TerrAmica Num. 7 - 2017

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ANNO IV

N° 7

LE API ASSASSINE: MITO E VERITA' ALGHE PER RIDURRE I PESTICIDI PREVENIRE GLI INCENDI BOSCHIVI ECCO PERCHE' I FORMAGGI SONO DIVERSI

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EDITORIALE 4 5

Diversificare, differenziarsi di Flavio Rabitti e comunicare Uno sguardo al Comitato di Redazione COLTIVAZIONI

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sommario

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Biostimolanti per piante più resistenti ed in salute

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Come prevenire gli incendi boschivi

Le api assassine

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Foto copertina: Leonardo Graziani

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di C. Papeschi e L. Sartini L'allevamento della Lepre di Marco Baroni La gestione dei suini in estate di Romeo Caruceru Le api assassine L’allevamento del Cefalo per di L. Nannucci e D. Vallainc la produzione di bottarga

ANIMALI DA COMPAGNIA 30

Il Kangal, il "carro armato" del mondo canino Il Diamante di Gould

di Federico Vinattieri di Federico Vinattieri

AGROALIMENTARE ITALIANO Anche la crosta fa il formaggio di C. Ribolzi e E. Sesona di Francesco Marino Parliamo di Vino Responsabilità penali nella di Ivano Cimatti filiera agro-alimentare Le storie del cibo: Patata, la sua “odissea” di Pasquale Pangione • La ricetta: Gateau di patate

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ANNO IV - N° 7 - LUGLIO 2017 DIRETTORE EDITORIALE: FLAVIO RABITTI

Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti

Direttore responsabile: Marco Salvaterra

Reg. Tribunale di Firenze nr. 3876 del 01/07/2014

Periodicità: Semestrale

Stampa: Tipografia Baroni e Gori srl Via Fonda di Mezzana, 55/P 59100 - Prato

Sommario

ZOOTECNIA

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TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org Sede legale: Via del Gignoro, 27 - 50135 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org www.associazione.agraria.org

Redazione: Cristiano Papeschi (Responsabile scientifico Zootecnico), Eugenio Cozzolino (Responsabile scientifico Coltivazioni), Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Luca Poli, Lapo Nannucci

Verso un'agricoltura sostenibile di Eugenio Cozzolino Il Farro e il Grano di L. Ghiselli, R. Tallarico, S. Romagnoli Saraceno Nocciolo: una coltivazione di Luca Poli da valorizzare

Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.

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AMBIENTE, FORESTE E NATURA 48 53 56 58 60

Foresta Modello delle di Gemma Navarra e Ilaria Zorzi Montagne Fiorentine di Marco Giuseppi Le Biomasse per fini energetici La prevenzione degli di Alessandro Lutri incendi boschivi di Gianni Marcelli La sella è comoda? ASSOCIAZIONE DI AGRARIA.ORG

Come fare per RICEVERE TERRAMICA direttamente a casa tua Per ricevere “TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org” è sufficiente essere soci. Per associarsi bastano 10€ l’anno! Iscriviti online su www.associazione.agraria.org!

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Diversificare, differenziarsi e comunicare

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Editoriale

ueste le 3 parole d'ordine che, a mio parere, devono essere poste alla base di ogni scelta imprenditoriale del settore agricolo. Mi rivolgo specialmente alle aziende giovani, attive e con voglia di innovarsi ed innovare; il settore è sempre più competitivo e per emergere e farsi conoscere è necessario differenziarsi sempre più dalla massa. Diversificare: questo è sempre stato uno dei punti cardine dell'agricoltura. La logica della diversificazione rimanda all’utilizzazione delle risorse interne all’impresa per produrre beni e servizi diversi da quelli normalmente prodotti. In poche parole, un modo per diversificare le entrate e quindi i redditi derivanti dall'attività in maniera

tale da essere "coperti" su più fronti e riuscire a totalizzare degli utili tali da remunerare adeguatamente chi dell'agricoltura ha deciso di farne il proprio mestiere. Differenziarsi: rendersi diversi da tutte le altre aziende è l'unico modo per "smarcarsi" e far emergere la propria realtà e le proprie produzioni, soprattutto nelle piccole e micro imprese che fanno dell'artigianalità e dei piccoli numeri il proprio cavallo di battaglia. Questo è forse l'aspetto più complicato da valutare e da mettere in atto, ma anche il più importante; servono idee originali, innovative, che sappiano assecondare le tendenze del momento

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e stare sul mercato. Sicuramente è anche l'aspetto più creativo di tutti gli altri, quello che potrà fare la differenza fra un'azienda agricola di successo e tutte le altre. Comunicare: nell'epoca di internet, degli smartphone e dei social network la comunicazione è diventata alla portata di tutti ma è indispensabile e fondamentale saper gestire adeguatamente tutti gli strumenti a disposizione. Questo esula un pò dalla parte agricola e, se proprio non sappiamo da dove cominciare, conviene affidarsi a professionisti del settore; l'importante, a mio parere, è mantenere la propria impronta e l'immagine reale dell'azienda, non uniformandosi a ciò che ci viene proposto come "modello" nel quale rientrare. La tipicità e la particolarità

della propria azienda e delle proprie produzioni non deve essere alterata, ma adeguatamente promossa e comunicata senza affidarsi a standard che, con gli artigiani e le produzioni di nicchia, poco hanno a che vedere.

Flavio Rabitti Direttore editoriale Rivista TerrAmica

Editoriale


Uno sguardo al Comitato di Redazione di TerrAmica Cristiano Papeschi (Responsabile Scientifico Settore Zootecnico): laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa, specializzato in Tecnologia e Patologia degli Avicoli, del Coniglio e della Selvaggina presso l’Università di Napoli, è attualmente in servizio presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo); già collaboratore di numerose riviste tecniche a carattere zootecnico e veterinario, membro di comitati scientifici e di redazione. Eugenio Cozzolino (Responsabile Scientifico Settore Coltivazioni): diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “De Cillis” e laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli “Federico II, lavora presso il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura. Marco Giuseppi: diplomato all'Istituto Tecnico Agrario e laureato magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali all'Università degli Studi di Firenze. Segretario dell'Associazione di Agraria.org e responsabile progetti Erasmus+ (youth exchange e Servizio Volontario Europeo). Svolge la libera professione di Dott. Agr. e Forestale collaborando con diversi studi agronomici. Luca Poli: diplomato all’Istituto Tecnico Agrario e laureato magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali presso l’Università degli Studi di Firenze. Iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze. Riveste il ruolo di vice-presidente dell'Associazione e svolge le mansioni di webmaster della Rivistadiagraria.org e del Catalogo online delle aziende agricole. Lapo Nannucci: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie alla Facoltà di Agraria di Firenze, è iscritto all’Albo dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze; libero professionista settore pesca ed acquacoltura, è consulente esterno di Federpesca e CE.S.I.T, Centro di Sviluppo Ittico Toscano. Particolare esperienza nel settore della pesca di piccoli e grandi pelagici. Marco Salvaterra: laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Bologna, è docente presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze; dal 2000 si occupa di divulgazione in campo agricolo attraverso il network Agraria.org che comprende, fra le altre cose, un Catalogo di Aziende Agricole, uno di Allevatori, una Rivista quindicinale online ed un Forum del settore. Flavio Rabitti (Direttore editoriale): diplomato all’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze e laureato in Tutela e Gestione delle Risorse Faunistiche alla Facoltà di Agraria di Firenze; dal 2009 iscritto all’Albo regionale degli Imprenditori Agricoli. Gestisce una piccola azienda agricola in Toscana a Suvereto (LI), all’interno della quale produce vino, olio extravergine di oliva, miele, ed una serie di prodotti artigianali al tartufo (www.rabitti.eu).

Editoriale

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Verso un'agricoltura sostenibile Una possibile soluzione per limitare gli input di fertilizzanti e fitofarmaci è l'utilizzo dei biostimolanti; vediamo insieme cosa sono e come agiscono di

Eugenio Cozzolino

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Coltivazioni

e tecniche agronomiche stanno evolvendosi verso metodi di coltivazione organici, sostenibili e a basso impatto ambientale. Lo scopo dell’agricoltura oggi è quello di ridurre gli input senza diminuire le produzioni e la loro qualità. I biostimolanti contengono composti bioattivi, in gran parte ancora sconosciuti, e sono in grado di aumentare la “nutrient use efficiency” delle piante e la tolleranza verso stress di tipo biotico e abiotico. Nelle colture orticole l’uso di biostimolanti permette di ridurre l’apporto di fertilizzanti senza compromettere la resa e la qualità del prodotto. Negli ortaggi da foglia sensibili all’accumulo di nitrati, come la rucola, i biostimolanti hanno la capacità di incrementare la qualità e mantenere il livello di nitrati sotto i limiti di legge. Zhang e Schmidt della Virginia Polytechnic Istitute and State University proposero per la prima volta nel 1997 il termine "biostimolante" per indicare "sostanze che applicate in piccole quantità promuovevano la crescita delle piante". I biostimolanti a cui si faceva riferimento erano acidi umici ed estratti di alghe di cui si proponeva un’azione ormonale. Kauffman nel 2007 riprese la definizione di biostimolante con alcune modifiche definendo i biostimolanti "materiali diversi dai fertilizzanti che promuovono la crescita applicati a basse dosi". Inoltre introdussero una

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prima classificazione dei biostimolanti in tre gruppi: • acidi umici; • prodotti contenenti ormoni (es. estratti di alghe); • prodotti contenenti amminoacidi. Con il Decreto Legge 75/2010 e successiva modifica del 10 luglio 2013, viene inserita la sezione "Prodotti ad

con l'obiettivo di proporre una precisa definizione di "Biostimolante", attraverso una sua classificazione, con metodi analitici, con la precisa volontà di istituire a livello legislativo questa nuova categoria di prodotti. Patrick Du Jardin, nel 2012, mette a punto una prima definizione e classificazione. "I biostimolanti sono

azione specifica sulla pianta -Biostimolanti", defi¬niti come prodotti che apportano a un altro fertilizzante o al suolo o alla pianta, sostanze che favoriscono o regolano l'assorbimento degli elementi nutritivi o correggono determinate anomalie di tipo fisiologico. Nel giugno 2011 è stata fondata un'associazione "EBIC" (European Biostimulant lndustry Council)

sostanze e materiali con l'eccezione di nutrienti e pesticidi che, quando applicati alla pianta, semi o substrato di crescita in formulazioni specifiche, hanno la capacità di modificare i processi fisiologici delle piante migliorando la crescita, lo sviluppo e/o la risposta agli stress". La classificazione secondo Du Jardin è la seguente:

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Coltivazioni


• Sostanze umiche • Materiali organici complessi • Elementi chimici benefici • Sali inorganici incluso fosfito • Estratti di alghe • Chitina e derivati del chitosano • Antitraspiranti • Amminoacidi e altri composti azotati Definizione di BIOSTIMOLANTE elaborata da EBIC 2013 (European Biostimulant lndustry Council). I biostimolanti sono sostanze e/o microrganismi che applicati alla pianta o alla rizosfera stimolano i processi naturali che migliorano l'efficienza d'assorbimento e d'assimilazione dei nutrienti, la tolleranza a stress abiotici e la qualità del prodotto. I biostimolanti non hanno effetti diretti su parassiti e patogeni e quindi non rientrano nella categoria dei pesticidi.

I prodotti maggiormente utilizzati 1 - Estratti di alghe. Esse sono state utilizzate per centinaia di anni in agricoltura come ammendanti per migliorare la fertilità del suolo. Da poco più di 50 anni è iniziata la produzione di estratti liquidi per esaltare le proprietà biostimolanti delle alghe. Oggi sono numerosi i prodotti biostimolanti a base di estratti di alghe disponibili sul mercato. Gli estratti sono ottenuti partendo da alghe verdi, rosse o brune, soprattutto del tipo Ascophyllum nodosum, Ecklonia maxima, Laminaria digitata e Fucus spp. Gli effetti biostimolanti sono da ricondurre soprattutto alla presenza di fitormoni, polisaccaridi, polifenoli e altre molecole organiche. I fitormoni individuati negli estratti di alghe che stimolano la crescita delle piante sono auxine, citochinine, acido abscissico, gibberelline, ecc.. 2 - Dopo le alghe, tra le principali sostanze biostimolanti, e anche tra le più conosciute, ci sono le sostanze umiche. Esso si possono definire come delle macromolecole organiche complesse che provengono dalla decomposizione della sostanza organica e dall’attività metabolica dei microrganismi. Sono sostanze molto eterogenee, classificate sulla base del peso molecolare e della solubilità (gli acidi

Coltivazioni

umici sono solubili in acqua a pH alcalino, gli acidi fulvici sono solubili in acqua a tutti i pH). Le sostanze umiche utilizzate per produrre biostimolanti provengono soprattutto da giacimenti di humus fossile (per es. Leonardite) o da compost. Le sostanze umiche esplicano un’azione di stimolo della crescita delle piante per via diretta e indiretta. Il maggior sviluppo radicale e la più elevata attività dei trasportatori radicali del nitrato si traducono in una maggiore efficienza d’assorbimento e di assimilazione dell’azoto inorganico da parte della coltura. Le sostanze umiche influenzano positivamente anche il metabolismo secondario, favorendo l’accumulo di antiossidanti e l’attività degli enzimi di difesa dallo stress ossidativo causato da radicali liberi che si generano a seguito di stress ambientali. L’azione indiretta delle sostanze umiche si esplica nel suolo attraverso un miglioramento della fertilità. Infatti, le sostanze umiche nel suolo cementano le particelle inorganiche degli aggregati, che risultano più stabili, aumentano la CSC (capacità di scambio cationico) ed esercitano un effetto tampone sul pH, incre-

una maggior tolleranza delle piante agli stress abiotici (es. salinità) e biotici (es. attacchi di malattie fungine come la peronospora). 3 - Un'altra categoria di sostanze biostimolanti, molto importanti, sono gli idrolizzati proteici. Essi sono delle sostanze contenenti una miscela di aminoacidi e peptidi solubili, generalmente ottenuti per idrolisi chimica o enzimatica, o mista da proteine di origine animale o vegetale. Le fonti proteiche sono rappresentate da residui della lavorazione del cuoio (es. collagene), dell’industria ittica o da biomasse vegetali di leguminose. Attualmente, il mercato europeo degli idrolizzati proteici è rappresentato per oltre il 90% da prodotti di origine animale ottenuti prevalentemente per idrolisi chimica del collagene ad alte temperature. Gli idrolizzati proteici presentano proprietà biostimolanti, migliorando l’assorbimento e l’assimilazione dei nutrienti (es. azoto nitrico e ferro), la tolleranza a stress ambientali (salinità, siccità, temperature estreme) e la qualità del prodotto. È stato anche evidenziato che gli idrolizzati proteici possono stimolare le risposte di difesa

mentando la biodisponibilità degli elementi nutritivi e riducendo le perdite per lisciviazione. Gli effetti positivi degli acidi umici sul terreno e sul metabolismo cellulare determinano

della pianta agli stress. Gli idrolizzati proteici possono esercitare anche un’azione auxino-simile per la presenza di specifici peptidi che fungono da molecole-segnale e attivano

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i geni della biosintesi delle auxine nella pianta. 4 - I PGPR (Plant Growth-Promoting Rhizobacteria) rappresentano un gruppo di microrganismi della rizosfera in grado di stimolare lo sviluppo della pianta, sia migliorandone la nutrizione minerale che producendo fattori di biocontrollo. Tra essi si annoverano batteri appartenenti a differenti generi: Acinetobacter, Alcaligenes, Arthrobacter, Azospirillum, Azotobacter, Bacillus, Burkholderia, Enterobacter, Erwinia, Flavobacterium, Proteus, Pseudomonas, Rhizobium, Serratia, Xanthomonas. La stimolazione della crescita vegetale avviene attraverso meccanismi diretti e indiretti. I PGPR sono in grado di agire direttamente sui nutrienti presenti nel suolo rendendoli disponibili per le piante, svolgendo così un’azione biofertilizzante. Azoto, fosforo, potassio e ferro sono elementi indispensabili per la sopravvivenza e la crescita vegetale. Nonostante siano particolarmente abbondanti nel suolo, molto spesso non sono adoperabili direttamente dalla pianta, in quanto presenti in forma non assimilabile. L’attività metabolica di numerosi batteri della rizosfera converte queste molecole nelle forme solubili. I meccanismi diretti comprendono la fissazione dell’azoto, la solubilizzazione del fosforo, la produzione di fitormoni (auxine, citochine e gibberelline) e la produzione di siderofori. I rizobatteri esercitano un’azione di biocontrollo (indiretta) per le malattie attraverso la produzione di antibiotici, enzimi litici e il potenziamento della capacità difensiva della pianta in risposta all’attacco di organismi patogeni (ISR: Induzione della resistenza sistemica). I PGPR possono utilizzare più di uno di questi meccanismi, suggerendo che la stimolazione della crescita delle piante sia il risultato sinergico di più

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azioni simultanee. Per rispondere alle esigenze di mercato, negli ultimi anni si è reso necessario migliorare la sostenibilità delle produzioni agrarie in termini di qualità di prodotto e di riduzione dell’impatto ambientale. Particolare attenzione è stata per questo rivolta all'utilizzo dei biostimolanti, che possono aiutare il settore agricolo a rispondere alle sfide globali, quali la food security e i cambiamenti climatici. Riferimenti bibliografici

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www.fritegotto.it/FERTIRRIGO-FACILE-Biostimolanti-in-agricoltura-cosa-sono-e-come-agiscono/ www.informatoreagrario.it/ita/files/06-ND-Biostimolanti-Monaco-Pelissetti.pdf http://microbiologiaitalia.altervista.org/i-rizobatteri-promotori-della-crescita-delle-piante-nuovi-passi-verso-unagricoltura-sostenibile/

Dr. Eugenio Cozzolino Cter-CREA eugenio.cozzolino @crea.gov.it

Coltivazioni


Il Farro e il Grano Saraceno Impariamo a conoscere due colture minori adatte all’agricoltura biologica e al recupero di aree marginali per produzioni tipiche e tradizionali Lisetta Ghiselli, Remigio Tallarico, Sigfrido Romagnoli DIPSAA – Università degli Studi di Firenze di

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on l’abolizione del “set-aside” nel 2008 da parte dell’Unione Europea, i terreni che erano posti in regime di riposo, in particolare nelle aree marginali di montagna, si sono resi disponibili all’introduzione di colture a basso impatto ambientale. Tra queste si possono citare i piccoli frutti, alcune Leguminose particolarmente frugali come la cicerchia e le lenticchie, ma soprattutto il farro e il grano saraceno. Il farro è a tutti gli effetti un cereale, appartenente al medesimo genere del frumento tenero e duro, mentre il grano saraceno è più propriamente uno pseudo-cereale, appartenente non alla famiglia delle Graminacee ma a quella delle Poligonacee. Le due colture sono di antica origine e sono entrambe utilizzate in molte specialità alimentari tradizionali. Recentemente, entrambe le specie sono state oggetto di numerosi studi con l’obiettivo di precisarne le proprietà nutrizionali, che permettono di definirli alimenti funzionali, in grado cioè di preservare o migliorare lo stato di salute e di benessere dell’organismo

Coltivazioni

umano grazie alle sostanze in essi naturalmente contenute.

Il Farro Tra i frumenti vestiti le specie di maggiore importanza sono Triticum monococcum L. (farro piccolo), Triticum

mi cereali coltivati dall’uomo (la domesticazione è avvenuta prima delle altre due specie): la sua coltivazione è attestata in vari siti del periodo Neolitico in Siria e Palestina a partire da circa 10.000 anni fa. La coltivazione del farro si è poi diffusa soprattutto

Fig. 1 – Campo di farro con particolare di spighe dicoccum (Schrank) Schuebl. (farro medio) e Triticum spelta L. (farro grande o spelta). Il farro propriamente detto o farro medio è stato tra i pri-

nel bacino del Mediterraneo, come ad esempio in Egitto, in Grecia e nell’antica Roma, in cui il cereale era chiamato far, da cui deriva il termine

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“farina”. I Romani conoscevano anche il frumento tenero attualmente coltivato, che però all’epoca era di recente introduzione, mentre il farro era tradizionalmente coltivato da millenni ed era alla base di cerimonie religiose tra cui la confarreatio (rito nuziale in cui gli sposi consumavano insieme una focaccia di farro offerta in sacrificio a Giove). A partire dal periodo dell’Impero romano e nei secoli successivi, la maggiore produttività e facilità di lavorazione del frumento tenero ha determinato la sua sempre crescente diffusione a scapito del farro, che ha mantenuto fino a tempi recenti una notevole importanza nei comprensori montani, dove la maggiore rusticità consentiva una più costante riuscita della coltura. A partire dal secondo dopoguerra e fino agli anni ’80 del secolo scorso, la coltivazione del farro si è fortemente ridotta soprattutto a causa dell’abbandono delle zone montane, restando confinata in limitati areali dell’Appennino centro-meridionale (Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata), dove successivamente è stato oggetto di una vera e propria riscoperta grazie ad un aumentato interesse da parte della comunità scientifica (con la caratterizzazione delle popolazioni locali e la definizione delle più appropriate tecniche colturali) e dei consumatori, che hanno mostrato di apprezzare la salubrità del prodotto e le sue peculiari caratteristiche organolettiche e nutrizionali. Si è giunti in alcuni casi alla certificazione dell’origine geografica delle produzioni (Farro della Garfagnana IGP e Farro di Monteleone di Spoleto DOP), ma la buona richiesta di mercato ha consentito una notevole ripresa delle coltivazioni anche in altre aree montane e collinari. Per quanto riguarda le caratteristiche botaniche, il Triticum dicoccum (Fig. 1) presenta una notevole variabilità genetica dovuta anche all’antichità della domesticazione ed alla varietà degli ambienti di coltivazio-

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ne. La taglia della pianta è compresa tra 110 e 160 cm; il culmo e le foglie sono glabri, di colore verde chiaro e giallo paglierino a maturità. La spiga è grande e compatta, di lunghezza variabile tra 9 e 13 cm, costituita da

teristiche agronomiche delle varie popolazioni. Alcune di esse (tra cui il farro della Garfagnana) sono di tipo non alternativo, necessitano cioè di essere seminate in autunno perché possa avvenire la formazione della

Fig. 2 – Granella di farro vestita (a sinistra) e decorticata (a destra). numerose spighette di solito aristate, più raramente semiaristate o mutiche; come negli altri frumenti vestiti, il rachide si disarticola facilmente a maturità nelle singole spighette, che contengono di solito 1 o 2 cariossidi racchiuse strettamente nelle glume e nelle glumelle; per liberare le cariossidi dai rivestimenti occorre sottoporle a sbramatura (Fig. 2). Se si vuole eliminare anche una parte della crusca, si esegue una successiva brillatura. La granella può presentare frattura farinosa (come nel caso del farro della Garfagnana) o più o meno vitrea (nelle popolazioni degli areali umbro-laziali-abruzzesi e meridionali) in base ai differenti genotipi e alle diverse condizioni ambientali. Il peso di 1000 semi vestiti (spighette) si aggira tra 65 e 75 g, di cui circa il 77% è dato dalla cariosside e il 23% dai rivestimenti. Il peso ettolitrico della granella vestita è di circa 38-40 kg/hl, mentre quello delle cariossidi nude è intorno a 6874 kg/hl. La tecnica colturale del farro dipende anch’essa dalle differenti carat-

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spiga; altre, più diffuse nell’Appennino centro-meridionale, sono alternative, ovvero capaci di differenziare la spiga anche se seminate a fine inverno. In riferimento alla zona di coltivazione della Garfagnana e al relativo disciplinare della produzione IGP, la precessione colturale più idonea è rappresentata da prati o prati-pascoli che lasciano un’ottima struttura del terreno e un’apprezzabile fertilità residua, oltre a diminuire la carica infestante delle specie erbacee annuali; meno consigliabile, anche se frequentemente praticato, è il ringrano, in cui il farro segue se stesso o un altro cereale autunno-vernino (si deve comunque evitare di ripetere la coltura per più di due anni). La preparazione del terreno consiste generalmente di un’aratura superficiale (15-30 cm) alla quale segue l’amminutamento del terreno mediante erpicatura. La semina viene eseguita utilizzando la granella vestita (spighette intere) che non può essere distribuita efficacemente mediante le seminatrici a righe, poiché la presenza delle glume pro-

Coltivazioni


voca inceppamenti degli organi di distribuzione. Si effettua quindi la semina a spaglio impiegando solitamente uno spandiconcime rotativo (“frullino”); la quantità di seme vestito varia da 100 a 150 kg/ha secondo le indicazioni del disciplinare di produzione IGP, ma conviene adottare le dosi più alte. Successivamente il seme viene interrato mediante una fresatura superficiale. Le semine, anche in considerazione dell’altitudine abbastanza elevata dei terreni (300-1000 metri s. l. m.), dovrebbero concludersi entro il mese di ottobre; ogni ritardo rispetto a questa data determina un minore investimento di piante a m2 e un più ridotto accestimento, con la conseguenza di risultati produttivi insoddisfacenti. La

tare la tendenza all'allettamento. Si giunge così alla raccolta, che oggi si effettua di solito con mietitrebbiatrici; la maturazione negli ambienti di coltivazione della Garfagnana si raggiunge di solito tra la fine di luglio e la metà di agosto e corrisponde ad un’umidità delle spighette del 1214% (valori inferiori rendono la spiga troppo fragile causando eccessive perdite di prodotto, mentre un eccesso di umidità può provocare sviluppo di muffe e perdita di germinabilità del seme). Si ottiene a questo punto il seme vestito, con rese che negli ambienti collinari e montani idonei alla coltura sono piuttosto variabili e comprese di solito tra 10 e 30 q/ha, in funzione della precessione colturale, della preparazione del

Fig. 3 – Piante di grano saraceno rusticità del farro consente di ridurre al minimo o evitare completamente le successive cure colturali; il disciplinare del Farro della Garfagnana IGP vieta l’uso di fertilizzanti chimici e i trattamenti fitosanitari, ed anche le concimazioni organiche non sono quasi mai praticate per non aumen-

Coltivazioni

terreno e del rispetto dell’ottimale epoca di semina. Per la riproduzione la granella vestita viene utilizzata come tale (previo trattamento con ossicloruro di rame o simili prodotti ammessi in agricoltura biologica), mentre per il consumo umano si procede alla sbramatura che elimi-

na glume e glumelle; ad essa si fa generalmente seguire una brillatura che asporta una parte dei tegumenti della cariosside. I principali parametri di qualità merceologica del farro brillato sono il peso ettolitrico, l’uniformità delle dimensioni delle cariossidi, il grado e l’uniformità della semi-perlatura (la decorticazione deve comunque essere superficiale per non perdere i componenti nutrizionali del pericarpo), la presenza minore possibile di cariossidi spezzate (che non dovrebbero superare l’1%) e di materiali estranei. Gli scarti della brillatura (semi rotti) si possono impiegare, nel caso di popolazioni ad endosperma farinoso (come quella tipica della Garfagnana) per ottenere farina utilizzabile per numerose preparazioni (principalmente pane, ma anche paste alimentari e dolci). Dalle popolazioni con endosperma vitreo o semivitreo si può invece ottenere un prodotto grossolanamente spezzato (farricello) o uno spezzato più fine simile al semolino. Riguardo alle proprietà nutrizionali, il farro presenta una composizione non molto diversa da quella delle altre specie di frumento, ma se ne distingue prevalentemente per il consumo sotto forma di cariossidi ancora dotate di gran parte dei loro tegumenti, mentre i frumenti nudi, che sono impiegati per lo più come sfarinati, subiscono un più o meno rilevante impoverimento in minerali, vitamine e molecole bioattive in genere. La fibra alimentare presente nel tegumento delle cariossidi del farro svolge numerose funzioni utili all’organismo: aumento del senso di sazietà, miglioramento della funzionalità intestinale, prevenzione di importanti malattie cronico-degenerative tra cui i tumori al colon-retto (grazie alla diluizione delle eventuali sostanze cancerogene ed alla maggiore velocità del loro transito nell’intestino), le malattie cardiovascolari (per il diminuito assorbimento di colesterolo) e il diabete mellito di tipo 2 (i cereali integrali determinano un più graduale aumento della glicemia dopo i pasti e quindi una minore produzione di insulina). Tra i minerali, sempre in confronto con i cereali raffinati di uso più comune, il farro presenta un abbondante contenuto dei

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macroelementi calcio e magnesio e dei microelementi manganese e zinco; sono ben rappresentate anche le vitamine del gruppo B. I tegumenti della cariosside, inoltre, contengono apprezzabili quantità di sostanze antiossidanti quali i polifenoli e i flavonoidi, fondamentali nel preservare l’organismo dall’azione dei radicali liberi e quindi dalle patologie infiammatorie.

tra 20 e 35 g in base al genotipo e alle condizioni ambientali, mentre il peso ettolitrico è normalmente compreso tra 55 e 65 kg/hl. Il grano saraceno è una specie sensibile al gelo e di conseguenza il ciclo colturale è necessariamente primaverile-estivo; è però danneggiato anche dalle temperature elevate (oltre i 30 °C) e dalla siccità, e risulta quindi poco adatto agli ambienti di pianura, prediligendo Il Grano Saraceno invece le località montane. I Il grano saraceno (Faterreni più idonei sono quelli gopyrum esculentum Moensciolti o di medio impasto; la ch) appartiene alla famiglia coltura tollera bene l’acidità delle Poligonacee ed alla del suolo, mentre rifugge dai classe delle Dicotiledoni: può terreni salini, saturi d’acqua o essere quindi apparentato ai eccessivamente compatti. Le cereali in quanto dotato di esigenze nutritive sono mosemi con endosperma farinodeste, mentre i terreni troppo so, ma è filogeneticamente fertili determinano un eccesmolto distante da essi. È orisivo rigoglio e una forte tenginario delle montagne della denza all’allettamento. Il ciclo Cina meridionale (province colturale di soli 60-100 giorni di Yunnan e Sichuan) dove ne consente la coltivazione recentemente ne è stata rinanche in località con una brevenuta una forma spontanea. ve stagione vegetativa. La sua domesticazione è Come nel caso del farro, la avvenuta nell’Asia orientale rusticità del grano saraceno intorno al 2°-1° secolo a. C.; permette di adottare una tecsuccessivamente la coltura nica colturale a basso impatsi è espansa gradualmente to ambientale. Nei comprenverso Ovest raggiungendo Fig. 4 - Particolare di fiori e frutti di grano saraceno sori montani dell’Appennino, la Russia intorno al 1200 e la precessione può essere la Germania verso il 1400. In Italia in corrispondenza dei nodi, tanto più rappresentata da un prato o da un le prime testimonianze della col- quanto maggiore è la distanza tra le cereale autunno-vernino. Le operativazione risalgono circa al 1500, piante. Il fusto e i rami sono glabri, zioni colturali iniziano con un’aratura epoca in cui la specie era coltivata cavi all’interno, e a maturità assu- superficiale (15-20 cm) da effettuarsi in varie località dell’arco alpino; suc- mono un colore rossastro. Le foglie con aratri leggeri, ripuntatori o erpici cessivamente il grano saraceno si sono alterne, con una tipica forma a a disco. Successivamente si pratiè diffuso anche nell’Appennino set- punta di lancia; i fiori, del diametro cano di norma 2 erpicature per amtentrionale e centrale, raggiungendo di 3-4 mm e dotati di 5 sepali con minutare il terreno. Si procede poi la massima estensione verso la fine aspetto di petali, hanno colore bian- alla semina non appena è cessato dell’Ottocento. Negli anni successivi co o rosa più o meno intenso e sono il pericolo delle gelate, indicativala sua coltivazione in Italia è andata disposti in racemi terminali o situa- mente dalla fine di aprile nelle zone sempre più restringendosi, per mo- ti all’ascella delle foglie (Fig. 4). La collinari a fine maggio in quelle più tivi simili a quelli ricordati per il farro fecondazione avviene sia ad opera elevate, intorno a 1200-1400 me(disponibilità di varietà selezionate del vento, sia attraverso gli insetti tri di altitudine; è anche possibile la di cereali, progressivo abbandono pronubi. I frutti (comunemente chia- coltura intercalare dopo la mietitura delle zone montane) fino a restare mati semi) sono acheni a sezione di un cereale o dopo un erbaio, con confinata, negli anni 1980-’90, in ri- triangolare, con un pericarpo (gu- semina in luglio o al massimo ai pristrette aree della Valtellina e dell’Alto scio) lungo circa 5-7 mm e largo 4-5 mi di agosto, tenendo presente che Adige. Negli anni successivi, però, si mm, di colore variabile dal nero al la maturazione deve completarsi sono registrate molte iniziative fina- bruno e all’argenteo, che racchiude prima dei geli autunnali. La semina lizzate alla reintroduzione del grano il seme vero e proprio, dotato di un si esegue con seminatrici a righe disaraceno in varie località delle Alpi e tegumento verde chiaro e di un en- stanziate tra loro di 15-25 cm e alla degli Appennini, tra cui la Garfagna- dosperma farinoso. Il peso di 1000 profondità di 3-5 cm; si può anche na e l’Appennino Umbro dove gli au- acheni è molto variabile con valori effettuare la semina a spaglio, rico-

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tori di questa nota hanno svolto varie esperienze di coltivazione. È una pianta erbacea annuale con altezza variabile da 60 a 120 cm (Fig. 3); presenta un unico fusto principale e non accestisce, ma si ramifica

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Coltivazioni


prendo poi il seme con una leggera erpicatura. L’investimento ottimale è di circa 150-200 piante/m2, ottenibile con 40-50 kg/ha di seme nella semina a righe o 60-80 kg/ha in quella a spaglio. Durante il ciclo biologico il grano saraceno non richiede cure colturali né concimazioni o trattamenti fitosanitari. Durante la fioritura (che inizia da 25 a 40 giorni dopo la semina e si prolunga per alcune settimane) è raccomandabile assicurare la presenza delle api per ottenere una più efficace impollinazione. La raccolta si effettua manualmente quando circa il 75-80% degli acheni sono imbruniti, allestendo dei covoni che restano in campo per 15-20 giorni e procedendo poi alla trebbiatura, o mediante mietitrebbiatrice, attendendo che sia imbrunito l’80-90% degli acheni. Non è possibile raccogliere a maturazione completa in quanto la pianta è ad accrescimento indeterminato e i primi acheni comin-

zioni attendibili negli ambienti montani sono intorno a 15-20 q/ha in coltura principale o 8-10 q/ha in coltura intercalare. La granella (Fig. 5) viene di solito macinata per ottenere una farina adatta alla produzione di pane (in miscela con quella di frumento o con altre sostanze leganti, essendo il grano saraceno privo di glutine), pasta fresca o secca, biscotti e altri prodotti dolciari, cereali per la prima colazione; si usa inoltre per preparare polenta, da sola o in miscela con farina di mais. Un altro prodotto di grande interesse è la granella decorticata, che però, data la fragilità del seme, richiede una preventiva calibrazione degli acheni e l’uso di macchinari dedicati. Il grano saraceno decorticato si può impiegare direttamente cuocendolo in acqua come il farro o il riso e preparando primi piatti e insalate; si può inoltre far germinare ottenendo germogli

per riempire cuscini artigianali che forniscono un supporto molto uniforme e consentono un efficace rilassamento dei muscoli del collo e della testa. Il grano saraceno si può anche utilizzare come foraggio allo stato fresco o secco; non conviene però somministrare le parti verdi agli animali con cute non pigmentata, nei quali causano una sensibilizzazione alla luce solare (fagopirismo). È inoltre una pianta mellifera e produce un miele di colore scuro, di aroma intenso e di sapore caratteristico, molto apprezzato nell’Europa centrale e orientale e negli Stati Uniti. La rapida crescita e la notevole fogliosità delle piante lo rendono idoneo all’impiego come cover crop nella stagione primaverile-estiva; si può usare anche come coltura a perdere per il sostentamento della fauna selvatica, che gradisce sia le foglie e gli steli, sia la granella (le colture destinate

Fig. 5 – Granella di grano saraceno vestita (a sinistra) e decorticata (a destra) ciano a cadere quando gli ultimi non sono ancora maturi. In ogni caso la granella può essere immagazzinata solo con umidità inferiore al 15%; se alla raccolta si hanno percentuali più elevate, occorre procedere all’essiccazione all’aria (spesso inaffidabile durante la stagione autunnale) o meglio a quella artificiale. Le produ-

Coltivazioni

adatti al consumo fresco. Vi sono inoltre numerose possibilità di utilizzazioni non alimentari: la pianta verde può essere impiegata a scopi erboristici (tisane) o per l’estrazione a scopo farmaceutico della rutina, un glicoside flavonoico dotato di proprietà antiossidanti. I gusci residui della decorticazione sono utilizzati

alla produzione devono invece essere protette con idonee recinzioni se sono presenti ungulati selvatici). Infine occorre ricordare il valore paesaggistico della coltura grazie alla prolungata e abbondante fioritura, e poi al colore rosso degli steli in via di maturazione. Per quanto riguarda le prospettive

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economiche della coltura, si deve rilevare innanzitutto che, a fronte di una produzione molto ridotta, in Italia si registra una consistente richie-

sta di grano saraceno, coperta quasi interamente dalle importazioni, che al netto delle pressoché trascurabili esportazioni corrispondono nell’ultimo dato disponibile delle statistiche FAO (anno 2013) a circa 8600 t annue. Le importazioni provengono in gran parte dalla Cina e in quantità più limitate da Paesi dell’Europa centrale e orientale; in molti casi il prodotto importato non offre indicazioni affidabili sui metodi di coltivazione, mentre il mercato italiano richiede prodotto biologico per ottenere una maggiore remunerazione. Una produzione certificata sia in base alla tecnica colturale, sia riguardo all’origine geografica (preferibilmente da zone montane più rispondenti alle esigenze della coltura e meno soggette a contaminazioni ambientali) permetterebbe di spuntare prezzi soddisfacenti per i produttori e di soddisfare una richiesta che oggi si deve rivolgere a prodotti privi di qualunque garanzia sotto l’aspetto della qualità e della sicurezza alimentare. Dal punto di vista nutrizionale, pur non essendo un vero e proprio cereale, il grano saraceno ha una

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composizione chimica centesimale paragonabile a quella dei cereali, caratterizzata da un alto contenuto in carboidrati e un buon contenuto in proteine e sostanze grasse. Gli acheni a frattura farinosa sono fonte di amido, di proteine, di fibra alimentare, di antiossidanti e microelementi. Rispetto alla maggior parte dei cereali l’amido contenuto nel grano saraceno presenta una più lenta degradabilità, che comporta un più basso indice glicemico. Le proteine, che normalmente si aggirano intorno al 12 %, sono di elevato valore biologico in quanto ricche in aminoacidi essenziali come lisina (assente o scarsamente presente in quasi tutti gli alimenti di origine vegetale), treonina, triptofano e aminoacidi contenenti zolfo; risultano anzi complementari rispetto a quelle dei cereali veri e propri. Le proteine del grano saraceno hanno un’altra importante caratteristica che è quella di essere prive della frazione gliadinica che, insieme a quella gluteninica, costituisce la frazione proteica di riserva nei cereali, ed è responsabile della tossicità del glutine. Grazie a questa caratteristica il grano saraceno è alimento indicato per i celiaci e per i soggetti sensibili al glutine. L’assenza di gliadine rende naturalmente la farina più difficile da trasformare in pane e pasta in quanto manca la frazione proteica responsabile delle qualità tecnologiche (elasticità ed estensibilità) degli impasti. Interessante è anche il contenuto in fibra alimentare; in particolare è da rilevare nel grano saraceno un alto contenuto in fibra solubile, soprattutto beta-glucani, che costituiscono una frazione che introdotta nell’organismo ha effetti molto importanti: conferisce il senso di sazietà ed è

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quindi utile a contrastare l’iperalimentazione, riduce l’assorbimento dei carboidrati (minore incremento della glicemia) e dei lipidi (diminuiscono i livelli di colesterolo totale e LDL circolante), ha un effetto probiotico sulla microflora intestinale. Il grano saraceno è inoltre ricco di elementi minerali, in particolare Ca, Mg, Fe, P, K, Cu, V, Zn. Tra questi elementi minerali è da sottolineare il contenuto in macroelementi quali potassio e magnesio (il fabbisogno giornaliero di quest’ultimo è soddisfatto da un consumo di circa 100 g di grano saraceno, che può pertanto essere definito “fonte di magnesio”) e in microelementi quali zinco, rame, manganese e in particolare vanadio (V), presente in quantità tre volte superiore rispetto alla farina integrale di frumento: tale elemento è molto importante in quanto è stato scoperto che inibisce la sintesi del colesterolo e quindi è importante nella prevenzione delle cardiopatie. Altri componenti importanti sono le vitamine, tra cui quelle del gruppo B (B1, B2, B5, B7) e la vitamina E. Il grano saraceno presenta inoltre un abbondante contenuto in alcune sostanze bioattive come polifenoli e flavonoidi, dotati di proprietà antiossidanti e quindi efficaci contro l’invecchiamento e nella prevenzione di malattie cronico-degenerative come quelle cardiovascolari. Tra i flavonoidi abbiamo la già ricordata rutina, presente sia nella granella e soprattutto concentrata nelle parti verdi della pianta, in grado di prevenire la fragilità dei capillari e contrastare l'elevata pressione del sangue. Numerosi studi scientifici e una vasta letteratura rilevano le numerose proprietà antiossidanti capaci di prevenire neoplasie a livello di vari organi in particolare apparato gastroenterico. Un componente bioattivo peculiare del grano saraceno è dato dai fagopiritoli, che sono mono-, di- e tri-galattosil derivati del D-chiro-inositolo; quest’ultimo è un mediatore dell’insulina la cui biosintesi è insufficiente nel diabete mellito di tipo 2 e può quindi essere utile in questi pazienti. Il D-chiro-inositolo è risultato efficace anche nella cura di donne affette dalla sindrome dell’ovaio policistico. In conclusione, si può affermare che le caratteristiche

Coltivazioni


nutrizionali del grano saraceno e la ricchezza di biomolecole dall’effetto benefico sul nostro organismo lo rendono un prodotto da riscoprire e da integrare nella dieta di tutti i giorni.

Sperimentazione L’allora Dipartimento di Agronomia e Produzioni Erbacee dell’Università di Firenze ha fin dagli anni ’80 portato avanti studi sulla caratterizzazione delle popolazioni locali di farro nel comprensorio montano della Garfagnana, allo scopo di selezionare il germoplasma autoctono e di aumentare la diffusione della coltura, allora in via di progressivo abbandono, realizzando una filiera locale comprendente le fasi di coltivazione, prima trasformazione (sbramatura e brillatura) e commercializzazione, fino ad ottenere nel 1996 il riconoscimento della IGP del Farro della Gar-

fagnana, con la delimitazione delle zona di produzione e l’elaborazione del relativo disciplinare. A partire dai primi anni 2000, lo stesso Dipartimento nelle sue successive denominazioni (fino all’attuale di Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell’Ambiente - DISPAA) ha esteso i suoi studi anche al grano saraceno, con sperimentazioni svolte dagli Autori in Garfagnana in più riprese (2003-2006, 20082009, 2013-2014) e nel 2014-2015 anche in varie località dell’Appennino Umbro (tra cui Colfiorito, Norcia, Castelluccio), riguardanti i principali parametri biometrici e produttivi e le

Coltivazioni

proprietà nutrizionali di questa specie; i risultati sono stati descritti in vari articoli scientifici e divulgativi e in numerosi incontri svolti con agricoltori, trasformatori, operatori turistici ed altri soggetti delle comunità locali, allo scopo di diffondere la conoscenza del grano saraceno e delle tecniche colturali più appropriate per l’ambiente appenninico. Nelle tabelle si riportano alcuni dati produttivi riferiti all’ambiente della Garfagnana ed ottenuti in appezzamenti aziendali, così da fornire indicazioni più aderenti alla normale pratica colturale. Nel caso del farro vengono indicate le produzioni medie di 5 aziende situate tra 400 e 950 m s. l. m. nell’annata 2001-2002. Per il grano saraceno i dati medi sono riferiti all’anno 2013 e a 6 località situate tra 350 e 900 m s. l. m. Si riportano inoltre alcuni dati relativi al contenuto dei principali componenti nutrizionali nelle due specie (granella decorticata di farro e farina di grano saraceno; produzione 2013). Dai risultati delle sperimentazioni si può concludere che il farro e il grano saraceno sono entrambe specie rustiche, resistenti alle fitopatie, ben adattate agli ambienti montani dell’Italia centrale e idonee a tecniche colturali a basso impatto ambientale, ricche di metaboliti secondari da cui derivano importanti proprietà nutraceutiche e salutistiche per il consumatore, ed anche tra loro complementari grazie al loro differente ciclo vitale ed al diverso ruolo nelle rotazioni. La comprovata rusticità di queste colture le rende adattissime per sistemi colturali biologici e biodinamici, garantendo un futuro all’agricoltura locale e consentendo la realizzazione di una filiera corta di prodotti sani ed immuni da residui tossici. Questo risultato è già acquisito per il farro, mentre per il grano saraceno mancano ancora riconoscimenti ufficiali della tipicità delle produzioni, che comunque vengono perseguiti sia dalle istituzioni universitarie attive nella ricerca, sia dai rappresentanti delle varie categorie

interessate in ambito locale. Tutte le fotografie sono state realizzate dagli Autori.

BIBLIOGRAFIA Ghiselli L., Tallarico R., Mariotti M., Romagnoli S., Baglio A. P., Donnarumma P., Benedettelli S., 2016. Agronomic and nutritional characteristics of three buckwheat cultivars under organic farming in three environments of the Garfagnana mountain district. Italian Journal of Agronomy (pubblicato online – in corso di stampa). Kreft I., Fabjan N., Yasumoto K., 2006. Rutin content in buckwheat (Fagopyrum esculentum Moench) food materials and products. Food Chemistry, 98 (3): 508-512. Sofi F., Ghiselli L., Dinu M., Whittaker A., Pagliai G., Cesari F., Fiorillo C., Becatti M., Tallarico R., Casini A., Benedettelli S., 2016. Consumption of buckwheat products and cardiovascular risk profile: a randomized, single-blinded crossover trial. J. Nutr. Food Sci., 6: 501. Steadman K. J., Burgoon M. S., Lewis B. A., Edwardson S. E., Obendorf R. L., 2001. Buckwheat seed milling fractions: description, macronutrient composition and dietary fibre. Journal of Cereal Science, 33: 271-278. Steadman K. J., Burgoon M. S., Lewis B. A., Edwardson S. E., Obendorf R. L., 2001. Minerals, phytic acid, tannin and rutin in buckwheat seed milling fractions. Journal of the Science of Food and Agriculture, 81: 1094-1100. Tallarico R., Ghiselli L., Romagnoli S., Benedettelli S., 2008. Grano saraceno coltura dai molti usi. Informatore Agrario, 35: 45-46. Tallarico R., Ghiselli L., Romagnoli S., Benedettelli S., Pardini A., 2009. Evaluation trials of two buckwheat cultivars in Apennine mountains (Central Italy). Fagopyrum, 26: 45-55. Tallarico R., Ghiselli L., Romagnoli S. , 2014. Il grano saraceno. Strategie per un ritorno della coltura in Garfagnana e nelle aree vocate d’Italia. Tipografia Gasperetti, Fornaci di Barga (LU), pp.75.

Lisetta Ghiselli Dip. di Scienze delle Produz. Agroalimentari e dell’Ambiente - UniFI Remigio Tallarico, Sigfrido Romagnoli DISPAA - UniFI

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Nocciolo: una coltivazione da valorizzare Brevi cenni ad una coltura molto interessante per il nostro Paese di

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Luca Poli

ra le piante più a carattere forestale sottoposte a coltivazione, oltre al castagno, troviamo senza dubbio il nocciolo. La sua col-

T

questa coltura, con diverse azioni di promozione in tal senso, spesso promosse da importanti aziende dell’industria dolciaria italiana ed estera,

tivazione ricopre una notevole importanza nel nostro Paese, soprattutto in regioni come Piemonte, Lazio e Campania, dove la vocazione agronomica e l’esperienza di coltivazione permettono a queste zone di essere definite come aree qualificate. Nello specifico troviamo principalmente le zone vocate nell’area collinare della provincia di Cuneo, nel viterbese, in zone collinari e pedo-montane della provincia di Avellino ed infine sporadicamente anche attorno alle pendici dell’Etna in Sicilia. Recentemente si è registrato un notevole interesse verso lo sviluppo di

anche in altre zone rispetto a quelle sopra citate. Per quanto riguarda la coltivazione del nocciolo, questa è da paragonare a quella di altre colture industriali: occorre quindi ben valutare, in fase di progettazione dell’impianto, la scelta varietale, la forma di allevamento e la potatura, il decespugliamento, la difesa fitosanitaria, la meccanizzazione delle operazioni colturali. Quest’ultimo aspetto dovrà obbligatoriamente considerare le macchine raccoglitrici in quanto non è possibile ipotizzare la raccolta manuale mantenendo la competiti-

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vità economica; infatti esistono sul mercato macchine operatrici con produttività di raccolta molto elevata. Da questo punto di vista la cosa migliore per lo sviluppo di piccole filiere corilicole locali sarà lo sviluppo di conto-terzismo di servizi o sistemi di gestione cooperativi per piccoli produttori senza mezzi. Da un punto di vista ambientale, il nocciolo (Corylus avellana L.) trova le migliori condizioni pedo-climatiche in ambienti freschi, con temperature estive variabili tra 23 e 27 °C, mentre in inverno non si registrano danni fino a temperature di -20 °C. In condizioni positive si adatta a qualsiasi tipo di terreno che viene inoltre migliorato dalla sua lettiera facilmente degradabile. La fioritura avviene molto precocemente, ma nonostante questo le gelate primaverili possono rappresentare un limite alla coltivazione in quanto temperature al di sotto dello zero in aprile-maggio possono compromettere gli apici vegetativi. Da un punto di vista botanico, il nocciolo è da considerarsi come un arbusto, a foglie caduche, capace di raggiungere altezze di 4-7 metri, dotato di notevole capacità pollonifera; risulta inoltre a rapida crescita nei primi anni, con ramificazioni basali di più fusti e scarsa longevità delle piante. L’apparato radicale è inizialmente fittonante, per poi espandersi rimanendo superficiale; dal punto di vista edafico si tratta di una specie frugale, purché il suolo abbia la capacità di mantenere anche durante l’estate una certa quantità di acqua al fine di scongiurare facili stress idrici. Uno tra i primari parametri da considerare in fase di progettazione

Coltivazioni


dell’impianto, risulta senza dubbio la qualità del materiale di propagazione: in virtù del lungo periodo

giovanile delle piante (5-6 anni), da considerarsi improduttivo, risulta preferibile la messa a dimora di astoni di qualità agronomica a sanitaria accertata, e quindi capaci di portare una quanto più rapida entrata in produzione. I sesti d’impianto dovranno obbligatoriamente rispettare la natura eliofila del nocciolo, con distanze tra le file variabili tra 4 e 6 metri e sulle file tra 2.5 e 4 metri. Sesti più ampi (270 piante/ha circa) sono adottati in terreni collinari, con forme di allevamento a cespuglio; in pianura invece si raggiungono anche 400 piante/ha prediligendo forme di allevamento ad alberello o vaso cespugliato. Da un punto di vista delle lavorazioni meccaniche, la forma preferita risulta il cespuglio, che oltretutto asseconda il naturale accrescimento della pianta e permette più facili passaggi con i mezzi meccanici. Tra le cure colturali più onerose e da effettuarsi a partire già dal secondo anno, risulta la spollonatura: l’attitudine della pianta a produrre polloni produce competizione con il fusto principale ed ostacolo alle operazioni colturali. La strategia più efficace per il controllo dei polloni è sicura-

Coltivazioni

mente la scelta di cloni non polloniferi, anche se questo può contrastare a volte con la quantità e la qualità della produzione; in alternativa è possibile sfruttare l’innesto su specie non pollonifere, come il Corylus colurna. In ultima alternativa rimane la spollonatura manuale, da effettuarsi in primavera e comunque prima della lignificazione dei fusti, avendo cura di non lasciare monconi. Altra necessità importante per il noccioleto è l’irrigazione, che si rende fondamentale nel caso i terreni non siano capaci di mantenere un sufficiente grado di umidità e la stazione registri una piovosità inferiore a 800-1000 mm annui regolarmente distribuiti. Per quanto riguarda le lavorazioni del terreno, si rendono sufficienti lavorazioni superficiali nelle stazioni con più scarsità di acqua, nel caso si opti per l’inerbimento temporaneo nell’interfila. Da considerare che le operazioni di andanatura e successiva aspirazione delle nocciole da parte delle macchine semoventi sono agevolate dall’assenza del cotico erboso. La fertilizzazione in produzione prevede la distribuzione di 70 kg/ha di N all’anno, suddivise tipicamente fra ripresa vegetativa, estate e post-raccolta; per P sono sufficienti 40 kg/ha all’anno mentre per K si può provvedere ad applicare fino a 80 kg/ha all’anno. A livello di mercato, quella della

nocciola è tra le coltivazioni la cui produzione è accresciuta di meno negli ultimi 5 anni, facendo registrare appena +0.15%, contro la media superiore al 50% per le varie noci, e del 2.18% per le mandorle. La produzione italiana negli ultimi anni si è aggirata attorno a 56 mila tonnellate di nocciole sgusciate, a fronte di un consumo interno superiore a 90 mila tonnellate; questo margine fa ben sperare per la buona riuscita commerciale dei nuovi impianti di nocciolo. I dati relativi alla produzione mondiale, mostrano come di circa 1 milione totale di prodotto con guscio, circa 700 mila tonnellate, ovvero la maggior parte, siano attribuibili alla Turchia; a seguito l’Italia con 120 mila tonnellate, ed altri paesi come Azerbaijan, Georgia ed USA. Il mercato turco, 65-70% della produzione mondiale, evidenzia da alcuni anni problemi di incertezza quali-quantitativa dell’offerta e instabilità socio-politica; risulta quindi positivo favorire nuove forme di produzione al fine di promuovere lo sviluppo della filiera corilicola italiana, legata all’industria dolciaria. Recenti studi confermano l’esistenza di importanti spazi per un aumento degli investimenti in Italia (anche 15-20 mila

ettari) ma occorre professionalità e non improvvisazione da parte dei produttori interessati nonchè contratti di acquisto seri da parte dell’industria basati su prezzi il più possibile stabili. Dott. Luca Poli Dottore Forestale luca9008@ hotmail.it

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L'allevamento della Lepre La lepre rappresenta una delle specie cacciabili per antonomasia, oltre ad essere uno degli animali selvatici più eleganti e sorprendenti. Questo favoloso lagomorfo viene anche comunemente allevato, ma a differenza del coniglio, il suo indirizzo produttivo è ben diverso… di

Cristiano Papeschi e Linda Sartini

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ari amici e lettori di TerrAmica, nello scorso numero abbiamo parlato della lepre come animale selvatico. Per completare il quadro, tratteremo oggi della lepre (Lepus europaeus) come specie ad uso zootecnico; purtroppo tentare di risolvere in un solo articolo l’argomento sarebbe impossibile, pertanto rimandiamo all’approfondimento personale chi fosse interessato, limitandoci in questa sede ad accennare le fasi fondamentali dell’allevamento con il solo scopo di incuriosire il lettore.

che riporta le “norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”.

L’allevamento in gabbia Diverse sono le strategie per l’allevamento della lepre, ma generalmente si riducono principalmente a due: la gabbia ed il recinto. Per ottenere una produzione monitorabile e standardizzata, i riproduttori vengono solitamente allevati in gabbia, in modo da poter tenere sotto controllo gli accoppiamenti, i parti e gli svezza-

Perché allevare la lepre e per quale scopo?

Zootecnia

Al di là del motivo “passione”, come ogni altra specie ad indirizzo zootecnico, la lepre viene allevata ovviamente per ragioni puramente economiche. L’indirizzo produttivo principale è rivolto alla caccia, sia per ottenere soggetti destinati al ripopolamento faunistico-venatorio, che animali utilizzati per le riserve. Come per tutte le altre produzioni zootecniche, l’allevamento della lepre è soggetto ad una serie di normative ed autorizzazioni per quel che riguarda la stabulazione, il benessere ed il trasporto; trattandosi, inoltre, di una specie “selvatica”, fa riferimento anche al D. Lvo 157/92

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menti. Le coppie, un maschio ed una femmina, vengono formate verso la fine

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dell’estate o nel primo autunno, in modo da avere gli accoppiamenti entro l’autunno stesso ed i primi parti tra la fine di dicembre e il mese di gennaio, i quali andranno avanti fino al sopraggiungere dell’estate. Ovviamente, trattandosi di un animale selvatico, e quindi fortemente influenzato dalle condizioni ambientali e climatiche per la sua fisiologia riproduttiva, si potranno avere differenze in funzione dell’area geografica e dell’annata. Salvo casi eccezionali, come ad esempio incompatibilità tra i partners, infertilità, aggressività o morte di uno dei due soggetti, la coppia rimane fissa per una o più stagioni riproduttive. Alcuni allevatori, soprattutto in passato ed ormai sempre meno, optano invece per l’allevamento in “gabbie-harem”, ovvero strutture all’interno delle quali viene posto 1 maschio con 2-5 femmine. Le gabbie destinate all’allevamento della lepre sono ben diverse da quelle impiegate per i conigli, in quanto questo animale necessita di molto più spazio sia in larghezza che in altezza e di due rifugi, uno per gli adulti ed uno per la prole. In quanto a dimensioni, ogni azienda produttrice ha le proprie re-

Zootecnia


gole, poiché non esistono degli standards definiti: in ogni caso per una gabbia destinata ad una coppia fissa si consiglia una superficie minima di almeno 1 m2 (meglio se superiore), l’altezza del soffitto di circa 0.8-1 m e l’altezza da terra di almeno 50 cm, per rendere più agevoli le operazioni di pulizia. Le gabbie sono in genere

ne all’incirca intorno alle quattro settimane di vita dei leprotti, questi vengono tolti dai genitori, posti a loro volta in altre gabbie (gabbie da svezzamento) e successivamente destinati, ad un’età compresa tra i 60 e 90 giorni circa, alla vendita, o all’accrescimento, fino a diventare sub-adulti (circa 8-9 mesi) per esse-

ne più “naturale”, in quanto animali nati e cresciuti a terra vengono spesso considerati di maggior valore perchè più “selvatici” rispetto a quelli ottenuti in gabbia. Altrimenti, il recinto viene comunemente utilizzato dagli allevatori di selvaggina per “pre-ambientare” a terra, per un periodo variabile da alcune decine di giorni fino

Lepre in corsa in un recinto bicellulari e collocate all’aperto, dotate di un proprio tetto o ricoperte da una tettoia comune, a seconda della progettazione dell’allevamento. Ogni gabbia, oltre ad essere fornita internamente dei due rifugi, è provvista di una mangiatoia per il mangime, una rastrelliera per il fieno ed un beverolo, automatico o servito da una bottiglia. Le pareti laterali sono generalmente “piene”, mentre quella frontale è in rete metallica, per rendere possibile l’ingresso della luce e l’ispezione da parte dell’allevatore, così come il pavimento, la cui funzione è invece di tipo igienico, consentendo la caduta delle deiezioni. Da non dimenticare che la lepre, in quanto animale selvatico e particolarmente stressabile, necessita di un allevamento posto in luogo tranquillo e protetto sia da predatori che da altre forme di disturbo come passaggio di gente, strade, fonti di rumore, ecc. Dopo lo svezzamento, che avvie-

Zootecnia

re utilizzati sempre per la vendita o per la riproduzione.

Il recinto Il recinto rappresenta un sistema di allevamento più estensivo e confacente alle esigenze naturali di questo animale che comprendono il correre, nascondersi ed alimentarsi con essenze vegetali che possono essere rinvenute sul terreno. Nonostante questa idilliaca immagine, l’allevamento in recinto presenta maggiori difficoltà per gli operatori in quanto gli animali non sono sempre facilmente monitorabili. I riproduttori possono essere allevati con questo sistema, ma diventa difficile tenere un elenco aggiornato delle nascite, delle mortalità e della produzione di ogni singola femmina, quindi generalmente gli allevatori tendono a preferire le gabbie per la riproduzione. Nonostante ciò, in alcune realtà locali (ad es. associazioni venatorie, ATC, ecc.) si opta per una produzio-

anche a qualche mese, i soggetti destinati alla vendita, in modo che possano imparare a muoversi, correre ed alimentarsi in maniera naturale in previsione di una successiva liberazione sul territorio. Ovviamente gli animali presenti all’interno del recinto devono essere “catturati” prima di essere venduti e per fare ciò vengono utilizzati operatori esperti e reti a tramaglio, all’interno delle quali le lepri rimangono imprigionate e tempestivamente liberate per essere riposte in cassette da trasporto. All’interno del recinto sono generalmente presenti delle mangiatoie, per integrare l’alimentazione durante i periodi di necessità, abbeveratoi e le cosiddette “zone sporche”, ovvero aree in cui sia presente una vegetazione erbacea o arbustiva tale da consentire all’animale di imparare a nascondersi e fornire contestualmente l’ombra nei periodi più caldi. Il recinto deve essere provvisto di una rete perimetrale alta almeno 1,8

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metri, dotata di sistemi di dissuasione per i predatori (ad es. ricciolo antivolpe o filo elettrificato) ed interrata in modo da evitare la fuga degli animali o sgradite intrusioni. In alternativa, si possono utilizzare i recinti “elettrificati”, per lo più mobili.

La riproduzione

La razza di questo numero: Blu di Beveren La Blu di Beveren è una razza di conigli la cui origine è piuttosto controversa: molti parlano di incrocio tra un comune coniglio domestico e il Blu di Vienna, altri lo confondono con il più antico coniglio Blu di S. Nicola mentre altri ancora pensano si tratti dell’incrocio tra un coniglio domestico e il Gigante blu di Fiandra. In mezzo a tutta questa confusione, l’unica certezza è l’origine geografica della razza, ovvero il Belgio. Questo splendido coniglio compare per la prima volta nel 1900 nella cittadina belga di Beveren, dalla quale trae il nome, e viene riconosciuto come razza nel 1928. Molto popolare in Belgio, il Blu di Beveren si diffuse presto anche in altri paesi europei, anche se oggi risulta raro reperirlo al di fuori del suo Paese d'origine. L’indirizzo di questa razza è duplice, in quanto veniva utilizzata sia per la produzione di carne che come animale da compagnia: in Italia è pressoché sconosciuta, salvo una fugace apparizione in un allevamento del Lazio nel 2014, ad opera di un appassionato coniglicoltore.

La pubertà viene raggiunta mediamente intorno a 6-8 mesi, ma in genere si attendono gli 8-9 mesi (o anche qualcosa di più!) prima di avviare all’accoppiamento i soggetti destinati Cosa dice lo standard: alla riproduzio- Il Beveren è un coniglio di medie dimensioni ed il suo peso è compreso tra 3 e 5,5 kg, con una media ne. La gestazio- ideale di 3,5-4 kg. ne dura in me- Come dichiarato dallo standard, il suo corpo deve avere la forma di un "mandolino rovesciato", quindia 40-42 giorni, di la parte posteriore deve essere più ampia di quella anteriore. al termine della I quarti posteriori sono forti e di muscolatura compatta, mentre gli anteriori sono sottili; la linea dorquale nascono sale è curva, le cosce sono grandi e la groppa arrotondata. da 2 fino ad un La testa è a forma di triangolo, le orecchie sono strette, lunghe tra 10 e 12,5 cm (preferibilmente massimo di 7-8 11-12 cm), la giogaia è ammessa nella femmina, ma deve essere più piccola possibile. Il pelo è releprotti. Questi lativamente corto, denso e lucido, leggermente più opaco sul ventre e sotto la coda, ed il colore è di sono già coperti un blu intenso, con le unghie tendenti al blu e gli occhi blu scuro. Da segnalare che, di questa razza, di pelo, con gli ne esiste anche una variante con il mantello bianco. occhi aperti e nel giro di poche ore sono anche in grado di muoversi autonomamenRoberto Corridoni te. In allevamento può avvenire anche la superfetazione, ovvero riproduttrice è in grado di fare da un mente i propri fabbisogni. Il pellets una femmina a termine gravidanza minimo di 3 fino anche a 5-6 parti. è in genere composto da numerosi può riaccoppiarsi pochi giorni prima ingredienti, tra i quali farina di erba Alimentazione del parto e portare avanti contempomedica, cereali fioccati o in farina, raneamente sia le gestazione quasi Le lepri allevate in gabbia vengono oli di estrazione di leguminose e conclusa che quella nuova. I leprot- alimentate con mangime in pellets aggreganti quali la melassa. I tenori ti si nutrono esclusivamente di latte cui viene aggiunto del buon fieno analitici possono variare anche nomaterno fino oltre i 12-13 giorni di di prato polifita e, quando possibile, tevolmente da un mangime all’alvita e successivamente iniziano ad erba fresca. L’alimento viene gene- tro, ma in genere la percentuale di assaggiare l’alimento solido che co- ralmente fornito ad libitum, ovvero proteina si aggira sul 16-18% e la stituirà poi la loro alimentazione defi- a volontà, in modo che ogni ani- fibra tra il 15-18% o anche di più. I nitiva. Ogni anno, una coppia buona male possa soddisfare autonoma- mangimi possono poi essere addi-

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zionati di medicamenti, antibiotici o coccidiostatici, dietro prescrizione

e vitamine che altrimenti, per la sua condizione di animale monogastrico,

gabbia vengono utilizzati per i “ripopolamenti estivi”, per lo più dopo un

Un allevamento di lepri in gabbia medico-veterinaria, per trattare le diverse patologie che possono presentarsi in allevamento. L’integrazione con fieno di prato polifita è utile anche per aumentare la percentuale totale di fibra della razione, importante per favorire i processi digestivi

andrebbero perse.

L’utilizzo della lepre La lepre, come abbiamo già accennato, viene utilizzata per lo più a scopo faunistico-venatorio. Diverse sono le strategie e le modalità di

breve preambientamento in recintini mobili ed elettrificati realizzati direttamente all’interno del territorio sul quale gli animali verranno poi liberati. Altrimenti i sub-adulti (8-9 mesi) e gli adulti (circa 1 anno) possono essere impiegati per il “ripopolamento invernale”, ovvero lanciati direttamente in territorio libero per lo più al termine della stagione di caccia, in modo che possano attecchire nel nuovo habitat e dare luogo alle prime riproduzioni nel giro di pochissimo tempo. Soggetti della stessa fascia di età, o anche leggermente più giovani, possono poi essere impiegati come “pronta caccia”, soprattutto all’interno delle riserve faunistico-venatorie.

Dr.ssa Linda Sartini DVM Specializzata in ispezione degli alimenti di origine animale

Dr. Cristiano Papeschi DVM

Momento della liberazione e per la motilità intestinale. La lepre, esattamente come il coniglio, effettua la ciecotrofia, un adattamento fisiologico utile per recuperare notevoli quantità di energia, proteine

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impiego dei soggetti alle diverse età proposte dai tecnici-faunistici e studiate in funzione del territorio e delle usanze. In linea generale, i giovani leprotti (60-90 giorni) svezzati in

Università degli Studi della Tuscia Specializzato in teconologia e patologia del coniglio, della selvaggina e degli avicoli

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La gestione dei suini in estate Lo stress causato dalle alte temperature è un fattore che non andrebbe trascurato; vediamo come gestirlo al meglio di

Marco Baroni

C

on l'aumentare delle temperature e dell'umidità ci si può aspettare di osservare un incremento dello “stress da calore” nei nostri allevamenti. Questo si traduce in perdite per morte e, durante gli autotrasporti, in una riduzione delle prestazioni di crescita, diminuzione della fertilità dei verri, ritardo nei calori, ridotto tasso di ovulazione e aumento della mortalità embrionale nelle scrofe.

autotrasporti e piani per la sterilità di stagione. E’ utile ricordare che è comunque necessario sottostare a quanto riportato nel Reg. CE 1/2005 sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate.

La movimentazione dei suini E’ necessario prestare particolare attenzione alla movimentazione de-

far muovere solamente piccoli gruppi; con più di cinque suini a volta infatti gli animali diventano più eccitabili. E’ necessario anche cercare di evitare eccessivi periodi di fermo durante lo spostamento, nonchè movimentare la mattina presto o la sera tardi, quando è più fresco (le alte temperature aumentano lo stress). Segnali di stress possono essere: • Respirazione a bocca aperta

Capannine per il ricovero degli animali In questi casi, i seguenti punti dovrebbero essere controllati e considerati: la manipolazione del maiale, l'ispezione dei sistemi di abbeverata, l'attenzione per la ventilazione e raffreddamento, le linee guida di

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gli animali; in questi casi è consigliabile mantenere la calma dei maiali, muovendosi lentamente ed astenendosi dall'utilizzo di pungoli elettrici. Da evitare anche rumori forti ed urla. Durante lo spostamento è opportuno

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• Vocalizzazione (animali che strillano) • Comparsa di macchie sulla pelle • Rigidezza • Tremori muscolari • Aumento della frequenza cardiaca

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• Aumento della temperatura corporea

Lattonaggio e finissaggio In questa fase specialmente è utile installare sistemi di raffreddamen-

to e ventilazione come ventilatori, impianti a goccia-e-spruzzo, prese d'aria e provvedere ad un adeguato isolamento degli edifici. Il pavimento andrebbe bagnato di frequente se i suini sono confinati in box, mentre se allevati all'aperto gli animali devo-

ficienza, poiché il consumo aumenterà in maniera differente a seconda dell’età e del peso: un suinetto di pochi giorni avrà bisogno di 1 litro di acqua al giorno mentre in finissaggio ne serviranno oltre 20 litri; per garan-

letargici e rifiutare l’accoppiamento. Un sistema per monitorare lo stress da caldo nel verro è quello di osservare gli atti respiratori: una respirazione normale si aggira sui 25-35 atti al minuto mentre in condizioni

tire un adeguato apporto di acqua, la funzionalità degli abbeveratoi deve essere verificata quotidianamente.

di eccessivo calore questi possono salire anche a 75-100; pertanto già intorno ai 40-50 atti respiratori al minuto bisognerà pensare di intervenire adottando misure adeguate per raffreddare gli animali. Le alte temperature spingono l’ani-

Allevamento dei riproduttori Mantenere il verro fertile è molto importante: due settimane di espo-

Suino iberico che riposa in una zona umida no disporre di zone "umide", come pozze di fango mantenute sempre fluide, per potersi rinfrescare: a tale scopo si possono installare spruzzatori a getto continuo o, in alternativa, realizzare una buca con fondo in sabbia, avendo cura di mantenerla sempre bagnata. Si possono installare, inoltre, degli ombreggianti naturali (alberi o cespugli) o artificiali (tettoie e reti). Ovviamente è indispensabile anche fornire acqua, sempre fresca, a suf-

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sizione a temperature di 27°C e più possono causare un drammatico aumento di anomalie spermatiche, in particolare alterazioni morfologiche e riduzione della motilità; per ottenere nuovamente una produzione seminale adeguata saranno necessarie ben quattro settimane dopo il ritorno a temperature più “fisiologiche”. Oltre che un effetto negativo sugli spermatozoi, con il caldo anche la libido viene compromessa, in quanto i verri possono diventare

male a ridurre l'assunzione di cibo, e ciò altera la capacità della femmina di recuperare in modo adeguato il peso dopo la lattazione; di conseguenza aumenta l’intervallo tra lo svezzamento e il ritorno in estro, nonché tassi di ovulazione ridotti. Mantenere costante il consumo di alimento ed impedire che diminuisca durante i mesi estivi è uno dei punti più critici per ridurre l'impatto dello stress termico e la conseguente infertilità stagionale.

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Per fare ciò sono sufficienti alcuni accorgimenti: • Somministrare i mangimi quando le temperature sono più basse, ovvero al mattino presto o alla sera tardi:

• Aggiungere grasso alla dieta, per aumentare il livello energetico della razione. Da non dimenticare che un più elevato contenuto in grasso determina una maggiore facilità di

quanto non sudano. Per raffreddare gli animali possono essere utilizzati sistemi di gocciolamento (tubi da giardinaggio con ugelli) o spray con ventilatori circolanti (nebbia di goc-

Suini che cercano refrigerio durante il periodo estivo questa strategia può stimolare l'appetito della scrofa e del verro. • Aumentare la frequenza dei pasti giornalieri riducendo la quantità per ogni somministrazione. • Eliminare l’alimento non consumato, utilizzando materie prime fresche, in quanto con il caldo si hanno maggiori probabilità di irrancidimen-

to, soprattutto per le razioni molto ricche di grassi. • Diete liquide, molto utili durante l'allattamento. Può essere indicato pre-abituare gli animali durante l’ultimo periodo di gestazione. Questa strategia può portare anche ad un aumento del 15% dell’ingestione di cibo.

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irrancidimento. • Fornire acqua costantemente: le alte temperature aumenteranno il fabbisogno di acqua, in particolare per le scrofe. In estate il consumo di acqua può aumentare anche del 50%. • Controllare e mantenere funzionali i sistemi di ventilazione: il primo pas-

so per ridurre l'impatto dello stress termico sulla fertilità della scrofa è quello di fare in modo che i sistemi di ventilazione siano commisurati alle esigenze dell’allevamento e siano sempre efficienti. I maiali sono più sensibili agli effetti combinati di calore e umidità relativa rispetto agli esseri umani in

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cioline d'acqua), che utilizzano volumi d'acqua minori.

Integrazioni alimentari Altri accorgimenti a livello alimentare, utili per migliorare le performances dei suini nel periodo caldo, sono l’integrazione con Vitamina C, ridurre il cloruro di sodio in favore del bicarbonato di sodio e la somministrazione di aminoacidi di sintesi quali lisina, triptofano, betaina e colina che, essendo più digeribili, determinano una minore produzione di calore metabolico, quindi meno stress da calore. Le integrazioni alimentari vanno valutate con attenzione, caso per caso. “Qualità della vita significa anche qualità della carne e garantire una buona vita agli animali è un impegno che va anche nella direzione del consumatore”. “Animal welfare, everyone is responsible” - Campagna Unione Europea per il benessere animale

Marco Baroni Allevatore di suini soniadav73@ gmail.com

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Le api assassine Questi piccoli insetti sono così pericolosi come vengono dipinti? di

Romeo Caruceru

L

a primavera è per le api il periodo della sciamatura, la moltiplicazione mediante divisione delle colonie: la vecchia regina, lasciando il passo alla giovane figlia, abbandona l’alveare con il seguito di operaie alla ricerca di una nuova casa. Vista la riduzione dell’habitat naturale e la presenza sempre più diffusa delle api in città, ambiente più salutare delle campagne coltivate, capita spesso che la nuova casa sia il cassonetto di una tapparella, l’intercapedine di un muro o più semplicemente il cornicione di un palazzo. In questi casi, il malcapitato nuovo “proprietario” di api, direttamente o tramite le forze dell’ordine, richiede l’intervento di un apicoltore per la rimozione del “problema”. Quello che gli apicoltori notano il più delle volte è una paura irrazionale, originata probabilmente dalle tante pellicole di serie B che sfruttano il filone delle api assassine e una millantata allergia, che interessa a volte interi nuclei familiari.

Ma quanto sono aggressive le api e quanto è frequente e pericolosa l’allergia al veleno delle api? L’ape italiana, Apis mellifera ligustica, è mansueta per natura e gli apicoltori attuano una continua selezio-

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ne di api docili, per poter lavorare in tranquillità nei propri apiari. Purtroppo, l’ape italiana, per via d e l l e importazioni sconsiderate di razze diverse, è in via di estinzione e gli incroci dovuti al peculiare sistema di riproduzione delle api possono dar vita ad ibridi con carattere aggressivo, anche se nemmeno lontanamente paragonabili all’ape africanizzata, l’archetipo dell’insetto assassino hollywoodiano. Nonostante gli sciami che inseguono persone innocenti esistano solo nei film, bisogna tener presente che, nel loro piccolo, le api sono territoriali, quindi tendono a difendere il loro nido e le zone circostanti, specialmente la parte antistante l’ingresso, pertanto è sconsigliabile avvicinarsi troppo. Gli sciami, che nella rappresentazione classica sono un glomere di api

appeso a un ramo, sono meno aggressivi, sia perché non hanno ancora un nido da difendere, sia perché con l’addome pieno di miele (le scorte per la fondazione di una nuova colonia) le api hanno più difficoltà a pungere. Lontana dall’alveare, durante l’azione di bottinamento, l’ape è più propensa a fuggire piuttosto che attaccare, ma è sempre possibile essere punti per reazione quando, per esempio, si prende in mano un fiore oppure un frutto maturo stringendo senza volere l’ape eventualmente posata, come anche camminando scalzi in un prato fiorito. In caso di puntura, l’organismo può avere una reazione che va da un quasi invisibile rigonfiamento, nel caso di un apicoltore che di punture ne ha ricevute a migliaia durante la sua vita, fino alle estreme conseguenze per chi soffre di una forma grave di allergia e si trova impreparato. I numeri in Italia non sono molto precisi: si stima che per più di cinque milioni di persone punte ogni anno si registrano circa 10-20 decessi per reazioni allergiche al veleno degli imenotteri (api, vespe e calabroni). Uno tra gli studi più completi al mondo, “Injury trends from envenoming in Australia, 2000–2013” (R.E. Welton et al.), è stato pubblicato di recente in “Royal Australian College of Physicians' Internal Medicine Journal” e prende in considerazione

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42.000 ricoveri dovuti a punture e morsi velenosi in un arco di tredici anni. Le api non ne escono molto bene, anche se il numero di decessi nel periodo perso in considerazione è inferiore di molto rispetto a quello presunto in Italia: 27 casi per punture di imenotteri, uguale a quello per morsi di serpente ma con un numero di ricoveri doppio, più di 12.000.

operatori ecologici) sono soggetti "a rischio". Nella categoria degli apicoltori il rischio di reazioni allergiche risulta inversamente proporzionale al numero di punture ricevute per anno; gli apicoltori punti molto frequentemente (più di 50 punture per stagione) raramente sviluppano reazioni generalizzate in quanto vanno incontro ad una desensibilizzazione "spontanea". Il veleno in Qualora però non breve vengano punti per L’apitossina è una un certo periodo di sostanza liquida, tempo (che varia da incolore, solubile in soggetto a soggetacqua, contenete to, in genere diversi una miscela di promesi ma più spesso Estrazione del pungiglione (foto www.bee-stings.net) teine, peptidi, amine diversi anni), possoe altri composti. Viene prodotta dalle differente no perdere l’immunità acquisita ed due ghiandole velenifere, una gran- - prurito generalizzato con rossore, avere reazioni generalizzate in ocde a secrezione acida e una picco- orticaria (pomfi) su tutto il corpo casione di una nuova puntura. la a secrezione basica. La quantità - gonfiore delle labbra e gonfiore delImmunoterapia prodotta è di circa 0,3 mg mentre le palpebre quella iniettata durante una puntura - nausea, vomito, difficoltà alla de- L’immunoterapia consiste nell’inietè stimata in 0,1-0,2 mg. La sua pro- glutizione tare nel tessuto adiposo ipodermiduzione inizia dopo la nascita e ter- - palpitazioni, difficoltà respiratoria co (sotto-cute) del braccio il veleno mina al quindicesimo giorno di età. - nei casi più gravi può svilupparsi purificato. Partendo da dosi miniLe api giovani non pungono. una reazione cardiocircolatoria fata- me, progressivamente aumentate, Composizione: le con vertigini, ipotensione, perdita si crea una protezione contro le alAcqua – 88% di coscienza, arresto cardiocircolato- lergie. La dose massima (= dose di Sostanza secca: 50% melitina – il rio: lo shock anafilattico. mantenimento) consiste di regola composto maggiormente tossico ha nell’equivalente di due punture d’api. Primo soccorso anche proprietà antiinfiammatorie È raccomandata alle persone che 10% fosfolipasi A2 – distrugge le - allontanarsi (o allontanare la per- soffrono di una grave allergia al vemembrane cellulari, diminuisce la sona punta) dalla fonte di pericolo leno d’insetti. Maggiore è la reazione pressione sanguigna ed inibisce la (alveare, sciame, etc) senza correre, a una puntura, più elevato è il rischio coagulazione del sangue evitando movimenti scoordinati di una reazione generalizzata anche 4% adolapina – antiinfiammatorio e - togliere il pungiglione quanto pri- alla prossima puntura. In casi ecceanalgesico ma utilizzando una pinzetta oppure zionali, in presenza di un maggiore 2% apamina – sostanza neurotossi- raschiandolo con una lama (coltello, rischio di essere punti, l’immunoteca carta di credito, ecc.) rapia è eseguita anche su persone 2% ialuronidasi – aumenta la perme- - disinfettare la zona della puntura con reazioni meno gravi (es. apicolabilità del tessuto, accelera la diffu- - applicare eventualmente una po- tori, pompieri, persone che lavorano sione delle tossine mata al cortisone nella natura). 2% dopamina e noradrenalina – au- - in caso di reazioni grave seguire mentano la frequenza cardiaca le indicazioni del proprio medico op2% proteasi-inibitori – antiinfiamma- pure farsi accompagnare al Pronto torio, provocano l’arresto del flusso Soccorso sanguigno Categorie a rischio 1% istamina – provoca dolore e arGli apicoltori e i loro famigliari, come rossamento anche coloro che svolgono per moRomeo Caruceru La reazione al veleno tivi di lavoro o di hobby attività all’aEsperto apistico Reazioni locali estese: ria aperta (agricoltori, giardinieri,

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- gonfiore (edema) nella sede della puntura con diametro superiore a 10 cm che dura per almeno 24-48 ore. Reazioni generalizzate: possono interessare vari organi con intensità

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L’allevamento del Cefalo per la produzione di bottarga di

Lapo Nannucci e Dario Vallainc

N

ell’ambito delle specie ittiche di allevamento di acqua salata, la maggior parte delle produzioni dell’area mediterranea è rappresentata dalla spigola (Dicentrarchus labrax) e dall’orata (Sparus aurata), molto conosciute dal consumatore in quanto rivestono un importante ruolo sul mercato delle specie commercializzate per il consumo

regrande (OR), struttura localizzata nelle vicinanze dello stagno, ho avuto l’occasione di visitare il laboratorio nel quale vengono portate avanti alcune prove di stabulazione del cefalo, finalizzate alla reimmissione degli esemplari in ambiente naturale. L’IMC fa parte del Parco Scientifico e Tecnologico della Sardegna ed è da tempo impegnato nello sviluppo

do lo stagno di Cabras e le altre lagune sarde. Per poter soddisfare la richiesta di bottarga, prodotto che si ottiene dalla lavorazione delle gonadi femminili di questo mugilide, è stato quindi avviato un progetto di ricerca sull’induzione alla riproduzione e l’allevamento di Mugil cephalus con finalità di ripopolamento attivo delle lagune della Sardegna.

Fig. 1 Cefalo ( Mugil cephalus). Fonte: IMC Torregrande(OR) come prodotto fresco intero. A livello nazionale, soprattutto nell’ambito delle comunità legate agli ecosistemi lagunari, assumono notevole importanza altre specie ittiche, il cui consumo è legato ad alcune tipologie di prodotti trasformati, tra i quali la bottarga di muggine, prodotta attraverso l’essiccazione della sacca ovarica del cefalo (Mugil cephalus, Linnaeus, 1758). Quest’estate, mi sono recato in Sardegna presso Cabras, una località molto conosciuta per la presenza di un grande Stagno, storicamente cuore della produzione del cefalo e dei relativi prodotti trasformati. Grazie all’amico e “collega”, il Dottor Dario Vallainc, biologo marino, in servizio presso la Fondazione IMC Centro Marino Internazionale di Tor-

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di progetti di ricerca volti a promuovere l'introduzione di tecniche innovative e sostenibili per la gestione delle risorse marine e costiere. Nel panorama delle specie oggetto di studio, l’IMC, insieme ad una partnership composta dall’Agenzia della Regione Sardegna AGRIS, all’Università di Cagliari e di Sassari, sta portando avanti una serie di progetti rivolti specificatamente allo studio della biologia, dell’ecologia e della gestione della risorsa cefalo, nelle lagune della Sardegna. L’attività sperimentale svolta dall’IMC parte da una necessità manifestata sul territorio per combattere il problema dei cali di produttività, attribuibili a cause quali le mutate condizioni ambientali e la sovrappesca, che da circa un decennio stanno affliggen-

Descrizione della specie Il cefalo (Mugil cephalus) è un pesce dotato di un corpo robusto ed allungato, caratterizzato da una testa piuttosto larga ed appiattita centralmente e da una bocca piccola con un labbro superiore sottile e liscio. Le due pinne dorsali sono corte e le pettorali sono inserite in una posizione piuttosto alta, mentre per quanto riguarda la colorazione del corpo, questa specie mostra tonalità grigio bluastre nella zona dorsale, una colorazione argentea con linee longitudinali grigie sui fianchi ed una pigmentazione più chiara, tendente al bianco argenteo nella porzione ventrale. Si tratta di una specie cosmopolita a comportamento catadromo che vive

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Fig. 2 Cattura dei riproduttori in laguna. Fonte: IMC Torregrande(OR) nelle acque costiere della maggior parte delle zone tropicali e temperate, pertanto risulta molto comune anche nelle acque del Mar Mediterraneo, in particolar modo nelle zone lagunari e di estuario dei fiumi. Durante la stagione riproduttiva gli adulti formano grossi banchi e migrano verso il mare aperto; in seguito alla schiusa delle uova, le larve si dirigono verso le zone di basso fondale all’interno di siti costieri riparati, dove trovano abbondanti quantitativi di cibo e protezione dagli attacchi di pesci predatori. Nel momento in cui i giovanili raggiungono una lunghezza di circa 5 cm, iniziano a muoversi verso acque leggermente più profonde. Il cefalo si nutre prevalentemente di zooplancton (piccole larve di insetti e materiale vegetale in decomposizione) e grazie alla conformazione dello stomaco ed al suo lungo tratto gastrointestinale, è molto abile nel digerire detriti di vario genere. Per poter triturare al meglio questo genere di materiali il cefalo ingerisce vari tipi di sedimenti, che all’interno del suo particolare stomaco, vengono utilizzati per sminuzzare i detriti.

Tecniche di allevamento del cefalo, la prova sperimentale Lo studio sperimentale sull’allevamento del cefalo impostato dall’Istituto ha permesso di raggiungere una serie di obbiettivi specifici, tra i quali:

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• definizione di un protocollo di induzione alla riproduzione del cefalo in cattività volto all’ottenimento di larve vitali • identificazione di diete e condizioni di allevamento per le larve e i giovanili di cefalo • identificazione della taglia ottimale di immissione nell’ambiente naturale degli individui prodotti in cattività e valutazione della crescita.

stata individuata la tecnica di riproduzione più adatta nell’ottica dell’immissione degli individui prodotti nell’ambiente naturale, considerando gli aspetti legati alla diversità genetica degli avannotti ed alla sostenibilità economica del processo. Gli individui impiegati nell’attività di ricerca sono stati prelevati annualmente nell’ambiente lagunare durante la stagione riproduttiva, in collaborazione con la Cooperativa Pescatori di Cabras e di Mistras, e sono stati trasportati in laboratorio. Nel corso della sperimentazione è stato definito un protocollo di selezione, cattura, trasporto, acclimatazione e trattamento dei riproduttori; sono state inoltre determinate la sex ratio (la densità dei riproduttori da impiegare nelle

Definire un protocollo di induzione alla riproduzione del cefalo in cattività I mugilidi non si riproducono sponta- Fig.3: Acclimatazione (1). Biopsia ovarica (2). Cannula per il prelievo degli oociti (3). Dosaggio ormonale (4). Somminineamente in strazione dell’ormone (5). Fonte: IMC Torregrande(OR) cattività; l’emissione dei gameti viene promossa attraverso la vasche di riproduzione) ed è stato somministrazione di trattamenti or- identificato il livello ottimale di domonali, il cui successo viene influen- saggio ormonale per ottenere l’emiszato negativamente dallo stress sione delle uova e la fecondazione. causato dalla cattura e dal trasporto Le tecniche di riproduzione impiegadei riproduttori. Attraverso l’analisi te, sono state due: la spremitura a critica della letteratura scientifica è secco e l’emissione naturale in va-

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sca. Nel corso della sperimentazione è stato individuato il set-up ottimale del sistema per la fase di schiusa previsto dal progetto, sono state poste in incubazione circa 2 milioni di uova e si è ottenuta una percentuale di schiusa pari all’80%. Inoltre, attraverso il monitoraggio dei parametri dell’acqua di incubazione, sono sta-

luppo delle larve, le condizioni ideali in cui mantenere gli individui e la densità ottimale di allevamento.

Identificare la taglia ottimale di immissione nell’ambiente naturale degli individui prodotti in cattività e valutarne la crescita Le larve sono state allevate in con-

del cefalo a fini di ripopolamento. Le future attività di ricerca saranno mirate alla massimizzazione ed al miglioramento della sostenibilità economica del processo. Considerato il tipo di attività, anche dal punto di vista dell’impatto socio-economico che riveste la produzione di bottarga nell’ambito delle comunità localizzate nei pressi degli stagni costieri, appare di notevole importanza la cooperazione con gli operatori del settore, pertanto, un adeguato perfezionamento della filiera di produzione, potrà esser ottenuto attraverso l’intensificazione delle collaborazioni tra mondo scientifico e portatori di interesse, principalmente rappresentati dalle cooperative di pescatori. Fonti bibliografiche:

Fig. 6 Bottarga di cefalo. Fonte: www.bottargadicabras.com te testate densità crescenti di uova, ottenendo un totale di circa 9 milioni di larve in 3 cicli di riproduzione.

Identificazione di diete e condizioni di allevamento per le larve e i giovanili di cefalo Del totale delle larve vitali ottenute, pari a circa 9 milioni, considerando le densità ottimali di allevamento, pari a 20-30 individui/L ed i volumi a diposizione, è stato messo a punto il protocollo operativo di trasferimento degli individui dalle vasche di schiusa a quelle di allevamento, attraverso il quale è stato possibile seminare in vasca circa 280.000 individui, garantendo incoraggianti tassi di sopravvivenza. Successivamente, tramite attività di ricerca ed analisi della letteratura a disposizione, sono state individuate le specie microalgali e zooplanctoniche adatte a soddisfare il fabbisogno nutrizionale delle larve e di conseguenza sono state definite sia la concentrazione dell’alimento vivo da mantenere in vasca, che il programma alimentare da seguire durante lo sviluppo degli individui (Gautier and Hussenot, 2005). Inoltre, l’attività sperimentale ha consentito di individuare il sistema operativo da adottare durante lo svi-

Zootecnia

dizioni controllate sino al raggiungimento della taglia adatta all’immissione in laguna ed in totale, nell’arco di tre cicli di riproduzione, sono stati prodotti un totale di 13.184 avannotti. Per quanto riguarda il tasso di sopravvivenza e di crescita degli avannotti, nell’ambito dei tre cicli, si sono riscontrate notevoli differenze, con risultati più promettenti ottenuti nel corso del secondo e del terzo ciclo di riproduzione. Una parte degli individui prodotti, circa 5150, sono stati immessi nella laguna di Cabras all’interno di un recinto di pre-adattamento e nei sette mesi successivi, questi hanno fatto riscontrare un tasso di crescita di 0.23 ± 0.07 mm/giorno, raggiungendo la taglia ottimale (circa 8 cm) per la definitiva immissione nell’ambiente lagunare. A tali dimensioni il tasso di sopravvivenza degli avannotti è considerato, in letteratura scientifica, paragonabile a quello degli individui selvatici (Leber et al., 1996). Questo progetto è stato elaborato a stretto contatto con le cooperative di pescato della zona di interesse ed i risultati ottenuti nel corso dell’attività sperimentale sono stati impiegati per definire i protocolli per l’induzione alla riproduzione e l’allevamento

- Manzoni P., Tepedino V., copyright Eurofishmarket (2008). GRANDE ENCICLOPEDIA ILLUSTRATA DEI PESCI. Guida al riconoscimento di oltre 600 specie presenti nelle acque d’Europa o importate sui mercati europei. Ordine: Perciformes; famiglia: Mugilidae. Cefalo (Mugil cephalus); - FAO. © 2006-2012. Cultured Aquatic Species Information Programme. Mugil cephalus. Cultured Aquatic Species Information Programme. Text by Saleh, M.A. In: FAO Fisheries and Aquaculture Department [online]. Rome. Updated 7 April 2006. [Cited 15 June 2012]. http://www.fao.org/fishery/ culturedspecies/Mugil_cephalus/en; - Cataudella S., Bronzi P. (2001). ACQUACOLTURA RESPONSABILE Verso le produzioni acquatiche del terzo millennio. Le specie allevate. Specie eurialine. Cefali. - Leber K.M., Arce S.M., Sterritt D.A.and Brennan N.P.(1996). Marine stock-enhancement potential in nursery habitats of striped mullet, Mugil cephalus, in Hawaii. Fish Bull. 94, 452–471. - Gautier D. and Hussenot J. (2005). Les mulets des mers d’Europe. Synthèse des connaissances sur des bases biologiques et de l’aquaculture, IFREMER.

Dr. Agronomo Lapo Nannucci lapo.nannucci@ gmail.com

Dr. Dario Vallainc Biologo PhD, ricercatore in acquacoltura, riproduzione ed allevamento organismi marini

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Il Kangal, il "carro armato" del mondo canino di

Federico Vinattieri

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appiamo tutti che esistono oltre 400 razze riconosciute dai vari Enti Nazionali (Kennel Club), di cui la maggior parte hanno poi ottenuto il tanto ambito riconoscimento ufficiale internazionale da parte della Federazione Cinologica Internazionale (F.C.I.). Nell'universo canino esistono anche tutta una serie di razze, selezionate da secoli, ma per le quali non si è mai raggiunto un riconoscimento ufficiale da parte dell'Ente di tutela "supremo", che le rende "RAZZA" a tutti gli effetti, non per questo però meno interessanti. Queste decine, se non centinaia, di antiche tipologie canine sparse in tutto il Mondo e selezionate, nella maggioranza dei casi, allo scopo di fungere da ausiliari dell'uomo o comunque per una qualche attitudine specifica, vanno conosciute ed apprezzate, poiché fanno parte del patrimonio storico di un determinato luogo e di un determinato popolo. E' il caso del "KANGAL", cane straordinario.

Sconosciuto da noi, patrimonio per altri! Quasi del tutto sconosciuto nel nostro Paese e in Europa, questo cane è considerato una sorta di ricchezza culturale in Turchia, sua patria natale. L'Ente Nazionale della Cinofilia italiana riconosce il "Pastore dell'Anatolia", che è una sorta di raggruppa-

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mento di tutti i simil-Kangal presenti in Turchia. In questo Paese vi è la tendenza a chiamare tutti i cani di

prattutto per i combattimenti, ancora molto in voga in quei Paesi: queste nuove "razze", ottenute da meticcia-

Alcuni soggetti di razza Kangal durante il loro lavoro con il gregge grande taglia con il nome "Kangal", ed è quindi usata pochissimo la denominazione di "Pastore dell'Anatolia". Paradossalmente ogni regione della Turchia vanta il proprio "Kangal" e abbiamo quindi un panorama cinofilo estremamente variegato in quel territorio. Principalmente, il Kangal altro non è che un grande cane da pastore, con misure e proporzioni ben definite, ma in Turchia da qualche anno stanno andando sempre più di moda tipologie di cani ancor più grossi del Kangal originario, che sono stati creati attraverso l'introduzione nella selezione di razze molossoidi pesanti, come i Mastiff o i Bullmastiff, i cui prodotti vengono usati, ahimé, so-

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menti mirati, stanno pertanto pian piano prendendo il sopravvento sul Kangal originale.

La storia e le origini Per comprendere al meglio questa razza canina bisogna inevitabilmente conoscerne la storia e le origini. Due sono le razze più antiche della Turchia: il "Karabash" (o Kangal), il cane a muso nero, e l' "Akbash", il cane a muso bianco. Quest'ultima fu importata in Turchia dalle tribù nomadi "Yoruk"; si tratta di una tipologia di cane più leggero del Kangal, caratterizzato da un pelo fitto, corto, di colore bianco su tutto il corpo, un cane molto forte ed aggressivo e per questo spesso impiegato nella guar-

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da delle abitazioni. Il Karabash, invece, differisce dall'Akbash soprattutto per la sua mole più imponente. Si tratta di una razza molto antica, che prende il suo nome da un’omonima famiglia turca ma anche dalla città di "Kangala", situata nella Provincia di Sivas. Tutti gli allevatori turchi si vantano di possedere il ceppo autentico di Kangal e, di conseguenza, il più potente, di maggior resistenza fisica. Vista la proverbiale dedizione ed interesse dimostrata da tutti gli allevatori turchi per questa tipologia di cane, lo Stato della Turchia lo ha recentemente decretato "Patrimonio Nazionale"; questo decreto ha dato un grande aiuto per il mantenimento della purezza della razza, incentivando gli allevatori a preservarne le caratteristiche tipiche, come l'aspetto caratteriale. Tutt'oggi questo particolare cane è gelosamente selezionato in Turchia, soprattutto dai pastori e ancora molto utilizzato per la guardia alle greggi. Nella sua patria la selezione ovviamente non viene quasi mai svolta a fini estetici, ma principalmente per l’attitudine lavorativa, quindi la scelta si basa sulla resistenza e sulla predisposizione alla guardia, selezione notevolmente svolta anche dalla natura; solo i più forti sopravvivono e possono quindi trasmettere il proprio patrimonio genetico. Possiamo dire, indubbiamente, che questa "spartana" valutazione dei soggetti abbia portato la razza ad avere incredibili peculiarità. Dopo aver letto questa descrizione si può essere indotti a credere che il Kangal sia una sorta di furia assassina inarrestabile... non è così, tutto l'opposto! Nonostante questa razza abbia mantenuto nei decenni i suoi eccellenti attributi di cane da guardiania, non dimostra mai aggressività ingiustificata, si tratta invece di soggetti molto intelligenti e mai inutilmente morsicatori. Questi possono vivere anche a contatto con la famiglia, possono divenire quindi anche semplici cani di casa, ma è indispensabile per loro avere a disposizione del terreno o comunque uno spazio adeguato, poiché esigono molto movimento

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quotidiano ed è necessario sempre e comunque dar loro l'illusione della libertà. Al di fuori della Turchia, la razza è rimasta per tanti anni del tutto sconosciuta: il "mondo cinofilo" non era a conoscenza della sua esistenza, fino all'anno 1965, quando in Gran Bretagna venne fondato il primo Club di razza e fu redatto un primo standard ufficiale. Oggi addirittura sono presenti pochissimi allevamenti anche in Italia.

Uno standard di razza molto preciso Come ogni razza, anche il Kangal deve mantenere non solo le sue particolari caratteristiche comportamentali, ma anche un fenotipo ben preciso, che lo rende unico e perfettamente distinguibile da ogni altro cane da pastore. Vediamo quindi nello specifico il suo aspetto, vagliando le varie voci del suo Standard di razza: Aspetto generale: il Kangal è un cane da guardia grande e forte con

canna nasale ed il muso; il colore del mantello varia dal sabbia al grigio opaco; il corto e fitto doppio mantello e la coda, portata a curvatura aperta sulla schiena a formare un cerchio quando il cane è in allerta, sono caratteristiche tipiche della razza. Temperamento e comportamento: il Kangal è un cane da guardia. Istintivamente è portato alla protezione delle greggi e dei branchi di capre, più votato alla protezione che alla conduzione. E’ un cane coraggioso, veloce ed agile che avvisa in caso di pericolo e persegue i predatori quando è necessario. Mantiene una relazione protettiva ed equilibrata con gli animali del suo gregge, ma preferisce agire indipendentemente dal conduttore ed essere libero di proteggere il gregge. Possiede forti capacità di lavoro per istinto ed è molto amorevole e leale verso il suo padrone. E’ un cane distaccato dagli estranei ma, ciononostante, non denota aggressività ingiustificata. Testa e cranio: il capo mesocefalico è grande ma ben proporzionato

Un Kangal durante una fase di attacco un portamento che mette soggezione e con proporzioni ben bilanciate. La testa è grande; le orecchie sono di media taglia, nere e pendenti. Una mascherina di color nero copre la

con la struttura corporea generale. Il rapporto tra la proporzione del muso (dallo stop fino alla punta del naso) e la lunghezza della testa (dall’occipite fino alla punta del naso) è com-

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preso tra 1:2.1 e 1:2.5 e il muso e la fronte sono paralleli ed il cranio può mostrare la zona occipitale leggermente rialzata. Mentre la testa del Kangal maschio assomiglia a quella di un leone, quella della femmina è al confronto più stretta e più elegan-

varia dal miele al marrone, mentre il bianco della sclera non deve essere visibile. Difetti: occhi grandi e di struttura arrotondata, palpebre discese, colore giallo acceso. Muso e canna nasale: il naso è prominente con grandi narici. Quando la bocca è serrata e si osserva di lato, la canna nasale vista di profilo è rettangolare. Il muso è completamente nero, incluso l’arco mandibolare inferiore. Può essere presente una macchia nera sulla guancia. La struttura della bocca è forte, mandibola compresa, e i denti sono ben inseriti nella parte superiore ed inferiore della bocca e la chiusura è a forbice o a tenaglia. Le labbra di color nero scendono abbastanza da coprire l’arcata inferiore, ma sono strette abbastanza da non causare perdite di saliva. Il colore della lingua è rosa. Difetti: labbra troppo calanti, canna nasale lunga e stretta. Orecchie: le orecchie sono di media Un soggetto di razza Kangal, dell'Allevamento "Kangal taglia, calanti e di Italia" di Emanuele Manghi forma triangolare, te. Le orecchie sono ben separate e arrotondate alle estremità, collocate nere ed una caratteristica masche- nell’angolo esterno della testa e porina nera copre la canna nasale ed sizionate poco più in alto del livello il muso. degli occhi. Il bordo anteriore dell’oDifetti: dolicocefalismo (testa stret- recchio può essere misurato in un ta ed allungata), brachiocefalismo punto vicino alla guancia e quando (muso corto) o testa estremamente viene tirato in avanti deve coprire grande. l’occhio. Il colore delle orecchie è Occhi: gli occhi hanno un’espres- nero e si integra alla mascherina sione intelligente ed affidabile. In facciale. proporzione con la testa, gli occhi Difetti: orecchie dritte; taglia delle sono di grandezza media, ovali e orecchie troppo grande o troppo picben inseriti in profondità. I globi ocu- cola. lari sono neri ed il colore degli occhi Il collo: il collo è appena più corto

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della lunghezza della testa, spesso, ben muscolato, appena inclinato nell’innesto con la testa. E’ presente una leggera giogaia, specialmente nei maschi. Difetti: troppo corto o troppo lungo per le proporzioni. Collo debole. Struttura corporea: il corpo è ben proporzionato e forte. La linea della schiena scorre morbida dalle spalle, parallela al suolo, e termina sulla coda lievemente arcuata. Il petto si estende in basso fino ai gomiti; le costole sono importanti; l’addome è lievemente tirato in dentro; i lombi sono ben muscolati; la spalla è di forte costruzione e ben muscolata ed alla stessa altezza della groppa. Le varie parti del corpo sono salde, ben muscolate e senza grasso. La proporzione fra l’altezza della spalla e la lunghezza del corpo è 1:1.2, proporzione che dà al cane un aspetto rettangolare. La proporzione tra l’ampiezza del petto (larghezza tra le spalle) e la profondità del petto (lunghezza tra il garrese e lo sterno) è 1:1.5. Difetti: petto stretto e debole o corpo a forma cilindrica; estrema sottigliezza. Arti: le zampe anteriori e quelle posteriori sono di ossatura grande, ben muscolate, forti e muovono in stretta coordinazione con il resto del corpo. Se osservate di fronte, le zampe anteriori sono parallele e perpendicolari al suolo; i gomiti sono attaccati al petto. Se si osserva dal posteriore, i garretti sono paralleli e perpendicolari al suolo. Le zampe posteriori sono forti con una lieve angolazione. Difetti: Zampe deboli o poco muscolate; inclinazione anteriore o posteriore delle ginocchia; garretti inclinati all’interno o all’esterno. I piedi sono larghi, forti e ben arcuati. Le unghie sono corte e smussate. Il colore delle unghie può essere bianco o nero. I polpastrelli sono ben imbottiti, di colore scuro e duri. Speroni posteriori possono essere presenti in alcuni individui. Tuttavia, questo non è un elemento indispensabile. Difetti: piedi stretti o allargati. Coda: la coda è ripiegata sulla groppa. Il pelo sulla coda è più fitto di quello del corpo. In fase rilassata la coda è portata verso il basso con la punta leggermente inclinata verso

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l’alto. Quando la coda è curvata è portata in linea con la colonna vertebrale senza cadere verso nessuna delle due anche. Difetti: coda con pelo troppo lungo o

forme del mantello. Difetti: mancanza della mascherina nera; marcature bianche sul petto sulle zampe che si estendono sul colore principale del mantello.

comportamento timido o pauroso; incapacità di stare con il gregge; estrema ed incontrollata aggressività; assenza della mascherina nera; marcatura bianche sul muso; occhi

Un esemplare di Kangal con il suo proprietario troppo sottile; curvatura insufficiente; coda dritta. Mantello: il Kangal è un cane di pelo corto. Ha una struttura del mantello a doppio livello formato da un livello corto ed uno lungo. Il pelo del livello più esterno è più lungo e ruvido. Il sottopelo è soffice e fitto. Il pelo sul collo e sulle spalle è più lungo di quello nelle altre zone del corpo. Il pelo sul muso, testa ed orecchie è molto corto. Difetti: una struttura di mantello troppo corto o troppo lungo; pelo ondulato. Colore: le tonalità grigio pallido, giallo pallido, marrone pallido sono in standard. Marcature bianche possono essere accettate soltanto sui piedi, fino alle ginocchia e sul petto. E’ caratteristica la mascherina nera e le orecchie nere. A parte queste marcature, è richiesto un colore uni-

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Movimento: il Kangal ha un passo calmo e sicuro che suggerisce forza intrinseca ed agilità. La schiena resta dritta quando cammina e a bassa velocità può essere osservato di lato che le zampe anteriori e quelle posteriori si muovono parallele le une alle altre (passo regolare). Quando trotta le zampe opposte in diagonale si muovono in parallelo. Al passo o al trotto, la testa ed il collo sono tenuti al livello della linea della schiena. La falcata è di moderata ampiezza, senza passi brevi o di portata troppo ampia. Peso: 50/70 kg. maschi – 40/55 kg. femmine. Altezza: 70/85 cm. maschi – 65/75 cm. femmine. Difetti da squalifica: criptorchidismo unilaterale o bilaterale; tartufo marrone; sindrome di Albinismo nefasto (inseguitore, mordace, uccisore);

blu, verdi o neri; prognatismo o enognatismo; coda non curvata in allerta; colori differenti da quelli stabiliti dallo standard; colore del mantello multicolore o striato; marcature su parti del corpo che non siano sotto le ginocchia e il torace. Considero personalmente il Kangal un cane straordinario, con eccezionali capacità e incredibile forza fisica; non a caso viene definito con la fatidica frase "the biggest and most powerful guard dog in the world". Allevamento di Fossombrone http://www.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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Il Diamante di Gould Un vero "gioiello" del mondo alato di

Federico Vinattieri

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e per assurdo dovesse essere fatto un sondaggio su quale sia l'uccello di piccola taglia più elegante e più bello in assoluto, certamente il Diamante di Gould rientrerebbe nei primi posti della classifica. Si tratta di una delle più belle creature del mondo animale. Un uccellino tanto piccolo quanto incredibilmente elegante, che affascina per i suoi accostamenti cromatici, colori che solo madre natura poteva combinare mantenendo una così gradevole visione d'insieme. Tanti anni fa, il grande allevatore di canarini Dr. Dario Galardi, colui che importò in Italia canarini inglesi come il "Crest" e fu promotore di tante altre razze come il "Gloster", ma da sempre anche appassionato di animali esotici, durante una visita a casa mia disse: - "il Diamante di Gould è certamente uno degli uccelli più belli che esistano e tutti dovrebbero averne in allevamento almeno una coppia per ammirarne sempre la bellezza". All'epoca io possedevo diverse varietà di uccelli esotici, tra cui anche qualche coppia di Diamanti di Gould ancestrali e mutati. Una volta questi uccellini costavano molto cari e non era così semplici reperire esemplari gradevoli e in buone condizioni di salute, ma oggi risulta essere una delle specie maggiormente allevate dagli appassionati di volatili esotici.

L’origine Parleremo ora della sua "origine" e di come sia arrivato fino qui, nel nostro Paese, dalla lontana Australia. Il nome "Gould" gli venne attribuito nell'anno 1839, quando la specie

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fu scoperta dall'ormai leggendario "pittore-ornitologo" Mr. John Gould, autore di moltissimi stupendi disegni di uccelli, raccolti e pubblicati poi in diversi testi; Gould si trasferì in Australia dal 1938 al 1840, e si dice che proprio alla moglie Elizabeth volle dedicare la scoperta di questo bel-

denominata “a petto viola", nelle sue tre varianti per quel che riguarda il colore della testa: "testa rossa", "testa nera" e "testa gialla". A partire da queste, l'uomo ha poi individuato e selezionato molte mutazioni di colore nel corso degli anni, tanti differenti pigmenti, combinati anche tra di

Diamanti di Gould ancestrali in cattività - fonte immagine: aviculture.co lissimo uccellino: purtroppo lei morì durante il viaggio di ritorno dall'Australia alla Gran Bretagna. Pochi, infatti, sanno che il vero nome con cui venne classificato questo uccello è "Lady Gouldian Finch", ossia "Diamante della Signora Gould", poi abbreviato nel nome che tutti conosciamo. I primi avvistamenti furono documentati diversi anni prima dell'arrivo in Australia di John Gould, infatti esistono testi e diari nei quali vi è riportato di catture di questi uccellini da parte dei colonizzatori francesi nel 1800. La forma ancestrale del Diamante del Gould che vive in natura è quella

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loro, frutto di una selezione forzata svolta in cattività.

Habitat e biologia Il "Gould" vive tutt'oggi anche in libertà, ed il suo habitat naturale corrisponde a tutta la zona nord dell'Australia, dalla penisola di Capo York ad ovest fino alla regione di Kimberley; sono zone caratterizzate da ambienti molti caldi come savane e praterie, che presentano un clima secco per quasi tutto l'anno e le cui temperature possono superare tranquillamente i 50° C. Si tratta di un uccello granivoro, che si nutre quindi principalmente di pic-

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coli semi, come ad esempio lo spinifex ed il sorgo. Naturalmente la riproduzione avviene durante la primavera australe, ossia in un periodo che equivale al nostro inverno tra i mesi di novembre e febbraio, lasso di tempo che coincide anche con la famigerata "stagione delle piogge" (in cui l'acqua ed il cibo si trovano in abbondanza e sono fondamentali per provvedere al nutrimento ed alla crescita della prole di tutti gli uccelli). Una vera e propria curiosità è la particolare predisposizione dei genitori

è sempre problematico. Si tratta di un uccello abbastanza robusto, ma che io definisco ironicamente "meteopatico", poiché per il loro benessere, nel locale di allevamento, deve essere mantenuta una determinata temperatura tutto l'anno (18-21 °C). Un freddo eccessivo o un semplice colpo di vento può essere addirittura letale. Difficilmente questi uccelli in gabbia allevano in purezza, pertanto per la fase di riproduzione molti allevatori fanno uso di "balie", alle quali fanno covare le uova deposte dai Gould:

ra armoniosamente affusolata, con corpo allungato e nello stesso tempo non esile. La testa ed il corpo sono robusti e la forma va ad assottigliarsi procedendo verso la coda. Il petto è robusto e ben strutturato, sia in larghezza che in altezza, e questo comporta un buon disegno dello stesso sia nel colore viola che nella mutazione a petto bianco. Il dorso segue una linea discendente e la coda, lunga 3 cm con le due timoniere centrali allungate, diventa un naturale proseguimento dello stesso. Il disegno: il disegno del Diamante

Nidiacei di Diamante di Gould, visibili le placche lumonose nella bocca - fonte immagine: planetaviary.com ad alimentare la prole al buio completo; sono soliti costruire il proprio nido nelle cavità buie degli alberi e proprio per questo motivo i nidiacei hanno sviluppato "placche fosforescenti" ai lati della bocca, che sembrano essere dei piccoli punti luminosi che fungono da guida visiva per l'imbecco nell'oscurità del nido. Il Diamante di Gould, quindi, vive allo stato naturale in delle condizioni ambientali molto diverse dal clima Mediterraneo al quale siamo abituati qui in Italia e presenta delle particolari abitudini alimentari e comportamentali. Ma allora come è possibile allevare questo piccolo uccello in gabbia o in voliera nel nostro Paese? Non è così facile infatti. Nonostante sia diventato, come accennato, una delle specie più comuni e più allevate dopo il Diamante Mandarino ed il Passero del Giappone, il suo allevamento in cattività

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la specie maggiormente utilizzata a questo scopo è certamente il Passero del Giappone.

Un pò di anatomia Vediamo ora di descrivere l'aspetto e le varie caratteristiche anatomiche di questo piccolo "pennuto", riportando le varie voci della sua "scheda tecnica" redatta dalla Commissione Tecnica che fornisce le direttive a quel settore ornitofilo che comprende il grandissimo raggruppamento denominato "I.E.I.", acronimo di tre grandi gruppi di specie e varietà, “Indigeni-Esotici-Ibridi”. La scheda tecnica in ornitologia è l'equivalente di uno Standard ufficiale di razza. Ecco qui la descrizione dettagliata del "Chloebia gouldiae", nome scientifico del nostro "Diamante di Gould": La struttura: il Diamante di Gould è un uccello che presenta una struttu-

di Gould è molto caratteristico e comprende, come abbiamo accennato prima, l’ampio petto, il disegno della maschera della testa, il filetto circondante della maschera ed il collarino che si addiziona al filetto formando un insieme assai preciso, armonioso e distinto. Il filetto nell’ancestrale è sempre nero e si espande nella gola formando una macchia nera che si allunga verso il basso dalla valva inferiore, ed è racchiusa appunto dal filetto circondante tutta la maschera. Colorazione: il colore generale del Diamante di Gould è composto da melanine (eumelanina e feomelanina) e da lipocromi (luteina e astaxantina). Da questi ultimi vengono fuori sia i colori della testa, rossa e gialla, che il colore del ventre, oltre al verde, colore caratteristico dell’uccello ancestrale. Ancora, il Diamante di Gould presenta delle piume di struttura a livello speculare che

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determinando il fenomeno della ri- del disegno del petto. Colore: il co- animale? E' la voglia innata dell'allefrazione e determinano la comparsa lore deve essere sempre intenso e vatore di scoprire, di ideare e di pordel colore viola del petto e, insieme mai slavato o non saturo a prescin- tare avanti nel tempo un qualcosa alla mancanza del lipocromo giallo, dere anche dalle mutazioni riduttive, di “inedito”, come fosse una sorta di l’estrinsecazione del blu. L’uccello è Colore del maschere rosso e giallo nuovo "livello", un territorio inesplonel complesso verde con petto viola, ventre giallo, sopraccoda e copritrici caudali blu. La maschera della testa può essere, a seconda del tipo, rossa, nera (questo colore è recessivo rispetto al rosso ma sempre legato al sesso) o gialla. La mutazione testa gialla è recessiva rispetto alle altre due forme ma, per potersi evidenziare fenotipicamente, il Gould deve avere almeno un cromosoma con il gene per il rosso, altrimenti la maschera gialla non sarà Alcuni Diamante di Gould allo stato naturale - fonte immagine: planetaviary.com visibile ed avremo così una quarta forma: il testa nera a becco giallo. Quest’ultimo uccello è quanto più brillante possibile e non rato che, come succede sempre in genotipicamente un testa gialla, ma troppo inquinato di feo o di nero. Il questi casi, trova subito, soprattutto fenotipicamente è invece un testa giallo del ventre deve essere quanto nei neofiti, dei sostenitori che rendonera a becco giallo e non rosso. più puro possibile. Il verde del dorso no questa novità subito popolare e Il piumaggio: nel Diamante di non deve presentare riflessi blua- attraente. Ed ecco che saltano fuoGould il piumaggio deve essere par- stri. Il bianco del petto deve essere ri diverse varietà che differiscono ticolarmente serico, liscio, aderente più immacolato, senza riflessi rosa molto dalla forma ancestrale già esie completo. Le due timoniere centra- (feo) o azzurrastri (eu). Nelle muta- stente in natura. li allungate devono essere sempre zioni chiare, pastello e pastello blu, Una mutazione difficilmente può presenti. prestare particolare attenzione a fissarsi allo stato naturale, in quanIl portamento: il Diamante di Gould macchie nel dorso. In questi ultimi si to un animale che mostra caratteriè uccello che raramente si mostra esige una buona uniformità di colore stiche visibilmente divergenti dalla “selvatico” o agitato nella gabbia, nel dorso e non scalature o marmo- normalità, viene subito allontanato presentando di natura un’indole cal- rizzazioni dello stesso. Piumaggio: o viene automaticamente scartato ma e tranquilla. Bisogna però che lo non aderente, non serico e non bril- dalla riproduzione, proprio perché stesso non sia esageratamente apa- lante, piumaggio giovanile. Porta- considerato “diverso” e quindi antico e statico indice, a volte, anche mento: nervoso e selvatico, ma an- che potenzialmente pericoloso. In di salute precaria. Il suo posiziona- che troppo statico, non buona tenuta cattività ci siamo permessi di fissare mento sul posatoio è generalmente del posatoio e posizione abbassata delle mutazioni piegando la natura al più dritto della maggioranza degli sullo stesso. Condizioni generali: nostro volere, ossia forzando accopaltri esotici aggirandosi sui 50 gradi. penne spezzate, piumaggio sporco, piamenti, anche in stretta consanLe condizioni generali: zampe e becco e zampe con scaglie, anellino guineità, che allo stato naturale non becco devono presentarsi pulite e sporco. sarebbero mai avvenuti, in modo da non scagliate, il piumaggio non deve Ora che abbiamo riportato l'elenco e arrivare in poche generazioni a renessere sporco o spezzato e l’uccello le descrizioni delle varie voci del suo dere saldi determinati caratteri genon deve presentare difetti irreversi- “standard”, possiamo parlare delle netici. bili. vere "eccezioni" che l'uomo è riu- Vediamo quali sono le principali muscito a selezionare, ossia mutazioni tazioni del D. di Gould, riportando Quali sono i principali che sono state fissate nel corso degli quanto descritto anche nella sua difetti? anni allo scopo di creare linee gene- scheda tecnica: Struttura: taglia piccola, corpo esile tiche distinte, per poter avere nella Mutazione "Petto Bianco": la mue troppo allungato, difformità tra la medesima specie più varietà di co- tazione provoca una riduzione della testa piccola e sproporzionata su un lorazioni, quindi alternative cromati- feomelanina che si evidenzia parcorpo grande. Disegno: irregolarità che alla classica livrea ancestrale. ticolarmente nel petto che diventa nei disegni caratteristici, in particola- Perché l'esigenza di ricercare al- completamente bianco candido e re petto, filetto, collarino. Ampiezza ternative ad un così già splendido nella testa, che nel testa rossa e

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gialla diventa di colore più chiaro e brillante che nell’ancestrale. Anche il ventre, per la mancanza della feo, diventa di un giallo molto più limpido e pulito. Mutazione "Pastello Singolo Fattore: mutazione a carattere dominante sul cromosoma sessuale e quindi ad eredità legata al sesso. Questa riduce le melanine e quindi tutti i disegni neri del Gould diventano grigio scuro ed il verde diventa più chiaro e meno brillante. Le femmine avendo un solo cromosoma

mutazioni principali, si ha quindi: - "Petto Bianco Pastello Singolo Fattore": la mutazione pastello agendo su un solo fattore dovrebbe mostrare il soggetto verde come il pastello singolo fattore ma la riduzione ulteriore della feo dovuta alla mutazione petto bianco fa si che il soggetto si presenti di colore giallo. Il fatto che la riduzione eumelanica interessi solo per circa il 50% fa si che il collarino azzurro rimanga leggermente ridotto d’intensità ma sempre evidente come il colore del sopraccoda. - "Petto Bianco Pastello": la mutazione pastello in doppia dose nei maschi e singola nelle femmine, fa si che la stessa agisca totalmente con una riduzione eumelanica del 70-80%. Interessamento anche della riduzione feomelanica (petto bianco). Ciò fa sì che il soggetto si presenti giallo con collarino e sottogola e copritrici caudali biancastre e non blu. - "Blu Petto Bianco": si tratta di un blu con la riduzione feomelanica che gli fa diventare il petto da viola a bianco. L’intensità del blu è simile ad un blu Esemplare di Diamante di Gould mutato normale ma con, a volta, attivo per la mutazione (X) ne subi- una purezza maggiore dovuta alla scono l’effetto globale e non parziale riduzione della feo. e quindi non sono verdi bensì gialle. - "Blu Pastello Singolo Fattore": la Mutazione "Pastello": mutazione a riduzione eumelanica fa si che il cocarattere dominante sul cromosoma lore dell’uccello cambi da blu in blu sessuale e quindi ad eredità legata grigiastro. Il petto resta viola. al sesso. Maggiore riduzione delle - "Blu Pastello": si tratta di una rimelanine e quindi tutti i disegni neri duzione delle eumelanine ma predel Gould diventano grigio chiaro senza delle feo. Inconfondibile la ed il verde diventa giallo-verdastro. presenza del petto viola. Le femmine avendo un solo cromo- - "Blu Pastello Singolo Fattore soma mutato possono essere solo Petto Bianco": la combinazione gialle. delle due mutazioni di riduzione euMutazione "Blu": questa mutazio- melanica e feomelanica fa si che il ne provoca l’eliminazione dei lipo- colore sia un blu biancastro-grigio cromi e quindi il verde (mancante del ben più chiaro di quello della combigiallo) diventa blu. Il giallo del ven- nazione precedente. tre diventa bianco e le teste (rossa - "Blu Pastello Petto Bianco": la e gialla) diventano crema. Nel testa accentuata riduzione eumelaninica nera il colore resta invariato. di entrambi i cromosomi nei maschi Si hanno poi quelli che vengono e del solo cromosoma della femmichiamati "effetti delle combinazioni na unito alla riduzione per il petto di mutazioni", ossia tutte le combi- bianco fa sì che il Gould si presenti nazioni possibili tra queste quattro in una tinta di colore blu quasi bian-

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co con collarino, copritrici caudali e gola di tinta azzurro chiarissimo quasi bianco, uguali. Ogni anno nuove mutazioni “spuntano fuori” nei vari allevamenti, ma non tutte vengono poi selezionate e successivamente standardizzate, alcune si perdono, altre verranno prese in considerazione e sottoposte alla Commissione Tecnica per il riconoscimento. Questo "campo" è pressoché infinito, e solo grazie a gli allevatori si ha la possibilità di ammirare le tante varietà che oggi abbiamo modo di apprezzare alle varie manifestazioni ornitologiche nazionali ed internazionali. La cattura e l'esportazione di questo magnifico animale, venne finalmente vietata nel 1982, e negli anni '90 la specie venne aggiunta giustamente nell'elenco dello I.U.C.N. (International Union for Conservation of Nature) col rango di "minacciata in natura", poiché da censimenti erano rimasti circa 2500 esemplari allo stato libero, concentrati in piccole colonie; una specie sull'orlo dell'estinzione quindi. Da quando il provvedimento anti-bracconaggio è entrato in vigore in Australia la popolazione selvatica ha mostrato segni di ripresa. Oggi la specie si sta pian piano ristabilendo, anche se resta sempre a rischio. L'allevamento in cattività, se svolto con criterio e dedizione, può aiutare il mantenimento della specie e far sì che questo spettacolo vivente che la natura ci ha regalato possa far parte anche del patrimonio ornitofilo italiano. Anche per chi non si ritiene un appassionato di uccelli esotici, non può che restare attonito di fronte ad un Diamante di Gould, che nella sua livrea ancestrale e nelle sue varianti, resta un uccello meraviglioso, una goduria per gli occhi, talmente bello che attira ogni anno sempre più aspiranti allevatori. Allevamento di Fossombrone http://ornitologia.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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Anche la crosta fa il formaggio Breve guida alle diversità dei formaggi di

Cesare Ribolzi e Elena Sesona

G Agroalimentare italiano

irando tra i banchi dei formaggi nei mercati, succede spesso di vedere prodotti molto diversi tra loro. Variano per la forma, per la pezzatura, per la crosta, il colore, il profumo, l’aspetto interno, la consistenza ed il sapore. Queste differenze sono evidenti nonostante siano tutti prodotti a partire dalla stessa materia prima: “il latte”. Alcuni formaggi presentano delle somiglianze, delle note comuni che li rendono simili, ma altri sono molto diversi tra loro. Con questo articolo cercheremo di comprendere i motivi di queste differenze. Tra i moltissimi formaggi che possiamo prendere in considerazione, ne abbiamo scelti dieci che hanno caratteristiche molto diverse tra loro. I dati sono stati raccolti consultando testi specifici, siti internet, esperienze e conoscenze personali oppure contattando direttamente i produttori dei formaggi. I formaggi presi in considerazione, sono tutti D.O.P. in modo che potessimo avere a disposizione alcuni dati generali direttamente dai consorzi di tutela dei prodotti. Ma per un maggiore dettaglio e una conoscenza più specifica di ogni prodotto è stato molto utile parlare direttamente con i produttori. I dieci formaggi presi in considerazione sono: • Bettelmatt • Pecorino Sardo • Fontina Valdostana • Parmigiano Reggiano • Castelmagno • Puzzone di Moena • Taleggio • Emmental Svizzero

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• Gorgonzola • Camembert Esaminando tutti i dati disponibili, abbiamo trovato alcune affinità ed alcune grandi differenze. Alcuni dei parametri si sono rivelati di piccola importanza ed altri si sono risultati essere fondamentali per la produzione del formaggio. Entriamo ora nel dettaglio di quanto abbiamo riscontrato, valutando i parametri presi in considerazione. La razza principalmente sfruttata per la produzione della materia prima, pare non essere di fondamentale importanza per tutti i formaggi, in quanto talora nei disciplinari di produzione non viene nemmeno nominata. Si è riscontrato che per i formaggi prodotti in montagna viene trasformato latte prodotto da animali di razza autoctona o da razze che vengono allevate in ambiente montano, tipicamente la Bruna alpina e suoi incroci. Il pascolo del bestiame è inteso nei periodi nei quali sia possibile. In particolare possiamo intenderlo stagionale/estivo negli ambienti montani ed annuale in Sardegna per quanto riguarda gli ovini dal cui latte si produce il Pecorino Sardo. Questo parametro si è rivelato di grande importanza per il conferimento di aromi e sapori al formag-

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gio, derivanti direttamente dalle erbe e dai fiori di cui gli animali si nutrono sui prati o nei periodi invernali, consumano sotto forma di fieno. Le specie presenti nei pascoli sono caratterizzanti anche dello stesso tipo di prodotto, ottenuto in zone diverse della stessa regione o ad altezze diverse dallo stesso comune. La qualità del formaggio è fortemente legata alla natura del pascolo e del suo fieno e delle acque alle quali,

al pascolo, gli animali si abbeverano. Stagionatura naturale: per la produzione di alcuni formaggi viene adottata ancora oggi (es. Roquefort, Fontina, formaggio di fossa, Taleggio, formaggi della Val Chiavenna etc) mentre per molti altri, le condizioni microclimatiche vengono riprodotte artificialmente così da permettere di ottenere risultati simili. Parametri fisici del latte: i valori relativi alle percentuali di grasso e proteine del latte, devono contenuti

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in un intervallo abbastanza ristretto così da non diventare fattori critici. Caldaia: il materiale con cui è costruita la caldaia è generalmente

acciaio inox. Talvolta può essere utilizzato l'alluminio. Il rame funge da catalizzatore nella produzione di formaggi duri a pasta cotta. Caglio: per i formaggi esaminati, il caglio utilizzato è sempre di origine animale, principalmente bovino e liquido. Viene usato caglio in pasta per le produzioni piccanti o pecorini e caglio in polvere per produrre formaggi duri. Non rappresenta un parametro critico o di particolare importanza per la tipizzazione del prodotto. Trattamento termico: il fatto che per la maggior parte dei nostri formaggi, il latte non abbia subito un

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trattamento termico è già di per sé una nota comune a prodotti così diversi tra loro e non lo è per caso. I caratteri organolettici dei prodotti, profumi e gusto, ma anche l'aspetto della crosta o della pasta all'interno del formaggio sono fortemente legati alla microflora del latte dell'ambiente nel quale nel quale viene prodotto il latte ed il formaggio. Non è casuale il fatto che ognuno dei formaggi considerati, venga prodotto, come da disciplinare, in una zona ristretta, con latte prodotto solo in quella zona. I prodotti di qualità secondo questo punto di vista, si possono ritrovare spesso anche in caseifici di dimensioni medio-piccole. Una grande azienda, che produce quantità importanti di formaggio, ha la necessità strutturale di approvvigionamenti di grandi quantità di latte per far funzionare i propri grandi impianti, per cui la materia prima deve necessariamente essere raccolta in zone più ampie e più lontane dal luogo di origine. Si arriva così a trasformare un latte di massa che essendo costituito da latti diversi tra loro, non ha una propria identità. Starter: l'argomento “starter” è fortemente legato a quanto appena

esposto. Parecchi starter per i prodotti considerati, sono lattoinnesti o sieroinnesti o scottainnesti, cioè soluzioni concentrate di batteri nativi del latte e dell'ambiente. Questo significa che svolgono la funzione di rafforzare e indirizzare la produzione e la lavorazione verso un prodotto che è molto legato e rappresentativo delle caratteristiche dell'ambiente. Caratteristiche che, a maturazione, saranno apprezzate dal consumatore per gli aromi, profumi e sapori unici. Raffreddamento del latte: questa voce della tabella può essere interpretata in diversi modi che vanno dall'esigenza di limitare la crescita microbica senza annullarla, limitare

lo sviluppo di specie psicrotrofe, di mantenere comunque una presenza massiccia di flora lattica autoctona. In particolare, per produzioni regolate da disciplinari, vengono ammessi limitati raffreddamenti o sono addirittura vietati, nelle produzioni dei formaggi di montagna. Ambiente e località: entrambi i fattori possono essere molto variabiline sono indicativi del fatto che ogni ambiente ha potenzialmente la capacità di donare qualche carattere particolare al prodotto. Classe: con il termine classe di formaggio intendiamo la sua classificazione, che può essere: molle, semiduro e duro. Non ci si è resa evidente una relazione diretta tra classe del formaggio e qualità del prodotto. Ci può essere qualità in tutte le diverse classi.

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Caratteristiche peculiari: sono i fattori tipicizzanti del prodotto. Principalmente si è rivelata essere la diversità floristica che caratterizza un pascolo, i cui aromi ma anche colori si trasmettono con note positive al formaggio. Importanti è anche il ruolo svolto dalla microflora delle croste, lo sviluppo di croste all'inter-

no del formaggio e l'azione lipolitica e proteolitica degli innesti. Particolari generi di batteri, sono responsabili delle formazioni di occhiature sostanze aromatiche uniche, come nel caso dell'Emmentaler. Grasso nel latte: abbiamo riscontrato che tra i formaggi considerati alcuni sono stati riprodotti con latte intero, altri con latte standardizzato o parzialmente scremato, altri indipendentemente prodotti con latte intero o in parte scremato, la percentuale di grasso nel latte quindi può essere diversa a seconda del formaggio prodotto e non rappresenta un parametro o una condizione necessaria, generalizzando, per produrre formaggi “con una marcia in più”. Cottura della cagliata: la presenza di questa procedura nella produzione di un formaggio, è costante per quanto riguarda i prodotti destinati ad una lunga stagionatura. Siano essi prodotti in ambiate montano o in pianura. Rappresenta una pratica che da un lato favorisce la crescita dei batteri lattici termofili e dall'altro

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aiuta lo spurgo del siero nella fase si asciugatura in caldaia. E' quindi un'operazione importante per la maturazione e formazione dei caratteri organolettici del formaggio, durante un lungo periodo di stagionatura. Salatura: è stato rilevato che la salatura può essere effettuata in tutti i modi possibili, in immersione a salamoia, a secco o per impastamento o combinazione delle diverse modalità. L’utilizzo di una procedura piuttosto che un'altra, sembra essere dettata più dalla tradizione che da reali esigenze, anche perché alcuni dei formaggi possono essere salati indifferentemente in un modo o nell'altro. Stufatura: la fase di stufatura è sempre presente in tutti i formaggi della nostra indagine e in generale in tutti i formaggi. Non è quindi una caratteristica peculiare solo di questo piccolo gruppo di prodotti, ma una necessità comune ad ogni formaggio. Pressatura: si tratta di una pratica effettuata sui formaggi per favorire lo sgrondo del siero e la coesione della cagliata. E' un'operazione sempre presente quando le cagliate vengono sottoposte a cottura. E' una pratica a completamento della cottura e necessarie al raggiungimento di un buon risultato finale. Occhiatura: la presenza di occhiatura è uno dei parametri più importanti per il giudizio della qualità dei formaggi considerati. E' una diretta conseguenza della presenza nel latte di specifici batteri che

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sono capaci di produrre gas e che insieme ad una corretta tessitura della pasta, in termini di elasticità, consente la formazione di bolle di diverse dimensioni. Per alcuni formaggi, la sua presenza è fondamentale e richiesta anche dai disciplinari di produzione. La presenza di occhi è spesso associata a sapori ed aromi tipici del formaggio. L'Emmentaler è uno di questi, così particolarmente evidente. Ai grossi buchi è associato il tipico odore e sapore dolciastro del formaggio, sua principale e necessaria caratteristica. In altri casi l'occhiatura non dev'essere presente, ad esempio nel Taleggio, Gorgonzola e Parmigiano Reggiano. Si tratta dunque di un altro parametro importante per la tipizzazione di un formaggio e responsabile del suo gusto unico. Tipo di crosta: è subito evidente che i formaggi si presentano all'aspetto esteriore con diversi tipi di crosta; alcune operazioni come il lavaggio con soluzioni saline o la presenza di croste fiorite, sono responsabili direttamente del gusto del formaggio. Ho effettuato personalmente nel nostro caseificio, prove parallele trattando forme di formaggio “sorelle”, ottenute dallo stesso lotto di produzione, in modo diverso, alcune fa-

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cendole maturare con crosta lavata ed altre con crosta fiorita; il risultato è stato molto diverso sebbene i formaggi inizialmente fossero gli stessi. La pressatura di una determinata e specifica microflora in crosta è critica e necessaria all'ottenimento di un formaggio dal “suo” carattere. Premettiamo che non vogliamo togliere nulla al latte per uso industriale, di qualità controllata e pur ottima, ma che meglio si presenta alla produzione di latte fresco per uso alimentare e formaggi freschi nei quali tutto quanto abbiamo precedentemente esposto non ha il tempo di rendersi evidente. Non possiamo escludere che con l'attuale tecnologia e conoscenze sia possibile ottenere risultati molto simili ai formaggi che abbiamo preso in considerazione, utilizzando latte di massa e procedendo in moderni stabilimenti, formaggi che in qualche modo assomigliano ai vari Parmigiano Reggiano, Emmentaler o Gorgonzola. Il nostro lavoro è stato focalizzato su individuare le cause, le condizioni che in maniera naturale

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e non artificiale, hanno reso possibile produrre dei formaggi che sono dei veri e propri capolavori, frutto di quelle specifiche condizioni. In conclusione, dalla valutazione di parametri scelti possiamo ritenerne diversi fondamentali e sempre presenti, necessari criteri per la produzione di formaggio dal “suo” carattere. Alcuni di questi parametri sono anche strettamente legati e dipendenti l'uno dall'altro. Quindi condizioni necessarie per produrre formaggi di questo tipo sono: • latte ottenuto da animali alimentati su pascoli o con foraggi sfalciati su pascoli con determinate presenze e caratteristiche in termini di essenze • per alcune produzioni è critico il materiale usato per la costruzione della caldaia • è fondamentale l'assenza di trattamenti termici sul latte, l'uso di starter prodotti dalle lavorazioni stesse o dallo stesso latte, la loro incentivazione con le operazioni di riscaldamento in fare di cottura • l'ambiente di produzione con la sua

microflora che si ritrova all’interno del formaggio con l'occhiatura e gli annessi profumi ed aromi e troveremo anche sulla superficie del formaggio, sulla sua crosta. E da domani, quando vedrete sui banchi dei mercati i formaggi, provate ad individuare il loro profumo e sapore osservando la loro crosta, il colore della pasta e l'occhiatura. Buon formaggio a tutti! Caseificio Norden s.a.s. www.norden.eu

Dr. Cesare Ribolzi Resp. Produz. Caseificio Norden Elena Sesona Istituto Agrario Mendel, Stagista Caseificio Norden.

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Parliamo di Vino Curiosità ed indicazioni per un uso adeguato e consapevole di

Francesco Marino

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on c’è mai stato, probabilmente, un momento migliore di questo nella storia dell’uomo per interessarsi al vino. Questa bevanda è nata per regalare piacere a chi la beve, per aiutarci a socializzare; ma anche per vivere meglio. I riferimenti al vino nella letteratura sono tali e tanti da dimostrare ampiamente la crescita d’importanza che essa ha assunto, nel corso dei secoli, nella vita sociale e anche religiosa di molte civiltà. Basti pensare al primo miracolo di Gesù, a Canaan: quello della trasformazione dell’acqua in vino o al vino inteso come sangue versato da Cristo per il riscatto dell’umanità dal peccato. La devozione del vino pervade anche la legge ebraica. Ogni sabato ebraico inizia con un atto di benedizione, il kiddush o “santificazione”, che si fa salmodiando mentre viene passato un calice di vino, da cui bevono tutti i membri della famiglia. Un buon vino deve essere conservato tra i 11 e i 15 °C, mentre l’altro fattore critico, l’umidità, deve aggirarsi intorno al 70-75%; è inoltre buona norma tenere le bottiglie coricate sulla scaffalatura (possibilmente in legno, perché è materiale capace di attenuare eventuali vibrazioni, che possono nuocere). Infatti se la bottiglia è coricata, il vino bagnando il tappo, lo inumidisce evitandone il disseccamento; inoltre eventuali microrganismi che superassero il tappo troverebbero subito, anziché l’aria, l’ostacolo del vino con la sua acidità, l’alcol e il tannino. Il tappo è il completamento della bottiglia ed un sughero di cattiva qualità può dare al vino uno sgradevole sapore, dovuto alla presenza di piccoli parassiti o muffe sviluppatesi nelle sue fessure

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(diverso invece il caso del “sapore di tappo” che invece è indipendente dalla qualità del sughero e deriva da altri fattori). Ogni tipo di vino ha una forma di bicchiere ideale e una temperatura ideale di servizio, alla quale darà il meglio di sè.

Il termometro è lo strumento con il quale si misura la temperatura, si infila nel collo della bottiglia, oppure direttamente nel bicchiere. Nei vini invecchiati, i cambiamenti, in particolare, si verificano a carico del colore, della limpidezza, del profumo e del sapore. Inoltre, nell’invecchiamento, evapora acqua e ancor più evapora alcol etilico (0.2-0.3 gradi all’anno). Ogni vino, insomma, dovrebbe essere gustato nel momento migliore della propria evoluzione, perché soltanto in quel momento esprimerà la propria armonia ottimale. Oggi l’abbinamento cibo-vino è il tema che più coinvolge e appassiona, al punto che esistono diverse scuole di pensiero. L’argomento degli abbinamenti è di trattazione tutt’altro che facile, anche se grazie alla molteplicità dei vini esistenti è sempre possibile trovarne uno che possa abbinarsi con un determinato piatto. Esistono tuttavia abbinamenti da evitare con decisione; i piatti che contengono abbondanti quantità di aceto e le pietanze a base di carciofi (i quali hanno una sostanza dal sa-

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pore amaro, la cinarina), snaturano il gusto dei vini. Il nettare degli Dei, se bevuto moderatamente, svolge funzioni utili come alimento (soprattutto energetico e apportatore di minerali e vitamina P), eupeptico (cioè facilita la digestione), psicotropo cioè euforizzante e disinibente. Inoltre il vino è costituito per 8085% d’acqua e, più esattamente, acqua biologica purissima, quindi non inquinata (che oggi è già molto). Ciò che impone la moderazione nel bere il vino è la presenza di alcol etilico. A digiuno, dopo 5 minuti dall’ingestione, l’alcol inizia a essere assorbito nello stomaco e nella prima parte dell’intestino, mentre a stomaco pieno l’assorbimento inizia dopo due ore. Arrivato al fegato è metabolizzato e ossidato ad aldeide acetica, composto che può recare danno alle cellule nervose. La maggior parte degli studiosi è concorde nell’affermare che un individuo sano può metabolizzare circa 1g di alcol ogni kg di peso corporeo al giorno. Una persona perciò che pesi 70kg può distruggere circa 70g di alcol al giorno, il che corrisponde grosso modo a mezzo litro di vino nelle 24 0re. Per questo si consiglia di bere vino soltanto nei pasti principali, ma anche perché: un pasto senza vino è come un ballo senza musica. Dr. Agronomo Francesco Marino Agronomiperla Terra.org

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Responsabilità penali nella filiera agroalimentare Alcune sentenze della Corte di Cassazione su casi riguardanti la Grande Distribuzione Organizzata di Ivano

Cimatti

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ell’ambito del settore alimentare una questione di particolare interesse per gli operatori riguarda la ripartizione delle responsabilità conseguenti alle contestazioni, soprattutto di natura penale. La prassi quotidiana conosce ampia casistica relativa a violazioni della sicurezza ed igiene degli alimenti, dal ritrovamento sulle mensole di prodotti con data di scadenza vecchia, alle produzioni agricole fresche con parassiti, ai cibi o bevande mal conservate, ai cibi contaminati. In generale la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha elaborato un variegato orientamento, distinguendo a seconda dei diversi aspetti di ciascuna contravvenzione. Pur dovendosi rilevare che è solo degli ultimi anni che è esploso l’approfondimento sul versante soggettivo della contestazione, segnatamente circa la corretta individuazione delle responsabilità in quelle realtà, sempre più diffuse, di dimensioni rilevanti e, come tali, caratterizzate da un’organizzazione interna complessa. In particolare, con una serie di pronunci abbastanza recenti, la Cassazione penale (Id., 23 gennaio 2014 n. 3107; Id., 13 marzo 2013, n. 11835) affronta il caso di disservizi e di anomalie nella conservazione di cibi e bevande nei punti vendita di rilevanti dimensioni. Nel primo caso, il Direttore del centro è tratto a giudizio e condannato in sede di merito per la detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione

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(confezioni contenenti salmone affumicato e burro conservate a temperatura non idonea). Il quale presenta ricorso per cassazione lamentando fra l’altro la violazione del principio della personalità della responsabilità penale, sostenendo non potersi applicare, nell’ambito della sicurezza alimentare, in maniera diretta ed automatica il requisito della forma scritta elaborato principalmente nel settore della sicurezza sul lavoro. In secondo luogo il ricorrente afferma che, nel periodo di verificazione del fatto contestato, lo stesso era in ferie. La Corte di Cassazione ritiene fondato il ricorso ed annulla con rinvio al Giudice di merito la sentenza impugnata. Con questa decisione la Suprema Corte, pur prendendo atto dell’esistenza di una pronuncia contraria della stessa III sezione (Cass. Pen., III, sent. 19.01.2011), ritiene di seguire il diverso orientamento che considera idonea ed efficace la delega conferita anche oralmente dal titolare dell’impresa, non richiedendosi forma scritta né per la validità della stessa né per la prova del rilascio, dal momento che l’efficacia devolutiva della delega è subordinata all’esistenza di un atto traslativo delle funzioni delegate connotato unicamente dal requisito della certezza che prescinde (salvo che nel settore pubblico) dalla forma impiegata. Nel caso di specie, in particolare, non solo vi era un soggetto che ricopriva l’incarico di “supervisore dei capi reparto per il settore dei freschi”, ma vi era

altresì una struttura gerarchico piramidale all’interno del punto vendita, peraltro caratterizzato da dimensioni assai rilevanti in termini di ampiezza dei locali e di personale impiegato. Proprio questi dati, ammonisce la Cassazione, avrebbero dovuto suggerire al Tribunale la necessità di un maggiore approfondimento circa la effettiva esistenza di una ripartizione di compiti e responsabilità all’interno del centro commerciale di cui l’imputato era direttore e, quindi, circa l’asserita riferibilità a quest’ultimo del fatto illecito accertato in un settore molto specifico del supermercato. D’altra parte la giurisprudenza è da tempo approdata - sebbene nello specifico settore della sicurezza sul lavoro - all’affermazione per cui, in una società di rilevanti dimensioni, il legale rappresentante non è responsabile qualora l’azienda sia stata previamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi ad essi siano stati in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, purché dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la completa gestione degli affari inerenti a determinati servizi. La Corte cassa altresì la sentenza di merito laddove il Giudice si spinge a sostenere che l’imputato avrebbe potuto “strutturare diversamente la propria azienda”: tale argomentazione in realtà introduce un concetto di culpa in vigilando che non tiene minimamente conto del fatto che, in ogni caso, la difesa aveva anche dedotto che, in occasione

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della verificazione del fatto illecito, l’imputato si trovava in ferie e che pertanto è verosimile ritenere che, in sua assenza precaria, egli avesse avuto un sostituto. In tal senso, si era già pronunciata la Cassazione, colla citata sentenza del 2013, asserendo che qualora un'unità produttiva territoriale di una società di notevoli dimensioni operante nel settore alimentare sia dotata di un soggetto investito di mansioni direttive, il problema della responsabilità relativa al rispetto dei requisiti igienico-sanitari dei prodotti alimentari vada affrontato con riferimento alla singola struttura aziendale, all'interno della quale dovrà ricercarsi il responsabile dei fatti contestati, senza che sia necessario il conferimento di un'apposita delega di funzioni. Affermandosi insomma che il legale rappresentante della società che gestisce una catena di supermercati non è responsabile qualora essa sia articolata in plurime unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto qualificato ed investito di mansioni direttive, in quanto la responsabilità del rispetto dei requisiti igienicosanitari dei prodotti va individuata all’interno della singola struttura aziendale, non essendo necessariamente richiesta la prova dell’esistenza di una apposita delega. Su questo tema, ancora oggetto di battaglia nelle aule, si ricorda anche una precedente sentenza del medesimo tenore in un caso analogo, ove si individua nel responsabile del reparto colui sul quale gravano gli oneri, e le conseguenti responsabilità, connesse alla vigilanza e al controllo preliminare alla messa in vendita, nonché i doveri di sorveglianza sui sottoposti affinché anche costoro si attengano e rispettino le disposizioni presenti nel piano di autocontrollo. La Cassazione mostra pertanto di accogliere una concezione moderna dell'impresa. Superando una nozione prettamente individualistica, ossia focalizzata esclusivamente sulla figura dell'imprenditore,

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la Suprema Corte propone una nozione di impresa come organizzazione, in questo caso complessa, in cui interagiscono tra di loro più figure, secondo le varie competenze e secondo predeterminate procedure. Negli stessi termini della sentenza qui pubblicata si segnala Cass. pen., Sez. III, 26.2.1998, n. 681 secondo cui "il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è

responsabile allorché l'azienda sia stata preventivamente suddivisa in distinti settore, rami o servizi ed a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione di quel servizio o settore". Tale indirizzo è stato poi ribadito dalla sentenza Rossetto (Cass. pen., Sez. III, 6.3.2003, n. 19642), che ha escluso la responsabilità del legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni che era stata decentrata, mediante una preventiva ripartizione in distinti settori, rami o servizi, ravvisando in tale organizzazione la sussistenza, di fatto, "di una delega di responsabilità, anche organizzative e di vigilanza, per le singole sedi, anche in assenza di un atto scritto". Tale principio è stato affermato in una materia affine a quella oggetto della sentenza qui annotata (vendita di bottiglie di acqua minerale in cattivo stato di conservazione). Da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 16.2.2012, n. 28541, Eheim, ha ribadito che in tema di tutela dei prodotti alimentari, "la valutazione in

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ordine alla responsabilità connessa al rispetto dei requisiti igienico sanitari dei medesimi va effettuata, nelle ipotesi di enti articolati in più unità territoriali autonome, con riferimento alla singola struttura aziendale, e, al suo interno, al preposto ad essa o ad un singolo suo settore, senza necessità della prova specifica di una delega ad hoc conferita a detto preposto da parte del legale rappresentante dell'ente". Questo comporta una valorizzazione della dimensione organizzativa dell'azienda in quanto, come ha osservato autorevole dottrina, "dire organizzazione è dire divisione del lavoro, ripartizione di compiti e valorizzazione di competenze differenziate", senza che possa rivestire alcun carattere dirimente, ai fini dell'attribuzione della responsabilità penale, l'eventuale presenza di caratteri formali, quali la rappresentanza legale. La decisione della Corte merita particolare attenzione poiché crea un parallelismo tra le regole della sicurezza alimentare e quelle della sicurezza sul lavoro, precisandone le differenze salienti e, segnatamente, la possibilità, diversamente da quanto ad oggi codificato nel D. lgs. 81/08 (c.d. testo unico sicurezza sul lavoro) di conferire una delega di funzioni e di responsabilità anche senza una forma scritta. Non secondario, peraltro, il monito dei Giudici di legittimità laddove invitano i Giudici di merito ad effettuare, proprio in virtù dei loro più pregnanti poteri istruttori, un’indagine concreta e dettagliata del caso sottoposto al vaglio penale, così evitando di attribuire responsabilità penali in virtù di verifiche formali ed astratte che il nostro moderno diritto penale non ammette.

Avv. Ivano Cimatti ivan_cimatti@ hotmail.com

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LE STORIE DEL CIBO Patata, la sua “odissea” di

Pasquale Pangione

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ubero della famiglia delle solanacee. Il nome deriva dalla lingua quechua: “papa”, nome originario della pianta, modificatosi nel tempo per incrocio con il nome della batata, grazie alla somiglianza dei loro tuberi. La patata (Solanum tuberosum) è originaria delle Ande, portata in Europa nel XV Sec. dai conquistadores di “Pizarro” e in Italia dai carmelitani scalzi alla fine del XVI sec. Costoro, regalarono molte piante al Papa, il quale “scambiando” i tuberi per tartufi, li assaggiò crudi definendoli immangiabili, ma apprezzò molto la pianta, adornando con essa le proprietà vaticane. Coltivata inizialmente come pianta ornamentale, la patata, fu subito associata al "male" vista la sua attinenza alla mandragola (altra solanaceae allucinogena), e ritenuta portatrice di lebbra per la sua somiglianza alle eruzioni della malattia; in più cresceva sotto terra, cosa inusuale per l'epoca. Il tubero veniva consumato crudo e perciò scarsamente apprezzato. Ne furono mangiati foglie e frutti che risultarono essere velenosi. Questi demeriti e, il fatto di non essere menzionato nella Bibbia, contribuirono al suo scarso utilizzo culinario. I primi europei che apprezzarono le patate furono gli irlandesi, i quali, ne consumavano così tante, che quando nel 1845 vi fu un infestazione di “peronospora” (malattia fungina “importata” insieme alle piante), oltre a mietere oltre 1000 vittime, spinse gli irlandesi alla grande migrazione verso l'America. Nel XVIII Sec., il francese Parmentier Antoine-Augustin (agronomo, farmacista, igienista e alimentarista 1737-1813), durante la prigionia in Germania ne apprezzò il sapore, constatando la sua facilità di crescita in terreni relativamente poveri. Tornato in patria, qualche anno dopo, Parmentier propose la “pomme de terre” (patata) ad un premio per nuovi cibi contro la carestia, presentando il tubero come un pane già fatto che non richiedeva ne mugnaio ne fornaio. L’alimento suscitò grande interesse e fu così che, dopo la spaventosa carestia del 1785, Luigi XVI impartì l'ordine ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare la patata. I risultati non furono quelli sperati, perciò su consiglio di Parmentier, il sovrano decise di dare seguito ad uno stratagemma: si cominciò facendo coltivare delle patate al Campo di Marte, in un terreno guardato a vista dai soldati reali, per poi spargere la voce che lì si produceva una preziosità riservata al Re. La cupidigia fece il suo corso, molti si trasformarono in ladruncoli pur d'impossessarsi dei frutti proibiti, iniziando così la sua espansione. Chissà, magari se non fosse stato messo in atto questo astuto stratagemma le patate non sarebbero state neanche presenti sulle nostre tavole e nelle nostre campagne; a volte l'astuzia può fare veramente la differenza.

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Agroalimentare italiano


LA RICETTA Gateau di patate Difficoltà: bassa - Preparazione: 50min. - Cottura: 40min. - Dosi: 4 persone Costo: basso

I

l gateu (per gli amici "gatò" o "gattò") è un piatto molto semplice da preparare, con ingredienti di facile reperimento. E' un pasto completo e molto nutriente.

Ingredienti Patate: 1kg Sale: a piacere Pepe: a piacere Burro: 80-100g più quello per la teglia e i fiocchetti Noce moscata: facoltativa Prezzemolo tritato: un bel cucchiaio Pecorino romano: 70-90g Uova: 2-4 Prosciutto cotto: 150g Mortadella: 150g Provola fresca: 150g Formaggio a pasta filata: 150g Pangrattato: q.b.

Preparazione Bollire le patate (40 min ca.) in abbondante acqua salata, nel mentre, tagliare tutti i salumi e i formaggi a cubetti, tritare il prezzemolo e grattugiare il pecorino. Appena le patate sono cotte (non troppo), sbucciarle e schiacciarle con lo schiacciapatate, il tutto con le patate molto calde (attenzione alle mani). Quando le patate schiacciate avranno una temperatura di 30-35°C aggiun-

Agroalimentare italiano

gere gli ingredienti nell'ordine di come sono elencati, fino a ottenere un impasto: omogeneo, liscio, compatto ma non asciutto. N.B. Non impastare troppo, altrimenti diventa colloso.Imburrare e cospargere di pangrattato la teglia (la quale verrà scelta in base all'altezza desiderata del prodotto finale), compattare e livellare l'impasto all'interno di essa, coprire di pangrattato e qualche fiocchetto di burro. Infornare a 180°C per 30-60 min. Servire tiepido.

Variazioni, note e consigli Se l'impasto risulta troppo asciutto, aggiungere un pizzico di latte. Si può anche imbottire a strati, con i salumi a fette. Nel gateau classico, c'è anche il salame napoletano, portando tutte le pesate di salumi a 100g. Per una versione più leggera o vegana, sostituire il burro con 50g di olio e.v.o. e i salumi e formaggi con una dadolata di verdure leggermente saltate in padella. In quest'ultimo caso ci possono essere più variazioni: opzione 1 con carote, zucchine e peperoni; opzione 2 con carote, zucca e barbabietole (in questo caso aumentare il pepe); opzione 3 con cime di rapa o friarielli o erbe preferite. Oppure sbizzarrite la vostra fantasia... Buon appetito! Pasquale Pangione

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Foresta Modello delle Montagne Fiorentine "Il Legno", un marchio di qualità di

Gemma Navarra e Ilaria Zorzi

Gestione sostenibile, cooperazione, valorizzazione del territorio, rilancio dell’economia rurale, innovazione, tradizioni, prodotti locali… tutto questo e molto altro è una Foresta Modello! A cura di Gemma Navarra

Ambiente, foreste e natura

L

’idea nasce in Canada, quando nel 1992 è stata istituita la prima delle numerose Foreste Modello attualmente presenti in tutto il mondo. La proposta nasce dall’esigenza del Governo Canadese di risolvere situazioni di conflittualità venutesi a creare tra i diversi soggetti coinvolti nella gestione delle foreste. Lo scopo era quindi quello di creare un tavolo di confronto dove amministratori, ambientalisti, nativi, comunità locali e operatori nel settore forestale potessero cercare soluzioni comuni riguardo allo sfruttamento delle risorse forestali, alla conservazione della biodiversità e alla stabilità economica. La Foresta Modello è oggi uno standard internazionale e rappresenta uno strumento di governance innovativo; si concretizza in un gruppo di persone, che vivono o si interessano di un territorio forestale definito, che si confrontano ed interagiscono tra loro, in forma volontaria, per realizzare scelte gestionali il più possibile condivise e trasparenti, che esaltino il ruolo multifunzionale della foresta stessa. Ad oggi esistono 71 realtà di questo tipo, ricoprendo più di 84 milioni di ettari in 31 nazioni.

La Foresta Modello Montagne Fiorentine

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La Foresta Modello delle Montagne Fiorentine è nata nel 2012 ed è l’unica presente in Italia. Il suo territorio coincide con quello dell’Unione dei Comuni Valdarno e Valdisieve, in provincia di

stata scelta come banco di prova dello strumento Foresta Modello poiché caratterizzata da un territorio in cui il settore forestale è preponderante (ben il 70% della sua superficie è coperta da bosco) e dove operano molti soggetti ed organismi amministrativi diversi, ben rappresentativi della realtà regionale. Il progetto ha riscontrato interesse e partecipazione e ha dato vita all’attuale Associa-

La Foresta Modello (Model Forest) nel mondo Firenze ed interessa una popolazione di 64000 abitanti. La sua nascita è stata voluta dalla Regione Toscana, firmataria nel 2009 dell'adesione alla Rete Mediterranea delle Foreste Modello (MMFN) e la Valdisieve è

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zione che si appoggia ad un ampio partenariato; tra i suoi soci ci sono Enti Pubblici (come la Regione, l’Unione dei Comuni, suoi fondatori, l’Università degli Studi di Firenze, il CNR, il Parco Nazionale delle Fo-

Ambiente, foreste e natura


reste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna), operatori nel settore forestale, produttori locali, associazioni culturali, associazioni sportive, liberi professionisti e tanti altri. La realtà delle Montagne Fiorentine è estremamente ricca e variegata e attraverso l’associazione vengono affrontati temi riguardanti la gestione sostenibile del bosco, sostenute l’innovazione

bientale e la sostenibilità sociale. Sono soddisfatto del lavoro fatto in questi anni dal Consiglio Direttivo e dalle Commissioni Tematiche, impegno che ha permesso di portare il numero di Soci a superare quota 100 rispetto ai 44 fondatori presenti nel 2012. A loro va tutto il mio ringraziamento in considerazione anche del fatto che la partecipazione è volontaria e gra-

e la ricerca, portati avanti progetti, organizzate attività per la valorizzazione del territorio. Stefano Berti, Presidente della FMMF: A cinque anni dalla nascita della FMMF come funziona questa realtà? Sicuramente le aspettative che erano presenti al momento dell'avvio del processo sono state soddisfatte, magari non completamente e non per tutti, ma le iniziative portate avanti sono veramente tante e adesso qualcuna di queste sta incidendo anche sugli aspetti economici legati

tuita e, merita ricordare, l'Associazione non beneficia di contributi pubblici ma si sostiene sviluppando progetti e attività di servizio. Tra gli aspetti da migliorare, vedo la necessità di una maggiore conoscenza di questa realtà tra la popolazione del territorio, il coinvolgimento diretto di un più alto numero di soci a livello di territorio, un incremento dell'interazione con gli Enti locali. La convinzione della buona riuscita del processo Foresta Modello delle Montagne Fiorentine è testimoniata dalle numerose realtà, sia

Lo ShowWood: la sede dell'Associazione a Rufina (FI) al territorio. Ciò aiuterà nello sviluppo dell'Associazione, aggiungendosi agli altri cardini su cui ruota l'idea di Foresta Modello: la sostenibilità am-

Ambiente, foreste e natura

regionali che fuori Regione Toscana, che sono venute a visitarci e a chiedere supporto per intraprendere il nostro stesso percorso; è inol-

tre da sottolineare il grande credito a livello internazionale di cui gode la nostra esperienza, testimoniata dalla recente partecipazione di una delegazione FMMF alla conferenza tenutasi a Krtiny (Brno-Rep. Ceca), invitata quale esempio di eccellenza nell’ambito della Rete Internazionale, per l’inaugurazione della prima Foresta Modello del Paese. Le attività dell’associazione si svolgono nell’ambito di quattro commissioni tematiche: Ambiente e Società, Cultura e Turismo, Filiere Produttive e Rapporti Internazionali. Queste si riuniscono periodicamente con incontri aperti a tutti i soci e i simpatizzanti della Foresta Modello. Progetti ed iniziative vengono poi sviluppati e seguiti da gruppi di lavoro. A titolo di esempio chiediamo a Lara Fornai, Coordinatrice della Commissione Tematica Filiere Produttive: quali sono gli obiettivi e i progetti portati avanti dalla sua commissione? La Commissione Tematica Filiere Produttive si occupa della promozione dei prodotti locali alimentari e legnosi, con lo scopo di creare un maggior coinvolgimento delle aziende produttrici e sviluppare un piano di comunicazione con incontri mirati, seminari e corsi di aggiornamento per diffondere gli ideali di sostenibilità nella pratica agricola e ambientale. Altri temi trattati sono la valutazione di nuove strategie di gestione integrata della fauna selvatica per la ricomposizione degli squilibri ecologici e la segnalazione di prodotti inquinanti e delle pratiche invasive per l’ambiente e per la salute dei consumatori. Un grande obiettivo raggiunto dalla Commissione è l’istituzione di un marchio di garanzia che certifica il legname prodotto all’interno del territorio della Foresta Modello con criteri di sostenibilità, legalità, salute e sicurezza degli operatori. Tra i progetti attuali ci sono la realizzazione di un centro di trasformazione dei prodotti agricoli, il completamento di un centro polifunzionale a Castagno d’Andrea e la realizzazione di una

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palestra in legno per il Comune di Rufina, costruita con il legno a marchio “il Legno FMMF” fornito dai soci della Foresta Modello.

scritto in protocollo etico per il lavoro in bosco – il protocollo APROFOMO. Questi si impegnano infatti al rispetto delle normative in campo ambienta-

Possiamo considerare quello della Foresta Modello delle Montagne Fiorentine un esperimento ben riuscito ed un esempio che già altre realtà italiane stanno pensando di seguire!

le, della sicurezza sui luoghi di lavoro e fiscale, oltre a ricevere formazione specifica su argomenti legati alla gestione forestale sostenibile. Il Marchio quindi garantisce che il legname proviene dalla Foresta Modello e che i boscaioli abbiano rispettato il protocollo APROFOMO e fornisce un codice di tracciabilità che dal sito internet della Foresta Modello (http://www.legnoforestamodello.

"Il Legno" il Marchio della FMMF A cura di Ilaria Zorzi Il marchio del legno della Foresta Modello delle Montagne Fiorentine “FMMF Il Legno”, nasce nel 2015 - grazie al progetto DEMOSCOPE - con la volontà di trasformare un obbligo di legge in un’opportunità; valorizzando il prodotto legno del territorio in tutte le sue forme, dalla legna da ardere al tronco, dal prodotto semilavorato all’oggetto di design, garantendone la provenienza. Il regolamento comunitario 995/10, vieta infatti la commercializzazione di legname di provenienza illegale all’interno dell’Unione Europea; quindi anche i “nostri boscaioli” devono, prima di immettere la legna sul mercato, attuare un meccanismo di dovuta diligenza, dimostrando, fra le altre cose, la provenienza del legname. Il Marchio può essere utilizzato solamente dai boscaioli che hanno sotto-

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Logo FMMF "Il legno" it) consente di verificare la particella catastale di origine del legno. La scelta di costituire un Marchio per i prodotti legnosi della FMMF era stata indicata nel piano strategico 2012-2017 della FM; il finanziamento ottenuto attraverso il bando MIS 124 PSR Regione Toscana ne ha reso possibile la creazione.

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Le garanzie che il Marchio offre sono essenzialmente tre: • provenienza locale della materia prima; • sostenibilità e legalità della produzione; • salute e sicurezza dei lavoratori. Il Legno deve quindi essere tagliato all’interno dei boschi del territorio della Foresta Modello delle Montagne Fiorentine (comuni di San Godenzo, Londa, Pontassieve, Rufina, Pelago, Rignano sull’Arno e Reggello) con tagli regolarmente autorizzati dall’Unione dei Comuni, da aziende boschive che hanno sottoscritto il protocollo APROFOMO che garantiscono quindi sostenibilità, legalità e rispetto dell’ambiente. L’utilizzo del Marchio è riservato alle aziende della filiera della Foresta Modello. Il corretto utilizzo del logo è verificato da un “comitato di gestione” che verifica le transazioni e garantisce il rispetto di tutti i criteri. Le tipologie di prodotto sulle quali è possibile apporre il Marchio sono biomassa legnosa a fini energetici, legno tondo, legname da segheria e semilavorati, manufatti in legno. La società odierna pone molta attenzione alla gestione sostenibile delle risorse ed alla provenienza delle stesse, preferendo prodotti a km 0, ottenuti nel pieno rispetto dell’ambiente, della legalità e della sicurezza sul lavoro; per tutte queste ragioni, il Marchio è assolutamente un valore aggiunto per tutte le imprese che fanno di questi principi il punto cardine delle loro attività, potendo inoltre usufruire in modo semplice ed economico di un logo riconosciuto, anche per pubblicizzare la propria impresa. Il Marchio risulta quindi essere uno strumento che permette al consumatore di avere piena consapevolezza del prodotto che intende comprare e all’impresa di vantare un prodotto garantito e dal riconosciuto valore ambientale.

Bosco Chiavi in Mano Un altro importante servizio che la Foresta Modello Montagne Fiorentine fornisce, è l’aiuto ai proprietari boschivi, specie quelli che intendono gestire la loro proprietà (spesso piccola ed abbandonata da molto tempo) in modo sostenibile ed ef-

Ambiente, foreste e natura


APROFOMO: Standard di qualità per il lavoro in bosco SICUREZZA SUL LAVORO SALVAGUARDIA DELL’AMBIENTE LEGAME CON IL TERRITORIO FORMAZIONE

ficace. Grazie a questo servizio il proprietario può guadagnare dalla gestione del bosco senza alcuna preoccupazione. Tecnici forestali esperti, verificato lo stato del bosco, consigliano il tipo di intervento selvicolturale da eseguire, individuando la ditta boschiva più adatta, seguono i lavori garantendo il giusto prezzo ed il prezzo per la proprietà.

Come acquistare i prodotti a Marchio “FMMF Il Legno”? I prodotti a Marchio “FMMF Il Legno” si possono acquistare attraverso il sito della foresta modello che funziona da vetrina e mette in contatto gli acquirenti con i fornitori. Ad ogni prodotto corrisponde una scheda di tracciabilità; una volta acquistato un prodotto è possibile risalire alla particella catastale di origine. Il meccanismo è molto semplice: accedendo a www.legnoforestamodello.it e cliccando su ‘Verifica origine del prodotto’ sarà possibile, inserendo il codice articolo riportato nella scheda di tracciabilità, individuare la posizione geografica della particella forestale da cui deriva il legname utilizzato per la realizzazione del prodotto. Punti di forza e difficoltà, chiedia-

Ambiente, foreste e natura

molo ai gestori: i vari attori della filiera come si sono dimostrati rispetto al marchio? Le aziende boschive si sono dimostrate disponibili così come le aziende di seconda trasformazione; il numero delle aziende boschive è aumentato nel tempo. Quali sono state le difficoltà che avete riscontrato? Le problematiche maggiori sono state riscontrate nell'approccio agli operatori della filiera forestale a tutti i livelli. Infatti abbiamo notato lo stesso livello di diffidenza sia nell'operatore forestale sia nel trasformatore (non tutti in realtà, molti si sono subito dimostrati disponibili perché hanno capito l'obiettivo di strutturare una filiera forestale locale nella FM). Questo, a nostro avviso, è dovuto sia alla mancanza di una strutturazione pregressa della filiera, sia all'abitudine a lavorare disinteressandosi della propria categoria. I boscaioli non sono abituati nel nostro territorio a lavorare insieme - salvo i casi in cui due ditte collaborino per lavori particolari. Come i boscaioli anche le segherie non hanno mai collaborato fra di loro. Approcciare alcuni soggetti con un discorso di filiera, concetto richiesto a parole da tutti, e proporgli di

vendere anche attraverso il nostro portale, all'inizio è sembrato molto strano, poiché sembrava uno strumento inadeguato per la vendita di un prodotto che "tradizionalmente" non si compra su internet! Quali sono stati i primi risultati? • 100 q.li di legna venduti nella prima annualità della gestione • numerosi pali torniti venduti • un pavimento di 220 metri quadrati venduti a Firenze • arredi per negozio di Firenze Quali sono le prospettive del marchio? Lavoreremo per migliorare il servizio offerto, aumenteremo il numero di aziende partner ed i prodotti offerti cercando anche nuovi prodotti (scatole di legna da ardere, prodotti semilavorati...).

Dr.ssa Gemma Navarra nvrgmm@virgilio.it

Dr.ssa Ilaria Zorzi Laureata in Scienze Forestali e Ambientali

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Ambiente, foreste e natura


Le Biomasse per fini energetici Un'opportunità per una filiera sostenibile di

Marco Giuseppi

S

econdo i dati forniti dalla FAO (Food and Agriculture Organisation) la superficie forestale italiana si estende grossomodo per 11 milioni di ettari, che corrispondono al 36,2% della totale del territorio nazionale. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, negli ultimi venti anni la superficie coperta da boschi è aumentata del 20% contro un incremento del 5% registrato nello stesso periodo nell’intera Unione Europea. Tale espansione è dovuta sia ad operazioni di imboschimento, ma anche e soprattutto, alla ricolonizzazione avvenuta in seguito all’ abbandono di terreni agricoli marginali e non. Tale incremento di superficie non è corrisposto ad un aumento delle operazioni di utilizzazione forestale, ma anzi gli interventi selvicolturali hanno registrato una diminuzione che segue una tendenza

metri cubi nel 2013 contro i 9,7 del 1995. Anche il prelievo medio ad ettaro medio risulta calato dagli 0,93 metri cubi del 2000 ai 0,71 metri cubi del 2010 e il 70% del prelievo totale

quanto avviene nell’Unione europea in questo caso risultiamo perdenti in quanto mediamente si prelevano fino a 2,39 metri cubi medi ad ettaro e solo il 22% della massa totale vie-

Il cippato (www.novalegno.it) ormai stabile da alcuni anni. Siamo arrivati ad un volume totale di prelievo di massa legnosa di 7,7 milioni di

Ambiente, foreste e natura

viene utilizzato per legna da ardere, che è generalmente l’assortimento di minor valore. Dal confronto con

ne utilizzato come legna da ardere. Nonostante l’utilizzo massiccio delle risorse forestali per l’utilizzo ener-

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getico, l’Italia non è autosufficiente per soddisfare la domanda interna ma deve ricorrere all’importazione principalmente da paesi europei

mativo, ecc. Il calo, o la mancata esecuzione delle operazioni forestali determina oltreché un intensificarsi dei fenomeni di dissesto anche un

in particolare come cippato, può essere una buona opportunità da sfruttare sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale. Il cippato

Utilizzazioni legnose forestali per tipo di bosco - Anno 2014 (Dati in metri cubi)

Conifere

Regioni

Legname da lavoro

Legname per uso energetico

Piemonte Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste Lombardia Liguria Trentino-Alto Adige Bolzano/Bozen Trento Veneto Friuli-Venezia Giulia Emilia-Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna ITALIA

9288 2966 110336 700 904497 524264 380233 59990 15807 4980 100130 660 1342 6700 1240 4153 220 2850 1225859

6678 10822 57159 120 440743 298455 142288 4020 445 100629 217 1050 644 170 11809 18752 1692 32964 687914

come Bosnia Erzegovina, Croazia e Ucraina. Le motivazioni che hanno ridotto le pratiche di utilizzazione forestale sono varie: difficili condizioni orografiche, polverizzazione delle

Latifoglie Perdite di lavorazione in foresta 2083 493 15425 12 136513 90849 45664 9472 247 42 17788 20 50 25 12 29 94 393 2 78 1091 183869

Legname da lavoro

Legname per uso energetico

92370 275 530385 60 6527 4602 1925 6699 12850 14561 1999 64853 500 69594 14888 80 815641

118096 4592 494970 4897 59426 17074 42352 56784 3737 203209 438567 411572 144983 517636 53994 79831 233087 52605 8472 14629 128366 3029453

danno di carattere socio economico alle comunità interessate; non si innescano infatti processi virtuosi di aiuto all’economia locale, spesso in zone svantaggiate e di presidio del

Posa delle tubazioni per impianto di teleriscaldamento (www.qualenergia.it) proprietà, concorrenza dei mercati stranieri, complessità sistema nor-

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territorio. Ecco perché l’utilizzo delle risorse forestali come biomasse ed

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Perdite di lavorazione in foresta 27868 124 21278 327 2227 950 1277 1076 75 10712 28502 19027 5583 8493 462 835 7323 416 159 1013 7133 142633

altro non è che legno in scaglie (in inglese chips) sminuzzato tramite un procedimento meccanico detto cippatura. Il cippato non è tutto uguale, la qualità varia in base all’umidità e al contenuto delle ceneri che cambia in maniera consistente in funzione della provenienza e della specie da cui viene prodotto. L’umidità del cippato derivante da utilizzazione forestale in genere varia tra il 40 e il 60%. I prezzi medi all’imposto (sul piazzale a margine del bosco) del materiale già lavorato sono di difficile determinazione, variano in funzione a molteplici fattori e alla trattativa di vendita; è possibile però individuare una fascia dai 2 ai 4,5 € al quintale che racchiude la maggior parte delle transazioni. Il prezzo negli ultimi 10 anni è sostanzialmente rimasto inalterato nonostante l’aumento generale dell’utilizzo di questo materiale e attualmente il 90% del legno viene trattato direttamente

Ambiente, foreste e natura


in bosco attraverso l’utilizzo di macchine portate su camion. Il cippato viene utilizzato principalmente come

in modo corretto e con una visione di prospettiva almeno ventennale, possono innescare a livello locale

fonte di calore con cui alimentare impianti di teleriscaldamento. Il teleriscaldamento consiste nella fornitura di calore termico mediante un fluido (acqua o vapore) che circola in tubazioni coibentate che formano la rete principale dalla quale si dipartono gli “allacciamenti” che collegano le singole utenze; tale sistema di riscaldamento è diffuso principalmente nel nord Europa (in Islanda è servita da teleriscaldamento il 99% della popolazione) dove si riscontrano sovente inverni lunghi e facilità di approvvigionamento della materia prima. L’Italia ha un clima sicuramente diverso, ma molti comuni sono classificati a livello climatico con la lettera “F” caratterizzati da inverni molto rigidi e spesso si tratta di comuni montani che rendono adeguata l’istallazione di impianti di teleriscaldamento sia per fattori climatici sia per la vicinanza alle fonti di approvvigionamento. I piccoli impianti che servono piccoli comuni montani, o addirittura anche soltanto gruppi di edifici, se pensati

interessantissimi processi economici che coinvolgono l’intera filiera del legno. Ma è questo tipo di riscaldamento sostenibile? Non stiamo immettendo nell’atmosfera dell’anidride carbonica? Sicuramente sì ma la biomassa vegetale è considerata un’energia rinnovabile che una volta trasformata, tramite la combustione, in anidride carbonica, viene immediatamente (nei tempi della natura) riassorbita dalla vegetazione e quindi immobilizzata di nuovo. Inoltre, in questo caso, si attinge ad un serbatoio di carbonio molto recente, al contrario di altre tipologie di combustibile (ex. petrolio) dove invece il serbatoio di carbonio è relativo a milioni di anni fa. Si parla quindi di processo a zero emissioni. Ciò non avviene per esempio con l’utilizzo di combustibili fossili, che necessitano di tempi estremamente più lunghi per essere riassorbiti. Tuttavia se si prevede un aumento dell’utilizzo di biomasse per fini energetici si avranno necessità sempre maggiori di

Ambiente, foreste e natura

prelievo e di conseguenza il livello di carbonio stoccato potrà essere più basso di quello che si avrebbe senza prelievi addizionali. Per questo motivo nel caso che l’utilizzo di biomasse per fini energetici continui ad aumentare e si vada oltre la piccola filiera e il piccolo impianto di montagna che serve pochi edifici, come già avviene in alcune città (Bologna, Milano, Brescia), è necessario pensare ad un serio programma di imboschimento o riforestazione in altre aree del paese per far sì che il processo rimanga a bilancio zero. Considerazioni analoghe si possono fare per impianti di coltivazione di biomassa a rotazione veloce; gli studi sugli impatti e sulla sostenibilità delle principali operazioni necessarie nel corso degli anni, seppur breve, che queste colture necessitano (utilizzo di macchine per l’impianto e per l’espianto, trasporto, lavorazioni del terreno etc.) sono ancora nella fase preliminare quindi è difficile affermare se tali colture siano o meno a bilancio zero. Un importante fonte di approvvigionamento potrebbe essere quella dei residui di lavorazione delle alberature urbane (potature, abbattimenti, etc.), tuttavia ad oggi la normativa considera questi prodotti dei “rifiuti” che pertanto necessitano di adeguato smaltimento secondo normativa e non possono essere riutilizzati. Bibliografia essenziale Biomasse legnose: petrolio verde per il teleriscaldamento italiano.

Dott. Marco Giuseppi Agronomo forestale marco.giuseppi@ gmail.com

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La prevenzione degli incendi boschivi Conseguenze e possibili strategie da mettere in atto per ridurre i danni da incendio boschivo di

Alessandro Lutri

C

on l’aumento delle temperature, la siccità e la stagione estiva che avanza, aumenta il rischio di incendi. Ogni estate, attraverso i telegiornali, purtroppo apprendiamo notizie relative ad ettari di bosco andati in fiamme. Ma cosa succede esattamente quando un bosco brucia e quali sono i danni provocati dagli incendi? Con il passaggio del fuoco si raggiungono temperature di oltre 750° C, con conseguente distruzione della vegetazione epigea che viene trasformata in parte in sostanze aeree, in parte in sostanze minerali (cenere) ed in parte in residui catramosi ed idrocarburi densi (oli essenziali, resine, ecc.); queste si insinuano nel sottosuolo formando una strato parzialmente idrorepellente. Tutto ciò comporta, come diretta conseguenza, l’incremento del rischio di frane, poiché nei terreni scoscesi, in caso di pioggia, l’assenza di vegetazione non consente il rallentamento e la frammentazione delle gocce di pioggia. Queste ultime quindi, acquistando velocità, precipitano su un suolo fessurato e crepato a causa della precedente siccità estiva e delle elevate temperature dovute al fuoco, ed incontrano lo strato parzialmente idrorepellente che viene penetrato lentamente. Gran parte dell’acqua piovana in funzione della pendenza del terreno, continua il suo percorso, aumentando costantemente la sua velocità, con conseguente erosione del suolo.

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Ma questo è solamente una delle conseguenze provocate dagli incendi. Pensiamo anche a cosa succede quando tutta la vegetazione brucia. Non essendoci più arbusti, cespugli e alberi, gli animali non trovano più fonti di cibo ed al tempo stesso rimangono senza nascondigli e di conseguenza esposti ai predatori. Questo scenario comporta una riduzione della biodiversità, ed un impoverimento dell'ecosistema, con conseguente incremento di nuove ti-

ad un danno di tipo economico per l'azienda che produce il legname per la vendita, sia esso utilizzato per la produzione di mobili, legna da ardere, pellet o altro. Qualunque sia la natura degli incendi, siano essi naturali, colposi o dolosi, in che maniera ci si può difendere da questi o comunque ridurne l'entità del danno? E' possibile iniziare sostituendo le specie presenti con specie a ridotta infiammabilità e/o combustibilità, come ad esempio specie ad eleva-

pologie di danni, come per esempio l’arrivo di parassiti arborei, ovvero antecedentemente prima inesistenti o tenute sotto controllo da determinati insetti o altri antagonisti naturali. Un incendio di un bosco porta anche

ta capacità pollonifera o specie con corteccia più spessa (sughere). Può essere utile praticare degli sfollamenti, cioè riduzione della densità di piante giovani o il diradamento di piante adulte, così come anche l’eli-

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Ambiente, foreste e natura


minazione di palchi di rami, prelevare il legno maturo e pronto per essere utilizzato o eliminare cespugli ed arbusti. Il tutto al fine di ridurre la massa infiammabile. Inoltre, la tecnica del fuoco prescritto, risulta un utile mezzo per eliminare una porzione di massa vegetale bruciabile. Si tratta di un'azione preventiva che consiste nell'utilizzare il fuoco in condizioni di sicurezza per eliminare foglie, erba secca o altro materiale combustibile, ma al tempo stesso consente di controllare le erbe infestanti, preparare aree per la semina o piantagione, nel caso di rimboschimenti, o ancora favorire le specie vegetali dipendenti dal fuoco (ricordiamo che nel caso di alcune piante come ad esempio i Cistus spp, dopo il passaggio del fuoco, la percentuale di germinabilità aumenta). Infine esistono le opere di prevenzione, rappresentate dai viali ta-

di tipo passivo o attivo. I viali passivi, devono avere larghezze comprese

presa tra 15 e 60 metri e svolgono la funzione di rallentamento del

tra 100 e i 200 metri, al fine di evitare salti di faville o fronteggiare fiamme

fuoco alla quale deve poi essere associata l'azione dell'uomo al fine di completare lo spegnimento dell’incendio. Nell’ambito dei viali tagliafuoco di tipo attivo vi è una tipologia chiamata “viali tagliafuoco attivi verdi”; questi, pur avendo la stessa funzione dei classici tagliafuoco attivi, prevedono unicamente l'eliminazione della vegetazione arbustiva consentendo di ottenere un impatto inferiore dal punto di vista paesaggistico. Chiaramente non esiste un solo sistema valido per scongiurare il rischio di incendi, ma grazie ad un insieme di più strategie risulta possibile ridurre considerevolmente i danni.

Esempio di viale tagliafuoco in Oregon (U.S.) gliafuoco, ovvero fasce di terreno nell’ambito delle quali, grazie all’eliminazione totale della vegetazione, si ottiene l’arresto o il rallentamento delle fiamme; questi possono essere

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di diversa consistenza e svolgono la funzione di arrestare il fuoco senza alcun intervento da parte dell'uomo. I viali tagliafuoco attivi, sono invece caratterizzati da una larghezza com-

Dr. Agronomo Alessandro Lutri www.progettareinverde.com

alessandrolutri@ hotmail.it

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La sella è comoda? Impariamo a “capire” i segnali che ci manda il cavallo di

Gianni Marcelli

Q

uello della giusta dimensione e forma della sella rispetto alla forma e dimensione della schiena del cavallo è uno degli aspetti meno conosciuti del mondo equestre, sicuramente tra gli amatori ma spesso anche tra i professionisti del settore. Il più delle volte le cose vanno bene, o perlomeno sopportabilmente. L’utilizzo spesso saltuario dei cavalli (nei fine settimana) riduce di molto il potenziale dannoso di selle inadeguate, così come la loro capacità di sopportazione delle scomodità (molto più alta che negli umani) fa sì che forme e dimensioni inadeguate non vengano notate dal cavaliere che continua a montare la sua cavalcatura con i soliti attrezzi senza notare nulla di strano. Poi, per fortuna, ci sono anche tanti casi in cui la sella utilizzata va bene per quel certo cavallo e quindi non ci sono problemi di sorta. Ma quando non è così? Cosa prova il cavallo quando lo montiamo con una sella inadeguata? Per rispondere con certezza dovremmo essere cavalli, invece siamo solo umani! Tuttavia possiamo provare a ragionare e fare delle “ragionevoli” congetture. La sella, una volta serrata con il sottopancia, diventa una cosa che “abbraccia” strettamente la schiena del cavallo in tutta la lunghezza della sella stessa, la “stringe” a mezzo del sottopancia e in questo “abbraccio” le forme della sella si “sovrappongono” alle forme della schiena. Un pò quello che accade ai nostri piedi quando mettiamo un paio di scarpe e le allacciamo: la forma e le dimensioni delle scarpe si “sovrappongono” alla forma e alla dimensione del nostro piede. Se le due

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forme e dimensioni (del piede e della scarpa) non si “sposano” in maniera soddisfacente il nostro piede sta più o meno scomodo in quella scarpa. Può essere un fastidio (sopportabile per brevi periodi) oppure un disagio crescente fino ad arrivare alla scarpa dannosa per il nostro piede. Le stesse considerazioni possiamo farle con riferimento alla sella ed alla schiena del cavallo; la sola differenza è che noi possiamo evitare Una sella western: è più importante che sia "comoda" di indossare scarper il cavallo che bella per il cavaliere... pensiamoci pe scomode menprima di fare l'acquisto! tre il cavallo deve accettare quello che noi decidiamo nostro cavallo dal momento in cui apriamo il box per portarlo nel posto di mettere sulla sua schiena. Il cavallo non può né decidere che di insellaggio. Se il cavallo ci viene sella mettere, né comunicare se e incontro quando apriamo il box in quanto una certa sella è comoda per orari diversi da quelli della profenda, la sua schiena. O meglio, il cavallo è un segnale positivo, vuol dire che, attraverso dei segnali lo dice se nel complesso, vive positivamente una certa sella è più o meno comoda la sua relazione con noi. Se invece, per lui, ma il più delle volte noi umani come talvolta accade, si gira verso non siamo in grado di “percepire” le il muro, magari dandoci i posteriori, non è un bel segnale. Qualcosa cose che il cavallo ci comunica. Ci accorgiamo che la sella è inade- non va, non necessariamente la guata solo a danno fatto (fiaccatu- sella, ma qualcosa nel nostro modo re, comparsa di peli bianchi, mal di di porci con lui non è gradito al cavallo, forse siamo troppo aggressivi, schiena, problemi ai reni…). La parola magica per capire cosa il o sbagliamo delle cose, o forse procavallo ci dice con riferimento alla prio una sella scomoda incide negativamente su tutta la percezione che sella è “osservazione”. Dobbiamo imparare ad osservare il il cavallo ha delle sessioni di lavoro

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con noi. Poi andremo nel posto di insellaggio, brusca e striglia e prendiamo la sella. Qual è il suo atteggiamento in questa fase? È molto importante che il cavallo rimanga sereno e rilassato. Se invece abbassa le orecchie, scuote la testa, assume atteggiamenti negativi, di difesa, si scosta cercando di ostacolarci nel gesto di mettere la sella ci sta dicendo qualcosa, forse che quella sella gli è sgradita! Prima di concludere che è un cavallo svogliato, rognoso e quant’altro chiediamoci se la sella che usiamo con lui va bene per la sua schiena. Ancora, quando tiriamo il sottopancia il cavallo ha degli atteggiamenti di assoluto fastidio? Scuote la coda, scuote la testa, nel momento in cui serriamo sembra quasi barcollare, perdere l’equilibrio… sono altri segnali che possono indicarci una sella errata. Poi, una volta sellato inizia la sessione di lavoro. Prima al passo, poi al trotto, esercizi di riscaldamento, galoppo ecc., com’è il suo atteggiamento? Mostra serenità e buona volontà? Oppure è rattrappito, non allunga bene il passo, al trotto è contratto, sembra quasi che lavori sulle punte, non distende la falcata… sono tutti altri segnali riconducibili probabilmente ad una sella di misura sbagliata. Anche qui, prima di passare al frustino, speroni ecc., prima di giudicare il cavallo svogliato o pigro prendiamo in considerazione l’ipotesi di una sella inadatta. Finita la sessione di lavoro toglieremo la sella. Ancora l’osservazione del nostro amico può darci utili informazioni. Quando togliamo il sottosella la schiena si presenterà uniformemente bagnata oppure con delle macchie asciutte. Voglio tranquillizzare su questo fenomeno. La presenza di macchie asciutte non è di per sé una prova di una sella inadatta. È un fenomeno che si presenta sovente senza che il cavallo abbia alcun problema, specie se si tratta di quelle macchie grandi ai lati del garrese o un pò più indietro. Sembrerebbero essere più preoccupanti le macchie asciutte piccole e diffuse. Comunque ripeto, le macchie asciutte, di

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per sé, non sono una prova, diventa- re che usiamo strumenti sbagliati o no un indizio se unite agli altri feno- abbiamo comportamenti o posture in meni descritti sopra o che vedremo sella o modi di lavorare il cavallo che a breve, o ad alcuni di essi. sono sbagliati. Questo spesso non A questo punto possiamo fare una è gradito al cavaliere in quanto eviprova molto importante. Passia- denzia la necessità di cambiamenmo i diti pollice e medio ai lati della ti che possono essere di materiali spina dorsale partendo dal garrese (costi per il cavaliere) o di comporfino alla zona lombare esercitando tamenti (rimuovere abitudini consouna pressione importante, non una lidate). Di fronte a queste situazioni carezza ma una energica pressione c’è spesso una quasi naturale resiai lati della spina dorsale dal garre- stenza a mettersi in discussione e se ai lombi. Se non ci sono problemi si cercano allora gli alibi, le risposte per il cavallo sarà come se passas- che ci riportano alla nostra area di se una mosca sulla sua schiena. Se comfort che spesso consiste nel non invece in qualche punto mostrerà cambiare nulla. fastidio o peggio sofferenza significa Questo comportamento è umano e che in quel punto ci sono problemi. molto diffuso, tendiamo naturalmenSe a livello dei reni cederà flettendo te ad ascoltare solo ciò che vogliai posteriori vuol dire che la sua zona lombare è sollecitata in maniera sbagliata. Questa situazione è piuttosto diffusa purtroppo e può dipendere da diversi fattori come un cattivo assetto del cavaliere troppo sbilanciato sulla paletta della sella, selle con il seggio troppo grande per il caClassico esempio di una sella sbagliata: le macchie di valiere che facili- peli bianchi sono la conseguenza di una sella stretta che provoca ad ogni passo lo schiacciamento doloroso del tano i fenomeno muscolo tra il fusto della sella e l'osso della scapola dello sbilanciamento indietro dello stesso, selle costruite male mo sentirci dire e diamo più credito con una giunzione posteriore delle a chi ce lo dice mentre tendiamo a gonne che anziché liberare la zona sfuggire chi ci mette in discussione. lombare la comprimono, cavalli non Tuttavia il benessere del cavallo riben muscolati, lavorati male per cui chiede uno sforzo da parte nostra, invece di portare bene sotto i poste- un atto di responsabilità verso un riori tendono ad insellarsi (cavallo animale meraviglioso che dipende rovesciato). totalmente dalle nostre scelte e deSpesso, purtroppo, è una combina- cisioni. zione di tutte queste cause. Se non riusciamo a fare questo sforCominciare ad “osservare” il cavallo, zo sarebbe meglio dedicarsi ad altre i suoi comportamenti e le sue reazio- attività che non prevedano una conni ci aiuterà a capire meglio come lui troparte vivente che dipende da noi. vive la relazione con noi e come noi possiamo migliorare questa relazione rendendola più confortevole per Gianni Marcelli lui. Titolare GianniWest Attenzione, questa “osservazione Saddlery consapevole” può portare a scopri-

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Chi siamo

Associazione di Agraria.org

L’Associazione di Agraria.org è stata costituita nel 2013 da un gruppo di giovani laureati in Agraria, Scienze Forestali e Veterinaria. Fin dalla sua fondazione, grazie all’impegno dei tantissimi associati sparsi per tutta Italia, ha promosso ed organizzato numerose iniziative per diffondere le conoscenze riguardanti pratiche agricole ed agro-alimentari sia a scopo amatoriale che professionale, supportare le piccole realtà agricole nella promozione della loro attività attraverso la vendita diretta, favorire l’inserimento dei diplomati e laureati del nostro settore e la crescita delle aziende agricole associate.

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Avvicinamento all'orticoltura amatoriale

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Cosa facciamo L’Associazione ha compiuto il suo quarto anno (il 1° marzo 2017): guardandoci indietro ci rendiamo conto, non senza stupore, della strada fatta (migliaia di persone coinvolte, le tante azioni di divulgazione scientifica sul territorio, gli innumerevoli lettori di TerrAmica, etc), ma se volgiamo lo sguardo in avanti, viene naturale una spinta grintosa per il proseguimento degli ultimi progetti messi in cantiere. Recentemente abbiamo promosso una serie di incontri per imparare a fare l’orto e realizzare composizioni floreali, oltre che organizzato delle escursioni alla ricerca di erbe spontanee commestibili e funghi; inoltre non sono

Incontri sul compostaggio domestico

Spazio Associazione di Agraria.org


Alcuni incontri a tema organizzati dall’Associazione per gli iscritti mancati percorsi di avvicinamento al vino con gli ormai consueti incontri (quinta edizione) del corso di degustazione “DE-GUSTA vino” che ogni anno avvicina al mondo del vino tante persone. Grande successo ha riscosso l’iniziativa organizzata con il comune di Firenze e Alia (l’azienda del trattamento dei rifiuti dell’area fiorentina) che ha visto l’associazione impegnata in una serie di incontri sul compostaggio domestico. Continua inoltre il rapporto di collaborazione con l’associazione Foresta Modello delle Montagne Fioren-

Progetto europeo Erasmus + tine, per consolidare i rapporti con le varie realtà locali, nonostante l'associazione si mantenga viva a livello nazionale e in ottobre insieme ad altre associazioni del territorio abbiamo organizzato una giornata alla scoperta di Vallombrosa (FI) dal titolo: "Vallombrosa, miti, simboli e colori”. Tale iniziativa verrà riproposta anche nell’ottobre 2018 e avrà come tema il paesaggio e i pascoli montani appenninici. È proseguita anche la collaborazione con l'azienda agricola “La Lumaca Madonita”, con la quale abbiamo promosso il corso professionale di elicicoltura, presso la sede aziendale di Campofelice di Roccella (PA). Eventi e convegni: l’ultimo raduno nazionale dell’Associazione e del Forumdiagraria.org si è svolto a Spilamberto (MO) nel settembre 2016 e ha visto una grande partecipazione di soci provenienti da tutta Italia. La giornata è iniziata con la visita ad un’acetaia dove viene prodotto da generazioni l’aceto l’aceto balsamico tradizionale ed è poi proseguita con un ricchissimo pranzo sociale. L’Associazione ringrazia i soci e forumisti “storici” che non fanno mai mancare la loro presenza e la loro disponibilità ed accoglienza: ci regalano sempre dei mo-

Spazio Associazione di Agraria.org

menti fantastici insieme a persone che ormai consideriamo essere più che amici! Rimanete in contatto con l’associazione sulla pagina Facebook o sul Forumdiagraria. org per scoprire dove sarà il raduno nazionale del 2017! Erasmus +: Da aprile 2016 l'Associazione di Agraria.org è andata oltre i confini nazionali e ha volto lo sguardo verso l’Europa. Siamo stati accreditati come ente di invio nell'ambio del Servizio Volontario Europeo (SVE) all'interno del programma Erasmus + dell'Unione Europea. Il Servizio Volontario Europeo offre ai giovani tra i 17 e i 30 anni l’opportunità di svolgere un’attività di volontariato in un Paese del programma o al di fuori dell’Europa, per un periodo che va da 2 a 12 mesi, impegnati come “volontari europei” in progetti locali in vari settori o aree di intervento: cultura, gioventù, sport, assistenza sociale, patrimonio culturale, arte, tempo libero, protezione civile, ambiente, sviluppo cooperativo e tanti altri temi. I volontari selezionati dall’Associazione potranno intraprendere un’esperienza che segnerà il resto della loro vita a costo zero, come collaborare presso un’organizzazione no-profit in altri paesi europei, accrescere le competenze nel terzo settore e nel settore del sociale, imparare una nuova lingua e migliorare le competenze di inglese. Rimani in contatto con l’Associazione per scoprire tutte le possibilità!

Diventa uno di noi Entra a far parte anche tu di questa grande comunità di appassionati del mondo agricolo e ricevi i prossimi numeri di TerrAmica comodamente e gratuitamente a casa tua. Altri vantaggi per i soci: ● partecipazione ad eventi ed incontri in tutto il territorio nazionale organizzati dall’Associazione ● possibilità di partecipazione a fiere nazionali sull’agricoltura ed ambiente a condizioni agevolate ● visibilità per i giovani tecnici che si affacciano nel mondo del lavoro ● promozione delle aziende agricole guidate da giovani imprenditori (progetto “Smart Farm”) Iscriviti online a soli 10€ l’anno su: www.associazione.agraria.org

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Come fare per RICEVERE TERRAMICA direttamente a casa tua Per ricevere “TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org” è sufficiente essere soci. Per associarsi bastano 10€ l’anno! Ecco i pochi e semplici passaggi per iscriversi: 1. Accedi al sito www.associazione.agraria.org 2. Clicca in alto a destra su “Iscriviti all’Associazione” 3. Compila il modulo con i tuoi dati e scegli il metodo di pagamento desiderato 4. Decidi se pagare con Paypal, Bonifico bancario o Bollettino postale ed attendi il buon esito della registrazione 5. Versa la quota associativa e... ricevi a casa TerrAmica!

Per qualsiasi problema o informazione scrivi a associazione@agraria.org o telefona al numero +39 388 5867540

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Come associarsi



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