ASA Magazine 7 - Settembre 2018

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ASA Magazine Anno 2 – Numero 7 – Settembre 2018 – Rivista bimestrale

LA RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE STAMPA AGROALIMENTARE ITALIANA Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 – Tutti i diritti riservati – Dir. Resp. Roberto Rabachino

Il Made in Italy alimentare

Intervista con il Ministro Gian Marco Centinaio

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’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è la casa di tutti quei comunicatori che operano nel variegato mondo dell’agroalimentare e non solo. Non sindacale, libera e apolitica, ASA raggruppa tutti quei professionisti della comunicazione di settore che si riconoscono in questi fondanti valori. Formatasi nel 1992 e registrata legalmente nel 1993 con sede a Milano, è uno dei sodalizi più conosciuti e riconosciuti a livello nazionale ed internazionale. I suoi iscritti collaborano giornalmente in più di 600 testate giornalistiche nazionali e internazionali, in trasmissioni televisive, in blog e siti internet, negli uffici stampa e di promozione turistica del territorio, negli Enti di tutela del comparto agroalimentare. ASA è particolarmente sensibile a tutto il mondo del biologico con una redazione specifica dedicata all’argomento.

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ASA al servizio della corretta comunicazione

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’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è uno strumento di raccordo e di sintesi, di stimolo e di supporto, di analisi e di costruttiva critica. La nostra mission è offrire supporto e collaborazione a tutti quei giornalisti e/o operatori dell’informazione che hanno nella serietà, nella moralità, nella sensibilità, nel rispetto e della deontologia professionale, le loro principali caratteristiche. Iniziative, progetti, eventi collegati ai nostri associati troveranno il giusto spazio all’interno del nostro sito, nei nostri social, nella nostra rivista e nella nostra newsletter inviata settimanalmente a più di 30.000 iscritti. Sensibile alle tematiche legate alla professionalità degli operatori della comunicazione di settore, ASA è anche uno strumento di formazione per i propri iscritti con un programma di corsi specialistici a loro dedicati in forma gratuita.

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ASA MAGAZINE n. 7 / 2018 – Settembre 2018 – Rivista Bimestrale Registrazione Tribunale Lg. 48/1948 Direttore Responsabile N. 7 / SETTEMBRE 2018 Rivista Bimestrale

Roberto Rabachino C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 direttore.asamagazine@asa-press.com

Redazione Centrale e Editing

Enza Bettelli C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 redazione.asamagazine@asa-press.com bettelli@asa-press.com

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Lorenzo Bettelli C.so Galileo Ferraris, 138 - 10129 Torino Tel. +39 011 5096123 - Fax +39 011 5087004 redazione.asamagazine@asa-press.com

Comitato di Redazione e Controllo

Roberto Rabachino, Giorgio Colli, Patrizia Rognoni, Riccardo Lagorio e Saverio Scarpino

Hanno collaborato a questo numero

Roberto Rabachino, Alice Lupi, Paolo Alciati, Jimmy Pessina, Giovanna Turchi Vismara, Riccardo Lagorio, Carmen Guerriero, Franca dell’Arciprete Scotti, Francesco Bruzzese, Nicoletta Curradi, Enza Bettelli, Settimia Ricci, Gladys Torres, Silvana Delfuoco.

Per la fotografia

Jimmy Pessina, Riccardo Lagorio, Carmen Guerriero, Franca dell’Arciprete Scotti, Enza Bettelli, Consorzio Prosecco DOC, Archivio Friesland.


Sommario EDITORIALE Startup agri-food, il futuro è nel globale a cura di Roberto Rabachino, Presidente Nazionale ASA

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APPROFONDIMENTO Il Made in Italy agroalimentare, la parola al Ministro Gian Marco Centinaio a cura di Roberto Rabachino

La Scolca, cent’anni di vino, cent’anni di passione. Intervista a Chiara Soldati di Alice Lupi

Le vacanze intelligenti del Prosecco DOC a cura di Paolo Alciati

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BIO Arriva la tracciabilità per il riso biologico italiano a cura di Roberto Rabachino

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TURISMO NAZIONALE Mare e natura: Parco dello Zingaro e dintorni di Jimmy Pessina

Panarea, la più piccola delle Eolie ma la più ricca di piacevoli sorprese di Giovanna Turchi Vismara

La cantina del ristorante Del Cambio festeggia i suoi primi 260 anni di Paolo Alciati

A Palazzolo Acreide (ri)nasce la cucina autentica di Riccardo Lagorio

Castel San Pietro Terme, rigenerarsi tra arte, benessere e vino di Carmen Guerriero

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TURISMO INTERNAZIONALE Lubecca e Brema, viaggio alla scoperta delle Città Anseatiche di Franca dell’Arciprete Scotti

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I suggestivi monasteri della Serbia, oasi di fede e cultura di Jimmy Pessina

La Frisia olandese: tra acqua e cielo di Franca dell’Arciprete Scotti

AGROALIMENTARE NAZIONALE

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Olio extra vergine di oliva, istruzioni per l’uso di Francesco Bruzzese

Finocchiona IGP e birra artigianale, un viaggio sensoriale tra le terre di Toscana di Nicoletta Curradi

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È di nuovo tempo di porcini

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La Faraona, regina delle tavole

di Enza Bettelli

a cura di Settimia Riccii

AGROALIMENTARE INTERNAZIONALE

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Scoperto in Egitto il formaggio più antico del mondo a cura di Gladys Torres

Le acciughe del Cantabrico? Le hanno inventate gli Italiani di Silvana Delfuoco

NEWS DALL’ITALIA

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Eurochocolate compie 25 anni! a cura di Gladys Torres

NEWS DAL MONDO

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Regina Vanderlinde eletta presidente dell’OIV Organisation Internationale de la Vigne et du Vin di Roberto Rabachino


Startup agri-food, il futuro è nel globale Nel mondo sono circa 400 le startup agri-food con obiettivi di sostenibilità e 605 milioni di dollari di finanziamenti raccolti. Italia è terza a livello globale per densità di nuove imprese agri-food sostenibili. Sono tra i risultati della prima ricerca dell’Osservatorio Food Sustainability della School of Management del Politecnico di Milano presentata al convegno ‘Innovazione, Collaborazione e Circolarità: i tre ingredienti per la sostenibilità del sistema agroalimentare’.

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ono esattamente 399 le startup italiane e internazionali dell’agri-food nate tra 31/12/2011 e il 31/12/2017 che perseguono obiettivi di sostenibilità sociale, ambientale e economica, circa il 20% delle 2.026 startup mondiali censite come attive nell’agroalimentare, con modelli di business che propongono soprattutto soluzioni innovative per un uso più efficiente delle risorse, l’introduzione della ‘filiera corta’ o l’utilizzo di materiali naturali nella produzione. L’Italia è uno dei Paesi con maggior densità di startup agri-food sostenibili, preceduta solo da Israele e Spagna, ma presenta un mercato ancora in lenta evoluzione: con una media di 300mila dollari di finanziamento (la media globale è di 2,4 milioni di dollari per startup) le nuove imprese fanno ancora fatica a raggiungere stabilità economica e scalabilità del business. Intanto, si distinguono casi di successo di imprese del settore che hanno esplorato soluzioni circolari per ridurre lo spreco di cibo, rendendo più efficienti i processi e rafforzando la responsabilità sociale d’impresa, ma si fa ancora fatica a passare da azioni ‘isolate’ ad una prospettiva di filiera che attivi collaborazioni dal grande potenziale, tra imprese, startup e anche soggetti di altri settori (no profit, imprese sociali, settore pubblico). “Nel settore agroalimentare, innovazione e collaborazione sono gli ingredienti chiave


per sistemi più sostenibili, circolari e inclusivi, in grado di ridurre lo spreco alimentare e, più in generale, puntare alla ‘trasformazione sostenibile’ delle imprese”, sottolinea Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e Responsabile scientifico dell’Osservatorio. I principali ambiti di sostenibilità su cui si stanno concentrando le 399 startup agri-food ‘sostenibili’ censite nel mondo riguardano aspetti sia sociali che ambientali. Gli obiettivi più perseguiti, infatti, sono quelli di combattere l’insicurezza alimentare, passare a sistemi di produzione e consumo responsabili, investire in infrastrutture più efficienti e promuovere processi industriali più sostenibili e inclusivi. In particolare, le innovazioni sono finalizzate a promuovere l’agricoltura sostenibile (incrementando i redditi dei produttori su piccola scala e fornendo loro accesso alle risorse produttive, aumentando la produttività e la capacità di resilienza dei raccolti ai cambiamenti climatici), ridurre le eccedenze e gli sprechi alimentari lungo la filiera e ottimizzare l’utilizzo delle risorse e adottare tecnologie ‘pulite’ e processi industriali rispettosi dell’ambiente. Se si guarda alla distribuzione delle startup agri-food a livello mondiale, gli Stati Uniti prevalgono di gran lunga sugli altri Paesi, contando 790 startup, pari al 39% del campione totale di 2.026 startup. Ma focalizzando l’attenzione sui Paesi maggiormente attivi sui temi di sostenibilità agroalimentare, il quadro cambia. Nel mondo, il Paese con la maggiore diffusione di startup orientate alla sostenibilità è Israele (28 startup agri-food, di cui il 64% sostenibili), che si distingue per modelli di business basati su innovazioni tecnologico-ambientali, seguito da Spagna (29 startup, di cui il 38% sostenibili) e Italia (38 startup agri-food, di cui il 37% sostenibili), con startup più attente a coniugare dimensione ambientale e sociale. Tuttavia, guardando ai finanziamenti raccolti, in Italia le startup non incontrano ancora un riconoscimento solido da parte degli investitori. Il 62% delle startup a livello globale ha ricevuto almeno un finanziamento, raccogliendo complessivamente 605 milioni di dollari nel periodo analizzato, con una media di 2,4 milioni di dollari ciascuna, quelle italiane 1,9 milioni di dollari, in media 0,3 milioni ciascuna, ben lontano dai 296 milioni di dollari, in media 3,4 milioni ciascuna, delle statunitensi. Lungo la filiera, le startup agri-food sostenibili sono principalmente fornitori di servizi e di tecnologia. Nella maggioranza dei casi (47%) infatti si configurano come Service Provider, ad esempio fornitori di software e app per il retail o di servizi di consulenza su tematiche di sostenibilità. Oppure sono Technology Supplier (16%), come produttori di tecnologie per l’agricoltura di precisione, o si occupano di Food Processing (13%) per cibo locale, salutare o a minor impatto ambientale. a cura di Roberto Rabachino – dati e testo AdnKronos


MADE IN ITALY AGROALIMENTARE,

la parola al Ministro Gian Marco Centinaio Il Ministro delle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo traccia le linee programmatiche del suo Dicastero. a cura di Roberto Rabachino con Ufficio Stampa Mipaaft

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’export rappresenta una voce fondamentale: nel 2017 si sono registrati 41 miliardi di euro

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di vendite all’estero. A livello occupazionale parliamo di oltre 800mila lavoratori solo nel settore primario. In agricoltura si contano oltre 70mila aziende condotte da

under 40. Per promuovere e valorizzare il Made in Italy, si intende lavorare su un approccio sistemico, che enfatizzi i punti di forza dell’agroalimentare italiano:

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ricchezza di biodiversità, tradizione enogastronomica, patrimonio paesaggistico e culturale, capacità di innovare e di produrre cibi e vini unici al mondo. Questa è l’Italia. Questa eccellenza nasce dal cuore agricolo del nostro Paese e questo cuore noi vogliamo proteggere fino in fondo. Per questo l’azione si concentrerà su alcune linee strategiche da mettere in campo fin da subito per tutelare meglio il reddito di agricoltori, allevatori e pescatori italiani.

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avorare sul marketing territoriale come chiave di sviluppo sostenibile Abbiamo alcune delle migliori produzioni al mondo, rispettiamo disciplinari rigorosi, i nostri territori, lo sapete come me, sono tra i più curati in Europa, ma tutto questo da solo non basta. Le nostre aziende hanno bisogno di un Ministero che sappia accompagnare quelle azioni “orizzontali” dove c’è bisogno di fare sistema. Parlo di marketing territoriale. Intendo scelte che possano togliere il freno alla crescita dei nostri territori dal punto di vista produttivo, occupazionale, turistico. Queste tre chiavi devono correre insieme. Presentare al mondo il patrimonio nazionale attraverso

l’abbinamento di agricoltura e turismo è strategico per dare ai giovani una speranza in questo settore. I margini economici sulla produzione, infatti, sono sempre più ridotti, anche a causa della competizione internazionale. Serve quindi puntare sulla multifunzionalità, su più elementi di diversificazione delle fonti integrative di reddito delle aziende agricole. Per potenziare questo aspetto abbiamo voluto con forza legare le competenze del Ministero delle politiche agricole a quelle del Turismo. Concretamente siamo già al lavoro anche per lo sviluppo degli strumenti di progettazione territoriale,

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come i distretti del cibo. Un decreto li renderà operativi e creerà anche il primo Registro nazionale dei Distretti del cibo riconosciuti dalle Regioni. Puntiamo a dare sostegno a chi aggrega e costruisce progetti di investimento che vedano uniti Istituzioni locali e soggetti privati nel rilancio delle nostre aree agricole.

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afforzare le politiche di filiera e l’integrazione tra agricoltura e trasformazione Dire “prodotto in Italia” non basta. Per noi è prioritario riuscire a garantire rapporti

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migliori tra produttori agricoli e trasformatori, favorendo un aumento dell’utilizzo di materie prime nazionali da parte di questi ultimi. In quest’ottica vogliamo lavorare con strumenti che possano agevolare rapporti più forti, come i contratti di filiera e il sostegno ad alcune aree produttive che attraversano fasi difficili dal latte, al riso, alla carne, fino al pomodoro, agli agrumi e al grano. Non tralasceremo le filiere minori e un settore dove l’Italia svolge un ruolo da protagonista come il florovivaismo. Lavoreremo con il coinvolgimento delle Regioni e con la convocazione di tavoli di filiera che affrontino le questioni non davanti alle emergenze, ma con

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un approccio nuovo di programmazione. Vogliamo impostare, ad esempio, il lavoro per la prossima legge di bilancio già nelle prossime settimane con riunioni ad hoc con il mondo produttivo. Si prosegue anche nell’impegno relativo al riconoscimento delle Organizzazioni interprofessionali e sulle organizzazioni di produttori, strumenti necessari per favorire l’aggregazione dei produttori agricoli. Piccolo è bello solo se si riesce poi ad essere uniti nella commercializzazione. Su questo c’è un grandissimo lavoro da fare, soprattutto nel Mezzogiorno, troppo spesso penalizzato proprio dall’eccessiva frammentazione dell’offerta.

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arantire un percorso trasparente di formazione dei prezzi e di tracciabilità dei prodotti C’è un nodo sempre più evidente legato alla remunerazione del lavoro dei produttori agricoli. Sappiamo tutti che il prezzo pagato all’agricoltore spesso è dieci o venti volte più basso di quello pagato dai consumatori. Su questo intendiamo lavorare per accorciare la filiera, far rispettare le norme contro le pratiche commerciali sleali, ridurre i tempi dei pagamenti. Si annida qui un forte rischio anche dal punto di vista dell’occupazione,

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per il tentativo di chi, volendo contenere i costi, finisce per scaricare sui lavoratori la mancanza di marginalità. Sotto questo profilo il Ministero ha avviato una complessa attività sulla formazione trasparente di prezzi indicativi in alcuni settori attraverso lo strumento delle Commissioni uniche nazionali (CUN). In particolare per il settore suinicolo e cunicolo sono state già rese operative le Cun, mentre sono in corso i lavori su grano duro e uova. Allo stesso modo dobbiamo chiamare in partita il consumatore attraverso etichette trasparenti e un lavoro serio sulla tracciabilità. Come scritto nel Programma di governo, è prioritario, a tutela del Made in Italy, adottare un sistema

di etichettatura corretto e trasparente che garantisca una migliore tutela dei consumatori. Il regolamento europeo n. 775 del 2018, approvato con il precedente Governo, non ci aiuta. L’indicazione dell’origine della materia prima in etichetta, anche quando quella materia prima è un “ingrediente primario”, è relegata alla mera provenienza UE: troppo poco per rassicurare il consumatore e garantire efficienti controlli. Per questo faremo ogni sforzo, anche a livello nazionale, per correggere questa impostazione. Non condividiamo l’idea dell’etichetta nutrizionale cosiddetta “a semaforo”, che riteniamo potenzialmente ingannevole e fuorviante. Proporremo invece un

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sistema identificativo a icona “a batteria”, che consenta di visualizzare le componenti nutrizionali quali calorie, grassi, zuccheri e sale.

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ifendere la ricchezza e la varietà delle produzioni italiane a denominazione d’origine dalla concorrenza sleale estera e dalla contraffazione Sono circa 900 le indicazioni geografiche protette italiane relative a cibi e vini. Nessun altro Paese al mondo può vantare un patrimonio simile. Si tratta di un valore non solo commerciale, ma identitario, culturale. Dobbiamo fare i conti anche con la necessità di ampliare la capacità dei

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prodotti Dop e Igp di guardare al mercato, di conquistare nuovi spazi, tenuto conto che nel cibo i primi 10 prodotti rappresentano ancora oltre l’80% del fatturato complessivo. Per conseguire questo obiettivo è necessario investire decisamente nella promozione in Italia e all’estero. A livello nazionale si intende garantire uno spazio adeguato a questi prodotti nelle principali fiere di settore e una visibilità importante con campagne di comunicazione e promozione, anche attraverso rapporti consolidati con la Rai. Sul fronte estero non c’è dubbio che si debba migliorare nel

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vendere l’Italia in tutte le sue sfaccettature. Fino a oggi siamo andati fuori troppo divisi, lasciando ad altri Paesi limitrofi e ad altri competitor spazi enormi.

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ambientale

otenziare il settore del biologico e della sostenibilità

La sostenibilità ambientale è ormai una premessa necessaria in qualsiasi settore. Nel comparto primario a maggior ragione serve un’attenzione particolare al tema

ambientale, proprio perché parliamo dei prodotti che arrivano sulle nostre tavole. Non sorprendono quindi i dati di crescita del settore biologico nazionale: 1,8 milioni di ettari coltivati, 80mila operatori coinvolti e una crescita dei consumi del 20%. Numeri strepitosi, ma che si possono ancora consolidare. Penso alla necessità di rafforzare il Piano strategico nazionale sul biologico, all’avvio delle mense biologiche certificate nelle nostre scuole, a un’attenta attuazione delle nuove regole europee che non deve abbassare la guardia contro frodi

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soprattutto con produzione straniera che arriva da noi e diventa italiana.

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untare sulle agroenergie come fonte di integrazione al reddito delle imprese agricole La produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, comprese quelle agricole derivanti dalla valorizzazione

delle biomasse e del biogas (le cosiddette agroenergie), è incentivata dal 2008 con delle tariffe ad hoc, differenziate per tipologia e corrisposte dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE). Il livello e le modalità di incentivo sono stati stabiliti da una serie di normative che si sono susseguite negli anni, fino all’ultimo decreto emanato il 23 giugno 2016 e il cui ambito di validità è terminato il 31 dicembre 2017. È necessario ora pianificare l’intervento

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fino al 2020 di concerto con il Ministero dello Sviluppo economico. A seguito delle interlocuzioni che gli Uffici del Ministero hanno avuto nei mesi scorsi con le Organizzazioni agricole si ritiene necessario proseguire secondo una linea di sviluppo delle agro-energie, sfruttando il potenziale di valorizzazione degli scarti e residui delle produzioni agricole e della gestione forestale sostenibile. ▣

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La Scolca, cent’anni di vino, cent’anni di passione. Intervista a Chiara Soldati Era il 1919 quando nelle terre del Gavi nasceva la Tenuta La Scolca. Una storia di vino, di famiglia, di lungimiranza e coraggio che di generazione in generazione si sono succedute. Oggi, alla guida dell’azienda c’è Chiara Soldati, che con abilità porta avanti l’azienda mantenendosi fortemente ancorata ad un assetto assiologico e al contempo aperta al cambiamento; è una donna innamorata del suo lavoro che le regala soddisfazioni, sacrifici ma anche sorprese e sogni. Attenta osservatrice della società, che cerca di seguire anche attraverso la comprensione degli stili di vita e della cultura che si genera e muta nel tempo. di Alice Lupi

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uongiorno Chiara, la vostra è una storia aziendale lunga un secolo, molti imprenditori e amanti del vino vi guardano con stima e ammirazione. A ben pensare già il nome della vostra azienda La Scolca, che vuol dire “guardar

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lontano”, e il vostro cognome Soldati, che rimanda alla tenacità, erano già previsivi. Ogni generazione ha mantenuto e rispettato la tradizione e ogni generazione ha innovato. Il segreto, penso, sia stato proprio quello di rimanere fedeli a sé stessi, a quello che

era l’idea originaria del fondatore cioè quella di creare un grande vino bianco anche per l’invecchiamento e, in quest’ottica, essere innovatori. Mio padre (Giorgio Soldati ndr) ha introdotto, negli anni Settanta, la spumantizzazione del Cortese 100%,[…]. Io, venticinque anni fa, ho continuato su questa linea

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Un’azienda storica che si approccia alla realtà attuale con responsabilità e impegno. Penso al vostro sforzo per preservare l’ambiente. E’ difficile evolversi e stare al passo con i tempi?

credendo nell’autoctono, credendo in quello che era l’origine del prodotto e credendo in quella che era una nuova visione di commercializzazione, di approccio al mercato, di comunicazione. Oggi, effettivamente, alla soglia dei cento anni - che noi festeggeremo nel 2019 siamo un’azienda con un forte passato ma con uno sguardo al futuro importante

rappresentato da progetti concreti: una cantina nuova, quindi una linea di produzione e di imbottigliamento nuovi, un nuovo concetto di accoglienza del turista e dell’appassionato, quindi un’accoglienza che presupponga la trasmissione della cultura del vino… questo cognome Soldati ricorda anche un cugino importante (lo scrittore Mario Soldati ndr).

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Più che difficile è impegnativo. Presuppone un investimento importante. Sottolineo sempre che “il valore di La Scolca è il valore di un’azienda che produce” e questo vuol dire che il valore legato al vino è un valore profondo come la radice della vite perché noi compriamo gli ettari di vite ma compriamo anche i boschi, proprio perché aderiamo ad una filosofia che è biodinamica. Il bosco a fianco del vigneto serve per mantenere l’equilibrio ecologico, ambientale, di fauna e soprattutto rispetta ed è un contributo alla sanità del vigneto che ci permette a questo punto di lavorarlo senza additivi chimici, quindi senza diserbanti, senza prodotti chimici di protezione del vigneto se non i prodotti naturali come lo zolfo e il verderame. Quindi questa è una sensibilità del territorio che fa pensare la terra come qualcosa da tramandare non come qualcosa da sfruttare come business. A proposito di sensibilità e di sanità, lei ha un ruolo attivo nel profondere

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il discorso del vino, dell’alimentazione per preservare la salute. Questo è qualcosa che sento profondamente, perché il vino ha un concetto culturale che ha radici molto lontane e deve rimanere tale. Proprio per questo, quando io parlo di vino parlo ovviamente del mio brand, ma parlo di qualcosa che ha una radice profonda e ha un ruolo sociale importante […]. Il vino è un alimento, se realizzato e ottenuto nel rispetto di quelli che sono i canoni di salute rientra in quel qualcosa da non demonizzare. Ci sono degli studi scientifici comprovati che attestano come il consumo moderato del vino sia un coadiuvante importante anche a livello di salute per la circolazione, per la prevenzione di malattie cardiocircolatorie… sicuramente è un valore anche questo da sentire e da tramandare nel modo giusto.

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Lei ha dichiarato che tra i suoi obiettivi preposti c’era quello di valorizzare la Docg Gavi, che ha un valore non solo imprenditoriale e territoriale ma anche affettivo e familiare. Mio papà ha introdotto e voluto la Doc nel 1972 e ha voluto la Docg nel 1998, io mi sento di aver raccolto questo suo testimone. Mio padre ha fatto tantissimo per il territorio, la mia famiglia ha fatto molto, io da venticinque anni, mi è stato spesso detto, sono l’ambasciatore, l’alfiere in tanti mercati nuovi che io vado a scoprire. Io vado a parlare del brand La Scolca ma, il brand La Scolca, è connaturato e imprescindibile dal territorio. Questi cento anni di La Scolca sono anche i cento anni che rappresentano un’intuizione felice di questo nostro antenato fondatore che, anziché piantare

dell’Arneis, ha piantato Cortese e ha deciso di chiamarlo con il nome del territorio (Gavi ndr) […]. In epoca giovanile sono stata per due mandati presidente del Movimento Turismo del Vino del Piemonte, capisco quella che è la valenza culturale del territorio che non si può prescindere da quello che è il prodotto, perché l’unicità di quest’autoctono è proprio l’esposizione dei vigneti, la coltivazione, il metodo […]. Il nostro vino, il nostro lavoro ci mantengono legati fortemente alla terra, alla realtà delle cose. “La Scolca My dream” è un’espressione da lei coniata per riassumere l’anima della terra e del vino nella vita quotidiana. Ho scritto e coniato questo concetto di “My dream” tra il 2007-2008 nel momento in cui, a livello mondiale, c’era stato quel momento

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di crisi economica forte, destabilizzante. Ho voluto trasmettere questo concetto semplice che “è nelle piccole cose che troviamo il sogno”. E’ nelle piccole cose che noi troviamo il dettaglio diverso che ci fa sognare e ci fa sorridere anche alla fine di una giornata difficile […] un calice di vino è un piacere e un sogno abbastanza alla portata di mano, basta capirlo e lì torniamo al discorso della cultura. […] Per noi questo centenario non è tanto un traguardo ma un risultato dal quale ripartire.

Lei cita spesso parole come “emozioni” e “passioni” nel raccontare il vino nei suoi vari aspetti. Sono, secondo lei, le emozioni e le passioni la realtà seconda del vino? Sì, sicuramente sì. Io mi ricordo da giovane quando ho espresso a mio papà il

Per questi cento anni di La Scolca ci sono eventi in progetto nel 2019? Certo, saranno degli eventi di condivisione di questa celebrazione con tutti quei soggetti che negli anni sono stati grandi ambasciatori e cioè i nostri partner commerciali, i giornalisti, i ristoratori, i sommelier… quindi un modo per ringraziare, non tanto per festeggiarci ma per festeggiare con chi ha reso possibile questo risultato.

desiderio di continuare questo lavoro - mi viene difficile chiamarlo tale proprio perché mio padre mi aveva fatto un monito quasi cercando di disincentivarmi, spiegandomi la difficoltà, la fatica di questo lavoro-sacrificio - mi aveva spiegato come questo sia possibile solo se dietro c’è una grossa passione, una

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grossa emozione. Ecco, dopo venticinque anni posso ammettere che questi due elementi ci sono, sono vivi. Ogni anno quando si assaggia l’annata nuova in vendemmia la sorpresa è, nonostante siano passati tanti anni, sempre uguale o addirittura superiore, la soddisfazione, la grande emozione di vedere qualcosa che rinasce, che cresce e che ogni anno si rianima di qualcosa di nuovo. A me piace molto, come citazione, il Panta rei di Eraclito «Tutto scorre ma non è mai uguale» questo è perfettamente pertinente al vino perché ogni vendemmia sembra uguale alla precedente ma non è uguale […]. Questo è il grande segreto: nel momento in cui tu assaggi un’annata nuova è una sorpresa […] è come seguire un autore di romanzi, seguire un direttore d’orchestra, puoi andare a vedere due volte La Traviata, la musica è la stessa, ma non sarà mai due volte uguale. Questa è la poesia di quello che noi facciamo ed è quello che anima bene questo mondo. ▣

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Le vacanze intelligenti

del Prosecco DOC Dopo un’estate trascorsa all’insegna degli eventi culturali, sportivi, enogastronomici, per il Prosecco inizia la stagione del raccolto. A cura di Paolo Alciati – foto Consorzio Prosecco DOC

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l mondo del Prosecco è pronto ad affrontare il momento più importante dell’anno, il periodo della vendemmia. Quali sono i pronostici? Diciamo che sono in linea con le previsioni del presidente Zanette, che a fine luglio rilasciava questa dichiarazione: “La campagna viticola 2018 inizialmente

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si è contraddistinta per le temperature, soprattutto le massime, al di sotto della media, con conseguenti ritardi nel germogliamento rispetto alle ultime 4 campagne viticole. Da fine marzo a giugno la temperatura media ha registrato valori più elevati e una adeguata presenza idrica nel suolo. Elementi che hanno favorito un rapido

sviluppo vegetativo della vite con fioritura anticipata rispetto alle precedenti annate. L’avvio della vendemmia è ipotizzato per la prima settimana di settembre, salvo cambiamenti delle condizioni climatiche che si dovessero verificare nel periodo di maturazione. Il carico produttivo risulta coerente con le rese definite

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dal disciplinare ed è ben nutrito da un vigoroso apparato fogliare. Anche la situazione fitosanitaria del vigneto della DOC Prosecco è in condizioni ottimali, infatti si registra una limitata diffusione delle principali fitopatie della vite. Al permanere delle attuali condizioni climatiche favorevoli, si valuta positivamente, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, la produzione di uva dei vigneti idonei a Prosecco DOC, compresa quella rappresentata dai superi di campagna previsti dall’articolo 4 comma 6 del disciplinare”. Facendo gli scongiuri che il clima non crei problemi proprio all’ultimo, si profila quindi un’ottima annata per

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il Prosecco. Nell’attesa della vendemmia, il Consorzio della DOC Prosecco non è stato con le mani in mano e ha trascorso la lunga estate 2018 da protagonista in tanti eventi culturali e promozionali sia in Italia che all’estero. A partire da Treviso, dove il 2 e 3 giugno ha avuto luogo la prima edizione

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veneta di “Cibo a Regola d’Arte”, evento testimoniato da prestigiose firme del Corriere della Sera e del gruppo RCS. Cibo a Regola d’Arte ha portato in scena il meglio della tradizione italiana, e veneta in particolare, legando sul fil rouge dell’enogastronomia tematiche culturali e

artistiche efficaci per una valorizzazione del territorio ospitante e della stessa DOC Prosecco, qui nelle vesti di main sponsor. Azioni come questa hanno anche un forte connotato turistico. Non a caso l’evento ha potuto contare anche sul patrocinio della Regione del Veneto, assessorato al Turismo e

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Promozione, e ha registrato un ragguardevole successo di pubblico con arrivi anche da fuori regione che hanno garantito il sold-out a tutte le iniziative in programma.

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a tutela

Nel corso dell’estate si è intensificata l’attività di vigilanza del Consorzio di tutela del Prosecco DOC che, con l’arrivo della bella stagione, si è focalizzata sul litorale veneto e friulano. “La nostra attività - spiega il presidente Stefano Zanette - nell’ultimo periodo si è intensificata principalmente nella fase della somministrazione finale, dove abbiamo riscontrato anche nelle nove province della Denominazione svariate condotte lesive nei

confronti dei consumatori. Con i controlli estivi, che hanno interessato le principali località turistiche dell’alto Adriatico, abbiamo rilevato che ben il 60% degli accertamenti effettuati presenta profili di irregolarità. “Quest’anno - continua Zanette - i nostri agenti vigilatori, di concerto con i colleghi del Conegliano Valdobbiadene Prosecco, del Prosciutto di San Daniele e dell’ICQRF nord est, hanno voluto indirizzare i controlli - oltre che sulle più note località balneari - anche su alcune feste popolari che, con il pretesto della promozione dell’agroalimentare locale, traggono in errore il consumatore circa la reale origine del prodotto”. E sempre in tema di tutela, il Consorzio presieduto da Zanette ha festeggiato

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l’accordo di libero scambio siglato con il Giappone, Paese che ha riconosciuto il Prosecco DOC come prodotto meritevole di tutela. L’accordo, che prende il nome di Jefta (Japon UE Free Trade Agreement) firmato dai vertici della Comunità Europea e dal premier giapponese Shinzo Abe, prevede una drastica riduzione dei dazi per diversi beni di consumo, compreso il vino, finora fortemente penalizzato specialmente nella versione sparkling (+31%).

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e promozioni

Insieme a Stati Uniti, Regno Unito e Cina, il Giappone è tra i Paesi obiettivo cui è stata destinata la più intensa

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attività di promozione estiva. Basti citare il “Mese del Prosecco”, che nello scorso agosto ha visto coinvolti oltre 100 rinomati ristoranti di Tokyo e dintorni, integrando il Roadshow d’inizio estate, conclusosi con viva soddisfazione di tutti i partecipanti e delle istituzioni come ICE Agenzia Tokyo, Ambasciata Italiana a Tokyo e Università Asia, che hanno collaborato con il Consorzio della DOC Prosecco nelle tante attività di promozione organizzate in diverse aree di Tokyo. “Contribuire a rafforzare la presenza del Prosecco in Giappone è un compito che il Consorzio intende portare avanti”, conclude il Presidente Stefano Zanette. “Come ha ricordato l’Ambasciatore italiano Giorgio Starace, a fine 2019 il Giappone ospiterà la Coppa dl Mondo di Rugby e nel 2020 l’attesissimo appuntamento rappresentato

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dalle Olimpiadi di Tokio del quale tra l’altro siamo partner: sono eventi ricchi di opportunità per il Sistema Italia, che potrà presentare le sue eccellenze, dando un ulteriore impulso positivo alla quota di esportazioni del Made in Italy in Giappone”.

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li eventi culturali

Di festival in festival. “Da alcuni anni il Prosecco Doc presenzia con successo al Festival del Cinema di Venezia, in corso di svolgimento proprio in questi giorni - ricorda Zanette - ma sosteniamo anche il festival di documentari ‘Sole Luna’ fin dal suo esordio a Treviso cinque anni fa e il nuovo nato, l’Edera Film Festival, destinato alle opere di giovani registi internazionali under 35. Collaboriamo inoltre con Biennale Architettura,

sempre a Venezia dove abbiamo stretto un accordo di collaborazione anche con VELA, società partecipata al cento percento dal Comune per il quale organizza i grandi eventi della città, come la storica festa del Redentore che cade nella seconda settimana di luglio e la celebre Regata Storica che ha avuto luogo il 2 settembre”. L’estate 2018 ha segnato anche l’ingresso del Prosecco Doc quale sponsor ufficiale del Festival Show 2018, il festival itinerante che ha portato in otto città della Denominazione i più grandi artisti del momento e che si è concluso lo scorso 1 settembre in piazza Unità a Trieste con una passerella di artisti di tutto rispetto: Il Volo, The Kolors, Benji & Fede, Chiara Galiazzo, Emma Muscat, Thomas, Shade, Federica Carta, Alessandro Coli, Gianmarco

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Gridelli, Giorgio Baldari. Gli artisti sul palco, accompagnati dal corpo di ballo guidato da Etienne Jean Marie e dall’Orchestra Ritmico Sinfonica Italiana si sono esibiti sotto lo sguardo di Maria Grazia Cucinotta, madrina del festival. La manifestazione, organizzata da Radio Bella & Monellla e Radio Birikina, ha una potente forza di richiamo nei confronti del mondo giovanile al quale il Consorzio rivolge messaggi semplici e importanti come consumare alcolici con moderazione. Tra gli appuntamenti merita un cenno di riguardo la 50^ edizione della Barcolana di Trieste, la regata velica “più affollata del mondo” che vede ancora il Prosecco Doc tra gli sponsor ufficiali con un calendario fitto di appuntamenti interessanti ed emozionanti. ▣

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Arriva la tracciabilità per il riso biologico italiano Ente Risi, il decreto permette controlli più mirati. Soddisfazione FederBio. a cura di Roberto Rabachino – dati e testo ANSA

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stato firmato dal ministro delle Politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo Gian Marco Centinaio il decreto relativo al riso biologico che, una volta pubblicato in Gazzetta Ufficiale, comporterà l’obbligo di indicare eventuali superfici a biologico o in conversione ad agricoltura biologica nella denuncia di superficie. Lo rende noto l’Ente nazionale Risi. ‘’Tutti i produttori bio, come già fanno i risicoltori del convenzionale - precisa il direttore Ente Risi Roberto Magnaghi - devono ora denunciare la superficie

della risaia a biologico oppure in conversione ad agricoltura biologica per poi dichiarare la produzione da ottenere’’. Il decreto prevede, inoltre, che nella denuncia di superficie venga indicato l’organismo di controllo designato. La tracciabilità per il riso biologico italiana, fortemente voluta da FederBio, ‘’ha ora un quadro normativo e il decreto permette alla Repressione Frodi e alle autorità di fare controlli più mirati’’ sottolinea Magnaghi. FederBio accoglie molto positivamente la firma del decreto che avvia di fatto la possibilità di implementare i controlli di tracciabilità. ‘’Ringrazio BI O

il ministro Centinaio per aver finalmente sbloccato - commenta Paolo Carnemolla, Presidente di FederBio - l’avvio del sistema di tracciabilità del riso biologico in capo all’Ente Risi, una battaglia che FederBio ha portato avanti ormai da due anni per conto dei risicoltori bio onesti. Ora è necessario che Ente Risi e Ministero assicurino un monitoraggio a sistema dei dati sulle rese produttive e sulle quantità commercializzate, dato che i singoli organismi di certificazione potranno verificare solo i dati delle aziende che controllano direttamente’’. ▣

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MARE E NATURA: Parco dello Zingaro e dintorni Luoghi pieni di fascino e di storia, dove resti archeologici, castelli, cave di marmo e saline si alternano a stupendi panorami affacciati sul mare. Testo e foto di Jimmy Pessina

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ro stato a Trapani nel lontano 2007 per seguire la “32° America’s Cup”, la più importante manifestazione velica del mondo, e il colpo d’occhio sulla terraferma dal campo di gara mentre le barche gareggiavano

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faceva risaltare la fragilità di questa città sormontata dagli oltre 800 metri del Monte Erice. Ma solo apparente perché Trapani, città allora d’importanza strategica e al centro dei collegamenti militari e commerciali con il Nord Africa, sotto la dominazione spagnola del Regno di Sicilia (XVI-XVIII

secolo) fu un principale baluardo contro le scorrerie dei pirati e le invasioni turco-ottomane della costa occidentale della Trinacria. A Trapani e a Marsala il mio principale interesse di reporter amante della natura furono la visita alle saline, tasselli di un variopinto mosaico sullo sfondo

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turchese del mare, con la pesca principale fonte di reddito delle popolazioni locali. Luoghi pieni di fascino e di storia, dove quel bene tanto prezioso da essere usato nell’Antica Roma come “moneta” per pagare i soldati delle legioni (da cui il termine ‘Salario’), lo vedi fiorire passo a passo, tra vasche dai

colori cangianti.

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arsala, saline

Tra i cumuli bianchi di sale spuntano coloriti i mulini a vento, come quelli immaginati nelle pagine del Don Chisciotte di Miguel de

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Cervantes. Vengono usati ancora oggi per asciugare questo prodotto fondamentale per l’alimentazione umana, ma utilizzato anche a livello industriale. Quelle di Trapani si trovano nella ‘Riserva naturale integrale delle Saline di Trapani e Paceco’, istituita dalla regione Sicilia nel 1995. Merita la visita al Museo del

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Sale, realizzato all’interno di un antico mulino a vento. Si trova in via Chiusa, nella frazione di Nubia, a Paceco. Per info: museodelsale@ virgilio.it. Per chi fosse interessato, visite guidate gratuite sono effettuate dal Wwf. Per le prenotazioni: salineditrapani@wwf.it. Le saline ‘Ettore e Infersa’ di Marsala si trovano invece nella Laguna dello Stagnone, in contrada Ettore Infersa, e sono gestite da privati. Ottimamente conservate, arrivano a produrre anche diecimila tonnellate annue di sale marino integrale. Sono visitabili e non solo. Per info e prenotazioni: info@salinedellalaguna.it

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lcamo

Ero stato anche ad Alcamo, con le sue pale eoliche che ormai hanno invaso tutte le aree del

Belice, nonché ad Erice, un tempo ‘Monte San Giuliano’, col castello sorto sulle rovine del Tempio di Venere Erycina, dove dall’alto degli oltre 750 metri slm si presidiava tutta la valle fino al mare, e quel suo borgo medievale simile a quello di Civita di Bagnoreggio, nel Viterbese, anch’esso location di tanti film. Ma qui, per arrivarci, non devi percorrere a piedi quel lungo e stretto ponte che attraversa la valle. A Erice ci si arriva anche in auto, ma con la funivia è un’altra cosa. Alla stazione di partenza ci sono parcheggi comunali a costi accessibili a tutti, ma ci si arriva anche col bus 201. Per info: www.funiviaerice.it

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iserva dello Zingaro

A pagina 26 e 27, Particolare della Costa del Golfo di Cofano. A pagina 28, Saline di Ettore e Infersa; le classiche ceramiche di Erice. In questa pagina, Riserva Naturale dello Zingaro: spiaggia di San Vito Lo Capo. A pagina 30, Particolare di una via di Erice. A pagina 31, Parco dello Zingaro, Baia Tonnerella dell’Uzzo; costa del Parco dello Zingaro.

Quando per la prima volta dall’aeroporto di Palermo sono arrivato a San Vito

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Lo Capo per il Cous Cous Fest 2017, il conducente del taxi cercava di raccontarmi cosa c’era lì attorno alla Statale 187, dicendo nomi e indicando con la mano. Ma in quel buio profondo della strada appena illuminata dai fari, mi sembrava di stare su un altro pianeta. E mentre l’auto si avvicinava alla meta, nonostante cercassi di aguzzare la vista, attorno vedevo comparire saltuariamente solo grappoli di luci sparse a costellare quelle che ritenevo fossero colline. Mai avrei però immaginato quanta bellezza fosse attorno a me, in quei misteriosi luoghi incontrati nel viaggio notturno, lungo quella strada tortuosa. Quella era una piccola parte della Sicilia non ancora inserita nei miei appunti di viaggio.

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Come Castellammare del Golfo o San Vito Lo Capo. Conosciuta solo dai racconti e le foto di amici e parenti. Ad osservarla dall’alto del piazzale sul promontorio di Contrada Belvedere, le immagini e i racconti di Castellammare del Golfo non le rendono adeguata giustizia. Da lì la vedi tutta nella sua maestà, plasmata ai piedi del complesso montuoso di Monte Inici, come un tassello di un enorme mosaico che fa un tutt’uno con l’omonimo golfo.

arabo-normanno databile attorno al X secolo, realizzato sui resti di precedenti fortificazioni. Un luogo da sempre importante dove – secondo gli studiosi – già dagli inizi del V secolo a.C. fu realizzato il porto della vicina città di Segesta (Emporium Segestanorum) fondata dagli Elimi, una popolazione di origine italica che ne fece ben presto il suo centro politico e amministrativo. Di essa rimangono molte testimonianze, nell’omonima area archeologica gestita dalla Regione Siciliarice, panorama Dipartimento dei Beni culturali e dell’identità siciliana, come Il lungo braccio il tempio greco. Si trova sulla strada provinciale n. in cemento del 68, in Contrada Barbaro, a grande porto turistico ne fende il mare di un Calatafimi (Tp). Aperta ai visitatori, per informazioni: azzurro profondo, moderno tel. 0924952356. baluardo davanti al castello

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In alto, Golfo di Cofano. A pagina 33, il Tempio di Segesta; porto di San Vito Lo Capo. A pagina 34 e 35, Riserva Naturale dello Zingaro, costa meridionale; Monte Monaco; particolare della costa meridionale.

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ustonaci, cave di marmo

Quella del promontorio della Riserva naturale dello Zingaro, con la spiaggia di Guidaloca, le calette e le scogliere lavorate dal tempo, rappresenta una zona da non perdersi, almeno alla vista. Ma lì attorno non c’è solo mare, perché tra vigneti bassi e pregiati uliveti in parte bruciati dalla mano assassina di gente senza dignità, all’improvviso compaiono in lontananza i riflessi bianchi delle cave di marmo di Custonaci, seconde al mondo solo a quelle di Carrara. Fondamentali per l’economia di una zona con poche migliaia di abitanti, danno al paesaggio

un aspetto surreale, col forte contrasto di colori dominato dalle bianche pareti marmoree intagliate sapientemente a blocchi, tali da potersi definire loro stesse un’opera d’arte. Cave di marmo come quella ormai in disuso situata a Monte Monaco, massiccia figura che con i suoi 530 metri slm sovrastata verso est San Vito lo Capo, la destinazione finale del viaggio.

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an Vito Lo Capo

Località balneare a livello internazionale, si trova sulla punta estrema del promontorio omonimo. Con la spiaggia di sabbia bianca e sottile lunga 3 chilometri,

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piena di ombrelloni. Con gente che, benché si stia a fine settembre, fa ancora il bagno nel mare cristallino dalle molteplici sfumature, più volte premiato con le 5 Vele di Legambiente nell’annuale campagna di Goletta Verde. Mentre il bianco faro di 40 metri, punto di riferimento per i navigatori, si staglia deciso tra cielo e mare. Qui si svolge il Cous Cous Fest, con le sue voci, colori, odori, sapori. ▣

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Panarea, la più piccola delle Eolie ma la più ricca di piacevoli sorprese Panarea è la più caratteristica per la sua struttura di mezzo vulcano. Nelle più lontane epoche preistoriche, un enorme vulcano è imploso dentro la sua caldera spaccando letteralmente la montagna. di Giovanna Turchi Vismara

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’è una casa a Panarea costruita su tre piani, addossata alle rocce della parete montuosa, dal cui terrazzo, il più alto dell’isola, si gode di un panorama mozzafiato. Alle spalle blocchi di rocce spezzate dal tempo e dagli agenti atmosferici, inframezzati dal verde di una vegetazione spontanea e rigogliosa, di fronte il pendio degradante costellato di bianche case immerse tra il verde e il profumo di bouganville e gelsomini, sullo sfondo l’ampia e luminosa distesa di mare di un intenso T URI S MO NAZ I O NAL E

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blu cobalto da cui si ergono enormi blocchi rocciosi, aridi e selvaggi dalle forme più diverse. A stupire non è solo la costruzione della casa modulata nel pieno rispetto delle rocce, che in alcune stanze entrano prepotenti a far parte dell’arredo o in altri punti lasciano penetrare maestosi tronchi di ulivi secolari, ma è la presenza sul pianoro retrostante di un vigneto di 4000 mq di uva malvasia. E’ una piccola coltivazione ma è anche la grande passione del produttore Andrea Pedrani che dal 2011 è riuscito a ricavare dalla vendemmia di questi grappoli, di grandezza

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superiore alla norma, 1600 bottiglie di vino denominato Linsolita. E’ un vino dal bouquet molto fresco, agrumato, floreale e sapido con la presenza di evidenti mineralità tipiche dei prodotti vulcanici. E’ commercializzato solo nei ristoranti dell’isola e in qualche ricercata enoteca. Questa è una delle tante sorprese che riserva Panarea, la più a nord e la più piccola delle isole dell’arcipelago delle Eolie, tutte accomunate da una selvaggia bellezza di natura vulcanica, ma ciascuna con proprie caratteristiche. Lipari, la più estesa con belle spiagge e un’imponente montagna bianca di pietra

pomice. Salina, con i suoi due vulcani completamente ricoperti dal verde della vegetazione mediterranea. Vulcano, dalle ampie insenature che dalla cima del suo monte emana soffi di polvere. Stromboli, caratterizzato da una nuvola che sovrasta costantemente la sua cima. Filicudi e Alicudi, le più distanti. Panarea è la più caratteristica per la sua struttura di mezzo vulcano. Nelle più lontane epoche preistoriche, un enorme vulcano è imploso dentro la sua caldera spaccando letteralmente la montagna. Una metà è rimasta a formare l’isola di Panarea, un grande

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A pagina 36, barche nella baia del porto. A pagina 37, il vigneto di Andrea Pedrani e Stromboli. A pagina 38, panorama da Casa Pedrani. In questa pagina, lo scoglio di Dattilo.

semicerchio rupestre, dalle scogliere imponenti e selvagge nella parte nord occidentale, più verdeggiante e più mosso nella parte sud orientale degradante verso il mare. L’altra metà invece si è frantumata in una serie di enormi rocce dalle sagome più diverse, che emergono dalle acque e che vanno a completare l’intero cerchio magico. Sono i massicci di Spinazzola, Basiluzzo, Panarelli, Dattilo, Lisca Bianca, Bottaro, Lisca Nera e tre piccoli scogli, le Formiche, pericolosissimi, perché affiorano appena dall’acqua. Il nucleo abitato dell’isola si estende principalmente lungo tutta la fascia sud orientale che dal mare si inoltra sui pendii montuosi attraverso strette vie e scalinate in mezzo ad una vegetazione

Il vero cuore palpitante dell’isola è la piccola piazza, poco distante dal porto, ove tutti si incontrano specialmente verso sera per il classico aperitivo, per raccontarsi le varie esperienze della giornata trascorsa prevalentemente in barca su un mare caldo e luminoso, o per fare acquisti nelle caratteristiche boutiques.

questi vi è Andrea Tesoriero, un giovane maestro d’ascia, appassionato fin da ragazzo alla creazione di modellini di barche. Ora ha realizzato il sogno di costruire con metodo del tutto artigianale e con materiale esclusivamente italiano barche in legno al 100% perfettamente rifinite in ogni particolare, anche nell’arredamento interno, in grado di raggiungere anche 30-40 nodi di velocità. Nel suo piccolo ma attrezzato cantiere si dedica anche al restauro di vecchi gozzi di Panarea.

Il fascino di quest’isola, oltre alle bellezze naturali, si scopre a poco a poco vivendola e venendo a contatto con le varie attività svolte dai suoi abitanti profondamente innamorati del proprio territorio. Tra

In località Cala Junco, risalendo una lunga scalinata che si arrampica sul fianco della montagna e poi procedendo su uno stretto sentiero sassoso si arriva a un’ampia spianata ove la fanno da padrone enormi

rigogliosa fatta di ulivi, lentischi, mirti, fichi d’India, erica e di fiori dai profumi intensi.

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piante di fichi d’India. Qui del tutto isolata si trova Villa Libertà ove Derek e Genny, lui sudafricano e lei venezuelana, hanno deciso da tempo di vivere in perfetto contatto con la natura e a salvaguardia del territorio. Abitano una casa rustica dalle mura in mattoni simile agli antichi moduli degli isolani, prendono energia dai pannelli solari e usufruiscono dell’acqua piovana. In questa particolare fattoria si dedicano alla cura di tre asinelli recuperati randagi nell’isola e all’allevamento di polli, oche e conigli. Sempre nei pressi di Cala Junco, sul promontorio a picco sul mare di Punta Milazzese si può provare l’intensa emozione di visitare il sito archeologico di un villaggio dell’età del

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bronzo, dei secoli XV e XIII a.C., individuato nel 1948 e oggetto di scavi condotti nel 1949/50 e poi nel 2008/9. Antichi abitanti di origine siciliana scelsero questo promontorio perché reso inaccessibile dal mare per le scoscese pareti rocciose e da terra per lo stretto corridoio sull’istmo, protetto da grossi blocchi. Qui si individuano le basi di 22 capanne dalla forma ovale inglobate in un recinto triangolare, solo una ha pianta rettangolare con porta rivolta a sud, forse un santuario o la sede del capo del villaggio. All’interno di questa sono stati rinvenuti i più bei vasi di ceramica micenea presenti nelle Eolie ed ora esposti nel Museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea” di Lipari. Il villaggio, come dimostrano tracce di incendi, fu velocemente

abbandonato, forse in concomitanza con l’arrivo degli Ausoni, gente di origine peninsulare. Ma il fascino di Panarea non finisce qui, c’è quello della tarda sera e della notte. Nelle vie, nei sentieri e lungo le scalinate non c’è luce elettrica, bisogna procedere con le pile. I cavi elettrici, tutti sotterranei, forniscono luce solo ai negozi, alle case, agli alberghi e ai locali notturni, anche le varie insegne sono illuminate da lampadine individualmente posizionate. Sono gli unici punti luminosi che, unitamente alle stelle e alle luci che provengono dal mare per le lussuose imbarcazioni ancorate, rischiarano spazi intermittenti regalando al territorio un aspetto fiabesco, quasi da sognante presepe.” ▣

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La cantina del ristorante Del Cambio festeggia i suoi primi 260 anni Di fronte al Palazzo, che attualmente ospita il Museo del Risorgimento, è incastonato il meraviglioso Teatro Carignano confinante con lo storico ristorante “Del Cambio”, datato 1757. di Paolo Alciati

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’insolito appuntamento è a Torino, a 12 metri sotto la pavimentazione di una delle piazze che hanno segnato la storia d’Italia, quella Piazza Carignano che racchiude in un fazzoletto l’omonimo Palazzo dove nacque il Re Vittorio Emanuele II e che fu sede del primo Parlamento italiano, da lui stesso inaugurato il 18 febbraio 1861, e sui cui scranni sedettero personaggi come Vincenzo Gioberti, Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Francesco Crispi, Cesare Balbo, Urbano

Rattazzi e Camillo Benso Conte di Cavour che al primo piano, tra l’altro, aveva anche il suo ufficio. Di fronte al Palazzo, che attualmente ospita il Museo del Risorgimento, è incastonato il meraviglioso Teatro Carignano – un’autentica bomboniera d’antan – confinante con lo storico ristorante “Del Cambio”, datato 1757, nella cui cantina incontro il suo head sommelier Davide Buongiorno, giovane dinamico e positivo (con un cognome così non potrebbe

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essere altrimenti), che mi accoglie, nonostante i suoi numerosi impegni, con una vigorosa stretta di mano e un sorriso che ben dispone all’incontro. Scendiamo rapidamente le ripide scale (… attento alla

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A pagina 42, la sala principale del ristorante. A pagina 43, ingresso del ristorante. In questa pagina, Chef Baronetto e il “Tavolo della Cantina”. A pagina 45, Davide Buongiorno, “Head Sommelier” di “Del Cambio”.

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testa!) e… invece che negli Inferi mi ritrovo in Paradiso! Quasi 20.000 bottiglie, oltre 2.200 etichette, alcune preziose, altre rare, altre addirittura esclusive, riposano nel fresco, umido e silenzioso buio di questa cantina della fine del ‘600 - ancora più antica del ristorante - da poco insignita, per il secondo anno consecutivo, dei “two glasses” di Wine Spectator, il Best of Awards of Excellence che incorona le migliori carte dei vini di tutto il mondo. Per un appassionato del vino come me è commovente, è adrenalina pura… mi sento come un bambino in un negozio di giocattoli, non so dove e cosa guardare per primo! Capisco il sorriso di Davide, non si può essere

tristi lavorando in un luogo simile! Le tre pupitre all’ingresso fanno intuire che da queste parti le nobili bollicine hanno un posto privilegiato: all’ingresso della cantina c’è un’importante ed esclusiva targa, quella dei Dépositaires Dom Pérignon, selettivo circuito del quale il Del Cambio fa parte - poco più di una ventina di ristoranti italiani di altissimo livello con una selezione di annate unica, tra cui un Magnum di Dom Pérignon P3 Plenitude Brut 1966 esistente in soli tre esemplari in Europa (valore attuale circa 8.500 dollari!). Oltre le Grandi Maison che hanno dato lustro alla straordinaria storia dello

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Champagne - Charles Heidsieck, Pol Roger, Pommery, Roederer, Ruinart, Veuve Cliquot – nelle antiche nicchie sono custodite anche le produzioni delle nuove generazioni: piccole e medie maison e vigneron ma sempre di elevatissima qualità, come Bruno Paillard o Selosse, fino a ad arrivare alle microproduzioni, come quelle di Benoit Dehu, produttore con una felice storia che parte dal 1787. Passando dallo Champagne al metodo Classico, sono presenti anche tutte le produzioni di pregio italiane, dagli ormai classici Franciacorta ai seducenti Trento Doc alle raffinate bollicine piemontesi ma what a surprise – si sconfina

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anche nella terra d’Albione per degli eccellenti spumanti: complice il cambiamento climatico. Infatti, da alcuni anni il Sud dell’Inghilterra, area geomorfologicamente affine alla regione della Champagne, produce bottiglie di grande finezza e complessità. E dopo le “bolle”… i vini bianchi: suddivisi in due sale, raccontano l’Italia e il resto del Mondo. Nella prima si trovano, in bell’ordine ed in grande assortimento, i

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piemontesi: Gavi e Roero Arneis, Timorasso - uva e vino in grande ascesa e di grande interesse - accanto ad alcuni grandi vitigni internazionali che ritrovo anche nella zona dedicata al Friuli-Venezia Giulia, al Trentino e all’Alto Adige; una sezione è rivolta anche ai bianchi del Centro-Sud. Interessante inoltre una piccola selezione di vini macerati non convenzionali. La seconda sala custodisce una bella selezione di bianchi

di Borgogna e Bordeaux, accanto a ricercate etichette di Loira, LanguedocRoussillon, Rodano e Alsazia. Rimarchevole la gamma di vini provenienti da Germania e Austria - dove il Riesling la fa da padrone - e la proposta di etichette di una quindicina di altri Paesi del mondo. I rossi nel cuore (della cantina): come da logica, circa il 60% dei vini di questa straordinaria collezione è rappresentato dai grandi rossi, conservati nella sala

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più grande, proprio al centro della cantina. Del Cambio è legato indissolubilmente alla nascita e all’affermazione del Barolo, grazie alla felice intuizione della Marchesa Giulia

Colbert Falletti di Barolo e di Camillo Cavour che, con l’ufficio dirimpetto, “giocava in casa” (anche se inizialmente questo caveau venne da lui creato per conservare il suo amato Sizzano) e ne

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custodisce una delle selezioni più importanti d’Italia. Ma il Nebbiolo è presente anche con altre sfaccettature: Ghemme, Gattinara, Boca, Bramaterra, Donnas e Carema. Non manca

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un’attenta selezione di Barbera d’Alba e di Asti, di Dolcetto e di alcune rarità come il “Ramie” del Pinerolese. Ma il Piemonte è solo il punto di partenza di un viaggio attraverso le grandi firme dei rossi italiani, da quelli presenti nelle vicine Val d’Aosta, Liguria e Lombardia,

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sino al Trentino e al Friuli, per poi arrivare alla Toscana, con una selezione importante di Brunelli, e all’Umbria. Nell’affascinante “Infernot” - accessibile solo dopo aver aperto il cancello che ne impedisce un facile ingresso – custodite come un preziosissimo tesoro, trovo grandi etichette internazionali,

come i Borgogna, da quelli “base” ai Grand Cru, ai fini Bordeaux e altri grandi rossi francesi, dai vini della valle del Rodano alle piccole Appellations di altre zone. E si continua, percorrendo i silenti corridoi, in un tripudio di etichette prestigiose, collezioni affascinanti che stupiscono e intrigano per

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numero e per verticalità delle annate. Anche i vini rosati, fermi e spumanti - che stanno vivendo un momento felice in termini di reputazione e di gradimento - trovano adeguato spazio nella cantina, con etichette pregiate italiane e francesi. E poi i vini dolci: ovviamente il punto di partenza è il Piemonte - terra che ha dato vita ad uno dei più celebri vini dolci del mondo, il Moscato d’Asti – ma c’è spazio per una selezionata tipologia di vini passiti, Marsala e grandissimi

Vintage Port e Sherry iberici, sino a giungere all’eccellenza assoluta del più pregiato tra i botritizzati Sauternes, lo Château d’Yquem. È evidente il gran lavoro di selezione fatto da Davide e dal suo team, che ha dato ampio spazio non solo alle eccellenze riconosciute, ma anche a quelle “di ricerca”.

In questa pagina, La Cuvée celebrativa. A pagina 50, l’Infernot. A pagina 51, Matteo Baronetto e Davide Buongiorno.

E dopo questo intenso ed affascinante percorso nei meravigliosi meandri della cantina (… ma non mi sono affatto stancato!) e davanti a due freschi calici di dorata Cuvée Del Cambio 2012

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realizzata da Contratto per festeggiare i “primi 260 anni” del ristorante, il discorso con Davide fluisce amabilmente... Come si diventa head sommelier e responsabile di cantina di un ristorante prestigioso come il “Del Cambio”, una tra le migliori cantine al mondo? Qual è la tua formazione? Mah… fortuna, dedizione, passione, umiltà, studio e sicuramente talento! La mia formazione è tutt’altro che classica ma decisamente simile a molte altre storie. Liceo scientifico, laurea mancata in Scienze forestali… un padre agronomo che ha intrapreso i corsi Ais e da cui traggo spunto, il mio diploma

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Ais. Il resto si è susseguito in modo travolgente: annuncio su portale web e assunzione inaspettata al Met di Venezia, un paio di concorsi vinti e un susseguirsi di diverse esperienze (per lo più stellate) in Italia e UK ed eccomi a Torino. Di recente, con mia grande soddisfazione, sono stato giudice nel Decanter World Wine Awards 2018, il più prestigioso concorso vinicolo del mondo. Come si svolge la tua giornata, che compiti ha un responsabile come te e quanto tempo dedichi alla cantina? Ha dei ritmi variabili a seconda delle esigenze di Del Cambio. La mattina dedico

tempo ai fornitori, agenti e produttori per assaggiare, consultare cataloghi, organizzare eventi, fare un po’ di PR; poi il lavoro d’ufficio, controllo dello stock vini, bicchieri… ho tre locali da controllare con una movimentazione annua di circa 18.000 bottiglie! La sera non manco quasi mai! In cantina, dopo quasi due anni di catalogazione, riposizionamento ed etichettatura, lascio molto più spazio ai miei ragazzi, che la tengono ordinata e in linea con i nostri standard: siamo partiti in due… ora siamo in quattro. La chiave è avere validi collaboratori e saperli motivare. Siamo nel capoluogo sabaudo e al Piemonte,

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terra di grandissimi vini, hai dedicato un eccellente assortimento di vini regionali. Sono compiaciuto nel vedere lo sbigottimento dei nostri clienti quando prendono visione del “Local wines”: ben 30 pagine sui rossi, quasi 10 in più rispetto a due anni fa, ed il triplo delle referenze sui vini bianchi piemontesi, sempre più interessanti. Per me Del Cambio deve essere il punto di riferimento

mondiale per i vini piemontesi e spero lo diventi fra qualche anno anche per i produttori stessi. Perseguo la filosofia dell’eccellenza di Del Cambio, un luogo storico per l’Italia intera, che ha 260 anni di vita e per questo merita grande rispetto. La mia missione e quella dei miei colleghi è quella di promuovere questa simbiosi di Innovazione e Tradizione che alleggia nell’aria. Quali tipologie di vini

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richiedono in genere i clienti? Hai qualche curiosità da raccontare? Ci vengono richiesti molti vini rossi, specialmente piemontesi... ogni sera entriamo in un palcoscenico dove le richieste dei clienti sono sempre un’incognita e soddisfare quelle più strane è la parte divertente del lavoro, che altrimenti sarebbe a volte noioso, è quasi una sfida che ti viene lanciata e deve essere affrontata con

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professionalità. Un aneddoto divertente? Una volta in Inghilterra mi è capitato di spiegare con grande passione i profumi di un vino… ma dopo aver assaggiato il vino il cliente mi ha chiesto se tutti i profumi descritti fossero stati inseriti nel vino con degli sciroppi! Insieme ai maestri vinificatori di Contratto, la storica cantina di Canelli, hai ideato uno Spumante per celebrare degnamente i 260 anni del ristorante. L’idea, condivisa da tutti, parte nella primavera estate del 2017 con l’intento di festeggiare il 260° del ristorante e la scelta è caduta su una delle Cantine storiche d’Italia – Contratto - patrimonio dell’Unesco. La Cuvée è unica ed è stata creata appositamente per noi in sole 2.000 bottiglie, tutte numerate, con 80% Pinot nero e 20% Chardonnay e replicheremo anche quest’anno… La Cuvée è un progetto pilota, infatti sto valutando la produzione di un bianco ed un rosso… ma in quantità molto più limitate (200-300 bottiglie), sempre piemontesi ovviamente. Dodici metri sopra di noi c’è un cuoco stellato che ha fatto risorgere il ristorante e l’ha riportato ai fasti di qualche decina di anni fa. Ti confronti spesso

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con Matteo Baronetto per l’abbinamento dei vini ai suoi piatti, per creare - come diceva il grande Veronelli - quel “matrimonio d’amore” necessario perché il vino esalti il cibo e il cibo esalti il vino? Io e lo chef ci confrontiamo soprattutto in merito all’abbinamento dei vini ai piatti nelle serate in Cantina e nei menù con improvvisazione, in quanto spesso vengono creati al momento dallo chef. Se devo essere sincero credo all’abbinamento cibovino fino ad un certo punto. Il vino perfetto per un piatto non esiste, le variabili sono sempre troppe: quali sono le proporzioni degli ingredienti che assaggi? Quale lo status psicologico dell’assaggiatore, lo stato del vino stesso che può variare nel giro di pochi mesi e molto altro... Credo che il Sommelier moderno debba prima di tutto incuriosire e sorprendere, non commettere errori gravi e concentrarsi di più sulle consistenze dei piatti e del vino giocando sui contrasti. E comunque credo che una grande bottiglia possa accompagnare un grande menù, entrambe daranno grandi soddisfazioni. Parlami del “Tavolo della Cantina”, questa stanza minimalista - dalle evocazioni mistiche - che mi porta ad immaginare

cupe riunioni di antichi cavalieri templari o di società segrete ma anche, al contrario, festosi convivi di amici gaudenti o di esperti gourmet amanti del bello e del buono. Il Tavolo della Cantina nasce da un’idea di Baronetto che poi si è concretizzata con il mio arrivo nel Team… un luogo “oltre il tempo”, dove organizziamo cene d’affari, feste private in cui i grandi vini la fanno da padrone, grandi degustazioni con abbinamenti gastronomici e presentazioni di nuovi vini e annate. È impegnativo, anche perché la riuscita di certi eventi dipende molto dalle scelte che faccio sui vini da proporre. La classica domanda finale: parlami dei tuoi progetti futuri. Sono appena rientrato da un viaggio-vacanza di un mese (zaino in spalla) nella remota Isola di Sulawesi, Indonesia. Adoro vivere esperienze reali con popoli e culture completamente diverse dalla nostra… c’è sempre molto da imparare. Questo mi ha permesso di ricaricare le batterie per i mesi a venire: ad ottobre parteciperò al Concorso “Miglior Sommelier d’Italia” per Aspi mentre a novembre sarò giudice per Civiltà del Bere... e molto ancora... ▣

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A Palazzolo Acreide (ri)nasce la cucina autentica L’occasione per presentarsi è stata la terza edizione di Vicoli & Sapori, iniziativa promossa dall’omonima Associazione costituita da sette ristoratori della cittadina nel Siracusano. Testo e foto di Riccardo Lagorio

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obrietà, stile, sapienza. Se questi sostantivi caratterizzano già per sé l’Associazione dei ristoratori Vicoli & Sapori di Palazzolo Acreide, città Patrimonio dell’Umanità nell’entroterra Siracusano, bisogna aggiungere che ne fanno parte in sette. E il poker di Esse è fatto. Si aggiunga che per la comunità sono un po’ anche il sale, nel senso che tramite il lavoro di squadra, fatto di menu golosi e iniziative che danno lustro alla cittadina, riescono a richiamare nel centro siciliano migliaia di avventori. Tanto che nel mitico Sud-Est, Palazzolo Acreide fa rima con aria fine e buona cucina. Tra gli

interventi più rappresentativi dei Magnifici Sette c’è, senza ombra di dubbio, l’iniziativa nata due anni fa “Vicoli & Sapori”, che pennella alla perfezione il proposito di fare conoscere il centro storico di Palazzolo Acreide, detto dell’Orologio, attraverso le pietanze che ciascuno di loro presenta in un percorso a tappe, in compagnia di alcuni dei migliori produttori agricoli locali. Le date, ormai classiche, sono quelle dell’ultimo fine settimana di luglio.

C

apitolo Sobrietà

A sinistra, Piazza del Popolo. In alto, teatro greco di Akrai. A pagina 56, il balcone di Palazzo Zocco, maialini di razza Nebrodi. A pagina 57, Peppe Pirruccio della gelateria Caprice e, a destra, Giuseppe Colosa dell’omonima macelleria. A pagina 58, la salsiccia tipica.

Non se ne può più di cuochi ballerini, cuochi prestati alla pubblicità, cuochi che non

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fanno altro che scansare la propria cucina. Alcuni sono diventati celebrità televisive, facce prestate alla moda del momento, all’industria di turno. Se ciò non è deprecabile per sé, lo è se si considera lo svilimento del cibo, degradato a oggetto come tanti e non argomento di cultura e tradizione come l’usanza italica insegnerebbe. A Palazzolo Acreide non si va mai sopra le righe, nelle

cucine trovi sempre il cuoco. E nelle loro manifestazioni, l’Associazione utilizza le proprie forze, senza interventi di nomi altisonanti. La sobrietà come valore.

C

apitolo Stile

Spesso, affinché si abbia un posto in paradiso (leggi: sulle guide, sulle riviste patinate,

I MAGNIFICI SETTE RISTORANTI D I PA L A Z Z O L O A C R E I D E • • • • • • •

Lo scrigno dei sapori (loscrignodeisapori.com) Trattoria del Gallo (trattoriadelgallopalazzolo.it) Ristorante da Andrea (ristoranteandrea.it) Al Punto giusto (ristorantealpuntogiusto.it) La Corte di Eolo (lacortedieolo.it) La Taverna di Bacco (trattorialatavernadibacco.it) Giannavì (fattoriagiannavi.it)

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sui blog da pecoreccio), ci si deve affidare a sponsor che “fanno rete”. Il limite tra reale capacità della cucina e “convincimento e incoraggiamento dello sponsor” diventa fumoso. L’Associazione dei ristoratori di Palazzolo Acreide non ha puntato su sponsorizzazioni di alcun genere, ha invitato alla loro iniziativa produttori locali. Insieme, per la crescita di un territorio. Encomiabile lezione di stile.

C

apitolo Sapienza

Non se ne può più di cuochi insipienti, che si conformano alle offerte di poche case (industriali) produttrici e fornitori che, appunto, semplicemente riforniscono. Scompare la ricerca che contraddistingue le cucine autentiche, non decolla il

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S E T T E C O S E P E R C U I VA L E L A P E N A A N D A R E A PA L A Z Z O L O A C R E I D E • Area archeologica Akrai (e il Festival internazionale del Teatro Classico dei

Giovani, maggio). • Chiesa di San Sebastiano (e le festività del 9 e 10 agosto). • Il cimitero monumentale. • Mulino ad acqua Santa Lucia. • Palazzo Zocco (uno tra i tanti esempi di arte barocca). • Museo dei viaggiatori in Sicilia presso Palazzo Vaccaro. • Museo archeologico di Palazzo Cappellani.

territorio, sciamano i rapporti personali con il produttore. Il quale, non si deve escludere, può migliorare, insieme al cuoco, la propria proposta, rendendola più adatta alle esigenze contemporanee. Così, anche grazie a questa ristorazione sobria, di stile e sapiente, Palazzolo Acreide può vantare un’ottima carta da giocare come attrattore

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di turismo. Una scommessa portata avanti da sette ristoratori, un gruppo coeso che ha fatto crescere negli anni l’immagine della cittadina dalle origini greche puntando su una gastronomia ricca, legata alla stagionalità e alla terra intorno: dal tartufo alla salsiccia, dai formaggi alle carni. Ma ancora di più, un consesso che sta servendo

- inconsapevolmente non sappiamo quanto - come fucina di idee e di confronto per far crescere, intorno al cibo, questa volta sì, usato come strumento e pretesto, un’intera società. Appuntamento alla prossima edizione di Vicoli e Sapori a Palazzolo Acreide. State connessi. ▣

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CASTEL SAN PIETRO TERME

rigenerarsi tra arte, b e n essere e vi no In questo splendido comune pedemontano del bolognese, una delle 80 Città Slow certificate, si persegue la filosofia della “lentezza”, per prendersi cura di se stessi e godere del benessere delle acqua termali, immersi in una rilassante natura di pace e serenità.. Testo e foto di Carmen Guerriero

I

l tempo indugia lento a Castel San Pietro Terme, tra il verde delle colline che si rincorrono al confine tra l’Emilia e la Romagna. Splendido

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comune pedemontano bolognese rinomato per le terme, l’arte, la bellezza e il vino, Castel San Pietro Terme è, dal 2005, una delle 80 certificate Città Slow, che ha fatto

della qualità e dello stile di vita un autentico ambasciatore del “buon vivere”. Fondato nel 1999, il movimento Cittaslow, con sede a Orvieto, persegue la filosofia della

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“lentezza”, del prendersi tempo per assaporare la bellezza dei paesaggi, la bontà di un prodotto, l’opulento piacere del rituale del “sé”, attraverso il beneficio delle acque termali, dei massaggi o dei sani percorsi in bici, in una natura di pace e serenità. L’antica fonte sulfurea, Fonte Fegatella, traccia la storia di Castel San Pietro ed è uno dei simboli più amati. Secondo la

A sinistra, colline imolesi. In alto, muro dipinto a Dozza; interno della Cripta di San Lorenzo.

tradizione, nel 1300 un’epidemia colpì le pecore al fegato e venne debellata proprio dalle proprietà curative dell’acqua “Fegatella”. Di seguito, nel 1338, l’Università di Bologna ebbe sede a Castel San Pietro Terme e ne verificò e certificò le proprietà curative. Da allora la popolazione ne iniziò sistematicamente l’utilizzo, non solo per gli animali, ma anche per le persone. Un disegno del 1830 illustra la fonte definita con una struttura in mattoni lungo il Viale delle Terme, all’epoca solo un fitto sentiero di bosco. Pubblicazioni successive ne attestano, intorno agli anni ‘30, una struttura definita da una colonnina e un bocchettone per l’uscita dell’acqua. Intorno agli anni ‘50, grazie all’opera dell’Azienda

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Autonoma di Cura e Soggiorno e dell’Amministrazione Comunale, le acque della Fonte Fegatella vengono confluite in una struttura in cemento e pietra, con più punti di prelievo d’acqua, facilmente accessibili a tutta la popolazione. Il primo stabilimento termale sorse nel 1870 e, a seguito della distruzione causata dagli eventi bellici nel 1945, fu ricostruito ex-novo nel 1955. Da

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In questa pagina, in senso orario, Pinza Bolognese, chef Daniele Ditta; flan scquacquerone con fichi caramellati, chef Daniele Ditta; lasagna verde, Cesari; zuppa di cipolle di Medicina, Golf Club Le Fonti. A destra, dall’alto, Palazzo Varignana, ristorante Il Palazzo; cipolla di Medicina; signora Cesari nella bottaia.

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allora, le Terme di Castel San Pietro, utilizzando acqua sia solfurea sia salsobromojodica, forniscono servizi di terapie termali, trattamenti riabilitativi e di fisiochinesiterapia, estetici, di benessere, di medicina estetica e le relative attività di diagnostica medica, non solo per la cura ma anche nella prevenzione delle malattie respiratorie, osteoarticolari e vascolari. Negli ultimi anni, inoltre, accanto alle cure termali tradizionali si sono sviluppati il settore del benessere e quello della riabilitazione.

L

’ospitalità vicino alle Terme

Adiacente alle Terme e al parco del laghetto Scardovi c’è il Golf Club Le Fonti (18 buche - par 72 6480 metri), di proprietà comunale, è uno dei campi più rinomati a livello nazionale per aver disputato 5 competizioni internazionali e nel 2016 il Campionato nazionale open Professionisti. Vanta ben 800 soci, un primato nazionale per campi a 18 buche, inoltre ha il primato di presenze straniere provenienti dal club di prodotto Emilia Romagna Golf per gli anni 2015 e 2016. Il Palace Hotel Anusca è un moderno hotel nel centro cittadino che coniuga le esigenze business con quelle dedicate al rituale “del sé”, immerso nel verde, in un ambiente raccolto ed uno staff cordiale ed educato. All’interno, lo Spazio Anusca, dove

trascorrere giornate in totale relax, grazie ad un’ampia zona dedicata al wellness con SPA, massaggi di buon livello con personale professionale ed attento, una piscina esterna

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ed il Diego Dalla Palma Professional Beauty Space, luogo per i trattamenti di bellezza e benessere. Annesso all’hotel e fruibile anche dai non clienti, il raffinato Ristorante Gastarea, dagli interni moderni, curati, una cucina votata alla tradizione e una buona carta di vini. Il Palazzo di Varignana Resort & SPA si trova a Varignana, a circa 10 km da Castel San Pietro Terme, ed è un resort a 5 stelle costituito da diversi edifici, su differenti livelli immersi nel verde, con sale congressi e meeting, 5 piscine all’aperto, 2 vasche idromassaggio, un campo da tennis scoperto e una piscina coperta, una sala colazione in un edificio distaccato, un bar e 2 ristoranti che propongono piatti della cucina italiana e internazionale e specialità gourmet che

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sono l’interpretazione di quelli della tradizione. All’interno di palazzo, la VarSana SPA, che offre trattamenti mutuati da antiche tradizioni, utilizzando acqua e suoni per rigenerare corpo, mente e spirito. L’edificio più antico e alto del complesso ospita il ristorante Il Palazzo, interni eleganti e cucina tradizionale rivisitata.

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n giro tra colline, castelli e rocche

Il giro diventa ancora più entusiasmante se si è a bordo di una delle auto d’epoca che partecipano alla rievocazione per auto storiche della Bologna-Passo della Raticosa. Giunto al 31mo anniversario, dal 2017 il Comune di Castel San Pietro Terme ospita lo storico evento che

In alto, Annalisa Rinaldi e Silvia Dalfiume, titolari azienda, e al centro Carmen Guerriero; cocktail, Tenuta Dalfiume Nobilvini. A destra, lavorazione squacquerone Comellini; formaggio Castel San Pietro az. Comellini.

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richiama appassionati e collezionisti da ogni parte d’Italia ed è organizzato da Camebo Club auto moto d’epoca Bologna, uno dei più antichi club di motorismo storico italiani, per rievocare uno dei principali avvenimenti storico motoristici degli anni ‘50 e ‘60. Partendo da Castel San Pietro Terme si può visitare il Cassero, il monumento che segna ufficialmente la nascita di Castel San Pietro nel 1199, come baluardo a difesa del territorio di Bologna e risistemato e ristrutturato più volte nel corso dei secoli, quindi l’Arena estiva, costruita negli anni ’30 in viale Terme, anch’essa ristrutturata e riaperta negli ultimi anni, e il Ponte sul Sillaro, lungo la via Emilia, esistente già al tempo di Traiano, nell’anno 100 d.C. Tra i monumenti più interessanti, anche la Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Maggiore e il Santuario del Crocifisso, che si affaccia sulla centrale piazza XX Settembre. Proseguendo, s’incontra il borgo medievale di Dozza, situata sulle colline imolesi, un dedalo incantevole di vicoletti, stradine e botteghe che s’inerpicano fino alla Rocca Sforzesca risalente al 1300. Incanto su incanto, dal 1965 Dozza è la sede della Biennale del Muro Dipinto, una manifestazione che ha trasformato tutto il paese in una galleria artistica a cielo aperto, con muri di case, finestre e balconi dipinti, come tele di un quadro. T URI S MO NAZ I O NAL E

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All’interno della Rocca, l’Enoteca Regionale dal 1978 opera per la promozione e la valorizzazione dei vini della regione, promuovendo allo stesso tempo una corretta educazione al bere. L’Ente vanta più di duecento produttori associati e si avvale della collaborazione di istituzioni, ricercatori nonché degli stessi soci. Nei sotterranei, la Mostra Permanente rappresenta un viaggio in un’ideale carta dei vini, con oltre 1000 etichette.

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A circa 10 km, lungo un percorso costellato da suggestivi calanchi, con una scarsa vegetazione, alternati a boschi verdeggianti e a macchie di ginestre, c’è Varignana, cittadina che ebbe un ruolo di notevole importanza per la sua posizione strategica di passaggio per i fedeli diretti a Roma. Da visitare l’antica torre e la Chiesa di S. Lorenzo, con una suggestiva cripta preromanica risalente al VIII-IX secolo d.C., il monumento più antico di tutto il territorio castellano. Proseguendo, Montecalderaro, con i ruderi della Chiesa di San

Martino, che negli ultimi anni è divenuta luogo simbolo della memoria della Linea Gotica, la linea del fronte che durante la seconda guerra mondiale spezzava l’Italia in due parti e ha coinvolto, per sei mesi, dall’autunno del 1944 alla primavera del 1945, anche il territorio di Castel San Pietro Terme. L’Amministrazione Comunale, a salvaguardia del valore storico dei luoghi, negli ultimi anni ha creato un Percorso della Memoria, coinvolgendo visitatori, studenti e associazioni combattentistiche con escursioni, anche in mountain bike o in bici da corsa, presso le frazioni di Gaiana, Poggio, Varignana, Casalecchio dei Conti e soprattutto

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A sinistra, degustazione mieli, Osservatorio Mieli; Dottoressa Maria Lucia Piana. A destra, Chef Daniele Ditta; Nicola e Marianna Marrano.

Montecalderaro. Ogni anno a Castel San Pietro Terme si svolgono iniziative di respiro nazionale, come Very Slow Italy, Very Wine e Cassero Jazz (in aprile) e Naturalmiele Street Food Festival (a giugno). Nel primo fine settimana del “Settembre Castellano”, si svolge l’evento “Varignana di Notte”, una tre giorni all’insegna di arte, musica, vino e gastronomia, con i mitici tortelloni.

E

nogastronomia

Castel San Pietro primeggia anche in prodotti d’eccellenza, come i vini Colli d’Imola Doc, i vini di Romagna Docg (Pignoletto, Albana e Sangiovese), la patata di Bologna Igp, la cipolla di Medicina, la pasta fatta in casa, stesa

a mano con il matterello, le tagliatelle, i garganelli, i tortellini, i tortelloni e le lasagne, rigorosamente verdi, i savoiardi. E poi il formaggio Squacquerone di Romagna Dop del Caseificio Comellini di Castel San Pietro, insieme a mousse di ricotta ed al Castel San Pietro, originale e tipico formaggio molle locale, prodotto sempre con latte di mucca, ma più stagionato e pastoso, dal caratteristico cuore morbido. Da gustare

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anche in abbinamenti tradizionali con piadina, fichi caramellati, confetture e mieli. Osservatorio Nazionale del Miele. Non miele ma mieli. A Castel San Pietro, infatti, se ne producono molti, dai noti millefiori e acacia ai mieli stagionali monoflora. Complessivamente esistono svariate decine di varietà tipiche che l’Osservatorio Nazionale del Miele, con sede proprio a Castel San Pietro Terme, diretto dalla

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dottoressa Maria Lucia Piana, una delle maggiori esperte in melissopalinologia e analisi sensoriale di miele, raccoglie, conserva e tutela, associando istituzioni pubbliche ed organizzazioni apistiche a livello nazionale e locale. Il Savoiardo castellano. I biscotti Savoiardi compaiono già nei banchetti del 1600 e cominciano a essere esportati in tutta Italia a partire dal 1800. Fra le prime attività di Castel San Pietro che iniziarono a produrre tale biscotto risulta esserci la famiglia castellana Gardini, che ricevette anche una lettera di ringraziamento da

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parte della Regina Margherita per la scatola di biscotti donatale. Molto buoni quelli teneri prodotti da Fratelli Pedini.

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l vino

Umberto Cesari è un’azienda storica degli anni ’60 che estende i suoi vigneti nel cuore dell’Emilia Romagna, culla ideale per la coltivazione di vitigni autoctoni, quali Sangiovese, Albana, Pignoletto e Trebbiano, e di alcune varietà internazionali come Chardonnay, Cabernet

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Sauvignon e Merlot, con sei poderi: Ca’ Grande, Liano, Laurento, Tauleto, Casetta e Parolino, ognuno con caratteristiche diverse, 175 ettari di vigneti, 18.000 mq di cantina e una sede aziendale completamente rinnovata. Poco distante, la Tenuta Dalfiume Nobilvini dal 1970 vanta tre generazioni che si tramandano la passione per il vino, con vigneti vocati a Sangiovese, Pignoletto, Trebbiano, Albana, Chardonnay, Cabernet, Sauvignon e Barbera Dop, sia Colli d’Imola sia Romagna. Annalisa Rinaldi e Silvia Dalfiume, insieme a Davide Dalfiume, promuovono, con stile ed eleganza, la continua ricerca dell’eccellenza. Villa Poggiolo è marchio di alta

qualità, dal design elegante e raffinato, di cui Scrigno Villa Poggiolo, spumante extra dry da uve Pignoletto DOP Sottozona Colli d’Imola, è il fiore all’occhiello, col suo perlage fine e brillante, gusto morbido, fruttato, fresco, l’ottima armonia tra residuo zuccherino ed acidità, che equilibra perfettamente il gusto amarognolo tipico del Pignoletto. Creativa e deliziosa la versione sorbetto del Lambrusco dell’Emilia Igp, Amabile frizzante! Cantina Fratta Minore, piccola e giovane realtà vitivinicola del 2012, tra Casalecchio dei Conti e Varignana, di Nicola e Marianna Marrano, che condividono passione per la vigna e massimo rispetto

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A sinistra, cantine Sgarzi e la signora Sgarzi. In basso, Terme di Castel San Pietro. A pagina 70, Corrado Zaccaria, presidente di Terme S.p.A., Stefano Iseppi, Amministratore Delegato Terme.

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dell’ambiente e della morfologia del territorio. I vini prodotti sono i classici di questa zona, Pignoletto e Albana per i bianchi e Sangiovese per il rosso, ma la lavorazione fa la differenza, con vini improntati agli antichi metodi dei contadini del luogo, come per l’Albana nella versione dolce, non passita ma vinificata dolce. La sala degustazione, affacciata sulle colline circostanti, su prenotazione, offre ottimi piatti tipici realizzati dallo Chef Daniele Ditta a base di prodotti del territorio, come il flan di scquacquerone dop e fichi caramellati, un piatto di antica tradizione locale, in abbinamento a Dama Bianca Pignoletto Metodo Classico 2016 di Fratta Minore. Una delle etichette più apprezzate della cantina Fratta Minore, da Pignoletto spumante con metodo classico, ricca spuma, bel colore giallo paglierino chiaro ed intenso perlage, profumi freschi, di fiori primaverili, come la ginestra odorosa, frutta bianca in maturazione, sostenuta da una buona acidità, persistenza e sapidità, dal finale leggermente amarognolo,

tipico del vitigno. Ottimi anche i tortelloni di ricotta, burro e salvia, semplici, ma fatti a regola d’arte, con sfoglia sottilissima e prodotti di alta qualità. E la mitica “Pinza” bolognese, un dolce da credenza che ha origini molto antiche, tipico della tradizione contadina bolognese, a base di deliziosa pasta frolla soffice farcita di mostarda bolognese, servita appena tiepida. Le Cantine Sgarzi Luigi nascono nel 1933, quando il nonno dell’attuale titolare, Luigi Sgarzi, aveva una piccola cantina che serviva, con botti e cavalli, le celebri osterie bolognesi. Si occupa

non solo di promozione del prodotto delle proprie vigne ma anche di distribuire nel mondo i migliori vini del nostro Paese. Accanto alla produzione locale, la cantina ha sviluppato un’attività di esportazione che attualmente ha raggiunto una dimensione importante, con una rete di vendita in più di 80 Paesi, tra vini, bevande a base di vino aromatizzato alla frutta, come la sangria, bevande analcoliche, sia in bottiglia sia in lattina e in imballaggi ecosostenibili per una clientela giovane, informale e pratica, come CIAO, il vino Amabile bianco da uve Trebbiano e Chardonnay. ▣

INFORMAZIONI Web: www.castelsanpietrotermefacentro.it, www.termedicastelsanpietro.it Servizio Turismo: tel. 051 6954112-159-213-214, ufficioturismo@cspietro.it

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www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net

BEVI RESPONSABILMENTE

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Lubecca e Brema, viaggio alla scoperta delle Città Anseatiche Un itinerario nella Germania del Nord per scoprire le atmosfere fiabesche di due città ricchissime, tra l’epopea dei mercanti e le fiabe dei fratelli Grimm. di Franca Dell’Arciprete Scotti

C

’erano una volta le Città Anseatiche, tanto ricche e potenti da essere avvolte nella leggenda. Ma la loro potenza è stata reale: tra il XIII e il XV secolo, le città del Mare del Nord e del Mar Baltico, da Amburgo a Brema, a Rostock fino a Stralsund, legate in un patto di ferro, potevano gareggiare anche con il potere imperiale nei loro traffici commerciali. Il patto di ferro creava una sorta di monopolio nel commercio di merci che provenivano dal Nord Europa, come pellicce, lane e ambra, e dal Sud, come il prezioso sale che arrivava da Luneburg. Regina dell’Hansa fu

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Lubecca, la più grande città del Land tedesco dello Schleswig-Holstein, che conserva ancora oggi i segni monumentali del suo ricco passato. Come nelle fiabe, si entra a Lubecca attraverso la grande Holstentor, una porta gigantesca costruita contro i Danesi: due torrioni gemelli massicci in mattoni rossi e neri smaltati, tetti a pinnacolo e ricche decorazioni di stemmi nella parete interna. Da lì parte un itinerario nel centro storico, tutto protetto come Patrimonio Unesco. Dalla splendida chiesa di Santa Maria, ispirata

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all’architettura delle cattedrali francesi, alle grandi case delle corporazioni, al magnifico Rathaus, la chiesa Jakobikirche, l’ospizio Heiligen-Geist-Hospital e il quartiere con le splendide case patrizie tra la chiesa di San Pietro e il Duomo. Ci si immerge così nell’atmosfera di una città dove una ricchissima borghesia aveva costruito per sé e per la città simboli del potere. Monumenti pubblici, ma anche magnifiche case private, una più imponente dell’altra, splendido esempio di gotico baltico: case di

A pagina 72 e 73, Brema: Rathaus e Bottscherstrasse. In basso, Brema, i quattro musicanti. A destra, Lubecca: marzapane e Ospedale Santo Spirito. A pagina 76, Lubecca: battelli sul Trave e Holtenstor. A pagina 77, Lubecca: case a gradoni,

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mattoni rossi, facciate altissime senza balconi, ornate dall’inconfondibile motivo a gradoni, tetti a forte spiovente, magazzini a piano terra.

Tra tutte spicca la Buddenbrookhaus in cui vissero nell’800 i nonni paterni di Thomas Mann: tutta dedicata al culto dell’autore e allo stretto legame che lo

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unì a questa città, che Mann non nomina mai nel romanzo, ma che è immediatamente riconoscibile in ogni citazione geografica. Infatti, molto del fascino di Lubecca deriva da questo romanzo fondamentale del ‘900, che celebra l’epopea dei mercanti. D’altronde Thomas Mann è uno dei tre Nobel legati a Lubecca, insieme con Günter Grass e Willy Brandt. La celebrazione dei mercanti dell’Hansa non si ferma a tesori e ricchezze, ma racconta anche la generosità verso i deboli. Ne sono testimonianza i pensionati costruiti per donne sole, vedove e nubili, nella parte orientale della città, come il Fuchtingshof e il Glandorpshof, inseriti in piccoli cortili luminosi e fioriti,

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con finestre e vetri d’epoca e sulla facciata gli stemmi dei benefattori. Testimone di generosità è anche l’ospedale dello Spirito Santo, il primo ospedale laico in Europa. Dalla chiesa dell’ospedale decorata da affreschi, dossali di legno ricchi di sculture, polittici preziosi in legno dorato, vetrate con stemmi gentilizi, si entra nella grande sala dormitorio una volta riservata ai malati. Oggi il grande dormitorio, suddiviso in piccole camerette modeste, ma dotate di tutto l’essenziale, è riservato agli anziani soli. E, durante il periodo natalizio, ospita

un incantevole mercatino sfavillante di luce, profumi e colori. Il “C’era una volta...” ci porta anche a Brema, libera città, capitale dello Stato di Brema, all’interno della Repubblica Federale di Germania. Qui il “C’era una volta...” ci trasporta veramente nel regno delle fiabe. Sono quelle dei Fratelli Grimm. Come non ricordare “I quattro musicanti di Brema”? I quattro buffi personaggi, un asino, un cane, un gatto e un gallo, arrampicati uno sull’altro, appaiono in tutti gli angoli della città, mentre leggono la favola nel libro, sdraiati in posizione

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ironica, mentre ammiccano ai passanti in legno, in ceramica, in bronzo, di pelouche. E c’è un altro personaggio favoloso, Roland, l’Orlando della famosa “Chanson de Roland” medievale, che ci accoglie con la sua statua altissima, installata nel 1404 nella Piazza del Mercato, simbolo dell’importanza e della indipendenza di Brema. Ma, aldilà di favole e leggende, Brema ha una solida realtà economica e culturale. Anche questa fu una splendida città della Lega Anseatica, e oggi è il secondo porto della Germania.

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Tutto da visitare l’Altstadt o Centro storico, situato sulla riva settentrionale del fiume Weser: i palazzi della piazza del Markt, intorno al bellissimo municipio, patrimonio dell’Unesco dal 2004. Ritenuto uno dei migliori esempi di architettura goticobaltica, il Rathaus, che risale al 1400 circa, si arricchì nel 1600 di elementi decorativi in stile rinascimentale, mentre le finestre sopra il porticato sono inframezzate da statue che rappresentano Carlo Magno e i principi elettori del Sacro Romano Impero. In tutto l’Altstadt si passeggia piacevolmente a piedi. Una delle attrazioni più curiose è la Bottcherstrasse, una strada cortissima,

appena 100 metri, in cui Roselius, il fondatore della fabbrica del caffè Hag, acquistò uno dopo l’altro tutti gli edifici, affidandoli negli anni ’20 al genio dell’architetto Bernhard Hoetgerr del movimento espressionista. Anche a Brema le corporazioni avevano sedi importanti, soprattutto quella dei bottai, che detenevano il potere del transito di merci. Vino e birra sono diffusi e pregiati. Il Bremen Freimarkt è una festa popolare che ricorre il 16 ottobre e si protrae per una quindicina di giorni sul parco sul fiume e nel Bürgerweide nei pressi della stazione ferroviaria. L’evento, iniziato nel 1035,

e quindi di gran lunga più antico dell’Oktoberfest di Monaco, è accompagnato da parate, danze per strada e ovviamente prevede il consumo di fiumi di birra. Il vino rosso, invece, era una delle merci più preziose di Brema. Per scoprirne profumi e sentori, ottima una visita alla Ratskeller, la cantina di 600 anni aperta sotto la sede del municipio, un tempo riservata al podestà della città. Una vera esperienza sensoriale si svolge in questi sotterranei, tra botti invecchiate, bottiglie preziose e un sacrario dove, a lume di candela, vi propongono vini da 1000 euro a bottiglia. ▣

INFORMAZIONI UTILI Voli diretti con Ryanair su Lubecca e su Brema da Orio al Serio e varie città italiane. www.ryanair.com Dagli aeroporti il centro città si raggiunge in pochi minuti con il tram o con l’autobus. Ottime le ferrovie tedesche che offrono anche un ricco catalogo di partenze dall’Italia con il servizio Autozug, auto al seguito. Ufficio Informazioni e Prenotazioni tel +39 02 6747 9578, info@dbitalia.it - www.dbitalia.it Info: www.germany.travel, www.bremen-tourism.de Per info su Lubecca http://www.luebeck-tourism.de, per prenotazioni info@luebeck-tourismus.de Per viaggiare: ottima la nuovissima guida Morellini Brema, II edizione, di Giuseppe Sofo, collana Low Cost, l’unica guida italiana a Brema.

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I suggestivi monasteri

della Serbia, oasi di fede e cultura Straordinari luoghi d’arte e depositari della cultura, della storia e dell’orgoglio nazionale serbo. Testo e foto di Jimmy Pessina

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ra le caratteristiche peculiari della cultura e dell’arte della Serbia, tali da giustificare ampiamente un viaggio in quelle turbolente contrade, figurano di sicuro i monasteri cristiano ortodossi, con annesse le chiese medievali, oltre 200 complessi costruiti tra il XII e il XVI secolo, sparsi un po’ in tutto il Paese con particolare accentramento nelle regioni del centro-sud, ma anche nei confinanti stati della Vojvodina, del Kosovo e della Macedonia, la Grande Serbia secondo la visione nazionalistica locale. Infatti, oltre a straordinari luoghi d’arte con architetture,

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A pagina 80, Belgrado, Chiesa di San Giorgio. A pagina 81, Monastero di Gradac; affreschi del Monastero di Mileseva. A sinistra, Belgrado, Cattedrale di San Sava; Monastero di Krasedol. In basso e a destra, Belgrado, Cattedrale di San Sava di notte; Monastero di Ravanica. A pagina 84 e 85, classico insediamento nella pianura serba; Belgrado, ponte sul Danubio di notte; pianura serba.

pitture, icone, decorazioni, libri amanuensi e tanto altro, non rappresentano soltanto dei luoghi di culto e di fede, ma sono i depositari della cultura, della storia e dell’orgoglio nazionale serbo. Affreschi e icone, tra le più belle ed espressive dei Balcani e considerate da qualcuno come antesignane dell’arte rinascimentale europea, illustrano l’Antico e il Nuovo Testamento e

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racconti agiografici in uno stile bizantino con palesi intenti didascalici. Anche se qualcuno si presenta fortificato con possenti mura, questi complessi furono eretti non tanto per opporsi fisicamente alla preponderante avanzata turca, quanto per costituire delle oasi di fede ortodossa e di cultura serba in un mondo dominato per secoli da infedeli islamici. In genere

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sorgono in luoghi isolati – in cima a montagne, entro foreste, vicino a fiumi, ecc. – in apprezzabili contesti ambientali che ne accentuano involontariamente anche la spiritualità, per agevolare la meditazione dei monaci e le preghiere dei fedeli. Per la loro importanza tre di questi – Sopocani, Studenica e Decani – sono stati riconosciuti dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Gli studiosi d’arte vi riconoscono tre diversi stili, riferibili ad altrettante “scuole”, con differenti canoni architettonici ed espressioni figurative. La più classica e antica è la scuola della Raska, dal nome della prima capitale, caratterizzata da facciate di marmo riccamente decorate, da nartece e navata unica dominata da una cupola

centrale; influenze romaniche si notano nelle decorazioni floreali dei portali, mentre negli affreschi si evidenzia la tradizione pittorica di derivazione greca. Tipici esempi di delicata sintesi tra romanico e mondo bizantino sono la chiesa di Studenica, quelle di Pec e altre del XIII secolo. D’influenza più bizantina è la scuola meridionale, diffusa tra XIII e XIV secolo in Kosovo e Macedonia, con uno schema architettonico più semplice: esterno variopinto a mattoni e l’interno anticipato da un nartece con chiesa ad unica navata sormontata da cinque cupole, dove l’apparato iconografico risente parecchio dell’influsso bizantino e si presenta più didascalico. Esempi tipici le chiese di Gracanica e Decani.

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Nella Serbia settentrionale si trova la scuola Morava, che va da metà del XIV al XV secolo e si differenzia da quella meridionale all’esterno per le facciate policrome, l’abbondanza di bassorilievi e decorazioni e per le proporzioni, in genere più alte e imponenti. L’esempio più espressivo è costituito dalla chiesa di Ravanica. Un possibile itinerario tra i più indicativi complessi della regione Trans romanica nel centro-sud della Serbia inizia dal monastero di Zica, non lontano dalla cittadina di Kraljevo, fondato nel 1207 dal primo sovrano serbo, padre di San Sava, primo arcivescovo della chiesa ortodossa; le tinte rossastre della chiesa richiamano la tradizione del Monte Athos greco,

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In basso, uno scorcio del fiume Sava. A pagina 87, Monastero Sapocani; Monastero di Studenica.

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dove San Sava divenne monaco; i pregevoli affreschi interni furono realizzati tra XIII e XIV secolo. Si prosegue per il monastero fortificato di Studenica, sito UNESCO eretto nel 1186 da re Stefan Nemanja che, abbandonato il trono, si

era fatto monaco. L’edificio principale è costituito dalla chiesa di Nostra Signora, considerata “la madre di tutte le chiese serbe” per i suoi marmi bianchi e la qualità degli affreschi bizantini, che la rendono unica nel suo genere. Si prosegue per

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Gradac, costruito alla fine del XIII secolo in cima ad un altopiano; durante il periodo ottomano restò per secoli disabitato e privo di tetto, per cui le condizioni interne non sono proprio ottimali, ma merita ugualmente una visita per il pregevole affresco della

Natività, miracolosamente sopravvissuto al degrado. Lungo la strada, una sosta al complesso fortificato di Durdevi Stupovi, la cui chiesa dedicata a San Giorgio, che si vede spoglia e vuota, i pezzi migliori sono stati trasferiti

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al museo nazionale di Belgrado. Rimane ugualmente importante la sua costruzione, risalente al 1170, che ha inaugurato lo stile romanico che caratterizza l’architettura ecclesiastica della Serbia fino al 1300, la cosiddetta scuola di Ras. ▣

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La Frisia olandese: tra acqua e cielo Capitale Europea della Cultura 2018, Leeuwarden, piccolo capoluogo della Frisia olandese, ci invita a visitare questa terra insolita, lontana dalle rotte consuete. di Franca Dell’Arciprete Scotti Foto di Franca Dell’Arciprete Scotti e Archivio Friesland

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n’ottima occasione per programmare un viaggio nella Frisia Olandese. Proprio quest’anno è stata nominata Capitale Europea della Cultura Leeuwarden, il suo piccolo capoluogo. La cultura è il motore di Leeuwarden-Frisia 2018, che punta a dimostrare che il coraggio e l’originalità sono essenziali per fare crescere i propri sogni, gesti e diversità a livello internazionale. Portare cambiamenti nella provincia, nel Paese e nell’Europa per passare da una comunità a una comunità aperta. Questo il tema dominante nel calendario degli eventi. Riunendo artisti, scienziati, agricoltori, frisoni orgogliosi e visitatori pieni di idee, la Capitale Europea della Cultura contribuisce a ricostruire il mondo per farne una comunità aperta (“iepen mienskip” in lingua frisone).

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Tra le proposte che maggiormente possono interessare un pubblico italiano è la mostra “Escher in Viaggio”, presso il Fries Museum. Le sue creazioni sono note in tutto il mondo: le riproduzioni delle sue incredibili immagini sono affisse in camere di adolescenti, esercizi pubblici e abitazioni private. Le opere di Escher sono vere e proprie icone e sono oramai divenute parte integrante della memoria collettiva di tutta l’umanità. Chi non conosce gli uccelli e le salamandre, le scale e i cubi disegnati da Escher? Senza dimenticare che a Leeuwarden è nata, oltre ad Escher, anche la celebre spia Mata Hari. Nel centro città, che si visita facilmente a piedi, non si

possono perdere la Kanselarij o Cancelleria, il Waag, l’antico centro del commercio cittadino e la famosa torre pendente Oldehove, più inclinata della Torre pendente di Pisa. Bellissimo, in coincidenza con la Festa dell’Ascensione, il più grande mercato dei fiori dei Paesi Bassi. L’aureola di celebrità di cui gode Leeuwarden quest’anno sarà dunque l’occasione per andare alla scoperta della Frisia, una delle 12 province dei Paesi Bassi, una regione tra le meno note d’Olanda, che la Guida Lonely Planet ha inserito tra le mete Best of Europe. Forse perché collocata nel nordovest, sul Mare del Nord, lontano dalle rotte consuete. Per goderla a pieno non tappe forzate, né ritmi

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frenetici. Tutt’altro. Se c’è una regione che vuole un “turismo slow” è proprio questa. D’altronde qui le esperienze si devono vivere personalmente, immergendosi in questo incredibile paesaggio. Come tutta l’Olanda, anche la Frisia è una regione sospesa tra terra ed acqua. Basti pensare che solo qui ci sono 3000 chilometri di canali navigabili. In particolare è sorprendente, e forse unica, l’esperienza del cosiddetto “wadlopen” o camminata nel terreno scivoloso. Nel Waddenzee, Mar Frisone Occidentale, due volte al giorno, ogni sei ore, la corrente delle maree porta l’acqua del Mare del Nord, ricca di sedimenti e plancton.

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INFORMAZIONI Un museo dedicato alla Frisia II Fries Museum nella città di Leeuwarden, capoluogo della Frisia, con diverse mostre, intende far conoscere l’arte, la storia e la cultura del popolo dei Frisoni e della Frisia, un vero e proprio “Paese nei Paesi Bassi”. Web www.vivalafrisia.it, www.frieslandtravel.com, www.holland.com Si può optare per un viaggio in treno, organizzando il proprio Interrail con la rete capillare europea di Eurail Group: https://eurailgroup.org

Quindi il paesaggio cambia radicalmente: prima un terreno fangoso, pieno di presenze animali e vegetali da osservare accuratamente con curiosità, poi una distesa d’acqua che cresce rapidamente. Come in tutti i luoghi

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dominati dalle maree, anche il Waddenzee richiede una conoscenza accurata per evitare inconvenienti spiacevoli. Fondamentale ricorrere alla compagnia di guide specializzate sia per seguire un tracciato adatto, sia per capire bene i segreti

di questo ambiente che fa parte del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 2009. È anche fondamentale ovviamente l’abbigliamento adatto: stivaloni da pescatore e pantaloncini. La presenza costante dell’acqua nel panorama frisone e olandese in generale favorisce tutti gli sport acquatici, canoa, barca a vela, windsurf. Nel sud della Frisia, ad esempio, laghi, porticcioli, canali sono affollati di alberi maestri e vele al vento, scafi snelli e battelli panciuti, motoscafi e barconi da pesca delle aringhe. Qui il paesaggio è molto più rasserenante e tranquillo rispetto ai mutamenti repentini e un po’ inquietanti del Waddenzee. Lunghissime piste ciclabili lungo i canali, mulini a vento, tulipani e prati verdi: quasi un

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idillio, punteggiato da mucche pezzate e pecore lanose. Non aspettiamoci in Frisia grandi città e monumenti solenni. Ma gioiellini di piccole dimensioni, cittadine romantiche, da percorrere in un pomeriggio a piedi con facilità. Tra tutte spicca la deliziosa Sloten, una delle undici città storiche della Frisia. Si vanta di essere la più piccola città fortificata del mondo, e una delle più antiche d’Olanda, costruita nell’undicesimo secolo. Dal punto di vista architettonico è stata definita “la città ideale” per la sua forma perfetta. Un tempo, verso il quindicesimo secolo, fu particolarmente ricca e importante perché collocata sulle vie commerciali di terra e di acqua, prima della costruzione delle dighe che ampliarono la terra olandese.

Infatti, rappresentava un punto d’accesso allo Zuiderzee per la città di Sneek. Si potrà scoprire, magari con una guida locale in costume d’epoca, un orizzonte romantico di case rosse con frontoni a gradini, formelle con lo stemma cittadino sulle facciate a volute, insegne storiche, graffiti sulle mura, fiori, il meraviglioso Mulino a vento De Kaai del 1700. Ed eccoci a Sneek, città di pirati e marinai, dove il must imperdibile per tutti i fotografi sarà la Waterport, Porta sull’Acqua, celebre ponte fortificato. Certo, spesso in Olanda ci accolgono scrosci di pioggia, ma se siamo fortunati e splende il sole, Sneek sarà una visione indimenticabile. Una curiosità: a Joure, la città del caffè, c’è ancora una fabbrica del 1700 affacciata sul canale dove attraccavano

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le barche che portavano il caffè dalle colonie olandesi dell’Estremo Oriente. E anche la fabbrica degli zoccoli Scherjon sarà una meta da inserire nel nostro lento, piacevole itinerario. Si trova a Noardburgum ed è unica in tutta la Frisia. Anticamente gli zoccoli erano fatti a mano, ricavati dal legno di pioppo o di salice. Oggi invece si usa una macchina speciale del 1840. Bellissima la lavorazione per decorare gli zoccoli: sulla vernice lucida vengono impressi i timbri con i decori tradizionali. Accanto alla fabbrica una curiosità storica: il piccolo museo sulle calzature in legno conserva anche i modelli usati da principi e nobili di tutta Europa e le riproduzioni dei quadri fiamminghi che testimoniano l’utilizzo degli zoccoli di legno nei Paesi Bassi. ▣

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Olio extra vergine di

oliva, istruzioni per l’uso Una corretta informazione e presentazione per riconoscere il prodotto di qualità e la zona di origine. di Francesco Bruzzese

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nfatti, per esempio, come si può evincere dall’etichetta, la maggior parte dell’olio in commercio è una miscela di oli provenienti da vari Paesi (quasi metà dell’olio venduto in Italia proviene dall’estero). L’olivicoltura italiana non riesce a soddisfare la domanda del settore che, tra fabbisogno interno ed

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estero, ammonta a 1 milione di tonnellate; molti oli sono costituiti da blend che formano una miscela di oli UE e non UE). L’etichetta può guidare il consumatore verso extra vergine di oliva italiano. Indicazioni come olio nuovo, olio novello e simili non rappresentano una garanzia, e neppure l’olio dichiarato non filtrato rappresenta migliore

qualità, in quanto tende ad alterarsi prima. L’etichetta offre altre preziose informazioni: l’indicazione della campagna di raccolta può essere indicata se il 100% del prodotto è della stessa annata. Il sistema di estrazione tradizionale per pressione non è il migliore, mentre i sistemi di estrazione a centrifugazione (decanter)

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possono produrre oli di migliore qualità. Il colore dell’olio non determina la qualità e comunque va dal verde al giallo; è meglio salvaguardato se contenuto in bottiglie di vetro scuro e con tappo antieffrazione e antirabbocco.

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ategorie dell’olio e denominazione di vendita

L’olio di oliva per la vendita al consumatore finale viene classificato per legge nelle seguenti tipologie e la denominazione deve essere completata obbligatoriamente con le informazioni sulla categoria di olio: - Olio extra vergine di oliva: “Olio di oliva di categoria superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici” A GROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E

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acidità < 0,8 g; - Olio di oliva vergine: “Olio di oliva ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici” - acidità < 2 g; - Olio di oliva composto da oli di oliva raffinati e da oli di oliva vergini: “Olio contenente esclusivamente oli di oliva che hanno subito un processo di raffinazione e oli ottenuti direttamente dalle olive” acidità < 1 g; - Olio di sansa di oliva: “Olio contenente esclusivamente oli derivati dalla lavorazione del prodotto ottenuto dopo l’estrazione dell’olio di oliva e oli ottenuti direttamente dalle olive” - acidità <1g.

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one di origine dell’olio

La designazione dell’origine è obbligatoria sull’etichetta

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dell’olio extra vergine di oliva e dell’olio vergine di oliva, mentre la designazione dell’origine è vietata sull’etichetta delle altre categorie di olio di oliva (Olio di oliva e Olio di sansa di oliva). La designazione dell’origine comprende unicamente: a) nel caso di oli di oliva originari di uno Stato membro o di un Paese terzo, un riferimento o allo Stato membro (non può essere indicata la zona specifica), all’Unione Europea o al Paese terzo; b) in caso di miscele degli oli vergini non estratti in unico Stato membro o Paese terzo figura la seguente indicazione: - miscela di oli di oliva originari dell’Unione Europea; - miscela di oli di oliva non originari UE; - miscela di oli di oliva

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originari UE e non originari UE. La designazione dell’origine che indica uno Stato membro o l’UE corrisponde alla zona geografica di raccolta di olive e in cui è ubicato il frantoio di estrazione dell’olio*.

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li oli DOP e IGP

La dichiarazione dell’origine per le denominazioni di origine protetta (n. 42 DOP) o di

un’indicazione geografica protetta (n.4 IGP) ai sensi del Regolamento CE n. 510/2006, è quella prevista dal relativo disciplinare di produzione (art. 4 lett. c) del Reg. CE n. 182/2009. Il rispetto di tali regole viene garantito dall’Organismo di Controllo, che effettua la tracciabilità dei prodotti con il riscontro dei parametri analitici e sensoriali. Anche gli oli biologici devono rispettare alcuni parametri di legge sotto il controllo degli Organismi di Controllo.

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ndicazioni facoltative in etichetta

Oltre alle diciture obbligatorie, è disciplinato l’uso di indicazioni aggiuntive - indicazioni facoltative: a) “prima spremitura a freddo” si può riportare in etichetta soltanto in presenza di oli di oliva vergini ed extravergini ottenuti a temperature inferiori a 27 °C con spremitura meccanica delle olive e sistema tradizionale con presse idrauliche;

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b) ”estratto a freddo” oppure “ottenuto a freddo” oppure “prodotto a freddo” si può riportare in etichetta soltanto se gli oli vergini ed extra vergini di oliva vengono ottenuti a temperature inferiore a 27 °C con un processo di percolazione o centrifugazione delle paste delle olive (decanter). L’indicazione dell’acidità o dell’acidità massima (quantità di acidi liberi) può figurare in etichetta unicamente se accompagnata dalla menzione (se con le stesse dimensioni di carattere e nello stesso campo visivo): - dell’indice dei perossidi (ossidazione dell’olio che causa irrancidimento); - del tenore delle cere e dell’assorbimento nell’ultravioletto (che consentono di quantificare

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i diversi prodotti di ossidazione dell’olio a due specifiche lunghezze d’onda) determinati a norma del Reg. CE n.2568/91 (K 232, K 270 e Delta K). L’«olio extra vergine di oliva» e l’«olio di oliva vergine» messi a disposizione dei clienti dei pubblici esercizi devono essere: - confezionati ed etichettati conformemente alla normativa vigente; - in contenitori della capacità massima 5 litri; - forniti di tappo antirabbocco; - provvisti di un sistema di chiusura che perde la sua integrità dopo la prima utilizzazione. È opportuno ricordare che è vietata la vendita di olio allo stato sfuso nei ristoranti, nelle

mense e in altri locali pubblici per il consumo diretto. Gli oli destinati al consumo nelle cucine dei ristoranti, ospedali, mense o altre collettività simili possono invece essere venduti in imballaggi di capacità non superiore ai 25 litri.

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e caratteristiche organolettiche (analisi sensoriali)

È possibile riportare in etichetta dell’«olio extra vergine di oliva» o dell’«olio di oliva vergine» le caratteristiche organolettiche relative al gusto e/o all’odore. Per poterlo fare occorre aver superato il «panel test» secondo il metodo previsto all’Allegato XII del Reg. CEE n. 2568/91, che attesti che quel lotto di

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olio ha quella particolare caratteristica organolettica. Tali caratteristiche possono figurare esclusivamente se sono basate sui risultati di un metodo di analisi certificato da un Capo Panel riconosciuto. In particolare, nell’ambito degli attributi positivi esposti in etichetta, possono figurare: - fruttato, amaro e piccante, in funzione dell’intensità della percezione;

- fruttato verde o fruttato maturo; - intenso, mediana dell’attributo superiore a 6; - medio, mediana dell’attributo compresa fra 3 e 6. Si possono omettere i riferimenti all’intensità con mediana pari o superiore a 3. Altri termini che si possono attribuire sono: equilibrato e olio dolce. Tutti i parametri chimico-

fisici e sensoriali sono in continua revisione da parte del Consiglio Oleicolo Internazionale (COI) con sede a Madrid, massimo organismo di tutela e promozione dell’olio da olive nel Mondo e da parte dell’Unione Europea; il tutto è finalizzato al miglior controllo della qualità ed al rispetto delle norme a tutela del consumatore. L’Unione Europea provvede ad aggiornare la normativa con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE dei Regolamenti di Esecuzione.

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omposizione dell’olio di oliva

L’olio di oliva dal punto di vista chimico si compone di due frazioni: 1) la frazione gliceridica: l’olio di oliva è chimicamente costituito, per la quasi totalità, da trigliceridi (98-99,5 %), esteri della glicerina con acidi grassi, la cui composizione media è rappresentata da acidi grassi saturi (16% circa, tra cui predomina il palmitico), acidi grassi monoinsaturi (dal 55 all’83 % con prevalenza dell’acido oleico) e acidi grassi polinsaturi (circa il 9% con prevalenza di acido linolenico e limitate quantità di acido linoleico). 2) la frazione insaponificabile: oltre ai trigliceridi, l’olio di oliva contiene altri composti che, seppur presenti in minima quantità (1-2% del A GROAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E

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totale), influiscono in maniera determinante sulla qualità merceologica, nutrizionale ed organolettica. Sono compresi più di 200 composti diversi presenti in concentrazioni variabili, sostanze con valore terapeutico, nutrizionale, responsabili della nota

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aromatica dell’olio (profumi e sapori) e antiossidanti naturali. Vi si riscontrano anche altre sostanze, quali: - idrocarburi: contribuiscono al profumo dell’olio, ma sono anche i composti che ci avvertono della presenza di un eventuale difetto dell’olio

durante l’analisi del Panel Test (analisi sensoriale); - tocoferoli: il più importante composto dei tocoferoli, per attività biologica, è l’alfa- tocoferolo, cioè la vitamina E, dotato di un forte potere antiossidante, soprattutto verso gli acidi grassi polinsaturi che tendono facilmente ad ossidarsi; - alcoli: gli alcoli sono molecole molto volatili, infatti evaporano a basse temperature e caratterizzano l’odore di un olio. Sono molto labili chimicamente, per cui le olive stramature e l’olio invecchiato tendono a perdere gli odori; - pigmenti colorati: il colore dell’olio dipende dalla presenza di clorofille e carotenoidi che possono

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trovarsi nell’olio in proporzioni variabili. Il colore dell’olio non rappresenta un indice di qualità dell’olio. Gli oli di qualità possono variare dal verde intenso al giallo paglierino. La presenza di colorazioni anomale (rossiccio o bruno) rappresenta un’alterazione del livello qualitativo. - steroli: gli oli hanno una composizione percentuale della frazione sterolica diversa per ciascuna specie di oli. Nell’olio di oliva prevale la frazione del Beta-sitosterolo. I vari componenti svolgono funzioni di antiossidanti naturali, ed inoltre accertano la genuinità del prodotto poiché la frazione sterolica è diversa per ogni specie oleaginosa (sono come l’impronta digitale per identificare sostanze grasse di origine diversa);

- polifenoli: sono i composti che prevengono le reazioni di ossidazione a carico degli acidi grassi e quindi contribuiscono alla stabilità dell’olio, ritardandone l’irrancidimento. I polifenoli inoltre contribuiscono alla nota amara (Oleuropeina) e piccante (ligstroside) degli oli freschi. La loro presenza è maggiore all’inizio dell’invaiatura che si degrada nel tempo. La presenza dei polifenoli consente all’olio di resistere all’ossidazione dei grassi ossidandosi al posto degli acidi grassi.

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ualità nutrizionali

L’olio di oliva è un prodotto straordinario per l’alimentazione e la salute umana, il più indicato e

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prezioso in quanto regola il metabolismo, aiuta l’accrescimento, riduce adeguatamente il colesterolo cattivo LDL ed innalza il colesterolo buono HDL (a tal proposito i medici consigliano l’assunzione al giorno di 4 cucchiaini di olio di oliva in quanto l’olio crudo non ha nessun tipo di controindicazioni, anzi abbiamo già visto come l’acido linoleico possa esser di beneficio, sostanza che si trova anche nel latte materno, ha anche un’importante funzione antiossidante limitando l’invecchiamento cellulare). L’acido linoleico (omega 6) e l’acido linolenico (omega 3) sono definiti acidi grassi essenziali in quanto l’organismo umano non è in grado di sintetizzare ma devono essere assunti con la dieta.

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Rispetto a tutti gli altri oli di semi, l’olio di oliva non solo non è pesante ma è da ritenersi il più digeribile di tutte le sostanze grasse. Altre caratteristiche dell’olio di oliva sono il discreto contenuto in vitamina A e la presenza di vitamina E (tocoferoli) già indicata nella composizione dell’olio extra vergine di oliva. Gli oli di oliva vanno preferibilmente usati a crudo, ma si comportano ottimamente anche nelle cotture a fuoco moderato e per friggere. Tutti gli oli (compresi quelli di semi) sottoposti a trattamenti termici energici (cottura e frittura a temperature elevate) si alterano con perdita di valori nutritivi e formazione di composti tossici (acroleina). Gli oli di oliva per il basso contenuto in acidi grassi polinsaturi, sono fra i più adatti per le fritture, avendo cura di: • utilizzare se possibile sempre olio di oliva (meglio se extra vergine); • non riciclare l’olio per successive fritture; • asciugare bene gli alimenti da friggere; • evitare temperature oltre i 180° con fiamme troppo violente (utilizzare friggitrici con termostato); • non usare quantitativi limitati di olio per friggere, ma deve essere abbondante affinché i cibi vi possano letteralmente “nuotare”;

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T E M P E R AT U R A / A L I M E N T I Media 130-145°C

Alimenti ricchi di acqua: verdure, patate

Elevata 155-170°C

Alimenti fritti in pastella infarinati o impanati

Molto elevata 175-190°C

Alimenti piccoli, frittura rapida

• il cibo va tuffato nell’olio ben caldo a piccole dosi e fritto da entrambi i lati; • aggiungere il sale e le spezie agli alimenti solo dopo la frittura e non durante, in quanto accelerano l’alterazione dell’olio; • controllare l’eventuale alterazione dell’olio come imbrunimento, formazione di schiuma abbondante e di fumo; • l’olio non deve comunque rimanere sul fuoco più di 20 minuti; • evitare la pratica della

ricolmatura (aggiunta di olio fresco all’olio usato); • a frittura ultimata il cibo deve essere scolato e posto su carta assorbente per perdere l’unto in eccesso; • i cibi fritti devono presentarsi “dorati” e non carbonizzati, infatti la superficie dell’alimento fritto non deve essere mai bruciata o annerita; • i medici raccomandano di non eccedere nell’utilizzo di cibi fritti. Usato alla temperatura giusta,

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1) Spagna 1,2 milioni t. (export 1 milione t.) (consumo 492.000 t. in parte importati); 2) Italia 432.000 t. (export 329.000 t.) - (import 531.000 t.) - (consumo 535.000 t.); 3) Grecia 300.000 t. (export 138.000 t.). Pertanto, nonostante la produzione non soddisfi la domanda, l’Italia è il primo consumatore mondiale di olio di oliva, il secondo produttore e il secondo esportatore (Fonte: Ismea 2018). La produzione mondiale di olio di oliva è di 2,9 milioni di tonnellate, con forti aumenti di produzione per i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, mentre gli USA sono il terzo consumatore al mondo con 308.000 di tonnellate.

l’olio di oliva è il grasso ideale per friggere; se non viene surriscaldato, l’olio mantiene sostanzialmente invariata la sua struttura e conserva tutte le sue proprietà. Infine, appaiono importanti gli studi di Varela sulla cinetica della penetrazione dell’olio di oliva negli alimenti nel corso della frittura. Dagli studi si è dimostrato che l’olio di oliva non penetra nell’alimento,

restando in superficie, mentre gli altri oli penetrano quasi totalmente.

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numeri dell’olio in Italia e nel mondo

Superficie ad oliveti in Italia: 1,1 milioni di ettari (circa 900.000 aziende olivicole). Produzione mondiale 2017, maggiori produttori:

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L’olio extra vergine di oliva, oltretutto, ha costituito il modello, poi adottato anche nel settore vitivinicolo, per la gestione mediante registro telematico di carico e scarico oli, che ha consentito di contrastare efficacemente frodi e irregolarità, tramite il portale SIAN del Mipaaft. ▣ (*) Qualora le olive siano state raccolte in uno Stato membro o un Paese terzo in cui è situato il frantoio nel quale è stato estratto l’olio, la designazione dell’origine sarà la seguente: “OLIO VERGINE O EXTRA VERGINE DI OLIVA OTTENUTO IN (Paese dove è ubicato il frantoio) DA OLIVE RACCOLTE (Paese di produzione delle olive)”.

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Finocchiona IGP e birra artigianale, un viaggio sensoriale tra le terre di Toscana

Un panino con la finocchiona e una bella birra fresca sono il miglior modo per promuovere un prodotto adatto alla convivialità e all’incontro. di Nicoletta Curradi

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al Medioevo ad oggi la finocchiona ha sempre rappresentato la Toscana. Colori, odori e sapori raccontano la storia del territorio, mentre si assaggia una fetta di finocchiona dal colore vivace e dal profumo intenso di fiori di finocchio. La regina della gastronomia toscana nasce dalle migliori carni italiane, dalle spezie, dagli aromi naturali. La ricetta originale è ancora seguita oggi dalle 44 aziende del Consorzio di Tutela della Finocchiona IGP. La nascita della finocchiona risale appunto all’età di

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è regolamentata da un disciplinare e l’ingrediente principale è la carne suina, cui si aggiungono sale, pepe, aglio e fiori e semi di finocchio. Si può anche aggiungervi il vino. Seguono poi l’insaccatura e la stagionatura. Il suo sapore speziato e fresco stimola le papille e secondo un antico proverbio faceva dimenticare i difetti del vino servito dagli osti. Da qui è nato il verbo Infinocchiare. La finocchiona è ottima con il pane toscano, che è “sciocco,” cioè senza sale: duo irresistibile da servire su tagliere di legno, anche con formaggi e prosciutto sempre toscano. Gli chef oggi la utilizzano in numerose ricette per preparare ragù, insalate e piatti di carne.

mezzo, quando i sapienti norcini toscani vollero creare un salume senza pepe, spezia considerata di lusso. Il pepe fu sostituito dal fiore e dal seme di finocchio e conquistò tutte le osterie e tutte le tavole toscane, anche quelle nobiliari. Niccolò

Machiavelli l’amava tanto e la mangiava spesso. Fin dal 1875 è citata nel vocabolario della lingua parlata. Nel 1889 è stata riconosciuta dal vocabolario dell’Accademia della Crusca e nel 1956 è stata inserita nella Treccani. La ricetta tramandata

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Abitualmente il panino con la finocchiona viene accompagnato al bicchiere di vino rosso, anch’esso tipico toscano. E infatti spesso i due consorzi della Finocchiona IGP e del Chianti Classico si sono uniti per eventi e attività promozionali. Ma un giorno, qualche tempo fa, il Direttore del Consorzio, Francesco Seghi, che non aveva mai bevuto birra prima, è andato a Monaco di Baviera e là ha assaggiato per la prima volta la bionda bevanda. Ne è rimasto così entusiasta che ha voluto provare ad abbinare la birra alla finocchiona. Il risultato è stato sorprendente e si è messo

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quindi alla ricerca di una birra toscana ed ha trovato una delle migliori nella zona di Vitiano, nell’Aretino, che è la provincia in cui si produce più

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finocchiona. La birra è ottenuta dal matrimonio tra orzo dorato e i luppoli più pregiati, coltivati in proprio a chilometro

zero. Solo i migliori, infatti, vengono raccolti quando hanno raggiunto ciascuno il giusto grado di maturazione. Un’alchimia perfetta resa tale da un piccolo segreto: il controllo esperto di tutta la filiera produttiva; per conferire alla birra un aroma unico e intenso. “La Finocchiona IGP e la birra artigianale – hanno spiegato Alessandro Iacomoni e Francesco Seghi, rispettivamente Presidente e Direttore del Consorzio – sono una coppia perfetta. Siamo partiti da questa convinzione per costruire un binomio nel quale crediamo molto e che ben si adatta alla bella stagione. Un panino con la finocchiona e una bella birra fresca, magari consumati in qualche angolo suggestivo della Toscana, sono il miglior modo per promuovere un prodotto adatto alla convivialità e all’incontro. Quello delle birre artigianali è un mondo affascinante e tutto da scoprire. Da tradizione il nostro salume si sposa al meglio con il vino e con altri prodotti tipici del nostro territorio, ma siamo certi che la Finocchiona IGP possa e debba percorrere anche strade nuove e meno battute, come quelle sicuramente gustose legate alle birre artigianali”. ▣ Info: www.finocchionaigp.it www.birrasangirolamo.it

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È di nuovo tempo di porcini

Autunno e funghi, un binomio irresistibile per tutti gli appassionati - gastronomi o cercatori che siano - di questi piccoli tesori del bosco che proprio in questo periodo dell’anno sono più abbondanti. Testo e foto di Enza Bettelli

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l grande caldo è ormai passato e le piogge dell’autunno mantengono nei boschi la giusta umidità e rendono l’habitat naturale

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ancora più favorevole alla crescita dei funghi. In realtà, grazie alle innumerevoli varietà esistenti, già a primavera si possono raccogliere nei prati i primi

funghi, ma per la maggior parte di essi, tra cui il porcino che è la preda ambita da ogni cercatore, il clou è a settembre-ottobre, tra estate e autunno. Il porcino per

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antonomasia, il Boletus edulis, è reperibile in questo periodo, così come le altre varietà ugualmente pregiate: il Boletus aereus, tipico soprattutto delle regioni meridionali, e il Boletus pinicola, dall’inconfondibile cappello bruno-violaceo e taglia massiccia. Tuttavia, se le condizioni atmosferiche sono favorevoli, già da maggio-giugno si può scorgere soprattutto ai margini dei sentieri il vellutato cappello nocciola spesso solcato dalle tipiche screpolature del Boletus reticulatus. La famiglia dei boleti è numerosa e comprende altre varietà, meno pregiate ma non per questo meno ricercate, anche se molti preferiscono non cogliere questi funghi perché preoccupati dal colore poco rassicurante di alcuni, come il Boletus erythropus dal cappello e tuboli mattone e carne che diventa blu al taglio, così come quella del Boletus luridus. Diventano scuri al taglio anche l’elegante Boletus aurantiacus, dal cappello di varie tonalità di arancio, e il Boletus carpini il cui cappello tende invece al grigio. Oltre ai boleti “buoni” ce ne sono alcuni che non sono commestibili e tra questi uno dei più diffusi è il Boletus felleus, che si può confondere con l’aereus e il reticulatus ma è amarissimo e infatti viene chiamato anche porcino A G R OAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E

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A pagina 109, Boletus Edulis, Boletus Reticulatis, Boletus Erythropus. A sinistra, Porcini essiccati; porcini tagliati. A destra, Boletus Scaber; Boletus aurantiacus. A pagina 112, Porcini grigliati.

del fiele. Da non cogliere mai è invece il Boletus satanas, velenoso, riconoscibile per il cappello molto chiaro, tuboli rossi e gambo il cui colore è giallo e man mano rosso scendendo verso il piede, con reticolo rosso sangue, odore leggero ma non certo grato.

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ndar per boschi

E’ davvero grande l’emozione che si prova quando si scorge il cappello di un porcino che

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all’improvviso occhieggia tra le foglie o in mezzo al muschio o vicino alla base di un albero. Un vero e proprio regalo a sorpresa che il bosco ci fa ma che bisogna anche un po’ meritarsi tenendo presenti alcune semplici ma indispensabili regole. Prima fra tutte, il rispetto della natura: entrare in un bosco è come entrare in casa altrui, quindi i frutti che essa ci offre vanno colti con discrezione e senza lasciare incivili tracce del nostro passaggio. Questo perché altri possano godere della bellezza e dei

doni del bosco, e anche per noi quando ritorneremo negli stessi luoghi. Ogni volta che si coglie un fungo si altera il tessuto micelico del terreno e a lungo andare la fungata diventa sempre più scarsa e a rischio di esaurirsi. Bisogna quindi pulire sommariamente sul posto i funghi appena raccolti, in modo che le spore del cappello possano spargersi sul terreno: una specie di semina a lungo termine. Perché ciò accada, non andrebbero mai colti funghi molto piccoli e con

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CARTE IN REGOLA Prima di addentrarsi nei boschi per la ricerca dei funghi è indispensabile informarsi presso il Comune competente

sulla regolamentazione relativa (orari, quantità, metodo di raccolta) e richiedere l’eventuale permesso.

il cappello ancora chiuso e appena accennato; questo anche per ragioni di sicurezza poiché più il fungo è piccolo più difficile è riconoscerne la specie e quindi la commestibilità. Anche i funghi troppo maturi non andrebbero colti, perché il più delle volte sono invasi dalle larve e probabilmente non più commestibili. I funghi vanno quindi riposti in un cesto a fondo largo da ricoprire con foglie di felce che li proteggeranno dall’attrito permettendo allo stesso tempo all’aria di circolare, mantenendoli freschi più a lungo durante il trasporto. Assolutamente da evitare, invece, i sacchetti di plastica che oltre a impedire alle spore di disperdersi surriscaldano i funghi e li fanno fermentare rendendoli il più delle volte inutilizzabili una volta a casa.

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n negozio

Gli estimatori più esigenti preferiscono procurarsi personalmente i funghi per poterli gustare appena colti, quando sono ancora A G R OAL I ME N T ARE N AZ I ONAL E

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PER ESSERE SICURI Tra le molte migliaia di varietà di funghi conosciuti molti sono commestibili, altrettanti non lo sono, altri sono tossici o velenosi e pochi mortali. Per evitare spiacevoli inconvenienti quando non si è veri conoscitori è meglio fare controllare il proprio raccolto prima di consumare

freschissimi e con il loro particolare aroma ancora intatto. Infatti, i funghi e i porcini in particolare perdono rapidamente questa loro importante caratteristica, come si può constatare acquistandoli in negozio dove arrivano dopo un viaggio più o meno lungo e l’inevitabile permanenza in frigorifero. I porcini vengono convogliati sui mercati delle grandi città un po’ da tutta Italia e soprattutto dalle regioni

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i funghi. Ci si può rivolgere agli esperti dell’Ufficio d’Igiene locale o presso i Mercati Generali delle grandi città, gli stessi che compilano il certificato di controllo obbligatorio per tutti i funghi messi in vendita nei negozi, mercati e supermercati.

dove sono più abbondanti: Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Calabria. Ne importiamo comunque in grandi quantità da vari Paesi Europei che ne sono ricchi come la Spagna, ma anche dell’Est, soprattutto Romania e Polonia. Qualunque sia la provenienza, ogni confezione deve essere corredata dal certificato di provenienza e commestibilità rilasciato dall’Ufficio d’Igiene competente.

Ovviamente, prima di acquistarlo, non è permesso tastare o aprire il porcino per controllare se l’interno è bianco e sano e perciò per la freschezza ci si deve affidare a un attento esame visivo. I porcini debbono essere ben sodi, senza evidenti tracce di danni causati dalle larve. Il colore del cappello non è molto indicativo perché cambia a seconda della varietà, dell’habitat in cui il porcino è cresciuto, del grado

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In questa pagina, Polenta e funghi; Boletus Felleus. A pagina 114, Boletus Edulis.

di maturazione e del tempo atmosferico al momento della raccolta. Ma se il colore può passare dal beige al violaceo al quasi nero senza problemi, l’aspetto deve comunque essere asciutto ma non secco né tantomeno il fungo deve essere intriso di pioggia. Il colore dei tuboli del cappello va dal bianco al giallo-crema al verde chiaro che diventa sempre più intenso a mano a mano che il fungo matura e invecchia. Se questa

“barba” fosse verde molto scuro o bagnata il fungo è probabilmente troppo maturo e potrebbe essere guasto all’interno.

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n cucina

La prima pulizia è per il gambo del porcino che va raschiato con un coltellino per asportare tutto il terriccio, quindi si spazzola il cappello con un pennello morbido da cucina e infine

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si ripassa con una pezzuola umida, cambiandola fino a quando non ci saranno più tracce di sporco. La pulizia deve essere accurata ma i porcini non andrebbero lavati e in ogni caso mai lasciati in ammollo perché perderebbero profumo e consistenza. Si asportano quindi tutte le parti guaste o intaccate da larve, tagliandole via generosamente per non lasciarne nessun residuo. Se la barba fosse molto verde, spessa e bagnata è meglio asportarla, ma se fosse spessa ma asciutta la si può assottigliare tagliando via la parte più esterna. Non va invece asportata la cuticola che darà più aroma alla pietanza cucinata. Infine si taglia il fungo e se l’interno non fosse bianco e non si possono asportare le parti eventualmente guaste bisogna purtroppo scartarlo. A questo punto si fa la

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L’ I M P O R TA N Z A D E L L A F R E S C H E Z Z A I funghi sono costituiti per circa il 90% acqua e danno perciò un modesto apporto nutritivo. Sono però ricchi di fibra e purine che li rendono indigesti se consumati in quantità eccessiva, soprattutto a crudo, o se non sono perfettamente sani o se troppo maturi.

selezione per le varie preparazioni: i porcini molto piccoli e sodi per la conservazione sott’olio o da mangiare crudi in insalata; quelli medi ma comunque sodi per contorni o trifolati; grossi e maturi per umidi, sformati e per l’essicazione. Il taglio sarà infine molto

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Potrebbero infatti sviluppare delle tossine creando gli stessi problemi di quelli non commestibili. Inoltre, anche i porcini sono molto deperibili e andrebbero consumati appena acquistati o entro un paio di giorni dal momento della raccolta.

sottile per le insalate a crudo, leggermente più spesso se i porcini saranno trifolati da servire come contorno con la polenta o altre pietanze o per condire le tagliatelle; più spesse per i funghi da essiccare. Fettine decisamente consistenti e cappelli interi per la cottura

alla griglia. Interi o divisi a metà i piccoli porcini da conservare sott’olio. I funghi puliti vanno cotti subito, ma in mancanza di tempo o in caso di quantità consistenti da cucinare in più volte si possono conservare per 1-2 giorni in un luogo fresco, asciutto e arieggiato, preferibilmente non in frigorifero. Per conservarli più a lungo e in frigorifero si fanno cuocere i porcini affettati a fuoco basso e a recipiente coperto con pochissimo olio, senza sale (che estrae l’acqua di vegetazione) per pochi minuti, solo giusto il tempo perché le fettine inizino ad ammorbidirsi. Questo è un ottimo sistema anche per congelare i porcini che manterranno così buona parte del loro aroma. Non è invece consigliabile congelare i porcini a crudo poiché una volta scongelati sarebbero molli e acquosi e con un aroma meno gradevole. ▣

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La Faraona, regina delle tavole Il nome evoca l’Egitto ma i primi a portarla in tavola furono Greci e Romani. La faraona è la regina delle tavole del Centro-Nord, soprattutto a Natale. a cura di Settimia Ricci

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ota per le sue carni delicatamente aromatiche e pregiate, e molto apprezzata anche grazie alla varietà delle ricette, la faraona compare spesso sulle nostre mense, specie nei giorni delle festività natalizie e di fine anno e soprattutto nelle regioni del Centro-Nord della Penisola. Esistono tre specie diverse di gallina faraona. La Meleagris, detta anche faraona comune, che è quella che troviamo nei supermercati e nelle pollerie e che quindi consumiamo più spesso. C’è poi la faraona mitrata così detta a causa della curiosa escrescenza che appare sul suo capo, del tutto simile a una mitria vescovile. E, infine, la faraona cristata chiamata così a causa del ciuffo di piume che ha sulla testa. La maggiore diffusione e il conseguente

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maggior consumo della varietà scientificamente chiamata Numida Meleagris è dovuta anche al fatto che

si tratta di una specie più facile da allevare rispetto alle altre. Detta anche gallina africana, gallina tunisina, o

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gallina d’Egitto, la faraona, in italiano, si chiama così proprio per la sua provenienza dal Nord Africa e in particolare dall’Egitto. Ma in realtà gli Egiziani non facevano uso delle sue carni, come attestano i numerosi disegni e geroglifici rinvenuti nelle tombe dei Faraoni, nei quali sono raffigurati polli e numerosi altri volatili ma non le faraone.

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iffusione

I primi ad allevarla, sia a scopo alimentare sia a scopo religioso per offrirla in sacrificio agli Dei, furono i Greci e, dopo di loro, i Romani. Della faraona in un suo trattato fa cenno, infatti, Ateneo, autore greco. Ma anche Varrone e Columella

parlano delle faraone dette Africane, affermando che questi volatili, provenienti dall’altopiano etiopico nel Sudan e dalle zone lungo il Nilo, o dall’isola di Magadascar, venivano importati a Roma e poi messi ad ingrassare, sia in uccelliera, sia in libertà nelle isole del Tirreno. Inoltre, un Socrate medico vissuto tra il I e il II secolo d. C. racconta che le faraone “africane”, una volta catturate, non si addomesticano e non emettono voce, ma se lasciate di nuovo libere riacquistano la voce. Con le invasioni barbariche però questi uccelli scomparvero quasi completamente dal continente europeo e, infatti, negli scritti dell’epoca non sono mai menzionati. La specie venne reintrodotta intorno al XV secolo dai primi

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navigatori portoghesi che le prelevarono dalle loro colonie nell’Africa Occidentale, in particolare dal golfo di Guinea, e a causa della regolarità dei colori nel loro piumaggio chiamarono la faraona Pintado, cioè dipinto, mentre in inglese la faraona si chiama ancora oggi Guinea fowl. Introdotte quindi dai colonizzatori nel nuovo continente, le galline faraone si adattarono molto bene al nuovo clima riproducendosi in libertà nelle praterie e nelle foreste dove ancora oggi si possono vedere.

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roprietà e caratteristiche

Le carni della faraona domestica sono classificate come carni bianche e inoltre sono magre e ricche di

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poterlo fare ripieno. Dal punto di vista nutrizionale, le carni della faraona sono lievemente più grasse nel muscolo, mentre la pelle è decisamente corposa e questo è il motivo per cui la faraona è frequentemente destinata alla preparazione di un ottimo brodo.
Contiene inoltre abbondanti proteine ad alto valore biologico, acido glutammico, acido aspartico, leucina, lisina, una discreta quantità di ferro, vitamine dl gruppo B, vitamina PP (niacina) e cobalamina (vitamina B12) che è essenziale per la prevenzione di complicanze fetali, cosa che la rende molto indicata nella dieta delle donne in gravidanza.

proteine, con un sapore più aromatico rispetto a quelle del pollo e sono quindi ideali per chi è a dieta. Non contenendo glutine sono consigliabili anche per i celiaci e, quanto al valore nutritivo, ogni 100 grammi di carne di faraona

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contiene 113 calorie nella coscia senza pelle e 107 nel petto. I tagli di carne di faraona che si trovano in commercio corrispondono in genere a quelli del pollo, anche se spesso il volatile viene richiesto intero per

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toria e leggenda

Anche nel caso della faraona, come in quello di altre carni alternative, non manca una delicata leggenda che ne accresce il fascino. Dagli antichi il volatile era infatti

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restano attaccate all’involucro divenuto ormai terracotta. Questo metodo, abbastanza primitivo ma ingegnoso, è ancora in uso nell’Africa orientale, proprio per cuocere le faraone che in quella zona sono ancora oggi molto diffuse.

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ritenuto simbolo dell’amore fraterno. Si racconta che alla morte di Meleagro, Re di Calidone, figlio di Eneo re di Etolia, ucciso nelle lotte scatenate dalla dea Artemide, offesa e adirata per essere stata dimenticata nei sacrifici, le sue sorelle si disperarono e piansero così tanto che gli Dei, per mettere fine ai loro patimenti, le trasformarono in faraone e le piccole e uniformi macchie bianche che risaltano sul fondo scuro del piumaggio altro non sono se non le lacrime delle sventurate fanciulle.

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e ricette

Numerose e deliziose sono le ricette con le quali preparare la faraona. Premesso che la carne necessita di una adeguata frollatura, può essere cucinata in tutte le maniere

in cui vengono preparati il pollo, l’anatra, il tacchino e altri volatili, ovvero: arrosto con le patatine, bollita nel brodo, in casseruola con olive e pomodoro, ripiena sia al forno sia in brodo, all’arancia, e, opportunamente disossata, anche per fare un’ottima galantina. Ma la ricetta regina fra tutte resta quella della faraona in salmì, che presenta numerose varianti a seconda della regione in cui viene preparata, mentre la più antica è quella della faraona alla creta. Entrambe sono squisite ed entrambe meritano di essere provate almeno una volta nella vita. La cottura alla creta consiste nel mettere in forno o su un letto di pietre roventi, un volatile (fagiano, faraona o altro) avvolto nella creta con tutte le sue piume. A fine cottura si spacca la creta, e il volatile risulta cotto e pulito, perché le penne

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ove acquistarla

La faraona si trova facilmente in ogni polleria ben fornita e soprattutto nei supermercati, dove la si può reperire sia intera sia già pronta in pezzi. Per chi predilige carni a chilometro zero c’è sempre la possibilità di acquistarla direttamente da un allevatore o in qualche cascina dedita all’allevamento.

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on solo carne ma anche uova

Le uova di faraona non sono molto conosciute ma vale la pena provarle. Sono più piccole di quelle di gallina e presentano un colore che va dal mattone chiaro al giallo senape scuro. Il guscio è durissimo e lucido e possono essere consumate fresche per frittate e per ogni altra ricetta che prevede le uova di gallina, ma il loro uso si estende anche alla preparazione delle paste alimentari. ▣

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Scoperto in Egitto il formaggio più antico del mondo In una tomba di 3.200 anni fa, mix di latte ovino-caprinobovino. a cura di Gladys Torres – Fonte ANSA

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l formaggio è notoriamente uno degli alimenti più arcaici, ma trovarne una forma ultramillenaria colpisce anche a livello scientifico e consente di annunciare che è stato rinvenuto quello probabilmente “più antico al mondo”. La scoperta è stata fatta da un team italoegiziano che ha appena pubblicato uno studio sulla rivista Analytical Chemistry annunciando la scoperta di un pezzo di formaggio - mix di tre tipi di latte: di pecora, capra e mucca - cagliato in Egitto ai tempi dei Faraoni, circa 3.200 anni fa. Quello rinvenuto “è probabilmente il più antico residuo solido di formaggio

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mai rinvenuto finora”, sottolinea lo studio del team di ricercatori e professori dell’Università di Catania e della Cairo University. La “massa solidificata biancastra” è stata rinvenuta in un’anfora durante gli scavi della tomba di un alto funzionario a Saqqara, a sud del Cairo. La certezza che si trattasse di formaggio fatto con latte “ovino-caprinobovino” è arrivata attraverso l’uso di indagini “proteomiche” eseguite dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Ateneo catanese. L’indagine ha permesso inoltre di tracciare una “sequenza peptidica attribuibile al batterio Brucella

melitensis”. Insomma la brucellosi, una malattia infettiva detta anche “febbre mediterranea” già diffusa nell’antico Egitto. Finora le uniche prove della sua diffusione derivano dagli effetti osteoarticolari rilevati sui resti di alcune mummie, ma lo studio ora permette “di riportare il primo caso assoluto di presenza di brucellosi in epoca faraonica attraverso prove biomolecolari”, hanno riferito all’ANSA fonti dell’ateneo siciliano. La ricerca consente inoltre di stabilire con più accuratezza il periodo in cui la produzione casearia si è sviluppata nell’antico Egitto e determinare meglio le

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abitudini socio-economiche e culturali che ne derivano. L’archeo-formaggio era stato destinato al viaggio eterno del proprietario della tomba: Ptahmes, sindaco di Tebe e ufficiale di alto rango durante i regni di Seti I e Ramses II (quindi 1290-1213 avanti Cristo). Il sepolcro era stato scoperto da alcuni cacciatori di tesori nel 1885,

ma la sua localizzazione, non essendo stata registrata, è andata perduta sotto le sabbie del deserto del Sahara e riscoperta solo nel 2010 da un team di archeologi dell’Università del Cairo. L’uso della proteomica in residui di cibo così antichi è ancora un campo largamente inesplorato e potrebbe portare nuovi sviluppi

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in numerose discipline, dall’archeometria alle scienze forensi, sottolineano all’ateneo catanese. Il team di ricercatori che ha fatto la scoperta è stato coordinato dal Professor Enrico Ciliberto, mentre la responsabile dello scavo archeologico a Saqqara è la Professoressa Ola el-Aguizy. ▣

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Le Acciughe del Cantabrico? Le hanno inventate gli Italiani È infatti a loro che si deve l’invenzione dell’industria conserviera della salatura delle acciughe a Santoña. di Silvana Delfuoco

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na sorpresa Santoña, una delle più antiche e caratteristiche città costiere della Cantàbria. E la visita si fa ancora più interessante per il turista italiano quando, passeggiando la sera lungo la banchina del porto mercantile, scoprirà di trovarsi sul Paseo de lo Salazoneros Italianos, dove sorge un curioso monumento: la stele agli Italiani “lavoratori dell’acciuga”. È infatti a loro che, all’inizio del XX secolo, la città deve il suo rinascimento economico, grazie all’invenzione dell’industria conserviera della salatura delle acciughe.

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n monumento agli “acciugai italiani”

Ecco, in traduzione, il testo che compare sul Paseo de lo Salazoneros Italianos: Tutti conosciamo l’importanza per l’industria di Santoña dei salatori arrivati dalla Sicilia nella regione del Cantabrico tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Tra i discendenti dei pionieri di quella salatura, oggi si incontrano Santoñesi che si chiamano Brambilla, Cefalù, Cusimano, D’Acquisto, Lococo, Marchese, Marino, Oliveri, Orlando, Palazzolo, Pelazza, Sanfilippo, Tagliavia, A G R O A L IM E NT ARE I NT E RNAZ I O N AL E

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Tarantino, Toca, Vella, Zizzo. In sintesi: l’acciuga è stata il grande motore dello sviluppo industriale di Santoña, che ebbe inizio con quegli Italiani pionieri della salatura. Per questo meritano che si perpetui il loro ricordo. (Santoña, 28 febbraio 2011) Sono dunque gli Italiani ad aver “inventato” le Acciughe del Cantabrico? Ancora una volta, dietro una produzione

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alimentare di qualità, si nascondono l’ingegno e l’inventiva di casa nostra.

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e Acciughe del Cantabrico: una storia curiosa

E un’altra sorpresa è scoprire che il nome di Angelo Parodi, ancora oggi ben noto anche grazie a un divertente spot pubblicitario, viene da alcune

fonti citato come quello del primo industriale italiano ad aprire a Bermeo, sulla costa di Biscaglia, sul finire del XIX secolo, un’azienda di salatura delle acciughe. Sembra, infatti, che sia stato un diplomatico italiano, in visita appunto nel Golfo di Biscaglia, ad osservare che all’abbondanza e alla qualità delle acciughe pescate nella zona si contrapponeva lo scarso interesse per il

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prodotto da parte della popolazione locale. Tornato in Italia, fece partecipi delle sue impressioni alcuni imprenditori del settore, tra cui appunto lo stesso Parodi, titolare di una importante azienda genovese, che andò personalmente a verificare la situazione. In breve, lo seguirono a ruota altre società, come la Domenico Pelazza di Genova, la Vincenzo Gribaudi e figlio di A G R O A L IM E NT ARE I NT E RNAZ I O N AL E

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Torino, la Eugenio Cardini & Co. di Livorno e altre ancora. Ditte quasi tutte dislocate nel Nord Italia, dove però lavoravano soprattutto tecnici e operai siciliani, i più esperti in materia di gestione e trattamento della salatura. Ecco dunque spiegata l’origine “mista” dei cognomi italiani sulla stele nel Porto di Santoña: una vera e propria migrazione, diremmo oggi, ma con l’obiettivo di creare lavoro anziché richiederlo. Nasce così l’industria delle Acciughe del Cantabrico, che vide la sua fase più fiorente nel decennio 1920/30 del secolo scorso, con l’affermarsi dei primi casi di insediamento aziendale definitivo, soprattutto in seguito ai matrimoni con donne locali, e con la nascita delle prime fabbriche indipendenti.

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cciughe del Cantabrico, tra ieri e oggi

Solo parzialmente interrotte

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dallo scoppio della Guerra di Spagna (1936-1939), le migrazioni dall’Italia, soprattutto del Nord, proseguono, a fasi alterne, fino al progressivo e definitivo abbandono di molte firme “storiche” accanto alla creazione di nuove aziende intorno agli anni Ottanta del

secolo scorso. Un’arte, dunque, quella di salare e spremere l’acciuga, che da sempre richiede grande abilità e alta conoscenza del pesce, del sale, dei tempi di maturazione. E che, nelle basi, trasferisce ancora oggi le conoscenze artigianali trasmesse dai pescatori

siciliani nelle industrie del settore.

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n locale unico al mondo: l’Anchoteca di Santoña

Per chi poi volesse fare un’inedita esperienza di assaggio, possibile solo a Santoña, consigliamo di lasciarsi alle spalle il centro cittadino e di inoltrarsi nella zona industriale, dove si concentrano le fabbriche. Qui è nato da qualche anno, grazie all’intraprendenza di un gruppo di giovani, un curioso locale, davvero unico al mondo: l’Anchoteca La Mutua. Non soltanto un luogo d’incontro dove degustare le più varie tipologie di acciughe, tra cui quelle “lavorate a mano” impossibili all’asporto, ma anche una sorta di centro culturale, dove ritrovare, o scoprire per la prima volta, la memoria storica della gente di Santoña. Una storia che, in qualche modo, ci riguarda da vicino. ▣

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E U R O C H O C O L AT E

compie 25 anni! Sarà un Eurochocolate con l’argento vivo addosso la venticinquesima edizione del Festival Internazionale del Cioccolato che si terrà dal 19 al 28 Ottobre 2018. a cura di Gladys Torres, fonte Ufficio Stampa EuroChocolate

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orreva l’anno 1994…, data cruciale per Eurochocolate quando il progetto, che dodici anni prima il suo ideatore, Eugenio Guarducci, aveva immaginato visitando l’Oktoberfest a Monaco, diventò finalmente realtà. È l’anno in cui Nelson Mandela viene eletto presidente del Sudafrica, viene lanciata sul mercato la prima Playstation e inaugurato il Tunnel della Manica. Il mondo della musica inizia a conoscere gli Oasis, viene lanciato il primo smartphone e si inizia a giocare con i Gratta e Vinci. L’Italia vede sfumare il sogno del Mondiale americano in finale contro il Brasile e, in molti, qualche mese dopo, vinceranno l’amarezza per il risultato calcistico, affogando

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la propria delusione nel piacere del cioccolato che a Perugia, da quel fatidico 23 Ottobre, viene declinato in tutte le sue sfumature. Ricordando i capitoli della sua golosa storia, Eurochocolate 2018 vuole riviverli attraverso le iniziative, le attrazioni e i personaggi più significativi. “Ripercorreremo le tappe che hanno reso celebre questo evento, anche grazie alla partecipazione di alcuni dei protagonisti, nazionali e internazionali, del mondo del cioccolato che sono passati in questi anni per Perugia. 25 anni di storia sono un traguardo importante, ma di certo non ci faremo imprigionare dalla nostalgia dei ricordi“, sottolinea il Presidente, Eugenio Guarducci. Sarà un’edizione dai ritmi serratissimi, quindi,

per ricordare i chilometri percorsi da quando correva l’anno 1994 e immaginare quelli che si faranno ancora. “Le prime edizioni di Eurochocolate – continua Guarducci – si caratterizzarono per un appuntamento che è rimasto indelebile nella memoria di tanti appassionati e che fece scuola nel mondo del cioccolato: Cioccolatomania. Un corso di degustazione guidata, condotto dai più importanti protagonisti nazionali e internazionali del Cioccolato e da giovani talenti che poi sono diventati delle star. Riproporremo questo appuntamento attraverso alcune testimonianze durante la prossima edizione.” Principale attrazione dell’anno, sul palco della suggestiva Piazza IV

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Novembre, sarà la maxi scatola di cioccolatini di ben 4 metri, contenente 25 prelibatezze assortite di vero cioccolato. Un’originale istallazione voluta per ricordare che Eurochocolate è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita! Nei dieci giorni della manifestazione, grazie a un divertente gioco e golosi assaggi, si potranno infatti ripercorrere le principali e sorprendenti attrazioni che hanno fatto la storia della manifestazione. E come per ogni compleanno che si rispetti, ci sarà una festa in piena regola. È,

infatti, fissato per il 23 ottobre 2018 lo special event interamente dedicato alla ricorrenza più golosa dell’anno. Per l’occasione, tutti coloro che festeggeranno i 25 anni sono invitati fin d’ora a scrivere a correvalanno@ eurochocolate.com. A loro sarà dedicata la speciale maxi torta cioccolatosa ancora top secret e, insieme, spegneremo le 25 candeline. Dedicato invece a tutte le coppie che nel 2018 tagliano il traguardo del quarto di secolo di matrimonio. Con il cioccolato ci andiamo a nozze è l’appuntamento pensato per celebrare

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i legami che resistono nel tempo, come quello di Eurochocolate per il Cibo degli Dèi. Un matrimonio felice e duraturo che il Festival Internazionale del Cioccolato celebrerà con un augurio speciale alle coppie presenti. Tra le nuove idee che caratterizzeranno l’edizione 2018 anche Sweet Moments, imperdibili secret event che si svolgeranno nel corso dei dieci giorni della manifestazione. Esibizioni di arte varia che prenderanno vita quando e dove meno il pubblico se lo aspetta. Ad annunciarli un messaggio

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veicolato sulle piattaforme social del Festival che ne anticiperanno di poco lo svolgimento. In mostra anche i suggestivi scatti di Simone Casetta, storico fotografo ufficiale della kermesse, che ha accompagnato con occhio attento la storia di Eurochocolate anche nelle sue numerose trasferte nazionali e internazionali. Un’esclusiva esposizione ne ripercorrerà i momenti più spettacolari e curiosi, impressi indelebilmente nella memoria storica degli organizzatori e dei fedelissimi. Tra questi, l’imperdibile e tradizionale appuntamento con le Sculture di

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cioccolato in programma, anche quest’anno, la prima domenica del Festival. Come può un maxi blocco di cioccolato trasformarsi in un’opera d’arte? Per scoprirlo l’appuntamento è con la spettacolare esibizione live: una galleria a cielo aperto nel centro storico di Perugia dove ammirare veri artisti intenti a trasformare metri cubi di cioccolato in golosissime opere d’arte. Come ogni anno, ad anticipare la kermesse, il 12

Ottobre verrà festeggiato il Chocoday. Istituita nel 2005 e promossa da Eurochocolate, la Giornata Nazionale dedicata al Cibo degli Dèi ha l’obiettivo di celebrare in Italia e nel mondo il cioccolato di qualità. Torna anche il consueto appuntamento con Eurochocolate World, la speciale sezione dedicata ai Paesi produttori di cacao, storicamente patrocinata da ICCO, International Cocoa Organization e da Fairtrade Italia.

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Un’importante occasione per scoprire cultura e tradizioni delle nazioni coinvolte, anche attraverso il consolidato Summit Internazionale, degustazioni di cacao e attività ludicodidattiche riservate ai più piccoli. Come ogni anno, i chocolovers potranno immergersi nel Chocolate Show, il più esteso emporio del cioccolato con oltre 6mila referenze di prodotti, proposti da più di cento firme

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del dolciario, artigianale e industriale, italiano e internazionale. Imperdibile, per ogni goloso che si rispetti, la ChocoCard, l’esclusiva carta servizi di Eurochocolate che dà diritto a golosi omaggi e sconti durante l’evento, sia sull’acquisto di prodotti

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negli stand del Chocolate Show sia presso alberghi, ristoranti, bar, musei e altre strutture convenzionate, e che permette di partecipare al concorso con in palio centinaia di fantastici premi, a partire dall’ambitissima automobile. In omaggio con la ChocoCard anche il gadget ufficiale dell’edizione

2018: un originale zainetto e la tavoletta celebrativa dei 25 anni, firmata Costruttori di Dolcezze. Venticinque candeline da spegnere per Eurochocolate 2018, vi aspettiamo per festeggiare insieme un compleanno tutto d’argento! ▣

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Livorno


Regina Vanderlinde eletta presidente dell’OIV Organisation Internationale de la Vigne et du Vin Durante l’Assemblea generale tenutasi a Parigi lo scorso luglio, l’OIV ha rinnovato gli uffici di presidenza dei suoi principali organi. di Roberto Rabachino – Fonte OIV

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arà una brasiliana a succedere alla tedesca Monika Christmann alla presidenza dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino per i prossimi tre anni. Regina Vanderlinde, ordinaria di Biotecnologia all’Università di Caxias do Sul, è stata eletta dagli Stati membri dell’OIV per presiedere i vari organi dell’Organizzazione per un mandato di tre anni. Dottoressa in Scienze biologiche con specializzazione in Enologia e Ampelologia presso l’Università di

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viticoltura sudamericana da parte della grande famiglia dell’OIV e si è detta orgogliosa di essere la terza donna a presiedere consecutivamente l’Organizzazione. In occasione di questa Assemblea generale sono stati eletti, sempre per tre anni, anche i presidenti degli organi scientifici: • Commissione I “Viticoltura”:
 Vittorino Novello (Italia) succede a Benjamin Bois (Francia) • Commissione II “Enologia”:
 Dominique Tusseau (Francia) succede a Luigi Moio (Italia) • Commissione III “Economia e diritto”: Dimitar Andreevski (Bulgaria) succede a Tony Battaglene (Australia) • Commissione IV “Sicurezza e salute”: Gheorghe Arpentin (Moldova) succede a Nuria García Tejedor (Spagna) • Sottocommissione “Metodi di analisi”: Markus Herderich (Australia) succede a Ondrej MIKES (Repubblica ceca)

Bordeaux, Vanderlinde è da parecchi anni membro della delegazione brasiliana presso l’OIV, in cui è stata segretaria scientifica della

Sottocommissione “Metodi di analisi”. La nuova presidente si è rallegrata per questo riconoscimento della

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• Sottocommissione “Uva da tavola, uva passa e prodotti non fermentati della vite”: Alejandro Marianetti (Argentina) succede a Luis Peres de Sousa (Portogallo) ▣

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