sanguinamenti dal naso, in caso di avvelenamento, per la cicatrizzazione delle piaghe e contro le febbri di ogni origine. In epoca romana, Plinio il Vecchio ne tesse le lodi e i benefici per la salute dell’uomo nella sua Naturalis Historiae. Nel Settecento il naturalista francese Leclerc consiglia di far allattare gli orfanelli direttamente dalle asine e fino a tutto il XX secolo il latte d’asina è considerato il più vicino a quello materno e vivamente consigliato per l’alimentazione A G ROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E
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dei bimbi ma anche per gli anziani e le persone debilitate. La medicina attuale ha verificato su basi scientifiche che il latte delle asine è effettivamente quello più simile al latte umano, in particolare per l’elevato tasso di lattosio e il basso tenore lipidico, ma soprattutto per la presenza del lisozima, una sostanza con spiccate funzioni antinfiammatorie, molto attiva contro i batteri gram-positivi e in grado di promuovere anche la crescita della flora intestinale benefica. Il suo uso alimentare oggi è una vera e propria riscoperta e non è raro trovare negli scaffali dei supermercati più forniti, sia il latte sia lo yogurt d’asina. Quanto agli usi cosmetici, sono noti fin dall’antichità grazie a Poppea, la vanesia moglie di Nerone, che faceva il bagno nel latte d’asina al
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fine di mantenere morbida e candida la sua pelle. Ma non era certo l’unica e nemmeno la prima, perché pare che anche la bella Cleopatra prima di lei avesse la medesima abitudine e che ogni giorno si facesse portare a corte il latte di ben 700 asine per immergersi in un voluttuoso bagno di bellezza. Nel Settecento Paolina Bonaparte lo usava quotidianamente per mantenere anche lei morbidezza e candore della pelle. E ancora oggi, esistono in commercio ottimi cosmetici al latte d’asina per la cura della nostra epidermide. ▣
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CHEESE 2017
Slow Food lancia una rete mondiale
per aiutare i produttori di
formaggi a latte crudo Vent’anni dopo la prima edizione di Cheese, nella quale Slow Food iniziò la battaglia per il latte crudo, riparte la volontà di dare vita a un percorso comune che, idealmente, da Bra parte per diffondersi in tutto il mondo. di Gladys Torres Urday con Ufficio Stampa Slow Food Foto di Alessandro Vargiu / Archivio Slow food
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Il tempo è maturo per formare un’internazionale dei formaggi a latte crudo, per creare una rete in grado di mobilitarsi per condividere battaglie, problemi e soluzioni, di esercitare una pressione internazionale. Occorre ricordare, però, che accanto al latte crudo l’altro grande tema di Cheese 2017 sono i fermenti industriali. I formaggi naturali, liberi da fermenti selezionati, sono un qualcosa in più rispetto al latte crudo. A tendere, l’internazionale del latte crudo deve diventare l’internazionale dei “formaggi
naturali”». Così Piero Sardo, presidente della Fondazione per la Biodiversità, tira le somme del pomeriggio di lavori che ha inaugurato l’undicesima edizione dell’evento. L’introduzione dell’assemblea è affidata alla parole di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food: «Confesso che quando mi hanno proposto di dedicare questa edizione di Cheese al solo latte crudo, ho avuto qualche dubbio. Mi domandavo: se escludiamo tutto il resto, riusciremo a tenere alta l’attenzione di produttori e di pubblico? Mi sono dovuto ricredere: la prima
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giornata di Cheese a Bra ci conferma che la linea di comportamento che abbiamo scelto è giusta e sacrosanta per l’intera produzione lattiero-casearia mondiale. Ascoltare le testimonianze di questi produttori è un’occasione unica: la loro è la storia di chi rivendica il diritto alla biodiversità e alla produzione artigianale. Perché più si afferma l’industrializzazione, meno ci sarà visibilità per i produttori di piccola scala». Vent’anni dopo la prima edizione di Cheese, nella quale Slow Food iniziò la battaglia per il latte crudo, si vuole
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quindi dare vita a un percorso comune che, idealmente, parte da Bra per diffondersi in tutto il mondo. A cominciare dagli Stati Uniti. Fino a pochi anni fa i produttori americani dovevano lottare contro una legge che vietava l’utilizzo del latte crudo. Dopo anni di battaglie, anche grazie a Slow Food USA, quel divieto è caduto in diversi stati, tra cui il Wisconsin da cui proviene Andy Hatch, produttore del Presidio Slow Food: «Ogni giorno lavoro per offrire sapori più autentici e complessi, ma c’è ancora molto da fare perché i formaggi della mia fattoria siano riconosciuti sul mercato». In Australia la battaglia è ancora più difficile. Nel Paese
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di Kris Lyiod fino al 2013 la produzione di formaggi a latte crudo era vietata. Da allora qualcosa si è mosso, grazie anche al suo impegno. «In Australia dovremmo federarci per avere più forza e proporre i nostri prodotti». Dal Sudafrica arriva l’esperienza di Brian Dick, formaggiaio e referente di Slow Food Raw Milk Cheese. «In Sudafrica abbiamo una decina di produttori che usano latte crudo» racconta, «ma i problemi in questo momento sono ben altri. A causa del cambiamento climatico e della siccità uno dei nostri produttori recentemente ha interrotto l’attività». E mentre la giornalista e
attivista brasiliana Débora de Carvalho Pereira realizza una “Guia de cura de queijos” e lotta al fianco dei 258 produttori di formaggio a latte crudo del suo Paese, da Cuba Kent Ruiz ha iniziato da poco un percorso di sensibilizzazione e informazione per sostenere la produzione di formaggi a latte crudo. Non solo produttori e consumatori. Fondamentale il contributo degli esperti. Aldo Grasselli, presidente dell’Associazione Italiana Veterinari, invita i produttori di formaggio a latte crudo a costituire dei comitati scientifici indipendenti in grado di supportare con tesi e ricerche la salubrità e la sicurezza dei propri prodotti. E aggiunge:
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«Il latte crudo è stato demonizzato per la pericolosità di alcuni batteri, tra cui l’Escherichia coli. Eppure quel batterio forse è maggiormente connesso alla carne degli hamburger fatti con la carne di vacche portate allo stremo macellata industrialmente» Per Paolo Ciapparelli, del Presidio Slow Food dello Storico Ribelle, il latte crudo è una filosofia di vita: «Forse perderemo la nostra battaglia perché siamo troppo piccoli. Facciamo un formaggio caro perché è senza fermenti e prodotto da vacche alimentate solo a erba, senza mangimi». Come lui Bronwen Percival,
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in rappresentanza di uno dei più importanti affinatori del pianeta, Neals’ Yard Dairy, che pone l’accento sulla biodiversità microbica come elemento cardine del formaggio e della sua territorialità. E che lancia un’iniziativa bellissima: «Neal’s Yard, in questi giorni, venderà a Londra solo formaggi a latte crudo per promuovere la filosofia di Cheese». Infine gli strumenti pratici. Carlos Yescas, messicano e referente della Oldways Cheese Coalition, lancia un sondaggio a livello planetario per conoscere chi fa latte crudo (il sondaggio si trova su www.oldwayscheese.org/bra); l’organizzazione
europea FACE network che raccoglie sotto il suo ombrello numerose associazioni che lottano per il riconoscimento del latte crudo, e pubblica un manuale di buone pratiche, in collaborazione con la Commissione europea, per sapersi orientare tra le norme igieniche in piena legalità. Peter Thomas dall’Irlanda, Guvener Isik dalla Turchia, Maria Procopio dall’Italia e Jean Bernard Maitia dai Paesi Baschi chiudono il cerchio delle testimonianze, sottolineando come la questione del latte crudo sia essenzialmente politica e la necessità di un coordinamento internazionale è fondamentale per avere più forza politica. ▣
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ra il 21 marzo 1987 quando 39 sindaci si riunirono a Siena per dar vita allʼAssociazione Nazionale Città del Vino. Erano sindaci e amministratori di Alba, Asti, Barbaresco, Barile, Barolo, Buonconvento, Canale, Carema, Carmignano, Castagneto Carducci, Castellina in Chianti, Castelnuovo Berardenga, Diano dʼAlba, Dogliani, Dozza, Firenze, Frascati, Gaiole in Chianti, Gattinara, Greve in Chianti, Jesi, La Morra, Marino, Melissa, Monforte, Montalcino, Montecarotto, Montefalco, Montescudaio, Neive, Nizza Monferrato, Ovada, Pramaggiore, Radda in Chianti, Rufina, San Severo, Siena, Treiso dʼAlba e Zagarolo. Da nord a sud, piccoli e grandi comuni, già allora un campione rappresentativo del ricco mosaico che è il vigneto Italia.
Città del Vino, la rete dei Comuni custodi del territorio
Le Città del Vino confermano ancora oggi la bontà di quella idea nata dopo i giorni dello scandalo del vino al metanolo che proprio lʼanno precedente, il 1986, gettò nella disperazione un sistema socio economico basato sul vino, causando vittime e infermità. Quello scandalo rappresentò uno dei motivi principali che spinsero quel gruppo di sindaci a far nascere le Città del Vino, intuendo che lʼoperazione che andava fatta – di carattere culturale, oltre che di marketing – era quella di rendere sempre più forte il rapporto tra vino e territorio, un rapporto che rappresenta ancora oggi lʼunicità del vino italiano, la sua originalità assoluta. Lʼobiettivo dellʼAssociazione è quello di aiutare i Comuni (con il coinvolgimento di Ci.Vin srl, sua società di servizi) a sviluppare intorno al vino, ai prodotti locali ed enogastronomici, tutte quelle attività e quei progetti che permettono una migliore qualità della vita, uno sviluppo sostenibile, più opportunità di lavoro.
Aderire a Città del Vino è semplice Possono aderire allʼAssociazione, in qualità di Soci Ordinari, tutti i Comuni che hanno una vocazione vitivinicola testimoniata dalla presenza di una o più Denominazioni di origine, o Comuni che, per storia e tradizione (sociale, economica, culturale) hanno un forte legame con il mondo del vino. Possono far parte dellʼAssociazione, in qualità di Soci Sostenitori, altri Enti e Associazioni pubbliche, private o pubblico/private che operano in territori a vocazione vitivinicola. Aderire è semplice. Per i Comuni si tratta di predisporre una delibera di Giunta o di Consiglio Comunale, in quanto lʼadesione è un “atto politico”; la delibera, oltre a prevedere la spesa annuale per il pagamento della quota associativa, deve dare atto di aver preso visione dello Statuto e del Regolamento, nonché della Carta della Qualità. Vedi anche: http://www.cittadelvino.it/articolo.php?id=MjMzNA==
Via Massetana Romana 58B - 53100 SIENA Telefono: 0577 353144 • info@cittadelvino.com - www.cittadelvino.it
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Caviale da storione vivo, l’eccellenza che non ti aspetti nel Canton Vallese Dopo molti anni di assenza gli storioni tornano nelle acque del Rodano, un habitat alpino ideale per questi pesci che rischiano l’estinzione. di Nicoletta Curradi
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osa può incontrare il viaggiatore dall’anima gourmet tra le suggestive montagne svizzere del Canton Vallese? Gustosi formaggi d’alpeggio, finissimo cioccolato, carni essiccate e
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molte altre specialità locali. Ma certamente rappresenta una sorpresa il “Caviar With Life”, cioè il caviale di storione vivo, che viene prodotto proprio nel cuore del Vallese, a Leuk-Susten. Si tratta di un’autentica particolarità, unica nel suo genere.
L’allevamento degli storioni vanta radici antichissime: oltre 250 milioni d’anni fa, ben prima che l’uomo arrivasse sulla terra, gli storioni già nuotavano nelle acque dell’emisfero settentrionale. Questi pesci trascorrono la maggior parte della loro vita nel mare,
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ma molti ritornano al tempo della riproduzione al luogo natio. Il Rodano, che nasce appunto nel Vallese, ha ospitato gli storioni fin dai tempi antichi: era quindi giunto il momento di riportarli a casa. Dopo anni di intense ricerche scientifiche, un gruppo
di investitori russi è riuscito a ricondurre lo storione al suo luogo d’origine. A Leuk - Susten, dove già Tolstoi e Chaplin avevano assaporato il caviale degli antenati degli storioni di oggi, è stato creato un nuovo spazio vitale per questa
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specie minacciata d’estinzione. Nel cuore delle montagne svizzere, tra celebri stazioni sciistiche, è stata ricreata la patria ideale per gli storioni, che crescono in un ambiente alpino. L’acqua limpida, il mangime di prima qualità,
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un’assistenza e una cura assidue da parte di esperti altamente qualificati si riflettono sulla qualità del caviale, che è assolutamente genuino. Gli storioni donano il loro caviale nel corso della loro lunga e sana esistenza in modo del tutto naturale, non una sola ma più volte. La purezza, il gusto e la consistenza del Caviar with Life sono esclusivi e unici. Ogni “perla“ ha un carattere proprio. Non viene aggiunto niente a questo dono della natura se non un pizzico di sale, per consentire agli aromi che fanno del caviale uno dei massimi piaceri e un vero lusso gastronomico per conoscitori di sprigionarsi al meglio. L’unico produttore di questa eccellenza opera secondo standard internazionali riconosciuti, senza dover uccidere gli storioni. Grazie ad un
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metodo esclusivo e a nuove tecnologie, i pesci vivono per parecchi anni. Il caviale è naturale al 100% poiché si utilizzano esclusivamente ingredienti non sofisticati come il sale da cucina e senza aggiunta di conservanti, mantenendo così un pieno aroma. Non solo ha un ottimo sapore, ma è anche molto sano. Infatti, contiene pregiate proteine facilmente digeribili, essenziali per la formazione dei tessuti connettivi; soprattutto per la pelle e i muscoli. Il caviale contiene una maggiore quantità di proteine del pesce o della carne. Inoltre, contiene anche amminoacidi essenziali che il nostro corpo non è in grado di produrre autonomamente ma che devono essere assunti tramite l’alimentazione. Il caviale è consigliabile per via del ricco apporto di importanti vitamine, quali A, B, E e
D, come pure di oligoelementi come calcio ferro, fosforo, iodio, zinco, acido folico e lecitina. A questi si aggiungono i pregiati acidi grassi Omega 3 e Omega 6, che rivestono grande importanza per la nostra salute poiché, tra le altre cose, favoriscono l’attività cerebrale, migliorano la circolazione sanguigna nei capillari, rafforzano il sistema immunitario e riducono il rischio di malattie cardio-circolatorie. ▣
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BEVI RESPONSABILMENTE
www.lambrusco.net
www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net
Il Concorso Miglior Sommelier Professionista d’Italia ASPI Nell’ambito della celebrazione dei dieci anni dalla fondazione dell’A.S.P.I., l’Associazione della Sommellerie Professionale Italiana, si è svolto a Milano il Concorso per il miglior Sommelier d’Italia del 2017. Unico concorso in Italia che consentirà al vincitore di partecipare ai Concorso A.S.I. a livello europeo e mondiale. di Giorgio Colli
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l sommelier è parte integrante della brigata di servizio di un buon ristorante. E’ colui che assiste e consiglia i clienti nella scelta dei vini e delle bevande più adatte a un menu o a un evento.
molto ambito. Consente di partecipare ad altri Concorsi internazionali a livello europeo (A.S.I.) e mondiale nei prossimi anni. Si tratta in realtà di una possibilità che le altre associazioni italiane di sommelier non possono dare.
In questo contesto, un fitto programma di prove ha impegnato dodici professionisti tra i quali si dovevano selezionare tre finalisti che il 15 ottobre, con altre prove finali, avrebbero portato alla scelta del vincitore.
Gli altri due finalisti erano Davide Dargenio e Marco Grassi. Hanno sostenuto prove scritte e prove pratiche di servizio. Le prove di selezione finale erano molto articolate, alcune a sorpresa e in una lingua straniera a scelta. Tre vini rossi dovevano essere degustati alla cieca. Si doveva riconoscere il contenuto di dieci bicchieri in cui era stato versato un distillato/liquore. Una carta dei vini con errori doveva essere corretta; uno chef di ristorante
Gabriele del Carlo, che lavora presso il Ristorante del Four Seasons Hotel George V di Parigi, è stato scelto da una giuria internazionale costituita da sommelier e gastronomi. Il titolo attribuito dall’ASPI è
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stellato preparava a sorpresa un piatto di sua scelta servito a due commensali/ giudici e il sommelier doveva scegliere dalla cantinetta sul palco un vino e una birra in abbinamento. Infine come in tutti i concorsi, la prova di decantazione classica con commenti in lingua straniera. Negli ultimi anni si è diffusa la tendenza ad aggiungere anche una prova con altre bevande che ha previsto il riconoscimento varietale, di origine, ecc. di due caffè Nespresso serviti in bicchiere, con acqua minerale abbinata, da suggerire. Il tutto con tempi ristretti e predefiniti. Sostanzialmente queste prove servono a valutare la prontezza delle riposte, l’eleganza dei movimenti
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e la manualità del servizio oltre ovviamente la preparazione teorica. L’esperienza lavorativa dei candidati ha giocato un ruolo rilevante ai fini dell’esito delle prove. L’ambiente lavorativo, il tipo di clientela più o meno preparata o esigente, l’ampiezza tipologica della cantina da cui attingere i vini disponibili, la diversificazione linguistica ecc. costituiscono le premesse per un buon “allenamento professionale”. In questo articolato contesto il mestiere del sommelier è in continua evoluzione, non monotono ma impegnativo perché egli può essere paragonato a un artista in quanto è in scena tutti giorni, pasto dopo pasto. L’analisi senso-
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riale del vino, cioè la disciplina che consente di decodificare i segnali che il nostro cervello riceve, è da un lato un esercizio tecnico, le emozioni non sono escluse!... A.S.P.I. è stata fondata dieci anni fa dall’attuale Presidente Giuseppe Vaccarini (nella foto) insieme ad altri sommelier al fine di valorizzare la sommellerie italiana, si prefigge di essere portabandiera della professione a livello locale e internazionale attraverso progetti lungimiranti come il riconoscimento giuridico del sommelier e la codifica di una didattica formativa. Nel quadro della celebrazione dei dieci anni sono state organizzate delle Masterclass atti-
nenti ad alcuni aspetti della professione; un Water&Wine Tasting a cura di Acqua Panna-San Pellegrino finalizzato al corretto abbinamento acqua-vino-cibo. Poi, un percorso culturale proposto da Birra Moretti alla scoperta di abbinamenti birre e ostriche: un connubio insolito ma celebrato in molti Paesi. Quindi una Masterclass intorno alla maison di champagne Quenardel che vinifica in stretta osservanza della tradizione; per finire con un allenamento insolito intorno a caffè pregiati di terroir d’origine ristrettissima (Nepal Lamjung, Kilimanjaro Peaberry, Aguadas, ecc.), selezionati da Nespresso. ▣
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VINIBUONI D’ITALIA 2018 I numeri della nuova edizione dell’unica guida italiana dedicata ai vini da vitigni autoctoni. • 26.000 vini degustati • 1672 le aziende selezionate in guida • 129 tra quelle selezionate, le aziende del Metodo classico selezionate da Alessandro Scorsone • 672 i vini finalisti • 415 i vini che hanno ottenuto la Corona: massimo riconoscimento per i vini top dell’eccellenza, scelti con voto palese di maggioranza nella sessione finale di degustazione a commissioni riunite su scala nazionale. • 257 i vini che hanno ottenuto la Golden Star: secondo massimo riconoscimento per i vini che hanno espresso eleganza, finezza, equilibrio, qualità e precisa espressione del varietale e del territorio. • 277 le corone attribuite dai winelover, ovvero dal pubblico che ha assistito alle finali di Vinibuoni d’Italia e che ha votato parallelamente ai coordinatori della guida nell’evento “Oggi le Corone le decido io”. Un pubblico, per la maggior parte costituito da sommelier, giornalisti e operatori di settore. • 281 i vini da non perdere:
vini di particolare pregio che le commissioni regionali hanno voluto mettere in risalto, dedicando loro un’apposita sezione della guida. • 27 le commissioni regionali guidate da altrettanti coordinatori • 86 i collaboratori facenti
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parte delle commissioni regionali • 752 le pagine di Vinibuoni d’Italia 2018 • 15 le edizioni realizzate • 22 Euro il prezzo in libreria
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CIBO, FIABE, STREGHE e bevande allucinanti Leggenda e realtà nei racconti dove le “cose da mangiare” hanno sempre un ruolo molto importante. di Paolo Alciati
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l cibo è sempre stato nella vita sociale un elemento fondamentale, non solo come nutrimento e sostentamento ma nel suo pieno aspetto simbolico, ed è da sempre usato come mezzo
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per stringere importanti relazioni; d’altronde si dice “non abbiamo mai mangiato insieme” proprio ad indicare l’inesistenza di rapporti con una persona. Il cibo consumato in compagnia diventa simbolo conviviale di amici-
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zia e di familiarità, si pensi all’ultima cena di Gesù, in cui Cristo spezzò il pane e lo distribuì simbolicamente ai discepoli. Nelle fiabe, solitamente, è il cibo a rappresentare l’ele-
mento essenziale su cui basarsi per denunciare soprusi, ineguaglianze, ingiustizie. Il rapporto della fiaba con il cibo è costante: difficile pensare a fiabe dove non lo si consumi, dove non si parli di cose da mangiare. Briciole di mollica di pane, pranzi sontuosi dove tutti mangiano felici e contenti, casette di
marzapane, mele avvelenate e “paesi della Cuccagna” in cui lungo i “fiumi di farina e di brodetto nero” venivano ammucchiati “…pezzi di carne farcita e rocchi bollenti di salsicce…fette di pesce da taglio, cotti a modo, in salse di ogni sorta ed anguille con grandi contorni di bietole”. Nelle fiabe, il cibo è importantissimo perché quasi sempre
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scarseggia: i genitori poveri di Hansel e Gretel o di Pollicino li abbandonano perché non possono sfamarli, nella casa di Geppetto c’è sì la pentola sul fuoco, ma è disegnata sulla parete e Cappuccetto Rosso porta il cestino di vivande alla nonna ammalata. Ma a volte il cibo è anche fonte di tragedie sfiorate, come per “La Bella
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Addormentata nel Bosco” in cui la principessa rischia la morte perché ad una fata non era stato assegnato il posto alla tavola reale, molto sfarzosa, con posate d’oro e diamanti, in cui si festeggiava la nascita della principessa stessa; non essere invitata a quella tavola, simbolo di appartenenza ad un gruppo elitario, scatenerà l’ira della fata esclusa. Esclusa, quindi, anche dalla ricchezza e dalla società “che conta”! In epoche in cui il denaro scarseggiava, il cibo era l’oggetto principale del baratto, consentendo quindi la possibilità di scambio e perciò di miglioramento sia sociale sia economico. Il cibo è oggetto di desiderio, è nutrimento, è “status” e donare cibo in tempi di
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carestia è donare la vita. La selvaggina era dono molto gradito tra le classi abbienti: il gatto con gli stivali, donando della selvaggina al re, farà la fortuna del Marchese di Carabas. Ma il cibo è anche peccato, già a partire da quello Originale quando Eva porge la mela ad Adamo per condividere la trasgressione e via via fino al Medioevo, periodo buio e di grandi contraddizioni sociali che si evidenziavano anche sulle tavole. Prendendo spunto da un interessante libro dal titolo “Mangiar da streghe” di Laura Rangoni e Massimo Centini, vien facile fare qualche riflessione: la stregoneria è argomento antico, ma solo nel Medioevo ha attratto
l’attenzione della Chiesa che, attraverso i Tribunali dell’Inquisizione, ha mandato a morte molte persone, essenzialmente donne, con questa infamante accusa. Nella realtà il cibo delle streghe non è diverso da quello degli altri “poveri” vissuti nel Medioevo. Un cibo che era sovente indigesto, come il pane in cui spesso si verificava un’incompleta lievitazione a causa della grandezza delle forme e un’insufficiente cottura dovuta all’alto costo della legna da ardere, ma spesso nella miscela per fare il pane entrava anche la segale cornuta che contiene un elemento chimico simile all’LSD, elemento che già da
solo può giustificare le allucinazioni, il sabba ed i “voli” delle streghe. La stregoneria è principalmente un fenomeno contadino dovuto all’ignoranza e, anche a causa della poca conoscenza, il cibo era spesso preparato con prodotti spontanei come erbe, funghi e frutti di bosco e capitava con frequenza di mangiare anche funghi tossici o velenosi come l’amanita muscaride che, mortale se consumata in quantità, provocava allucinazioni e visioni se mischiata in minori quantità con altri ingredienti. Oppure si utilizzavano erbe aromatiche e officinali come il papavero, la belladonna o la man-
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dragora, anch’esse in grado di provocare allucinazioni. Sulle tavole contadine era presente la carne, ma solo degli animali da cortile come polli, oche o conigli e cacciagione. Le mucche servivano per la produzione del latte e i buoi per lavorare e venivano mangiati solo quando erano sterili o troppo vecchi o morivano per incidenti e malattie. Capre e pecore erano allevate anche per il latte e la lana ed erano quindi soprattutto i maiali a occupare un posto importante nel regime alimentare dei poveri e, considerando che i contadini (e le streghe) non potevano permettersi il lusso dell’olio, gli unici condimenti possibili erano il lardo, la sugna
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e il grasso animale mentre il piatto principale dei poveri era costituito dalle frattaglie: orecchie, occhi, testine, polmone, cuore, interiora, trippa, sangue e zampe. Anche i “filtri” non erano altro che bevande dei contadini con aggiunta di erbe fermentate nell’alcol come, ad esempio il Vino del diavolo, con la ricetta trascritta dal giurista Girolamo Menghi nel trattato “Compendio dell’arte esorcistica” (1582): “un poco di succo di felce quercina fresca, due once di miele rosato e di succo di rosa…” o il Vino medicato d’ippocrasso o l’Acquavite medicata con germogli di abete, potente cardiotonico e vasodilatatore: poiché in quei
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tempi i medici curavano solo chi poteva permettersi di pagarli, nelle campagne le uniche medicine provenivano dalla sapienza della donna e della “medichessa” o guaritrice (una sorta di maga o strega, quindi). La base per i medicamenti erano le erbe, che venivano lasciate macerare in acqua, ma più spesso in acquavite o in vino e, si sa, il troppo alcool… Le streghe, quindi, non erano altro che semplici donne emarginate per qualche loro stranezza, che ben conoscevano i prodotti della natura e preparavano elisir e decotti per uso curativo sia del corpo, sia della mente, sia del cuore, definiti con sin troppa faciloneria “incantesimi” e “fatture”,
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e non è da escludere che alla base del volo delle streghe oltre ad un’origine allucinatoria vi fosse la sottoalimentazione, una causa che può aver dato forma a visioni disperate e proprio per lo stretto rapporto tra stregoneria, sottoalimentazione e fame, si narra di misere donne che vivevano nelle valli alpine nutrendosi di castagne, erbe e verdure selvatiche ed erano pallide, macilente, deformi, taciturne e maniacalmente fissate in allucinazioni e fuori di senno, per cui poco differenti da quelle che si credeva fossero in preda al demonio. ▣
Dopo il lancio di “Valpolicella RRR”, la prima certificazione sostenibile d’area in Italia, il Consorzio per la Tutela dei Vini Valpolicella ha organizzato una serie di iniziative per l’anno 2018 volte a rafforzare il proprio impegno nel campo della sostenibilità.
Sostenibilità in vigneto e tutela del territorio www.valpolicellarrr.com
2 febbraio 2018, Verona
Per maggiori informazioni: areatecnica@consorziovalpolicella.it
Il summit riunirà alcuni tra i più importanti enti territoriali da più parti del mondo promotori di protocolli di produzione e/o certificazioni sostenibili nel settore vitivinicolo. Oltre a dare la possibilità ai partecipanti di condividere le proprie esperienze, l’evento getterà le basi per la costituzione dell’International Sustainable Winegrowing Network”.
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L’ A N N O N U O V O C’è il cenone, naturalmente, e il brindisi con parenti e amici, ma anche piccoli rituali scaramantici per accogliere il 2018 con allegria e speranza. testo e foto di Enza Bettelli
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lla notte di San Silvestro si affidano speranze e desideri che ci si aspetta che il nuovo anno esaudisca. Si brinda quindi con le “bollicine”, fiduciosi che anche i 12 mesi a venire saranno altrettanto spumeggianti. Ci si siede a una tavola imbandita con cibi scelti tra quelli più raffinati e costosi, per dare un suggerimento al nuovo anno su quanto vorremmo fosse ricco. Tuttavia, la scelta di ogni singolo cibo viene fatta anche tenendo d’occhio la tradizione scaramantica legata a questa notte speciale, sia nel caso di un cenone vero e proprio sia con un più informale buffet di piccoli bocconcini sfiziosi. Di prammatica lo zampone e il cotechino accompagnati
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dalle lenticchie, un abbinamento perfetto perché le lenticchie hanno proprio la forma delle monetine mentre il maiale è sempre stato simbolo di abbondanza e prosperità. Non si rinuncia nemmeno ai chicchi di uva, che simboleggiano allegria e ricchezza e devono essere 12, uno per ogni mese, da scegliere però tra i più belli e dolci perché così sarà il mese che ognuno di essi rappresenta. In Spagna i 12 chicchi di uva si mangiano seguendo i rintocchi della campana di mezzanotte, ma bisogna seguirne la cadenza per avere soldi e fortuna assicurati. I chicchi della melagrana, rossi e succosi, sono simbolo di agiatezza e fertilità fin dai tempi antichi, mentre la coriacea scorza esterna del frutto intero simboleggia uno
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scudo che ripara dalla cattiva sorte. Chicchi della fortuna sono pure quelli del riso che, sposati a quelli della melagrana, sono un augurio molto promettente. Il mandarino è un altro frutto che non deve mancare sulla tavola aspettando il nuovo anno e, dicono i Cinesi, la sua forma tondeggiante ricorda le monete come pure l’infinito ed è ritenuto di buon auspicio per una vita longeva. Lo sono del resto tutti gli agrumi e in particolare il kumquat che ha la forma di un acino di uva e in più il colore dell’oro. La frutta secca è portatrice di prosperità se in abbondanza e di almeno 7 varietà differenti, 13 per i Francesi. E il peperoncino rosso? Simile al cornetto di corallo che i più superstiziosi non si
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fanno mancare durante tutto l’anno, è ritenuto un efficace portafortuna perché riunisce colore vivace, cuore piccante e punta anti malocchio. Per fare le cose bene fino in fondo ci sono però altri piccoli rituali che non andrebbero trascurati. Essenziale: il tappo della bottiglia di spumante deve saltare in sintonia con lo scoccare della mezzanotte facendo un bel botto, unica occasione in cui è consentito stappare in modo fragoroso perché spaventa gli spiriti ostili. Ed è inoltre permesso intingere un dito nel bicchiere e passarlo dietro un orecchio, nostro e di chi vogliamo con noi nella buona fortuna durante il nuovo anno. E infine, indossare indumenti intimi rossi, come il colore della melagrana e del peperoncino, è un ulteriore incentivo per la buona sorte. Sarà vero o no, perché non crederci? In fondo male non fa. ▣
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