ASA Magazine Anno 2 – Numero 5 – Maggio 2018 – Rivista bimestrale
LA RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE STAMPA AGROALIMENTARE ITALIANA Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 – Tutti i diritti riservati – Dir. Resp. Roberto Rabachino
Il “BIO” futuristico
La nuova tendenza è rompere i consueti schemi al fine di sorprendere il consumatore finale.
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’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è la casa di tutti quei comunicatori che operano nel variegato mondo dell’agroalimentare e non solo. Non sindacale, libera e apolitica, ASA raggruppa tutti quei professionisti della comunicazione di settore che si riconoscono in questi fondanti valori. Formatasi nel 1992 e registrata legalmente nel 1993 con sede a Milano, è uno dei sodalizi più conosciuti e riconosciuti a livello nazionale ed internazionale. I suoi iscritti collaborano giornalmente in più di 600 testate giornalistiche nazionali e internazionali, in trasmissioni televisive, in blog e siti internet, negli uffici stampa e di promozione turistica del territorio, negli Enti di tutela del comparto agroalimentare. ASA è particolarmente sensibile a tutto il mondo del biologico con una redazione specifica dedicata all’argomento.
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ASA al servizio della corretta comunicazione
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’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è uno strumento di raccordo e di sintesi, di stimolo e di supporto, di analisi e di costruttiva critica. La nostra mission è offrire supporto e collaborazione a tutti quei giornalisti e/o operatori dell’informazione che hanno nella serietà, nella moralità, nella sensibilità, nel rispetto e della deontologia professionale, le loro principali caratteristiche. Iniziative, progetti, eventi collegati ai nostri associati troveranno il giusto spazio all’interno del nostro sito, nei nostri social, nella nostra rivista e nella nostra newsletter inviata settimanalmente a più di 30.000 iscritti. Sensibile alle tematiche legate alla professionalità degli operatori della comunicazione di settore, ASA è anche uno strumento di formazione per i propri iscritti con un programma di corsi specialistici a loro dedicati in forma gratuita.
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ASA MAGAZINE n. 5 / 2018 – Maggio 2018 – Rivista Bimestrale Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 Direttore Responsabile N. 5 / MAGGIO 2018 Rivista Bimestrale
Roberto Rabachino C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 direttore.asamagazine@asa-press.com
Redazione Centrale e Editing Enza Bettelli C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 redazione.asamagazine@asa-press.com bettelli@asa-press.com
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Comitato di Redazione e Controllo Roberto Rabachino, Giorgio Colli, Patrizia Rognoni, Riccardo Lagorio e Saverio Scarpino
Hanno collaborato a questo numero Roberto Rabachino, Marcello Masi, Paolo Alciati, Nicoletta Curradi, Alice Lupi, Franco Mioni, Gudrn Dalla Via, Jimmy Pessina. Giovanna Turchi Vismara, Franca Dell’Arciprete Scotti, Silvana Delfuoco, Enza Bettelli, Settimia Ricci, Redazione Centrale, Gladys Torres Urday
Per la fotografia Jimmy Pessina, Enza Bettelli, Comprensorio La Cassinazza
Sommario EDITORIALE Uniti contro le agromafie a cura di Roberto Rabachino, Presidente Nazionale ASA
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APPROFONDIMENTO La responsabilità della comunicazione di Marcello Masi
Massimo Sagna: una storia che parte da lontano, dal 1928, 90 anni or sono a cura di Paolo Alciati
Intervista a Vito Intini, presidente ONAV – Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino a cura di Paolo Alciati
Intervista ad Alberto Lupini, direttore responsabile di Italia a tavola di Nicoletta Curradi
Il Carciofo Romanesco del Lazio, un fiore IGP senza Consorzio di Alice Lupi
E’ nata l’Associazione Le Donne dell’Ortofrutta di Franco Mioni
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BIO Il “BIO” futuristico di Gudrun Dalla Via
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TURISMO NAZIONALE Museo del Vino (MUVIT) di Torgiano, eccellenza italiana di Paolo Alciati
Elba, l’isola che non finisce mai di stupire di Jimmy Pessina
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TURISMO INTERNAZIONALE
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Un viaggio a Mulhouse in Alsazia tra musei, arte e golosità di Giovanna Turchi Vismara
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Appuntamento a Losanna
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Il tesoro della Bulgaria: le rose
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Francia: la Provenza e Camargue
di Franca Dell’Arciprete Scotti
di Jimmy Pessina
di Jimmy Pessina
AGROALIMENTARE NAZIONALE
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Il Festival del Giornalismo Alimentare di Torino
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Asparagi... di tutti i colori
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di Paolo Alciati
di Silvana Delfuoco
La gratificante arte del “sottovetro” di Enza Bettelli
Riso Anno Mille, nuova linea di riso naturale del Viaggiator Goloso di Giovanna Turchi Vismara
Una carne dimenticata e ora di nuovo regina delle nostre tavole di Settimia Ricci
NEWS DALL’ITALIA
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Dieta mediterranea amica di ossa e muscoli nella terza età a cura della Redazione Centrale
NEWS DAL MONDO
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Dalla Ue 30 milioni per frutta e latte nelle scuole nel 2018-2019 a cura di Gladys Torres Urday
Uniti contro le agromafie Quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori, a partire da quella sul caporalato.
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n occasione della XXIII Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare promosso dalla Coldiretti con il procuratore Giancarlo Caselli alla guida del Comitato Scientifico, rende noti i numeri del volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia. E quello che salta agli occhi è che, nell’ultimo anno, tale volume, nonostante gli allarmi e le prese di posizione, è salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30% per quanto riguarda la filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita. In altre parole l’area dell’agroalimentare è divenuta una delle aree prioritarie di investimento della malavita. L’attività delle cosche è a largo raggio: furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket, abigeato, estorsioni, il cosiddetto pizzo anche sotto forma di imposizione di manodopera o di servizi di trasporto, di guardiania e di caporalato alle aziende agricole, tutti gli strumenti sono utilizzati per mettere sotto scacco il tessuto produttivo agroalimentare del Paese. “Le mafie – denuncia la Coldiretti – condizionano il mercato agroalimentare stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzione dell’Italian sounding e lo sviluppo ex novo di reti di smercio al minuto. In questo modo la malavita si appropria – sottolinea la Coldiretti – di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma anche compromettendo in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani e il valore del marchio Made in Italy”. E tuttavia, nonostante la gravità e l’immenso lucro che ne deriva, le mafie
non si accontentano, ma mettono le loro mani insanguinate anche nel lucroso business delle importazioni. Quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori, a partire da quella sul caporalato, vigenti nel nostro Paese, dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani fino ai fiori del Kenya. Insomma, l’agroalimentare è davvero ormai una delle aree prioritarie di investimento della criminalità che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la via quotidiana delle persone. Una rete criminale protetta da una collaudata e sapiente politica della mimetizzazione, grazie alla quale le cosche riescono a tutelare i patrimoni finanziari accumulati con le attività illecite muovendosi ormai come articolate holding finanziarie. E anche i supermercati rappresentano spesso efficienti coperture mostrando una facciata di legalità dietro la quale non è sempre facile risalire ai veri proprietari ed all’origine dei capitali. Le agromafie vanno contrastate nei terreni agricoli, nelle segrete stanze in cui si determinano in prezzi, nell’opacità della burocrazia, nella fase della distribuzione di prodotti che percorrono migliaia di chilometri prima di giungere al consumatore finale, ma anche attraverso la trasparenza e l’informazione dei cittadini che devono poter conoscere la storia del prodotto che arriva nel piatto. di Roberto Rabachino – Fonte dati Coldiretti
L a resp onsabilit à della comunicazione La vita, la frenesia, la globalizzazione, le tradizioni, il lavoro duro, la serietà, il rispetto, la donna, l’uomo, i nostri diritti e i doveri che abbiamo verso i nostri figli, verso gli altri. di Marcello Masi – Conduttore Linea Verde RAI1
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n una epoca storica così veloce e ondivaga credo sia giusto fermarsi ogni tanto a riflettere. Senza pensiero, infatti, riflettiamo solo le idee degli altri. Il mondo fuori è ormai il nostro.
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La globalizzazione mostra i suoi limiti e i suoi pericoli. E senza un’identità forte non da contrapporre, ma sicuramente da difendere, si rischia di perdere tutto. Un frullato indigesto di interessi e bassa qualità. Oblii e
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furberie. Grandi ingiustizie e abiure. La perdita della nostra identità non è un pericolo astratto. Chi vive in città fa i conti tutti giorni con una vita stravolta dai ritmi e da un flusso informativo continuo e difficilmente distinguibile. Non
soprattutto nella capacità di gestire più strumenti contemporaneamente. Studiano, chattano, parlano insieme senza perdere i fili dei ragionamenti. Una generazione sveglia direbbero i nostri genitori, eppure fragile. Tanti i punti di riferimento sbiaditi e complessi. Famiglia in difficoltà, scuola in crisi, politica delegittimata. Elementi che destabilizzano una società in veloce trasformazione e alle prese con una grave crisi economica.
basta essere intelligenti per difendersi da questa frenesia molte volte senza obiettivi o mete. Siamo coinvolti in un gioco complesso con regole variabili, non scritte, e che non valgono neppure per tutti. Siamo insieme a milioni di persone, ma siamo concretamente più soli. Abbiamo a disposizione centinaia di strumenti di conoscenza, ma abbiamo sempre più bisogno di esperti per tradurre ogni segnale. Insomma, viviamo ogni giorno mille contraddizioni senza avere il tempo per tradurre le nostre reazioni ad ogni stimolo. Un’epoca veloce, dicevo, più veloce di ogni altra. I nostri figli ci sopravanzano non solo nell’uso degli strumenti tecnologici, ma anche e
E’ in questo contesto certamente inedito che si muove l’informazione. Un flusso ininterrotto di notizie o presunte tali inonda ogni secondo della nostra vita. Molte volte le subiamo senza nessuna possibilità di scelta. La tecnologia permette oggi di raggiungere i destinatari nei luoghi più impensati. Gli schermi televisivi occhieggiano negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, negli uffici postali. Una notizia in pochi secondi può rimbalzare su tutta la terra. La nuova frontiera di internet, poi, ha aperto la strada a milioni di nuove fonti costantemente disponili, immediatamente consultabili. Verrebbe voglia di dire che va tutto bene e che mai come oggi l’uomo ha le chiavi della conoscenza e la possibilità di essere informato. In parte è indubbiamente così, ma solo AP P RO FONDI M E NT O
in parte. Ogni rivoluzione, infatti, porta con sé una dose di veleno. E nell’informazione il veleno agisce in modo subdolo. Chi è più preparato di me sull’argomento potrebbe parlarvi della disinformazione sistematica utilizzata molte volte sulla rete che si affianca all’imperante pressappochismo. Io preferisco affrontare e tentare di spiegare i pericoli quotidiani che si corrono facendo informazione televisiva. Innanzi tutto la ricerca del consenso. Share e audience sono diventati termini popolari così utilizzati da essere diventati un simbolo del nostro tempo. Per loro abbiamo sacrificato molto. La mia è solo una riflessione non sono in grado di giudicare. Certo è che ormai le scelte sono diventate a volte molto difficili. Sapere per esperienza, per esempio, che un tale argomento non farà ascolto e nello stesso tempo essere convinti che sia utile affrontarlo pone quesiti inediti di ordine professionale, ma anche etico e morale. Costruire per pochi rischia di essere un’operazione elitaria, viceversa ammiccare solo a quello che può piacere è, a mio modo di vedere, imperdonabile. Realisticamente bisognerebbe cercare un punto di equilibrio. Ma con quali strumenti orientarsi? E’ sufficiente una base
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culturale forte? Non sempre. L’esperienza? Fondamentale, ma non basta. E allora? Mi viene in mente una sola parola. RESPONSABILITA’. Un concetto negli ultimi anni divenuto sempre più astratto. Non solo nel nostro mestiere ma in gran parte delle attività del nostro Paese. L’Italia è afflitta ormai da decenni da una sorte di spensieratezza ideologica. Troppe volte si è preferito e si preferisce
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non scegliere quando la scelta comporta sacrifici. Un sacrificio può essere una scelta politica, economica, sociale, ma anche un palinsesto di rete o un piccolo servizio giornalistico. Le pressioni sono enormi ed anche il servizio pubblico le subisce. Ignorare questo non aiuta a capire. Promozione del territorio, valorizzazione dei nostri
prodotti e del lavoro dell’uomo, tutela del marchio Italia, innovazione e ricerca, tutela del consumatore, scoperte delle eccellenze. Questi alcuni dei punti fondanti della nostra trasmissione. Lo facciamo con umiltà, ma anche con coscienza dei nostri mezzi. La nostra missione è semplice: fare un buon lavoro con onestà, curiosità e fantasia. Sono sempre più convinto che ognuno di noi debba fare qualcosa di concreto nei confini della propria attività professionale. Non è più tempo di aspettare Godot e nell’attesa cercare di “sopravvivere”. Questo Paese ha risorse praticamente illimitate in termini di capacità, fantasia e professionalità. Per non parlare delle nostre bellezze storiche-artistiche, uniche al mondo, e dei nostri prodotti agroalimentari invidiati da tutti. Quello che manca è una coscienza condivisa dello Stato. Cominciamo a lavorarci senza attendere oltre. I ”nostri”, per citare la filmografia western e una canzone di qualche anno fa, “non arriveranno mai se non sanno dove andare”. E’ il momento di agire ognuno per la sua quota parte di responsabilità. Forse non riusciremo a migliorare subito la nostra vita e quella degli altri, ma sicuramente ricominceremo a costruire qualcosa di diverso e di più utile. ▣
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Massimo Sagna: una storia che parte da lontano, dal 1928, 90 anni or sono Ogni generazione apporta qualche cosa di nuovo, ma i frutti delle decisioni prese potranno essere valutati solo dopo anni. a cura di Paolo Alciati
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Vinitaly 2018 abbiamo incontrato Massimo Sagna, a capo dell’omonima società importatrice di vini e champagne di eccellenza. Quella della famiglia Sagna è una storia di scelte di prodotti sempre al top, scelte dettate dalla grande professionalità e dalla lungimiranza delle persone che vi lavorano. Massimo Sagna ci ha raccontato questa storia, a partire dal 1928, quando l’azienda fu fondata dal nonno Amerigo, fino ad oggi, con la quarta generazione dei Sagna. “Fu mio nonno Amerigo che fondò la società, in epoche veramente pionieristiche. La prima grande svolta
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avvenne nel 1935, quando assunse per tutta Italia il mandato di distribuzione dello Champagne Mumm Cordon Rouge. Purtroppo il clima politico dell’epoca non era certo favorevole agli scambi: il 18 novembre del medesimo anno la Società delle Nazioni decretò le cosiddette “inique sanzioni”, l’Italia si trovò commercialmente isolata ed era ovviamente impossibile l’importazione dalla Francia, allora nemica. Fu solo dopo la guerra che si poté iniziare a lavorare, ma anche a conflitto terminato non erano certo finite le difficoltà. La società di famiglia subì tutte le traversie che il commercio dovette affrontare in quel periodo travagliato: si passò attraverso gli “scambi in
compensazione” (per aver diritto di importare bisognava esportare per pari valore; mio nonno esportava riso in Francia). Quindi fu la volta del regime delle licenze, che venivano concesse non necessariamente a chi ne aveva diritto. A quell’epoca era dunque necessario acquistare le licenze di importazione da coloro che le detenevano, spesso senza sapere che farsene. A queste difficoltà “burocratiche” si aggiungevano regolarmente le cicliche crisi economiche che sempre hanno caratterizzato la vita del nostro Paese e che, ahimè, sono ben lungi da essere un ricordo del passato. Dal dopo guerra, a mio nonno si affiancò mio zio Ernesto, che lentamente prese in
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Presidente della nostra Società, è un grande amico. Io iniziai a lavorare alla fine degli anni ’70, dopo un anno passato nelle cantine di Epernay ad imparare i segreti dello Champagne. Mi ricordo che, con la mia ingenua arroganza giovanile, pretendevo di mantenere gli stessi ritmi di lavoro dei “rémueurs” più esperti (50.000 bottiglie al giorno!): alla sera, per lo sforzo fatto, non riuscivo nemmeno ad alzare il cucchiaio della minestra!
mano le redini della società e la fece prosperare. Fu capace di avere sempre una visione chiara del mercato e seppe imporre alla Sagna S.p.A. quelle sterzate che l’evoluzione del commercio richiedeva. Anche lui dovette affrontare grosse difficoltà: negli anni ’80 gravavano
sugli Champagne imposte pesanti (IVA al 38%!), che ostacolavano il lavoro. A mio zio bisogna anche riconoscere la grande abilità di sapersi circondare di collaboratori di altissimo livello, primo fra tutti Giusto Lusso che, oltre a essere tuttora l’indispensabile AP P RO FONDI M E NT O
Nel frattempo la casa Mumm era entrata a far parte di società multinazionali le cui esigenze mal si sposavano con il lavoro artigianale e curato in cui ci eravamo specializzati. Dopo 53 anni di collaborazione le nostre strade si separarono, ma, come dicono i Francesi, “parfois malheur est bon”. L’altra grande novità fu, infatti, l’assunzione del mandato di una nuova importante casa di Champagne: Louis Roederer. Questa grande scelta di eccellenza, dettata dalla lungimiranza di mio zio, ci permise di fare un importante salto di qualità. Negli anni che seguirono, decidemmo di ampliare la nostra gamma con i vini francesi. Grazie all’esperienza di mio zio (e forse anche alla mia passione per i buoni vini), alle nostre poche rappresentanze aggiungemmo etichette di
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grande prestigio e di fama internazionale. Pur nella limitatezza del nostro mercato, dominato come è ovvio dalla produzione nazionale, il successo riportato con la distribuzione dei vini francesi di alta qualità è stato riprova della bontà delle scelte. Il consumatore italiano ama il vino e sa riconoscerne pregi e difetti: era logico che la qualità venisse premiata. Il Pouilly Fumé del Barone Patrick de Ladoucette, gli alsaziani dei Domaines Schlumberger, i vini di Provenza dei Domaines Ott, i Borgogna del Domaine de la Romanée-Conti, i grandi
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Bordeaux come Pétrus e Pichon Lalande, per citarne solo alcuni, hanno avuto un successo commerciale che è andato talvolta oltre le nostre più rosee aspettative. In un mondo dominato da colossi multinazionali, contro i quali è impossibile competere, un produttore indipendente, per sopravvivere e veder prosperare la propria azienda, ha una sola scelta: produrre la più alta qualità possibile e rivolgersi a quei consumatori raffinati che aspirano ad uno stile di vita superiore. La nostra Società è rimasta assolutamente indipendente ed importa e
distribuisce solamente vini e liquori prodotti da Società familiari in grado di dare le massime garanzie di serietà, qualità e continuità nel tempo. Personalmente, sono particolarmente contento che, per il prossimo futuro, la continuità della presenza di un membro della famiglia Sagna sia garantita: infatti, mio figlio Leonardo (che rappresenta la quarta generazione) da qualche anno lavora in azienda, e chissà, tra un po’ anche il mio secondo figlio... Ogni generazione apporta qualche cosa di nuovo, ma i frutti delle decisioni prese potranno essere
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valutati solo dopo anni. Il commercio dei vini e liquori è in continua evoluzione, ed è fondamentale riuscire a mantenere una visione lucida del mercato in cui si opera, cosa che, invecchiando, non è facilissima. Per questo motivo l’apporto di nuove energie è fondamentale per non fossilizzarsi su posizioni di retrovia, puramente difensivistiche. La nostra Società, per più di ottant’anni si è occupata solamente della distribuzione di prodotti d’importazione. Negli ultimi anni abbiamo iniziato ad occuparci anche di vini italiani perché l’enologia nazionale, nei decenni scorsi, ha fatto passi da gigante e ci sembrava opportuno, anche per completare la nostra offerta, inserire a catalogo una categoria di prodotti così importante. Inoltre, c’era la naturale aspirazione a veder crescere il fatturato e, operando in un Paese ritenuto uno dei più grandi produttori al mondo, era logico che mi impegnassi personalmente nella selezione dei vini da distribuire. Attualmente la nostra gamma nazionale è tutt’altro che completa, poiché abbiamo in listino solamente vini del nord dell’Italia, ma in futuro contiamo di integrarla, senza fretta e, soprattutto, senza cedere a facili tentazioni. La scelta dei nostri attuali partner non è stata facile: volevamo cantine in grado di
fornire prodotti di alta qualità, anche poco conosciuti e di disponibilità limitata, ma che ci permettessero di sviluppare le vendite presso la nostra clientela abituale. La nostra preferenza è andata a coloro che perfezionano vitigni autoctoni, nella convinzione che la ricchezza ampelografica italiana non è seconda a nessuno e vanta dei pregi che la rendono unica ed insostituibile. Devo riconoscere che quando abbiamo avuto la fortuna di incontrare i produttori con le caratteristiche che cercavamo l’accordo è stato facilissimo: si aveva tutti gli stessi obiettivi, le stesse esigenze e le stesse aspirazioni. È logico: tra famiglie indipendenti che condividono gli stessi valori, l’intesa è facile. L’usanza impone un contratto, ma una stretta di mano sarebbe stata sufficiente perché ho avuto l’occasione di conoscere persone straordinarie: Paolo Rapuzzi, schietto “furlano” fondatore di Ronchi di Cialla, uomo eccezionale non solo per la qualità dei suoi vini, ma anche per i valori trasmessi ai figli Pierpaolo e Ivan che oggi guidano l’Azienda; Giorgio Anselmet, che con poche parole e tanta fatica produce in Val d’Aosta grandi vini di montagna; Marco Speri, che nella sua Azienda Secondo Marco, ha saputo fondere l’esperienza di famiglia, la modernità e la sua visione
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A pagina 13, Massimo Sagna. A sinistra, Leonardo Sagna e Massimo Sagna. A pagina 16, Massimo Sagna con Romanée-Conti e Cognac Delamain.
dei vini della Valpolicella; l’ingegner Italo Stupino, dalla vitalità inesauribile e dai favolosi Barbareschi del Castello di Neive; Rodolfo Migliorini, che sa regalarci i profumi e le complessità del Barolo Pianpolvere Soprano; Mario Sandri che, scrivendo poesie, produce l’affascinante Moscato Passito Seren, presente nei pranzi ufficiali della Presidenza della Repubblica; il dottor Lucio Scaratti, che con il suo socio Luigi Schiappapietra hanno saputo far rinascere e prosperare un monumento della tradizione: la grappa di Romano Levi. Come si diceva prima, il mondo è in continua evoluzione ed è importantissimo essere sempre attenti ai consumi dei giovani. Negli ultimi tempi abbiamo visto tornare di gran moda i cocktail, in una
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semplice, anch’esso è monopolizzato da potenti multinazionali, in grado di mettere in campo grandi risorse. Tuttavia non abbiamo voluto derogare dalla politica che ha sempre caratterizzato le nostre scelte: solo prodotti di qualità. Necessariamente più costosi degli equivalenti industriali, ci obbligano a rivolgerci a una clientela di nicchia che vuol distinguersi. Anche in questo campo, per noi nuovo, abbiamo avuto la conferma di quanto detto sopra: gli Italiani sanno apprezzare le buone cose! I Gin Panarea, dei fratelli Lorenzo e Federico Inga, con i loro profumi mediterranei, agrumati e affascinanti, hanno avuto un eccellente riscontro, così come la nostra ultima acquisizione, il Vermouth Antica Torino, che ripropone quelle complessità aromatiche che avevo dimenticato…
veste ben diversa da quella tradizionale. Alla figura del grande barman in giacca e farfallino si è affiancata una nuova generazione di giovani bartender, sicuramente meno formali, ma di grandissima
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professionalità ed esperienza. Noi non potevamo certo ignorare questa tendenza e abbiamo cercato di adeguarci, adattandoci di conseguenza. Entrare in questo mondo non è certo
Concludendo, sono sempre più convinto che la politica societaria impostata da mio nonno Amerigo, affinata da mio zio Ernesto e portata avanti con l’intelligenza e l’abnegazione di Giusto Lusso, sia il binario sul quale bisognerà viaggiare negli anni a venire. La tendenza del mercato va tutta nella stessa direzione: si berrà sempre meno e, conseguentemente, sempre meglio. Il futuro del mondo dei vini e liquori è nei prodotti di alta qualità.” ▣
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Intervista a VITO INTINI,
presidente ONAV – Organizzazione Nazionale
Assaggiatori Vino a cura di Paolo Alciati
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residente Intini, cos’è l’Onav e quale scopo si prefigge?
Come interpreta l’Onav l’importante compito di diffondere la cultura del vino?
Proprio svolgendo queste attività oggi diffuse su tutto il territorio nazionale con 96 L’Onav nasce nel Sezioni provinciali e 5 Sezioni 1951 con lo scopo di estere. promuovere il vino Nel campo dei concorsi di qualità italiano attraverso la diffusione enologici gestendone alcuni in prima persona e della sua cultura partecipando a tutti quelli e l’insegnamento dell’arte dell’assaggio. attivi con i nostri Assaggiatori. Oggi l’Organizzazione Quindi, promozione conta circa 10.000 iscritti ed organizzazione divisi in diverse categorie: di corsi sul vino, Assaggiatori, Esperti concorsi enologici, Assaggiatori, Maestri dibattiti oltre a contatti con Assaggiatori e Tecnici. Università ed organizzazioni Organizziamo in Italia circa professionali. 150 Corsi di primo livello Inizialmente i fondatori sono ed una decina di secondo Accademici, ricercatori, la livello per ottenere il titolo di Camera di Commercio di esperto. Asti ed in seguito importanti Pubblichiamo libri, editiamo produttori.
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una rivista, l’Assaggiatore, che ha una tiratura di circa 12.000 copie e gestiamo una guida on line dei vini italiani chiamata Prosit. Cosa salva del mondo del vino e cosa vorrebbe cambiare? Salverei la storia, la passione dei viticultori e dei tanti appassionati, il terroir irripetibile, l’ampissima base ampelografica che ci contraddistingue, le nostre grandi competenze enologiche e tecniche, i ricercatori, la nostra grande fantasia innovativa. Cambierei volentieri il nostro ottuso campanilismo, la diffidenza che tanto ci danneggia. La nostra incapacità di fare gruppo, una politica lontanissima dalle competenze necessarie a guidare un comparto così importante come quello vitivinicolo. Lei ha lodevolmente istituito corsi per non vedenti e non udenti, mi traccia un bilancio dei risultati? Onav ha sempre avuto una forte attenzione al sociale. Il primo approccio fu teso ad avvicinare persone che erano diversamente abili per introdurle ai piaceri del vino. Ci siamo però subito accorti che eravamo
noi a trarne straordinari insegnamenti. Condividere l’arte della degustazione con un non vedente significa evidenziare le sue straordinarie capacità e ridisegnare le nostre più banali competenze. Condividere uno schema formativo con un sordo significa realizzare quanto limitato sia la nostra normale capacità di concentrazione e di attenzione in paragone alla loro. Insomma, credevamo di potere insegnare ed alla fine ci siamo ritrovati discenti alla
fatto numerosissime innovazioni. Le più rilevanti sono state la nuova sede dell’Organizzazione ad Asti, il nuovo e apprezzatissimo Assaggiatore, il nostro periodico, il giornale elettronico Onav News, la guida perenne dei vini d’Italia Prosit, le nuove sezioni aperte in Italia ed all’estero, la costituzione della Consulta del vino italiano, la rifondazione amministrativa, i corsi di secondo e terzo livello, il matrimonio Onav Aspi e Onav AssoSommelier... Sono orgoglioso di avere per primo, ed ufficialmente, lanciato proposte di aggregazione e collaborazione a tutte le organizzazioni presenti nel mondo didattico, professionale e formativo in campo enoico. L’Onav del futuro…
ricerca di spiegazioni. Oggi questi corsi vengono tenuti in tutta la nostra penisola con importanti successi. Il suo primo mandato volge al termine, cosa l’ha soddisfatta maggiormente tra tutte le iniziative di successo che sono state da lei messe in campo? Nei quattro anni del mio mandato abbiamo AP P RO FONDI M E NT O
Maggiore presenza all’estero, collaborazioni sempre più importanti con altre Associazioni del mondo enologico, una concentrazione dei periodici e delle guide. Obiettivo dei 15.000 iscritti entro i prossimi 4 anni. L’Onav del futuro sarà ancora più vicino al mondo scientifico ed enologico e sarà sempre più vicino al consumatore. Nessun inquinamento legato a sponsorizzazioni per mantenere libero il proprio giudizio. ▣
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Intervista ad Alberto Lupini, direttore responsabile di Italia a Tavola Alla passione e alla competenza conquistata sul campo per l’enogastronomia abbina quella per l’economia e la finanza grazie ai molti anni passati in importanti redazioni di settore. di Nicoletta Curradi
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l 2018 è stato decretato l’anno del cibo italiano. Presto prenderanno il via manifestazioni, iniziative ed eventi legati alla cultura ed alla tradizione enogastronomica d’Italia. Non va dimenticato che il cibo è con l’arte il motivo principale dell’incoming straniero. In attesa di programmi e dettagli rivolgiamo alcune domande ad un esperto del settore quale Alberto Lupini. Può indicarci quali sono le prospettive attuali per la ristorazione italiana? Il futuro della ristorazione italiana è tutto da scrivere, è difficile definirne i contorni. Ormai da molti anni assistiamo a troppe deviazioni, ovvero
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tentativi di importare in Italia modalità, tecniche e pratiche da altri Paesi. Per esempio, la tecnica di cottura a bassa temperatura tende ad annullare le caratteristiche e la qualità del nostro cibo, come la carne, e pone la cucina italiana sullo stesso piano di quella di altri Paesi caratterizzati da culture molto diverse dalla nostra. La nostra cucina è in grado di stare al passo, ma si rischia di perdere i valori della nostra identità. Da noi esiste una grande varietà di ricette e di prodotti che vanno salvaguardati e tramandati. Come giudica l’influenza dello Streetfood nel panorama della ristorazione italiana? Abbiamo assistito negli ultimi anni ad
un’esplosione della cucina in franchising, di fast food che appiattiscono l’offerta ristorativa. I giovani mostrano difficoltà a riconoscere lo streetfood italiano. Una reazione spontanea del mercato spinge a ricercare la tipicità. Alle numerose sagre che si allestiscono in Italia si mangia davvero male. È quindi necessario recuperare la qualità. Quest’anno, per la decima edizione del Premio Italia a Tavola, abbiamo ospitato un Villaggio Streetfood, organizzato dall’Associazione che ha cambiato il concetto di cibo di strada e che quest’anno festeggia i suoi primi 10 anni di vita: 3 giorni in cui poter assaggiare prodotti di eccellenza, cucinati da operatori altrettanto eccellenti. Ha citato il Premio Italia
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Alberto Lupini è nativo di Bergamo, giornalista professionista dal 1979, è direttore responsabile dal 2002 di Italia a Tavola, prima rivista nazionale per diffusione certificata nell’area della ristorazione, nonché direttore del portale www. italiaatavola.net - quotidiano online di enogastronomia e turismo in Italia - e di RistoTv.it, portale di webtv. Alla passione e alla competenza conquistata sul campo per l’enogastronomia abbina quella per l’economia e la finanza, grazie ai molti anni passati nelle redazioni de Il Sole 24Ore, il Mondo e L’Eco di Bergamo come caposervizio, inviato e corrispondente, oltre a quella acquisita come manager culturale.
a Tavola: cos’è cambiato nell’edizione 2018? Quest’anno il Premio ha lasciato la sede di Firenze per Bergamo. È stata una decisione molto sofferta, dopo 9 edizioni fiorentine, ma sicuramente organizzeremo altri eventi a Firenze in altre occasioni. La nostra testata è attiva da 33 anni a Bergamo e quindi è parso logico ambientare qui l’evento, nella “capitale dell’accoglienza”. Una “festa in casa” con una valenza diversa, nella nostra città che non può certo competere con Firenze per arte, moda e cultura. Il tema di quest’anno è stato l’innovazione tecnologica nell’ambito dell’accoglienza e della ristorazione come stimolo al mondo dell’Ho. Re.Ca per nuovi modi di organizzazione. E’ stato detto che la cucina è condivisione di valori; può dirci in conclusione quali sono i più importanti a Suo parere? Tipicità, identità e tradizione. ▣ AP P RO FONDI M E NT O
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Il Carciofo Romanesco del Lazio, un fiore IGP senza Consorzio
Amato per le sue qualità culinarie e per le sue proprietà medicali, il suo gusto è apprezzato anche dai più piccoli. di Alice Lupi
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a leggenda di Quinto Orazio Flacco narra di una ragazza molto bella, Cynara, che sedusse Zeus, il quale la volle con sé sull’Olimpo, facendola diventare una dea. Quando ella, mossa dalla nostalgia, volle riabbracciare i suoi familiari tornando sulla Terra, lui la punì severamente
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trasformandola in un carciofo. Parte così il mito di quest’ortaggio. Amato per le sue qualità culinarie e per le sue proprietà medicali e il suo gusto dolce e gradevole che è apprezzato anche dai più piccoli. La letteratura lo ha evocato spesso, ad iniziare da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, ma anche Columella nel De re rustica. Senza dimenticare il buongustaio Apicio nel suo De re coquinaria. Caterina de Medici li adorava - celebre la volta in cui ne fece una scorpacciata che le cagionò un’indigestione – tanto da introdurli in Francia quando convolò a nozze con il re Enrico II di Francia. Anche il gastronomo Grimod de la Reynière ne ha tessuto le lodi: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia”. Mentre Pablo Neruda, poeta cileno, gli ha dedicato un’intera ode: “Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero, ispida edificò una piccola cupola, si mantenne all’asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono, divennero viticci […]”. E’ proprio questo fiore ad essere tra gli alimenti caratteristici della cucina romana, il Carciofo Romanesco del Lazio IGP. Il suo insediamento nella Capitale risale al periodo rinascimentale. Da allora, la cucina romana ha un vero culto per il carciofo.
Tale devozione culinaria non è circoscritta alla sola città di Roma, è tutta la regione ad esserne dedita. Molti sono i luoghi laziali dove, ancor oggi, vi sono le sagre dedicate, uno fra tutti Ladispoli che da 68 anni dedica a questo fiore, nel mese di aprile, una celebrazione lunga tre giorni. Nell’area del Sud Pontino di Latina, AP P RO FONDI M E NT O
il Carciofo Romanesco del Lazio IGP è chiamato localmente carciofo di Sezze ed è proprio qui che il ristorante Da Santuccio, sito tra i Monti Lepini, propone - dal 1969 - un intero menù a base di carciofo, dove i cuochi si sono ingegnati per creare anche un dolce con quest’ortaggio. Le ricette culinarie ispirate al Carciofo Romanesco più famose sono conosciute in tutto il mondo e rientrano nella cucina di tipo tradizionale: Carciofi alla romana e alla Carciofi alla giudìa, due metodi di cottura diversi: il primo stufato, il secondo fritto. A quest’ultima preparazione, le cui origini sono risalenti alla comunità ebraica a Roma, alcuni poeti hanno dedicato dei versi. Gioacchino Belli ha scritto: «Nun c’è principe o re, cristiano che sia, che nun magni carciofi alla giudìa». Mentre, nel 1931, Luciano Folgore nella sua lirica recita: “Questi sono i carciofi alla giudìa dal torso snello e dal sapor gustoso chiamati in romanesco sciccheria; dan lustro e vanto alla gastronomia, riconcilian la sposa con lo sposo,
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ammansiscono la suocera più arpia, e a pranzo, a cena, a casa e all’osteria, oro croccante, amor d’ogni goloso, questi sono i carciofi alla giudìa”. Ma la poesia e le frasi auliche non bastano. Pur essendo il “Carciofo Romanesco del Lazio” un grande prodotto, di
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alto profilo qualitativo, molto apprezzato e noto grazie anche, o meglio soprattutto, alla tradizione culinaria romana, esso non riscuote il successo meritato nei dibattiti gastronomici. Inoltre, lo si trova in commercio troppo spesso senza bollino IGP. Pochissimi consumatori, ma anche addetti ai lavori,
sono a conoscenza del fatto che questo fiore, riconosciuto con marchio europeo, è privo di un proprio Consorzio di tutela. Una riflessione: che senso può avere il riconoscimento di un marchio di Indicazione Geografica se poi non lo si esercita nella pratica?
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Intervista al dott. agronomo Giovanni Pica, Funzionario ARSIAL, tecnico “Qualità agroalimentare – DOP/IGP/tradizionali” L’Assessorato all’Agricoltura della Regione Lazio lavora in stretta collaborazione con l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio (ARSIAL) che tra i vari compiti ha anche quello di svolgere le funzioni di vigilanza sulle produzioni di qualità regolamentata (DOPIGP-BIO). Quali sono le caratteristiche brattee esterne di colore verde con sfumature violette; che contraddistinguono il la parte edule risulta essere Carciofo Romanesco? ricca non solo di proteine (con elevato contenuto Le caratteristiche principali di aminoacidi essenziali), sono: capolini di forma zuccheri, sali minerali sferica, compatta, con (potassio, calcio, ferro, caratteristico foro all’apice, ecc) e vitamine (A, B, C, colore da verde a violetto, AP P RO FONDI M E NT O
niacina), ma anche sostanze polifenoliche bioattive. Per quanto riguarda le categorie commerciali, il disciplinare di produzione riconosce come IGP i carciofi appartenenti alla categoria extra e 1° categoria, con diametro dei cimaroli non inferiore a centimetri
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dieci e diametro dei capolini di primo e secondo ordine non inferiore a centimetri sette. Inoltre, la produzione di questo prodotto IGP è tardiva: marzo/aprile. Queste peculiarità sono dovute al forte legame socioculturale-storico-agronomico con l’areale di coltivazione individuato nel disciplinare di produzione IGP che prevede parte del litorale della provincia di Viterbo, Roma e Latina. La zona è caratterizzata da una situazione climatica omogenea molto favorevole alla coltivazione del carciofo con una temperatura media nel mese più freddo (gennaio) che non scende mai al di sotto di 0°C, grazie all’azione mitigatrice del mare; una temperatura media nel mese
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più caldo (luglio) che varia da +21 a +24°C ed un numero di ore di sole annuo compreso tra 2000 e 2200; anche la quantità e la distribuzione delle precipitazioni sono favorevoli alla coltivazione del carciofo. Il terreno adibito alla coltivazione, di media tessitura, presenta un ph compreso fra 6,5 e 7,5 con un calcare attivo compreso fra 2 e 3. Ai predetti fattori naturali, climatici e podologici devono sommarsi anche i fattori umani e tecniche tradizionali, quali ad esempio la reintegrazione della sostanza organica nel terreno, lasciando i residui colturali previo sminuzzamento e interramento, e quali l’allevamento di un solo carduccio per pianta mediante l’eliminazione
degli altri al fine di favorire la crescita del carduccio prescelto. Appare superfluo sottolineare la reputazione di cui gode il prodotto, attraverso le numerose sagre e feste popolari oltre che alle tradizionali ricette gastronomiche della cucina romana. Nonostante il Carciofo Romanesco del Lazio goda dell’Indicazione Geografica Tipica dal 2002 e sia apprezzato e riconosciuto, esso non ha un Consorzio di Tutela. A cosa è dovuto? Trattasi di un problema di “mentalità”, di “condivisione” che colpisce anche altri prodotti Dop/Igp regionali privi anche loro di Consorzio di tutela. Le filiere delle singole
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I N T E R V I S TA C O N M A U R O T R A B A L Z A , P R O P R I E TA R I O D E L L A FA M O S A T R AT T O R I A “ L A S O R A L E L L A” Al centro di Roma, sulla affascinante Isola Tiberina, dal 1959 sorge la Trattoria Sora Lella che oggi è condotta dai nipoti dell’indimenticabile Elena Fabrizi. Mauro Trabalza, assieme alla sua famiglia, propone ai suoi clienti un’offerta gastronomica tipica romana. Tra primi piatti, secondi e contorni sono presenti, durante la stagione, anche i carciofi romaneschi. La vostra rinomata trattoria La Sora Lella è ambasciatrice della cucina tipica romana, i carciofi romaneschi che posto hanno nel vostro menù? I carciofi sono parte integrante e fondamentale nel nostro menù. Cerchiamo di valorizzare questo prodotto meraviglioso delle campagne romane, di Cerveteri, Viterbo, Ladispoli, S. Marinella, Fiumicino, Sezze. Li introduciamo nella nostra carta rigorosamente quando i cosiddetti Cimaroli o Mammole sono in produzione nel periodo da fine inverno fino a primavera inoltrata. Li facciamo alla Romana, alla Giudìa, a spicchi per metterli insieme alla coratella di abbacchio oppure per fare una frittata di carciofi e cipolla o crudi a insalata con noci e caciocavallo di Morolo. All’atto pratico, in cucina c’è una reale differenza tra un carciofo romanesco e uno comune? Esiste una differenza sostanziale tra un carciofo comune e il romanesco che consiste dal fatto che un romanesco non si deve sfogliare tanto in quanto le sue foglie sono tenere e anche che non necessita di una cottura lunga. E’ molto tenero e la sua morbidezza si evidenzia al palato, come la sua dolcezza; è, a mio avviso, meno amaro dei carciofi normali, infatti, si presta molto anche per le insalate crude. Sul vostro sito web trattoriasoralella.it c’è scritto “E’ una cucina sincera che recupera i piatti dimenticati per colpa delle mode…” questo vale anche per i carciofi? Il carciofo è un elemento fondamentale per la cucina romana in tutte le sue versioni e rappresenta quei prodotti sinceri e autoctoni che la nostra campagna offre; è un prodotto IGP, va protetto e tutelato, soprattutto va offerto nelle tavole, a mio avviso, quando è periodo. Solo così, secondo me, è valorizzato al massimo. Penso che sia importante per chi fa cucina romana valorizzare e offrire i prodotti solo quando è stagione in modo da difendere un patrimonio che la nostra campagna ci dona.
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Denominazioni riconosciute non hanno ancora percepito l’importanza ed il ruolo che spetta al Consorzio che non si limita alla sola promozione e valorizzazione del prodotto ma si rivolge soprattutto alla tutela della denominazione attraverso i propri agenti vigilatori. In questi ultimi anni, però, si registrano segnali positivi come ad esempio il recente riconoscimento Mipaaf per il Consorzi di tutela del Kiwi Latina IGP. Il grande problema della denominazione Carciofo Romanesco del Lazio IGP e della scarsa rivendicazione della certificazione da parte dei soggetti della filiera, sta nel fatto che con il termine “romanesco”, identificando una tipologia varietale di carciofo coltivata anche fuori dall’areale IGP, si permette la commercializzazione del prodotto con il termine generico “carciofo romanesco”. Questa situazione, vista la notevole reputazione della denominazione IGP, induce erroneamente il consumatore a collegare il termine generico
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il 2% del dato nazionale. Questo prodotto, nonostante abbia il marchio di tutela, non è riuscito a sostenere la concorrenza della medesima tipologia varietale prodotta in altre regioni. Dal punto di vista sensoriale, le caratteristiche organolettiche del carciofo romanesco prodotto fuori del Lazio non sono percepibili rispetto a quello laziale IGP, per cui ci si dovrebbe indirizzare verso una caratterizzazione organolettica del prodotto legata a requisiti di salubrità dello stesso. L’alternativa per il rilancio della coltivazione potrebbe derivare dalle produzioni biologiche. Nell’areala IGP, ma in generale nel Lazio, lo “Carciofo Romanesco” e sviluppo dei parassiti è quello “del Lazio IGP”. più contenuto rispetto alle Cosa si fa per valorizzare il regioni meridionali, quindi presumibilmente è più facile Carciofo Romanesco IGP? che si affermi la coltivazione biologica che, se associata Nel Lazio si è verificato un vero crollo della produzione di alle tecniche innovative della questa coltura: si è passati da propagazione e impianto della carciofaia, può dare metà secolo scorso con oltre 6.000 ettari con una incidenza risultati non ripetibili in altri del 26% sulla superficie totale contesti. ▣ nazionale, agli attuali poco più di 1.000 ettari, pari a solo “carciofo romanesco” al prodotto certificato IGP e al suo areale di coltivazione previsto nell’art 3 del disciplinare di produzione. Alla luce di questa criticità, si ritiene ancora più importante la nascita del Consorzio di Tutela, quale unico organo in grado di far comprendere al consumatore che il vero
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E’ nata l’Associazione Le Donne dell’Ortofrutta La presentazione a Bologna, in occasione di un convegno tenutosi l’8 marzo, la giornata dedicata a tutte le Donne. di Franco Mioni
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uesta nuovissima Associazione è una realtà che si impegna a “raccontare” un settore così importante facendo emozionare i consumatori e ha come
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obiettivo la creazione di un network di professioniste per presentare idee e progetti e organizzare eventi, operando come parte attiva nella comunicazione del settore, ma con il tocco in più di una “visione” al femminile Abbiamo approfittato del
convegno di presentazione per chiedere alla Presidente dell’Associazione e all’Assessore all’Agricoltura dell’Emilia-Romagna, e socia onoraria, quali sono le motivazioni, gli obiettivi e le aspettative di questa nuova Associazione.
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ntervista ad Alessandra Ravaioli, fondatrice e Presidente dell’Associazione Nazionale le Donne dell’Ortofrutta L’8 marzo le imprenditrici ortofrutticole italiane sono state protagoniste di un convegno a loro interamente dedicato. Poco prima dell’inizio abbiamo incontrato Alessandra Ravaioli, fondatrice e Presidente dell’Associazione Nazionale le Donne dell’Ortofrutta; giornalista di provata esperienza, molto sensibile ai problemi dell’ambiente. Le abbiamo chiesto di raccontarci i motivi della sua iniziativa. “L’Associazione - risponde la Presidente - nasce il 6 AP P RO FONDI M E NT O
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dicembre 2017 per la volontà e l’impegno di 27 socie; oggi siamo quasi raddoppiate, con l’obiettivo di diventare 100 a fine 2018. Costituiamo l’unica organizzazione di questo genere in Europa; una novità ricca di entusiasmo che si prefigge il riconoscimento del ruolo femminile in un settore dell’agroalimentare di fondamentale importanza in Italia. A tutt’oggi le donne costituiscono circa il 70% della forza lavoro nell’ortofrutta, ma poche rivestono ruoli importanti nelle imprese.” Chiediamo, quindi, se uno spunto per questa iniziativa possa essere stato costituito dalle già affermate Associazioni delle Donne del Vino e delle Donne della Grappa. “Indubbiamente – prosegue Ravaioli - ci sono stati di
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esempio e di stimolo l’entusiasmo, l’impegno ed il successo che caratterizzano queste due prestigiose realtà, alle quali guardiamo con rispetto e ammirazione sperando di poter arrivare a quei livelli.” Quali quindi gli scopi della vostra attività ? “Intendiamo cercare di promuovere l’ortofrutta con una visione ‘al femminile’, dedicando particolare attenzione al consumatore e convinte che un tocco di eleganza e la cura dei dettagli possano costituire elementi importanti per un servizio di più alta qualità. Tutto ciò per acquisire maggiore visibilità in un settore dove oltre alla competenza servono idee nuove; questa è una visione dell’ortofrutta che va oltre l’attuale approccio alla vendita, ma prima ancora
al confezionamento e alla distribuzione.” Complimenti, Presidente, e… in bocca al lupo!
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ntervista a Simona Caselli, Assessore all’Agricoltura Regione EmiliaRomagna
Siamo nell’Aula Magna della Regione Emilia-Romagna con l’Assessore all’Agricoltura Simona Caselli, padrona di casa. E’ l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna; tutto quanto di più idoneo per celebrare con un convegno le “Donne dell’Ortofrutta”. “L’Associazione - introduce la Dott.ssa Caselli - è stata fondata da pochi mesi per la divulgazione a livello imprenditoriale con un linguaggio al femminile di
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In questa pagina, da sinistra: La Presidente Alessandra Ravaioli, la Tesoriera Giulia Montanaro, l’Assessore Giulia Caselli.
un settore molto importante per la nostra Regione, che costituisce il 45% della produzione lorda locale; avendo noi l’11% della frutta nazionale. La partecipazione delle donne è attualmente minoritaria, con un 25% di titolari d’azienda, ma molto attiva e
fortemente impegnata; come dimostrano studi recenti hanno un rapporto eccellente con la meccanizzazione e soprattutto l’innovazione.” Chiedendo un parere riguardo all’importanza delle aziende famigliari, l’Assessore risponde: “Ereditando fondi e poderi da padri o nonni, il continuarne l’attività impedisce che questi patrimoni anche storici e affettivi, piccoli o grandi che siano, vadano venduti o affittati, proseguendo così le storie famigliari. Certamente bisogna ancora affrontare e superare le diffidenze rispetto alle supposte difficoltà da parte delle donne di affrontare lavori pesanti o salire su un trattore. Perciò, anche nei piani di sviluppo rurale noi rispettiamo le componenti femminili
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con l’attribuzione di fondi al 25%. Oggi comunque il discorso si è fatto più ampio per quanto riguarda la commercializzazione e le Organizzazioni di Prodotto, argomenti assai stimolanti.” Esternando il nostro particolare apprezzamento per l’impegno, l’attenzione e l’attività propositiva profusi fin dall’inizio del mandato, otteniamo questa risposta: “Recentemente ad Arezzo, all’assemblea delle Regioni produttrici di ortofrutta in Europa, Areflh (Associazione delle Regioni Ortofrutticole europee), di cui io sono Presidente, ho tenuto a sottolineare quanto l’ascolto sia importante. Per sapere non solo quello che fanno i nostri produttori, ma osservando e comprendendo anche ciò che fanno gli altri.” ▣
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IL “BIO” FUTURISTICO C’è ancora chi è convinto che coltivare in modo biologico sia un ritorno al passato, un rinunciare alle tecnologie moderne, un “non usare nulla”. Invece, nulla di più errato! C’è tanta invenzione e rinnovamento, proprio nel bio, tanto da renderlo un settore di avanguardia, non solo economicamente. La 24° edizione di Tutto Bio 2018, infatti, ne ha fatto un leitmotiv: “Innovazione Made in Bio”. Ne riprendiamo alcuni spunti. di Gudrun Dalla Via
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’innovazione è un elemento propulsivo del biologico – alimentare e non, come vedremo. Il MIPAAF, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, ha dedicato l’anno 2018 al cibo italiano, alle sue tradizioni, all’alta qualità del Made in Italy. Un contenitore perfetto per le eccellenze del Bio! Il mondo del biologico è variegato anche a causa della moltitudine di prodotti, ma una costante che si osserva da sempre è la tendenza di produttori e distributori di rompere gli schemi e di
inventare nuove strade, addirittura nuovi paradigmi, spesso capaci di sorprendere e di far scuola anche in altri settori. Tutto Bio 2018, uscito da poco, ha scelto dieci realtà, tra le tante, dove l’intuito e il coraggio dei produttori hanno portato a storie di successo. In queste storie, che qui brevemente vi riproponiamo, incontriamo spesso l’impegno di valorizzare maggiormente il territorio e le sue caratteristiche, in controtendenza alla globalizzazione. Troviamo proposte per chi desidera fare scelte salutistiche o vegetariane o vegane e per BI O
chi desidera usare cosmetici “puliti”, senza sostanze di sintesi chimica e anche modalità diverse o più funzionali di usare sostanze note.
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ceto di melograno
L’acetificio Mengazzoli in provincia di Mantova ha convertito la propria produzione tradizionale in bio a partire dal 1986. All’aceto di vino e a quello balsamico di Modena IGP sono stati aggiunti vari prodotti come l’aceto di mele e poi di altri frutti, che uniscono
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realizzazione di 150 prodotti biologici di alta qualità. Tra questi, la pasta con varietà antiche di grano: dal Cappellli al Farro dicocco fino al Khorasan turanicum, con varianti salutistiche e di gusto che inseriscono per esempio curcuma e pepe nero. www.amoreterra.com
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l’aspetto gourmet alle qualità funzionali. L’ultimo nato nella linea di aceti biologici Mengazzoli è quello di melograno – un’idea davvero originale che unisce un gusto caratteristico con le ben note virtù del melograno. www.mengazzoli.it.
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cereali antichi Più che una moda o una riscoperta, i “grani antichi” sono
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diventati una necessità dietetica per molte persone, per esempio se allergiche o intolleranti. Inoltre, il loro valore nutrizionale e il loro gusto sono caratteristiche indiscusse, sempre più apprezzate da un numero crescente di consumatori. Michele Lenge ha pensato di creare AmoreTerra srl con un progetto di filiera che collega una decina di agricoltori bio in varie regioni d’Italia e altrettanti trasformatori per la
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ino DOC, bio e vegan
Una sfida notevole, osata e vinta dalla Cantina Aldeno spa del Trentino che nel 2010 è passata al biologico e nel 2013 alla produzione vegana (cioè né in vigna né in cantina vengono utilizzate sostanze di sintesi non ammesse nel biologico, né sostanze di origine animale). Questa scelta ha dato grandi soddisfazioni all’azienda, con premi vinti in Italia e all’estero, come la medaglia d’oro assegnata allo Chardonnay bio vegan Trentino DOC a Parigi, nel 21° Concorso Internazionale dei vini bio. www.cantinaaldeno.com
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ecorino bio: innovazione nella tradizione
Un’azienda familiare alla terza/quarta generazione che da sempre si è impegnata nella qualità, e dallo scorso anno anche nella produzione bio, con una linea dedicata.
Pecorini con vari gradi di stagionatura, con caglio vegetale, senza lattosio, o con latte crudo. Anche qui si registrano già le prime soddisfazioni, come un premio a TuttoFood 2017 nella categoria #atuttaqualità. www.caseificiobusti.it
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emi oleosi in versione gourmet
Daniela Cicioni come chef vegana e crudista aveva fatto molta ricerca sul processo di fermentazione dei frutti oleoganosi (chiamata “frutta secca” da alcuni). In collaborazione con Euro Company ha sviluppato un “formaggio”, o meglio una specialità biologica e vegana senza glutine, lattosio o additivi, conservanti o addensanti ottenuta dalla fermentazione di mandorle e anacardi ammollati in acqua e sale, poi essiccati, stagionati
e confezionati in forme che anche nell’aspetto ricordano dei formaggi. Sono già due i premi vinti. www.eurocompany.it
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uperfood. Come freschi
Bacche e frutti di bosco sono superfood, ricchissimi di antiossidanti e altre proprietà salutari, oltre che di sapori
e aromi incomparabili. Ma purtroppo la loro stagione è limitata, e lo è anche il loro tempo di conservazione. Ora però ci sono i “crioessiccati freschi” di lamponi, cranberry, fragole, mirtilli e more, tutti bio, coltivati in Europa e lavorati subito dopo il raccolto con un processo particolare che li priva dell’acqua evitando l’ossidazione, per conservarli e mantenere i preziosi principi nutritivi e le qualità organolettiche del frutto fresco. www.forlive.com
È
tisana? No, è brodo vegetale in bustina!
Brodo vegetale fatto da cinque ortaggi essiccati: carota, sedano, cipolla, porro, pomodoro, sedano-rapa, ovviamente da coltivazione biologica e senza additivi, semplicemente in bustina per un dosaggio e uso comodi e veloci. www.aromy.it BI O
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ova: bio e simbiotiche
Forse non tutti i consumatori riconoscono nella radice stilizzata il simbolo di questa agricoltura innovativa, una naturale evoluzione del bio (sempre segnalato con l’eurofoglia). La simbiosi tra terra, piante, animali e uomo è sinonimo per un ciclo sano e naturale, e le galline dell’allevamento Tedaldi vivono in questa fortunata condizione. Le loro uova infatti vengono vendute nei negozi specializzati con il simbolino della radice stilizzata. www.tedaldi.it
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itamine, anche sulla pelle
Bio anche per i prodotti cosmetici: Greenatural
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ormai ne distribuisce 900. Tra le ultime novità un “trio” classico, delle vitamine A+C+E, presenti nel succo di arancia, carota e limone e trasferiti in bagnodoccia, shampoo e detergente viso e corpo. Una sferzata di energia anche dall’esterno. www.greenprojectitalia.it
M
ake-up bio, veg e brillante
Il bio può essere non solo tendenza ma anche moda, e a colori vivaci, accattivanti. Un make-up innovativo vegano, ipoallergenico, testato al nichel, con una performance professionale. Mentre colora ripara i tessuti con sostanze rigeneranti. Particolari, tra i tanti prodotti di cosmesi naturale, biologica e vegana, le matite liquide per gli occhi, in cinque colori moda, iper-
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metallizzati. Con la linea Veg-Up di www.laboratoiresbewell.com Fonte: “TuttoBio 2018” L’annuario del Biologico Bio Bank, 312 pagine, Euro 16.00 ▣
CONSORZIO TUTELA VINI DELLA MAREMMA TOSCANA
diversificate che incidono profondamente sulle caratteristiche della
Il Consorzio Tutela Vini della Maremma Toscana nasce nel 2014
Attraverso la partecipazione a manifestazioni internazionali o la
dopo il conferimento della DOC con l’obiettivo di promuovere la qualità dei suoi vini e garantire il rispetto delle norme di produzione previste dal disciplinare, dedicandosi, inoltre, alla tutela del marchio
ricca e variegata gamma di vini proposta.
presenza presso sedi istituzionali sia in Italia che all’estero, il Consorzio è inoltre impegnato nella valorizzazione della Denominazione Maremma Toscana e del territorio da cui essa proviene con l’obiettivo
e all’assistenza ai soci sulle normative che regolano il settore.
di far conoscere la peculiare produzione della Maremma Toscana
Oggi il Consorzio conta 269 aziende associate, di cui 193 viticoltori
risalgono ai tempi degli Etruschi.
(per la maggior parte conferenti uve a cantine cooperative), 1 imbottigliatore e 75 aziende “verticali” - che vinificano le proprie uve e imbottigliano i propri vini - per un totale di 5,5 milioni di bottiglie
DOC e la storia di questa originale zona vitivinicola, le cui origini
Importanti azioni di incoming destinate a operatori del settore italiani e stranieri, oltre a un ricco programma di eventi, tavole rotonde e
prodotte all’anno.
convegni, permettono al Consorzio di presentare l’eterogenea realtà
Il Consorzio opera nell’intera provincia di Grosseto, una vasta area
storica e culturale, promuovendo al contempo le migliori tecnologie
della Maremma non solo enologica, ma anche turistica, agricola,
nel sud della Toscana che si estende dalle pendici del Monte Amiata e raggiunge la costa maremmana e l’Argentario fino all’isola del Giglio, corrispondente alla zona di produzione della DOC Maremma Toscana, dove sono presenti 8.770 ettari di vigneto. Un’area geografica caratterizzata da condizioni pedoclimatiche molto
nel rispetto della natura. Lo scopo della DOC Maremma Toscana è oggi quello di affascinare e stupire gli amanti del bello e del buono di tutto il mondo, valorizzando le diversità di questo sorprendente territorio e ampliando gli orizzonti del gusto toscano attraverso la varietà e la qualità di questi pregiati vini.
www.consorziovinimaremma.it | info@consorziovinimaremma.it
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deato e realizzato da Maria Grazia Marchetti, storica dell’arte, archivista e moglie di Giorgio Lungarotti, uno dei patriarchi dell’enologia italiana, il Museo del Vino (MUVIT) di Torgiano (PG) è gestito - con il Museo dell’Olivo e dell’Olio (MOO) - dalla Fondazione Lungarotti, istituto nato nel 1987 su iniziativa di Giorgio e sua moglie e diretto dalla stessa Maria Grazia Marchetti Lungarotti, che si
MUSEO DEL VINO
(MUVIT) di Torgiano,
eccellenza italiana
È stato recensito dal New York Times come “il migliore in Italia” ed inserito dalla rivista The Drinks Business nella Top 10 Best Wine Museums of the World. di Paolo Alciati
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A sinistra, mano con grappolo d’uva, frammento di scultura; frammento di matrice per coppa, Arezzo, sec. I a.C. – sec. I d.C. Sopra, in senso orario, Giacomo Mancini detto “El Frate”, Coppa, Deruta, sec. XVI; Mastro Bernardino da Siena, Coppa “Bevi se puoi”, Siena, sec. XVI; Mastro Giorgio Andreoli, Infantia de Bacho, Gubbio, 1528; Joe Tilson, Dionysos Eydendros, Todi, 1983.
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Sopra, Bottiglie antropomorfe, Seminara Calabra, sec. XIX-XX. A sinistra, Kylix attribuita al “Pittore di Phrynos”. A destra in alto, Amand Durand, Baccanale con il tino, Parigi, terzo quarto del sec. XIX. A destra in basso, Michel Clodion, Satiro, ninfa e putto, Napoli, sec. XIX.
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occupa della valorizzazione della cultura agricola italiana attraverso attività di ricerca, mostre, convegni, iniziative editoriali ed un fitto calendario di conferenze, incontri e laboratori a tema. Dall’officina culturale di Torgiano escono inoltre pubblicazioni editoriali premiate anche a livello internazionale. Con una collezione di oltre 3000 reperti, il Museo racconta in modo inedito la storia della viticoltura mediterranea proponendo un affascinante viaggio lungo cinquemila anni che parte dal III millennio a.C. e dalle origini mediorientali della viticoltura e si snoda nelle sue venti sale attraverso collezioni d’arte tra coppe, tra le quali una Kylix attribuita al “Pittore di Phrynos”, ceramografo attivo tra il 560 e il 540 a.C. appartenente al gruppo dei “Piccoli maestri”, T URI S MO NAZ I ONAL E
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boccali, anfore, vasi potori in vetro e in terracotta, anfore, vasellame, ceramiche medievali, rinascimentali, barocche e alcune opere contemporanee in una imponente collezione a tema. Oltre a raccolte etnografiche, sculture, splendidi gioielli, ricchi tessuti, editoria antiquaria, mappe, trattati di valore scientifico e testi curiosi, cartoline, almanacchi, dipinti, stampe, grafiche, acqueforti e capolavori di alcuni tra i maggiori artisti di ogni epoca: Mastro Giorgio Andreoli, ideatore alla fine del 1400 del “lustro”, una particolare tecnica di pittura su ceramica che la rendeva
iridescente e di cui il Museo presenta una deliziosa testimonianza, uno splendido piatto che raffigura “l’infanzia di Bacco”; Renato Guttuso con il bozzetto teatrale “Bacco”, acquatinta colorata del 1980; Jean Cocteau con un “Vaso antropomorfo” di rara bellezza; Gio Ponti con la famosa “Bottiglia mamma”, tratta dai suoi schizzi, e altre sue creazioni e Joe Tilson con il piatto “Dionysos eydendros” del 1983. Nel seicentesco palazzo Graziani Baglioni, sede del Museo, è conservata anche una tra le più grandi collezioni europee di incisioni a tema bacchico tra cui un
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A sinistra, in senso orario, Bottega dei Fontana, Fiasca, Urbino, 1560-1570; Boccale, Urbania o Pesaro, sec. XVIII; Vaso antropomorfo - Jean Cocteau; Versatore da farmacia, Italia centrale, sec. XVI. Sopra, Piatto e Bevi se puoi. Nella pagina seguente, Sala XII del Museo, Il vino come alimento, particolare.
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“Baccanale con Sileno” di Andrea Mantegna, una delle prime incisioni a bulino esistenti (1470 ca.), e il più recente “Baccanale” di Picasso del 1959 eseguito a linoleum. In ogni sala pannelli e libri digitali sfogliabili guidano il visitatore in un percorso ricco, educativo e assolutamente unico. Nel Museo anche numerosi attrezzi per la vinificazione, orci, botticelle, piccoli e grandi torchi, tra cui il torchio monumentale descritto da Catone e utilizzato nella campagna umbra fino a pochi decenni fa ed una interessante collezione di ferri da cialda riccamente istoriati, attrezzi a doppia piastra
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da scaldare sulle braci per preparare sottili biscotti da gustare accompagnati al Vin Santo. Aperto al pubblico nel 1974, nella ricorrenza dei suoi 40 anni è stato celebrato anche con il vino simbolo di Lungarotti, il Rubesco, in “limited and Muvit edition” con l’etichetta raffigurante uno dei suoi pezzi più importanti: il piatto con Satiro di Jean Cocteau, smalto su terracotta (Parigi 1958). Tra le ceramiche - alcune arrivano dalla vicina e nota città di Deruta - vi sono anche albarelli e unguentari da farmacia, vasi farmaceutici, mortai, versatoi - poiché il vino era anche utilizzato come medicamento - e
alcuni pezzi curiosi come i “bevi se puoi”, detti anche “a inganno”, cioè caraffe, coppe e fiaschette di diverse forme e traforate in vari punti, che permettevano di bere solo scoprendo “l’inganno”, tappando con attenzione alcuni buchi presenti sui manici o sul corpo e di conseguenza “guidando” il vino al giusto foro di uscita. In caso contrario il vino fuoriusciva dai fori laterali, bagnando l’incauto bevitore e procurando ilarità e scherno tra i commensali e per questo motivo erano anche chiamate “bosse buffone” ossia “caraffe burlone” e per questo sovente decorate con scritte scherzose. ▣
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A sinistra, Jean Cocteau, Piatto con satiro, 1959. In basso, Flaminio Fontana, Coppa “Bevi se puoi”, Firenze.
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’Isola d’Elba è la terza isola italiana. O meglio, dopo Sicilia e Sardegna, è la più grande delle isole minori italiane. 223 chilometri quadrati di superficie, 147 chilometri di coste, l’Elba dista circa 10 chilometri dalla
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costa ed è raggiungibile comodamente in un’ora in traghetto. Composta di 8 comuni, è sede del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e del Santuario dei Cetacei, a testimonianza della sua particolare biodiversità, che è una delle principali attrattive per le
centinaia di migliaia di turisti che la visitano ogni anno. Non è solo la storia dell’isola ad attrarre i suoi visitatori: una delle sue peculiarità è la straordinaria diversità dei paesaggi che s’incontrano. Le spiagge all’Elba sono circa 190 e tutte diverse tra di loro: lunghi arenili di
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Elba, l’isola che non finisce mai di stupire Ci sono mille motivi validi per visitare l’Isola d’Elba. Sole, mare, spiagge, storia, cultura e non può mancare un assaggio della cucina locale, dove tutto parla di tradizioni culinarie che raccontano una lunga storia di incontri tra popoli, di simbiosi culturali, di scambi di ricette. Testo e foto di Jimmy Pessina
sabbia dorata, piccolissime calette di sassolini, spiagge di sabbia nera, altre di ciottoli bianchissimi, nonché scogliere di liscio granito. Spiagge che, unite a straordinari panorami e a un mare cristallino, non hanno niente da invidiare ai più rinomati luoghi caraibici.
Il fondale nella maggior parte delle spiagge digrada velocemente, salvo in quelle di sabbia della Biodola, Marina di Campo, Lacona, Procchio e Fetovaia, dove per circa 30-40 metri dalla battigia si tocca ancora. Tutte le spiagge sono libere o comunque hanno una buona T URI S MO NAZ I ONAL E
parte della spiaggia libera. Esistono zone servite da stabilimenti balneari attrezzati dove, oltre a noleggiare cabine, sdraio e ombrelloni, è possibile praticare molti degli sport acquatici più diffusi. Sono presenti inoltre in alcune spiagge i “Punti Blu” dove poter noleggiare
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ombrelloni e lettini da utilizzare nella spiaggia libera. Ci sono mille motivi validi per visitare l’Isola d’Elba. Sole, mare, spiagge, storia, cultura e non può mancare un assaggio della cucina locale, dove tutto parla di tradizioni culinarie che raccontano una lunga storia di incontri tra popoli, di simbiosi culturali, di scambi di ricette. La cucina elbana risente, infatti, di influenze orientali e spagnole dovute alle costanti invasioni saracene e al dominio iberico sull’isola. Anticamente divisa in cucina di montagna e cucina di mare, oggi è possibile gustare le diverse tradizioni in qualunque
ristorante dell’isola, variando a seconda delle esigenze. Una cucina diversa da quella Toscana, uno scrigno di veri sapori isolani, patrimonio di antica saggezza e di moderna passione per i gusti decisi.
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sapori del mare: il pesce
La cucina elbana a base di pesce si basa su piatti semplici e sani ma molto gustosi e diversi dalla “solita” cucina di mare, nei quali domina la fantasia degli accostamenti tra pesce e aromi caratteristici dell’isola. Uno dei piatti tipici è il cacciucco, originario di
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Livorno, ma personalizzato grazie all’impiego di erbe aromatiche: una zuppa di pesce molto gustosa, con pomodoro, aglio e peperoncino in aggiunta a diversi tipi di pesce “povero” e di crostacei. Un’altra zuppa elbana di tradizione antica è la “sburrita”, un piatto di origine spagnola molto amato dai lavoratori delle miniere elbane e tipico di Rio Marina, a base di baccalà, aglio, erbe aromatiche e olio d’oliva, servito su fette di pane abbrustolito. Tra le altre peculiarità dell’Isola anche la Palamita (presidio Slow Food), un pesce che fa parte della famiglia degli sgombri
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e dei tonni che si presta ad innumerevoli preparazioni (es. il sugo di Palamita, filetti sott’olio, ecc.).
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sapori dell’entroterra
Grazie anche alla sua diversità paesaggistica, l’isola offre, oltre alla cucina di pesce, molte altre specialità montane: infatti, essendo ricca di verde nella zona occidentale e in particolare nel Marcianese, in autunno - ma anche a primavera inoltrata abbondano i funghi e se ne possono raccogliere ben 200 specie, fra cui i più importanti sono certamente il porcino e l’ovolo. Nello stesso versante dell’isola, in particolare a Marciana, è
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molto comune la crescita di grandi castagni; le castagne, fresche, secche o divenute farina, erano considerate basilari per l’alimentazione fino agli anni Cinquanta, ed oggi i suoi derivati si trovano spesso sulla tavola, dal pane alla pasta. A goderne sono gli abbinamenti con la carne di cinghiale, utilizzata in molte ricette all’Isola d’Elba come le pappardelle al ragù di cinghiale, oppure cinghiale stufato, alla bracconiera, con le olive all’etrusca, con i porcini, alla cacciatora. Molto particolare all’Elba è il miele, che si produce da molte varietà di fiori. Si possono degustare miele di millefiori, di castagno, di corbezzolo, di erica, di eucalipto, di rosmarino, di cardo. Anche
la coltivazione delle olive trova il suo spazio: la qualità del prodotto è veramente eccellente e si produce, così, un ottimo olio extravergine di oliva, contraddistinto con il marchio IGP, Indicazione Geografica Protetta, come vuole la più antica tradizione toscana.
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l vero fiore all’occhiello dell’isola: il vino
Qui la coltura della vite ha origini antichissime: i muretti a secco che delimitano i vigneti risalgono ad oltre 3000 anni fa. Plinio il Vecchio definì l’Elba insula vini ferax, “l’isola che produce tantissimo vino”, sui fondali giacciono infatti numerosi
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relitti di navi cariche di anfore dirette ai principali porti d’Europa. I Medici ed i Lorena difesero la coltura della vite e lo stesso Napoleone ordinò l’impianto di nuovi vigneti. Ben 7 vini dell’Elba oggi si fregiano del marchio “DOC”, meritato premio ad una tradizione millenaria, e recentemente, l’Aleatico - il vino passito che si ottiene da uve autoctone - ha ottenuto la DOCG, a fianco dei grandi vini toscani come il Chianti e il Brunello. Terra privilegiata dai bikers, paradiso dei sub, “sentiero infinito” per gli appassionati di trekking, l’Isola d’Elba è la meta ideale per chi ama lo sport e desidera vivere una vacanza completa tra natura, mare e attività fisica. Grazie al clima mite anche in primavera e autunno ed alle
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sue incontaminate bellezze naturali, l’isola più grande dell’Arcipelago Toscano soddisfa sia chi pratica gli sport estremi sia gli ospiti più tranquilli: tutti possono praticare ogni tipo di attività all’aria aperta, sotto il profilo delle acque azzurre o sopra le falesie delle sue rocce.
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opra e sotto il mare
Fondali affascinanti, grotte naturali e numerose specie di pesci, riserve marine incontaminate come quella dello Scoglietto di Portoferraio, relitti affascinanti e pronti ad essere esplorati come quello di Pomonte, accolgono ogni anno i sub più esigenti, mentre vele gonfie di vento affollano e colorano il mare da Marina di Campo
a Bagnaia, a Naregno, e canoe silenziose ne solcano le coste.
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hilometri di sentieri da percorrere
A piedi, in sella ad un cavallo o ad una mountain bike, basta scegliere: avventurarsi su uno dei sentieri della GTE, la Grande Traversata Elbana, oppure scegliere di percorrere in bici uno dei percorsi tracciati all’interno del Capoliveri Bike Park, sul promontorio di Monte Calamita, è il modo più giusto per inoltrarsi sulle pietraie ed i sentieri profumati dalle essenze della macchia mediterranea dai quali scoprire i piccoli paesi sottostanti ed il verde di una natura viva. Trascorrendo una
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vacanza all’Elba, anche chi si diverte a sfidare il proprio coraggio lanciandosi con il parapendio o a scalare con la tecnica del free climbing i picchi di roccia o, diversamente, a passare una rilassante giornata sui campi da golf, potrà trovare attrezzatissimi centri dove anche chi non è esperto potrà avvicinarsi a questi sport grazie agli istruttori. La sfida estrema, quella degli amanti del Triathlon, si svolge una volta all’anno, sul percorso Ironman di marina di Campo.
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ellness alle Terme
L’alternativa agli sport estremi? Le Terme di San Giovanni, davanti al Golfo di Portoferraio, che sorgono su un bacino palustre di 5 ettari, da cui si estrae un limo ad alto potenziale terapeutico che fa di questo moderno impianto termale l’unico Centro Talassoterapeutico del Mediterraneo occidentale. Il centro termale comprende anche un’area benessere, detta Thermarium, dove vengono condotti classici trattamenti estetici e beauty farm insieme ad ambienti wellness, quali Sauna Finlandese, Bagno Turco, Docce emozionali policromatiche e Stanza del Sale per una sana e salubre Haloterapia. ▣
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UN VIAGGIO A MULHOUSE
in Alsazia tra musei,
arte e golosità L’Alsazia è una regione piena di creatività e gioia di vivere, indubbiamente dovuta in parte come reazione alla sua travagliata storia legata in passato, per posizione geografica, a due realtà, quella francese e quella germanica. di Giovanna Turchi Vismara
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trasburgo, Colmar, Mulhouse sono tre veri gioielli, tre scrigni d’arte, e ciascuno si distingue per proprie
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caratteristiche e individualità. Strasburgo, la capitale, è nota per la stupenda cattedrale gotica che appare nella sua maestosità quasi
all’improvviso al visitatore alla fine di un percorso tra caratteristiche e strette vie. Colmar è apprezzata in particolare da tutti gli appassionati
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melomani per il Festival Internazionale di Colmar (4-14 luglio) giunto quest’anno alla trentesima edizione. Affidato al famoso direttore d’orchestra Vladimir Spivakov, è inserito tra i dieci migliori festival del mondo. Tra i grandi artisti invitati suonerà quest’anno Evgueni Kissin, prodigio russo del pianoforte. Per quanti vogliono vivere particolari e diversificate esperienze, Mulhouse, che possiamo definire anche la città dei musei, nel 2018 si propone con un notevole calendario di offerte. Il 30 giugno e il primo luglio, al Parc Expo è in programma, secondo una tradizione trentennale, il Festival delle Auto d’Epoca che presenta tutti i tipi di veicoli antichi e di eccellenza provenienti
da Francia, Svizzera e Germania. Per l’occasione tutti gli appassionati potranno presentare i loro veicoli nelle immediate prossimità della Cité de l’AutomobileMuseo Nazionale, sia all’interno sia all’esterno dei 60.000 mq della cinta del Parc Expo. Per l’occasione sarà tenuta anche una parata sull’anello attorno al Parc des Expositions e saranno premiate le più belle vetture per categoria. Gioiello e vanto della città è il Museo della Stampa su Stoffa creato nel XIX secolo e che testimonia l’epopea industriale di Mulhouse. La collezione,
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che comprende oltre 6 milioni di campioni, colloca la stampa su stoffa nella storia delle arti decorative a partire dal XVI secolo. Qui vengono ad ispirarsi i più grandi nomi della moda internazionale. Quest’anno il museo, per valorizzare le sue collezioni più rare e importanti, presenta fino al 30 settembre la mostra “Ballade”, una vera e propria passeggiata musicale attraverso i tessuti stampati più
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creativi in collaborazione con il noto compositore André Manoukian, che ha firmato per l’occasione una colonna sonora inedita in sintonia con le opere presentate. Per l’occasione viene realizzato in edizione limitata un foulard di seta “Coup de Coeur d’André Manoukian”. Particolarmente interessante è anche il Museo della Carta da Parati che racchiude tutta la storia della carta da parati dal XVIII secolo ai nostri giorni. Va dalla carta più ordinaria a quella più preziosa e mostra come gli antichi padri abbiano voluto infrangere con le immagini più diverse e panoramiche le pareti troppo strette delle loro abitazioni quotidiane. Il Museo nazionale della Ferrovia o Cité du Train, aperto nel 1971, mette in scena i più straordinari capolavori della storia della ferrovia. A Mulhouse è possibile anche immergersi nel verde grazie alla presenza di numerosi parchi ricchi di alberi delle varietà più diverse. Il Parco Zoologico e Botanico è il primo sito turistico dell’Alto Reno. Possiede una magnifica collezione botanica da scoprire stagione dopo stagione. Lo Zoo è uno dei più antichi di Francia e quest’anno festeggia i suoi 150 anni con molte attività e spettacoli teatrali, e con l’inaugurazione di un trenino che permetterà di visitare tutto il sito. Considerato progetto poetico ma anche ludico e didattico, è il Parco del
Piccolo Principe che si articola in una trentina di attrazioni dal labirinto gigante ai film in 3D ai numerosi giochi per tutti. Salire sulle due mongolfiere frenate che arrivano a 150 metri di altezza significa godere di una vista mozzafiato su tutta la regione, dalle Alpi alla Germania passando per i Vosgi. A Mulhouse non mancano anche le golosità gastronomiche. La città vanta il più grande
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mercato dell’Est della Francia con i suoi 250 commercianti che tre giorni alla settimana propongono una gran varietà di prodotti, alimentari e no. Nel territorio si trovano non meno di 12 ristoranti segnalati dalla Guida Michelin, di cui 3 premiati con una stella. Dal 28 al 30 settembre 2018 tre giorni di feste celebrano la gastronomia per esaltare tutte le deliziose specialità, tanto gustose
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quanto talvolta dai nomi difficili da pronunciare. E’ particolare la Fête de l’Oignon Dorée (la tipica cipolla), nell’atmosfera di un villaggio alsaziano. E non sono da tralasciare i famosi vini d’Alsazia prodotti dai vigneti che si snodano lungo la Strada
dei vini fino a Eguisheim, Kayserberg e Riquewihr. Ma il momento privilegiato di Mulhouse, come in tutta l’Alsazia, è il periodo magico di Natale con i coreografici mercatini che riempiono di suoni, colori e odori tutte le piazze e le vie. A Mulhouse in particolare gli artigiani creano ogni anno per l’occasione migliaia di metri di prezioso tessuto esclusivo per decorare il mercato, i monumenti e le strade e inventare un’infinità di oggetti e regali da portare a casa come ricordo dell’Alsazia. ▣
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A pagina 58, Colmar. A pagina 59, Vini alsaziani e Bredalas, biscotti di Natale. A pagina 60, Vigneti e Fête de l’Oignon. A pagina 61, Festival delle auto d’epoca e Museo della stampa su stoffa. In queste pagine, Strasburgo, Parco Zoologico e Botanico, Parco del Piccolo Principe.
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Appuntamento a
LOSANNA La magnifica città svizzera, capitale del Canton Vaud, affacciata sul Lago Lemano, a poche ore dall’Italia, offre una sicura promessa di benessere. di Franca Dell’Arciprete Scotti
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onostante le sue limitate dimensioni, Losanna è un vero crocevia internazionale, una città dove la cultura è di casa, dove si passeggia piacevolmente in riva al lago, si gustano eccellenze gastronomiche, si scoprono le tracce di grandi celebrità. D’altronde l’Huffington Post l’ha inserita fra le 11 piccole città d’Europa da non perdere e il New York Times due anni fa aveva decretato il Canton Vaud, unico in Svizzera, fra i 52 luoghi da visitare al mondo. Cominciamo da un luogo davvero eccezionale, il Museo Olimpico, vetrina mondiale del Movimento Olimpico. È passato quasi un secolo da quando Pierre
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A pagina 64 e 65, Losanna, panorama e Centro Storico. A sinistra e a destra, Museo Olimpico. In basso, Vigneti di Lavaux, Lavaux Express. A pagina 69, Beau Rivage Palace. A pagina 70, dall’alto, Quartiere del Flon, un piatto dello Château d’Ouchy, un piatto dell’Auberge de l’Abbaye de Montheron. A pagina 71, Hotel Palace & Spa,
de Coubertin stabilì il quartier generale del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) a Losanna, considerata una città neutrale e pacifica, secondo lo spirito dei Giochi. Dopo un radicale rinnovamento, il museo ha riaperto le sue porte ampliando gli spazi espositivi e offrendo una tecnologia avanzatissima per un’esperienza davvero interattiva: in mostra le cerimonie di apertura, i villaggi degli atleti, le medaglie, le origini dei Giochi
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in Grecia, documenti, divise, tecnologia. Sede di più di 40 istituzioni olimpiche e federazioni sportive internazionali, organizzatrice di eventi agonistici di richiamo mondiale, Losanna è al tempo stesso un polo sportivo alla portata di tutti, residenti e turisti. In posizione eccellente sul Lago di Ginevra, a breve distanza da montagne dove si scia tutto l’inverno, offre anche la possibilità di godere
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tutti gli sport nautici. E la pratica sportiva s’inserisce perfettamente in un ambiente e in una città che ha conquistato, prima città in Europa, il Gold Award europeo
dell’energia. Politica energetica d’avanguardia, mobilità sostenibile, lungimirante gestione delle risorse, spazi verdi e giardini pubblici sono alcune misure che dimostrano la forte coscienza ambientale di Losanna, meta ideale per chi ama esperienze di ecoturismo. Definita “Città elvetica dell’energia”, Losanna vanta varie soluzioni di trasporto ecologico: noleggio biciclette self-service, metropolitana tecnologicamente all’avanguardia, autobus elettrici o funzionanti a gas naturale, barche
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elettro-solari. Dopo le corse in bicicletta ci si rilassa sul lungolago, contemplando i riflessi delle Alpi nel lago di Ginevra e la bellezza dei vigneti di Lavaux, patrimonio UNESCO. Le terrazze scolpiscono i ripidi pendii fino alle rive tra Losanna e Montreux, accarezzate da un clima mediterraneo con temperature miti e lo specchio d’acqua che restituisce tepore alla terra. I vigneti si attraversano a piedi o su piccoli treni pittoreschi, come il Lavaux Panoramic ed il Lavaux Express. Prepariamoci allora alla grande festa che si svolgerà l’anno prossimo, dal 18 luglio all’11 agosto, la tradizionale Fête des Vignerons, venti
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anni dopo la sua ultima edizione. La sua storia, le cui origini risalgono al XVII secolo, quando la Confraternita dei Vignaioli organizzava ogni anno una sfilata in città, rappresenta un omaggio al loro lavoro. Per sapere dove degustare un bicchiere di vino durante una visita a Lavaux, è ora disponibile una hotline dedicata al numero 0840 840 800. Un servizio telefonico che viene fornito quotidianamente dalle 9:00 alle 20:00 e che indirizza gli interessati presso i
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viticoltori della regione, specializzati nella ricezione turistica su misura. Questi si sono organizzati in modo da garantire ogni giorno l’apertura di una o più cantine. E, nell’ambito del programma “Viaggi panoramici” della Swiss Travel System AG e di Svizzera Turismo, il viaggio panoramico nel Lavaux svela i segreti del sudovest elvetico, tra Ginevra e Briga. In treno da Ginevra a Losanna si assiste in video alla storia dei Giochi Olimpici
dall’antichità a oggi, per poi intraprendere una gita su un battello a energia solare sul Lago. Torniamo sul lungolago, dove, accanto al Museo Olimpico, tra fioriture di parchi e giardini, si aprono hotel leggendari, che hanno ospitato, anche in anonimato, Coco Chanel, Audrey Hepburn, Charlie Chaplin. Come il favoloso Beaurivage, che ha già festeggiato i 150 anni, con un primo edificio costruito verso il 1860, quando Ouchy era un borgo di pescatori, e un
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secondo, di opulenza neobarocca, vetrate colorate e uno scalone sul modello del Ritz di Parigi, aggiunto nel 1915. Nel cuore della città si apre un altro gioiello: il Lausanne Palace, hotel centenario Belle Epoque, sontuoso ed elegante, frequentato da celebrità e teste coronate e sede dal 1980 del Comitato Internazionale
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Olimpico. In alto, come da tradizione, si apre invece, il bellissimo centro storico, quasi completamente pedonale, dominato dalla cattedrale gotica di Notre-Dame e caratterizzato da vie lastricate, architettura medievale, laboratori artigianali e bistrot. E giungiamo alle delizie gastronomiche, che saranno un must di una breve vacanza a Losanna. Nata nel 2012 e cresciuta progressivamente d’importanza, Lausanne à Table, in programma fino all’autunno, è una rassegna annuale che unisce valori e prodotti del territorio, le ultime tendenze in tema alimentare, dalla tradizione della fonduta all’esotismo degli street food, in un programma ricco e vario che stuzzica la golosità di
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losannesi e turisti. Partecipano all’iniziativa sia ristoranti stellati sia trattorie fuori città, locali per giovani nel quartiere Flon e “sacrari”
storici. Tra le specialità, il pesce di lago cucinato in tutte le maniere, gli assortimenti di verdure condite con salse alla crema o all’aceto balsamico,
l’utilizzo di fiori freschi, i dolci alla panna, alla frutta, al cioccolato. ▣
INFORMAZIONI UTILI Per dormire In quanto ai forfait in hotel, a dispetto dei luoghi comuni che vogliono la Svizzera una meta cara, varie sono le soluzioni week end dai prezzi interessanti. Da ricordare che tutte le offerte prevedono l’utilizzo gratuito della Lausanne Transport Card ed escludono la tassa di soggiorno. Per arrivare Il mezzo migliore per raggiungere Losanna dal Nord Italia è il treno: tariffe Smart a prezzi economici e lo Swiss Travel System per viaggiare, pressoché senza limiti, sulla rete di trasporti pubblici. Chi si reca in Svizzera ha a sua disposizione circa 26.000 chilometri di tratte fra treni, autobus e battelli. Info Vaud Guide, l’unica guida turistica digitale intelligente in Svizzera. Con l’aggiornamento, l’applicazione gratuita dell’Ufficio del Turismo del Canton Vaud si perfeziona e si trasforma in un vero compagno di viaggio per i visitatori: appmobile.region-du-leman.ch. Siti www.svizzera.it - www.lausanne-tourisme.ch - www.regione-lago-ginevra.ch
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Il tesoro della Bulgaria: le rose
Le vette imponenti della montagna Stara Plinina sembrano inaccessibili – cinte di corone d’argento, esse si stagliano alte all’infinito azzurro del cielo e prime prendono fuoco al bacio vermiglio dell’aurora. Testo e foto di Jimmy Pessina
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alle vette scendono i ruscelli schiumosi che portano alle valli ubertà e bellezza. Le pieghe viola dei poderosi crinali del monte si susseguono nella lontananza, fino all’orizzonte, e sbarrano la via ai venti. Perciò il sole splende sempre blando e sorridente su questa terra benedetta. Il genio della natura ha operato con tutta la sua maestria, ha scelto i più bei colori della sua ricca tavolozza per creare la Valle delle Rose, unica bellezza e opulenza, fragrante come un giardino del Paradiso. Ogni primavera, nel mese di maggio, quando la cima di Triglav è ancora coperta di neve, a valle fioriscono le rose. Come se il mondo si trasformasse in un mare di rose. Vi siete mai svegliati al bisbiglio di milioni di rose che aprono i bocci per salutare il sole che spunta? Chi capita nella Valle in quel periodo, non dimentica mai i momenti d’incanto da lui vissuti. Nel giorno della solenne Festa della rosa, dove la raccolta dei fiori fragranti come tradizione, avviene al canto allegro delle raccoglitrici, snelle ragazze dagli occhi neri, che indossano i tipici costumi nazionali. L’essenza di rosa prodotta in Bulgaria è ricercata in tutto il mondo. Fu all’inizio del XVIII secolo che il rosaio era stato piantato in questa valle, T U RI S M O I NT E RNAZ I ONAL E
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portato dalle plaghe dell’Asia anteriore, come se fosse un verso di poesia, venuto dalla lontana Persia a rincuorare i Bulgari, soggetti allora agli Ottomani. Inoltrandovi in quella bellezza sfrenata di fiori bianchi, rosa, rossi, gialli e dalle tante sfumature, sentirete nell’aria il dolce odore di rosa frammisto a quello di menta e di lavanda. Queste colture sono la ricchezza della Valle delle Rose. Quando l’avrete lasciata, porterete con voi il ricordo della cordialità degli abitanti. Essi hanno
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costruito con marcato senso di armonia e amore per la patria i loro insediamenti – le vecchie città risorgimentali di Sopot, Karlovo, Kalofer e Kazanlak. Lungo questo
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itinerario vi accoglieranno anche molti lindi villaggi i cui muretti bianchi ricordano fazzoletti sventolati in segno di commiato. Oggi nella Valle delle Rose
si snodano i nastri argentei delle strade asfaltate. Quando avrete disceso le serpentine ripide di Klisura, vi accoglierà il villaggio di Rosino. Là si possono
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vedere in azione antiche distillerie per l’essenza di rosa con lambicchi patinati dal tempo. Nella città di Sopo troverete il clima romantico del Risorgimento. Le antiche
case, i cortili con arbusti di bosso, i viottoli, ai lati dei quali scorrono limpidi ruscelletti, conservando l’atmosfera del secolo scorso. Sopot è la città natia
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di Ivan Vazov, il padre della letteratura contemporanea bulgara. Di un simile aspetto architettonico è anche la cittadina di Korlovo, sulla strada dopo Sopot. Dove è
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nato Vassil Levski, il teorico e l’organizzatore della rivoluzione nazionale bulgara contro l‘impero ottomano. Nei cortili ci sono belle fontane di pietra da cui sgorga limpida acqua montana. Il chioccolio dei getti dai becchi di rame racconta del passato, quando per le vie passavano le carovane dei grossi commercianti bulgari, dirette verso l’Asia Minore o verso l’Europa. Ora di loro si conserva il ricordo e le case che hanno un proprio nome - Casa di Zoe, il Cortile Bianco, il Cortile Azzurro. Le case sono situate in fondo a dei vasti cortili come tanti vegliardi che, seduti uno accanto all’altro, fissano i secoli con l’occhio
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impassibile. Tra le pieghe montane è ubicata la città di Kalofer, sotto l’innevata vetta di Botev, la più alta della catena montuosa di Stara Plinina. Al centro della favolosa Valle delle Rose brilla la città principale del regno della rosa: Kazanlak. Le prime rose oleifere sbocciarono in questo territorio, dove si trova anche l’Istituto per la rosa e le piante eterico-oleifere, l’unico in tutti i Balcani. Proseguendo da Kazanlak, la strada scende verso il mare. Lasciando la Valle delle Rose, non dimenticherete le impressioni che vi avrà suscitato questa valle di fama mondiale. ▣
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FRANCIA: la Provenza e Camargue
Vincent Van Gogh, il “pazzo”, guardava il sole a picco sui fiori di lavanda, sugli ulivi, sull’erba grigia dei pascoli salati. Stringeva le palpebre nella calura per fermare i raggi violenti e vedeva la luce scomposta in mille colori. Poi prendeva il pennello e fissava sulla tela il “suo” sole di coriandoli colorati. Testo e foto di Jimmy Pessina
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olpi secchi, precisi, a formare immagini mai viste, eppure così facili da vedere. E in tanti a gridare che quello non poteva essere un sole. Eppure ho sentito dire, qui tra i prati di lavanda e le colline appena segnate che si muovono sotto i merletti rocciosi delle Alpilles, che “ il n’a rien inventé: il a vu”. Non ha inventato: ha visto. La Provenza e Van Gogh: l’incontro tra due entità straordinarie. L’olandese folle e la sua anima mai sazia vagarono su queste campagne per due anni, vissuti con un furore maniacale. Trecento tele dipinte in quel breve periodo, altrettanti disegni: quei soli a coriandoli, quei prati di lavanda, quei carretti di contadini e di zingari destinati a portare la luce della piccola
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Provenza in tutto il mondo e a consegnarla all’eternità dell’arte. Luce abbagliante o morbida, sfumata o decisa, tenera o sferzante, si tinge del viola dei campi di lavanda, del verde degli ulivi, del rosa degli alberi da frutto, del giallo del grano. Qui i colori prendono quelle improbabili e inconfondibili sfumatura che solo i grandi maestri come Van Gogh e Cézanne hanno saputo tradurre sulla tela. E la stessa luce avvolge e illumina, senza discriminazioni, il monumentale palazzo dei Papi di Avignone e i pascoli salati della Camargue. Strana terra. Si mostra con modestia, mai con violenza, senza aggredire, ma lasciandosi interpretare. Come Aix-en-Provence, la minuta capitale di Provenza, trasparente e dolce. Lo stesso vale per Avignone,
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un po’ Strasburgo, un po’ Vienna, un po’ Parigi d’altri tempi. Si direbbe una città spensierata, come il suo Festival del jazz ma al tempo stesso colta, che vuol essere colta, con l’affermato Festival del teatro che fa calare qui, a luglio, la crème intellettuale d’Europa. Poi, lungo il Rodano che va verso il mare, lontano, la Provenza diventa più rustica e contadina. La piccola Arles, tra il verde, è grandiosa certo, così “intrisa” dell’antica grandezza romana, ma è rimasta un borgo: si direbbe che abbia smesso di crescere con la fine dell’impero. La Camargue, quel triangolo di terra selvaggia compreso fra i due bracci del Rodano (Petit Rhône e Grand Rhône) è la
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spiaggia sul Mediterraneo. Qui si allevano i tori camarghesi, con le corna a forma di lira alte sulla testa. Vivono in mandrie controllate dai gardians, i butteri provenzali che montano quei loro cavallini bianchi, dall’aria paciosa ma con un filo di sangue selvaggio. Li intravedi, i butteri disegnati da Van Gogh, lontano nella foschia calda che si alza dallo stagno di Vaccarés, muoversi come ombre tra i fenicotteri che zampettano tra i canneti e gli aironi rosa che volano in cielo. Van Gogh dipingeva gli zingari di Les Saintes Maries intorno ai bivacchi delle loro carrozze colorate di rosso, di giallo, di blu, a suonare la chitarra, a danzare. Le T U RI S M O I NT E RNAZ I ONAL E
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gitane con i grandi orecchini rotondi, le gonne lunghe a fiori; gli uomini con folti baffi neri, i pantaloni a sbuffo, le giacche scure. Oggi, due volte l’anno, a fine maggio e a fine ottobre, i nomadi si riuniscono qui, come sempre, a festeggiare le loro sante protettrici, Maria Giacoma, Maria Salome e Sara. Oggi sfoggiano lussuose roulotte, pochi i suonatori di chitarra e non bivaccano intorno ai fuochi. I tempi sono cambiati. Ma se si guarda il sole che splende sopra gli spuntoni arrotondati dal vento delle Alpilles e si chiudono gli occhi, ecco lo stesso sole a coriandoli colorati, tra i campi di lavanda, che aveva visto Van Gogh. ▣
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Il Festival del Giornalismo
Alimentare di Torino
Nell’anno del cibo italiano nel mondo, proclamato da MIBAC e MIPAAF, questo particolare “festival” - unico in Italia - ed arrivato alla terza edizione, si è presentato con una veste più internazionale e attiva dei precedenti e con oltre 1.100 partecipanti. Tra i partner anche ASA. di Paolo Alciati
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ome viene “comunicato” il cibo? E come viene recepito in un periodo complesso come questo, di grande attenzione alla alimentazione, allo spreco,
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alla sostenibilità, alla sicurezza alimentare e alla salute? Il grande affollamento mediatico di cuochi, pasticceri, nutrizionisti ed esperti, tra giornalisti e foodblogger, porta ad una corretta informazione o crea
un’immagine distorta dell’universo enogastronomico col rischio che possa solamente essere vissuto il lato “godereccio”, senza prendere in
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considerazione il giusto aspetto scientifico, deontologico e sociale? Sono solo alcuni degli importanti temi dibattuti nel corso del Festival del Giornalismo Alimentare svoltosi dal 22 al 24 febbraio scorso a Torino. Tre giorni intensi, ricchi di preziosi momenti di scambio di informazioni e di confronti sul cibo che hanno riaffermato la leadership del nostro capoluogo in questo comparto, degno seguito di un evento di importanza mondiale come il biennale Terra Madre Salone del Gusto e importante prologo della finale europea del Bocuse d’Or e di quella del Campionato Mondiale di Pasticceria 2018, che si
terranno sempre a Torino al Lingotto Fiere a giugno 2018. Nell’anno del cibo italiano nel mondo, proclamato da MIBAC e MIPAAF, questo particolare “festival” - unico in Italia - ed arrivato alla terza edizione, si è presentato con una veste più internazionale e attiva dei precedenti e con oltre 1.100 partecipanti provenienti da tutta Italia e dall’estero. Giornalisti, professionisti della comunicazione, foodblogger, influencer, oltre a esperti della sicurezza alimentare, responsabili di importanti aziende del comparto alimentare nazionale, scienziati, rappresentanti di associazioni e istituzioni.
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Massimiliano Borgia, direttore del Festival.
L’obiettivo è stato confrontarsi su cibo e alimentazione, con oltre 30 focus di approfondimento nei quali sono intervenuti ben 150 relatori e svariati eventi, laboratori ed educational nel territorio. La grande attualità di ogni argomento ha indirizzato un pubblico vasto, eterogeneo e fortemente attento ai vari lavori tra i quali spiccava un argomento di cui ASA fin dall’inizio si è fatta prima portavoce: la lotta alla
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di questa terza edizione è stato il primo appuntamento B to B dedicato ad aziende e professionisti del settore, per far incontrare senza intermediazioni le nuove professionalità della comunicazione (blogger, social media manager, influencer), che si sono potuti promuovere come consulenti, oltre ad interessanti panel sul brand journalism e sul futuro dei free lance. La terza giornata - sabato 24 febbraio a chiusura del Festival - è stata dedicata ai press tour, educational di esperienza e formazione alla scoperta delle eccellenze del territorio piemontese e aostano.
contraffazione e al falso italiano. Di grande interesse anche il dibattito sul pericoloso insediarsi delle mafie nella filiera agroalimentare, per capire quindi come vengono affrontati sui media i problemi della legalità e della sicurezza alimentare, l’italian sounding, e i trattati sul cibo o, ancora, le recenti polemiche sull’etichettatura, che hanno portato di conseguenza a ragionare su quali politiche alimentari adottare per la prossima legislatura. Molto affollato il laboratorio pratico sul tartufo, quello sull’assaggio dell’acqua - con analisi di laboratorio su campioni di cibo contaminati - e sull’etichettatura
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alimentare, con i partecipanti che sono stati seguiti da tecnici e professionisti qualificati di SMAT, Regione Piemonte, Istituto Zooprofilattico di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, e Camera di commercio di Torino. Appassionante anche il confronto tra vegani e onnivori, mentre momenti di approfondimento sono stati dedicati al Novel food, tra costume, informazione sanitaria e cambiamenti climatici, al giornalismo investigativo e al rapporto tra le Aziende del food e la comunicazione nell’era del Web. Un altro innovativo momento
Nel mio personale caso, definirlo semplicemente un “press tour” è riduttivo… l’esperienza vissuta con l’azienda lattiero-casearia Inalpi, è andata oltre. Un sabato grigio, umido e piovoso, dove la campagna pareva ritratta in bianco e nero e la recente nevicata regalava chiazze candide alla terra compatta e scura. Arrivare alla stalla, prima tappa del tour, ha avuto il sapore e l’atmosfera di un’avventura gioiosa, di una tardiva gita scolastica. Nel cortile dell’azienda agricola “Olmetto” dei fratelli Diale a Villa Falletto è stato divertente vedere i partecipanti prepararsi alla visita con calzari, impermeabili ed ombrelli.
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L’accoglienza di Matteo Torchio, direttore Marketing Inalpi, che ci ha seguiti con pazienza e grande disponibilità lungo tutto la giornata, è stata impeccabile, così come la squisita cortesia e disponibilità di Livio Diale - proprietario della stalla e terza generazione di allevatori di vacche da latte - e quella di suo nipote, giovane ragazzo che già è impegnato e appassionato nella conduzione dell’azienda. La loro stalla è un gioiello di efficienza, pulizia e attenzione. È infatti proprio questo il segreto dell’inizio del buon latte di filiera piemontese: il benessere animale. “Quando più di trent’anni fa abbiamo tolto la catena alle mucche in stalla – racconta Livio – lasciandole libere di muoversi, mangiare e coricarsi secondo i loro ritmi
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e le loro esigenze, gli altri allevatori ci hanno detto che eravamo pazzi. Oggi, questo metodo, è applicato nelle migliori stalle”. Le vacche hanno a disposizione fieno e soia in grandi quantità e sono suddivise a seconda dell’età in ampi recinti. Ciascuna ha un box dedicato dove può dormire, una tettoia le tiene al riparo dalle intemperie. Vengono munte, ad orario,
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una volta al giorno con mungitrici automatiche che garantiscono la più rigorosa igiene del latte. Latte che viene poi raccolto in cisterne che lo mantengono a temperatura non superiore ai 4/6° C e viene consegnato ad Inalpi in giornata. 365 giorni all’anno. Ma al di là dell’efficienza, della cura e dell’amore per gli animali, quello che colpisce è la straordinaria umanità del
padrone di casa, che conosce ogni capo di bestiame per nome, che parla della passione che mette nel suo lavoro e che traspare in ogni gesto. La visita alla stalla si conclude, ma rimangono impressi nella memoria gesti, odori e sapori che fanno parte della nostra storia contadina e un po’ anche della nostra infanzia. Fin da subito si percepisce che Inalpi non ci sta portando in un press tour didascalico e didattico, ma ci ha aperto le porte di casa e ci sta facendo conoscere quello che è il grande valore aggiunto della sua produzione: le persone. Lo stabilimento Inalpi di Moretta, centro della grande produzione Inalpi di latte in polvere (unica azienda in Italia a produrlo), burro, panna, fettine e formaggini Bio, il sabato non ha produzione, quindi ci dirigiamo verso Peveragno, piccolo paese situato a circa 600 metri di quota dove si trova Latterie Alpine, un piccolo stabilimento rilevato da Inalpi poco più di un anno fa, dove vengono prodotti i DOP piemontesi: Bra, Raschera e Toma, considerati
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i “gioielli” di casa Inalpi. Il casaro responsabile della produzione spiega, in modo chiaro e impeccabile, le diverse fasi di lavorazione del latte, dalla cagliata fino all’etichettatura, marchiatura e stagionatura delle forme. Abbiamo la possibilità di seguire tutti i processi di lavorazione e di degustare ottimo formaggio. È un lavoro di equipe e in tutti i collaboratori traspare l’orgoglio del proprio ruolo, della propria mansione. Ciascuno si sente un anello di una catena che contribuisce a far finire sulle tavole un prodotto ottimo derivante da solo latte piemontese, ogni singola persona è preziosa e contribuisce a creare, a far conoscere e apprezzare lo straordinario prodotto del proprio territorio. Si è fatta oramai ora di pranzo e ci spostiamo a Cervere, saremo ospitati all’Antica Corona Reale, storico ristorante di famiglia di Gian Piero Vivalda, chef due stelle Michelin, che ci accoglie con grande cortesia e calore. Davanti ad un aperitivo, gustato nella meravigliosa ed efficiente cucina, lo chef racconta la sua passione per il cibo, per la qualità della
materia prima, per la sua terra e il suo legame con i prodotti Inalpi. Il pranzo, servito in una sala dedicata, è curato nei minimi particolari ed è un tripudio di sapori e colori. Il menù è realizzato con alcuni prodotti dell’azienda di Moretta e scopriamo con piacere alcuni gradevoli abbinamenti, come quello tra la battuta di Fassona piemontese e il
formaggino Inalpi. I piatti sono un riuscito connubio tra estetica e gusto, grazie all’abilità della cucina stellata di Vivalda e all’alta qualità degli ingredienti utilizzati. Terminiamo il pranzo con un gelato alla crema prodotto con latte in polvere Inalpi, una delizia. Il tour è giunto alla fine, ma portiamo a casa il ricordo di una giornata non convenzionale che ci ha guidato alla scoperta di un’industria che fa della qualità e del legame al
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territorio, la sua bandiera. Abbiamo scoperto che ogni giorno, in Inalpi, i produttori del Piemonte scaricano circa 500 tonnellate di latte fresco su cui vengono eseguiti controlli dall’arrivo al prodotto finito. Alcuni parametri vengono controllati già in stalla sul latte appena munto. Inalpi, ogni anno, investe circa 1.000.000 di euro per la gestione e il rinnovamento del proprio laboratorio analisi. Numeri che sono sinonimo di prodotto sicuro. Inoltre, un altro punto forte dei prodotti è la tracciabilità: su ogni confezione è stampato un codice che, inserito in una sezione dedicata del sito aziendale, consente al consumatore di conoscere addirittura la stalla da dove proviene il latte utilizzato. L’attenzione e l’alta qualità dei prodotti, sono frutto di una filiera corta e controllata passo passo, vera garanzia per i consumatori. Insomma, un’azienda all’avanguardia, che utilizza metodi di controllo e produzione estremamente avanzati, ma che tiene conto del fattore umano, dei rapporti personali e con il territorio. Un’azienda portatrice di modernità ma con radici profonde e valori umani forti e sempre attuali. ▣
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Asparagi…di tutti i colori Verde o bianco? E del violetto, che cosa ne pensate? Per non parlare del rosa, una nicchia da intenditori… Perché gli asparagi, ortaggi di stagione, hanno tanti colori: provate a cercarli tra le bancarelle dei mercati rionali. di Silvana Delfuoco
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n verde che sa di primavera
Apprezzati già dai nostri antenati Romani che ne erano così ghiotti da averne minuziosamente registrato il metodo di coltivazione e da curarne il trasporto su navi
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appositamente attrezzate allo scopo, dette appunto asparagus. Un po’ trascurati col passare del tempo, bisogna aspettare fino al XV- XVI secolo perché gli asparagi ritornino agli onori del mondo del gusto. A Luigi XIV, il Re Sole, piacevano a tal punto che il suo abilissimo giardiniere pare riuscisse
a procurarglieli anche a dicembre! Dalle nostre parti, invece, si racconta di un fortunoso “ritrovamento” dell’Asparago Bianco di Bassano, nei dintorni di Vicenza, dai contadini, costretti a rivoltare la terra alla ricerca di cibo dopo una violenta grandinata che aveva rovinosamente distrutto
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tutte le colture. A Santena, in provincia di Torino, dove gli asparagi si colorano di verde, nuovo impulso alla coltivazione venne dato nella seconda metà del XIX secolo dal conte di Cavour, che per “rinvigorire” le stanche asparagiaie piemontesi importò nuove piantine dalla zona di Argenteuil, in Francia.
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ognuno il suo colore
Dunque: quello verde si dice sia il più afrodisiaco; quello bianco una raffinatezza da intenditori; quello violetto morbido e burroso; quello rosa… Ma quanti tipi di asparagi ci sono? Per dissolvere ogni dubbio, abbiamo interpellato le autorità in materia, gli esperti dell’Unità di Ricerca per l’Orticoltura del CREA AGROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E
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– Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura di Montanaso Lombardo. «Il genere Asparago comprende 240 specie, originarie dell’Asia e dell’Africa. La variabilità presente nei turioni, la parte commestibile degli asparagi – ci chiarisce Alessia Losa, ricercatrice CREA – è determinata soprattutto dall’aspetto, dal sapore e dalla tipologia di coltivazione. Infatti, non ci sono solo i turioni di asparago di colore verde, verde con punta e brattee antocianiche, turioni completamente viola nel caso del Violetto di Albenga o rosa come l’asparago di Mezzago, ma si possono trovare anche germogli completamente bianchi, privi di clorofilla, conseguenza dell’applicazione di una specifica tecnica di
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coltivazione che prevede la crescita dei turioni in assenza di luce sotto terra e teli scuri. Gli asparagi bianchi sono molto coltivati in Veneto». Senza poi dimenticare che ci sono anche – e non sappiamo fino a quando – gli asparagi “selvatici”, o meglio “spontanei”. Ancora si trovano, a saperli cercare, nelle aree boschive o lungo i litorali.
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n mercato promettente
Dunque, con l’arrivo della primavera, già a partire da metà febbraio nelle regioni dove il clima è più mite e grazie anche all’ormai consolidato metodo del “tunnel protetto”, l’intera penisola, e non soltanto le tradizionali terre “vocate” del Nord, diventa zona di
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produzione. «Secondo gli ultimi dati raccolti dalla FAO – segnala Alessia Losa – l’Italia nel 2016 si colloca al 6° posto di produzione di asparagi a livello mondiale con 43.700 tonnellate annue per 6.500 ettari coltivati. In Europa l’Italia è alle spalle della Germania e della Spagna, ma precede la Francia, l’Olanda e la Gran Bretagna; è dietro alla Cina, al Perù e al Messico, ma è davanti agli Stati Uniti con 11.700 tonnellate in più di produzione». Magari con un piccolo sforzo in più e
una miglior organizzazione commerciale potremmo diventare anche noi davvero competitivi…
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fficinalis sì o no?
Ricchi di vitamine e scarsi di glucidi, proteine e lipidi, costituiti per 95% di acqua, gli asparagi richiedono poco concime e pochissimi trattamenti con i fitofarmaci. Sono dunque perfetti per la coltivazione biologica, che ne
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garantisce al meglio anche le virtù terapeutiche: non dimentichiamo che Linneo non a caso aveva chiamato l’asparago officinalis. Eppure… Recentemente è stato pubblicato un articolo su Nature dal titolo “Asparagine Bioavailability Governs Metastasis in a Model of Breast Cancer” riguardante uno studio sul cancro al seno, condotto presso il Cancer Research UK Cambridge Institute dal Cedars Sinai di New York. «La notizia è
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stata divulgata in modo molto rapido tramite i social – ci chiarisce ancora Alessia Losa – arrivando ad affermare che l’asparago causa il cancro, associando l’amminoacido asparagina alla pianta dell’asparago senza considerare che il decorso del cancro al seno è molto lungo e complicato. Infatti, la ricerca sul tumore al seno pubblicata su Nature ha portato il prof Hannon ad affermare alla BBC: “Stiamo assistendo a una crescente evidenza che determinati tumori sono dipendenti da componenti specifici della nostra dieta. In futuro, modificando la dieta di un paziente o utilizzando farmaci che cambiano il modo in cui le cellule tumorali possono accedere a questi nutrienti, speriamo di migliorare i risultati della terapia».
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Continuiamo dunque a godere del piacere degli asparagi, ricordando anche quello che diceva un tempo la saggezza popolare: “gli asparagi hanno quaranta qualità, ma dopo la raccolta ne perdono una all’ora”, suggerendo saggiamente, come è logico e naturale,
di consumare il prodotto fresco. E siccome gli asparagi nascono a primavera, quando anche le galline riprendono a deporre le uova, ecco spiegata l’origine del più tradizionale e ancora insuperato degli abbinamenti: con l’uovo al burro! ▣
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI Come si riconoscono gli asparagi migliori? L’ultima parola spetta ad Alessia Losa: «Per valutare la freschezza degli asparagi è fondamentale determinare il contenuto di acqua. Ciò è possibile con un semplice gesto, spezzando il turione: esso si deve rompere facilmente e non solo flettersi e piegarsi. Altri due aspetti, infine, sono da esaminare: uno riguarda la sezione del turione che deve avere una forma tonda e non schiacciata (forma ovale). L’altro considera le caratteristiche della parte più basale del turione, quella del taglio, la quale non deve essere imbrunita, legnosa e secca».
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BEVI RESPONSABILMENTE
www.lambrusco.net
www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net
La gratificante arte del “SOTTOVETRO” Una parata di vasetti che lasciano intravedere il loro invitante contenuto, realizzati con le ricette della nonna interpretate in chiave moderna. Vecchio e nuovo in dispensa e un fai da te gastronomico divertente e di grande soddisfazione. Testo e foto di Enza Bettelli
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onservare i cibi per lungo tempo è sempre stata una priorità già alla comparsa dell’Uomo sulla Terra. I metodi più diffusi erano l’affumicatura, l’essiccazione, la salagione, il freddo della
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neve e del ghiaccio, cioè quanto la natura metteva allora a disposizione. La svolta epocale risale agli inizi dell’Ottocento, grazie alla tecnica della sterilizzazione scoperta dal francese Nicolas Appert, che consisteva nel far bollire i vasetti riempiti e chiusi. In questi ultimi
due secoli le tecniche si sono molto perfezionate ed evolute; abbiamo i frigoriferi, i congelatori, le macchine per il sottovuoto e tanti altri marchingegni che ci semplificano la vita e in teoria dovrebbero anche aiutarci ad azzerare lo spreco di cibo. La conservazione sottovetro
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è comunque rimasta una tradizione ancora attuale, anche se le motivazioni sono diverse. Una volta contadini e massaie approfittavano della bella stagione per conservare per l’inverno i sapori dell’estate, utilizzando il surplus che altrimenti sarebbe andato sprecato. Ne sono testimoni le innumerevoli ricette presenti in tutte le nostre regioni. Negli anni Settanta, periodo del boom economico, offrire agli amici qualcosa fatto in casa con una ricetta della nonna era un modo per stupire. Oggi, il fai da te in cucina è quasi un must perché le abitudini alimentari sono cambiate, vuoi per le nuove tendenze orientate su prodotti sempre più leggeri e vegetali, vuoi per la crescita quasi esponenziale di allergie e intolleranze. Quindi, sempre più spesso si sente la necessità di cibi “su misura” e il fatto in casa è di solito in grado di soddisfare questa esigenza. Le conserve casalinghe ne sono un esempio classico e hanno in più il non indifferente appeal della durata nel tempo, riempendo la dispensa con i sapori di una volta, tutt’al più un po’ modernizzati. E’ vero che al supermercato o al mercatino sotto casa l’offerta è talmente vasta da essere perfino esagerata, ma fatte in casa le conserve sono tutta un’altra cosa. Magari non belle e durevoli come quelle industriali, ma più apprezzate perché realizzate A G RO ALI M E N T ARE N AZI ONAL E
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A pagina 105, Conserve assortite, confetture, cetrioli. A sinistra, Verdure grigliate, carciofini. A destra, Mostarda. A pagina 108, Conserve miste. A pagina 109, Frutta sotto spirito, frutta al rum. A pagina 110, Frutta candita,
con le “nostre” mani e con la “nostra” ricetta.
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olci o agre, purché di stagione e di qualità
Primavera ed estate sono i periodi in cui frutta e ortaggi, la materia prima per le conserve, sono più abbondanti, ma non va sottovalutata la varietà di frutta e verdure invernali che è ugualmente ricca e, se
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vogliamo, anche quasi a zero spreco perché si possono perfino utilizzare le scorze degli agrumi per eccellenti canditi. In qualunque stagione vale comunque il più che abusato principio del prodotto a chilometro zero, che tuttavia, all’atto pratico, è raramente applicabile a meno di possedere un proprio orto o avere la possibilità di rifornirsi presso contadini e aziende agricole abbastanza vicini a casa. Più realistico del chilometro
zero è l’acquisto di prodotti nazionali e che comunque non abbiano dovuto fare molta strada per arrivare fino a noi. Questo, perché più lungo è il viaggio più l’ortofrutta è colta acerba e sottoposta a trattamenti che consentano ai prodotti di arrivare in buono stato sui banchi di vendita. Per fortuna oggi la legge tutela i consumatori obbligando i produttori a dichiarare la provenienza di moltissimi prodotti. Sta poi al
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consumatore avvalersi di questi strumenti di controllo, chiedendo informazioni al venditore e leggendo attentamente le etichette. Altro fattore fondamentale per la buona riuscita della conserva è utilizzare prodotti di qualità garantita. Prodotti scadenti, avariati o anche solo ammaccati non solo influenzeranno il risultato finale ma possono compromettere anche la durata e lo stato di conservazione della conserva, a volte con conseguenze sulla salute. La scelta è davvero importante e spendere qualcosa in più può fare la differenza.
E infine, ma non meno basilare, è d’obbligo utilizzare prodotti molto freschi, se non appena colti almeno che siano stati in giro il meno possibile. E’ quindi opportuno programmare in anticipo la preparazione delle conserve: inutile acquistare buoni ingredienti se poi resteranno in attesa in frigorifero per giorni. Acquisto, preparazione e invasatura andrebbero conclusi nel giro di 24 ore al massimo, soprattutto nel caso di ortaggi. Con la frutta è infatti possibile dilazionare la preparazione finale perché, appena acquistata, basta pulirla, mescolarla a un poco di zucchero e poi
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congelarla. Si conserva per un paio di mesi e al momento di utilizzarla basta ricordarsi di detrarre dalla quantità di zucchero previsto dalla ricetta quello già mescolato alla frutta congelata, previamente indicato sulla confezione insieme a data e contenuto.
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segreti per una buona riuscita
Le conserve sono in genere facili da realizzare. Più difficile è mantenerne a lungo nel tempo gusto, aspetto e commestibilità. Confetture e marmellate non danno eccessivi problemi perché lo zucchero è un eccellente conservante. Lo zucchero bianco e fine è il più indicato; quello di canna conferisce un gusto più rustico. Il miele non ha lo stesso potere conservante dello zucchero e inoltre confetture e marmellate avrebbero una consistenza diversa e una maggiore deperibilità. L’aceto, ottimo conservante, con l’unico rischio che “cuocia” le verdure rendendole molli e di aspetto poco invitante. Anche se aggiunto a freddo, l’aceto va comunque lasciato bollire e raffreddare e si può sostituire quello nel vasetto se dopo qualche tempo si presentasse troppo torbido. Per le conserve è necessario utilizzare l’aceto dedicato, che non altera il colore degli ingredienti perché del tutto
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PULIZIA, PULIZIA, PULIZIA La conservazione sottovetro si può definire una scienza esatta perché, per quanto di semplice realizzazione, nulla va lasciato al caso se non si vuole buttare via tutto. Per prima cosa va programmata, perché non si possono mescolare utensili e ingredienti con quelli della normale preparazione dei pasti, né ci si può distrarre senza rischiare di compromettere il risultato finale. Quindi, quando si preparano le conserve, la cucina deve essere predisposta adeguatamente. Piano di lavoro e utensili pulitissimi e senza odori, così come canovacci e grembiuli (ma senza profumo di detersivo), i vasetti e quant’altro verrà a contatto con gli ingredienti. Ovviamente anche le mani vanno lavate spesso e attenzione agli abiti che si indossano, da cambiare se si viene da fuori. Frutta e ortaggi vanno preparati per la cottura, asportando le parti non commestibili, scartando gli esemplari non perfettamente sani e lavandoli con cura in acqua corrente. Per eliminare eventuali residui di terriccio o altro
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sporco basta una supplementare sosta di una decina di minuti in acqua acidulata con succo di limone per ottenere una perfetta pulizia. I vasetti di vetro sono i più versatili perché si possono riutilizzare all’infinito. Non così i coperchi che si sostituiscono non appena la loro superficie interna non si presenta più perfetta o se hanno trattenuto l’odore di una precedente preparazione. Prima di utilizzarli bisogna sterilizzare vasetti e coperchi facendoli bollire per una decina di minuti, ben coperti dall’acqua, quindi si lasciano asciugare e raffreddare capovolti su un telo. Nel caso di confetture e marmellate può essere sufficiente lavare i vasetti nella lavastoviglie ad alta temperatura e riempirli quando sono asciutti poiché vanno versate ancora bollenti nei contenitori che vengono sterilizzati dall’alta temperatura della massa caldissima. Vasetti e coperchi devono combaciare perfettamente per una tenuta il più possibile ermetica. La guarnizione di gomma va invece sempre sterilizzata e cambiata non appena perde elasticità.
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trasparente e, soprattutto, con l’acidità di almeno il 6% che è quella minima richiesta per una corretta conservazione della preparazione. Mescolando zucchero e aceto si ottengono le conserve agrodolci, prima fra tutte la mostarda in tutte le sue varianti, che trova i suoi ingredienti ideali proprio tra primavera ed estate, quando la frutta è più abbondante e saporita. L’alcol puro a 95 gradi si utilizza per frutta sotto spirito e liquori casalinghi, i classici ratafià come il nocino, ma va generosamente diluito con sciroppo di zucchero per
portarlo a una gradazione meno elevata. Si sostituisce spesso con i distillati, anch’essi eccellenti per la conservazione della frutta in vaso per il loro gusto non invadente e per l’alta gradazione. L’olio è anch’esso un conservante, ma un po’ meno efficace di zucchero e aceto poiché può irrancidire e la sua funzione è in prevalenza quella di isolare il contenuto del vasetto dall’aria. Le verdure vanno quindi ricoperte strato per strato con l’olio perché non restino spazi scoperti e le eventuali bolle d’aria vanno eliminate inserendo con delicatezza la lama di un coltello tra la parete del vasetto e il suo contenuto per farle salire verso l’alto. Si completa infine la preparazione coprendo il contenuto con
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uno strato di olio di circa un paio di centimetri che farà da barriera all’aria. Una volta pronta, la conserva va lasciata riposare per circa 24 ore prima di effettuare un eventuale rabbocco e chiudere definitivamente il vasetto. L’olio, ovviamente di ottima qualità, è preferibile sia di oliva extravergine e di gusto poco deciso perché non prevalga su quello della conserva.
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urata e conservazione
Una volta, nella convinzione di prolungare la durata delle conserve, vi si mescolava dell’acido salicilico, che però non aggiungeva molto se non un gusto vagamente medicato. Se si vuole prolungare la durata
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delle conserve si ricorre alla sterilizzazione dei vasetti, riempiti e chiusi e ad esclusione di quelle con alcol, nell’apposita pentola o in un’altra sufficientemente capiente, con canovacci sul fondo e intorno a ogni vasetto per evitare che si rompano. In genere sono necessari 20-30
minuti dall’ebollizione per quelli da 250 grammi. Però bisogna tenere conto che la sterilizzazione è in effetti una seconda cottura, quindi quella iniziale sarà più breve perché frutta e verdure mantengano una buona consistenza. I vasetti pronti, ben sigillati e puliti esternamente da ogni
sbavatura e sgocciolatura, vanno infine conservati in un luogo fresco e asciutto, come quelle belle cantine di una volta, ormai purtroppo rarissime. In appartamento si possono collocare in un ripostiglio, al buio, non troppo caldo e con una buona circolazione d’aria. Da evitare
L O S PA U R A C C H I O D E L B O T U L I N O Il botulino è una tossina (Clostrium botulinum) ed è raro ma provoca un vero e proprio avvelenamento che può essere anche mortale. Gli ambienti propizi perché possa svilupparsi sono quello o non sufficientemente acido. Le conserve più a rischio sono perciò quelle sott’olio (peperoni in particolare) e di carni e pesci, perché non abbastanza acide, così come quelle in salamoia se non hanno la corretta concentrazione di sale.
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La possibile formazione di botulino nelle conserve casalinghe non va quindi presa alla leggera, ma non per questo bisogna rinunciare al piacere di mettere sott’olio le verdure preferite. Per fugare ogni dubbio e consumare con serenità il frutto della propria fatica culinaria è utile (e rassicurante) consultare online le le dettagliate e precise linee guida sulla preparazione delle conserve casalinghe, redatte dal Ministero della Salute (link).
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U N A B E L L A P R E S E N TA Z I O N E Le conserve casalinghe sono anche una preziosa risorsa jolly perché quelle agre si possono servire con l’aperitivo, come antipasto o contorno, mentre quelle dolci possono fare da base per una gustosa e sana merenda e per dolci e dessert. Ma possono anche diventare dei piccoli grandi doni da offrire a parenti e amici in ogni occasione, personalizzando i vasetti per renderli originali. A cominciare dalle etichette, comunque indispensabili con data di confezionamento e contenuto per tenere sempre sotto controllo i sottovetro e non lasciarsi sfuggire la loro scadenza. Le etichette, da quelle bianche più semplici a quelle decorate fino a quelle già stampate per conserve, si acquistano in cartoleria e anche in qualche grande
i pensili in cucina, soprattutto quelli vicini a forno e fornelli dai quali si sprigionano calore e vapore. Confetture, marmellate, frutta sotto spirito si conservano per circa un anno, le altre conserve per alcuni mesi ed è comunque opportuno farle riposare per almeno uno o due mesi (confetture e marmellate escluse) prima di assaggiarle
magazzino. Chi ha la mano artistica può disegnarle da sé oppure ritagliare dalle riviste le foto degli ingredienti utilizzati per la confettura o per il sott’olio e incollarle sul vasetto. Il restyling comprende anche il coperchio, che si può coprire con un pezzetto di stoffa, ritagliata con le forbici con lame a zig zag (per evitare che i bordi si sfilaccino), o con carta colorata. Per dare un tocco elegante al vasetto ci sono i centrini di carta traforata (quelli per i dessert) o di filo, scelti di diametro adeguato e nel colore preferito, compreso oro e argento, perfetti per i periodi di festa. Infine, un elastico, un giro di spago o di rafia o un nastro fisseranno la copertura per il coperchio con il giusto tocco finale.
perché i sapori si amalgamino meglio. Dopo avere aperto un vasetto sarebbe meglio finirne il contenuto entro un paio di giorni, trasferendo comunque il contenitore ben richiuso in frigorifero. Una buona regola per non avere avanzi in frigorifero è quella di utilizzare solo vasetti piccoli: meglio due da un quarto piuttosto che uno da mezzo litro. Una volta riposti, i vasetti
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non vanno però dimenticati, ma controllati di tanto in tanto per vedere se ci sono variazioni nel colore del contenuto, tracce di muffe, rigonfiamenti del coperchio o altre anomalie. In questi casi e in ogni caso di dubbio, buttate tutto senza esitazione e senza rimpianti: non mancherà occasione per preparare altre conserve. ▣
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Riso Anno Mille, nuova linea di riso naturale del Viaggiator Goloso In Provincia di Pavia, a 15 chilometri dal Duomo di Milano, esiste un comprensorio territoriale rurale di 1400 ettari, La Cassinazza, ove sembra di essere tornati a vivere nell’atmosfera elegiaca di un mondo medievale. di Giovanna Turchi Vismara foto Comprensorio La Cassinazza
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u un territorio lasciato in stato di abbandono, un gruppo di imprenditori che va sotto il nome de Il Viaggiator Goloso ha attivato una notevole opera di bonifica che ha portato alla rigenerazione della biodiversità dell’anno Mille. Vent’anni di accurata gestione agricola accompagnata da una rete di canali d’irrigazione hanno ripristinato la sintonia tra produzione agricola ed
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elementi naturali, migliorando anche la qualità del paesaggio, la biodiversità e la sostenibilità ambientale della produzione. Ne è nato un ambiente fatto di notevole serenità e di sapore antico, ricco di aree umide con prati e boschi, arricchito da 110 km di siepi e filari campestri ove i prodotti della terra, la fauna e la flora convivono nel più perfetto equilibrio. Aironi, cicogne, libellule assieme a tutti gli altri esseri viventi contribuiscono
a riprodurre quell’equilibrio ecologico autentico delle origini. Tale miglioramento ambientale ha favorito un costante incremento della biodiversità naturale non solo degli insetti utili e degli impollinatori ma anche di tanti altri esseri viventi. Ciò ha permesso anche la possibilità di eliminare completamente l’utilizzo di insetticidi durante la coltivazione. In quest’oasi naturale, prodotto nel pieno rispetto
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della natura, è nato Anno Mille, la nuova linea di riso naturale, dalle caratteristiche uniche, firmata Il Viaggiator Goloso. La linea si compone di tre prodotti: Carnaroli, Arborio, Rosa Marchetti. Il riso Carnaroli, definito dagli esperti il Principe, ovvero il riso per eccellenza, è stato creato negli anni Quaranta a Paullo dall’agronomo Devecchi, incrociando le varietà Leucino e Vialone nano. Ne è nato un riso di altissima qualità perché contiene più amido rispetto alle altre qualità, è più sodo e ha un chicco più lungo. Inoltre è ottima la tenuta di cottura. A G RO ALI M E N T ARE N AZI ONAL E
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Il Riso Carnaroli Anno Mille è autentico e puro perché il seme non è contaminato da varietà minori che pure sono ammesse per legge. Il Riso Arborio Anno Mille,
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creato nel Vercellese dall’agronomo Domenico Marchetti negli anni Quaranta, è caratterizzato da chicchi grandi e dalla straordinaria capacità di
assorbire acqua. E’ un ottimo alleato in cucina. Il Riso Rosa Marchetti Anno Mille è legato a un’origine particolarmente misteriosa. Domenico Marchetti, lo
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stesso creatore dell’Arborio, negli anni Sessanta scovò casualmente nella sua risaia, deputata alla ricerca, delle spighe insolite e decise di isolarle e coltivarle. Ne uscì una nuova varietà che dopo
una decina d’anni propose al mercato col nome della moglie, Rosa. Il chicco di tale varietà è di pezzatura media, semifino e trasparente da crudo; da cotto invece diventa grigio perla e raddoppia il
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suo volume. E’ adatto per la preparazione di minestre e dessert particolarmente invitanti. ▣ Per info: www.ilviaggiatorgoloso.it
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Una carne dimenticata e ora di nuovo regina delle nostre tavole Da mezzo di comunicazione a potente afrodisiaco: la lunga storia del piccione dall’antichità ai giorni nostri. di Settimia Ricci
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È
stato nel corso di una puntata di Masterchef che la carne di piccione, mai del tutto scomparsa dalle nostre mense, ma divenuta molto rara e dimenticata dai più, è tornata prepotentemente alla ribalta scatenando un’accesa polemica. Questi, in sintesi, i fatti: Carlo Cracco, all’unanimità ritenuto uno dei più grandi chef italiani, ha preparato in diretta un piatto a base del pregiato volatile e immediatamente è partita nei suoi confronti una denuncia penale da parte dell’Aidaa, Associazione italiana difesa animali e ambiente, secondo la quale il consumo di carne di piccione non è legale. Nella preparazione di Cracco sarebbe quindi ravvisabile la violazione della legge nazionale di tutela della fauna selvatica e della direttiva europea 147/2009. Ma essendo il piccione cucinato da Cracco un animale d’allevamento e non un animale selvatico, nella sua condotta non è ravvisabile in realtà nulla di illegale. La diatriba però, ben lungi dal finire, è proseguita in un’altra direzione scatenando le rimostranze degli animalisti che, a gran voce, hanno invocato in trasmissione una maggiore presenza di preparazioni vegane. Il risultato è stato ambivalente perché, se da un lato, lo stesso Cracco,
una volta scagionato e riconosciuto “innocente”, si è affrettato a dichiarare che lui stesso, per un paio di giorni alla settimana, è vegano, dall’altro, una grossa fascia di pubblico ha riscoperto l’eccellente carne di piccione. Alla luce di tutto ciò, vale dunque la pena di ripercorrerne storia, diffusione, leggende e alterne fortune, riportando alla luce le prelibate ricette della nostra tradizione regionale.
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iffusione
Per prima cosa, può essere interessante interrogarsi sui motivi della scarsa diffusione di questa carne, apparentemente in contraddizione con le squisite ricette giunte a noi dai secoli scorsi. E possiamo subito constatare che i fattori che hanno determinato il declino e la diminuzione drastica dell’allevamento di questo pennuto sono molteplici. Fra questi possiamo annoverare
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l’abolizione del tiro al piccione che un tempo era largamente praticato come sport. Poi le modalità di allevamento, che risultano più complesse rispetto a quelle di altri piccoli volatili come ad esempio la quaglia. Non sono mancate inoltre le motivazioni igieniche perché, come è risaputo, se da un lato, il volo dei colombi rende più romantica sia piazza Duomo a Milano sia piazza San Marco a Venezia, dall’altro lato, sotto il profilo igienico, la presenza di questi animali nelle nostre città non rappresenta il massimo. Perciò, a poco a poco, gli allevamenti di piccioni destinati a finire sulle nostre tavole sono diminuiti fin quasi a scomparire e solo in tre regioni d’Italia si è continuato a mangiare questi volatili: Toscana, Marche e Umbria.
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roprietà e caratteristiche
La carne del colombo domestico o piccione è considerata molto pregiata,
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vitamine del gruppo B. Inoltre, non sono note interazioni tra il consumo di carne di piccione e l’assunzione di farmaci o altre sostanze e questo è un dettaglio di fondamentale importanza. Come tutte le altre carni, anche quella di piccione, sia selvatico o domestico, risulta tanto più prelibata quanto più l’esemplare è giovane: l’ideale per essere portato in tavola è l’animale di 3-6 mesi, appena arrivato al completo sviluppo. Infine, poiché la carne del colombo non è magrissima, può risultare di non semplice digestione ed è quindi consigliato un consumo limitato a tutti coloro che sono a dieta e anche a chi ha problemi all’apparato digerente. Un consumo limitato di questa carne è inoltre raccomandato anche a chi registra qualche problema a carico del sistema cardiovascolare.
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come pure quella del colombo selvatico che però si distingue per il sapore e l’odore più intenso. Sotto il profilo nutrizionale, è opportuno ricordare che nella carne cruda di piccione,
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oltre ad acqua, proteine e lipidi, si trovano anche calcio, ferro, magnesio, fosforo, potassio, nonché sodio e zinco e tantissime vitamine, dalla vitamina A alla vitamina C a tutte le
torie, leggende e curiosità
Nell’antichità e fino a tutto il Medioevo, la carne di piccione era elencata fra i più efficaci e potenti afrodisiaci. Lo stesso Machiavelli ne raccomandava il consumo a tutti quei signori che, in età matura, si accingevano ad avere rapporti amorosi. Il Pisanelli invece, noto medico del Cinquecento, affermava che l’abitudine dei piccioni domestici di baciarsi
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prima del coito rendeva le loro carni capaci di sanare la frigidità. Secondo altri, infine, gli amanti dovevano consumarne perlomeno uno a testa dopo ogni incontro amoroso, al fine evidente di rifocillarsi! Altri ancora ipotizzavano che le femmine di piccione avessero una tale bramosia amorosa da accoppiarsi fra loro in mancanza di maschi, e di conseguenza mangiarne le carni garantiva lo stesso “appetito” sessuale. Questa fama, inutile dirlo, lo ha reso nel corso dei secoli uno dei volatili più utilizzati nella cucina tradizionale italiana e le numerose ricette regionali ne sono la dimostrazione tangibile. Sappiamo inoltre che era ampiamente allevato nel Medioevo, epoca in cui ogni castello aveva le proprie colombaie, al fine di assicurare una scorta sempre disponibile di carne, non solo prelibata, ma ritenuta così preziosa da costituire merce di scambio, se non addirittura un vero e proprio mezzo di pagamento.
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on solo cibo
Il piccione è un animale appartenente a una razza non migratrice, dotata di grande capacità di orientamento che le consente di ritrovare sempre
la sua colombaia e questo le ha permesso di essere addomesticata. Le sue innate qualità sono state costantemente migliorate da una forte selezione messa in atto dagli allevatori. Le sue peculiari caratteristiche sono ancora oggi oggetto di studio ad opera di ricercatori universitari. Le capacità di volo sono a dir poco eccezionali: in condizioni meteorologiche favorevoli possono percorrere anche 800 km ad una media di 70 km orari e poi fare ritorno
alla colombaia di origine alla quale restano legati tutta la vita. Per questo motivo, per secoli, prima dell’avvento del telegrafo, questi animali erano molto utilizzati per inviare comunicazioni e messaggi, sia nell’ambito della vita quotidiana sia in caso di spionaggio. Tutto questo spiega perché nell’antichità venivano costantemente utilizzati per trasportare messaggi in assenza di tecnologie
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alternative e, viceversa, perché la loro importanza è diminuita fino a scomparire con l’avvento delle moderne tecniche di comunicazione.
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e ricette
Nel Centro Italia il piccione è da sempre un piatto di tradizione unanimamente apprezzato, dalla ormai leggendaria versione toscana in “arrosto morto” fino a quella ripiena tipica dell’Umbria. Ma per chi non è avvezzo a cucinare questa carne è opportuno ricordare alcuni punti fermi. Primo, mai comprarlo al supermercato perché probabilmente allevato con mangimi che possono alterare il sapore della carne. Secondo, mai frollarlo come la selvaggina, basta tenerlo in frigo, sventrato e spiumato, un giorno o al massimo due. Terzo, cucinarlo sempre con la sua pelle che ha un ottimo sapore oppure avvolto in lardo o pancetta che creano un buon fondo di cottura. Quarto, cucinarlo con olio d’oliva solo quando lo richiedono le ricette regionali, altrimenti usare il burro chiarificato aromatizzato con erbe a piacere come salvia, timo, o rosmarino. Quinto, ricordare che non occorre cuocerlo a lungo come il pollo ma è ottimo anche al sangue. ▣
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Dieta mediterranea amica di ossa e muscoli nella terza età Endo 2018, strategia contro osteoporosi e fratture. a cura di Redazione Centrale
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ltre a prevenire malattie cardiache, diabete e cancro, la dieta mediterranea è un vero e proprio elisir di salute per le donne in menopausa. Sembra essere legata, infatti, anche a una maggiore massa muscolare e densità ossea, può quindi essere “un’utile strategia non medica per la prevenzione dell’osteoporosi e delle fratture”. Sono queste le conclusioni di un nuovo studio presentato all’ENDO 2018, il 100/mo incontro annuale della Endocrine Society a Chicago. Tanta frutta e verdura, cereali, olio d’oliva e semi; moderata
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assunzione di pesce; basso consumo di latticini e carni rosse; bere regolarmente, ma moderatamente, vino rosso. Questi i capisaldi della dieta più famosa al mondo e più amata dai medici. Pochi studi, tuttavia, ne hanno dimostrato gli effetti sulla composizione corporea dopo la menopausa, periodo della vita della donna in cui il calo di estrogeni accelera la perdita di massa ossea e riduce la massa muscolare, aumentando il rischio di fratture e peggiorando la qualità di vita. I ricercatori della Universidade Federal do Rio Grande do Sul in Brasile hanno reclutato 103 donne sane con un’età media di 55 anni e andate in menopausa
5,5 anni prima, in media. Tutte sono state sottoposte a esami per valutare la densità minerale ossea e la massa muscolare scheletrica. Quindi hanno anche compilato un questionario alimentare su ciò che avevano mangiato nel mese precedente. Ne è emerso che una migliore aderenza alla dieta mediterranea era significativamente associata con maggiore densità minerale ossea misurata alla colonna lombare e con una maggiore massa muscolare. Questa associazione era indipendente dall’uso di terapia ormonale o dal livello di attività fisica. “La dieta mediterranea potrebbe favorire il mantenimento della massa ossea e di quella muscolare grazie all’effetto protettivo di sostanze antiossidanti e antinfiammatorie di cui è ricca”, spiega il presidente della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia, Raffaele Antonelli Incalzi (fonte ANSA). ▣
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Dal 1946, il ristorante Pupurry propone una selezione dei migliori piatti della tradizione italiana, rivisitati in chiave contemporanea: dalla carne alla brace, da sempre eccellenza della cucina del ristorante, ai risotti e ai piatti di pesce. Una sala dall’elegante atmosfera d’antan e un giardino racchiuso tra olivi e oleandri accolgono gli ospiti, offrendo loro prodotti di qualità, un’ospitalità attenta e un’attitudine particolarmente benevola verso gli amici a quattro zampe. Ristorante Pupurry Via Gian Battista Bertini, 25 - Milano - Tel. 02 331 1829 www.ristorantepupurry.com
Dalla Ue 30 milioni per frutta e latte nelle scuole nel 2018-2019 Italia terzo Paese Ue per risorse dal bilancio comunitario. a cura di Gladys Torres Urday
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er l’anno scolastico 2018-2019 l’Italia potrà contare su circa 30 milioni di euro per il programma Ue Frutta e Latte nelle Scuole, terzo Paese Ue dopo Germania e Francia per risorse Ue. Di questi, 20,9 milioni di euro sono per la distribuzione di frutta e verdura e 8,9 milioni per latte e prodotti lattiero-caseari. Lo rende noto la Commissione
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europea, ricordando che nell’anno scolastico 2016-2017 il programma ha raggiunto quasi 30 milioni di alunni di scuole principalmente elementari dell’Ue, 12,2 milioni per frutta e verdura e 18 milioni per il latte. Gli alunni italiani hanno risposto positivamente al programma su frutta e verdura, l’unico dei due a essere realizzato nella Penisola nel 2016-2017,
con 7.135 scuole coinvolte e oltre 4mila tonnellate di prodotti distribuiti 3 o 4 volte a settimana da marzo a giugno a 1,2 milioni di bambini tra i 6 e gli 11 anni. E’ quanto si legge nel report nazionale, che ha anche raccolto le impressioni di bambini e genitori sul programma: più che buona la qualità dei prodotti, mentre i primi preferiscono la frutta porzionata, i secondi i prodotti bio (fonte ANSA). ▣
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