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EMILIO GILETTI
Emilio e Massimo Giletti.
«QUANDO MIO PADRE CORREVA CON FANGIO, MUSSO E MAGLIOLI»
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Un ritratto di un giovane Emilio.
IL GIORNALISTA E VOLTO TELEVISIVO MASSIMO GILETTI RACCONTA LE IMPRESE SPORTIVE DEL PADRE NEGLI ANNI ‘50
di Danilo Castellarin
La domenica sera sono milioni gli italiani incollati al video per seguire le inchieste di Massimo Giletti, conduttore di ‘Non è l’Arena’ su La7. Ma settant’anni fa migliaia di appassionati non perdevano le imprese di Emilio, padre di Massimo, pilota Maserati e Ferrari, industriale del ramo tessile a Ponzone Trivero, vicino a Biella, scomparso per aneurisma alla bella età di novant’anni nei primi giorni di gennaio 2020. Emilio fu un pilota particolare. Veloce e vincente come sanno essere i giovani. Ma anche saggio e maturo come sanno essere i più adulti. Corse a fianco di Luigi Musso, Eugenio Castellotti, Sergio Mantovani. I primi due pagarono le corse con la vita, il terzo con una gamba. Per tacere degli altri compagni-rivali che correvano nella sua epoca, gente come Luigi Fagioli, Onofre Marimon, Alberto Ascari, Alfonso De Portago, Peter Collins e parecchi altri. «Che quella gente appartenesse a una razza speciale l’ho capito a sette anni di età, nel 1969», racconta Massimo. E aggiunge: «In casa c’era agitazione perché papà ci aveva preannunciato che sarebbe arrivato dall’Argentina con un suo vecchio amico, Juan Manuel Fangio, che aveva corso con lui negli anni Cinquanta. Allora era l’unico ad avere vinto
Sopra, Giletti aveva acquistato di seconda mano la Ferrari 166 da Nuccio Bertone e per pagarla firmò parecchie cambiali. A destra, Giletti su Ferrari 166 n. 522 alla Mille Miglia del 1952. Sotto, a sinistra, Giletti su Ferrari 166 partecipò a diverse gare, su strada e in circuito, poi passò alla Maserati. A destra, Giletti (tuta bianca) vicino alla Ferrari 166 in Sardegna.
cinque titoli mondiali. Non era la prima volta che veniva a trovare mio padre. Per accoglierlo io e i miei fratelli Emanuele e Maurizio, più grandi di me, avevamo disegnato un circuito nel parco della nostra casa di Ponzone, improvvisando una corsa con i bolidini a motore che ci aveva regalato papà. Vinsi io. Finita la gara, Fangio sorrise e mi disse di salire in auto vicino a lui. Aveva una voce quasi in falsetto, un po’ metallica, e sussurrò “Facciamo un giretto e poi mi dici se guido meglio io o il tuo papà”. Bene, quel giro è ancora oggi uno dei ricordi più terrificanti della mia vita. Vedevo case, alberi, negozi, insomma tutti i paesaggi noti nella mia vita di bambino, scappare via al di là dei finestrini, sempre più veloci, sempre più liquefatti dalla velocità, senza punti di riferimento». Inutile immaginare che cosa sarebbe potuto capitare, ma allora nessuno ci pensava. In tempo di guerra, nel 1943, quando aveva appena quattordici anni, Emilio Giletti viaggiava sui camion dell’azienda che portavano i tessuti al porto di Genova. Erano Lancia 3RO con il musone lungo e il rimorchio, pesanti diverse tonnellate, pieni zeppi di tessuti. Appena erano lontani dalla fabbrica, fuori dal controllo paterno, il ragazzino convinceva l’autista a cedergli la guida. «Si portava i cuscini da casa per arrivare al volante», racconta il figlio. Dieci anni dopo, Emilio correva su Maserati, a fianco di Musso, Castellotti, Perdisa. Diventò amico di Fangio e raccontò che al Gran Premio di Siracusa riusciva ad essere più veloce di lui. «L’argentino volle che andassimo a fare un giro di pista a piedi», raccontò Emilio, «e che gli dicessi in ogni punto quale marcia mettevo e dove frenavo. Era un grande intenditore di meccanica e provava le quattro auto portate dalla Casa. Poi, a fine giornata, diceva “Mettete quel motore su questo telaio”. E agli altri restava la carretta». Anche Giletti - come Musso, Castellotti, Perdisa, Marzotto, Bulgari, Lualdi, Govoni, Biscaldi, De Filippis e tanti altri - era un giovane, piacevole, benestante, con la vita spianata davanti. Eppure andò a cercare la sfida. Che bisognava vincere coi denti. Dopo aver partecipato alla Mille Miglia del 1950 con una Lancia Aprilia 1500, nascondendo la sua vera identità con lo pseudonimo ‘Pilomo’, ispirato dal fratello maggiore Pier Anselmo, passò a una Nardi-Danese motorizzata Bmw 750 cm³. Il motore era stato acquistato nei campi dei residuati bellici Arar, dove le forze alleate avevano deciso di vendere i loro mezzi e quelli requisiti ai tedeschi perché era più conveniente che portarseli a casa, e perché avrebbero aiutato la rinascita di un’Italia ridotta a mal partito alla fine della Seconda guerra mondiale.
Le belle affermazioni con il Cavallino non gli valsero i complimenti del Drake.
Il pilota biellese al volante di una Maserati A6GCS al Giro di Sicilia del 1955. Sarà per lui il canto del cigno perchè il giorno dopo suo padre lo chiamerà al lavoro nell’azienda tessile di famiglia.
A sinistra, una rivista dedica la copertina alle imprese di Giannino Marzotto su Ferrari e Emilio Giletti su Maserati alla Mille Miglia 1953. Qui, Emilio Giletti riceve un prestigioso trofeo dopo un successo in gara.
Quando capì che ci sapeva fare e i risultati premiavano il suo impegno, Emilio Giletti avvicinò Giuseppe “Nuccio” Bertone e lo convinse a vendergli la sua Ferrari 166 MM Touring (0046M 50). «Firmai cambiali per due anni ma alla fine riuscii a pagarla», raccontò Giletti, che con quell’auto colse numerose affermazioni, vinse il Trofeo Sardo del 1952 e conquistò il titolo di campione italiano. Ne fu così fiero che commise l’ingenuità di cercare l’encomio di Enzo Ferrari, andando a trovarlo di persona a Maranello. Il Drake lo ricevette dopo la consueta anticamera di un paio d’ore, lo ascoltò, e alla fine, con proverbiale bonomia, tagliò corto dicendogli «Giletti, si ricordi che lei vince perché guida una Ferrari». Lui ripensò alle cambiali, ai rischi che aveva corso, ai musi lunghi che giravano in casa per la sua passione. Non gradì la battuta del Commendatore e passò alla Maserati. Con il Tridente correva anche Fangio, che al Gran Premio di Siracusa restò impressionato dallo stile di guida di Giletti, che un giorno raccontò al figlio: «Fangio venne a chiedermi che traiettoria facevo alla curva del Cimitero, dove entravo in pieno, e io lo accontentai. Dopo qualche mese mi spiegò come fare la seconda di Lesmo. Restammo amici». Ma in gara Giletti diventava un temibile avversario, come alla Targa Florio del 1953, quando, correndo senza copilota su Maserati A6GCS, arrivò secondo assoluto, alle spalle di Maglioli su Lancia D20 e davanti a Fangio che correva insieme a Mantovani su Maserati A6GCS. Nel 1953 partecipa con Guerino Bertocchi alla Mille Miglia su Maserati A6GCS n. 525, sesti assoluti. «Nel 1953 vinse per la seconda volta il conte Giannino Marzotto su Ferrari, ma in quella irripetibile stagione sportiva», sorride il figlio Massimo, «in alcune gare c’erano personaggi come Roberto Rossellini, Porfirio Rubirosa e il marchese De Portago». E aggiunge: «Papà mi raccontava che ogni volta rischiavano la vita e tornavano a casa con le mani piagate dal cambio. Era gente che amava le corse ruvide di allora, ma anche la dolce vita che le circondava con belle donne, spesso affascinate dai cavalieri del rischio, e poi viaggi avventurosi in un’epoca in cui a viaggiare erano in pochissimi e loro, i piloti, lo facevano per raggiungere piste e circuiti dove si sarebbero sfidati, ma anche dove avrebbero fatto festa, divertendosi insieme. Come fai a non cadere in tentazione se corri forte e hai vent’anni?». Emilio lasciò quello stile di vita temerario a metà dei Cinquanta, ma il ricordo di quell’epopea restò inciso per sempre nella sua memoria. «Tant’è vero che negli anni Settanta», continua Massimo, «mi portò alla Ferrari e mi fece conoscere Niki Lauda, che era il mio idolo. Davanti al Commendatore, Niki disse a papà che loro, i piloti degli anni
Giletti sta per prendere il via su Maserati A6GCS alla Mille Miglia del 1953, dove vincerà la classe due litri sport.
LA SUA FERRARI PAGATA 8 MILIONI DI DOLLARI A PEBBLE BEACH
Nel 2017 la Ferrari 166MM appartenuta a Emilio Giletti (e prima di lui a Nuccio Bertone) è stata venduta a otto milioni di dollari in un’asta americana. Carrozzata ‘Touring Superleggera’ venne venduta da Giletti a Luigi Bosisio, che la affidò alle cure di Elio Zagato, per trasformarla in berlinetta. La 166MM è stata poi rilevata da Luigi Chinetti del North American Racing Team e rivenduta ad altri piloti che le cambiarono più volte il motore.
Cinquanta, erano stati dei pazzi a correre con quelle auto, le gomme strette e dure come il legno, ma che lui adorava i pazzi. E Ferrari sorrise, compiaciuto. Devo dire che mio padre è stato molto bravo a smettere. Fu determinante nonno Oreste. Anche nonna Bianca Maria era preoccupata, ma non voleva condizionare le scelte del figlio. A imporgli di piantarla fu il nonno che un giorno lo portò in azienda e gli disse che il gioco era finito perché ora toccava a lui». Oreste era un personaggio speciale. Era nato a Trivero il 14 gennaio 1890, undici anni prima di Adriano Olivetti, dal commendator Anselmo (classe 1857, scomparso nel 1927), fondatore dell’azienda di famiglia. Più del padre aveva operato nel tessuto vivo di Ponzone con “opere sociali”, che tuttora connotano l’area urbana della frazione. Scrisse saggi che identificavano la proprietà privata della casa come un primo stadio di indipendenza, certezza, autonomia per le classi proletarie, un bisogno primario, fisico e morale. Il suo atteggiamento sociale, che per molti aspetti anticipò il piano casa di Fanfani di mezzo secolo dopo, gli valse la medaglia d’oro della Pubblica Istruzione nel 1924, specialmente per quella scuola professionale operaia avviata per i suoi dipendenti all’interno dello stabilimento. Mentre il figlio corre lui pensa, scrive e dà alle stampe il saggio “Una pensione, una casa, un capitale per tutti i cittadini” dimostrando, proprio come faceva Adriano Olivetti a Ivrea, molta attenzione per la realtà proletaria che portava lavoro alla sua azienda. Non deve essere stato facile per un personaggio così accettare che il figlio corresse con Ferrari e Maserati. Lo lasciò fare per tre anni. Poi lo richiamò all’ordine.
Nel 1956, dopo la conquista del titolo di Campione del mondo F.1, Juan Manuel Fangio fu ospite di Giletti. Eccolo mentre gioca a bocce insieme a Emilio nel parco della villa.
Nel tempo anche Emilio sviluppò una forte capacità imprenditoriale che fece crescere parecchio l’attività di famiglia. Era sempre in fabbrica, dalla mattina alla sera, attento alla produzione ma anche al benessere dei suoi dipendenti perché l’azienda non fosse soltanto un luogo di lavoro, come aveva visto fare da suo padre, tanto da fondare il primo corpo dei Vigili del fuoco aziendale. Legato al territorio biellese e al mondo dello sport, era un grande tifoso della Juventus -passione che ha trasmesso al figlio - e aveva sempre avuto una particolare attenzione per i giovani. Dalle giovanili della ex Stella Alpina, la società calcistica di Valdilana cui forniva dal 2017 tutto il materiale tecnico per le partite e gli allenamenti dei ragazzi, fino alla sponsorizzazione della squadra dell’Empoli. Nello stesso anno era nato il Pala Giletti grazie a un accordo stretto dall’ imprenditore con il Comune. «Mio padre mi ha insegnato la semplicità», conclude Massimo, «e da lui ho imparato a tenere duro nei momenti difficili della vita e ad avere le spalle larghe. Ho fatto anche il lavoratore stagionale. D’inverno in Rai e d’estate in azienda da papà con la tuta da operaio».