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PRODURRE LE PIANTE PER L’ORTO SCEGLIERE IL MAIALINO DA INGRASSO NOVITA’: IL CAVIALE DI LUMACA UTILIZZARE AL MEGLIO I FITOFARMACI
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sommario Fitofarmaci: come usarli
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La capra d’affezione
Prodursi le piantine per l’orto
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TerrAmica - Notiziario Associazione di Agraria.org Organo informativo Associazione di Agraria.org Via del Gignoro, 27 - 50135 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org http://associazione.agraria.org/ ANNO 2014 - N° 0 Redazione: Cristiano Papeschi, Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Alessio Zanon, Eugenio Cozzolino Direttore responsabile: Flavio Rabitti Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti
Sommario
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Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.
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EDITORIALE Nasce l’Associazione di Agraria.org ed il notiziario “TerrAmica” di Marco S., Flavio, Marco G., Luca, Lapo COLTIVAZIONI L’asparago Produzione di piantine da orto Il vitigno “Teroldego Rotaliano” Fitofarmaci: uso sostenibile ed hobbistica
di Daniele Faccenda di Danilo Melchiori di Marco Sollazzo
di Marco Gimmillaro
ZOOTECNIA di Gianfranco Gamba La razza bovina Piemontese di Gianpiero Bossi Le mie anatre Dendrocigna di Giuseppe Acella Puglia: cavallo ed asino Il fagiano colchico e le mutazioni di Pasquale D’Ancicco di C. Papeschi e L. Sartini Le malattie del coniglio di Fabio Zambon Colombi: colorazione e genetica di Milena Sansovini Scegliere il maiale da ingrasso di Daniel Marius Hoanca Le quaglie: introduzione di Lapo Nannucci La Ricciola (Seriola dumerili) di Stefano Tosco La capra da affezione di Claudio Duca Il colombo Texano Pionier Diario della mostra del cavallo di Gianni Marcelli del Catria
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ANIMALI DA COMPAGNIA di Federico Vinattieri Il Mastino Napoletano di Gian Piero Canalis Il cane Fonnese di Federico Vinattieri Il canarino Fiorino
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AGROALIMENTARE ITALIANO di Romeo Caruceru Conoscere il miele di Cesare Ribolzi I miei formaggi di Francesco Marino La bistecca di Chianina di Mario Francesco Carpentieri Il prosciutto insaccato di Bruno Zannoni Visita al caseificio
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AMBIENTE, FORESTE E NATURA di Marco Giuseppi Utilizzazioni forestali di Nino Bertozzi Il tarassaco di Matteo Ioriatti Riconoscere i Boletus di Eugenio Cozzolino Il compostaggio in agricoltura
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STRATEGIE, TECNICHE ED INNOVAZIONE IN AGRICOLTURA di Davide Merlino Il caviale di lumaca
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CURIOSITÀ La falconeria Politica comune della pesca
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DAL FORUMDIAGRARIA.ORG di Roberto Corridoni Concorso “Coniglio più bello” di Danilo Melchiori Concorso “Orto più bello”
di Clarissa Catti di Mauro Bertuzzi
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Nasce l’Associazione di Agraria.org ed il notiziario TerrAmica Tutto nasce da www.agraria.org, frutto di anni di intenso lavoro... di
Marco Salvaterra, Flavio Rabitti, Marco Giuseppi, Luca Poli, Lapo Nannucci
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Editoriale
ato nel 2000, Agraria.org è stato inizialmente un laboratorio di sperimentazione didattica legata alle nuove tecnologie. Nel corso degli anni molti nuovi collaboratori hanno permesso di ampliare le aree tematiche trattate nel sito. Per ognuna delle tre macro-aree (coltivazioni, allevamenti e ambienti naturali) sono presenti diversi atlanti illustrati all’interno dei quali il visitatore può trovare le informazioni ricercate: contenuti di alto valore scientifico, facile navigabilità e grafica accattivante (grazie anche alla ricchezza e qualità delle immagini) sono le caratteristiche più apprezzate dall’utente. La filosofia alla base di www.agraria.org è diversa rispetto a quella di altri portali di successo (es. Wikipedia): qui i contenuti pubblicati vengono prima vagliati da un gruppo ristretto di esperti dei singoli settori. In questo modo viene garantito un maggiore rigore scientifico alle informazioni riportate; anche per questo il sito viene consigliato da docenti di molte facoltà di Agraria e Veterinaria per la preparazione degli esami. Parallelamente al sito, nel 2005 è nata la Rivistadiagraria.org, con l’intento di divulgare conoscenze, esperienze e curiosità che riguardano, in senso lato, il mondo dell’agricoltura. La rivista online, che esce ogni quindici giorni, riporta articoli di elevato spessore scientifico, a cui si affiancano altri di pura divulgazione. Autorità del mondo accademico, professionisti di comprovata esperienza, ma anche giovani tecnici firmano i pezzi proposti. Con lo sviluppo del Web 2.0, anche
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noi abbiamo deciso di realizzare un forum che si occupasse delle stesse tematiche del sito. A metà del 2008 è nato così il www.forumdiagraria. org, uno spazio virtuale dove una squadra di esperti dei vari settori (più di 60) risponde ai quesiti posti dagli utenti. In poco tempo la comunità che si incontra sul forum si è allargata notevolmente. Ogni giorno sono molte migliaia i visitatori e centinaia gli interventi nelle molte sezioni che riguardano gli animali da reddito, quelli da compagnia, le coltivazioni erbacee ed arboree, l’orticoltura, le piante ornamentali, le trasformazioni agro-alimentari, gli aspetti legali in agricoltura, lo sviluppo rurale e il mondo dell’istruzione agraria. Il network comprende anche altri servizi che hanno lo scopo di mettere in diretto contatto gli utenti e gli operatori del settore, come gli allevatori, le aziende agricole e i professionisti del verde. Il network è presente anche nei principali “social”, come Facebook, Twitter, Google+ e Youtube, che sono integrati con tutti i siti del network e che permettono agli utenti di essere sempre informati sulle novità che riguardano l’articolato mondo dell’agricoltura. Ma volevamo fare di più e soprattutto andare oltre al “virtuale”. Da qui l’idea di creare un’associazione aperta a tutti quelli che, come noi, si occupano o sono appassionati di agricoltura. Il 1° marzo 2013, un gruppo di gio-
vani laureati affiancati da alcuni storici collaboratori, hanno dato vita all’Associazione di Agraria.org. I soci fondatori sono Luca Poli, Marco Giuseppi, Marco Salvaterra, Lapo Nannucci, Flavio Rabitti, Alessandra Bruni, Alessio Zanon ed Eugenio Cozzolino. Le principali finalità sono: - favorire l’inserimento nel modo del lavoro di giovani diplomati e laureati nel settore agrario e veterinario; - incrementare e diffondere le conoscenze riguardanti pratiche agricole ed agro-alimentari sia a scopo amatoriale che professionale; - diffondere conoscenze di specifici ambiti agro-forestali anche a non esperti del settore. Da gennaio 2014 nasce anche un nuovo organo di informazione, TerrAmica, il notiziario dell’Associazione di Agraria.org. Il comitato di redazione è formato da Alessio Zanon, Cristiano Papeschi, Eugenio Cozzolino, Marco Giuseppi e Marco Salvaterra. Il direttore responsabile è invece Flavio Rabitti, che si occupa anche della parte grafica e dell’impaginazione. Potranno contribuire ad ampliare il notiziario tutti gli iscritti all’Associazione di Agraria. org, che potranno sottoporre i propri lavori alla redazione; il comitato si occuperà quindi di approvare ed eventualmente revisionare gli articoli ricevuti. Il notiziario è consultabile da web in formato .pdf sfogliabile ed ottimizzato per PC e smartphone/tablet;
Editoriale
oltre alla versione digitale è disponibile anche la versione cartacea, distribuita agli iscritti ed in occasione di mostre, convegni ed eventi. Un sentito ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito con i propri scritti alla realizzazione di questo primo numero, nonché ai collaboratori che quotidianamente mettono a disposizione le proprie conoscenze, l’esperienza ed il proprio tempo per il consolidamento e l’ampliamento del network di Agraria.org. Sperando di aver fatto un buon lavoro auguriamo una buona lettura a tutti, Marco Salvaterra e Flavio Rabitti
La comunità che dai vasti campi del web passa ai campi veri Letteralmente potremmo dire di essere “scesi in campo” ma il messaggio potrebbe essere male interpretato; di fatto, siamo passati da una condizione virtuale ad una reale. Non che i passati incontri mangerecci non abbiano avuto consistenza, anzi, possiamo affermare che siano serviti alla forgiatura di un bel gruppo adesso riunito sotto le vesti dell’Associazione di Agraria.org. Un po’ l’abbiamo girata l’Italia, dal Garda a Napoli passando per la pianura Padana e la maremma Toscana, con la promessa di organizzare incontri anche in altre zone... perché l’Italia è lunga e le cose buone da assaggiare sono molte. Tuttavia l’Associazione non si è limitata a fare pranzi: da marzo 2013, mese della fondazione, le attività sono state molte e variegate, dai momenti di formazione alla partecipazione a convegni e fiere, arrivando in meno di un anno a contare più di 110 soci distribuiti in tutto il Paese. Ci siamo spesi inoltre per farci conoscere ad altre realtà del territorio, istituzioni, parchi naturali ed associazioni; questo speriamo possa essere l’inizio di una serie di percorsi di collaborazione che aiutino a centrare gli obiettivi fissati nello Statuto. L’Associazione, nata da un gruppo
Editoriale
di collaboratori del network di Agraria.org, ha lo scopo di coinvolgere
Reggio Emilia, novembre 2013 - Visita caseificio Parmigiano Reggiano Firenze, aprile 2013 - Partecipazione al convegno “Le scienze agrarie tra OGM e agricolture alternative” quante più persone possibile, interessate, per lavoro o per passione all’agricoltura in senso lato, cioè alle coltivazioni, alla zootecnia e alla cura dell’ambiente. Ciò che spinge a impegnarci in questa avventura è la consapevolezza che l’agricoltura occuperà uno spazio sempre maggiore nel-
Reggio Emilia, novembre 2013 Dimostrazione produzione formaggi in casa
Montecucco (GR), luglio 2013 Pranzo sociale in Maremma
Firenze, luglio 2013 - Corso “degusta vino” per un primo approccio al mondo del vino la società: la necessaria valorizzazione delle produzioni agro-alimentari di qualità, il rinnovo generazionale del settore con l’ingresso di giovani competenze, un’innovazione tecnologica attenta alle tradizioni in agricoltura, sono le sfide
Reggio Emilia, novembre 2013 - Pranzo sociale - Con un particolare ringraziamento a Bruno Zannoni e famiglia per la deliziosa ospitalità che l’Associazione intende vincere. Partecipa anche tu alle tantissime attività dell’Associazione di Agraria.org, iscriviti online per il 2014 al prezzo speciale di 10€: http://associazione.agraria.org/ Marco Giuseppi, Luca Poli, Lapo Nannucci
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L’asparago Aspetti tecnici ed economici della coltura Daniele Faccenda
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a coltivazione dell’asparago sta assumendo sempre più importanza in relazione al cambiamento degli stili di vita della società moderna; si ricercano sempre più prodotti genuini e freschi. L’asparago, in questi ultimi anni, sta rientrando sulle tavole dei consumatori grazie agli effetti benefici riconosciuti a tale ortaggio. Vedremo in seguito di analizzare, oltre agli aspetti tecnici propri della coltivazione, gli elementi economici che influenzano il ciclo produttivo dall’impianto all’ordinaria conduzione.
Il ciclo produttivo:
Coltivazioni
L’asparago è una coltura erbacea poliennale, dotata di un apparato radicale profondo costituito da rizomi; questi costituiscono una fonte di riserva per gli elementi nutritivi. Durante la fase vegetativa la pianta immagazzina nutrienti che serviranno nel successivo ciclo produttivo a supportare lo sviluppo dei turioni. Molta importanza riveste il tipo di terreno, sono da prediligere quelli con un buon contenuto in sabbia, con pH compreso tra 6,5 e 7, lavorati in profondità in modo da permettere un veloce sgrondo delle acque meteoriche. Anche le concimazioni vanno fatte apportando molta sostanza organica, da prediligere sempre il letame ben maturo, oltre ai macro e micro elementi necessari alla coltura. Ordinariamente le asportazione annue da reintegrare di una asparagiaia in piena produzione sono le seguenti
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(kg/ha): • N (min-max) 90-220 • P2O5 (min-max) 50-140 • K2O (min-max) 90-180 Anche Fe, Ca e Mg vanno considerati in un piano di concimazione e per questo è buona cosa ripristinarli in concimazione. La determinazione di una corretta fertilizzazione è subordinato all’esecuzione di analisi del terreno e alla predisposizione di un piano di concimazione redatto da un tecnico agrario abilitato: questo per evitare problemi di lisciviazione o cattivo assorbimento che comporterebbe un aumento dei costi di produzione e una minore efficacia fertilizzante. La distribuzione della sostanza organica, generalmente, è preferibile
a fine ciclo vegetativo(autunno-inverno), i concimi minerali vengono frazionati partendo da inizio ciclo vegetativo fino a fine giugno; oltre tale data è meglio sospendere le concimazioni onde evitare tardive partenze delle gemme che andrebbero a ridurre quelle disponibili per l’anno successivo. Le moderne tecnologie mettono a disposizione preparati che riducono la nitrificazione dell’azoto(inibitori della stessa), rendendolo disponibile più a lungo e con minori problemi di dilavamento. Interessante è anche la fertirrigazione che permette di apportare nutrienti assieme ai volumi di adacquamento aumentando l’efficacia e la disponibilità attorno all’apparato radicale. Per tale motivo, già in fase di impianto, sarebbe opportuno stendere sot-
Fig. 1 - Pacciamatura con film plastici biodegradabili
di
Coltivazioni
Fig. 2 - Danni su turioni in seguito ad esposizione ad alte temperature to le zampe una manichetta avendo così un impianto irriguo efficace in sub-irrigazione che non ostacola le lavorazioni superficiali. La gestione estiva della coltura prevede anche la pulizia da erbe infestanti e la difesa fitosanitaria; la prima viene fatta utilizzando mezzi chimici, ovvero erbicidi di pre e post emergenza distribuiti localmente o in pieno campo; i mezzi meccanici consentono la pulizia dell’interfilare(erpici o miniriper) superficialmente senza rovinare l’apparato radicale. Tra i mezzi tecnologici sono da citare anche pirodiserbo e film plastici biodegradabili (in fase di sperimentazione-Fig.1). La difesa chimica prevede l’esecuzione dei trattamenti fitosanitari generalmente eseguiti con atomizzatori o barre irroranti; le principali avversità dell’asparago sono:
Coltivazioni
Crittogame: • ruggine (Puccinia asparagi), • fusariosi (Fusarium spp.), • stempfiliosi (Stemphilium spp.), • mal vinato (Rhizoctonia violacea), • muffa grigia (Botrytis cinerea). Fitofagi: • crociera (Criocera asparagi), • mosca dell’asparago (Platyparea poeciloptera), • mosca grigia (Delia platura), • afidi (Aphis spp.), • cosside dell’asparago (Ipopta caestrum). Virosi: • virus dell’asparago I principi attivi, le dosi e metodologie di impiego dei fitosanitari vengono omessi in quanto subordinati allo stato della coltura, condizioni ambientali, pressione e ciclo dei patogeni. Solo un tecnico specializzato può interpretarli al meglio predispo-
nendo un piano di difesa efficace e sostenibile. La pianta di asparago ha uno zero vegetativo compreso tra 10-12°C, le temperature comprese tra 20-25°C risultano ottimali per una buona emersione dei turioni in primavera; temperature eccessive associate a tecniche di forzatura possono portare ad allessamento o scottature dei turioni (Fig.2).
La produzione del verde in campo: La produzione dell’asparago verde in pieno campo è quella maggiormente diffusa e che comporta i minori costi produttivi. Per tale tipologia di produzione generalmente vengono utilizzati sesti di impianto che possono raggiungere infittimenti maggiori rispetto al forzato bianco; generalmente ricompresi tra 1,3-1,8 tra le file e dai 3-5 zampe per metro
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AZIENDA AGRICOLA MASO GOSET L’azienda produce uva da vino, mele, asparagi bianchi (di Zambana) e ciliegie; l’azienda è ubicata a Lavis (TN) in fraz. Nave San Felice. Riferimento aziendale: Per. Agr. Faccenda Daniele Via Fornaci 18/a - Nave S.Rocco 38010 - Trento Cell. +39 338 4108615 Mail: daniele.faccenda@libero.it
Fig. 3 - Nevicata su asparagiaia nel nord Italia lineare. Naturalmente il sesto di impianto deve essere calibrato in base alle variabili varietali, di fertilità e meccanizzazione disponibile. La colorazione verde del turione si ottiene lasciando vegetare la pianta alla luce del sole, il terreno rimane sempre pianeggiante e questo permette di poter meccanizzare le fasi di raccolta tramite degli agevolatori. La gestione primaverile delle malerbe risulta di cruciale importanza in quanto durante la fase di emersione risulta difficile un controllo efficace delle stesse. Per poter anticipare l’emersione è possibile applicare delle forzature con dei minitunnel o riscaldamenti basali.
La produzione forzata del bianco La produzione di asparagi bianchi rappresenta una nicchia produttiva che trova diffusione in particolari areali della penisola. Rispetto al verde questa tecnica produttiva trova dei vincoli legati alla struttura del terreno, sono assolutamente da evitare terreni con scheletro o pesanti; da prediligere quelli sciolti con una buona presenza di sabbia. Tale vincolo è legato al fatto che il turione dovendo attraversare un cumulo di terreno precedentemente baulato di 30-40 cm, l’eventuale presenza di
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uno scheletro importante o di un terreno pesante creerebbe non pochi problemi. I sesti di impianto generalmente utilizzati sono di 2 – 2,5 metri tra le file e 3-6 zampe per metro lineare a seconda delle variabili che esistono anche per il verde. La coltivazione dell’asparago bianco annovera svariate metodologie di forzature atte ad anticipare l’emersione del prodotto. Queste sono tipiche di alcuni luoghi come l’utilizzo del cascame di cotone pressato che con la successiva bagnatura fermenta producendo calore. Sono inoltre diffusi l’utilizzo di serre con capienza di notevoli volumi d’aria, i microtunnel stesi sopra il filare, la stesura in piano di teli trasparenti o tessuto non tessuto prima dell’emersione, il riscaldamento basale tramite tubi dove far circolare acqua calda o il film plastico nero che oltre ad avere un effetto pacciamante evita la colorazione dei turioni. Non di rado l’eccessiva spinta all’anticipo di produzione trova degli inconvenienti ambientali specie nelle zone più fredde del nord Italia (Fig.3). Perito agrario Daniele Faccenda daniele.faccenda@libero.it
Coltivazioni
Produzione hobbistica di piantine da orto Vediamo come organizzare un piccolo semenzaio per la produzione di piante per il proprio orto di
Danilo Melchiori
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e siete interessati a produrvi le piantine per il vostro orto, vi illustro come, hobbisticamente, mi organizzo io. Solitamente inizio già a gennaio-febbraio le semine (dipende dalle diverse orticole da allevare); inizio con melanzane, peperoni e peperoncini che sono abbastanza lenti nella crescita, continuo successivamente con zucchine, zucche, pomodori e altre verdure che man mano semino in base alla stagionalità. Andiamo a vedere come procedere con alcune foto che meglio spiegano le fasi:
Uso un contenitore per minuterie per far germinare i semini, metto della carta scottex nel fondo, la tengo umida con acqua e metto i semi; tengo il contenitore in un luogo abbastanza caldo, (personalmente mi sono costruito un Germbox riscaldato con un termostato per controllare la temperatura), ma si può usare benissimo qualsiasi altro sistema, l’importante è raggiungere tempera-
Coltivazioni
ture fra i 25 e i 30 gradi. Dopo alcuni giorni (da 2 a 20) si vedranno germinare i semi; quando il germoglio è circa 5mm lo metto delicatamente in vasetti con terriccio da semina e copro i vasetti con pellicola trasparente per tenere un’umidità costante. Per i vasetti solitamente uso bicchierini o vasetti di torba.
Una volta sistemati i semi aspetto che spuntino dal terreno le giovani piantine; tengo tutti i contenitori ad una temperatura di circa 20-22 gradi ed annaffio leggermente servendomi di una siringa (in questo modo posso dosare bene la quantità di acqua per ogni pianta). Il terriccio deve risultare sempre umido, non bagnato, per evitare l’insorgere di muffe che
b e malattie
potrebro favorire fungine.
Pian piano le piantine crescono, in base alla crescita vedo se necessitano o meno di essere trapiantate in contenitori di maggiori dimensioni, in modo da permettere un buon sviluppo dell’apparato radicale. In questo modo si arriverà al momento del trapianto con piantine forti e sane, pronte per essere messe a dimora nell’orto o in vasi di appropriate dimensioni.
Spero di aver fornito qualche spunto utile a chi, magari alle prime esperienze, vuole provare questa bella esperienza, la produzione in proprio delle piantine per l’orticello di casa. Danilo Melchiori Appassionato orticoltore
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Il Teroldego Rotaliano Un vitigno autoctono caratteristico della Piana Rotaliana che da luogo ad un vino rosso d’eccellenza di
Marco Sollazzo
Fig. 1 - Uva Teroldego Il Teroldego Rotaliano viene citato sui libri dell’ampelografia trentina come vitigno tipico e caratteristico della Piana rotaliana fra il 1810 e il 1813. Per tutta la durata del Governo austriaco in Trentino, il Teroldego fu particolarmente apprezzato e stimato, tanto da essere sperimentato in diverse zone viticole dell’Impero, tra le quali l’Istria. A partire dal 1937 il cav. Guido Gallo, enologo, direttore della più importante cantina di Mezzolombardo, accademico della vite, appassionato e studioso del Teroldego, iniziò a scrivere sui giornali, sia tecnici che locali, una serie di articoli sul vitigno e sulla Piana rotaliana in generale.
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Fu lui a proporre il nome definitivo di “Teroldego” in sostituzione dell’allora italianizzato “Teroldico”, aggiungendogli l’ottima definizione di “Vino principe del Trentino”. La zona di produzione del vino “Teroldego Rotaliano” comprende la porzione del Campo Rotaliano, ricadente nei comuni di Mezzolombardo, Mezzocorona e nella frazione di Grumo del comune di S. Michele all’Adige e dati riferiti al 2006 riportano che sono coltivati 407 ettari di vigneto per la produzione di Teroldego Rotaliano D.O.C. Alcuni Autori (Grando et al., 2006), attraverso uno studio del DNA sono riusciti a ricostruire il pedigree del Teroldego, con il quale è stato dimostrato che risulta essere genitore (padre) di due varietà caratteristiche della piana rotaliana: il Marzemimo e il Lagrein. Uno studio di Storchi et al., (2008) evidenzia come il Teroldego, rispetto ad altre 13 varietà a bacca rossa ha una componente polifenolica importante e addirittura la quantità di antociani totali (molecole responsabili del colore rosso del vino) è superiore a varietà come il Cabernet Sauvignon, il Syrah e Sagrantino. Nella composizione aromatica del Teroldego assumono importanza gli esteri di fermentazione, in particolare il cinnamato di etile che conferisce l’odore tipico di lampone e di viola e presenta una soglia di percezione relativamente bassa (30-50ug/L). Tale composto può essere maggiormente esaltato con la macerazione carbonica, perchè le condizioni di anaerobiosi stimolano il processo biochimico che porta alla formazione finale di questo composto. Nell’assaggio di questo vino emerge anche un elevato sentore di pepe
che sembra essere imputabile al rotundone, un sequiterpene ritrovato in maniera ubiquitaria in diverse varietà d’uva a bacca rossa (Wood C., et al., 2008; Mattivi F., et al., 2011). Tale molecola è stata rilevata
Fig. 2 - Gli aromi caratteristici del Teroldego: viola, lampone e pepe in quantità di ben 16 volte la sua soglia di percezione. Dagli studi emerge che la macerazione delle bucce ha un ruolo chiave per l’estrazione del rotundone nel vino, perchè circa il 99% è stato rilevato sulla buccia e solo l’1% nella polpa (non identificato nei vinaccioli). Sembrerebbe inoltre che annate più fresche e meno calde siano ideali per un maggiore accumulo nell’uva di questo composto. Il Teroldego Rotaliano rappresenta una meravigliosa realtà del panorama vitivinicolo italiano reso anche possibile dal connubio tra le notizie storiche trovate e la sua collocazione geografica. Il prodotto è sostenuto dalle sue attitudini enologiche intrinseche, in particolar modo alle sue proprietà polifenoliche ed aromatiche. Dr. Enologo Marco Sollazzo sollazzo.marco@hotmail.it
Coltivazioni
Fitofarmaci: uso sostenibile ed hobbistica di
Marco Gimmillaro
Negli ultimi anni si è vista crescere maggiormente l’esigenza di percorrere la strada dell’uso sostenibile dei fitofarmaci, per una maggiore tutela della salute umana e dell’ambiente. Questa è la ragione per cui si lavora per creare un’apposita direttiva che abbia come scopo principale quello di ridurre l’impatto dei fitofarmaci e i rischi derivati dal loro uso, promuovendo i principi della lotta integrata e/o biologica e sistemi di coltivazione alternativi con metodi di difesa non chimici o a basso impatto ambientale. La lotta integrata diventerà presto obbligatoria e quindi saranno forniti servizi di monitoraggio delle specie infestanti con il conseguente diffondersi di servizi di assistenza tecnica e la redazione di bollettini fitosanitari, mezzi importanti per la valutazione dell’effettiva necessità all’impiego di fitofarmaci.
Dispositivi di Protezione Individuali: occhiali a mascherina, maschera con filtri, tuta e guanti Questa sarà la svolta dei tempi a venire per l’agricoltura professionale, a maggior ragione dovrebbe esserlo per l’agricoltura hobbistica il cui obiettivo primario è l’autoconsumo. Diversi sono gli spunti che hanno portato all’esigenza di scrivere sull’argomento, perché molte volte si assiste a discussioni o a pratiche di uso comune nell’hobbistica che met-
Coltivazioni
tono in risalto la mancanza di una cultura basilare sulle conoscenze più elementari sull’uso dei fitofarmaci, con comportamenti che possono essere molto pericolosi per chi ne fa uso in maniera errata. L’aggravante è che tutto viene fatto con convinzione di operare senza conseguenze. Gli errori più comuni nell’utilizzo di fitofarmaci sono principalmente: • Il mancato rispetto delle indicazioni d’impiego riportate sull’etichetta; • Il mancato rispetto dei tempi di carenza; • L’assenza totale di dispositivi di sicurezza individuale (D.P.I.); • L’impiego di attrezzature non adeguate; • Il mancato rispetto delle fasce di rispetto e delle distanze dai corsi d’acqua; • Lo smaltimento non corretto della soluzione, delle acque di lavaggio, delle attrezzature impiegate e dei contenitori vuoti. L’errore principale sta a monte poiché manca una mentalità che porti ad usare i fitofarmaci solo se necessari che nell’eventualità, si dovrebbero scegliere aventi principi attivi a più basso impatto ambientale e, ove possibile, usare anche metodi alternativi di difesa. Per questo prima di utilizzarli si dovrebbe avere la giusta formazione e preparazione, e si ricorda che per acquistare ed utilizzare molti principi attivi occorre l’apposito patentino, che viene rilasciato solo dopo aver frequentato un corso propedeutico e che consigliamo a tutti quelli che non hanno una specifica formazione agraria. Quando si acquista un fitofarmaco ci si deve rivolgere sicuramente a canali
di vendita autorizzati, ricordatevi che anche nei fitofarmaci esistono contraffazioni e prodotti illegali o rubati. Prima di tutto assicurarsi dell’inte-
Operatore dotato di tutti i D.P.I. necessari per eseguire un trattamento fitosanitario grità delle confezioni dei prodotti e trasportarli con la massima cura, per evitare sversamenti, chiaramente andrebbero comprati senza eccessi nella quantità necessaria, questo per limitare il più possibile le rimanenze in magazzino. Eventualmente lo stoccaggio deve avvenire in luogo chiuso e non accessibile a tutti, asciutto e ventilato e dovrebbero essere usati dei ripiani a norma di legge. Utile avere disponibile del materiale assorbente per le fuoriuscite accidentali. Prima di utilizzare un qualsiasi principio fitosanitario, si deve attentamente leggere l’etichetta, dove sono riportate tutte le informazioni
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tecniche e di pericolo del prodotto, il detentore del marchio, come il nome del formulato commerciale, il principio attivo e la quantità, i coformulanti, le autorizzazioni, le frasi di rischio per la salute e l’ambiente e poi tutte le indicazioni tecniche che sono fondamentali per la buona riuscita del trattamento. Nelle etichette sono riportate le colture e le avversità autorizzate, eventuali sensibilità varietali, lo stadio dell’organismo bersaglio e della coltura in cui fare il tratta-
di applicazioni? Poiché ciò serve a prevenire l’insorgere di resistenze nelle popolazioni di insetti e patogeni presenti nell’ambiente, anche per questo è fondamentale quanto indicato sull’etichetta. Quando ci si appresta alla preparazione della soluzione è molto importante indossare, per tutto il tempo (dall’apertura dei contenitori allo smaltimento della soluzione) i giusti D.P.I., che devono essere in buone condizioni, indossati correttamente
E’ importante rispettare i tempi di carenza prima di raccogliere i frutti delle piante che hanno subito trattamenti fitosanitari mento, altre informazioni sul volume, le dosi e i metodi applicativi, la miscibilità con concimi ed altri fitofarmaci, l’intervallo di sicurezza, cioè il tempo che deve intercorrere tra il trattamento e la raccolta, il numero massimo di trattamenti per ciclo colturale o stagione, la possibilità di impiego in serra e il tempo di rientro nelle superfici trattate. Rispettando tutte queste indicazioni si è sicuri di avere il massimo risultato tecnico e il minor rischio ambientale e si deve essere consapevoli che ogni uso fuori dall’etichetta è illegale. Ma perché è importante rispettare dosi, organismi bersaglio e numero
Eventi ed attività riservate ai soci
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2014 RE PRODURTE LE PIAN TO PER L’OR RE SCEGLIE O IL MAIALINSO RAS DA ING : IL NOVITA’ DI CAVIALE LUMACA RE UTILIZZA I LIO AL MEG MACI FITOFAR
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e adeguati al tipo di trattamento che si deve eseguire. La soluzione deve essere preparata con la massima attenzione rispettando dosi e volumi e si deve fare in modo da non preparare soluzione in eccesso rispetto alla necessaria. Vanno rispettate anche le indicazioni di miscibilità e la soluzione deve essere preparata poco prima di essere irrorata, quindi è importante fare attenzione alle previsioni meteo per quanto riguarda le precipitazioni nelle ore successive al trattamento e vento al momento dell’applicazione. Importante usare delle attrezzature idonee e funzionanti, chiaramente nell’hobbistica molte volte si è costretti ad usare pic-
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cole macchine irroratrici e per lo più manuali, quindi non si può pretendere la taratura, ma almeno che siano attrezzature autorizzate per questo uso e perfettamente funzionanti. Il serbatoio non deve essere riempito completamente e si deve avere cura di trattare solo la parte in cui è necessario il trattamento, che va eseguito in maniera uniforme evitando l’eccessivo gocciolamento. Inoltre si deve prestare la massima attenzione a non irrorare le siepi di bordo e mantenersi lontano dai corsi d’acqua, così da ridurre gli effetti sugli artropodi utili o non bersaglio. Non trattare se c’è eccessiva deriva causata dal vento e non trattare con insetticidi le colture in fioritura o in presenza di cotico fiorito per evitare di avere effetti sui pronubi. Una volta finita l’applicazione, sempre con i D.P.I indossati, si deve pulire l’attrezzatura, le acque di lavaggio e i residui della soluzione, unitamente ai contenitori risciacquati, vanno smaltiti correttamente secondo la normative vigente presso i centri di raccolta autorizzati. Questi principi sono fondamentali sia per la buona riuscita agronomica delle irrorazioni ma rimangono fondamentali per tutelare la salute umana e l’ambiente dei nostri orti, che spesso è anche l’ambiente in cui viviamo e per questo tutti noi siamo chiamati a rispettarlo e tutelarlo.
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Coltivazioni
La razza bovina Piemontese Un bovino con peculiari caratteristiche di rusticità, adattabilità e qualità organolettiche della carne di
Gianfranco Gamba
L
a razza bovina Piemontese riveste un ruolo predominante nella Regione di provenienza, grazie alle sue peculiari caratteristiche di rusticità, adattabilità, ipertrofia muscolare e caratteristiche organolettiche della carne. Rappresenta, inoltre, un elemento caratterizzante del territorio, con esternalità anche sul piano economico, culturale e sociale.
La resa alla macellazione è molto elevata, in media 67-68% nei vitelloni, con punte anche del 72%, con una ridotta incidenza di osso e grasso di copertura nelle carcasse, fatto che determina una resa in carne estremamente elevata. La conformazione delle carcasse è eccellente, sempre nelle classi S ed E della classificazione S-EUROP. Oltre a tutto ciò la vacca Piemontese
me pronunciate che si accentuano in corrispondenza della groppa e della coscia dove le fasce muscolari evidenziano uno sviluppo sorprendentemente notevole: la conformazione rotondeggiante che ne deriva si accompagna ad una linea più o meno evidente di demarcazione tra le due parti laterali della groppa che richiama alla mente l’immagine di un cavallo di razza da tiro pesante. Questa peculiarità della “groppa a cavallo”, prima accettata con qualche sospetto e poi apprezzata senza riserva da allevatori ed esperti, è entrata a far parte dello standard della razza bovina Piemontese ed è alla base della denominazione “Vitelloni Piemontesi della coscia”, per la quale è in corso una richiesta di lGP (Indicazioni Geografica Protetta).
L’ipertrofia muscolare
Nonostante la taglia, l’accrescimento dei soggetti di razza Piemontese è elevato, raggiungendo nei vitelloni 1.4 kg/giorno tra lo svezzamento e la macellazione, quando le condizioni di alimentazione ed ambientali sono ottimali. Gli indici di conversione dell’alimento in peso vivo sono tra i migliori e conferiscono alla Piemontese un’efficienza alimentare superiore a quella di tutte le altre razze bovine.
Zootecnia
vanta una produzione di latte più che sufficiente alle esigenze di mantenimento del vitello, derivante dalla duplice attitudine per la quale la razza era selezionata nel passato. Alcuni allevatori di Piemontese, in particolare quelli delle zone di produzione di formaggi tipici, utilizzano questa produzione aggiuntiva per la trasformazione. La figura dei soggetti della razza Piemontese si modella intorno a for-
Zootecnia
Campionessa assoluta 2013 - Vacche razza Piemontese Lega - Del Soglio f.lli s.s.
La caratteristica peculiare della Piemontese è la presenza del carattere dell’ipertrofia muscolare o groppa doppia. Tale manifestazione è comparsa nel corso del secolo scorso e si è progressivamente diffusa sino ad interessare oggi la quasi totalità degli animali iscritti al Libro Genealogico e comunque una percentuale molto elevata della razza nel suo complesso. Da un punto di vista genetico l’ipertrofia muscolare storicamente è sempre stata ritenuta derivare da una mutazione, evento che si verifica naturalmente negli organismi viventi seppure con bassa probabilità, e la sua diffusione è stata resa possibile dalla successiva attività di selezione praticata prima dagli allevatori ed in
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seguito dall’ANABORAPI sino alla sua quasi completa fissazione. In tempi recenti le tecniche della genetica molecolare hanno reso possibile verificare quale sia il gene implicato e quale tipo di mutazione abbia avuto luogo. E’ stato accertato che la mutazione interessa il gene della miostatina situato sul cromosoma 2 e che la mutazione riscontrata nei soggetti Piemontesi è di tipo diverso da quella riscontrata in altre razze. La mutazione determina un notevole aumento delle masse muscolari, e conseguentemente della resa al macello dei soggetti, dovuto ad un incremento nel numero delle fibre mu-
piccole, pelle fine ed elastica, un ridotto tenore di grasso sottocutaneo ed una carne tenera e magra, ma gustosa. I vitelli alla nascita pesano in media tra 40 kg e 45 kg. I vitelloni sono pronti per la macellazione ad un peso di 550-650 kg raggiunto a circa 15-18 mesi per i maschi e a 350-450 kg ed un’età di 14-16 mesi per le femmine. I vitelli generalmente sono svezzati a un’età di 4-6 mesi a pesi compresi tra 160 e 200 kg. L’allevamento delle vacche Piemontesi è di tipo tradizionale con stabulazione fissa, meno frequentemente libera in box. L’alimentazione è molto semplice ed
fissa sono ora frequentemente sostituiti da sistemi a stabulazione libera in box su lettiera permanente. La loro alimentazione si basa su mangime, spesso di produzione aziendale, a base di cereali e di fieno o paglia come fonte fibrosa.
Storia della razza I primi riscontri storici sulla razza bovina Piemontese risalgono al 1886, con una mutazione naturale avvenuta su un bovino a Guarene d’Alba, che sta alla base del carattere “doppia groppa”, cioè dell’ipertrofia muscolare della razza Piemontese. Nel 1932 viene definito uno standard
Campione assoluto 2013 - Tori razza Piemontese Pizzo - Viale Luciano scolari. Alla maggiore muscolosità si accompagnano inoltre una diminuzione del grasso intramuscolare ed anche del tessuto connettivo, determinando una maggiore tenerezza della carne.
L’allevamento La Piemontese è una razza longeva, che dimostra una buona adattabilità ai climi più diversi e che risponde bene sia nell’allevamento stallino, sia in quello brado o semibrado. Morfologicamente presenta ossa
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è costituita prevalentemente da foraggi aziendali, verdi o essiccati (o insilati), integrati da un mangime costituito prevalentemente da cereali o leguminose coltivati nella zona. La vacca Piemontese può essere allevata vantaggiosamente non solo sui pascoli pianeggianti e collinari, ma anche su quelli montani più poveri, perché è un’ottima trasformatrice nell’alimento e adattabile alle condizioni ambientali più diverse. Per i vitelloni all’ingrasso i tradizionali sistemi di allevamento a posta
di razza che contempla la triplice attitudine (latte, carne, lavoro), ma nel 1958 lo standard va definendosi verso la duplice attitudine: prima latte e poi carne. Nel 1966 lo standard della razza Piemontese inverte la duplice attitudine dando più importanza alla carne rispetto alla produzione da latte. La conformazione da carne, intesa come muscolosità va accentuandosi, mentre la mungitura della vacca mostra tutti i suoi limiti se confrontata con la Razza Frisona.
Zootecnia
Nel 1976 la Piemontese diventa una razza specializzata per la produzione di carne e la selezione si orienta solo più in questa direzione. Oggi, grazie all’attività di selezione operata negli anni dagli allevatori, la Piemontese è una razza che produce una eccellente qualità di carne.
Anaborapi Schema di selezione Selezione genetica produzione di carne e quelli riproduttivi legati all’andamento del parto. L’Anaborapi ha individuato 2 indici di selezione che determinano la graduatoria in base alla quale vengono scelti i tori da destinare alla fecondazione artificiale: l’indice Carne e l’indice Allevamento. Questi indici combinano, ponderandoli economicamente, gli indici genetici dei seguenti caratteri: accrescimento, muscolosità, facilità di nascita, facilità di parto e correttezza. L’indice Carne ha l’obiettivo di individuare i tori più validi per produrre animali da macello. L’indice Allevamento ha l’obiettivo di individuare i tori più adatti a produrre le fattrici, cioè le migliori vacche destinate alla riproduzione. Gli allevamenti di fassone piemontese sono fatti risalire agli inizi del 1800, periodo al quale risale la distinzione in due categorie, cioè: - Ordinaria collinare destinata prevalentemente all’impiego in attività lavorative e alla produzione di latte per l’allevamento dei vitelli; essa era allevata nelle Langhe, nelle zone collinari di Chieri, Moncalieri, Santena e nel Canavese. - Scelta di pianura dotata di caratteristiche simili alla precedente, per la pregevolezza della carne il suo allevamento era finalizzato alla produzione di latte e alla macellazione; diffusa prevalentemente nelle pianure alla destra del fiume Po. Gli allevamenti della Piemontese sono di 3 tipi: gli allevamenti completi, gli allevamenti specializzati nella riproduzione e gli allevamenti specializzati nell’ingrasso. Il 70% delle aziende che allevano la Piemontese sono a ciclo completo:
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in queste fattorie vengono allevati, normalmente in due stalle separate, sia le fattrici con i vitellini, sia i capi destinati all’ingrasso, vale a dire tutti i maschi e le femmine non adatte alla riproduzione. Negli allevamenti specializzati nella riproduzione, che rappresentano il 20% del totale, vengono allevate le fattrici per la riproduzione e la vendita di vitellini da ingrasso. Solamente il 10% delle aziende che allevano la Razza Piemontese si dedica esclusivamente all’ingrasso. I cosiddetti “puparin” (1 mese di età) e “mangiarin” (6 mesi di età) vengono acquistati negli allevamenti specializzati per la riproduzione. I capi permangono nell’azienda di ingrasso fino a 16 – 18 mesi, età ottimale per la macellazione.
Standard di razza Caratteri morfologici Mantello: nei tori il mantello è grigio o fromentino chiaro con sensibile accentuazione dei peli neri sulla testa (specie intorno alle orbite), sul collo, sulle spalle e sulle regioni distali degli arti; talora anche nelle facce laterali del tronco e sugli arti posteriori con formazione di macchie o chiazze scure; nelle vacche il mantello è bianco o fromentino chiaro con sfumature fino al grigio o al fromentino; i vitelli alla nascita hanno il mantello fromentino carico. Pigmentazione: sono nere le seguenti parti: il musello, le labbra, le mucose orali (lingua, palato e guance), le ciglia, i margini delle palpebre e dell’orecchio, il fiocco del prepuzio, la parte inferiore dello scroto, la nappa della coda, l’apertura anale e le labbra della vulva, gli unghioni e gli unghielli. Le corna, nere sin verso i 20 mesi di età, si presentano negli adulti giallastre alla base, più chiare nel terzo medio e nere all’apice. La parziale depigmentazione delle parti predette non costituisce motivo di squalifica. Cute: morbida, elastica, sottile. Spalle: compatte, larghe, muscolose, bene aderenti al tronco ed in giusta direzione. Collo: largo, muscoloso e con gibbosità alquanto pronunciata nel toro, relativamente lungo e meno muscoloso nelle femmine, giogaia leggera
e di medio sviluppo. Testa: espressiva, più corta e larga nel toro, più lunga e fine nella vacca, sincipite ricoperto da un piccolo ciuffo, sovente di color fromentino chiaro, fronte piana e lievemente depressa fra le arcate orbitali prominenti; orecchio di medio sviluppo, occhi grandi con espressione vivace (il colore dell’iride è nero); il naso largo, diritto, con narici ampie, musello largo, bocca ampia con labbra ben pronunciate. Garrese: ampio e muscoloso, unito con continuità al collo. Dorso: largo ed orizzontale. Lombi: muscolosi e pieni. Petto: largo e muscoloso. Torace: profondo. Costato: ben arcuato, lungo, profondo. Ventre: ampio e profondo. Fianchi: pieni, piuttosto lunghi. Coda: lunga, con fiocco abbondante. Groppa: nel toro ampia e di buon sviluppo muscolare, nella vacca larga, lunga e muscolosa. Coscia: nei tori ampia e ben muscolosa, nelle vacche piena e ben sviluppata. Natiche: nei tori ampie e di accentuato sviluppo muscolare, lunghe, nelle vacche ampie e ben discese. Arti Anteriori: solidi, braccio piuttosto corto, avambraccio lungo e muscoloso, ginocchio spesso e largo, stinco di media lunghezza e solido, nodello robusto, pastoia corta, unghioni robusti e serrati. Arti Posteriori: ben diretti esenti da tare, gamba muscolosa, garretto largo e solido, non diritto e non falciato, nodello robusto, pastoia corta, unghioni robusti e serrati. Fonti: it.wikipedia.org/wiki/Fassone it.wikipedia.org/wiki/Razza_bovina_piemontese www.anaborapi.it www.coalvi.it/piemontese/storia.aspx Foto: www.anaborapi.it
Gianfranco Gamba Imprenditore agricolo
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Le mie anatre Dendrocigna Simpatici acquatici ornamentali dai bellissimi colori, originari dell’Africa e del sud America di
Gianpiero Bossi
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a poco più di quattro anni allevo un simpatico acquatico ornamentale chiamato Dendrocigna faccia bianca (Dendrocygna viduata Linnaeus, 1766), specie originaria del sud America e Africa; dalla prima volta che la vidi conquistò subito la mia simpatia sia per la particolare fisionomia sia per i bellissimi colori. I sessi sono praticamente identici salvo essere il maschio leggermente più grande; ad ogni modo per essere sicuri è indispensabile eseguire il sessaggio manualmen-
te. Non hanno abito eclissale quindi possiamo ammirare il loro variopinto piumaggio tutto l’anno. Solitamente raggiungono la maturità sessuale al secondo anno anche
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se ho avuto la fortuna di riprodurle subito al primo; da allora ogni anno mi regalano sempre qualche nuovo piccolo nato. La copula avviene in acqua, elemento indispensabile per quasi tutti gli acquatici ornamentali; il corteggiamento è costituito dal lisciarsi vicendevolmente le piume e terminato l’accoppiamento fanno una breve danza sull’acqua. Le mie dendrocigna facciabianca depongono solitamente verso maggio; come nido scelgono una casset-
ta in legno chiusa su tutti i lati imbottita con della paglia e con un foro di 12-14 cm di diametro come entrata. Depongono circa una decina di uova, grosse come quelle di una
gallina nana di color bianco. La coppia si alterna nella cova, metà giornata cova il maschio, l’altra metà la femmina. La cova dura 28 giorni, difendono strenuamente il nido ed i piccoli dagli intrusi, allevatore compreso. Una caratteristica della specie è
quella di emettere come verso una specie di fischio, da qui il nome inglese whistling duck ovvero anatra fischiatrice. Convivono senza problemi con altre specie di acquatici e restano sempre insieme. L’allevamento non richiede particolari cure; è una specie rustica e resistente anche ai climi più rigidi. Come alimentazione è sufficiente un buon misto granaglie con l’aggiunta ogni tanto di mangime per anatre. Gianpiero Bossi Appassionato allevatore
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Puglia: cavallo ed asino (anima e cuore) Chi visita questa regione, rimane sedotto da qualcosa che eccita l’animo e riscalda il cuore... di
Giuseppe Acella
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a alcuni anni, la Puglia è al centro di un interesse turistico sempre più attratto dalle sue profonde peculiarità. Da nord a sud, chi visita questa regione, rimane sedotto da qualcosa che trascende la bellezza dei luoghi e che fa sentire il turista pervaso da un sentimento coinvolgente che eccita l’ANIMO e riscalda il CUORE. La musica e le danze popolari, i dialetti, i muretti a secco, i trulli, le numerose specie autoctone, sia animali che vegetali, la gastronomia, i paesaggi naturali, le bellezze storiche, l’architettura ed i grandi avvenimenti che hanno segnato la storia di questa terra accendono, più che altrove, il desiderio di farsi tutt’uno con la sua essenza più intima. Allontanandosi dai centri urbani, caratterizzati dal contrasto fra splendidi quartieri storici e moderne attività produttive, si incontrano i luoghi più tipici di questo territorio: paesaggi dove si stende quella campagna che sembra splendidamente cristallizzata in un passato denso di storia e cultura rurale. Lungo le tipiche stradine di campagna, dove solo le moderne macchine agricole tengono ancorati al presente, si incontrano le sorprese più interessanti, vive e rigogliose, incarnate nelle stupende specie autoctone, fonte e frutto di gran parte del fascino della Puglia. Volendo tracciare la geografia delle specie autoctone della zootecnia pugliese, si dovrebbe obbligatoriamente partire dal promontorio del Gargano e dal suo parco nazionale,
Zootecnia
dove le imponenti corna delle grigie Vacche Podoliche (da sempre chiamate, dagli allevatori locali, Vacche Pugliesi) e delle nerissime Capre Garganiche si confondono con i rami degli alberi della Foresta Umbra (foresta dell’ombra); andando al di là del castello saraceno di Lucera, che tanto caro fu a Federico II, vediamo pascolare le pecore Gentile di Puglia, bellissimo esempio di razza merinizzata, residuo di quel colossale fenomeno della transumanza che ha costituito, per secoli, uno dei più notevoli sistemi economici agrari del mondo; in quello che rimane delle paludi costiere, intorno all’antica Siponto, vengono ancora allevate le Bufale per produrre le rinomate mozzarelle; nel Sub Appennino Dauno, custodito dalla comunità del monastero della Consolazione di Deliceto, dove la tradizione vuole che Sant’Alfonso Maria de Liguori compose “Tu scendi dalle stelle”, si riproduce brado il tipico Maiale Nero; un’altra razza ovina autoctona è tipica del comprensorio del Parco dell’Alta Murgia, la pecora Altamurana; nel tarantino troviamo la Capra Ionica; nel Salento la Pecora Leccese.
L’Anima: il Cavallo Murgese
Ma è nel territorio della valle d’Itria, o Murgia dei Trulli, che si estende il distretto zootecnico più importante del “tacco d’Italia”. Qui tutte le razze fin’ora menzionate vengono largamente allevate, ed i loro prodotti trasformati nei modi più appetitosi. Ma due specie su tutte caratterizzano l’anima ed il cuore di queste pittoresche campagne, il Cavallo Murgese e l’Asino di Martina Franca.
Leonardo da Vinci (attr.) - Modello per un cavallo stante
Morello zaino, raramente grigio ferro capezza di moro, dall’aspetto fiero e nobile, coraggioso e forte, con zoccoli solidi e arti resistenti, il Cavallo Murgese appare come i muretti a secco che delimitano i suoi pascoli: resistente all’inclemenza degli elementi e solido contro ogni avversità. Questa razza, che è considerata quella con il più alto grado di purezza in Italia (l’ultimo stallone proveniente da un’altra razza, di cui esiste la discendenza, è Tarquinio il Superbo, di razza Pugliese del Tavoliere, utilizzato a Noci (Ba) negli anni ’50 del ‘900) conserva, più che altro, una purezza intrinseca, nascosta ma visibile ad occhio nudo, una purezza
culturale. Nei boschi che si stendono sulla Murgia vengono da sempre allevati i cavalli, come si può verificare osservando i ritratti di ogni epoca, dalle monete tarantine di età greca al modello di cera di Leonardo Da Vinci in cui è ritratto, verosimilmente, uno dei cavalli del Ducato di
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Bari: da qui si nota come molti elementi morfologici rimangano gli stessi che caratterizzano gli attuali Murgesi. La causa di ciò, più che nel campo della genetica, va ricercata nella cultura, nel gusto radicato negli allevatori e fra le caratteristiche del territorio, cioè nell’ANIMA di questi
luoghi. I cavalli di questa terra aspra e rossa, hanno intrecciato il loro cammino con innumerevoli celebri eventi storici. La guerra di Pirro contro Roma, la Battaglia di Canne fra Annibale e Roma e, ancora, la celeberrima Disfida di Barletta, il cui esito spianò la strada alla conquista spagnola del Regno di Napoli; questi eventi hanno avuto, in un modo o nell’altro, qualcosa a che fare con i cavalli allevati nel comprensorio della Murgia “petrosa”. Ed è estremamente suggestiva la consapevolezza che i cavalli, che sono oggi sotto le nostre selle e davanti ai nostri attacchi, nascono ancora negli stessi pascoli in cui nascevano le cavalcature di due millenni fa. Nel 1925 il dott. Michele De Mauro, in visita nel territorio delle Murge per conto del Regio Deposito Stalloni di Foggia, allo scopo di dare inizio alla selezione dell’asino, rimase colpito dall’uniformità della popolazione cavallina di questa zona che. Classificabile come appartenente al ceppo Orientale-Africano (quindi strettamente imparentata con le attuali razze Berbera, Araba ed asiatiche) ma con diametri e statura superiori, manteneva evidenti i legami con una delle più celebri declinazione del Corsiero Napolitano, la razza di Conversano. La razza della Contea di Conversano fu costituita ed allevata per secoli
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dagli Acquaviva d’Aragona (Conti di Conversano ed Atri), nei boschi fra Conversano, Alberobello e Monopoli. Da essa fu tratto, nel ‘700, l’omonimo stallone morello che ha dato vita alla più apprezzate linea di sangue del cavallo Lipizzano. Dopo l’abolizione dei privilegi feudali, i cavalli di Conversano, mescolatisi con altre rinomate razze allevate nella stessa zona dai Caracciolo Duchi di Martina, dai Duchi di Bari della dinastia Sforzesca ed Aragonese e dalla corona di Napoli, avevano dato vita ad una popolazione equina abbastanza omogenea che, seppur adibita alla produzione di muli ed ai lavori agricoli, nulla aveva perso dell’antica nobiltà. Nerone, primo stallone selezionato (registrato, presso il Deposito Stalloni di Foggia, come “oriundo della razza di Conversano”), così come le prime fattrici iscritte nel Registro Anagrafico, furono verosimilmente scelti dalla commissione ministeriale incaricata tra i soggetti in cui erano più visibili i segni della tradizione equestre delle Murge. Di questi primi soggetti, oggi, in razza sono presenti i discendenti in linea retta maschile degli stalloni Nerone, Granduca da Martina (figlio di una fattrice delle Murge e, probabilmente, di uno stallone Anglo-Normanno) e Araldo delle Murge (figlio di una fattrice delle Murge e di uno stallone Purosangue Orientale proveniente dalla Calabria). Di recente sono stati individuati, grazie al dott. Giuseppe Maria Fraddosio, tre rami genealogici femminili discendenti in linea retta da altrettante fattrici: Peppina (attraverso sua figlia Adriana, nata dall’accoppiamento con il capostipite Nerone), Peppinella (dell’allevamento Chiancone di Martina Franca) e Isabella; inoltre non va ignorato il ruolo che hanno rivestito gli stalloni Palazzo e Tarquinio il Superbo. La selezione fu avviata per ricavare puledri destinati alla rimonta dell’esercito e per creare un nucleo di fattrici selezionate per la produzione dei richiestissimi muli martinesi, molto apprezzati dai reparti alpini. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche il Cavallo delle Murge subì le conseguenze della meccanizzazione. Solo la particolarità dei pascoli
carsici della Murgia, che impedivano l’allevamento di altre razze equine, e l’impiego per la produzione della carne salvarono il Murgese dall’estinzione e dallo snaturamento che colpì tante altre razze italiane. Quindi, se le caratteristiche salienti di questi cavalli, sia morfologiche che strutturali, sono rimaste invariate a dispetto delle continue variazioni delle richieste di mercato, lo si deve solo a motivazioni di carattere culturale ed ambientale. Oggi, dopo poco meno di un secolo e varie fasi della selezione che hanno portato all’appesantimento, poi all’alleggerimento, all’impiego agricolo e alla produzione della carne, ritroviamo il Murgese non più ammirato solo per la sua bellezza e per la sua storia, ma anche per alcuni interessanti risultati sportivi. Certamente vanta un palmares che è poca cosa rispetto al rendimento di razze soggette ad una selezione più mirata, attuata anche attraverso incroci con altre razze estremamente performanti in specifiche discipline. Tuttavia rimangono risultati importantissimi se si considera che il Murgese, negli ultimi cinquant’anni, è stato selezionato esclusivamente con metodi tradizionali che hanno perseguito solo la tipicità ed il corretto sviluppo dei soggetti. La ricchezza di questa razza risiede nelle sue innumerevoli sfaccettature, infatti troviamo soggetti validi sotto il profilo agonistico ma anche bellissimi esemplari da vedere attaccati tanto a tiri d’eleganza quanto ad attacchi tradizionali. I neri cavalli delle Murge sono capaci di soddisfare sia chi vuole un compagno per competere che chi cerca un amico con cui condividere il tempo libero. Oggi il Cavallo Murgese costituisce una realtà concreta, in termini zootecnici e culturali, capace di incantare con la sua presenza e di stupire con le sue prestazioni.
Il cuore: l’Asino di Martina Franca Se il Cavallo Murgese può essere considerato l’ANIMA della Murgia dei Trulli, l’Asino di Martina Franca è, sicuramente, da considerarsi il CUORE. Amabile e paziente, è ottimo per la terapia con gli animali ed il
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Mulo Martinese di 18 mesi Allevamento Santa Candida di Gioia del Colle (BA) – foto Eugenio Netti asino ha raggiunto, nella zona della Murgia, sono da primato mondiale. Pur non detenendo il primato del soggetto più alto, l’Asino di Martina Franca, vanta la stazza, tipica della razza, più imponente del mondo. Lo stallone Vescovo (da Intrigo e Iella – Allevamento Mansueto di Mottola), con il suo metro e sessanta centimetri di altezza, è il soggetto più alto fra i molti riproduttori attualmente in attività. Le origini di questo magnifico esempio di asino sono controverse: come riportato da Gennero e Calcagni (“Cavalli, tutte le razze italiane a colori” edito da L.L. Edizioni Equestri nel 1981), la tradizione lo indica come prodotto derivato dall’introduzione, nella zona di produzione, di asini catalani ad opera di alcuni grandi allevatori individuabili tra i Caracciolo di Martina, gli Acquaviva d’Aragona di Conversano e la Regina di Polonia che reggeva il Ducato di Bari. In effetti, tale importazione sembrerebbe circoscritta a pochi riproduttori, chiaramente incapaci di influenzare concretamente e permanentemente i caratteri degli asini indigeni che probabilmente erano già di grossa taglia e di mantello scuro. Nel 1925 venne istituito il Registro
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Anagrafico dell’Asino di Martina Franca, a cui vennero iscritti i soggetti giudicati idonei alla produzione mulattiera. La storia dell’asino di Martina Franca, dopo il secondo conflitto mondiale, è stata a dir poco tribolata, come lo è stata per tutti gli animali da lavoro, a causa della meccanizzazione dei trasporti e dei lavori agricoli. La consistenza della razza si ridusse tanto da far temere l’estinzione. Infatti, delle tre linee di sangue costituite con gli stalloni Bello, Colosseo e Marco, solo le prime due sono giunte fino a noi, e comunque la famiglia di Bello si è salvata solo grazie all’impegno di allevatori ed istituzioni. Per la salvezza di questa razza, unica nel suo genere, ha giocato un ruolo essenziale la tradizione. Infatti, anche nei periodi peggiori, tanti erano gli allevatori che tenevano in azienda anche solo due fattrici per mantenere viva la tradizione, pur non ricavandone alcun guadagno. I pochi nuclei di apprezzabili dimensioni erano allevati essenzialmente per la carne che, come quella del cavallo, è molto presente nella gastronomia tradizionale della Puglia centro-meridionale. Nonostante ciò la selezione non si è mai fermata: presso Masseria Russoli a Martina Franca e nelle scuderie dell’Istituto Regionale per l’Incremento Ippico della Puglia a Foggia, la Regione Puglia ha continuato a tenere riproduttori di pregio che hanno permesso la sopravvivenza della razza. Temendo per la contrazione del numero e per l’inevitabile innalzamento del tasso di consanguineità, la Regione Puglia, negli ultimi dieci anni, ha attuato un piano per l’espansione numerica e per il rinsanguamento, introducendo in razza pochi stalloni ben scelti, frutto di incrocio con l’asino Ragusano che è la razza asinina più affine al Martina Franca, sia per mole che per aspetto. Negli ultimi anni le cose sono cambiate molto per gli asini: nuovi e vecchi impieghi hanno fatto rinascere
la domanda che, in alcuni periodi, ha superato la disponibilità dei prodotti ed ha fatto innalzare le quotazioni, come accadeva anticamente, anche oltre quelle usuali dei cavalli. Oggi l’asino di Martina Franca è molto richiesto, innanzitutto, per la produzione del latte ma anche per il trekking someggiato e per la terapia assistita. Ma è il suo primordiale utilizzo, la produzione di muli, che sta determinando il fenomeno più inaspettato, anche se ancora di dimensioni marginali. La tendenza ad
Masseria Badessa - Alberobello (BA)
suo latte è adatto a sostituire quello materno. Un animale così non può che essere paragonato ai sentimenti più miti e dolci, usualmente ispirati dal cuore più che dallo spirito. Forte, grande e rassicurante come un trullo, è l’erede del rinomatissimo tipo asinino pugliese che vantava numerosi sottotipi sparsi tra Basilicata, Molise, Abruzzo, Campania e Romagna, e che è sempre stato considerato ideale per la produzione di ottimi muli. Le dimensioni che questo tipo di
uno sfruttamento più sostenibile dei boschi di montagna richiede il ritorno al mulo come mezzo per il trasporto della legna e del carbone. L’ibrido, che si ricava dall’accoppiamento di stalloni Martina Franca con fattrici Murgesi, è di altissima qualità sia per resistenza che per forza e si presta bene al lavoro con il basto. L’asino ed il trullo, vestigia di un passato povero e laborioso, rimangono qui, nella parte più interna e pietrosa della Puglia, solidi ed imperturbabili a presidio di un panorama rurale sempre capace di riempire di dolci sensazioni il cuore di chi lo ammira. Giuseppe Acella Allevatore di cavalli Murgesi ed asini di Martina Franca
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Il fagiano colchico e le mutazioni Una breve introduzione sul fagiano comune e sulle interessanti mutazioni che interessano il genere stesso di
Pasquale D’Ancicco
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l Fagiano Colchico o Fagiano del sud del Caucaso (Phasianus colchicus colchicus) è considerato da alcuni autori il capostipite di tutte le altre sottospecie di fagiano reale tranne che del Fagiano Verde (Phasianus versicolor versicolor), che costituisce un gruppo a parte. Come
co-sporco, piumaggio bruno picchiettato di nero, becco e zampe grigiastri. E’ un fagiano poco diffuso in cattività, da cui tuttavia sono derivate diverse mutazioni, più o meno fissate e più o meno famose attribuibili a lui ed ad altri membri del genere “phasianus” (c. mongolicus, c. torquatus, ecc.); a cominciare dal classico fagiano Tenebroso, (mutazione melanica) e gli Ipermelanici, che è invece una mutazione più recente. Quest’ultima si distingue dal Tenebroso per il piumaggio verde bottiglia scuro uniforme nei maschi, con coda che non riporta il classico disegno con le strisce nere, essendo invece verde bottiglia uniforme; le femmine anziché essere del colore tabacco tipico delle tenebrose sono nere uniforme, coda inclusa.
Fagiano Colchico maschio per la maggior parte dei fagiani, il dimorfismo sessuale è molto accentuato: il maschio, più grosso, ha l’iride gialla, becco avorio, testa verde brillante con riflessi viola metallico, maschera rossa (detta anche rosa) che gonfia durante il corteggiamento. Il collarino bianco intorno al collo è assente, il piumaggio è sulla schiena rosso-purpureo, le copritrici delle ali sono brunastre mentre il ventre è rosso chiaro con un elegante disegno nero; la lunga coda è superiormente oro scuro barrata di nero e inferiormente rosso scuro, mentre le zampe sono grigiastre. La femmina, più piccola, ha generalmente maschera facciale bian-
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Fagiani Albini Meno conosciute e diffuse sono le altre mutazioni come gli Albini e Alaska Snow. Gli Alaska Snow derivano da soggetti bianchi che non presentavano il piumaggio perfettamente candido. Incrociando i primi soggetti mutati con le varie mutazioni è stato possibile ottenere più gradazioni e diverse colorazioni di Alaska, che quindi possono esser bianchi pezzati di nero, fulvo, ecc. con l’estensione
della pezzatura a spruzzi che va dal bianco leggermente spruzzato al colorato spruzzato. Oltre a queste mutazioni, abbastanza comuni in Italia (o perlomeno presenti), vi sono altre mutazioni diffuse in altri paesi come la mutazione Pezzata; quest’ultima a sua volta si distingue in Pezzata, Pezzata verde, Pezzata fulva e Pezzata blu.
Gruppo di fagiani Pezzati Altre mutazioni sono quelle Fulve (che si distinguono in Fulvo, Fulvo rosso, Fulvo isabella e Fulvo grigio), Ardesia, Blu, Silver e Avorio. Vi sono inoltre la mutazione Platino e quella Cioccolato. Il mondo dei fagiani è quindi molto vario dato che, oltre ai classici fagiani da caccia ed ornamentali, vi sono numerose specie pure e mutazioni; se però in Italia non cambierà la cultura riguardo i Fagiani reali, rimarranno solo delle presenze limitate e sporadiche nelle voliere di pochi appassionati. Pasquale D’Ancicco Allevatore amatoriale di fagiani
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Le malattie virali del coniglio Affrontiamo insieme le due più importanti malattie virali del coniglio: la Mixomatosi e la Malattia Emorragica Virale. di
Cristiano Papeschi e Linda Sartini
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uando si gestisce un allevamento, grande o piccolo che sia, rurale, domestico od industriale, ed indipendentemente dalle specie allevate, non ci si può che trovare ad avere a che fare con le patologie. In coniglicoltura le malattie specifiche sono relativamente poche ma non per questo possono essere trascurate: alcune di esse sono responsabili di calo nella produzione mentre altre si rendono colpevoli di gravi danni con elevata mortalità degli animali allevati. Questo è il caso, ad esempio, delle due malattie virali più importanti e ben note sia ai professionisti che agli appassionati di conigli: la Mixomatosi e la Malattia Emorragica Virale. Queste due sono malattie del coniglio soggette a denuncia obbligatoria secondo il regolamento di Polizia Veterinaria a causa della loro elevata diffusibilità dell’agente patogeno, dell’ingente mortalità che determinano e dei danni economici che sono in grado di provocare. Entrambe le patologie non rappresentano un rischio per la salute umana e quindi non rientrano nel gruppo delle cosiddette “zoonosi”, e cioè malattie trasmissibili dall’animale all’uomo. Quando si verifica un focolaio epidemico l’area interessata viene delimitata ed istituita, dalle autorità sanitarie, una “zona di protezione” all’interno del quale vengono abbattuti i capi infetti o con segni di malattia, monitorati tutti gli altri e viene imposto il divieto di movimentare i conigli da fuori a dentro e da dentro a fuori la zona di sorveglianza. L’allarme si considera rientrato quando siano passati alme-
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no sei mesi dall’ultimo episodio conclamato. Entrambi i virus possono essere trasmessi per contatto diretto da animale malato ad animale sano, attraverso i mezzi di trasporto in cui siano stati presenti soggetti infetti, attraverso gli abiti e le scarpe contaminate di operatori o visitatori oppure sfruttando il “vettore ematofago”, mosche, zanzare, acari (acari della rogna o zecche) od altri parassiti (pulci e pidocchi) che si nutrono di sangue e quindi potrebbero veicolare in se il patogeno anche a grande distanza e per lungo tempo. Nella prevenzione di queste patologie è necessario innanzitutto mettere in atto una efficace lotta agli insetti ed ai parassiti attraverso zanzariere, trappole e bonifica delle acque stagnanti, anche piccole come sottovasi o pozze, nonché, laddove necessario, operando disinfestazioni e trattamenti antiparassitari mirati e tollerati sia nell’ambiente che direttamente sugli animali. Inoltre quando si acquistano nuovi soggetti da introdurre in allevamento è necessario verificarne i requisiti igienico-sanitari, le vaccinazioni effettuate, lo stato di salute ed eventualmente provvedere ad una quarantena preventiva. In caso di sospetto non si deve mai aspettare ma ricorrere immediatamente al parere di un Medico Veterinario. Per entrambe le patologie non esistono cure efficaci ed il mezzo di prevenzione risiede nella pratica della vaccinazione periodica. Esistono in commercio vaccini mono-
valenti, quindi formulati per una sola malattia, o bivalenti, protettivi contro entrambe le forme morbose, che devono essere somministrati sotto il diretto controllo del medico veterinario che dovrà preventivamente valutare lo stato di salute dell’allevamento ed elaborare un piano vaccinale. In ge-
La zanzara, un vettore ematofago che può trasmettere patogeni nerale si vaccinano i soggetti giovani intorno ai 40-45 giorni e si preventivano richiami scadenzati in funzione del tipo di vaccino utilizzato e della situazione epidemiologica locale. Una corretta vaccinazione aiuta a prevenire il problema e a ridurre la mortalità che, in alcuni casi, può interessare anche il 100% dei conigli presenti in allevamento e rappresentare un grosso rischio di diffusione di queste malattie anche agli allevamenti circostanti. Il periodo di mag-
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La zecca, un altro vettore ematofago giore incidenza delle suddette virosi caratteristiche microbiologiche del va dalla tarda primavera all’autunno virus causale andiamo ad esaminainoltrato, proprio il momento stagio- re la malattia in se per dare qualche nale in cui la presenza di parassiti è indicazione concreta all’allevatopiù elevata. re amatoriale iniziando con un po’ di storia, giusto per avere qualche notizia in più. La prima epidemia Mixomatosi documentata risale al lontano 1896 Anche nota con il nome di “capo- in Uruguay dove la Mixomatosi si è ne”, a causa delle lesioni che pro- resa responsabile di un’ecatombe voca soprattutto nella regione della sia di conigli autoctoni che di imtesta, questa patologia riconosce, portazione. Nonostante la segnalacome agente eziologico o causale, zione alcuni autori ritengono che la un Leporipoxvirus appartenente alla malattia fosse presente ed endemifamiglia Poxviridae. Al di la della no- ca nel continente sudamericano già siosissima discussione relativa alle in precedenza. Per un po’ non se
ne sentì più parlare, probabilmente a causa della scarsità di mezzi di informazione, fino a che non fece nuovamente la sua comparsa in California nel 1930 provocando enorme mortalità e danni economici. Un bel giorno qualcuno pensò di utilizzare il virus come arma biologica... per quale motivo? In Australia la specie coniglio era assente fino a che questo animale non venne importato a scopo zootecnico. Alcuni conigli riuscirono a riguadagnare la libertà, forse per fughe accidentali o forse per abbandoni in territorio libero, e si riprodussero in maniera incontrollata grazie alla disponibilità di cibo ed all’assenza di predatori naturali. La vertiginosa densità di lagomorfi sui terreni coltivati arrecava danni incommensurabili all’agricoltura per cui si pensò ad un modo per tenere ridurre questa popolazione animale introducendo volontariamente sull’isola il virus che, sfuggito al controllo dell’essere umano, provocò milioni di morti tra i conigli australiani. In Europa la comparsa della Mixomatosi risale al 1952 in Francia e due anni dopo iniziò ad interessare anche la nostra Penisola. Da allora questa malattia virale è ricomparsa perioConiglio affetto da Mixomatosi
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dicamente provocando ingenti danni alla coniglicoltura e gli ultimi due casi conclamati si sono verificati nel 2010, in alcuni comuni del milanese, e nella trascorsa estate del 2013, in Emilia Romagna. Il coniglio infetto può diffondere il virus, e quindi contagiare altri soggetti, sia durante il periodo di incubazione, e quindi in assenza di sintomi, sia per alcune settimane dopo la guarigione. L’incubazione inizia da quando l’animale entra in contatto con il virus a quando compaiono i segni clinici e la sua durata media è di 5-10 giorni. Il coniglio malato mostra tumefazioni di varie dimensioni (fino anche a quelle di una nocciola) all’interno del padiglione auricolare, sul contorno occhi, sul naso, sui genitali ed in alcuni casi anche in altri distretti del corpo. Soprattutto le lesioni oculari possono provocare un tale rigonfiamento delle palpebre che potrebbe determinare la chiusura dell’occhio. L’animale si trova quindi in uno stato di sofferenza e depressione tanto che smette di mangiare, dimagrisce e spesso muore nell’arco di un paio di settimane. Le lesioni sono molto caratteristiche ma è necessaria una diagnosi differenziale nei confronti di altre patologie, ad esempio gli ascessi cutanei, da parte di un veterinario. La mortalità è elevata e dipende molto anche dallo stato immunitario degli animali colpiti e dall’aggressività del ceppo virale. Alcuni soggetti guariscono spontaneamente ma rimangono comunque portatori e diffusori del virus per molto tempo.
La Malattia Emorragica Virale Anche in questo caso si tratta di una patologia virale il cui acronimo è MEV (Malattia Emorragica Virale) o RHD (Rabbit Hemorrhagic Disease)
in lingua inglese. Questa patologia è causata da un Lagovirus appartenente alla famiglia Caliciviridae, strettamente correlato con il virus della Malattia Emorragica della lepre anche nota come EBHS (European Brown Hare Sindrome). La sua storia, almeno quella conosciuta, è più recente rispetto alla Mixomatosi, ed ha inizio nella Repubblica Popolare Cinese dove ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 1984. Successivamente è stata segnalata in Asia Orientale nel 1985 e l’anno successivo è approdata nella nostra Penisola per poi diffondersi nel resto dell’Europa continentale tra il 1987 e il 1990. Nel 1992 è comparsa in Inghilterra ma anche gli altri continenti non ne sono stati risparmiati: nel 1988 in Messico ed Africa settentrionale, nel 1990 in Medio Oriente, nel 1994 a Cuba e nel 1995 ha raggiunto l’Oceania. Oggi è considerata diffusa in tutto il Mondo e recentemente la MEV è stata al centro di indagini epidemiologiche da parte delle autorità sanitarie in quanto, nel 2010, è stata isolata una nuova variante del virus, nota come RHDVFra2010, che avrebbe causato una elevata mortalità negli allevamenti di conigli in Francia e probabilmente anche nel nord-est del nostro Paese. I coniglietti prima dei 45-50 giorni di vita sembrano essere refrattari all’infezione che invece colpisce i soggetti adulti e sub-adulti. Anche in questo caso la mortalità è elevata e può raggiungere il 100% dei soggetti presenti in allevamento. Il periodo di incubazione è molto breve ed in genere non supera le 72 ore a partire dal contagio. La morte sopraggiunge spesso in maniera improvvisa e senza preavviso e l’allevatore può trovare deceduti gli animali che fino a poco prima sembravano essere in ottima salute. Ai tempi della prima
comparsa, circa trent’anni fa, questa patologia era nota anche come “malattia dello strillo” poiché i conigli morivano emettendo un grido acuto per poi accasciarsi senza vita. Nelle forme più lievi, si fa per dire, i soggetti colpiti mostrano un decorso più lungo e prima del decesso manifestano debolezza, apatia e smettono di assumere l’alimento. Il sintomo caratteristico, ma non sempre così palese, è la fuosiuscita di sangue dal naso al momento della morte. All’autopsia è facile osservare versamenti di sangue in cavità toracica ed addominale e la parete della trachea si mostra color rosso sangue. La diagnosi certa si ha solamente dopo esame di laboratorio ma i sintomi, la morte improvvisa e l’elevato numerod i decessi sono indizi che già forniscono un’idea del problema. In conclusione, da questa breve trattazione, si può evincere quale sia l’importanza e l’impatto economico e sulla salute animale che queste due malattie rappresentano. E’ necessario non sottovalutarle e parlarne con il proprio veterinario di fiducia al fine di prevenire un flagello che potrebbe avere gravi ripercussioni non solo sui propri conigli, ma anche su quelli del vicinato, sui grandi allevamenti ed anche sui soggetti da compagnia. Dr.ssa Linda Sartini DVM Specializzata in ispezione degli alimenti di origine animale
Dr. Cristiano Papeschi DVM
Università degli Studi della Tuscia Specializzato in teconologia e patologia del coniglio, della selvaggina e degli avicoli
Il Coniglio Nano Cristiano Papeschi - Il Sextante Collana di Agraria.org Alla scoperta del coniglio nano. In modo chiaro e simpatico vengono trattati tutti gli aspetti legati alla sua presenza in casa...
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Colombi: colorazione e genetica Un approccio alla genetica applicata al mondo colombofilo e su come questa influenzi la colorazione dei soggetti di
Fabio Zambon
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a colombicoltura è una pratica molto antica ed era diffusa già al tempo degli egizi. Questo radicato sodalizio tra uomo e colombi ha portato nel corso dei secoli alla formazione di innumerevoli razze a partire da un progenitore comune, il colombo selvatico (Columba livia). Il concetto di geni e genetica si è sviluppato molto più tardi, in seguito alle scoperte d i Gregor Mendel. Nel mondo colombofilo uno dei personaggi che ha maggiormente contribuito allo sviluppo delle conoscenze di genetica applicate alla colombicoltura è stato Willard F. Hollander, autore di una delle prime opere sull’ereditarietà dei caratteri nei colombi intitolata “Origins and Excursions in Pigeon Genetics”. I colombi possiedono circa 40 coppie di cromosomi che nel loro complesso vengono chiamati autosomi ad esclusione di una coppia, quella dei cromosomi sessuali. Nella femmina uno dei due cromosomi sessuali è di dimensioni inferiori e contiene un numero minore di geni. Questa coppia viene indicata con le lettere Z/Z nel maschio e Z/W nella femmina e
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tutti i geni che risiedono in questi due cromosomi vengono detti “sex linked”: legati al sesso. Tutte le colorazioni dei nostri colombi sono il prodotto di due tipi di pigmenti, l’eumelanina e la feomelanina. L’eumelanina, a seconda del grado di ossidazione, da origine alle colorazioni presenti nel range del bruno, del blu e del nero. La feomelanina è il pigmento rossastro da cui derivano le colorazioni delle varie gradazioni del rosso. I colombi non possiedono solo una forma di pigmento melanico per volta, ma il risultato finale deriva dalla mescolanza dell’uno e dell’altro. In altre parole, gli studi dimostrano che quantità variabili di eumelanina e di feomelanina esistono congiuntamente nelle piume delle varie tinte. Il nero ed il bruno sono costituiti prevalentemente da pigmenti di eumelanina con piccole quantità di feomelanina, mentre
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ross o cenere è prevalentemente ricco di feomelanina. Ciò spiega come sia possibile una così grande varietà di gradazioni nelle singole colorazioni. Le varie mutazioni e quindi differenze di forme, colori e comportamenti, si sono sviluppate a partire dalla forma ancestrale. Le sue caratteristiche principali sono: colorazione azzurra chiara sulle ali con verghe nere ed una banda nera sulla coda. Il groppone è bianco mentre il colore della parte superiore del corpo, inclusa la testa ed il collo, è più scura di quella dello scudo alare. I tarsi sono nudi e la testa è priva di ciuffo. I geni codificanti per la tipologia ancestrale vengono indicati con il simbolo “+”. Il simbolo “+” viene attribuito al gene del blu, della vergatura ed a qualsiasi altro gene che contribuisce alla formazione del fenotipo selvatico. Ogni mutazione viene identificata con altre lettere maiuscole o minuscole a seconda che sia dominante o recessiva rispetto al wild type. Quest’ultimo è il punto di partenza o di paragoColmbo selvatico (Columba livia) ne attraverso cui ven-
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Ordine di dominanza: a sinistra un Mondano rosso vergato (dominante); al centro un Mondano blu vergato nero (recessivo rispetto al rosso cenere e dominante rispetto al bruno); a destra un Romano bruno vergato o lattato (recessivo rispetto ai precedenti). gono identificate e descritte le varie mutazioni di colore, disegno, struttura e forma. Dominanza e recessività sono i termini utilizzati per stabilire la relazione che c’è tra due o più varianti di uno stesso gene, dette alleli. Un gene si definisce dominant e q u a n d o non permette l’espessione dell’allele recessivo ed il fenotipo che ne risulta è esclusivamente influenzato dal carattere dominante. Il colore blu viene rappresentato con i simboli “B+” ed è un carattere legato al sesso. Alle sue mutazioni o alleli, il bruno ed il rosso cenere, vengono assegnati rispettivamente i simboli “b” e “BA”, dove “b” (in minuscolo) indica che si tratta di un allele recessivo rispetto a B+. La “A” maiuscola associata alla lettera “B” identifica il rosso dominate o cenere (Ash red). Conoscere alcuni concetti di gene-
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tica semplifica molto il lavoro dell’allevatore e permette di prevedere la trasmissione di alcuni caratteri. In questo modo l’attenzione può essere focalizzata in aspetti e tratti somatici più complessi. Il colombo è una delle specie domestiche che ha subito più modificazioni nel tempo. La selezione delle diverse razze è basata su quattro criteri fondamentali: abilità di volo, morfologia, produzione di carne, canto. La prima comprende i Colombi Viaggiatori ed innumerevoli altre razze da volo tra cui il Rotolatore di Birmingham, specializzato nel compiere capriole in volo ed il Tippler impiegato in gare di resistenza. Alla seconda categoria appartengono la maggior parte delle razze dalle forme e colori più disparati, i cosiddetti colombi da esposizione. Queste razze vengono allevate da appassionati che ogni anno organizzano esposizioni colombofile in tutta Italia. I colombi da carne sono colombi altamente prolifici e di dimensioni medio-grandi e come il nome suggeri-
Colombi viaggiatori in gara: partenza sce vengono selezionati per la resa in carne. Molte delle razze, un tempo utilizzate per questo scopo sono diventate oggi colombi da esposizione poiché divenute inefficienti. Nell’ultima categoria rientrano i colombi Tamburi selezionati per le loro abilità di canto oltre che per la struttura morfologica.
Dr. Fabio Zambon Medico Veterinario appio123@libero.it
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Scegliere il maialino da ingrasso Qualche consiglio pratico su come scegliere un buon esemplare da ingrassare nell’allevamento familiare di
Milena Sansovini
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artecipando al Forum di Agraria.org mi è capitato più volte di leggere che, quando si acquista un maialino da ingrasso del peso di circa 30kg, spesso ci si reca in un grande allevamento dove l’addetto sceglie un esemplare che molte volte è un soggetto piccolino e non tanto robusto.
Ma come si sceglie un buon esemplare? Prima di tutto diciamo che sarebbe utile poter entrare nell’allevamento e vedere l’ambiente in cui vive. Questo non è sempre possibile per ragioni sanitarie: buona norma sarebbe presentarsi muniti di copri-calzari di plastica usa e getta (o delle robuste borse di plastica da infilare ai piedi!). Comunque, se si ha la possibilità, bisognerebbe osservare attentamente il box in cui vivono i maialini. Quelli più leggeri spesso stanno in gabbie sollevate da terra e solo successivamente vengono posti in recinti a terra; inutile dire che sia meglio scegliere quelli a terra, perché sono più robusti e resistenti. Inoltre i box sollevati solitamente sono posti in ambienti riscaldati, mentre quelli a terra sono abituati a vivere con temperature più basse e si ammalano più difficilmente. Studiamo l’aspetto dell’animale e osserviamo che: non deve avere un aspetto pallido o il pelo più lungo degli altri, come pure non deve presentare la schiena ingobbita (significa che ha dei dolori addominali). Non deve avere diarrea, non deve fare feci liquide o semiliquide. Non deve avere una tosse secca,
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mentre qualche leggero starnuto non è nulla di grave. Le zampe devono essere sane, senza rigonfiamenti nelle articolazioni e zoppìe. Discorso a parte le cisti rotondeggianti sugli arti: se l’animale deve vivere in gruppo è meglio scartarlo, se invece vivrà da solo il rigonfiamento tenderà a sparire; l’importante è che però non gli procurari dolore o rossore (infiammazione). Bisogna osservare anche la pancia e la parte posteriore: non ci devono essere rigonfiamenti, spesso sono ernie. Ugualmente da scartare sono i maiali con la pancia troppo gonfia ma in cui si vede la spina dorsale: è un animale malato di atresia che purtroppo vivrà poco. Gli occhi devono essere vispi e non infossati, in quest’ultimo caso il maiale soffre di disidratazione, dovuta molto probabilmente ad un problema intestinale. Se si ha un’esperienza limitata nell’allevamento è meglio scegliere soggetti più pesanti, sono più robusti e si ammaleranno di meno. I suini amano vivere in compagnia, da soli perdono gli stimoli e si spengono psicologicamente; a volte mangiano poco e deperiscono. Se potete, quindi, compratene due. Ricapitolando, il maialino giusto deve avere: 1. Pelo corto e lucente, pelle rosea, non pallida né giallognola. Ovviamente sono da scartare animali con malattie della pelle. 2. Zampe sane, senza zoppìe o ri-
gonfiamenti: guardatelo camminare. 3. Pancia normale, non si deve vedere la spina dorsale, che deve essere dritta e non storta. La pancia non deve essere né troppo vuota né troppo gonfia. 4. Non ci devono essere ernie nella zona posteriore o sotto la pancia. 5. Non deve tossire. 6. Non deve avere la diarrea. 7. Occhi vispi e non infossati. 8. Scegliere preferibilmente un maiale più pesante. 9. Se maschio è meglio che sia già castrato, un problema e un rischio in meno. 10. Posizionato in un recinto con pavimentazione a terra e non in gabbietta sollevata da terra. Quando effettuate l’acquisto richiedete sempre la giusta documentazione sanitaria, quella per il trasporto e fatevi dare un sacco del mangime consumato abitualmente dagli animali. Una volta a casa per 1-2 giorni è normale che il suinetto mangi poco, ma si somministrerà il mangime a cui è già abituato. Si provvederà ad abituare l’animale all’alimentazione scelta da voi con gradualità. Questi consigli si riferiscono a razze bianche, allevate al chiuso; per le altre razze potrebbero esserci alcune differenze. Milena Sansovini Allevatrice
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Le quaglie: una piccola introduzione Un primo approccio pratico al mondo delle quaglie ornamentali ed alle specie da produzione (carne e uova) di
Daniel Marius Hoanca
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er iniziare ci proponiamo di farvi conoscere un po’ della bella famiglia delle quaglie ornamentali e di quelle da allevamento. Alla base della famiglia Coturnix c’è la quaglia comune, Coturnix coturnix, uccello selvatico migrante di Europa,
Fig. 1 - Coturnix coturnix Asia e Africa. Numerose sottospecie sono derivate da questa, includendo la quaglia europea (C.c.coturnix), la quaglia eurasiatica (C.c. comunis) e la quaglia giapponese (C.c. japonica). Associate alla stessa quaglia comune sono anche la quaglia maggiore, Coturnix pectoralis, la quaglia bruna australiana, Coturnix ypsilophorus, la quaglia della pioggia indiana, Coturnix coromendelica o “Rain Quail”, mentre in Africa è presente la quaglia arlecchino, Coturnix delegorguei o “Harlequin Quail”. In Nuova Zelanda troviamo un parente fortemente minacciato di estinzione, la Coturnix novaezelandica o ‘’Koreke’’. Non possiamo dimenticare anche le più piccole della famiglia, la quaglia blu cinese (C.c. chinensis) e la quaglia blu africana, C. c.
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adansonii, che sono allevate per la loro bellezza. Esistono quindi diverse varietà e colorazioni a aseconda dell’area geografica di origine. Ci sarebbe molto da dire su tutte queste sottospecie ma ci soffermeremo, per adesso, solo sulla piu comune quaglia ornamentale da voliera. La quaglia cinese, nota come ‘’Painted Quail’’ o ‘’Button Quail’’, è un gallinaceo piuttosto piccolo, misura infatti dagli 11 ai 14 cm, che si adatta molto bene all’ allevamento in gabbia o voliera, è molto tranquillo e può co-abitare con molte altre specie di volatili ad eccezione di altri galliformi. In natura la quaglia della Cina è diffusa, con ben dieci sottospecie, dall’India occidentale e da Ceylon fino al sud-est della Cina, a Taiwan e spingendosi ancora oltre nell’arcipelago indonesiano, in Nuova Guinea, in Nuova Caledonia, nell’arcipelago di Bismarck, fino alle coste settentrionali, orientali e sud-orientali dell’Australia. Il suo habitat è costituito dalle praterie paludose e dalle steppe erbose ma nelle zone coltivate la quaglia della Cina frequenta le stoppie delle risaie dopo la mietitura. Il maschio, molto colorato, si diffe-
renzia notevolmente dalla femmina caratterizzata da una livrea bruna. La quaglia della Cina non vola volentieri, in caso di pericolo preferisce cercare scampo affidandosi alla corsa. Essendo un uccello monogamo viene allevato di solito in coppia e la costruzione del nido viene affidata alla femmina la quale, dopo aver approntato na “nursery”, depone le uova che vengono covate da entrambi i genitori. I piccoli, che alla nascita sono molto vispi, attivi e veloci nella crescita, escono dall’uovo dopo 16-17 giorni; già dopo soli 2-3 giorni cominciano a vedersi le piume della coda e delle ali. Dopo 6 settimane i piccoli sono gia impiumati e pronti per il volo. Le femmine dopo tre mesi sono gidi nuovo in grado di deporre le uova: questa è infatti un’ottima ovaiola, che rag-
Fig. 2 - Uova di quaglia imballate e pronte per la spedizione giunge il picco massimo di deposizione nel periodo compreso tra
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aprile e luglio, poiché è una specie che ama il caldo. Nel caso in cui le quaglie vengano allevate in gabbia, le uova dovranno essere incubate perché la coppia di solito non riesce a nidificare e trovare la tranquillità giusta per covare.
specifico per selvaggina, reperibile nei normali negozi di agraria.
Quaglia d’allevamento Questi uccelli commerciali sono allevati per la produzione di carne e uova e questa è la ragione per la quale sono distinte dalle quaglie ornamentali. La quaglia giapponese è la razza più usata nei nostri allevamenti. Le colorazioni sono diverse ma predominante rimane quella selvatica. Linea ‘’gold’’: suddivisa in ‘’Manchurian Gold’’ e “Italian”. La linea “Italian” si riconosce facilmente dalle piume dorsali che presentano delle macchie nere a forma di ‘’V’’; la “Manchurian” invece ha piume con diverse sfumature marroni (maschio con testa completamente marrone). Da queste due linee è stata selezionata in Germania la linea ‘’Jumbo”, linea pesante da carne, produttrice di uova più grosse (15 gr di media).
Fig. 3 - Deliziosi spiedini preparati con uova di quaglia In cattività sono state selezionate molte mutazioni come l’Argento, la Blue Face, Cinnamon/Fawn, Golden Pearl, Bianca, etc... Per l’esposizione le Quaglie nane N° 0 della Cina vengono spesso ignorate; essendo gallinacei necessitano di documentazioni particolari che attestino la loro immunità e la mancanza di malattie come l’Influenza Aviaria e la Pseudopeste. L’anello FOI da applicare ad esse è il tipo “C” e viene messo alle zampe dei giovani all’età di 7 giorni circa. La loro vita nelle voliere insieme agli altri volatili li rende dei veri ‘’spazzini’’ poiché si nutrono di scarti ed è quindi sconsigliato per un corretto allevamento dal punto di vista igienico-sanitario. Un’alimentazione corretta è fornita da un buon misto di semi per uccelli esotici ( miglio,panico, ecc...) e si può completare con sfarinato
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LineaPRODURRE comune (fig. 4): di coloraPIANTE allevate sia per la zioneLEselvatica PER L’ORTO
SCEGLIERE IL MAIALINO DA INGRASSO NOVITA’: IL CAVIALE DI LUMACA UTILIZZARE AL MEGLIO I FITOFARMACI
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carne che per uova; è il risultato delle numerose selezioni che ha portato a un peso compreso tra
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Fig. 6
i 350-380 grammi. La loro elevata produzione di uova non è stata alterata, e per questo è diventata la quaglia più usata negli allevamenti. Linea ‘’cioccolato’’ o ‘’bruna’’ o ‘’tibetana’’ (fig. 5): quaglia da uovo e carne allevata anche per le sue belle piume di un colore marrone scuro rosato. Deriva dalla quaglia australiana. Non ci sono diffferenze di colore fra maschio e femmina fatto che le rende difficilmente sessabili fino alla maturità sessuale. Linea ‘’bianca’’ (fig. 6), bella quaglia di piumaggio bianco, a volte con delle macchie nere sul dorso; allevate per uova e carne. Linea ‘’tuxedo’’ (fig. 7), un nome giusto per una bella quaglia da uovo e carne con il petto bianco ed il resto del corpo marrone, deriva dall’incrocio fra quaglia bruna e linea bianca. Vi sono anche altre varietà e muta0 zioni menoN° conosciute come ‘’lavender’’, ‘’cream’’, ‘’giant white’’, etc.
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Daniel Marius Hoanca Fig. 5
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La Ricciola (Seriola dumerili) Una fra le specie più interessanti ed innovative di
Lapo Nannucci
Caratteristiche della specie La ricciola è una magnifica specie pelagica appartenente alla famiglia dei carangidi, che nel panorama delle specie ittiche di allevamento, risulta essere una tra le più innovative ed interessanti scommesse per il futuro. La ricciola, comune in tutto il Mar Mediterraneo e nell’Atlantico meridionale, da adulta può raggiungere una lunghezza di 190 cm ed un peso di circa 70 Kg. Si tratta di un predatore puro, che in natura vive in acque con una profondità compresa tra 20 m (giovanili) e 70 m (adulti), dove si nutre di piccoli pesci pelagici, soprattutto clupeidi, di crostacei e molluschi. Gli esemplari giovani hanno un aspetto completamente diverso dall’adulto e presentano una colorazione giallo-ambra sul corpo e sulle pinne, con la presenza di 6 bande verticali scure, 5 sui fianchi ed 1 sul peduncolo caudale. Le giovani ricciole sono inoltre caratterizzate dalla presenza di una evidente linea scura sulla nuca. I soggetti adulti mostrano una colorazione grigio-azzurra con riflessi dorati sul dorso, tonalità più chiare a livello dei fianchi ed un ventre di colore bianco argenteo. Spesso presentano una fascia color ambra sui fianchi, che si estende in senso longitudinale dalla testa alla coda ed una fascia scura sulla nuca, che dagli occhi arriva fino alla prima pinna dorsale. Gli animali raggiungono la maturità sessuale nel momento in cui hanno
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u n peso corporeo di 8-10 kg e nel Mar Mediterraneo la fase riproduttiva si svolge nel periodo compreso tra il mese di maggio e quello di luglio. In questa stagione, gli adulti sessualmente maturi, formano delle aggregazioni riproduttive molto consistenti nelle acque vicine alla linea di costa che, talvolta, possono essere osservate anche ad occhio nudo dalle alte scogliere che si affacciano sul mare. La ricciola, grazie alle dimensioni corporee e alle sue caratteristiche di predatore molto combattivo, rappresenta una delle prede più ambite dai pescatori sportivi che generalmente cercano di insidiare i grossi esem-
plari pescando a traina da natante con esca viva.
I progressi raggiunti in fase di allevamento: l’esperienza toscana L’allevamento della ricciola fino a qualche tempo fa era totalmente basato sulla stabulazione degli esemplari catturati in natura, in quanto ancora non erano state acquisite le conoscenze necessarie a portare avanti la riproduzione degli individui mantenuti in cattività. Il periodo migliore per effettuare la cattura degli adulti risulta essere la stagione riproduttiva, durante la quale, il tipico comportamento gregario della spe-
Larve di Ricciola - Fonte: repertorio Dip. di Scienze Veterinarie Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa
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Ricciola (Seriola dumerili) - Fonte www.flowergarden.noaa.gov cie, ne permette la cattura tramite l’utilizzo di reti a circuizione. A partire dalla fine degli anni ’90 in alcune avannotterie del Mediterraneo è iniziata la produzione di uova fertili, con limitate produzioni di avannotti, considerate del tutto sperimentali. Poi con il passare degli anni sono state progressivamente acquisite le tecniche necessarie per la gestione della fase riproduttiva e di conseguenza ha avuto inizio l’allevamento vero e proprio della specie. Le esperienze effettuate hanno messo in evidenza il buon adattamento degli individui alla cattività ed all’allevamento intensivo, in particolar modo in gabbie galleggianti e sommerse. Infatti, nell’ambito di alcune prove di allevamento condotte in gabbie galleggianti, i giovanili selvatici di circa 60-70 g hanno raggiunto il peso di 900 g dopo circa 5 mesi di allevamento ed hanno superato i 1.200 g dopo un anno. Nel corso degli anni, nell’area mediterranea, sono state effettuate una serie di sperimentazioni volte all’acquisizione delle più efficaci tecniche di allevamento della ricciola ed una di queste importanti ricerche ha avu-
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to luogo in Toscana, precisamente a Piombino. Nell’anno 2009, infatti, grazie ad un bando pubblicato da ARSIA Regione Toscana che prevedeva il cofinanziamento di progetti di ricerca nel settore dell’acquacoltura, ha preso avvio un progetto denominato RIPRO.SE.DU.TO. (RIPROduzione della SEriola DUmerili in TOscana), che ha visto coinvolti oltre ad ARSIA Regione Toscana, l’azienda Agroittica Toscana Srl (sede principale dell’attività di ricerca) e l’Università di Pisa. Il progetto ha avuto come obbiettivi l’adattamento dei riproduttori alle condizioni di allevamento in vasca a terra, il loro condizionamento, la riproduzione e l’ottenimento di uova fertili, la loro incubazione e la conseguente produzione di larve e avannotti. Il lotto di riproduttori è stato costituito a partire da soggetti catturati in natura, molti dei quali immaturi, che successivamente sono stati trasferiti in vasca a terra e in ambiente chiuso; i soggetti, successivamente, sono stati condizionati in maniera da favorire la maturazione dei riproduttori e la conseguente induzione della fase
riproduttiva. Le condizioni artificiali sono state create agendo principalmente su parametri quali temperatura, illuminazione ed alimentazione e l’obbiettivo è stato quello di emulare le caratteristiche tipiche dei principali luoghi di deposizione, ovvero il Canale di Sicilia ed il Mar Tirreno Meridionale. Inoltre, nel periodo maggio-giugno 2009 e previa verifica del livello di maturazione degli ovociti nei vari soggetti, sono stati effettuati i primi programmi di induzione ormonale della riproduzione. Grazie alle nozioni tecniche acquisite nel corso delle prime prove, il trattamento successivo, effettuato nella stagione 2010, ha permesso di conseguire la deposizione di circa 2 kg di uova con tasso di fecondazione del 95%, dalle quali sono state ottenute circa 50.000 larve sopravvissute fino a 10 giorni di età e con vescica natatoria attivata. Stesso risultato è stato ottenuto anche l’anno successivo, ultimo anno di progetto. Nel complesso, le attività condotte nei tre anni di ricerca hanno permesso di conseguire la messa a punto di tecniche di cattura, manipolazione,
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Ricciola in vasca - Fonte: repertorio Dip. di Scienze Veterinarie Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa trasferimento e anestesia dei riproduttori, nonché del loro corretto condizionamento finalizzato alla maturazione sessuale e alla riproduzione. La gestione della riproduzione risulta essere una fase molto complessa da acquisire nella sua completezza nell’ambito della quale però, grazie NEW SEA A4 ita.pdf 1 14/01/14 11.04 alle attività di sperimentazione (com-
preso il progetto precedentemente descritto), si stanno facendo enormi passi avanti. Il secondo importante fattore che ha sempre condizionato lo sviluppo delle pratiche di allevamento della ricciola risulta essere l’alimentazione. La mancanza sul mercato di un mangime specifico appositamente
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bilanciato per la specie comportava il fatto che fino a qualche anno fa, le diete utilizzate per la nutrizione di questo carangide, fossero costituite da pesce azzurro, bivalvi e molluschi, in alcuni casi integrate con mangimi prodotti da industrie mangimistiche a livello sperimentale. Soltanto negli ultimi anni sono state sviluppate alcune diete commerciali appositamente create per il sostentamento dei fabbisogni energetici della specie e, di conseguenza, il loro impiego in allevamento è piuttosto recente. Infine le informazioni raccolte sull’allevamento della ricciola confermano il ruolo strategico di questa specie nel processo di diversificazione in acquacoltura, grazie alle caratteristiche di rapido accrescimento ed alle taglie ragguardevoli che può raggiungere in tempi assolutamente rapidi.
Dr. Agronomo Lapo Nannucci lapo.nannucci@ gmail.com
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La capra d’affezione Come avviare l’allevamento di uno dei primi animali addomesticati nella storia dell’uomo; questa volta non per la produzione di carne, nè per quella di latte o fibra, ma come animale da compagnia di
Stefano Tosco
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a storia dell’allevamento della capra si perde nella notte dei tempi, poiché questo animale è stato uno dei primi ad essere addomesticato dall’uomo. Che si trattasse di carne, latte, lana o pelle, sono sempre stati molteplici gli impieghi della capra (soprattutto nelle realtà nomadiche) anche gra-
Capre che vincono la diffidenza zie al suo spiccato adattamento ad ogni ambiente e clima. Anche l’allevamento italiano ha tratto sostentamento da questo meraviglioso animale e soprattutto le zone montane e pedemontane hanno avuto (ed hanno tutt’oggi) una tradizione legata a questo ruminante. Ad oggi sempre maggiore è il numero delle persone che intendono avviare un piccolo allevamento di capre, e sovente capita che lo scopo sia quello della “compagnia”: infatti la capra, dopo millenni di impiego per le sue produzioni e caratteristiche, oggi viene allevata anche per affezione. Non solo le più comuni capre dette nane (la Tibetana su tutte), ma anche le capre che nel tempo sono
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state selezionate per la produzione di latte e/o di carne, oggi vengono sempre più allevate nei giardini degli agriturismi o nelle corti di semplici appassionati. Seppur si tratti di un animale spiccatamente rustico, si deve comunque tenere conto di alcune regole fondamentali per la sua salute ed il suo benessere. Sicuramente tali principi possono avere interpretazioni personali spesso dettate dalle esigenze dell’allevatore, comunque di seguito illustreremo i più diffusi, iniziando però con una premessa sugli adempimenti obbligatori per tutti i nuovi allevatori. Per prima cosa, prima di prendere una capra, indipendentemente dallo scopo per cui lo si fa (sia da affezione o per produzione alimentare) è fondamentale recarsi presso gli uffici della A.S.L. Veterinaria del proprio comune, e lì richiedere l’apertura di un Codice di Stalla. Questo permetterà a noi di allevare eventualmente anche altri animali (maiali, pecore, cavalli…) e all’autorità competente di censirli. Successivamente dovremo acquistare due registri: il registro di stalla (per caprini o ovicaprini) ed il registro di carico e scarico del farmaci. Entrambi dovranno essere vidimati dal medesimo ufficio che vi avrà rilasciato il Codice di Stalla. E’ bene rassicurare tutti che tale procedura non è assolutamente onerosa né da un punto di vista economico né di tempo, mentre bisogna tenere presente che tali passaggi sono obbligatori per legge. A questo punto potremo sceglie-
re l’allevamento dove acquistare le capre, facendo attenzione che gli animali che prenderemo siano provvisti di regolari marche auricolari e di chip. Quest’ultimo può essere inserito in una delle due marche auricolari o in un bolo ruminale (una capsula che viene messa dall’allevatore nel rumine). Si devono acquistare solo animali regolarmente registrati dall’allevatore di origine. Questi, prima di venderci l’animale, si recherà presso gli uffici A.S.L. Veterinaria per compilare il Modello 4 (spesso chiamato modello rosa), e ivi scriverà il numero di registrazione dell’animale che si trova sulla marca auricolare. Un altro passaggio fondamentale è quello del trasporto dell’animale dall’allevamento di origine al nostro: è bene non improvvisarsi trasportatori di capre, e prima di spostare l’animale chiedere dettagliate informazioni sempre presso gli uffici A.S.L., ricordando che è illegale trasportare animali con mezzi non autorizzati dall’azienda sanitaria. Arrivata la capra in stalla dovremo recarci agli uffici addetti per consegnare il Modello 4 (che ci sarà stato consegnato dall’allevatore) e registrare definitivamente l’animale nel nostro registro di stalla. Tutto questo potrà spaventare molti, facendogli credere che la burocrazia sia un impedimento per allevare, ma è bene capire che solo attraverso questi passaggi sarà possibile allevare legalmente i nostri animali, tutelando da un punto di vista sanitario loro e noi stessi.
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A questo punto passiamo a quelle che possono essere identificate come le prime regole base per allevare le capre da affezione. Per quanto riguarda la stalla, non è necessaria una struttura mastodontica, ma è fondamentale che la capra abbia necessario spazio vitale e che il luogo dove si alimenta sia distinto da quello dove dorme. La struttura può anche essere semplicemente chiusa su tre lati, coperta da una tettoia inclinata e situata in un luogo riparato dai venti freddi. Sarebbe bene che la capra avesse accesso al pascolo (adeguatamente recintato), magari realizzando un perimetro attorno alla stalla, dove questa possa muoversi liberamente durante il giorno. Certamente ideale sarebbe un pascolo ampio, dove questa possa trascorrere buona parte della giornata, alimentandosi con erba, arbusti e
Doppia marca auricolare ramaglie, ma se non si ha tale possibilità bisogna aumentare la razione alimentare giornaliera. Al mattino generalmente la capra viene alimentata con il fieno: ci si deve assicurare che questo sia asciutto, non sporco e che non presenti muffe di alcun genere. Il fieno permetterà di avviare la corretta attività ruminale dell’animale, e successivamente sarà possibile liberare la capra al pascolo. Sarebbe meglio evitare di liberare gli animali a pascoli bagnati (rugiada, brina, pioggia), ed è buona norma attendere che il sole asciughi il più possibile il terreno. L’erba bagnata è infatti una delle cause più frequenti di problemi di diarrea, e questo può anche costitui-
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re un problema più grave soprattutto per animali giovani o debilitati. Forse, prima di liberare le capre al pascolo, sarebbe bene aver fatto un po’ di pratica con i nostri animali, ed aver iniziato a capire che sorta di tolleranza possano avere all’erba falciandogliela e portandogliela direttamente nella mangiatoia: aumentando giornalmente la dose di questa potremo poi decidere se e quando liberare al pascolo gli animali abituandoli gradualmente anche a questo tipo di alimentazione. E’ fondamentale che la capra disponga sempre di acqua pulita ed abbondante: quotidianamente vanno puliti dalle deiezioni i recipienti in cui esse bevono, e si deve sempre aggiungere (o meglio ancora sostituire) acqua pulita. In inverno è importante fare attenzione che l’acqua non geli, e quindi rompere lo strato di ghiaccio e se possibile aggiungere acqua calda. Fieno ed acqua sempre disponibile, oltre che stalla riparata e pascolo, sono la base per l’allevamento dei caprini da affezione, ma è comunque possibile dare loro altri alimenti. Alla sera potrete somministrare (dopo la dose serale di fieno) delle granaglie o dei cereali schiacciati. Anche le verdure e la frutta fresca possono essere buoni integratori alimentari, ma è bene tenere presente che alimenti come biscotti, pane ed altri prodotti da forno non sono l’ideale per i ruminanti e se somministrati devono essere comunque estremamente secchi, dati occasionalmente ed in dosi più che moderate. In molti usano tenere nella stalla un blocco di sale (specifico ad uso zootecnico per ovicaprini), oppure mescolarne un pugno di quello macinato assieme al mangime e/o granaglie: questo rappresenta un ottimo integratore di sali minerali e vitamine, soprattutto per gli animali
che non hanno accesso al pascolo. L’ultima considerazione può essere fatta sulla lettiera: la paglia è molto indicata, ma anche la segatura può essere una buona soluzione perché, oltre ad essere meno ingombrante, non è appetibile (a differenza della prima) e può quindi svolgere molto bene la funzione a lei destinata. Comunque, tanto per la paglia che per la segatura, è bene rimuovere giornalmente la parte sporca e umida, e sostituirla. Possiamo dire che, se si dispone di passione e spazio adeguato, chiunque potrà allevare questo meraviglioso animale, rispettandone l’identità e non costringendolo con forzate umanizzazioni. La capra potrà stupirvi per l’attenzione che mette nello studiare l’ambiente, nello scegliere il cibo e nel concedersi a voi. Da tenere in considerazione il fatto che la capra è un animale gregario, che male sopporta la solitudine: che si tratti di un suo simile o si un altro animale (spesso sono indicati i cavalli) gradisce la compagnia. E se deciderete di affiancarle un suo simile di sesso diverso, tenete conto che presto avrete dei capretti ad aumentare il vostro allevamento, con conseguenti gioie e complicazioni. Si tratta quindi di ponderare bene quest’ultima scelta, e sapere che figli maschi potranno coprire la madre o che il padre potrà farlo con le figlie, e che tutto questo richiederebbe maggiori attenzioni e suddivisioni all’interno dei recinti e dei locali destinati all’allevamento per eventuali separazioni tra soggetti di sesso opposto. Se si decide di allevare una coppia, è quindi meglio prepararsi per tempo e predisporre gli spazi necessari per ospitare la prole, in modo da non trovarsi in difficoltà dovendoci pensare all’ultimo momento.
Stefano Tosco Coltivatore diretto
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Il colombo Texano Pionier “I Texani bisogna amarli come sono, o si amano o si odiano!” di
Claudio Duca
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olendo parlare di una razza di colombi ho pensato di parlare del “colombo texano”, nobile nell’aspetto e unico per l’autosessaggio che già dalla nascita ci permette di riconoscere il sesso dei piccoli, problema questo che, per chi alleva colombi, comporta molti sforzi. Le caratteristiche della razza: Colombo dal corpo solido ed elegante con elevata resa della carcassa. Il peso nei giovani deve variare da 800 a 950 grammi, negli adulti da 850 a 970 grammi. Mantello: i maschi sono prevalentemente bianchi con spruzzature che possono essere di qualsiasi colore sul collo ed a volte si estendono al petto ed al resto del corpo; tali spruzzature si rafforzano con l’età. Non deve presentare vergatura. Le femmine possono essere di colore rosso martellato o vergato; lavanda; blu con verghe o martellato; nero diluito. Varietà rosso recessivo: maschio giallo-arancio tenue uniforme, femmina rosso intenso. Ho intervistato un grande allevatore di texano, iscritto alla FIAC con l’Associazione Colombofila Forlivese e al Texan Club Italia, che ha dimostrato grande disponibilità nel concedermi un po’ del suo tempo. Lui si chiama Massimo Rosata, noto sul forum di Agraria.org come “piccione”, persona squisita e cordiale nonché mio personale amico. Massimo, per gli amici Max, mi ha
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raccontato la sua vita da allevatore iniziata sin da piccolo, poichè il padre allevava diverse razze di colombi da carne, momento nel quale è nata la sua passione per i colombi. Le prime razze con le quali mosse i primi passi furono i viaggiatori da gara, lince di Polonia, ciuffolotti, cravattati cinesi, ed in seguito iniziò ad allevare anche i pappagalli. Nel 2006, girando tra le bancarelle di una fiera avicola, rimase colpito da alcuni colombi noti per la caratteristica dell’autosessaggio: i texani. Senza pensarci due volte ne acquistò due coppie che con grande passione iniziò ad allevare. Affascinato da ciò iniziò a documentarsi sul web in cerca di contatti con altri allevatori di questa razza e trovò i recapiti di un associato al Texan Club, il quale gli fece conoscere molti membri dell’associazione. Intenzionato ad andare avanti e ad ottenere risultati positivi dal suo allevamento, nel 2006 si iscrisse al
Te x a n Club e alla FIAC: d a q u i i n i z i ò la sua vera carriera di allevatore di colombi! Nel 2007, in occasione della mostra di colombi ornamentali a Forlì, vinse il suo primo premio con un campione di varietà e nel 2008 replicò il successo alla rassegna del Texan Club Italia con un campione “razza adulti”; a queste vittoria ne seguirono molte altre.
Nel corso degli anni si è cercato di migliorare sempre di più l’aspetto e il temperamento di questo colombo, nel tentativo di ottenere un soggetto più corto e largo sia nel corpo che nel becco, a differenza dei vecchi esemplari che risultavano essere più lunghi e più stretti con un becco di lunghezza maggiore, cercando allo stesso tempo di ottenere esemplari che non superassero il peso indicato nello standard. Molto importanti sono la postura dell’animale e la struttura corporea che deve essere 27cm di altezza X 27 cm di lunghezza; la corporatura della femmina è più elegante rispetto al maschio che tende ad avere un Particolare di una colombaia
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Texano tipico Texano bianco
Uno dei segreti per la corretta gestione delle coppie è quello di mantenerne ognuna in una postazione loro dedicata, che deve avere una dimensione minima di 1m x 50 cm x 40 cm di altezza, e di dotare ogni singolo ricovero di una ciotola per il cibo e una per l’acqua. Questa strategia assume maggiore rilevanza durante la riproduzione per dar loro modo di insegnare ai figli ad alimentarsi. Di solito questa razza non necessita di balie (cioè colombi utilizzati da supporto a quelli che non riescono a gestire la cova e lo svezzamento dei figli), anche se molte coppie tendono a rompere le uova poichè si muovono nel nido con poca cautela; special-
mente durante i periodi più freddi le uova corrono il rischio di raffreddarsi in quanto vengono lasciate incustodite anche per diversi minuti, a discapito della nascita dei piccioncini. Questa è una delle razze di colombo più affascinanti che esista e, come ci ricorda Massimo, “i texani bisogna amarli così come sono, o si amano o si odiano!”.
Claudio Duca Appassionato allevatore
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aspetto possente. Questa razza possiede un temperamento molto mite sia verso i suoi simili che verso l’uomo e vola poco . Uno dei difetti del texano, come lo è per molti altri colombi, è che se alimentati in eccesso, specialmente durante il periodo invernale in cui mangiano molto di più rispetto all’estate, tendono ad ingrassare. L’obesità provoca una minore fertilità nelle femmine con scarsa deposizione di uova e nei maschi, allo stesso modo, ridotte performances riproduttive: bisogna quindi razionare il cibo nel modo giusto e scegliere le diverse formulazioni a seconda delle stagioni.
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Diario della mostra del cavallo del Catria 12-13 ottobre 2013, 30° rassegna del cavallo del Catria - Cantiano, provincia di Pesaro-Urbino di
Gianni Marcelli
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Chiaserna, frazione del comune di Cantiano in provincia di Pesaro-Urbino, ogni anno, nella seconda fine settimana di ottobre, si celebra il rito della Mostra Mercato del Cavallo del Catria con la
Cavalli del Catria al brado
agevole né veloce. La fiera ha ancora un sapore antico; non i lustrini delle fiere moderne, ma semplicemente una rassegna di cavalli che arrivano dopo aver passato sul monte la primavera e l’estate. Negli anni di siccità gli animali arrivano magri, sempre con le code e le criniere intrecciate dai cardi e dai rovi del monte, il pelo un po’ fosco dei soggetti che passano la loro vita all’aperto. I puledri seguono docili lo scampanellio della capobranco che, interessata, cammina con il muso vicino alla musetta (il sacchetto con la biada) portata a tracolla dall’allevatore. L’allevamento brado fa del Catria un soggetto che matura tardi. Dei puledri scesi dal monte bisogna guardare le proporzioni, l’armonia delle forme; bisogna avere l’occhio allenato perché spesso i soggetti appena scesi dal monte appaiono magri, ma in seguito si trasformano, un po’ come la favola del cigno. A titolo di esempio vedere le foto del mio “Delfino” (confrontate quella appena sceso dal monte e l’altra, un paio di anni
dopo!) Allevatore dopo allevatore arriva an-
che Fausto insieme a suo figlio Giacomo. Fausto è l’allevatore con il più alto numero di capi. Sollecitato da me racconta un po’ la sua avventura con i Catria. Fausto ha veramente un grosso allevamento, praticamente, suddivisi per età e sesso questi sono i suoi numeri: • Puledri 6 mesi: 32 capi • Puledri 18 mesi: 33 capi • Puledri 30 mesi: 15 capi • Fattrici: 70 capi • Stalloni: 4 capi • Castroni: 4 capi
relativa rassegna dei capi presentati. In effetti siamo alle pendici del monte Catria, sulle cui coste viene allevato al brado il cavallo che prende il nome dal monte stesso. Quest’anno la manifestazione si è tenuta il 12 e 13 ottobre, ma già dal venerdì sera i campani delle fattrici capobranco annunciavano l’arrivo dei primi branchi di cavalli, dei primi allevatori che portavano i loro soggetti nell’area del Centro Ippico “La Badia” che ospita la fiera. Poi nella giornata di sabato si completa l’afflusso di tutti i soggetti con l’arrivo alla spicciolata dei vari allevatori. L’afflusso non è rapido, perché A sinistra “Delfino” appena sceso dal monte; radunare i cavalli sparsi a destra lo stesso soggetto a 4 anni per il monte non è cosa
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Quasi 160 capi! Impressionante. Ma quanti sono i soggetti iscritti nel registro del Catria? Sono circa 340 fattrici e 18 stalloni, più i puledri e qualche castrone e la conta non è certo delle più precise!
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Soggetti Catria alla rassegna Arriva anche Diego, un altro degli allevatori “significativi”. Diego ha un po’ ridotto il suo allevamento, ha venduto qualche fattrice e anche qualche soggetto domato. Approfitto della disponibilità per provare a capire le quotazioni che girano attualmente per i Catria. È una domanda questa che lascia sempre gli allevatori un po’ riottosi a rispondere, ma oggi i miei amici si sbilanciano, ed esce questo quadro: • • • • • •
Prezzo Fattrici: 1300-2000 euro Prezzo Puledri 6 mesi: 400-700 euro Prezzo Puledri 18 mesi: 8001000 euro Prezzo Puledro 24 mesi: 9001200 euro Prezzo Soggetti Domati: a partire da 2000 euro Prezzo Stalloni: 2000-3500 euro
Quanto queste quotazioni siano assolutamente reali di fronte ad una trattativa vera e propria non saprei dire, comunque sono sicuramente indicativi di una tendenza. La commissione intanto rassegna come ogni anno i soggetti presenti. Per ogni categoria, puledri, fattrici, stalloni… verrà premiato il soggetto più bello e ci sarà poi il soggetto in assoluto più bello della fiera. I commercianti intanto aspettano che gli allevatori abbassino le loro pretese; a fine fiera infatti caricheranno al prezzo più basso molti soggetti sui loro camion.
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“Molti alleva- luzione… un allevatore deve vedere tori purtroppo i suoi conti tornare alla fine dell’anno allevano per ed una spinta decisa in direzione del una coppa e cavallo da sella richiederebbe proper la carne”, babilmente costi tali che la media dice Diego. degli allevatori non sarebbe disposta Molti soggetti a sostenere. fanno questa Tuttavia bisognerà cominciare a rafine. Credo gionare in quella direzione se si vorsia il limite rà salvare la razza, capitalizzare il del criterio di lavoro fatto negli ultimi anni ed otteallevamento nere una selezione che crei “valore” attuale; du- in futuro per gli allevatori. rante la fiera, Credo che si dovrebbero individuare ai privati, si i soggetti da sella in base alle caratr i c h i e d o n o teristiche morfologiche ed attitudinaprezzi troppo li, selezione che forse dovrebbe esalti ed alla fine si finisce per vendere sere fatta non tanto e non solo dagli molti soggetti ai commercianti ed al allevatori ma da appassionati esperti loro prezzo, davvero basso. Insom- di cavalli ed interessati per passione ma manca una decisa svolta nella al miglioramento della razza Catria, direzione del cavallo da sella. in modo da selezionare i soggetti miI soggetti di oggi sono molto più belli gliori indipendentemente da chi siadi quelli di un tempo. no stati allevati. Oggi il Catria è un soggetto meso- Da questo nucleo dovremmo cominmorfo con petto largo, bella groppa, ciare ad andare in maniera più decischiena corta, appiombi corretti e sa nella direzione della produzione stincatura robusta, bella incollatura di ottimi soggetti da sella di quanto e bella testa generalmente dritta, cri- non si faccia oggi, con programmi di niera folta con crini grossi, colore ge- doma ed addestramento, in modo da neralmente baio, baio oscuro e mo- selezionare i soggetti più meritevoli. rello. È un cavallo di buon carattere, r e s i s t e n t e , Cavallo del Catria Intanto il rito si consuma, affidabile, ot- Lo senti arrivare col suo branco, si consegnano le coppe, timo per il tu- lo senti dai sassi che rotolano, la gente applaude, comrismo eque- dalle foglie schiacciate, menta ed osserva… dalle froge che sbuffano. stre e per il La fiera termina anche E’ cosi che arriva scendendo le chine del trekking. quest’anno; il tramonto Catria: Sempre più col passo sicuro, coglie gli allevatori a porcol passo spedito e lo sguardo curioso. spesso ci tare via il suo branchetto E ti guarda e ti indaga: sono sogget- amico o nemico? di cavalli, qualcuno porta ti di questo E ti legge negli occhi, a casa qualche bel puletipo; tuttavia e sfugge i nemici. dro, i commercianti carisono troppi E’ cosi il cavallo del Catria. cano un po’ di soggetti… gli allevato- Più forte dei lupi, delle tempeste del ri che non Catria, Ed il cavallo del Catria si più forte dei suoi umani e anche migliore. selezionano avvia ad affrontare un alE’ cosi il cavallo del Catria: a d e g u a t a - mio grande amico di mille momenti! tro anno con la consueta mente i proNovembre 2005 sicurezza di piede su per pri soggetti, gli impervi sentieri del troppi allevano solo per i bassi costi monte, ignaro dei mal di pancia dei consentiti dall’allevamento brado. suoi umani. Tuttavia il basso prezzo derivante dalla vendita dei soggetti per carne è comunque sufficiente a coprire le spese e lasciare un piccolo margine di guadagno. Gianni Marcelli “Manca la passione” dice Diego! Si Appassionato alleva per la carne e basta… allevatore Non è neanche facile trovare una so-
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Il gigante gentile: il Mastino Napoletano Alcuni consigli sull’aspetto caratteriale ed interpretazione del linguaggio del grande molosso italiano Federico Vinattieri
Animali da compagnia
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na delle prime domande che le persone rivolgono a gli allevatori di mastini napoletani, prima di acquistare un cucciolo, è sempre relativa al suo aspetto caratteriale. Troppe volte i molossoidi vengono diffamati e criticati per colpe che nella maggior parte dei casi non sono dipesi dal loro carattere, ma dalla semplice ignoranza e incapacità delle persone che riescono solo a far emergere da questa tipologia di cani il loro lato negativo, senza valorizzare invece la loro indole pacifica e sedentaria. Certamente non si può paragonare un Mastino Napoletano a cani energici e vigorosi come ad esempio i Rottweiler o i Boxer, i quali rientrano a far parte dei cani da difesa più che da guardia, ma anch’essi
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come il nostro molosso italiano, possono essere manipolati e socializzati fin da cuccioli in modo che mai venga esaltata la loro esuberanza e la loro estrema territorialità. Il M.N. Non rappresenta propriamente un cane duttile all’ubbidienza e atto a subìre un addestramento, ma sicuramente, può e deve restare sempre al comando del proprio padrone, che non dovrà mai mostrarsi sottomesso alla sua prestanza fisica o alle sue volontà. Un maschio adulto di mastino può senza dubbio mettere in seria difficoltà un uomo se decidesse di mostrarsi aggressivo. Per fortuna, anche se negli ultimi cinquant’anni la selezione della razza è stata concentrata principalmente sull’aspetto esteriore, il mastino napoletano ha mantenuto, anche se in parte, la sua antica attitudine alla guardia, che risulta sempre selettiva, ossia il mastino, come altre razze, possiede un formidabile intuito nel capire se deve o non deve farsi avanti e se è in arrivo un estraneo o una persona a lui familiare, alla quale non deve abbaiare o cercare di respingere. Tra i mastinari esiste un gergo che ha, nella maggioranza dei termini, radici partenopee; per indicare la predisposizione del mastino a distinguere gli amici dai nemici a Napoli si esprime con il termine “tiene cussienza”, ossia, parafrasando Guido
Vandoni in uno dei suoi testi: - “con questo termine si intende l’innata capacità del mastino di distinguere d’acchito i buoni dai cattivi”. Il mastino napoletano non è un “cane pericoloso”, tutt’altro; si tratta di un cane pacifico, affettuoso e indipendente. L’affetto che concede e che prova per il proprio padrone è talvolta commovente. Lui vive per colui che ha scelto e identificato come sua figura umana di riferimento, che è sempre uno, anche se succede che dimostri affezione nei confronti di tutti i componenti della propria famiglia, uno e uno solo è il suo padrone e lo resterà fino alla sua morte. Come per la famosa storia classica di “Argo”, il cane che Omero descrive nell’Odissea, il quale attese il suo padrone Ulisse per vent’anni per poi morire appena dopo averlo ritrovato, il mastino possiede questa sorta di incredibile simbiosi; sensazioni e istinti che purtroppo noi umani non sappiamo quasi mai recepire e apprezzare. Quando si impara ad interpretare determinati segnali del linguaggio del proprio soggetto, allora si può iniziare a parlare di “legame”. Questa parola, talvolta fraintesa anche da gli stessi comportamentalisti, non esprime un concetto figurato, bensì un vero e proprio processo della mente, che nel cane rappresenta un mutamento radicale e irreversibile. Il mastino in particolare non possiede un linguaggio dei segni facile da decifrare, soprattutto per chi prima avere un molosso ha posseduto un cane da pastore, i quali comunicano con molta facilità, con complessi mo-
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vimenti del corpo, azioni che anche un bambino saprebbe comprendere. Il linguaggio del mastino napoletano si basa su piccoli movimenti, sguardi, movimenti della coda, delle orecchie e delle zampe. Proverbiale è la sua voce che richiama l’attenzione, quasi sempre con un singolo abbaio o con abbaio a intermittenza, forte e persistente. Esiste il rovescio della medaglia, per cui se questo gigante viene in qualche modo provocato o infastidito, questo pur pesante e lento all’apparenza, può scattare come una molla all’attacco e mostrare la sua arcaica caratteristica di non indietreggiare mai, come un guerriero spartano in piena battaglia. Incentivare tali comportamenti è deleterio per questa razza. Il mastino non deve mai subìre provocazioni, incitamenti o forzature che lo possano costringere a mostrare i denti. Il M.N. non attacca mai senza una motivazione, pertanto se trattato in modo adeguato nessuno ha da temere dalla sua forza e dal suo coraggio, ma anzi, queste virtù possono essere qualità volte a vostro vantaggio. Per interpretare il linguaggio e comunicare con un mastino bisogna prima trascorrere un po’ di tempo con lui, osservandolo e entrando nell’ordine di idee che si è alla presenza di un cane diverso da gli altri, sia per la sua storia che per la sua morfologia. La trasmissione dei messaggi è quasi sempre derivante da comuni-
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cazione tramite segnali visivi, talvolta accompagnati da segnali acustici. Nell’approccio con il M.N. una persona deve sempre ricordarsi alcune regole di base; prima fra tutte quella di evitare ogni segnale di sfida, tra cui guardarlo fisso direttamente negli occhi, avvicinarsi al soggetto troppo rapidamente e dall’alto verso al basso, farsi avanti con cappuccio alzato o cappelli che nascondano il volto, avvicinarsi gesticolando o emettendo forti rumori; tutti queste azioni sono da evitare assolutamente, poiché causano con certezza delle reazioni negative. Quando ci si avvicina al proprio mastino bisogna sempre farsi riconoscere già da distanza; il gioco e il tono di voce amichevole può bastare per rendere felice il cane per tutta la giornata. Associate un pasto o una passeggiata all’uso del collare e del guinzaglio, aiuta moltissimo a non mostrare mai timidezza quando un mastino esce dal proprio recinto. In presenza di persone a lui sconosciute è molto importante far maneggiare il cane e farlo interagire con quest’ultime per una socializzazione adeguata. Come per tutti i cani, per far capire al mastino che ha fatto un’azione positiva, è possibile usare un premio in cibo, che lui gradisce sempre. Questo cane è molto soggetto ad evidenziare gelosie nei confronti del padrone, per cui anche in presenza di altri cani, è fondamentale concedere al proprio mastino le dovute
attenzioni, in modo che lui non si senta mai messo da parte. Anche a contatto con bambini, bisogna stare sempre attenti che non si scaturiscano forme di gelosia, per cui lui possa cercare di allontanare da voi il bambino, che rappresenta una vostra distrazione. Pur essendo un “gigante”, il M.N., resta un cane molto sensibile, per cui dobbiamo sempre ricordare che questa razza merita il nostro rispetto e una grande dedizione, che possiamo dimostrare provvedendo adeguatamente al benessere dei propri soggetti. Federico Vinattieri www.difossombrone.it
Allevamento di Fossombrone Allevamento italiano a scopo sportivo
Pastore tedesco, Mastino Napoletano, Dogo Argentino, Bulldog Inglese e Cane Lupo di Saarlos
Sede: prov. di Firenze www.difossombrone.it info@difossombrone.it +39 333 2524389
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Il cane Fonnese: una nuova antichissima razza Secondo la leggenda è derivata dall’incrocio di cani sardi con i molossi portati dall’esercito romano, durante le guerre di conquista della Sardegna... di
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ta con gli effetti che ben si possono immaginare. Erano regalati soltanto alle persone importanti da cui avevano avuto benefici. 2. Altro fattore, si può dire conseguenza della scarsa disponibilità di Cani Fonnesi, era l’importazione da oltre Tirreno, di altre razze estranee all’ambiente sardo, soprattutto cani Maremmani/Abruzzesi portati da pastori sardi che avevano greggi in quelle regioni.
Un cucciolo di cane Fonnese
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on l’apertura del “RAS” (Registro Supplementare Aperto) ex “Libro Aperto” il 16 e il 17 Febbraio 2013 a Sassari e l’iscrizione di un centinaio di esemplari in due soli giorni (da parte degli esperti Claudio De Giuliani, Giuseppe Alessandra e Luigi Guidobono Cavalchini), l’ENCI ha di fatto riconosciuto una nuova razza di cani italiani, che sarà ammessa nell’elenco ufficiale alla chiusura del registro, presumibilmente nel prossimo anno 2014. Si tratta di una razza sarda molto antica, probabilmente la più antica dell’attuale Stato Italiano, perché risalente al periodo Nuragico (circa 1500/1300 a.C). Infatti, resti di cani grossi e di struttura e forma molto
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simili al Fonnese attuale si sono trovati in siti nuragici di varie zone della Sardegna. È del tutto verosimile perciò, che l’uno sia la continuazione dell’altro, nonostante che nel tempo siano avvenute le inevitabili infiltrazioni di altre razze. Inoltre sono state rinvenute numerose statuette bronzee (i “bronzetti nuragici”) di quell’epoca lontana, che ne attestano la loro antichità. Non più tardi di qualche decennio, questo cane, da sempre fedele compagno della gente sarda, sembrava destinato ad una inesorabile estinzione per diversi motivi; ne cito due: 1. La gelosia degli allevatori, che restii a cedere i cuccioli a chicchessia, preferivano ucciderli alla nasci-
Per fortuna i Fonnesi superstiti erano ancora, in tutta la Sardegna, varie centinaia e questa tendenza cominciò ad invertirsi sempre più velocemente, verso la fine del secolo scorso. Fu allora che degli appassionati, fra cui il sottoscritto, cominciarono a prendere sul serio il pericolo dell’estinzione. Negli anni ‘90 nacquero in tempi fra loro successivi, indipendentemente una dall’altra, delle associazioni a Cagliari, Oristano e Sassari e infine nello stesso paese di Fonni. Ognuna di queste, sulla base dei cani esistenti e conosciuti, fece un proprio standard. Notevole è che questi standard, seppure stabiliti da persone non in contatto fra loro, erano molto simili. Nessuna di queste associazioni, riuscì nell’impresa di far riconoscere la razza, trovando troppo complessa e rigida la prassi prevista dall’ENCI. Ma un grosso risultato si ebbe ugualmente: quello di far conoscere meglio la razza e il suo immenso valore nella biodiversità della Sardegna. La gente piano piano capì, specialmente negli ambienti rurali (ma non solo), che
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Bambina con due cani Fonnesi questo nostro patrimonio non doveva perdersi. L’offerta e soprattutto la richiesta di questi cani andò aumentando sempre di più: erano cani che facevano egregiamente il loro lavoro di guardia e difesa, quanto e meglio di altre razze. Era motivo di orgoglio possederli! Notevole è che non ci fu bisogno di particolari selezioni, anche se esistevano varie tipologie (specialmente nel colore del pelo), il cane era in tutta l’Isola quello di sempre, allevato nell’ambiente agropastorale dalla notte dei tempi. Tutt’al più, con la selezione, si trattava di eliminare piccoli difetti estetici (macchie bianche nel mantello o che dai piedi salivano sulle zampe). Ovviamente i cani che non corrispondevano a determinate caratteristiche, da sempre tipiche della razza, non venivano neanche presi in considerazione. Queste associazioni (quella di Sassari era stata fondata dal sottoscritto) si sciolsero però una dopo l’altra. Verso la metà del decennio scorso, l’impegno venne preso finalmente dalla Facoltà di Veterinaria della Università di Sassari (col finanziamento della Regione Sarda, nell’ambito di un programma di salvaguardia delle “Biodiversità”), che, con una equipe di giovani ricercatori, coordinati dalla dr.ssa Raffaella Cocco, riuscì dopo qualche anno, a portare felicemente
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a termine un’impresa in cui tutti gli altri avevano fallito: espletato tutto il complesso iter richiesto dall’ENCI, compreso il censimento di oltre 200 esemplari localizzati in ogni parte della Sardegna. Di ogni cane fu compilata una scheda, completa di tutti i particolari, da cui si ricavò uno standard su basi statistiche, calcolate con una media rigidamente matematica. Da notare che, fra le varie richieste dell’ENCI, c’era quella di presentare gli esami del DNA (non richiesta per le altre razze sino ad allora riconosciute) di tutti i soggetti censiti, comparato con quello delle altre razze maggiormente presenti in Sardegna o che avevano qualche somiglianza col nostro Fonnese: Maremmano/ Abruzzese, Schnauzer, Bergamasco, Cane Corso ecc. Così si è avuto modo di dimostrare scientificamente, che i Fonnesi avevano un patrimonio genetico a se stante, particolare, con scarsa o nessuna contaminazione di altre razze Quindi il Cane Fonnese è tipicamente un Cane Sardo, cioè appartenente a tutta la Sardegna. Allora perché si chiama Fonnese? Fonni è un paese di montagna al centro della Sardegna, che ha avuto il grande merito di aver selezionato e mantenuto con un buon grado di purezza questi cani, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista caratteriale. I
“Fonnesi” sono infatti noti anche per la loro proverbiale ferocia. Ma cani sardi, di varie tipologie, generalmente di grande taglia e comunque di indole indomita, spesso venivano chiamati “Fonnesi” anche se, a volte, poco o niente avevano in comune con quel paese (questo è documentato in poesie in lingua sarda o italiana del primo ‘900). Viceversa cani di Fonni, potevano, in altre località, prendere nomi diversi, per esempio in base al tipo di mantello. Sono cani rustici e robusti. Spesso nascono anuri o brachiuri (natural bobtail) cioè con la coda mozza, altrimenti, per antica tradizione, si tagliava e ancora si taglia a pochi giorni dalla nascita. Infatti a coda mozza sono raffigurati in numerose statuette nuragiche. A questo punto bisogna sfatare una leggenda che, ipotizzata non si sa bene da chi nel secolo scorso, è stata poi presa come vera e tramandata nel tempo, con aggiunte varie e fantasiose, sempre senza nessun fondamento. La leggenda è questa: il Cane Fonnese sarebbe derivato dall’incrocio di cani sardi con i molossi portati dall’esercito romano, durante le guerre di conquista della Sardegna (circa 200 anni a.C.). Le obiezioni che si possono fare sarebbero diverse, mi limito a farne solo due o tre: 1. Quanti cani hanno portato i Romani e quanti ne avevano i Sardi? Certamente non in numero tale da influire significativamente sulla razza (o razze) locale, composte da numerosissimi individui; 2. Siamo sicuri che in quel periodo i Romani avessero già dei molossi? Pare dimostrato invece che il “cane pugnax” dei romani non sia anteriore al 1° secolo a.C. 3. In effetti nessuna fonte storica fa riferimento a cani “da guerra” portati dai Romani per le guerre in Sardegna. Soltanto uno storico, Zonara, scrive che i Romani, non riuscendo ad inseguire i guerrieri sardi che, dopo azioni di guerriglia, sparivano nel nulla, per stanarli portarono dei “cani di gran fiuto”, cioè segugi. Quest’ultima obiezione, basta da sola, semmai ce ne fosse bisogno, a
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conduttore (ma se ben addestrato può anche esserlo), è da sempre un cane da guardia e difesa. Solitamente non sta in mezzo alle pecore, ma in una posizione più elevata, da dove immobile e silenzioso, controlla il territorio circostante.
Carattere e attitudini
Nur, proprietario Canalis smentire la leggenda. Risalendo nel tempo, temibili cani da guardia, usati anche per la caccia grossa, sono espressamente citati in antichi documenti sardi medievali, come la “Carta de Logu”, cioè le leggi del Giudicato di Arborea, quando questo Regno Sardo era ancora indipendente e poi mantenuto in vigore anche dagli spagnoli, praticamente per tutto il periodo del loro dominio in Sardegna (cioè sino all’inizio del 1700). In questo documento non si fa cenno al nome “Fonnese”, ma i cani da guardia si definiscono solo in base alla loro mansione: “Canes de loru” (in italiano “cani da catena” o “da collare”) ovvero “Jagaros” (“cani del cancello”, da Jaga = cancello). Nella seconda metà del ‘700 i cani sardi sono stati descritti, seppure sommariamente, dallo zoologo Gesuita F. Cetti (docente di Matematica presso l’Università di Sassari) il quale nota: (i sardi) si forniscono di un cane loro proprio, assai comune nel paese, che perciò non senza ragione potrebbe chiamarsi cane sardo. Egli documenta che i Sardi usavano mischiare il “can grosso” col veltro per ottenere un cane dalle molteplici funzioni, e quindi non proprio belli
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esteticamente, ma se ben selezionati, potevano ottenersi dei cani notevoli anche esteticamente, per cui un giorno l’Isola sarebbe stata famosa per i suoi cani. Del resto, annota, di aver visto nella zona di Cagliari, cani sardi già selezionati, belli a vedersi e di notevole mole. Alla fine dello stesso secolo, cani grossi e molto aggressivi, sono citati ancora, durante uno sbarco di truppe francesi nel Sud Sardegna. Il tentativo di conquista fallì miseramente, in buona parte proprio grazie a mute di feroci cani aizzati dagli abitanti della zona. Anche nel 1800 i cani sardi sono stati spesso citati da viaggiatori, in relazioni dei loro viaggi in Sardegna, senza però entrare nei dettagli. Notevole è il fatto che venivano descritti, in gran parte, “di colore bigio”. Nel 1900, il nome “Fonnese” è spesso citato già dall’inizio del secolo da scrittori e poeti sardi, come sinonimo di eccellente cane da guardia e difesa. Il Cane Fonnese quindi, giustamente sistemato dall’ENCI nel gruppo 2, seppure tenuto spesso con le greggi, non è propriamente un cane
Cane da guardia e da difesa per eccellenza, ottimo guardiano contro i possibili predatori (volpi, cani randagi, uomo). Selezionato da millenni per questi scopi, che compie naturalmente senza particolare addestramento è sempre stato usato in guerra e come cane da caccia grossa. È un cane molto duttile, di notevole intelligenza e grande dignità propria della razza. Ubbidiente e affettuoso con il proprietario, ma diffidente con gli estranei non si lascia corrompere per nessun motivo: è quel che si dice: “un cane di un solo padrone”, di cui rispetta anche gli ospiti, se mostrano buone intenzioni, ma sempre vigile e attento. Notevole è la tendenza, sin da cucciolo, a dare la zampa al padrone in segno di ubbidienza. Il proprietario deve avere una certa autorità, ma non deve mai mancargli di rispetto. Il Fonnese deve vedere nel padrone un capo e un amico di cui anche lui si fida ciecamente: la fiducia è reciproca. Nei secoli scorsi era il compagno più fidato dei banditi sardi, un ottimo compagno nella loro nella loro latitanza. È un cane di grande carattere, e per la sua intelligenza e versatilità, se ben addestrato, si adatta a molti compiti: proprio quest’anno il primo Cane Fonnese, Tanit, figlio di Jana e Nur (Allevamento Canalis), dopo aver superato brillantemente tutte le prove, ha ottenuto il brevetto della Protezione Civile per la ricerca delle persone disperse e il CAE dell’ENCI (Cane Buon Cittadino).
Gian Piero Canalis Appassionato allevatore cani Fonnesi
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Il canarino Fiorino: una piccola “scultura vivente” Parente stretto dell’Arricciato del Nord, ha avuto il suo riconoscimento ufficiale nel 1985, grazie al Prof. Zingoni ed all’allevatore Michele Del Prete di
Federico Vinattieri
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uesto canarino, facente parte del gruppo dei “canarini arricciati”, ha avuto il suo riconoscimento ufficiale come “razza” nell’anno 1985, grazie al lavoro di selezione del Professor Umberto Zingoni e dell’allevatore Michele Del Prete. Lo standard di questo Canarino è facilissimo da conoscere se si conosce bene quello dell’Arricciato del Nord, suo stretto “patente”. Pochissime sono le differenze sostanziali, tra cui la presenza delle particolari “piume di gallo”, che non previste nello standard dell’Arricciato del Nord. L’altra differenza evidente è la presenza di soggetti ciuffati, che nel Nord non sono ammessi. Si può pertanto dire che il Fiorino è in tutto e per tutto un Arricciato del Nord in miniatura.
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La caratteristica più importante di questo piccolo canarino arricciato è sicuramente la taglia che, ovviamente, comprende anche la lunghezza. Nel caso del Fiorino la taglia è quella dell’arr. del Nord, la lunghezza dei migliori soggetti 4 centimetri di meno. In effetti, se si misura la lunghezza secondo i canoni dell’ornitologia scientifica, cioè dalla punta del becco alla punta della coda nell’animale disteso sul tavolo con il collo totalmente esteso, si vede che la lunghezza degli Arricciati del Nord attuali, molti dei quali, dopo tanti anni di sapiente selezione hanno raggiunto veramente la perfezione richiesta dallo Standard, è di 18 centimetri. Nel Fiorino la lunghezza va da 14 a 15 cm, specialmente in relazione al sesso. Nel Fiorino il connotato “lunghezza” dovrebbe in futuro consolidarsi soltanto intorno ai 14 centimetri. Il portamento che più si addice a questa piccola Razza è quello eretto che permette di evidenziare bene il jabot e il collo totalmente privo di qualsiasi arricciatura. Sul piumaggio dobbiamo dire che ci sono delle piccole divergenze di vedute. Alcuni preferiscono soggetti molto piumosi, anche perché il maggior volume li fa apparire più
corti; altri li preferiscono più “sobri”, acciocché le arricciature risultino più scolpite. Come sempre una via di mezzo può essere preferibile. Ciò che conta moltissimo è che le piume dell’addome, come è la norma in tutte le Razze, siano chiaramente rivolte indietro, cioè non dovrebbe esserci alcun accenno di “colpo di vento”. Tanto più grave sarebbe se, nel caso, l’addome fosse a “colpo di vento”, il fianco verso cui si dirigono le piume dell’addome fosse più sviluppato dell’altro e la spallina meno sviluppata dell’altra. In altre parole si avrebbe come una rotazione di tutte le arricciature, che interessa talvolta anche il jabot il quale si presenta anch’esso a “colpo di vento”. Per chiarezza ancora maggiore, se sussisteva suddetta situazione delle piume addominali che, ad esempio, vanno verso sinistra, guardando il canarino dal davanti si vedrà il fianco sinistro più sviluppato del destro e la spallina sinistra meno sviluppata della destra. Un tale soggetto è quanto di più sgraziato sia dato vedere. Un minimo di “piume di gallo” deve essere presente. Il colore del piumaggio non ha alcuna importanza discriminativi. Però, in una esposizione internazionale occorre fare attenzione che nel soggetto dichiarato unicolore non vi sia la minima presenza di melanina nei lipocromici e di lipocromo (assenza di colore negli “ardesia”) nei melaninici; altrimenti il soggetto non parteciperebbe alla premiazione. Nelle mostre italiane, invece, sempre negli unicolori, è consentita una piccola
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macchia, purchè non distogliente. La colorazione artificiale non è vietata, ma, per ragioni facilmente intuibili, è controindicata. Per quanto concerne la testa, il ciuffo, sul dietro, deve raccordarsi totalmente con le piume del collo, mentre deve essere ben evidente sul davanti e sui lati, ma non così esteso da raggiungere gli occhi. Ovviamente, le sue piume, come in ogni altro canarino ciuffato, devono partire da un centro ben evidente e irradiarsi da questo a mò di raggiera. Un ciuffo ben fatto, cioè ben raccordato sul dietro non è frequente. I difetti più comuni sono la calvizie nucale più o meno estesa e le due “crestine” ai lati della nuca, più accentuate nei maschi. Nel soggetto privo di ciuffo la testa sarà semplicemente liscia e, in particolare, priva delle suddette crestine. Il collo sarà di lunghezza tale da apparire ben distanziato dal sottostante jabot e dovrà essere totalmente liscio; ogni traccia di arricciatura in questa zona (cravattino, sbuffi o altro) è da considerarsi grave difetto. La descrizione delle spalline è semplice: devono essere abbondanti e perfettamente simmetriche, come le pagine di un libro aperto a metà. Purtroppo invece, spesso l’una è più sviluppata dell’altra; la ragione sta nel fatto che queste arricciature, pur essendo due, nascono entrambe da uno stesso pterilio (pt. dorsale), tantochè può verificarsi che, dopo una
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muta, appaiano differenti, in meglio o in peggio, da come erano precedentemente. La presenza del bouquet, seppur poco frequente, non è consentita. Questo connotato, che non è una vera e propria arricciatura, in genere prolunga sul dietro una spallina troppo sviluppata della controlaterale. I fianchi sono indubbiamente le arricciature più caratteristiche e caratterizzanti di un qualunque Arricciato; nella stragrande maggiornaza dei Fiorini sono di buona fattura, ossia formati da molte piume e ben rivolti verso il dorso, fino a lambire sul dietro le spalline. Compreso fra i fianchi è presente il jabot che deve essere ben rilevato e “chiuso”, cioè non deve presentare una cavità superiore, come, invece, deve essere nell’Arricciato del Sud, nel quale, appunto, viene definito come “cestino”. Fra fianchi e jabot non deve essere interposta alcuna piuma, cioè il cosiddetto “stacco” fra le due arricciature deve essere netto. Spesso, invece, soprattutto nei soggetti più piumosi vi sono presenti alcune piume, per cui le due arricciature, jabot e fianchi, appaiono confuse fra loro, nocendo all’eleganza del soggetto. Verso l’alto il jabot deve essere ben staccato dal collo in modo da permettere a quest’ultimo di apparire in tutta la sua eleganza. Ali ben chiuse, né cadenti, né incrociatesi. Gli arti inferiori sono conformati nor-
malmente; sono tenuti un po’ estesi onde contribuire al mantenimento del portamento eretto. Coda quanto più corta possibile e terminante leggermente forcuta con estremità arrotondate. Dai suoi lati, al distto del margine delle ali devono scendere, evidenti, le piumette di gallo nascenti, come è noto, dai lati dello “pterilio delle sopracaudali”. Questo piccolo arricciato è oggi tutelato dal Club del Fiorino, che ogni anno raccoglie sempre più appassionati allevatori, i quali trovano grandi soddisfazioni nell’allevare questa piccola “scultura vivente”. Federico Vinattieri www.difossombrone.it
Allevamento di Fossombrone Allevamento italiano a scopo sportivo http://ornitologia.fossombrone.it/
Fiorino, Arricciato del Nord, Arricciato del Sud, Rogetto, Gloster, File Fancy, etc.
Sede: prov. di Firenze info@difossombrone.it +39 333 2524389
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Conoscere il miele In Italia è associato solo ai “rimedi della nonna” mentre nel resto di Europa viene considerato un vero e proprio alimento; vediamo cos’è, come viene prodotto, come si usa e quali sono le sue caratteristiche di
Romeo Caruceru
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getto di ricerca e iniziano a essere riconosciute anche dalla medicina ufficiale, il miele è in primis un alimento e viene usato non soltanto come dolcificante sano e naturale in sostituzione dello zucchero, ma anche come ingrediente di molte ricette in cucina. Tutto ciò senza dimenticare la fetta di pane, preferibilmente fatto in casa, spalmata con burro e miele che può degnamente sostituire il cornetto mattutino o le merendine preconfezionate che solitamente accompagnano il caffellatte.
Cos’è il miele? Secondo la legge (Direttiva 2001/ 110/CE) il miele è: “La sostanza dol-
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ce naturale che le api (Apis mellifera) producono dal nettare di piante o dalle secrezioni provenienti da parti vive di piante o dalle sostanze secrete da insetti succhiatori che si trovano su parti vive di piante che esse bottinano, trasformano combinandole con sostanze specifiche proprie, depositano, disidratano, immagazzinano e lasciano maturare nei favi dell’alveare”. Questa definizione è importante perché ci dà la certezza che all’interno di un qualsiasi barattolo con scritto sopra “miele”, preso dallo scaffale di un qualsiasi negozio, troveremo soltanto il risultato del lavoro delle api, senza aggiunta alcuna. Ovviamente, dietro a questa sintetica descrizione di poche righe c’è l’immane lavoro delle api, difficile immaginabile guardando le pile di barattoli nei negozi. La produzione di nettare è un adattamento evolutivo che le piante ad impollinazione entomofila hanno sviluppato per attirare gli insetti pronubi. Spesso si tratta di un liquido poco zuccherino, delle volte al limite dell’appetibilità per le api, visto che la sua produzione richiede alle piante stesse un notevole sforzo e che la natura cerca sempre di evitare gli sprechi. Pertanto, il lavoro delle api risulta lungo e faticoso: per produrre 1kg di miele sono necessari 60.000 mila voli di andata e ritorno dall’alveare al pascolo e la distanza complessiva di questi voli è di circa 150.000 km, quasi la metà della distanza tra la Terra e la Luna. Ma il lavoro non finisce una volta portato il nettare nell’alveare: per garantirne la conservabilità bisogna disidratarlo, far scendere il tenore di acqua da un valore iniziale di 50-80% ad un
valore < 20%, (soglia sopra la quale si possono verificare fenomeni di fermentazione). Quindi, le api di ritorno dal campo, scaricano il loro bottino nelle cellette vuote dei favi oppure lo passano alle api di casa; queste
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ra i paesi europei, l’Italia è quello con il consumo pro capite di miele tra i più bassi: circa 600 gr l’anno (solo i greci ne mangiano di meno). Bisogna dire che nell’ultimo decennio il consumo è notevolmente aumentato, anche se rimane ben lontano da quello tedesco: 1500 gr l’anno. La causa di tutto ciò sta nel fatto che il miele in Italia viene associato più facilmente ai rimedi della nonna piuttosto che essere visto come un alimento, come ben sanno gli apicoltori che vedono aumentare le vendite del proprio prodotto durante la stagione invernale mentre d’estate, quando raffreddori, tosse e mal di gola sono solo dei ricordi sbiaditi, anche il miele sembra essere dimenticato dai più. Senza nulla togliere alle sue proprietà curative, che negli ultimi anni sono state og-
provvedono alla sua disidratazione, esponendo le gocce di nettare alle correnti di aria provocate dalle api ventilatrici ed alla sua movimentazione spostandolo nelle cellette dove continua passivamente la sua maturazione. Nello stesso tempo le api aggiungono al miele enzimi che contribuiscono all’inversione del saccarosio, cioè, alla scissione del disaccaride in due monosaccaridi: il fruttosio ed il glucosio (i due componenti principali del miele). Conclusasi la trasformazione, il miele viene immagazzinato definitivamente in cellette chiuse con opercoli di cera per preservarne meglio la freschezza, costituendo cosi le riserve dell’alveare. Esse verranno intaccate soltanto nei periodi di carestia oppure durante i mesi invernali, quando le api si stringono in glomere fermando tutte le attività in attesa della ripresa primaverile.
La composizione del miele
Tanti sono i tipi di miele, tanta è la
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variabilità della sua composizione. Mediamente, il miele contiene il 18%
di acqua, (con punte fino al 23% per alcune varietà), il 75% di zuccheri semplici (fruttosio e glucosio) e non più del 5% di saccarosio, salvo poche eccezioni. In più contiene acidi, sia organici sia inorganici, presentando dei valori di pH compresi tra 3,2 e 4,5 ma anche sali minerali, enzimi, sostanze aromatiche ed alcune vitamine. Pur essendo un alimento calorico, grazie alla sua composizione, lo è un po’ meno rispetto allo zucchero (340 kcal/100 gr invece di 400 kcal) ed a differenza di quest’ultimo offre un apporto energetico immediato dovuto alla presenza di glucosio e fruttosio, zuccheri semplici che non hanno bisogno di essere digeriti.
Ma quanti sono? Il miele può essere monofloreale, quando ha prevalentemente un’unica origine botanica, oppure millefiori, quando nella zona di bottinamento delle api non esiste una specie botanica dominante, bensì una moltitudine di piante diverse che fioriscono più o meno contemporaneamente. In Italia esistono circa trenta tipi di mieli monoflora ed un’infinità di mieli millefiori. Ebbene, sì, il miele millefiori, la cenerentola della produzione apistica, tipico miele “da supermercato” sempre uguale a sè stesso, non è uno solo ma ne esistono proprio tanti ed ognuno di loro esprime, attraverso una ricchissima paletta di colori e sapori, l’unicità del territorio di provenienza; a volte bastano anche pochi chilometri quadri di terreno incolto intorno all’apiario, passare dal
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prato al sottobosco o alla macchia mediterranea, per avere mieli molto diversi tra di loro. I mieli monoflora, invece, hanno caratteristiche ben precise e sono molto simili tra di loro anche nel caso in cui le zone di provenienza sono diverse. Tra questi, alcuni sono molto conosciuti, come quello di acacia con il suo sapore delicato; di castagno, con un sapore forte, non sempre apprezzato; di agrumi, dall’aroma caratteristico; di eucalipto, sempre più raro; di tiglio, tarassaco, girasole. Esistono poi mieli rari perché di difficile produzione, come quello di rododendro e di corbezzolo e ci sono anche le new entry, come il miele di coriandolo che si produce in Italia soltanto da pochi anni.
La cristallizzazione… …questo strano fenomeno. In genere, i consumatori guardano con diffidenza il miele cristallizzato, specialmente se si tratta di una cristallizzazione grossolana, perché l’aspetto granuloso molto simile a quello dei cristalli di zucchero fa sospettare l’adulterazione del prodotto. Fortunatamente, la falsificazione del miele è un evento molto raro anche grazie ai controlli degli organi preposti, ed è fatta con metodi molto più sofisticati che non l’aggiunta di semplice zucchero, proprio per tentare di raggirare i moderni metodi di controllo. Essendo il miele una soluzione sovrassatura di zuccheri nell’acqua, la cristallizzazione è un processo naturale la cui velocità dipende da una moltitudine di fattori, tra i quali il più importante è il rapporto fruttosio-glucosio. I mieli con un elevato contenuto di fruttosio, come quelli di acacia, castagno e melata, cristallizzano molto lentamente o non cristallizzano affatto, mentre quelli con più glucosio cristallizzano più o meno velocemente, (alcuni come quelli di edera o colza, si induriscono cosi velocemente da rendere difficile la smielatura, cioè, l’estrazione dai favi). Anche la temperatura può influire questo processo: la massima velocità di cristallizzazione si manifesta ad una temperatura media di 14°C, mentre al di sotto dei 5°C e al di sopra dei 20°C sarà molto rallen-
tata. Un altro fattore determinante è la presenza di microparticelle, all’interno del miele. Si tratta di granuli di polline o frammenti microscopici di cera che costituiranno i nuclei intorno ai quali si formeranno i cristalli. Il processo di cristallizzazione può essere fermato o rallentato facendo ricorso alla microfiltrazione, ma questo deve essere specificato in etichetta, poiché si tratta di un procedimento che può essere usato per nascondere l’origine botanica (e anche geografica) del miele, oppure, mediante la pastorizzazione, anche se il risultato sarà un semplice dolcificante e non più un alimento vivo e ricco di sostanze attive.
Quale scegliere? In primis, quello italiano. L’apicoltura ha bisogno di un sostegno che difficilmente trova a livello istituzionale e, se da una parte i controlli ed il rigore sono ben accetti in quanto tutelano i consumatori e offrono la garanzia di un prodotto di qualità, dall’altra parte la burocrazia e la mancanza di interesse per un settore della zootecnia considerato marginale, mettono in difficoltà gli apicoltori che devono competere con chi, all’estero, produce con regole ben diverse. Poi, se possibile, un prodotto biologico, non solo perché ottenuto nel rispetto della natura ma anche perché presenta un più alto contenuto di nutraceutici, fenoli e flavonoidi, come dimostrano gli studi del Centro Ricerche Miele dell’Università di Tor Vergata. Dopo di che, la scelta tra i mieli liquidi, pastosi o duri, dall’aroma tenue o dal sapore forte, dolci, amari o agrodolci, è solo una questione di gusti personali. Gusti che possono essere affinati partecipando alle varie manifestazioni organizzate dalle associazioni apistiche, dove con degustazioni e conferenze si introducono i partecipanti in un mondo sconosciuto che va al di là del solito miele “da supermercato”.
Romeo Caruceru Esperto apistico
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I miei formaggi I formaggi tradizionali del Nord Italia, in particolare della zona al confine con il Piemonte e la Svizzera di
Cesare Ribolzi
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n occasione del pranzo dell’Associazione di Agraria.org, ho avuto il piacere di portare con me qualche formaggio prodotto nel caseificio dove lavoro; non che fosse necessario imbandire la tavola già di per sé stracolma di prelibatezze offerte dall’uno o dall’altro dei partecipanti al pranzo, intendiamoci. E’ stata una bellissima occasione per conoscerci e si sa che non c’ è miglior modo di farlo che non con le gambe sotto il tavolo. Tre erano i miei formaggi e tutti della tradizione del nord Italia, al confine con il Piemonte e la Svizzera, dove risiedo. Tra laghi, prealpi ed Alpi si producono tradizionalmente Tome e Caprini, l’una prodotta con latte di vacca pastorizzato e l’altra con latte di capra crudo. La lavorazione viene
Cravegett - con latte di capra effettuata completamente a mano, dalla coagulazione allo scarico delle cagliate negli stampi, dai rivoltamenti delle forme alle cure di magazzino durante la stagionatura. I formaggi vengono stagionati da un minimo di 40 giorni fino a diversi mesi, secondo anche le quantità prodotte e le vendite. La Toma di latte di vacca ha vinto la medaglia d’ oro al Trofeo di San Lucio 2012, a Pandino (CR) come miglior formaggio della cate-
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goria ‘semiduri’. Il terzo formaggio, chiamato dalle mie parti ‘Formaggina’, è ottenuto dalla trasformazione ‘lattica’ del latte formaggio. Era il formaggio prodotto
Tomina - con latte di vacca
stuoie di plastica ricoperte da garza da mascarpone e con grande delicatezza si adagia su di essi la cagliata. Di tanto in tanto si smuovono i teli per favorire lo sgrondo del siero ed in altre 24 ore il formaggio è pronto. Al posto dei tavoli si può mettere la cagliata in teli che vengono chiusi ed appesi come dei fagotti. La salatura avviene per impastamento con sale, dosato in 8 grammi per kg. La Formaggina è pronta per il consumo. Per fare il Sancarlin, si rinforza la salatura e si aggiunge del pepe, si mette il formaggio in una marmitta e la si copre con uno strofinaccio lasciandolo maturare in ambiente fresco ed asciutto per 3 settimane. A questo punto avrà formato una crosta gommosa sotto la quale troveremo un formaggio molto profumato e saporito, ottimo da spalmare sul pane o consumare accompagnandolo a della fumante polenta.
in casa dai fortunati che possedevano qualche mucca nella loro stalla. Lo si otteneva semplicemente lasciando acidificare il latte fino alla trasformazione in formaggio. Veniva quindi impastato con del sale e consumato tal quale, con la polenta o mischiato con cipolla, olio ed aceto. Poteva anche essere stagionato per qualche settimana ed in questo Dr. Cesare Ribolzi caso, il prodotto ottenuto, si chiamaCasaro va ‘Sancarlin’. Qualche cenno sulle modalità di produzione della Formaggina: latte intero pastorizzato e raffreddato sotto i 30 gradi (va bene dai 25 ai 30). Si aggiungono fermenti da burro L av or a z i on e a r t i g i a n a l e (mesofili); se sono liofilizzati bisogna Prodotti tipici attendere 3/4 d’ora per permettere la loro rivitalizzazione. Si aggiunge il caglio in piccola dose, 5 ml per Formaggi freschi e stagionati prodotti 100 litri di latte, si copre la caldaia con latte di vacca e di capra di zona e si lascia a temperatura ambiente per 24h. A questo punto l’acidità sviOsmate (VA) luppata dai fermenti ed aiutata da www.norden.eu quel poco di caglio, ha trasformato commerciale@norden.eu il latte in un’aromatica cagliata. Si +39 0331953280 preparano dei tavoli mettendo delle
Caseificio Norden s.a.s.
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La bistecca di Chianina La Chianina e la “Bistecca alla Fiorentina”; un connubio inscindibile di
Francesco Marino
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a Chianina è una razza antichissima ed è allevata in Italia da più di 22 secoli. Bovino autoctono dell’Italia centrale, vanto della nostra zootecnia discende dal “bos magnum et albus” già noto ai Romani e agli Etruschi, che usavano animali dal candido manto nei cortei Trionfali e buoi bianchi e grandi per i loro sacrifici agli dei, che probabilmente furono i progenitori degli attuali bovini della Val di Chiana. La carne è di qualità eccellente, non ci sono grossi depositi di grasso sottocutaneo e perimuscolari come in altre razze da carne, ma il deposito di grasso è di tipo intramuscolare (marezzatura), tale da vantare il taglio di carne certamente più famoso: la Bistecca con l’osso o fiorentina. Parametri qualitativi della carne Chianina
pH 5.5 proteine ≥20% colesterolo 50mg/100g rapporto grassi ≥1 insaturi /saturi grado durezza ≤3.5kg/cm² calo a cottura ≤ 3.5% calo a fresco ≤ 3% La vera bistecca alla fiorentina si taglia nella lombata di vitellone Chianino: ha nel mezzo l’osso a forma di “T”, con filetto da una parte e controfiletto dall’ altra ed è alta circa 3 cm. Nasce a Firenze nella notte di San Lorenzo, quando si arrostivano quarti di vitello in piazza; il nome si deve ad un gruppo di viaggiatori inglesi che si riferivano a questa con il termine “beef steak” da cui il fiorentinismo “bistecca”. Per secoli, ha allietato il mangiare dei toscani e non solo; purtroppo
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per diversi anni è stata bandita dalle nostre tavole in quanto la colonna vertebrale dei bovini è stata inclusa nell’elenco del materiale infetto a rischio specificato, ritenuto uno dei più pericolosi per la BSE. Ormai, per fortuna, con il cambio di alimentazione dei poligastrici, il pericolo è del tutto scomparso. Per ottenere un’ottima fiorentina la carne macellata deve infrollire, cioè perdere lo stato di rigidità, intenerendosi. Per regolare e controllare lo stato di infrollimento, le carni vengono tenute in celle frigorifero per qualche tempo: le carcasse di Chianina si utilizzano per il taglio dopo 35 - 40 giorni dalla macellazione. Nella cottura della carne, se questa si fa in assenza di acqua “arrosto”, qualunque siano le modalità, si ha il passaggio delle proteine allo stato colloidale (gel), con effetto di indurimento tanto più pronunciato quanto più è intensa e prolungata la cottura. Pertanto la cottura della vera “Bistecca alla fiorentina” sulla graticola deve essere di breve durata, 5 minuti per lato (o meglio fino a quando in superficie affioreranno le goccioline di umore sanguigno). Per evitare l’indurimento dovuto all’eliminazione dell’acqua per coagulazione delle proteine, la carne non va mai punta con la forchetta, né salata durante la cottura . Si otterrà così una Bistecca alla fiorentina più tenera e più ricca di principi nutritivi. Con questo animale si può ottenere anche un ottimo brodo sapido e aromatico, rispettando alcune regole, in quanto la carne va immersa nell’ acqua fredda e portata poi ad ebollizione, in modo che le sostanze estrattive abbiano modo di portarsi in soluzione. Qualora, invece, si preferisca un
boll i t o migliore, la carne viene messa in acqua quando questa ha raggiunto l’ebollizione, in modo che la rapida coagulazione delle sostanze proteiche ostacoli la diffusione nel brodo delle sostanze nutritive. La Chianina è come il maiale, non si butta via niente e con il “quinto quarto” si preparano i veri: Crostini con poppa (mammella di Chianina) Il lampredotto (abomaso) La trippa alla fiorentina (tutto il rumine con reticolo, omaso e abomaso) Dr. Agronomo Francesco Marino
Elaborazione e realizzazione nel settore agricolo ed alimentare nei Paesi in via di sviluppo, di progetti di cooperazione internazionale inerenti: beneficienza, istruzione, formazione, ricerca, tutela e valorizzazione delle risorse territoriali. presidente@agronomiperlaterra.org
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Il prosciutto insaccato Ottenuto da tagli carnei di prosciutto, lardo di coppetto e guanciale di
Mario Francesco Carpentieri
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l Solòdio si colloca nelle produzioni pregiate, essendo ottenuto da tagli carnei di qualità, di maiale (Sopranno) allevato in forma tradizionale all’aperto, tipologia brado, in area montana. Esso è stagionato in zona medio-collinare appenninica, dove si realizzano le condizioni climatologiche d’igrometria e ventilazione che, nonostante la contenuta percentuale di sale utilizzata nella preparazione, permettono di conservare le carni insaccate fino a completa stagionatura. Per la preparazione del Solòdio, i tagli carnei utilizzati sono costituiti dalle cosce (Prosciutti), private di ogni parte grassa e nervosa, carni tagliate… in punta di coltello, i pezzetti di carne irregolari sono di misura non inferiore a due/ tre centimetri per un centimetro e mezzo. Come parte grassa si utilizza, Lardo di Coppetto e Guanciale, il procedimento per la lavorazione prevede che sia tagliato in filetti da un centimetro di lato per 20/30cm di lunghezza, salati e insaporiti con spezie, e lasciati riposare almeno 12ore, quindi tagliati a coltello in dadini, in quantità del 10-15% rispetto alla parte magra. Le lavorazioni, della carne magra e dalla parte grassa (lardelli), debbono avvenire in forma separata. L’impasto, deve essere eseguito delicatamente in modo da renderlo uniforme e ben amalgamato, una volta raggiunta la condizione ottimale di miscelazione, viene lasciato riposare una notte, in celle refrigerate,
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prima di procedere all’insaccamento manuale in pregiati budelli naturali di scrofa. In seguito si procede alla legatura che si effettua manualmente con spago medio o di grosso calibro a doppia briglia, a questo punto il Solòdio con la sua forma cilindrica allungata e irregolare,con peso iniziale variabile fra 1,8/2,8kg viene lasciato sgocciolare e poi trasferito nel locale di stufatura dove rimane per quattro/ cinque giorni, ed infine collocato nei locali di stagionatura.
Solòdio Lo si riconosce dal caratteristico impasto a pezzatura grossa delle carni tagliate in punta di coltello, dal bel colore rosso vivo e dal giusto equilibrio tra parti magre e parti grasse, e dal grande diametro dovuto all’insaccatura in Gentile di scrofa. Questa caratteristica permette una stagionatura ben lunga, che può raggiungere addirittura i 18 mesi. Legato a mano, l’ideale per le lunghe stagionature. Incomparabile il suo profumo ed il sapore intenso ma non aggressivo e la sua morbidezza, nonostante la lunga maturazione.
Solòdio primavera Salume per eccellenza, ha le dimensioni dei tradizionali salami artigianali ed è insaccato in doppio budello naturale (bovino-suino) accoppiato e cucito. Per le sue dimensioni contenute e la sua grana più fine, era ed è il primo a stagionare ed essere consumato. Nella tradizione in occasione della S.Pasqua, si gustava
accompagnato dalle uova sode e dal vino novello. Stesse parti magre e grasse caratteristiche dei salami più grandi, per un profumo e un sapore unico ed inconfondibile. Info: Il Gran Solòdio è giunto al punto ottimale di stagionatura quando: “piange al taglio”. Si dice che piange, perché i lardelli o occhi di grasso, rilasciano la “goccia” in conseguenza delle attività lipolitiche che esercitano i Microstafilococchi, microrganismi catalasi-positivi, liberando Glicerolo, che a volte si accumula nelle caratteristiche “gocce” che appaiono al taglio. Un classico è servirlo assieme ai fichi, in omaggio al detto che recita “il prosciutto col melone e il salame con i fichi”, le fette devono esser tagliate a coltello come merita un prosciutto. Si abbina molto anche con i formaggi, con le uova sode e con le olive in salamoia. Intero si conserva bene tenendolo appeso in locale fresco e areato. In frigorifero è meglio avvolgerlo in un canovaccio di cotone. Si abbina con vini rossi corposi e con qualche anno di invecchiamento. L’abbinamento classico e magico dei salumi è il pane, ma a tante varietà di “companatico” corrispondono altrettante tipologie di pagnotte e panini. Consigliamo di abbinare il Solòdio a pane di pasta dura, di grana fine e compatta, mollica morbida e crosta croccante, sapore delicato.
Norcinerie delle Terre Lunigiane Mario Francesco Carpentieri Appassionato norcino
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Visita al caseificio Reggio Emilia - 10 novembre 2013 di
Bruno Zannoni
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i è tenuto il dieci novembre 2013 l’incontro dell’Associazione di Agraria.org a Reggio Emilia, con un nutrito numero di partecipanti provenienti da tutto il centro nord. Il programma mattutino ha previsto la visita al caseificio San Simone a Bagno di Reggio Emilia. La famiglia Lugli pro-
duce parmigiano reggiano in modo tradizionale da tre generazioni utilizzando latte di qualità immutata prodotto dai contadini associati al
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caseificio. La signora Lugli ci ha illustrato il caseificio partendo dalla sala di lavorazione del latte, le vasche di affioramento della panna, le “caldere” e le varie fasi di lavorazione, mentre il marito completava la cottura ed estrazione delle future forme di Parmigiano Reggiano con gesti ripetitivi, frutto di esperienza maturata negli anni. La visita è proseguita nella sala di salatura, dove le forme sono immerse in soluzione salina per raggiungere il giusto grado sapidità che
sarà uno dei pregi del formaggio. Sono state illustrate le modalità e il significato dei vari marchi indelebili apposti alle forme fin dai primi giorni per evitare sofisticazioni e frodi, evidenziando uno dei più antichi sistemi di tracciabilità messi in atto ovvero il numero identificativo del caseificio, l’anno ed il mese di produzione. Si è passati poi al luogo più affascinante, che è il magazzino di stagionatura, dove negli stretti corridoi il formaggio riposa per lungo tempo, non meno di diciotto mesi, per raggiungere in casi eccezionali anche i cinque anni. La tecnologia è venuta in aiuto con la climatizzazione dei locali permettendo una miglior e più uniforme stagionatura delle forme, così come i robot
di pulitura e rivoltamento delle stesse, hanno alleggerito di tanta fatica quelle lavorazioni che fino a pochi anni fa erano solo manuali . Le scalere crollate durante il terremoto del maggio 2012, rovinando buona parte del formaggio provocando danni pesantissimi, sono state sostituite e si stanno di nuovo riempiendo di forme dando un colpo d’occhio unico. La visita si è conclusa nello spaccio aziendale, dove tra tante prelibatezze locali esposte è stato possibile assaggiare finalmente il Parmigiano Reggiano nelle varie fasi di stagionatura 24, 30 e 36 mesi cercando di individuare quello più gradito ai palati. “Un particolare ringraziamento a Bruno e la sua famiglia per la bellissima giornata passata insieme!”
Bruno Zannoni Appassionato allevatore
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Utilizzazioni forestali Opportunità economiche e di valorizzazione ambientale di
Marco Giuseppi
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mira a raggiungere questi scopi è la selvicoltura. È chiaro quindi che per la definizione stessa di selvicoltura non possa esistere una selvicoltura senza che vi sia insito il rispetto ambientale e per la comunità che vive attorno al bosco. È automatico prevedere e attuare esclusivamente interventi di utilizzazione forestale che favori-
Ambiente, foreste e natura
scano il rinnovarsi e il perpetrarsi nel tempo del bosco. Non ci dobbiamo scandalizzare quindi, come spesso accade, di fronte ad un taglio del bosco. Famoso fu il servizio di un noto programma televisivo, dove veniva fatto passare per “scempio ambientale” un normalissimo taglio ceduo di un bosco di castagno. L’autore del servizio ignorava il fatto che un taglio effettuato a regola d’arte e seguendo tutte le prescrizioni che la legge impone, non solo, come abbiamo detto, favorisce il perpetuarsi nel tempo dell’entità bosco, ma mette in moto tutta una serie di processi economici che andranno a favore dell’ente proprietario, sia esso pubblico o privato e che si ripercuoteranno positivamente sull’economia della comunità locale. Prendiamo come esempio un bosco comunale ben assestato mediamente accessibile di 1000 ha, coltivato a ceduo per la produzione di legna da ardere. Supponendo di mandare a taglio ogni anno una superficie pari a 30 ha, con un prezzo di vendita del bosco in piedi di 5000€ ad ettaro, si arriva ad avere un introito annuo per il comune pari a 150.000€. Cifra che come termine di paragone serve a ristrutturare una scuola o ad asfaltare con asfalto “fonoassorbente” un tratto di strada di 700m. Il tutto ottenuto da una risorsa che è già disponibile e rinnovabile nel tempo. Non dimentichiamo poi che il prodotto delle utilizzazioni forestali, cioè il legno, è il prodotto “ecosostenibile” per eccellenza. Il protocollo di Kyoto definiva il legno come “carbon sink” ovvero accumulatore di carbonio. Basti pensare che un metro cubo di legno di densità media intrappola fino a 900 kilogrammi di anidride
carbonica. Anche considerando la CO2 necessaria per produrre un pezzo di legno finito, inserendo nel calcolo motoseghe, trattori, attrezzature da segheria e tutti gli altri fattori
Ambiente, foreste e natura
uando si parla di utilizzazioni forestali, si intendono tutti i lavori che comportano un prelievo del legno dalle foreste. Tutti i lavori effettuati in bosco devono tendere a uno scopo preciso. Lo scopo è di riuscire a fruire nel modo migliore possibile e senza limiti di tempo dei benefici e servizi alla comunità che un bosco può fornire: protezione del territorio dal dissesto idrogeologico; produzione del legno come materia prima naturalmente rinnovabile; funzione paesaggistica ricreativa. Si tratta quindi di riuscire a conciliare su una base ecologicamente sostenibile le necessità degli attori privati con le funzioni pubbliche. La scienza e la tecnica che fornisce elementi per la gestione dei popolamenti forestali e
di produzione, il bilancio tra anidride carbonica immessa nell’atmosfera e immagazzinata rimane negativo. Quando vediamo un bosco tagliato, allora, non solo non dobbiamo scandalizzarci, ma anzi dovremmo gioire: significa che la comunità locale è viva, attiva e attenta alle esigenze economiche e ambientali del territorio. L’unico modo per contribuire positivamente alla conservazione dell’ambiente e della biodiversità è vivere e servirsi del bosco in tutte le sue sfaccettature, ricordandosi che quando un boscaiolo taglia una pianta fornisce il suo piccolo contributo per il progresso socio economico della comunità. Foto www.forestambiente.unifi.it www.regione.vda.it
Dr. Forestale Marco Giuseppi
marco.giuseppi@gmail. com
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Il tarassaco Riconoscerlo ed utilizzarlo in cucina di
Nino Bertozzi
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l tarassaco (Taraxacum officinale) è una pianta erbacea particolarmente diffusa nei luoghi erbosi e areati di tutto il territorio italiano. Noto anche come dente di leone, stella gialla e capo di frate, il tarassaco si riconosce facilmente per i suoi capolini fiorali di colore giallo intenso, che si chiudono al calar del sole e si riaprono al ritorno della luce. Al capolino sussegue un globo piumoso bianco-argentato (pappo), dotato di numerosi acheni; da qui l’appellativo popolare “soffione”. Significative sono anche le denominazioni tradizionali attribuitegli, come ad es. “piscia a letto” per la sua proprietà diuretica.
Proprietà medicinali Grazie alla presenza di taraxacina il tarassaco facilita e migliora la digestione, aumentando la secrezione delle ghiandole dell’apparato digerente e stimolando la produzione di saliva, succhi gastrici e pancreatici. Esercita un effetto protettivo sul fegato, stimola la produzione di bile e facilita lo svuotamento della cistifellea. L’aumento della produzione di bile favorisce, a sua volta, i movimenti intestinali. Tuttavia, l’inulina contenuta negli estratti di radice ha effetti
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lassativi soltanto a dosi elevate; in infusi. Il decotto si prepara bollendo quantità più moderate agisce, inve- foglie e radici per 5 minuti, si beve ce, come probiotico, cioè contribui- poi il liquido filtrato. Gli infusi si presce al benessere della flora batterica parano con le foglie essicate, come positiva (Lactobacillus e Bifidus). fosse un the. I suoi flavonoidi agiscono a livello Impieghi in cucina delle reni, aumentando la produzione di urine e facilitando l’eliminazio- Caffè ne di liquidi in eccesso, tossine e so- Raccogliere le radici in autunno. Dopo averle pulite, tagliarle a fettine stanze di rifiuto. Al tarassaco vengono attribuite an- e tostarle nel forno. Macinarle ed utilizzarle per fare il caffè, che proprietà antinPesto di tarassaco bollendo il preparato di fiammatorie, ipoglitarassaco nell’acqua e cemiche, stimolanti Ingredienti: Foglie di tarassaco giovane 100g poi filtrando. l’attività pancreatica Aglio 2 spicchi Insalata e ipo-colesterolemiz- Parmigiano 50 g extravergine di oliva 100 ml Sia i fiori sia le foglie zanti, promuove l’eli- Olio Pinoli 20 g possono essere conminazione biliare del Mandorle 20 g sumati in insalata. colesterolo in eccesso Sale grosso 1 pizzico Verdura lessa e ne riduce l’assorbi- Preparazione Mettere tutti gli ingredienti nel mento grazie alla ric- frullatore tranne l’olio e comincia- Si consiglia di consuchezza in fitosteroli e re a frullare. Quando comincia ad mare lessate le foglie essere macinato piuttosto fine, e le radici di piante fibre solubili fioritura. aggiungere a filo l’olio fino a forgrandi, che hanno Gli effetti diuretici e la mare una pasta morbida. ricchezza in potassio Chiuso in vasetti tappati, in frigo- passato la fioritura. L’acqua di cottura può possono contribuire rifero, dura diversi giorni. Si può surgelare, senza mettere a regolarizzare i fluidi l’olio e il parmigiano che soffrono essere utilizzata come corporei ed abbassare il gelo. Aggiungere olio e parmi- bevanda depurativa o nella preparazione di la pressione arteriosa. giano al momento dell’utilizzo. Le foglie di tarassaco vanno racLa stimolazione del- colte in primavera o in autunno risotti e legumi. la secrezione biliare prima che comincino a fiorire, al- Finti capperi Raccogliere i boccioconferisce al tarassa- trimenti sono dure e più amare li ben chiusi, bollirli 3 co un’ottima azione depurativa in casi di problemi dige- minuti in acqua e limone, asciugarstivi e di insufficienza epatica e bilia- li e metterli in un barattolo ricoperre, disturbi del funzionamento della ti di aceto e conditi con sale, alloro cistifellea, epatite e cirrosi e anche e aglio. Potranno essere utilizzati come sostituzione dei capperi. in diete ricche di grassi. Praticamente può essere utile in casi Credenze popolari di: affezioni epatiche non infettive, reumatiche ed artritiche, dispepsia Se, soffiando sul pappo, un piumino (cattiva digestione), intossicazioni si posa su una persona, viene interda abusi alimentari, iperglicemia, it- pretato come indice di fortuna. tero e calcoli delle vie biliari, edemi e ritenzione idrica, cellulite, stipsi, Nino Bertozzi emorroidi, fermentazioni intestinali, Appassionato flatulenza. orticoltore Per questi usi si faranno decotti o
Ambiente, foreste e natura
Riconoscere i Boletus Le caratteristiche dei Boletus edilis ed aestivalis di
Matteo Ioriatti
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uelli che vengono chiamati “porcini” appartengono in realtà a ben 4 specie diverse del genere Boletus. Queste specie presentano caratteristiche ed habitat spesso diversi e talvolta opposti; vediamo quindi di capire le differenze fra due dei quattro porcini, il Boletus edulis e il Boletus aestivalis.
Boletus edulis Il Boletus edulis, conosciuto e apprezzato nella gran parte del territorio italiano, è chiamato anche “brisa” (nord est) o “moccicone” (toscana). Cresce sia nei boschi di latifoglie, in particolare faggio e castagno, sia in quelli di conifere (abetine). Il periodo di crescita va da giugno a novembre e si può trovare dalla collina all’alta montagna. È più tardivo rispetto agli altri tipi di porcino; lo troviamo, infatti, dal mese di giugno inoltrato nei boschi di media montagna. Agosto è il mese migliore per trovarlo negli estesi boschi alpini di conifere; è infatti durante questo mese che, mentre nel resto d’Italia regna il forte caldo estivo, il clima più fresco e i frequenti temporali sull’arco alpino creano le condizioni ideali per buone buttate di Boletus edulis. Con l’arrivo dell’autunno il B. edulis tende a popolare anche i boschi più in basso e possiamo trovarlo in particolare nelle grandi faggete appenniniche fino al mese di novembre. In alcune zone dell’appennino può capitare che le ultime nascite coincidano con l’ar-
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rivo della prima neve. Nella tarda Boletus aestivalis stagione, le nascite si concentrano se il clima è particolarmente mite si nei boschi di bassa collina, sotto i castagni. Infine, all’inizio del periodo può trovare dopo la metà del mese invernale e addirittura qualche volta di aprile, in pianura. È un fungo che anche a gennaio, è possibile trovarli ama particolarmente il caldo, talvolta nei boschi di leccio vicino alle coste, anche intenso, che segue i temporali estivi. Si può quindi reperire sopratspecialmente sul versante tirrenico. È un fungo di medie dimensioni, il tutto nei boschi collinari ma anche cui cappello può arrivare talvolta fino in quelli appenninici di media mona 30 cm; il gambo è robusto, obeso, tagna nei mesi estivi, in particolare di colore biancastro o nocciola molto a luglio. Se si verificano condiziochiaro, con un reticolo abbastanza ni ideali, può dare luogo a nascite evidente. Il colore del cappello varia molto importanti, sebbene spesso da un nocciola chiaro, talvolta vicino di durata limitata. È possibile trovaral biancastro, fino al marrone scuro. lo anche sulle alpi, sempre più freI pori sono piccoli e dello stesso co- quentemente nei boschi di latifoglie, lore dei tubuli che sono piuttosto lun- nei periodi più caldi. Con l’avanzare ghi e di colore dapprima bianco, poi dell’autunno tende a diminuire e ad al giallo e all’olivastro con la matu- abbassarsi fino ai boschi di pianura, razione del fungo. La carne è immu- dove può ancora fruttificare in modo abbondante. tabile, di colore Come riconoscere le due specie bianco, anche 1) Il B. edulis preferisce un clima fresco e si trova Come il B. eduse presenta un facilmente anche sotto aghifoglie; l’altro invece lis è un fungo di predilige un clima più caldo ed è più frequente medie dimenalone rosa-vio- sotto le latifoglie laceo sotto la 2) Il B. aestivalis presenta spesso un cappello sioni, anche se cuticola del screpolato a causa del periodo caldo in cui nasce spesso più snel3) Il B. edulis presenta una cuticola del cappello cappello. L’odo- spesso viscida e lucida, mentre il B. aestivalis lo del primo. La colorazione del re è gradevole, presenta una cuticola asciutta e vellutata fungineo, non 4) Il profumo del B. aestivalis è molto più intenso cappello è nocdi quello del B. edulis troppo intenso, 5) Il B. aestivalis è spesso attaccato dalle larve ciola più o meno chiaro fino al bruil sapore è dol- dei parassiti a differenza del B. edulis 6) Il colore del gambo del B. edulis è bianco/ no; il gambo è di ce e delicato. biancastro con un reticolo meno evidente, menIl Boletus ae- tre il gambo del B. aestivalis ha un colore ten- colore biancastro tendente al stivalis (o re- dente al nocciola con un reticolo ben evidente ticolatasi, per 7) Il B. edulis presenta un alone violaceo sotto la nocciola chiaro, cuticola che invece il B. aestivalis non ha con un reticolo le screpolature spesso presenti sul cappello) è chia- bruno piuttosto evidente. I pori sono mato volgarmente “porcino d’estate” piccoli, prima bianchi poi tendenti al o “estatino” con riferimento al perio- giallo ed infine olivastri a maturaziodo più favorevole alla nascita. Pre- ne. La carne è bianca, immutabile, il dilige i boschi di latifoglie (castagno, profumo più intenso del B. edulis ed faggio, quercia, carpino) anche se il sapore molto gradevole. capita di trovarlo nei boschi di conifere (in particolare abetine). È uno dei primi porcini a comparire; già a Matteo Ioriatti maggio nei versanti più esposti dei Studente agraria boschi di bassa collina e talvolta
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Il compostaggio in agricoltura Sintesi dei contenuti del Convegno Nazionale dedicato al recupero delle biomasse agricole ed agli effetti dell’impiego del compost in orticoltura di
Eugenio Cozzolino
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l Convegno Nazionale “Recupero delle biomasse agricole, agroindustriali e urbane attraverso il compostaggio. Effetti dell’impiego dei compost in orticoltura” coordinato dal dott. Luigi Morra, si è tenuto a Scafati nel sito del Real Polverificio Borbonico nei giorni 6 e 7 ottobre 2011. La Regione Campania ha patrocinato questa iniziativa, unitamente al CRA-Consiglio per la ricerca in agricoltura, alla SOI-Società italiana di orticoltura e al Comune di Scafati. Hanno sponsorizzato l’evento le Società NOVAMONT Spa e PROGEVA srl, la Cassa di Credito Cooperativo di Scafati e Cetara. Il Convegno è stato proposto e organizzato dal CRA CAT di Scafati con l’obiettivo di offrire un’occasione di incontro e confronto tra le parti interessate a diverso titolo al settore del trattamento, recupero e valorizzazione delle biomasse in agricoltura. In particolare sono state individuate alcune linee principali su cui si è concentrato lo scambio di conoscenze e il dibattito: -Valutazione delle soluzioni impiantistiche più opportune al fine di ridurre la competizione tra il recupero delle biomasse via compostaggio e il loro uso per produrre energia via fermentazione anaerobica o combustione. - Analisi delle problematiche normative vincolanti per una chiara strategia di governo nella gestione del riciclaggio degli scarti organici di qualità. -Contributo della ricerca nel validare e definire le più efficaci condizioni di produzione e di impiego dei compost in agricoltura e le ricadute sulla produzione, la qualità e lo stato sa-
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nitario delle colture, sui terreni e, in senso lato, sull’ambiente. Al Convegno hanno partecipato circa 130 persone in rappresentanza del mondo scientifico (CRA RPS di Gorizia e Roma, CIN di Bologna, SUI di Modena, CAT di Scafati, ORT di Pontecagnano, SCA di Bari, SSC di Metaponto, Università di Bologna,Modena e Reggio Emilia, Torino, Perugia, Tuscia, Napoli, Salerno, del Sannio, Bari, Basilicata, Reggio Calabria, CNR Isafom di Perugia e Ispa di Bari), del mondo tecnico-imprenditoriale legato al settore industriale del compostaggio (Consorzio Italiano Compostatori, ETRA di Padova, GESENU di Perugia, ACEA di Roma, Progeva di Laterza, Impianto di compostaggio del Comune di Salerno, Centro Sperim. di Compostaggio del Cilento), dell’ICQRF del MiPAAF, dei Servizi centrali e periferici dell’Assessorato all’Agricoltura dell’ARPA della Regione Campania e di agronomi liberi professionisti. Sono stati presentati 46 contributi di cui n. 6 relazioni ad invito. La sessione poster ha raccolto 23 dei 46 contributi. Nella prima sessione dei lavori, dedicata al tema del Recupero di energia e/o materia, vincoli normativi e di qualità per il futuro sviluppo del compostaggio, sono
stati tratteggiati gli aspetti salienti di un settore industriale quale quello del compostaggio, che ha raggiunto i 250 impianti in Italia, trattato circa 4,2 milioni t di biomasse provenienti soprattutto dalla frazione organica degli RSU e dal verde di potature urbane, con una produzione di compost di oltre 1,5 milioni di t. E’ stato chiarito cosa è il compost di qualità all’interno del quadro normativo definito dalla Legge n. 75/2010 sui Fertilizzanti mentre sono state discusse le difficoltà esistenti nel normare l’impiego dei digestati (sottoprodotti del processo di fermentazione anaerobica delle biomasse). I digestati sono prodotti sempre più massicciamente a seguito della diffusione di impianti anche aziendali di fermentazione anaerobica, presentano criticità legate alla loro composizione (eccesso di azoto ammoniacale) ma, a differenza del compost, manca la definizione dei criteri in base ai quali renderli utilizzabili in agricoltura e delle relative modalità di impiego. E’ stata presentata e discussa l’integrazione in impianti industriali complessi (in diffusione in Italia) di modalità di trattamento delle biomasse con le quali fare recupero di energia tramite fermentazione anaerobica e recupero di materia tramite il compostaggio
Ambiente, foreste e natura
del digestato prodotto nella prima parte del trattamento. Gli impianti di compostaggio, a differenza di quelli di fermentazione anaerobica sono soggetti a serrati controlli da parte del Corpo Forestale dello Stato e dell’Istituto per la Certificazione di Qualità e dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) del MiPAAF allo scopo di valutare la correttezza delle matrici impiegate, delle procedure adottate e dei prodotti finali. Il quadro definito ha chiaramente mostrato come il settore del compostaggio risponde ormai ai criteri di un moderno settore industriale che si muove in un preciso quadro normativo ed è in grado di garantire la qualità dei fertilizzanti (non più rifiuti!) prodotti. Attraverso i contributi afferenti alla seconda sessione dedicata al tema Gestione dei processi e tecnologie disponibili, sono stati ulteriormente dettagliati aspetti impiantistici legati al trattamento delle biomasse di provenienza urbana; in particolare, è stato presentato dall’Assessore all’Ambiente del Comune di Salerno (unico esponente politico presente al Convegno!) il primo impianto pubblico di compostaggio attivo in Campania in grado di trattare 30.000 t di scarti attraverso la fermentazione anaerobica e il compostaggio. Nella sessione, inoltre, sono state affrontate le specifiche problematiche del compostaggio dei residui colturali on farm, delle sanse e dei reflui dei frantoi oleari, dei pannolini per bambini, del pastazzo prodotto dall’industria agrumaria, delle alghe di Posidonia oceanica che spiaggiano sulle coste. Alla luce di quanto emerso è apparso chiaro che più che parlare di compost al singolare è necessario parlare dei compost in quanto questo prodotto, a seconda delle matrici di partenza, può assumere caratteristiche che possono determinare delle specificità di applicazione fermo restando che i settori di elezione per l’impiego dei compost sono l’agricoltura di pieno campo e di serra, il settore dei terricciati per il floro-vivaismo, e seppure con delle perplessità, la produzione di prodotti con finalità di controllo di parassiti tellurici. L’in-
Ambiente, foreste e natura
teresse per gli utilizzi industriali dei compost e prodotti derivati è stato messo ulteriormente in evidenza da una relazione sullo studio della composizione chimica fine delle molecole umiche presenti nei compost al fine di meglio comprendere la possibilità di collegare azioni come, ad esempio, quelle di fitostimolazione a specifiche componenti molecolari riproducibili poi industrialmente. Nella terza e ultima sessione dedicata alle Strategie per l’impiego dei compost e loro derivati in orticoltura e nel vivaismo, è emerso un dato di carattere generale sopra tutti: la necessità di un approccio scientifico multidisciplinare per esplorare nel modo più ampio possibile le molteplici sfaccettature legate al ‘semplice’ impiego di compost. Grazie anche agli ampi dibattiti che hanno caratterizzato tutte le sessioni, è stato evidente che esistono più livelli sui quali ‘leggere’ gli effetti e le interazioni dell’impiego dei compost (da RSU, verdi, da sansa olearia) all’interno di un agro ecosistema. In termini agronomici è stato sottolineato che il primo passo nell’impostazione di qualsiasi ricerca è di dare un respiro temporale alle prove di medio-lungo periodo (da 2-3 anni in poi) al fine di poter valutare il passaggio da condizioni di squilibrio a nuovi equilibri; altro elemento affrontato è stato il problema del quanto compost dare in orticoltura di pieno campo e sotto serra in funzione degli effetti attesi non solo sulla produttività delle colture ma anche del recupero di fertilità integrale di suoli spesso degradati quali sono quelli sottoposti alle pratiche intensive proprie dell’orticoltura. Lo studio di questi effetti implica un approccio di chimica e di microbiologia del suolo se si vogliono cogliere i cambiamenti fini nel sistema e se si vuol dimostrare la reale possibilità di stoccare C organico nel suolo con l’ammendamento programmato. Ne consegue che lo studio delle variazioni della struttura della sostanza organica e della sua ripartizione all’interno degli aggregati del suolo così come quello degli indicatori della struttura delle comunità microbiche o di singole attività biologiche (enzimatiche, respirazione, etc.) diventano piani di osservazione ob-
bligatori nella comprensione dei fenomeni. Ancora, sono state poste in evidenza le potenzialità dell’uso di compost nella riduzione di composti xenobiotici nel suolo come gli idrocarburi policiclici aromatici. E’ stato discusso, inoltre, il ruolo del compost o dei suoi derivati nel controllo di patogeni tellurici attraverso la modificazione degli equilibri rizosferici e le azioni di stimolazione della fisiologia vegetale. Sono stati presentati lavori sull’impiego diretto di ammendante compostato misto nel contenimento di agenti patogeni del melone, sulla produzione dei tea-compost prodotti partendo da diversi tipi di compost e il loro impiego sulle colture con effetti fitostimolanti, infine sugli effetti soppressivi di estratti acquosi di compost diversi. Anche in questo campo è apparso chiaro come possano aprirsi ulteriori campi di applicazione di prodotti specialistici (effetti biostimolanti, nutrizionali, fungistatici) derivanti dal compost. Infine, l’impiego dei compost nel settore vivaistico. Ampia è stata la proposizione di contributi in cui sono stati studiati gli impieghi di ammendante compostato misto e verde, compost da sansa e da pastazzo di agrumi nella composizione di miscele per substrati ad uso specifico. Forte è la richiesta delle industrie che producono terricciati e che sono interessate a individuare materiali con i quali sostituire almeno in parte le torbe il cui reperimento è destinato a diventare problematico e costoso. A conclusione del Convegno gli esponenti della comunità scientifica presenti hanno condiviso l’idea che possa costituirsi un gruppo di studio sul compost che in qualche modo diventi una sorta di agorà nella quale mantenere aperto il confronto e il dibattito, su questo settore di studi molto trasversale e proprio per questo molto stimolante per la possibilità di creare collaborazioni scientifiche effettivamente multidisciplinari.
Dr. Eugenio Cozzolino Consiglio per la Ricerca in Agricoltura
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Strategie, tecniche ed innovazione
Il caviale di Lumaca Una novità ancora sconosciuta nel nostro paese ma che fa già impazzire gli estimatori di caviale dei ricchi paesi esteri di
Davide Merlino
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l caviale di lumache nasce dall’intuizione dei titolari della più grande azienda elicicola d’Italia, che per caso, trovandosi al supermercato, si accorgono del caviale/succedaneo tra gli scaffali e da lì si accende la lampadina! Perché non provare a fare il caviale con le nostre lumache?!!
Oltre alla tradizionale produzione di chiocciole ad uso gastronomico, l’elicicoltura offre interessanti sbocchi in campo cosmetico e farmaceutico. Le proprietà biologiche del muco di lumaca (elicina) lo rendono, infatti, particolarmente adatto per le creme di bellezza e per sciroppi in campo farmaceutico, utili a combattere patologie legate all’apparato respiratorio e gastrico.
Ma... cos’è?
Da quel momento si cominciano gli studi e le ricerche in collaborazione
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con esperti produttori nazionali di “normale” caviale fin quando, oggi, si è arrivati al prodotto pronto per essere immesso nel mercato! Attualmente unica azienda Italiana a produrlo, lo ha proposto in diverse fiere internazionali riscuotendo un grandissimo successo con gli chef stellati d’Europa ed è arrivata alla premiazione nazionale della Coldiretti “OscarGreen”.
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Il caviale altro non è che uova di lumache dall’aspetto di piccole perle bianche di 1-2 mm, frutto di un difficilissimo lavoro di selezione delle chiocciole produttrici, di accoppiamento stimolato con la ricreazione dell’habitat e microclima necessario, selezione delle covate e delle singole uova che verranno sottoposte ad un trattamento che l’azienda sta brevettando.
“La Lumaca Madonita” nasce dalla voglia di tre amici (Davide Merlino, Michele Sansone e Giuseppe Sansone) di realizzare qualcosa di nuovo ed innovativo, impiegando l’esperienza ventennale nel settore agricolo, per la realizzazione di uno dei più grandi allevamenti di lumache d’ Italia. www.lalumacamadonita.it
Davide Merlino La Lumaca Madonita
Strategie, tecniche ed innovazione in agricoltura
La falconeria Una pratica antichissima che consiste nella caccia con il falco; da diversi anni si sono diffuse anche pratiche che utilizzano il falco a scopo dimostrativo senza che vi sia una reale attività venatoria di
Clarissa Catti
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opo ben 4.000 anni finalmente una lieta notizia rallegra i cuori di tutti coloro che praticano, e soprattutto, vivono un’arte a molti ancora oggi sconosciuta. La falconeria è stata finalmente definita dall’UNESCO, dal 2010, come patrimonio immateriale dell’umanità in ben dodici paesi di tutto il mondo e di anno in anno sempre più Stati hanno fatto domanda per aderire.
Non si sa bene in quale secolo abbia avuto inizio la pratica della caccia con il falco, ma durante l’epoca medievale raggiunse i massimi livelli di espressione; nel XIII secolo Federico II di Svevia scrisse un vero e proprio trattato, il “De arte venandi cum avibus”, tradotto in varie lingue lasciando le preziose pergamene originali nelle famose librerie del Va-
Curiosità
Con il passare degli anni si sono sviluppati anche diversi rami che usufruiscono del falco per divertire il pubblico o semplicemente per mostrare che l’eliminazione di questi animali non solo è inutile, ma è anche dannosa per l’ambiente. Questa pratica è definita falconeria moderna, dove non si insegna all’animale a cacciare, ma semplicemente a volare. Questa attività stizzisce molto i cacciatori in quanto, secondo loro, il falconide dovrebbe essere avviato a quella che è la sua natura di predatore. A differenza di chi pratica la falconeria moderna, tutti i falconieri devono obbligatoriamente avere un porto d’armi per uso venatorio e devono denunciare la detenzione dell’ani-
male agli uffici forestali come fosse un’arma monocolpo; questo per garantire tutela all’animale se si dovesse smarrire. La falconeria però non è solo un’arte fine a se stessa. Come per ogni
Cacciatori con astori attività tradizionale c’è dietro molto di più. E’ un punto d’incontro per la gente nel rispetto dell’ambiente (non ci sono pallini di piombo che inquinano l’ambiente) e della fauna stessa, infatti, a differenza del fucile, il falco non riesce a catturare più che alcune prede, poiché le sue energie si esauriscono in fretta. Per cacciare poi, bisogna anche tenere sotto controllo il peso dell’animale e in alcune specie, a causa delle piccole dimensioni, è difficile tenerlo sotto controllo, rischiando così la morte dell’animale. Per questo si consiglia a tutti i neofiti di affiancarsi sempre ad un falconiere esperto, sia per se stessi, ma soprattutto per l’animale.
Curiosità
Il Re ed il suo falcone tratta dal “De arte venandi cum avibus”
ticano. La falconeria intesa come arte di caccia col falco, viene trasmessa di generazione in generazione, soprattutto in paesi come Arabia Saudita e Mongolia dove ci si procura veramente da vivere con questi straordinari rapaci. Nel nostro occidente, invece, il sapere viene trasmesso anche a chi non fa parte della propria famiglia, garantendo così un futuro a questa pratica venatoria.
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La falconeria, ricordiamo, non è per tutti e per possedere un falco bisogna sacrificare molto del proprio tempo libero, soprattutto se non si possiede una voliera e se si usufru-
del rapace con cui vogliamo cacciare. Un bello sparviere avrà di certo ottime probabilità di catturare solo uccelli di piccola taglia, mentre una poiana di Harris, in un campo aper-
Clarissa C. ad una manifestazione
Femmina di Poiana comune isce dell’animale a scopo venatorio. Come un atleta che si rispetti, giornalieri allenamenti aiutano il falco ad
to, potrà tranquillamente artigliare un fagiano in fuga. È anche per questo che si raccoman-
per comprare un falco bisogna recarsi presso allevatori che abbiano animali con alla zampa anelli identificativi inamovibili e che dimostrino tramite certificato che l’animale che stiamo per comprare discenda da genitori che siano allevati in cattività da almeno tre generazioni. Nonostante ciò, in giro per il mondo, ci sono ancora numerosi bracconieri che predano i nidi per poi applicare gli anelli quando i pulcini sono ancora piccoli. Perciò, quando si vuole comprare un rapace, bisogna essere sempre affiancati da qualcuno esperto. Con il 2013 termina anche il terzo anniversario dell’inserimento della falconeria fra i patrimoni dell’umanità, ed è stato festeggiato inserendo per la prima volta una ricorrenza mondiale conclusa lo scorso mese: il World Falconry Day. Alla fine di ciò, finalmente, sempre più persone capiscono l’importanza di questi animali e sempre più giovani si avvicinano a questa pratica venatoria che garantirà continuità di quest’arte nei secoli futuri.
Femmina di Poiana di Harris avere maggiori possibilità di cattura ed una maggiore resistenza. Per ogni ambiente c’è un diverso falco da utilizzare: sarà più difficile se non impossibile per un Pellegrino catturare una preda nel fitto del bosco. Da qui subentra la selezione
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da cautela quando si deve scegliere questo animale, chiedendo consiglio ad esperti che ci guideranno verso la scelta più giusta e più soddisfacente. Al fine di chiarire un aspetto fondamentale, è necessario sapere che
Clarissa Catti
nurannaproduction@ yahoo.it
Curiosità
Politica comune della pesca E’ la politica che viene adottata nel settore della pesca dall’UE; vediamo più nel dettaglio cos’è e come influenza tutto il comparto di
Mauro Bertuzzi
L
a Politica comune del settore ittico (denominata CFP) è la politica che viene adottata dall’Unione Europea nel settore della pesca; essa viene gestita direttamente dal Commissario europeo per la Pesca e gli Affari Marittimi, dal 2009 di competenza esclusiva dell’Unione Europea. La CFP definisce per ciascun stato membro delle quote di pescato e per ciascuna delle specie, promuove l’industria della pesca mediante l’utilizzo di vari strumenti di regolazione e sostegno al mercato.
La storia La politica comune della pesca venne creata con il Trattato di Roma nel 1957 ed è prevista dall’art. 28 del trattato istitutivo delle Comunità Europee. Le prime regolamentazioni vennero create nel 1970, quando le politiche del settore furono disegnate, l’intenzione era quella di creare un’area di libero scambio per il pesce e i prodotti derivati con regole comuni, in modo che un pescatore di un qualsiasi stato membro potesse avere
Curiosità
accesso a tutte le acque comuni; fu prevista però un’eccezione per le acque costiere, perché riservate ai pescatori locali. Inoltre venne anche individuata una politica per sostenere la modernizzazione del naviglio e delle infrastrutture costiere. In linea con analoghe modifiche a livello internazionale, nel 1976 gli stati membri estesero il proprio territorio di pesca dalle 12 ai 200 migli nautici dalla costa (ovvero da 22,2 km a 370,4 km). Il cambiamento pose la necessità di nuovi controlli e portò alla riforma della politica comune della pesca nel 1983. Durante la verifica della CFP del 1992, furono individuati problemi di surplus di investimenti nella flotta e di eccessivo sfruttamento del pescato, gli accertamenti evidenziarono la necessità di aumentare i controlli sul rispetto delle normative e spingere ad un irrigidimento delle regole e delle verifiche. Nel 1995 venne introdotto un sistema di permessi che regolava zone e periodi consentiti per la pesca, vennero commissionati studi scientifici per determinare con un maggior grado di sicurezza la quantità di pesce presente nei mari in modo da poter utilizzare efficacemente il sistema dei permessi e meglio gestire gli stock.
Il settore riceveva inizialmente i sussidi nel quadro del Fondo europeo per il governo e il sostegno dell’agricoltura, nel 1993 fu invece istituito un fondo separato denominato “Strumento finanziario per la pesca”, fra il 1994 e il 1999 l’ammontare di questo fondo fu fissato a 700 milioni di ECU. Successivamente al posto dello Strumento finanziario per la pesca, dal 1º gennaio 2007, venne instituito il Fondo europeo per la pesca (FEP), con un budget di spesa di circa 4,305 miliardi di euro per il periodo 2007-2013, di cui il 75 % per le regioni in ritardo di sviluppo. Gli assi strategici prioritari del FEP furono definiti dal Consiglio: • Adeguamento delle flotte (aiuti per l’arresto definitivo o temporaneo, alla piccola pesca costiera, per gli investimenti a bordo delle navi da pesca ecc.) (1,211 miliardi di euro nel periodo 20072013). • Acquacoltura, pesca nelle acque interne, trasformazione e commercializzazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura (misure per gli investimenti produttivi nel settore dell’acquacoltura, idroambientali, di sanità pubblica ecc.) (1,239 miliardi di euro nel periodo 2007-2013) • misure di interesse comune (protezione e sviluppo della fauna e della flora acquatiche, campagne di promozione, modifica dei pescherecci per destinarli ad altre attività ecc.) (1,128 miliardi di euro nel periodo 2007-2013) • progetti per lo sviluppo soste-
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nibile delle zone di pesca (567 milioni di euro nel periodo 20072013) assistenza tecnica per facilitare l’attuazione degli aiuti del FEP (159 milioni di euro nel periodo 2007-2013)
Dal 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il settore divenne a tutti gli effetti un’area di competenza esclusiva dell’Unione Europea.
Impatto economico ed occupazionale La pesca è un’attività economica relativamente poco rilevante nell’Unione Europea, essa contribuisce per meno dell’uno percento al prodotto interno lordo. Nel 2007 nel settore erano impegnati 141.000 pescatori con 85.000 navi di varie dimensioni, mentre nel settore della trasformazione erano impiegate circa 126.000 persone e quasi 4.000 aziende Il valore complessivo della produzione del settore della trasformazione ammontava a circa 23 miliardi di euro* . La pesca non impiega più del 10% della popolazione attiva in nessuna delle regioni dell’UE, ma è presente soprattutto in aree in cui è alta la disoccupazione e in cui altri settori produttivi sono deboli e per questo motivo le viene dedicata una speciale attenzione. Nel 2007 il pescato complessivo ammontava a 5,1 milioni di tonnellate, gli allevamenti ittici producevano nel 2007 circa 1,3 milioni di tonnellate di pesce, con un valore di circa 3,2 mi-
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liardi di euro*. Nel 2007 l’Unione europea ha esportato circa 1,77 milioni di tonnellate di pescato e ne ha importato 5,66 milioni; nel tempo la bilancia commerciale (fra import ed export) pur variando nel tempo, fa rimarcare comunque un deficit di circa 13 miliardi di euro*. Il settore dell’allevamento ittico è quello a crescita più rapida, il sostegno comunitario iniziò nel 1971 per gli allevamenti terrestri estendendo-
si poi a tutte le altre zone di allevamento alla fine degli anni settanta. Il sostegno comunitario è simile per tutti i tipi di installazione, tuttavia tiene conto dei possibili rischi ambientali dovuti alla grande concentrazione di pesce che si trova nelle aree di allevamento collocate in mare o nei fiumi.
Produzione e qualità Sono 200 le organizzazioni di produttori nell’UE costituite da pescatori o allevatori per assistere i soci nella vendita del prodotto. Viene richiesto ai produttori di sviluppare delle strategie per regolare la pesca rispetto alla richiesta del mercato. Le associazioni possono chiedere ai pescatori che non ne siano membri, di rispettare nelle aree di pesca in comune le stesse restrizioni imposte ai soci. Le organizzazioni hanno anche il potere di togliere un prodotto dal mercato se il prezzo scende sotto il livello minimo stabilito dal Consiglio dell’UE e di ricevere un indennizzo dall’Unione Europea. I livelli di in-
dennizzo sono strutturati in modo che il denaro corrisposto per quantità unitaria di pescato cali man mano che cresce la quantità di pesce invenduto. Il pesce invenduto può essere stoccato e quindi re immesso sul mercato oppure venduto come mangime animale. L’acquisto di tutto il pesce invenduto può essere concesso solo per coprire surplus occasionali. La verifica delle norme della politica comune della pesca è una responsabilità degli stati membri, ma esiste un servizio comunitario di ispettorato che assicura che tutti gli stati membri facciano rispettare la normativa per quanto di propria competenza. Gli stati membri devono inoltre farsi carico di verificare che i navigli appartenenti alla propria flotta rispettino gli accordi internazionali dell’UE quando operano fuori dalle acque territoriali. Le regolamentazioni comunitarie hanno provveduto all’armonizzazione delle sanzioni previste dalle diverse legislazioni nazionali per la violazione della disciplina comunitaria. Gli ispettori hanno la possibilità di controllare le attrezzature delle barche da pesca e di verificare i registri del pescato. Vengono infine sottoposte a controllo le dimensioni delle flotte. Nel 1977 fu poi introdotto un programma di aiuto comunitario per l’industria del trattamento del pesce allo scopo di migliorare i processi di lavorazione, introducendo nuove tecnologie e migliorando le condizioni igieniche. Gli ispettori comunitari possono controllare gli impianti di lavorazione per assicurarsi che tutto il pesce sia correttamente registrato e che sia tracciabile fin dalla fonte e per verificare il rispetto delle regole di igiene e delle regolamentazioni sulla lavorazione. Compito dell’ispettorato è inoltre verificare che tali norme vengano rispettate nei paesi terzi esportatori con cui l’UE ha firmato accordi bilaterali. Finanziamenti comunitari vengono concessi per assistere le industrie nel miglioramento della qualità e nella gestione delle quote. Viene concesso un sostegno finanziario per favore la modernizzazione
Curiosità
dei navigli, ma anche per consentire la riduzione regolata della dimensione della flotta. Inoltre è concesso sostegno finanziario alle campagne pubblicitarie che incoraggiano il consumo di specie che non sono sfruttate troppo intensamente.
Il futuro: la sostenibilità ambientale La pesca incide direttamente sulla popolazione delle specie catturate e indirettamente su altre specie marittime, pertanto un sovra sfruttamento delle risorse, può determinare gravi problemi sui cicli naturali con conseguenti problemi ambientali. Nel 2010 l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche riguardava il 75% del capitale ittico e circa un terzo di esso si trovava in uno “stato preoccupante”. In assenza di riforme, si stima che entro dieci anni 128 delle 136 specie
sottoposte ad eccessivo pescato saranno in pericolo. Per ridurre i rischi di un pescato troppo intensivo, la politica della pesca, impone delle quote di cattura per ciascuna specie e ciascuno stato (“Totali ammissibili di cattura” TAC); la quota viene fissata annualmente in base alle stime sulle popolazioni di pesce ed alla serie storica del pescato. Questo meccanismo è stato però contestato dai nuovi stati membri dell’UE che non possiedono una serie storica di dati riconosciuti a li-
Curiosità
vello comunitario. Le quote sono fissate dal Consiglio dell’UE, tenendo conto delle proposte della Commissione Europea, redatte con l’ausilio di consiglieri scientifici, delle opinioni dei paesi terzi e di quanto stabilito dal Consiglio internazionale per l’esplorazione del mare. Ogni stato è responsabile per la ripartizione della propria quota e gli strumenti per l’assegnazione delle quote variano da paese a paese. In ogni caso, a ciascuna nave è assegnata una quota individuale per le specie regolamentate e tutto il pescato deve essere registrato. Alto problema sono le modalità di pesca, dove la vegetazione subacquea e le creature che vivono sul fondale marino possono essere danneggiate dall’utilizzo delle reti a strascico; pertanto per evitare questo grave problema, in alcuni paesi, come l’Italia,
si è deciso di vietare la pesca a strascico sottocosta (entro le 3 miglia marine o al di sopra della batimetrica dei 50 metri), dove queste comunità complesse si sviluppano. In generale le regolamentazioni comunitarie disciplinano il tipo di reti utilizzabili, definendo una taglia minima per i pesci che possono essere catturati senza doverli ributtare in mare. In passato, questo limite portò in alcuni casi alla pratica di rigettare in mare il pesce di piccola taglia già morto appena prima dell’attracco,
vanificando lo spirito della misura. Per eliminare questo problema è stato introdotto un limite minimo per le maglie delle reti, in modo da consentire la fuga degli esemplari più piccoli e da garantire quindi la sopravvivenza delle popolazioni. La proposta di riforma della politica della pesca presentata dalla Commissione europea nel luglio 2011, prevede l’introduzione entro il 2015 di un obbligo giuridico per contenere il pescato di ciascuna specie ittica al di sotto del suo tasso di riproduzione, in modo da garantirne la sostenibilità. L’introduzione dell’obbligo sarebbe accompagnata da fasi transitorie, compensazioni e sussidi finanziari per attutire la perdita di posti di lavoro che la seguirebbe. La proposta prevede inoltre che vengano assegnate delle concessioni di pesca alle organizzazioni dei pescatori e che tali concessioni siano cedibili ad organizzazioni di altri stati membri. Oltre a problemi di eccesso di pescato, esiste anche l’acquacoltura intensiva, che può produrre alti livelli di inquinamento in prossimità del sito di allevamento e può comportare la trasmissione di malattie alla popolazione selvatica. Per questi motivi, negli ultimi anni, si stanno sviluppando tecniche di acquacoltura estensiva per cercare di ridurre al minimo gli impatti ambientali e di sostenibilità. La FAO indica l’acquacoltura come una fondamentale opportunità per fornire risorse alimentari alla popolazione mondiale, soprattutto per una maggiore diversificazione della dieta, non solo a beneficio dei paesi più poveri, ma anche per sostenere i consumi dei paesi occidentali, in considerazione della costante riduzione degli stock ittici naturali. *fonte wikipedia
Dr. Agronomo Mauro Bertuzzi bertuzzimauro@ hotmail.com
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Il coniglio più bello 2013 Appassionante scontro a tre risolto solo all’ultimo minuto… di
Roberto Corridoni
Dal Forumdiagraria.org
Lotta all’ultimo voto tra i 23 partecipanti per l’assegnazione del titolo di “Coniglio più bello del forum di Agraria. org”. A contendersi la vittoria in un infuocato finale con continui ribaltamenti di fronte, da una parte la dolcezza e la simpatia del nano testa di leone Gigio di claColombo, dall’altra la maestosità e l’eleganza della lepre belga a manto focato di Andrea (Belgianhare) ed infine l’imponenza e la lucentezza di Giorgio, splendido esemplare di Rosso di Nuova Zelanda di Gargamella, con quest’ultimo che la spunta di un solo voto sui due contendenti che si aggiudicano a parimerito il secondo posto. Appena dietro ai tre si piazza un altro simpaticissimo esemplare di razza nana, Pallino di SaColomba. Decine e decine gli appassionati votanti che hanno incoronato vincitore lo splendido soggetto di Rosso di Nuova Zelanda che, partito in sordina, ha recuperato sugli altri due fino al clamoroso sorpasso finale. Complimenti vivissimi a tutti i partecipanti ed ai loro padroni per la passione, l’amore e la dedizione che rivolgono verso i loro amici orecchiuti!
CLASSIFICA FINALE: • 1° Rosso di Nuova Zelanda ‘Giorgio’ di Gargamella • 2° Nano Testa di Leone ‘Gigio’ di claColombo • 2° Lepre Belga focata di Andrea (Belgiahare)
2° ex aequo
1°
2° ex aequo
L’orto più bello 2013 Ogni volta lo spirito e la passione con cui si partecipa sono la cosa più bella
Quest’anno le votazioni hanno premiato tre orti veramente meritevoli, vuoi per l’impegno profuso dai coltivatori che dai risultati ottenuti: • 1° Lorettababy • 2° Valdorcia • 3° Federico75 Complimenti ai vincitori e a tutti i partecipanti, di seguito qualche foto relative ai tre orti vincitori:
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Valdorcia
Anche quest’anno si è svolto il nostro piccolo torneo che assegna il titolo di “Orto più bello del Forum di Agraria. org”. Lo spirito che anima la competizione è sicuramente il più bello, far vedere la passione che ogni partecipante mette nella coltivazione del proprio orto. Sono presenti orti piccoli, grandi o grandissimi, ognuno con caratteristiche diverse, nelle diverse parti d’Italia, pianura, collina, montagna o mare, località splendide o piccoli orticelli su terrazzi, tutti coltivati con la stessa cura e passione.
Lorettababy
Danilo Melchiori
Federico75
di
Dal Forumdiagraria.org
www.borotto.com info@borotto.com Tel. Fax +39 0456669065 Cell. +39 3397312488
Agraria.org a g r i c o l t u r a
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p o r t a t a
d i
c l i c k
Sei un allevatore? Iscriviti gratuitamente nel catalogo allevamenti: http://allevamenti.agraria.org/ Sei un libero professionista del settore agrario o forestale? Iscriviti gratuitamente nel catalogo professionisti: http://professioni.agraria.org/ Hai unâ&#x20AC;&#x2122;azienda agricola e vendi direttamente i tuoi prodotti? Iscrivila gratuitamente nel catalogo per la Filiera Corta: http://aziende.agraria.org/