TerrAmica - Num. 2 - 2015

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N째 2 - GENNAIO

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COME METTERE A DIMORA I FRUTTIFERI INIZIARE UN ALLEVAMENTO DI LUMACHE LE CONSERVE ALIMENTARI CASALINGHE LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

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EDITORIALE 4

La ricchezza dei giovani imprenditori

di Flavio Rabitti

COLTIVAZIONI 5 7 10 11 13 14 17

sommario

di Eugenio Cozzolino di Marco Gimmillaro di Gianfranco Gamba di Francesco Marino di Guglielmo Faraone di Lorenzo Mariotto di Marco Beconcini

ZOOTECNIA

Mettere a dimora le piante da frutto

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di Davide Merlino Parliamo di Elicicoltura Conigli: la gestione del nido di C. Papeschi e L. Sartini di Daniel Marius Hoanca La quaglia della California L’allevamento del di Lapo Nannucci e Gianni Brundu Riccio di mare di Pasquale D’Ancicco Razze avicole campane di Romeo Caruceru Api, piante, polline

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Lotta ai cambiamenti climatici

Iniziare ad allevare le lumache

ANIMALI DA COMPAGNIA 35 37 39

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ANNO II - N° 2 - GENNAIO 2015 Direttore editoriale: Flavio Rabitti

Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti

Direttore responsabile: Marco Salvaterra

Reg. Tribunale di Firenze nr. 3876 del 01/07/2014

Periodicità: Semestrale

Stampa: Tipografia Baroni e Gori srl Via Fonda di Mezzana, 55/P 59100 - Prato

Redazione: Cristiano Papeschi (Responsabile scientifico Zootecnia), Eugenio Cozzolino (Responsabile scientifico Coltivazioni), Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Luca Poli, Lapo Nannucci

Il Bouledogue francese La nascita del cane L’allevamento del canarino

di Federico Vinattieri di Gian Piero Canalis di Federico Vinattieri

AGROALIMENTARE ITALIANO

TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org Sede legale: Via del Gignoro, 27 - 50135 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org www.associazione.agraria.org

Foto copertina: Leonardo Graziani

Il carciofo di Pietrelcina La mosca della frutta Le colture foraggere La messa a dimora dei fruttiferi Sesamo apriti L’olivo in Toscana Gli agrumi ornamentali

Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.

I solfiti in enologia Il pesce azzurro Caseificazione casalinga Le conserve alimentari La Luganega del Trentino L’etichettatura degli alimenti

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di Marco Sollazzo di Mauro Bertuzzi di Ermanno Bodeo di Michele Fuscoletti di M. Salvaterra e A. Gasperi di Ivano Cimatti

AMBIENTE, FORESTE E NATURA 51 53 54 56 58 60

L’Iperico Il fungo Marzuolo Lotta ai cambiamenti climatici La Tartaruga di terra La raccolta del legno

di Nino Bertozzi di Matteo Ioriatti di Marco Giuseppi di C. Papeschi e L. Sartini di Luca Poli

ASSOCIAZIONE DI AGRARIA.ORG

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ne.it Sommario

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La ricchezza dei giovani imprenditori agricoli Da un po’ di tempo parte dell’attenzione dei media sembra essersi rivolta all’imprenditoria giovanile, soprattutto quella agricola; dati alla mano, indicano come siano in netta crescita le imprese guidate da giovani che hanno meno di 35 anni. La profonda crisi mondiale, aiutata molto probabilmente dall’incapacità dei governi che si sono susseguiti di gestire il mondo del lavoro, ha portato alla disintegrazione della figura del dipendente (soprattutto quello a tempo indeterminato) spingendo di fatto coloro che si apprestavano ad entrare nel mondo del lavoro (o che già vi erano dentro) a dover pensare a qualche altra soluzione. Tutti i settori sembrano essere in ginocchio, ma in fondo al tunnel sembra di scorgere un piccolo spiraglio di luce; è il settore agricolo che, nonostante tutte le difficoltà (burocratiche e non), ancora sopravvive. Sono proprio le piccole imprese, spesso familiari, il vero nocciolo duro dell’economia del nostro Paese ed è proprio su queste che dovrebbero concentrarsi gli sforzi dei nostri legislatori per far sì che possano non solo resistere, ma anzi, continuare a svilupparsi.

Editoriale

Sono molto spesso piccole aziende anche quelle guidate dai giovani imprenditori; questi veri e propri gladiatori del XXI secolo, che passano il 70% del loro tempo dietro alla burocrazia invece di svolgere il loro lavoro, sono la vera risorsa del nostro Paese e meritano tutto il sostegno necessario. Vanno considerati gladiatori in quanto aprire e gestire un’azienda significa lottare e scontrarsi ogni giorno con regolamenti e normative molte volte di dubbia utilità, che spesso sembrano pensate appositamente per rendere la strada insidiosa e difficile ai più, con un senso logico di difficile comprensione. A questo si aggiungono gli investimenti necessari ad avviare o a mantenere un’attività agricola, senza contare i rischi che sono strettamente legati alle attività “all’aria aperta” e che si è costretti a svolgere in “società” con la natura e l’ambiente circostante; ad esempio le difficoltà causate dai fenomeni meteorologici, che negli ultimi anni stanno diventando sempre più estremi e catastrofici. Anche se ci sono moltissime cose da migliorare nell’assetto imprenditoriale del nostro Paese, gli aiuti per i nostri imprenditori agricoli ci sono e ci sono stati. Il MIPAAF (Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali) ha fatto sapere che “nel corso del 2013 sono stati erogati in agricoltura contributi pari a 2,5 miliardi di euro, di cui circa 1,16 miliardi messi a disposizione dall’Unione europea. In cima alla classifica della spesa si sono confermate le Regioni del Centro Nord, in partico-

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lare la Provincia autonoma di Bolzano (con l’89,2% della spesa realizzata), seguita dalla Provincia di Trento, dalla Lombardia e dalla Valle d’Aosta (con percentuali di spesa superiori al 70% delle rispettive disponibilità), mentre le rimanenti Regioni del Centro Nord hanno raggiunto una percentuale prossima alla media della spesa fatta registrare dal gruppo “Competitività” (67,45%). Per le Regioni del Sud (gruppo Obiettivo Convergenza), la percentuale media di spesa è rimasta purtroppo nettamente inferiore alla media nazionale”. Nonostante gli aiuti messi a disposizione, però, le difficoltà per i nostri giovani gladiatori sono ancora molte. L’Associazione di Agraria.org ha posto fin da subito fra i suoi principali obiettivi anche quello di supportare gli agricoltori ed i nuovi imprenditori in questo settore nella promozione della loro attività, anche grazie alla diffusione della vendita diretta. Un altro aiuto viene dato promovendo la filiera corta ed i prodotti dell’agro-alimentare italiano (ricordo anche il servizio gratuito www.aziende. agraria.org). Particolare attenzione viene riservata alle cosiddette “smart-farm”, cioè quelle piccole aziende gestite da giovani under 35 che soddisfino requisiti di eco-sostenibilità, innovazione e competenza, di cui il nostro Paese è ricco. Saranno in particolare proprio queste attività il fiore all’occhiello dell’economia del Paese, che contribuiranno a far conoscere le nostre tradizioni e le specialità in tutto il mondo, donando prestigio e ricchezza all’intera comunità. Oltre all’aspetto economico, anche se direttamente collegato, è giusto ricordare che chi decide di lavorare in agricoltura è molte volte anche il diretto responsabile del ripristino dell’assetto del territorio, che in molte zone è da tempo in condizioni decisamente critiche. Pensiamo per esempio a coloro che rendono nuovamente coltivabili aree rimaste per anni incolte o ubicate in aree marginali o ancora a rischio idrogeologico; lo sviluppo, la valorizzazione ed il ripristino del territorio parte in primis dall’agricoltura, soprattutto in un paese come l’Italia che ha fatto dell’agroalimentare il proprio oggetto di vanto con cui essere conosciuti in tutto il mondo.

Flavio Rabitti Direttore editoriale Rivista TerrAmica

Editoriale


Il Carciofo di Pietrelcina Le caratteristiche ed i segreti della coltivazione di questo particolare ecotipo di carciofo campano di

Eugenio Cozzolino

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a Campania ha sicuramente un patrimonio eno-gastronomico unico per varietà e pregio, giustamente riconosciuto fin dai tempi più antichi. Gli affreschi di alcune ville patrizie delle città vesuviane di Pompei ed Ercolano, dissepolte dalla lava del vulcano, mostrano frutta e ortaggi che fino a pochi anni fa le massaie campane acquistavano al mercato ed utilizzavano in cucina, come elementi essenziali della ormai celebre “dieta mediterranea”. Ma negli ultimi 30 anni nuovi stili alimentari e una distorta percezione “del bello e del buono” da parte della maggioranza dei consumatori, (più attenti all’estetica di ciò che mangiavano rispetto ai contenuti), hanno relegato in posizione sempre più marginale risorse ed abitudini alimentari di tradizione millenaria. Oggi, grazie ad una nuova consapevolezza dei consumatori sull’importanza di una corretta e sana alimentazione uni-

ta ad un rinnovato interesse per le tradizioni della propria terra ed alla maturata attenzione ai temi della sicurezza alimentare e della salvaguardia ambientale, questo patrimonio è tornato alla ribalta. I prodotti alimentari tradizionali, rimasti nel ri-

Coltivazioni

cordo e nella cultura di una ristretta cerchia di produttori delle aree più interne, vengono ricercati non più da pochi appassionati fedeli, ma da sempre più numerosi consumatori, che a tale ricerca associano la riscoperta delle tradizioni, della cultura e delle bellezze della nostra terra. Con il D.M. 350/99 il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, di concerto con le Regioni, ha attivato gli strumenti necessari a salvaguardare questi alimenti conservandone le metodiche tradizionali di produzione, ricchezza dell’agricoltura e della cultura italiana; al contempo vengono assicurate ai consumatori le necessarie condizioni di igiene e sicurezza alimentare. Il Carciofo di Pietrelcina, rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Campania. Pare che ad introdurre questa coltura a Pietrelcina (Benevento) sia stato il Prefetto di Bari, certo ingegner Cardona, intorno al 1840. Si tratta di un biotipo locale del “Romanesco”, così come dimostrerebbero

Coltivazioni

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alcuni caratteri della pianta. In particolare la forma globosa e compatta del capolino, la presenza del foro centrale alla sommità dello stesso, la forma a “V” aperta dell’apice delle brattee, che sono altresì inermi, la colorazione verde alla base delle stesse con sfumature violacee lungo i bordi, ecc. Il carciofo di Pietrelcina è apprezzatissimo per la sua tenerezza e per il suo sapore molto delicato. Già dal 1976, a Pietrelcina, il carciofo è oggetto di valorizzazione e diffusione attraverso una sagra che si tiene ogni anno a maggio, dove il prodotto trova una sua collocazione commerciale sia allo stato fresco che trasformato. Il territorio di coltivazione è principalmente quello del comune da cui prende il nome la varietà, a ridosso dell’area fluviale del fiume Tammaro, affluente del Calore; si estende anche ai limitrofi

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territori di Paduli, Pesco Sannita e Pago Veiano, anche se Pietrelcina rimane il comune dove la coltura è maggiormente rappresentativa. In questo areale il carciofo è stato sempre coltivato in appezzamenti non molto ampi, con un procedimento strettamente legato al lavoro umano in tutte le sue fasi; oltre che per la raccolta, il lavoro manuale è utilizzato anche per il taglio estivo degli steli e per la “scarducciatura”, cioè l’eliminazione dei germogli superflui. Questa viene operata prevalentemente in autunno inoltrato e ripetuta in primavera, quando i giovani cardi, appena estirpati vengono deposti sulle infiorescenze immature per preservarle dai raggi del sole che ne altererebbero il colore e ne comprometterebbero l’eccezionale morbidezza. Le carciofaie sono poliennali con durata fino a 7 anni. L’impianto è fatto in autunno con carducci che vengono staccati dalle piante madri poco prima dell’impianto o con quelli posti a radicare in vivaio. La densità di impianto varia dalle 8.000 alle 10.000 piante per ettaro. Prima dell’impianto si effettua una lauta concimazione organica che viene ripetuta ogni anno somministrando il letame in postarelle in prossimità delle piante. Raramente vengono apportati fertilizzanti di sintesi e nessun trattamento di tipo chimico viene effettuato alle piante. La raccolta, scalare, comincia a fine aprile con le “mammarelle”, ovvero i capolini principali e termina a giugno con la raccolta dei capolini di terza scelta usati per la preparazione di conserve, in genere solo per uso familiare (soprattutto carciofini sott’olio e creme di carciofi per cucina). Anche i carducci, che si sviluppano alla base della pianta di carciofo, trovano una loro collocazione sul mercato locale.

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Infatti, previamente piegati, legati e ricoperti con terra, (crescendo pertanto in assenza di luce), sviluppano dei tessuti di colorazione biancastra, consistenza carnosa e tenera con assenza di fibre coriacee. A Benevento questa verdura, conosciuta con il nome di “cardone”, è molto richiesta nel periodo natalizio ed è utilizzata come ingrediente fondamentale in alcune minestre dal sapore molto delicato che ricorda quello dei carciofi. Anche l’operazione di legatura, detta “ammazzamento”, segue un antico procedimento tradizionale: si raccolgono in mazzetti ognuno dei quali è composto da quattro mammarelle (cioè capolini centrali), detti anche “cimarole”, legate con dei giunchi (detti “vinchi” in dialetto), che ancora oggi si raccolgono, come una volta, lungo le sponde del vicino fiume Tammaro. Bibliografia http://www.agricoltura.regione.campania.it/ tipici/tradizionali/carciofo-pietrelcina.htm http://www.calidone.it/ProgPilImplFilAgro2/ ORTOFRUTTA/CARCIOFO%20DI%20PIETRELCINA%20DEF.pdf http://www.comune.pietrelcina.bn.it/index. php/manifestazioni-eventi/sagra-del-carciofo

Dr. Eugenio Cozzolino Laureato in Scienze Agrarie eugenio.cozzolino @entecra.it

Coltivazioni


La mosca mediterranea della frutta Impariamo a conoscere e combattere questa temibile insidia per i nostri fruttiferi di

Marco Gimmillaro

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a Ceratitis capitata, comunemente conosciuta come Mosca mediterranea della frutta, è un dittero tripetide largamente diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo; è presente anche in Italia, specie al Sud, dove in diversi areali trova condizioni molto favorevoli al proprio sviluppo, causando ingenti danni in molte colture. Si tratta di una specie polifaga che si sviluppa e nutre a carico di fruttiferi a produzione estiva ed autunnale, spostandosi da una coltura all’altra via via che i frutti maturano. Le specie più colpite sono il fico, il pesco, l’albicocco, il nespolo del Giappone, il fico d’India e gli agrumi, in particolare il clementino e tutti i mandarini a maturazione autunnale, ma può attaccare anche il pero

e il melo. La sua dannosità è però limitata a determinate aree o a condizioni climatiche più o meno passeggere; nelle zone a clima temperato la dannosità aumenta fortemente negli anni preceduti da inverni miti. Si è evidenziato che temperature medie mensili inferiori a 10°C nei 3-4 mesi invernali ne impediscono l’acclimatazione; per questo motivo in molte aree del Nord la sua presenza è saltuaria. La mosca mediterranea della frutta rappresenta un fitofago di primaria importanza per molte colture nelle aree dove è presente. I suoi attacchi sono ampliati dalla sua polifagia e dalla facilità con cui si può moltiplicare in aree a frutticoltura intensiva e consociata; i frutti ven-

Danni da Ceratitis capitata su pesco

Coltivazioni

gono colpiti in prossimità della raccolta e solitamente la suscettibilità aumenta dalla fase dell’invaiatura. La dannosità è esaltata dalla capacità, frequente a carico degli agrumi, di causare con le punture di ovideposizione un’accelerazione della maturazione del solo epicarpo che si traduce in una cascola anticipata dei frutti. Tipico è il sintomo sugli agrumi delle punture di ovideposizione, che si manifesta con una macchia giallastra nei frutti ancora verdi e verde invece se il frutto è già colorato, mentre sul pesco causa delle macchie depresse brunastre, a volte accompagnate dall’emissione di resina. Le femmine depongono numerose uova per frutto dove si ha lo sviluppo contemporaneo di diverse larve; nei frutti prossimi alla raccolta ciò porta al disfacimento e alla marcescenza della polpa che viene solitamente attaccata anche da agenti fungini, provocando la cascola precoce dei frutti colpiti. Importante per avere lo sviluppo delle larve è la suscettibilità del frutto, cioè la fase in cui viene attaccato, perché se non maturo, o se il pH della polpa non è favorevole, si hanno a volte solo delle punture sterili che non portano allo sviluppo della larva, ma che comunque provocano la decolorazione dei frutti. Per questo, nelle varietà più tardive di agrumi si possono avere le punture ma non il danno alla polpa e quindi la cascola. Il monitoraggio di queste punture è importante e gene-

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quanto succede per la mosca delle ciliegie. Anche la fertilità della femmina è legata alle condizioni climatiche ma generalmente è molto alta; infatti può deporre anche oltre 500 uova. Le larve nascono dopo pochi giorni e in 7/15 giorni completano il loro ciclo. Le larve si impupano fuori dal frutto Trappola a feromoni per il monitoraggio dell’insetto nel terreno a circa 10 cm di profondità ed in ralmente inizia nei frutti più esposti a condizioni favorevoli si sud della chioma: questo serve, oltre sviluppano nuovamente gli adulti in al monitoraggio degli adulti, ad indi- 10-20 giorni. Come già detto, questo viduare l’inizio dell’infestazione. è un insetto fortemente influenzato Generalmente questo insetto sver- dalle condizioni ambientali ed è anna come pupa nel terreno, anche che per questo che la sua diffusione se nelle zone più calde può passare è per areali. Infatti gli accoppiamenti l’inverno anche da adulto; i voli ini- e quindi le ovodeposizioni possoziano già a giugno ma i danni mag- no avvenire con temperature al di giori si manifestano ad estate inol- sopra di 15-16°C, con temperature trata. Solitamente compie fino a 7 ottimali di 20-30°C. L’incubazione generazioni al sud Italia, in base alle dura circa 48 ore a temperatura otcondizioni climatiche, mentre nel- timale di 26-28°C in estate, mentre le regioni settentrionali dove è pre- in autunno-inverno, con temperatusente compie da 2 a 4 generazioni. re medie di 15-16°C, occorrono 4-7 Le femmine depongono le uova in giorni. All’approssimarsi della soglia gruppi di 4/10, provocando con l’o- termica inferiore (9°C) l’incubazione vodepositore delle lesioni di 1-2 mm; dura sempre più a lungo (circa un spesso le uova vengono deposte in mese a 10-11°C). La soglia termica precedenti lesioni provocate da altre superiore è di molto più alta di quella femmine ed è per questo che il nu- della Bactrocera (39°C contro 32°C), mero di larve può essere molto alto il che può essere considerato testiper frutto colpito, contrariamente a monianza dell’origine tropicale della specie. Le temperature critiche, minime e massime, degli stadi pre-immaginali sono di 9-11°C e 40°C, ma una certa sopravvivenza si riscontra anche a valori più estremi. Tuttavia è sufficiente un’esposizione a 0°C Sintomo delle punture di ovodeposizione su pesco per qualche

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Adulto di Ceratitis capitata giorno consecutivo per uccidere tutte le uova e le larve presenti nei frutti; questa sensibilità viene sfruttata nel sistema di “Cold treatment” usato per la quarantena obbligatoria per l’esportazione degli agrumi in paesi indenni dal parassita, quali il Giappone. A 29°C la durata della vita larvale è di 9-12 giorni che può allungarsi, con l’abbassarsi della temperatura, fino ad avvicinarsi ai 13 mesi con 8-12°C. Per ciò che riguarda lo stadio pupale, in condizioni naturali, va dai circa 10 giorni in estate a circa un mese in inverno. Le pupe, nelle giuste condizioni di umidità, sopportano bene temperature di 34-37°C, ma a valori superiori, soprattutto se associate a bassa umidità, la mortalità può raggiungere il 100% se il suolo non è protetto dalla vegetazione. I 45°C rappresentano la soglia superiore per la sopravvivenza, con una mortalità del 100%, ma anche temperature massime giornaliere prossime ai 38°C per qualche giorno consecutivo provocano la morte di gran parte degli individui immaturi presenti in campo. Per ciò che riguarda le basse temperature, la resistenza è più elevata nelle pupe e negli adulti, con valori limite fino a -4 e -5°C. Comunque il fattore meteorologico che principalmente funge da regolatore delle popolazioni è la temperatura media minima invernale. Infatti gli adulti sono decimati in inverni rigidi, quando per esempio si sussegue una temperatura media mensile di 2°C per 1-3 mesi o di 10°C per 4 mesi. La durata di una generazione è funzione del decorso meteorologico e può variare dai 20 giorni in estate ai 3 mesi in inverno; conseguentemente anche il nume-

Coltivazioni


per stabilire la soglia di in- usare varie esche avvelenate con tervento, ma deve servire formulati già pronti in commercio o solo a verificare la presen- con esche estemporanee preparaza dell’insetto. Il parame- te al momento dell’applicazione mitro che deve far decidere il scelando esche proteiche ad esteri momento in cui iniziare gli fosforici o piretroidi. Le esche, da interventi è la suscettibilità distribuire solo in parti della chiodel frutto. Oltre alla presen- ma, sono molto valide per ridurre la za dell’insetto, un aiuto per quantità di fitofarmaci impiegati ma capire l’inizio dell’attività hanno il problema che sono facilsono le punture sterili, che mente dilavate dalle piogge; la loro sono le prime punture sui distribuzione va quindi ripetuta dopo frutti ma provocate quando ogni precipitazione e devono essere il frutto è in una fase non fa- impiegate su grandi superfici, supeDanno da Ceratitis capitata su agrumi vorevole allo sviluppo della riori ad un ettaro (non sono impiero delle generazioni per anno varia larva. In commercio sono gabili su piccole superfici o alberi a seconda del clima della zona. Le presenti diverse tipologie di trappole: isolati). Altri sistemi di lotta sono la popolazioni variano sia a seconda - trappole cromotropiche con colori cattura massale, che si ottiene imdelle condizioni climatiche sia delle giallastri che attirano i ditteri ma che piegando un alto numero di trappole coltivazioni in atto, risultando ovvia- hanno il problema di attirare anche per ettaro, o i sistemi di attract and mente superiori nel caso di una mag- gli insetti utili; kill, dove si distribuiscono nel fruttegiore varietà di fruttiferi presenti. Ele- - trappole attivate con una sostanza to dei dispositivi fissi avvelenati; envate mortalità sono state osservate sintetica, che agisce attirando gli in- trambi i sistemi hanno lo stessa proper azione di venti caldi e secchi e setti, solitamente a base di trimedlu- blematica delle esche liquide, quindi per elevata umidità del suolo; una re, feromone che attira i maschi; devono essere impiegati su grandi piovosità di 1800 mm/anno ostaco- - bottiglie trappola con soluzioni ac- superfici. Questi sistemi permettono la fortemente la mosca, ma anche quose di fosfato ammonico, additi- di integrare la lotta chimica tradiziol’elevato contenuto di tannini e di oli vate quindi con sostanze alimentari nale, lotta che è basata su pochi prinessenziali nella cipi attivi autorizzati. Ma le frutta sono un’uldifficoltà maggiori si hanno teriore barriera perché i principi attivi utilizunitamente allo zati devono avere un basso spessore deltempo di carenza, visto che la buccia. Tutte le applicazioni vengono efqueste informafettuate fino alla raccolta. zioni ci devono Per piccole superfici o su aiutare a capire pochi alberi, anche se in alcome prevedere cuni comprensori di pesche l’infestazione e tardive a pasta gialla viene come interveniimpiegato anche su vasta re nel momenscala, è molto valido il sito di maggiore stema che protegge i frutti Insacchettamento dei frutti (foto Az. Agr. Tavi di Leonforte Enna) suscettibilità dei con dei sacchetti di carta; frutti, perché una lotta efficace alla o altre sostanze azotate che attirano l’insacchettamento avviene a giugno mosca si ottiene con l’integrazione soprattutto le femmine che hanno le e permette di proteggere i frutti fino di vari sistemi di controllo. Infatti la uova in maturazione. alla raccolta, riducendo praticamendifesa è basata sulla lotta biologica te a zero l’uso dei fitofarmaci (e non e sull’uso di mezzi di controllo agro- Le trappole devono essere posi- solo per la mosca). nomico e chimico. Sicuramente per zionate nella chioma degli alberi, Bibliografia la mosca il concetto di lotta guidata soprattutto nel lato esposto a sud, Insetti dannosi delle piante da frutto, di A. è fondamentale, per tanto si attuano dove generalmente ci sono i frutti più Pollini Ed. Agrarie tecniche di monitoraggio delle popo- maturi che attirano maggiormente le Scheda: Mosca mediterranea della frutta, lazioni per meglio seguire l’evoluzio- mosche; inoltre per avere un monitoArpa Sardegna, link: www.sar.sardegna.it/ ne delle infestazioni e per stabilire le raggio attendibile dovrebbero essere documentazione/agro/moscafrutta.asp giuste epoche degli interventi. almeno 2 per ettaro. La mosca non Il monitoraggio deve iniziare preco- ha antagonisti efficaci e per questo Dr. Agronomo cemente, quando ancora i frutti non il mezzo chimico rimane ancora la Marco Gimmillaro sono maturi, generalmente nelle fasi soluzione più utilizzata ma, visto che marcogimmillaro@ hotmail.com di pre-invaiatura; però non può es- l’insetto viene facilmente attirata da sere usato come metodo esclusivo varie sostanze proteiche, si possono

Coltivazioni

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Le colture foraggere nelle aziende zootecniche di

Gianfranco Gamba

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opo aver accennato nel n°1 di di fatto impedisce la crescita di erbe TerrAmica alla rotazione trien- non desiderate. È possibile comunnale mais, soia, grano per le que l’instaurarsi di graminacee che aziende puramente cerealicole, am- naturalmente si trovano nei prati pepliamo il discorso per le aziende zo- renni (lolium, poa, festuca, dactylis) otecniche soprattutto bovine, dove si che col passare degli anni ne depriha necessità di avere foraggi di buona qualità a costi ragionevoli e con bassi input energetici. In questo ambito la regina delle foraggere rimane l’erba medica, soprattutto per i terreni seminativi non irrigui negli areali del centro nord del nostro paese, dove si concentra l’allevamento bovino sia da latte che da carne a ciclo aper- Erba medica (Medicago sativa) to e chiuso. Questa foraggera ben si inserisce mono la crescita. nella rotazione triennale che, in ge- Per il buon mantenimento del menere, viene seminata dopo il grano dicaio è sempre necessario, dopo nel periodo di agosto - settembre nei l’ultimo taglio, effettuare un apporterreni collinari. Necessita nell’anno to annuale di 100-150 kg /ettaro di dell’impianto di una concimazione perfosfato e altrettanto di solfato di di fondo a base di letame e, se ne- potassico o, preferibilmente, una cessario, di calce nei terreni neutri concimazione di scorie Thomas posubacidi. Alla concimazione organi- tassificate alla dose di 250-300 kg / ca dell’impianto, di solito si aggiun- ettaro che apportano anche calce, gono modeste quantità di fosforo zolfo e mesoelementi. apportate con ca 200-250 kg /ettaro La destinazione della biomassa di perfosfato minerale e se il terre- prodotta dall’erba medica è prinno è carente è opportuno integrare cipalmente fieno nei periodi estivi, una modesta quantità di potassio ma non vanno dimenticati i fasciati sotto forma di solfato con circa 150- insilati, in particolare quando le con200 kg /ettaro visto che mal tollera dizioni meteorologiche sono tali da i cloruri come buona parte delle le- non rendere possibile una sufficienguminose. In genere non necessita te essiccazione. Importante è anche di diserbo chimico, è sufficiente uno l’uso verde in stalla mediante i falcia sfalcio o trinciatura di “pulizia” nella autocaricanti, con le dovute precauprimavera successiva alla semina zioni al fine di evitare i problemi di nel mese di marzo aprile, dopodi- meteorismo. ché la velocita di ricaccio è tale che Molto importante quando si parla di

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foraggi, ed in particolare di graminacee, è il Lolium multiflorum. Se la medica è inquadrata come coltura poliennale, il lolium dà il meglio si sé nel giro di un solo ciclo produttivo, con produzioni di fieno che superano 10 ton/ettaro. La composizione della fibra, non eccessivamente lignificata, se sfalciata entro la prima decade di maggio, consente di seminare mais (da trinciato o pastone), soia, o eventualmente un altro erbaio da affienare (panico, miglio o sorgo sudanese). Il “tallone di Achille” del lolium, essendo una graminacea, è l’esigenza di sostanza organica che ne limitano la coltivazione nei terreni poveri. Se il Lolium è la graminacea preferita per i terreni secchi ma dotati di una buona fertilità, la scelta di una coltura intercalare per i terreni più fertili e irrigui, da seminare dopo il grano o orzo, si sposta su sorgo sudanese, miglio perlato, o panìco, o un mix fra i tre. Il fattore limitante è la tempestività di semina, per evitare un’eccessiva evaporazione del letto di semina, con conseguente aumento dei costi di irrigazione, in assenza di piogge. Le esigenze di elementi nutritivi sono modeste; è sufficiente un buon apporto di liquame di 90100 mc /ettaro per avere una buona produzione di erba o fieno. Gianfranco Gamba Imprenditore agricolo

Coltivazioni


La messa a dimora delle piante da frutto Consigli e tecniche per la buona riuscita delle operazioni di piantumazione da parte dell’agricoltore amatoriale di

Francesco Marino

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pesso ci capita di comprare qualora alla fase di impianto segua inverno o ad inizio della stagione pridal vivaista, o più comune- un andamento climatico caldo e sic- maverile. mente a qualche fiera, alberi citoso, si potrebbe manifestare un Le scelta delle piantine deve essere da frutto da piantare nel nostro pic- elevato livello di mortalità nonché un fatta con particolare cura; si devono colo appezzamento o più spesso in limitato sviluppo nel corso del primo preferire quelle di medio sviluppo giardino. Dopo (70-80 cm), caaver ascoltato i ratterizzate da un pochi consigli ampio apparato dati dal rivenditoradicale costituire riguardo al terto da molte radici reno più idoneo o sottili, che favorialla migliore tecscono la fase di nica da adottare attecchimento. Le per la messa a piante eccessivadimora delle pianmente sviluppate tine, nel momento spesso denunciain cui dobbiamo no la provenienza effettuare l’opeda vivai sottoposti razione in campo, a sovrabbondanti iniziano ad asirrigazioni e genesalirci una serie ralmente possegdi dubbi: sarà il gono un apparato periodo idoneo? radicale alquanto La buca andrà limitato. fatta più profonPrima della mesda? Il concime sa a dimora, le dovrà essere radici troppo lunLe piante da frutto come si possono presentare al vivaio messo lontano ghe, male oriendalle radici? Dovrò potare la pian- anno. Il periodo migliore per esegui- tate o danneggiate devono essere ta subito dopo la messa a dimora re le piantagioni dal centro al sud Ita- eliminate attraverso la potatura e o sarà meglio aspettare? Vediamo lia risulta la stagione autunnale, du- successivamente si procede alla di dare delle risposte. rante la quale le piante presentano inzaffardatura, tecnica che consiste un migliore attecchimento. In questi nel trattare le radici con una poltiInnanzitutto è importante dire subito climi infatti durante l’autunno ha ini- glia costituita da letame, terriccio (o che è buona norma evitare le pian- zio una modesta emissione di radici, argilla) e liquame (o acqua) in parti tagioni in primavera avanzata (asso- che prosegue per tutto l’inverno e uguali. Anche la chioma deve esselutamente da evitare con le piante a pone la piantina nelle migliori condi- re opportunamente potata, tramite radice nuda), anche se le piantine si zioni per affrontare una vigorosa ri- il taglio di eventuali rami deboli o in trovano con estrema facilità in com- presa vegetativa in primavera. Nelle eccesso. Nel caso in cui non vi sia mercio; durante questa stagione in- zone caratterizzate da freddi precoci la possibilità di poter piantare subifatti, le piante, essendo già entrate e sensibili abbassamenti di tempera- to gli alberelli provenienti dal vivaio, in fase vegetativa, si dimostrerebbe- tura alla fine dell’autunno o all’inizio è buona norma interrarli in un solco ro sofferenti al trapianto con minori dell’inverno, può essere preferibile scavato nel terreno, tenendoli sepapercentuali di attecchimento. Inoltre, compiere la messa a dimora a fine rati tra di loro ed in posizione vertica-

Coltivazioni

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le. In precedenza a tali operazioni, spazi vuoti vicino alle radici. Il letame e quelli sottostanti nella parte inferiogeneralmente qualche mese prima e gli eventuali concimi chimici loca- re. (tarda estate), occorre predisporre lizzati (non concimi azotati perché La pianta deve essere messa a dimanualmente lo scavo della buca. verrebbero di sicuro dilavati, ma fo- mora ad una profondità identica a Durante le operazioni quella che aveva in vidi scavo bisogna tevaio, cioè con il colletto nere presente che la a fior di terra. profondità e larghezE’ meglio piantare za della buca, devono alquanto superficialessere dimensionate mente piuttosto che in funzione soprattuttroppo in profondità, to delle dimensioni tenendo presente il dell’apparato radicavecchio proverbio: “le le della pianta e delradici devono sentire la granulometria del il suono delle campaterreno. Non esistono ne”. Successivamente quindi misure fisse, occorre innaffiare con ma ci si deve regolare una quindicina di litri in maniera da ottened’acqua in maniera da re una buca larga a favorire l’assestamensufficienza per far sì to e l’adesione della che le radici vi possaterra fra le radici per no entrare evitando di poi completare il ridoverle inserire con empimento della buca forza e di conseguenfacendo un piccolo za piegarle. Nel caso cumulo che, effettuato di terreni sciolti con con della terra asciutta, presenza di scheleimpedirà la perdita per tro, anche grossolano evaporazione dell’umi(come pietre e sassi), dità sottostante. le buche possono miInfine è importante surare indicativamentenere presente la dite 50 cm sia per quanstanza minima da riPiante da frutto alla ripresa vegetativa primaverile to riguarda la profondità spettare fra una pianta che la larghezza mentre, per quanto sfatici e potassici), dovranno essere ed un’altra, che indicativamente per riguarda il caso di terreni argillosi e mescolati al terreno sottostante le le piante che svilupperanno molta compatti, le dimensioni devono es- radici o a quello che serve per col- chioma (noce, ciliegio etc), può vasere più elevate, fino a 60 - 80 cm di mare la buca evitandone il contatto riare da 3 a 7 mt. Tali distanze, risulprofondità e di larghezza. diretto con le radici stesse, in quanto tano tuttavia variabili anche in funLa buca verrà in seguito parzialmen- potrebbero provocare ustioni. zione di altri fattori quali, la tipologia te riempita con terra, lasciando un Appare utile ricordare che la porzio- di terreno, la specie coltivata ed il piccolo cono al centro, sul quale ver- ne di terreno più fertile risulta quella tipo di allevamento prescelto. ranno posate le radici, ben distese e più superficiale, ovvero i primi 25-30 Dr. Agronomo nella loro posizione naturale; queste cm; di conseguenza, nel momento in Francesco Marino successivamente dovranno esse- cui si riempie lo scavo, è molto imAgronomiperla re ricoperte con terra fine asciutta, portante fare attenzione a riportare Terra.org mettendone poca per volta e compri- gli strati di terreno nella loro posiziomendola per evitare che rimangano ne originale, quelli superficiali in alto

Eventi ed attività riservate ai soci

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2014 RE PRODURTE LE PIAN TO PER L’OR RE SCEGLIE O IL MAIALINSO RAS DA ING : IL NOVITA’ DI CAVIALE LUMACA RE UTILIZZA I LIO AL MEG MACI FITOFAR

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Coltivazioni


Sesamo apriti Avete un ettaro di seminativo incolto? Se siete al Sud, coltivate il sesamo di

Guglielmo Faraone

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e lo presento: Sesamum indicum (Fam. Pedaliacee). Vi sono circa 12 specie ben studiate; in Sicilia è presente la Sesamum alatum con la varietà “Biondo Liscio”. E’ bene precisare che le varietà presenti nei paesi Tropicali e Sub - Tropicali sono a semi, bianchi, rossi, neri. In Sicilia si coltiva da tempo immemore la varietà, suddetta, a semi bianchi, chiamata in dialetto “Cimino”, nome che deriva dal greco “Kiminion agrion” o “Giuggiulena”, dall’arabo “Giulgiulgian”. Già ne parlava Plinio nella sua Storia Naturale narrandoci che i Romani ne erano ghiotti e ne mangiavano insieme al cumino nel pane; ma prima ancora era coltivato in Egitto ed in India, dove era considerato sacro poiché “apriva le porte dell’aldilà’”. Fu trovato infatti nelle offerte votive all’interno della tomba del Faraone Tutankamon e nei testi sacri Indiani (I Veda). Si dice che gli Dei banchettassero con il sesamo la notte prima del concepimento e della procreazione del mondo. Gli Arabi ne estesero la coltivazione proprio in Sicilia dove ancora troviamo la Kubbaita (dall’arabo Quibbiat), un Torrone di sesamo, mandorle e miele o la giuggiulena, croccante tutto di sesamo e miele, nelle bancarelle di tutte le feste di paese. Questa versione oggi è possibile trovarla come barrette dietetiche anche in farmacia o nei supermercati. Altri usi sono nel pane, nei grissini “inciminiati” (non esiste un forno che non faccia il pane con la Giuggiulena) e nelle famose Reginelle, cioè biscotti di sesamo che trovi nei panifici o nei “bar” di Palermo e della Sicilia nonché nelle ricette orientali sul tonno crudo giapponese o nella cucina cinese. I semi della pianta (poichè è

Coltivazioni

di questi che parliamo) possono arrivare a contenere più del 50% di olio ed il 25% di proteine, che contengono amminoacidi importanti (che gli altri semi oleaginosi non hanno) fra i quali la metionina, oltre che un alto contenuto in minerali specialmente il calcio. Il sesamo contiene vitamine del gruppo B ed E, che donano quindi proprietà galattogene ed antiossidative, indispensabili ai bambini in crescita ed agli anziani, alle donne in menopausa ed in allattamento, oltre che agli uomini per aumentare la fertilità degli spermatozoi. L’olio che se ne ricava veniva usato in oriente per l’illuminazione, come farmaco per la pelle secca, come insetticida con il piretro (per aumentarne l’efficacia), per l’alimentazione ed altri innumerevoli usi. Ma veniamo a noi, la coltivazione. Si semina nella prima quindicina di maggio su terreno ben amminutato; il terreno deve avere “ottima permeabilità e scarsa capillarità” e deve essere ben concimato dato che si tratta di una pianta da rinnovo. La semina va fatta a righe; possiamo utilizzare circa 7 kg ad ettaro a 30/40 cm di distanza, con necessario successivo diradamento. Dopo la novena a Sant’Antonio la pianta fiorisce (30/40 giorni) ed il giorno prima la festa della Madonna Assunta (il 15 agosto) si raccoglie. A seconda delle stagioni, si renderà indispensabile qualche piccola irrigazione di soccorso, circa 400mc di acqua. In poco più di tre mesi (100 giorni circa) si potrà ottenere il primo reddito. Il pannello di sesamo, derivato dall’estrazione, è appetibile ed innocuo per le vacche ed influisce positivamente sulla quantità del latte con aumenti

dall’1,35% fino al 4,50% con un consumo giornaliero da 1,5 kg ad un massimo di 2Kg per capo in lattazione, rilevandosi più conveniente dei panneli di Lino. E’ inoltre utilizzato nell’alimentazione dei polli dato il contenuto di metionina, mentre le foglie in Sicilia si danno alle pecore come paglia e gli stocchi si usano per il forno. Ed ora veniamo ai ricavi: le produzioni ad ettaro sono passate dai circa 10 quintali di un tempo ai 20 quintali ad ettaro di seme di oggi. Dal seme si ottiene dal 46 al 60% di olio più i pannelli per il bestiame e le foglie per le pecore (gli altri animali non le appetiscono). I prezzi al dettaglio del sesamo, prendendo in considerazione il seme, sono di 9/10€ al kg, cioè 1000 euro al quintale; il prezzo dell’olio, sempre al dettaglio, invece si aggira sui 25/30€ al litro - i prezzi all’ingrosso possono invece essere ridotti anche di 5 volte. Cosa aspettate? Appena la prima capsula contenente i semi (le capsule del sesamo sono deiescenti) si apre, falciate mettete sull’aia e pronunciate la fatidica frase ...sesamo apriti ... “APRITI SESAMO” …e raccoglierete il vostro tesoro! Gugliemo Faraone Docente di Coltivazioni Mediterranee

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L’olivo in Toscana Le forme di allevamento e qualche breve cenno per una corretta potatura di

Lorenzo Mariotto

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’olivo (Olea europea L.) è una pianta cosmopolita tipica del bacino del Mediterraneo che ben si adatta alla coltivazione su molti terreni. L’olivo allo stato naturale assume un portamento basitono, cioè la forma di un grosso cespuglio, con la conseguenza che la vegetazione e fruttificazione tendono a disporsi verso l’alto e verso l’esterno della chioma con progressiva perdita di foglie all’interno della pianta. Solo conoscendo adeguatamente le caratteristiche vegetative e produttive dell’olivo, la forma di allevamento scelta e la cultivar è possibile iniziare ad impostare una corretta potatura. La potatura e la raccolta sono due operazioni onerose in olivicoltura e sono l’una legata all’altra. Volendo raggiungere un buon livello produttivo è necessario sapere che l’olivo fruttifica sui rametti di un anno lunghi circa 50cm e che la chioma della pianta deve essere ben illumi-

nata e arieggiata. Prima di vedere in dettaglio alcuni

Oliveto delle colline fiorentine (foto di Marco Giuseppi) aspetti tecnici della potatura analizziamo brevemente le forme di alle-

Particolare del vaso cespugliato (foto di Marco Giuseppi)

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vamento. In Toscana le forme di allevamento più comuni sono:

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vaso policonico - forma in volume che prevede un singolo fusto dove a un 1-1,20 mt (si dice anche “a petto d’uomo”) si inseriscono le branche principali di solito 3-4. In questa forma di allevamento la chioma assume la forma cilindro-conica, tronco-conica vaso cespugliato - anche questa una forma in volume, si è diffusa in Toscana a seguito della grande gelata del 1985 ed è formata da 3-4 polloni principali che formano le singole piante e si originano a livello del suolo monocono - è una forma di allevamento che ben si adatta alla meccanizzazione ed a sesti di impianto fitti. La chioma assume la forma di un cono singolo e le branche sono inserite sul tronco alla distanza di circa 50cm fra loro. La potatura dell’olivo tende a rinnovare la vegetazione produttiva, contiene la crescita in

Coltivazioni


altezza della pianta, migliora la penetrazione di luce ed aria all’interno della chioma, elimina se ci sono, le branche danneggiate e previene la senescenza della pianta. Per sapere cosa andare a recidere

zioni medio alte della chioma polloni - sono rami che si sviluppano dal tronco o dalle ceppaie a livello del terreno delle singole piante rami a frutto - sono i rami sui quali si svilupperanno le olive.

domonas savastanoi Smith.) è opportuno sottoporre a potatura prima le piante non colpite da questo patogeno e comunque disinfettare gli attrezzi ogni tanto con candeggina o alcool etilico.

Le due forme di allevamento più diffuse in Toscana: il vaso policonico (sinistra) ed il vaso cespugliato (destra) Foto di Marco Giuseppi bisogna tenere conto anche dei rami oltreché ai rami a frutto. Ogni anno o quando viene effettuata la potatura su una pianta di olivo, possiamo trovare diversi tipi di rami: rami di prolungamento - hanno un

Potatura degli olivi (mese di marzo) portamento pendulo ed una crescita obliqua succhioni - sono rami che si originano all’interno del tronco e delle branche da gemme latenti in posi-

Coltivazioni

La Potatura Il periodo migliore per potare l’olivo va dalla seconda decade di febbraio fino alla mignolatura (comparsa dei fiori); è opportuno tenere conto degli sbalzi termici e delle gelate tardive che potrebbero danneggiare le piante. La potatura dell’olivo non può essere standardizzata in poche operazioni meccaniche, dato che le tecniche vanno aggiustate e modificate ad ogni singola pianta ed al contempo si dovranno utilizzare attrezzi manuali o meccanici idonei a queste operazioni. La superficie di taglio deve essere liscia ed inclinata verso il basso e verso l’esterno per favorire lo scorrimento dell’acqua piovana ed evitare attacchi di funghi o l’instaurarsi di carie del legno. Se nell’oliveto sono presenti piante attaccate da rogna dell’olivo (Pseu-

In conclusione, per avere una pianta ben potata ed una vegetazione con un buon grado produttivo occorre adeguare le operazioni di potatura ad ogni singola pianta; in particolare si dovrà tenere conto dell’età della pianta, della cultivar e della vigoria della stessa. Partire dalle cime e scendere verso il basso, eseguire prima i tagli grossi e poi quelli più piccoli, eseguire se necessario tagli di ritorno per ridurre la lunghezza dei rami e tenere una chioma compatta. Se la potatura è ben effettuata e l’insieme delle operazioni colturali adeguate, vedremo il risultato desiderato in termini di produttività e benessere delle piante.

Dott. Lorenzo Mariotto Laureato alla Facoltà di Agraria

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Gli agrumi ornamentali L’estetica, il profumo ed il gusto riassunti in un unico esemplare: questi sono gli agrumi, piante capaci di soddisfare i nostri sensi e che narrano una storia che arriva da lontano di

Marco Beconcini

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ppartenenti alla famiglia botanica delle Rutaceae trovano le proprie origini in oriente, in particolare la Cina e l’India sono i luoghi da cui ci arrivano le testimonianze più antiche. Il grande scambio di merci che si instaurò tra l’occidente e l’Asia a partire dal III secolo a.C., portò alla graduale introduzione di queste piante nel mediterraneo. Tralasciando gli aspetti prettamente produttivi degli agrumi, fu subito chiaro, in primis ai babilonesi, che un elemento vegetale dotato di caratteristiche così attrattive doveva far parte di complessi strutturali in cui l’estetica fosse la finalità principale. I Greci addirittura gli attribuirono un ruolo nella loro mitologia. Nel Giardino delle Esperidi l’albero che produceva i “pomi d’oro” con molta probabilità doveva essere una pianta di cedro o limone. Di certo conoscevano molto bene tali piante visti gli stretti contatti con le regioni alle porte dell’Asia. Il connubio tra arte ed agrumi sarà uno dei punti focali della progettazione degli spazi verdi nel corso della storia del Mediterraneo.

Giardini dell’Alcazar di Siviglia Queste popolazioni conobbero gli esemplari di arancio amaro in India

e da lì, nel corso dei secoli, di pari passo con il proprio sviluppo bellico

Dal Medio oriente fino all’Europa Il ruolo dei popoli arabi è stato sicuramente centrale per lo sviluppo e la conoscenza di questa tipologia di piante e lo si può cercare di riassumere in due punti fondamentali; da una parte l’introduzione (aranci in particolare) in una vastissima area geografica e dall’altra lo studio approfondito dei principi agronomici adatti alla gestione degli agrumi.

Coltivazioni

Agrumi nel verde pubblico di Siviglia

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La concezione degli agrumi nell’epoca rinascimentale e culturale, lo trasportarono altrove; dapprima nella penisola arabica, gradualmente lungo tutta l’Africa settentrionale e successivamente nel sud di Spagna ed Italia. Il successo di queste specie vegetali contribuì al benessere economico di intere popolazioni, che intrapresero la produzione di questi preziosi frutti. Uno dei segreti del successo degli agrumi e della loro coltivazione fu la maestria con la quale gli arabi impiegavano l’acqua. Fitte reti di canalizzazione, costituite da pietra, entro le quali venivano convogliate le risorse idriche destinate al fabbisogno degli aranci; uno tra i primi esempi di irrigazione razionale delle colture arboree da frutto. Descrivere il ruolo degli agrumi nel mondo islamico prendendo in considerazione solamente il commercio del frutto risulterebbe decisamente riduttivo. Il giardino nella cultura araba era la raffigurazione del paradiso; verde rigoglioso ed acqua plasmata in geometrie perfette che si contrapponevano ai territori aridi ed inospitali delle regioni desertiche. L’agrume, pianta simbolo di bellezza e fertilità, doveva per forza avere un ruolo in paradiso. Ad oggi ci restano molti esempi di tali luoghi incantati ed i più significativi si trovano nel sud della Spagna.

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Piante di arancio dolce, melangolo e limone, messe a dimora con sesti d’impianto regolari o come esemplari singoli, costituiscono elementi visivi primari nel complesso dell’ Alhambra a Granada e nei giardini dell’Alcazar di Siviglia. Il dominio arabo ebbe i propri limiti di espans i o n e

nell e regioni più meridionali d’Europa e questo limite geopolitico avrebbe potuto arrestare la conoscenza e l’impiego di queste piante; invece tra l’XI e il XIII secolo iniziarono una serie di guerre che misero a confronto i popoli a sud del mediterraneo con

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quelli di fede cattolica provenienti da nord, ovvero le Crociate. Durante i continui viaggi in Palestina i cavalieri crociati iniziarono ad importare queste piante e facendole conoscere in territori dove fino a quel momento i più ne ignoravano l’esistenza. Nonostante questo primo importante approccio la vera e propria svolta nella globalizzazione degli agrumi la diedero le Repubbliche Marinare ed in particolare quella genovese, che contribuì principalmente all’arrivo di queste piante nei giardini costieri del mar Tirreno, in Liguria e nel sud della Francia dove il clima mitigato dal mare risultava particolarmente propizio al loro sviluppo.

Il Rinascimento, la consacrazione degli agrumi ornamentali Curare l’elemento vegetale, esaltarne le caratteristiche estetiche, conferirgli una forma, ovviare a problematiche di coltivazione ed acclimatarlo simulando le condizioni ambientali originarie. Questo è produrre verde ornamentale ed è proprio questo che durante il rinascimento avvenne nella toscana della famiglia de Medici. Questa potente casata, famosa per avere avuto un ruolo chiave nell’arte rinascimentale, arricchì i giardini delle proprie ville con agrumi, per la prima volta nella storia coltivati anche in vaso. Il passaggio dalla piena terra al contenitore fu la vera svolta ornamentale degli agrumi; la capacità di produrre il frutto per il consumo, da quel momento in poi, non fu l’unica virtù di queste piante. Il giardino all’italiana, arricchito dalla lucentezza e vivacità di limoni ed aranci posti in straordinarie conche di terracotta, fu in breve tempo un simbolo della casata e contribuì a far raggiungere agli spazi verdi dell’epoca un valore assoluto. Con l’inserimento di contenitori così importanti, l’opera visiva non era data solo dalla pianta ma diventava la protagonista di una composizione

Coltivazioni


Una delle tante forme nella quale possiamo trovare gli agrumi oggi: la spalliera a muro

Coltivazioni

che assicuravano luce e nella quale inserivano gli agrumi a svernare. Una volta passato il gelo, quando il clima tornava mite e congruo alle Citrus reticulata

più complessa. I Medici diedero un impulso notevole anche riguardo le varietà introdotte nei propri giardini; vi fu una vera e propria ricerca e sperimentazione che portò parallelamente anche allo studio delle proprietà mediche e cosmetiche degli agrumi. Il riassunto di quanto detto è possibile riscontrarlo nelle più importanti dimore appartenute alla famiglia ed in particolare villa Castello a Firenze. Questa villa mantiene una collezione imponente di circa 500 piante di agrumi in vaso, molti dei quali secolari. Nella collezione sono presenti varietà antiche, vere e proprie particolarità botaniche come Citrus aurantium “Virgatum”, Citrus aurantifolia “Neapolitanum”, Citrus lumia e Citrus aurantium “Bizzaria”, un particolare arancio amaro riscoperto dopo secoli negli anni ottanta. Il clima fiorentino e di buona parte della toscana era ed è di tipo continentale; le estati si presentano molto calde ed umide mentre gli inverni possono essere rigidi ed asciutti. La conservazione di queste piante risulta idonea quindi solo per periodi limitati in quanto il gelo altera negativamente lo stato fisiologico dell’agrume. Per ovviare a questo problema gli architetti dell’epoca costituirono delle immense stanze, aperte ed ariose dotate di finestroni

fino ad epoche abbastanza recenti infatti il giardino era un lusso che in pochi potevano concedersi. Il verde pubblico nacque in Inghilterra in seguito alla rivoluzione industriale ma aveva funzioni sociali più che estetiche. La vera rivoluzione del verde è avvenuta quando in tempi recenti una grande percentuale di popolazione ha potuto godere di uno spazio privato dove inserire i propri vegetali; un parco, un giardino, una terrazza o il davanzale di una finestra, non contano le dimensioni dell’area, è fondamentale la possibilità, al giorno d’oggi, di crearsi il verde a casa propria. La globalizzazione del giardino ha aperto mercati infiniti per il commercio delle piante e gli agrumi costituiscono una buona fetta di questo mercato. Oggi i generi Citrus e Fortunella si trovano nei giardini e nelle case di tutto il mondo; centinaia sono le specie che possiamo acquistare, molti sono ibridi naturali ed altri creati da vivai e centri di ricerca sempre più specializzati. Lipo, Mapo, Kucle e moltissimi altri, sono nomi di ibridi tra due specie di agrumi della stessa famiglia, scarsamente impiegate per la coltivazione ma decisamente affascinanti per la loro bellezza estetica. Nei secoli, molto è cambiato; significati, tecniche agronomiche, impieghi... ma c’è una cosa che realmente non cambia, ovvero la sensazione di stupore e meraviglia che proviamo davanti ad una pianta di agrumi. Bibliografia

caratteristiche dei Citrus, le piante venivano riposizionate nel giardino. Questi luoghi di ricovero prendevano il nome di “limonaie”, luoghi costruiti o adattati per gli agrumi; l’architettura che si plasmava per il benessere dell’elemento vegetale. Anche in Francia nacquero le “orangeries” per il medesimo scopo, strutture più simili a serre e progenitrici del “giardino d’inverno”.

L’agrume ornamentale oggi Il passare dei secoli ha modificato molti aspetti del verde ornamentale;

Le Ville Medicee. Guida completa di Isabella Lapi Ballerini, Mario Scalini Giunti Editore, 2011 Cordova - Siviglia - Granada.Spagna moresca di Sordo Enrique
 De Agostini, 1964 Storia degli agrumi. Usi, culture e valori dei frutti più amati del mondo di Pierre LaszloDonzelli, 2006 Da treccani.it - La civiltà islamica: scienze della vita. Agronomia
Storia della Scienza di Mohamed El Faïz, Expiración García Sánchez (2002)

Dr. Agronomo Marco Beconcini www.marcobeconcini. com

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Parliamo di Elicicoltura Oggi si parla tantissimo di “allevamento di chiocciole da gastronomia” come alternativa alla “solita” agricoltura e come opportunità di lavoro da non sottovalutare: quindi oggi vi parlerò di cos’è l’elicicoltura e come approcciarsi a questo settore di

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Davide Merlino

Zootecnia

l mercato delle chiocciole, in Italia, è molto ricco e sempre in crescita al contrario della crisi che incalza: l’importazione dai Paesi del Nord Africa e del Nord-Est Europa è notevole e copre circa l’80% della richiesta! In Italia il consumo di chiocciole da gastronomia si aggira intorno ai 350.000-400.000 kg/anno ma la produzione, nonostante il boom di allevamenti nati negli ultimi anni, riesce a soddisfare solo il 15-20% del fabbisogno interno. Questo ci fa capire quali siano le potenzialità del mercato nazionale senza dimenticare che, oltre al nostro Paese, anche la Spagna, la Francia, la Germania, la Svizzera ed altri consumano migliaia di tonnellate di chiocciole all’anno. Perciò possiamo affermare con una certa sicurezza che in questo settore c’è davvero posto per tutti! L’allevamento di lumache esiste da moltissimi anni ed è un lavoro che viene svolto in quasi tutto il mondo seppur con sistemi e risultati diversi. Indipendentemente dalla metodica e dal Paese, il ciclo di allevamento consiste nel far accoppiare le chiocciole da riproduzione che daranno vita ad una generazione di gasteropodi che verrà fatta crescere fino al raggiungimento delle dimensioni e delle caratteristiche ottimali per la commercializzazione. La fase di accrescimento avviene inducendo le chiocciole ad alimentarsi tramite un’irrigazione giornaliera che le sveglia dal sonno e di conseguenza le spinge a consumare cibo. Questa alimentazione è composta, a seconda del sistema di allevamento utilizzato, da soli vegetali (bietola, cavoli, girasole, ed altri a foglia larga), da solo mangime (composto da mix di cereali)

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oppure dalla sinergia di entrambe le strategie alimentari, quest’ultima considerata la soluzione migliore in quanto riduce moltissimo i tempi di produzione ma garantisce la qualità della chiocciola naturalmente abi-

Successivamente il prodotto viene conservato, venduto o trasformato.

Le diverse realtà produttive In Italia si allevano chiocciole da circa 40 anni in maniera molto esten-

Le chiocciole durante il pasto tuata a mangiare vegetali. Dopo la raccolta le lumache vengono sottoposte alla “spurgatura”, che consiste nel far eliminare le feci agli animali ed indurli al letargo tramite una fase di asciugatura a mezzo ventole a temperatura ambiente per circa 30 giorni; dopo di che avviene la selezione delle chiocciole bordate, cioè quelle che hanno creato il bordo della bocca in maniera bene evidente e che quindi risulta molto duro.

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siva su campo aperto e con alimentazione a base di ortaggi coltivati appositamente per i loro fabbisogni; queste vengono allevate all’interno di recinti realizzati con una rete specifica che evita la fuga degli animali. Nel resto d’Europa, le chiocciole si allevano con un sistema più industriale che si svolge quasi totalmente all’interno di strutture chiuse con microclima (temperatura, umidità ed illuminazione) artificiale. Nel “siste-

Zootecnia


Impianto per l’allevamento delle chiocciole ma europeo” le chiocciole vengono allevate all’esterno solo nell’ultima parte di ingrasso, in parchetti dove viene somministrata loro una dieta composta da mangime a base di cereali ed integrato con vitamine.

La sveglia mattutina

senza difficoltà ma ovviamente ogni impianto è da valutare e progettare con cura per ottimizzare al meglio la gestione dell’allevamento. Qualche piccolo consiglio Oggi in Italia ci sono tantissimi terreper iniziare ni incolti e dismessi che potrebbero Le condizioni necessarie per poter tranquillamente essere sfruttati per La nostra esperienza perso- avviare un allevamento sono: acqua questa produzione con un investinale abbondante e costante tutto l’anno e mento iniziale assolutamente non Solo negli ultimi 10 anni la nostra terreno non argilloso. Avendo a di- proibitivo (18.000-20.000 € per 5000 azienda ha sviluppato un sistema di sposizione questi due elementi fon- mq); con il sistema di allevamento allevamento diverso dal tradizionale, damentali, nel 90% dei casi la pro- da noi proposto, se non compaiono che da la possibilità di concludere duzione di chiocciole sarà fattibile problematiche particolari, ci si può il ciclo di proattendere una duzione in soli produzione di 8 mesi grazie circa 4-5 tonal mix dei due nellate di chiocsistemi sopra ciole all’anno descritti; la noche, se vendustra strategia si te all’ingrosso, basa sull’uso di possono fruttarecinti con reti re dai 16.000 ai su terreno a 20.000 €. campo aperto L’apertura di dove si coltivauna nuova no gli ortaggi azienda eliciper l’alimencola non comtazione, che porta particolari viene integrata adempimenti in solo in una picquanto viene cola percenconsiderata una tuale (20-30% normale atticirca) con il vità agricola, mangime usama è soggetta to in Europa, alla registraziodandoci così ne negli elenla possibilità chi veterinari e di accorciare quindi obbligata Vegetali appositamente coltivati per l’allevamento il ciclo di pro-

Zootecnia

duzione ed avere già nell’arco del primo anno di attività degli utili non indifferenti.

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a seguire il regime di autocontrollo HACCP.

Una buona produzione

Due buone notizie Attualmente in Italia non sono previsti finanziamenti specifici per il nostro settore, ma quest’anno l’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia, in collaborazione con la nostra azienda (La Lumaca Madonita), ha redatto una bozza di

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misura che verrà presentata a Bru- ziamento, e verrà offerta l’iscrizione xelles per l’inserimento dell’elicicol- all’Associazione di Agraria! tura nei fondi Europei PSR 2014/2020 e che sarà specifica per la concessione di finanziamenti per l’avvio di nuovi allevamenti di lumache in tutta Italia. L’altra buona notizia è che da quest’anno La Lumaca Madonita, in collaborazione con l’Associazione di Agraria.org, organizzerà dei corsi professionali per aspiranti Elicicoltori direttamente in Prodotti trasformati a base di lumache azienda (il primo si terrà il 13 dicembre 2014): interverranno Spero di avervi dato un’idea geneesperti del settore nonché la Col- rale sul mondo dell’Elicicoltura e vi diretti Sicilia, che informerà sulle invito a seguirci su TerrAmica per i attuali possibilità di finanziamenti prossimi approfondimenti. agevolati e del supporto che potrà dare al nuovo allevatore. Alla fine del Davide Merlino corso verrà rilasciato un attestato di La Lumaca partecipazione, molto importante Madonita per un eventuale richiesta di finan-

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Conigli: la gestione del nido Analizziamo nel dettaglio le varie tipologie e le corrette metodologie operative di

Cristiano Papeschi e Linda Sartini

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hiunque allevi conigli, sia come animali da compagnia che da carne, non può non cimentarsi nella riproduzione di questo prolifico animale. In questo breve articolo non andremo a parlare della riproduzione in se ma di un argomento più particolare: la gestione del nido. Molte sono le specie animali che in natura usano proteggere la propria prole utilizzando un ricovero riparato, il nido per l’appunto, all’interno del quale partorire ed accudire successivamente i piccoli. Il nido è un luogo sicuro, spesso nascosto, confortevole ed in grado di riparare i neonati dal caldo, dal freddo e dalla pioggia. Il coniglio realizza la propria tana sottoterra, in linea con le abitudini

peculiari di questa specie conosciuta come infaticabile scavatrice di gallerie. Infatti il suo nome scientifico (Oryctolagus cuniculus) indica proprio questa caratteristica: il termine “cunicolo” è noto a tutti nel suo significato letterale. Un coniglio allevato in garenna, qualora non disponga di un nido “convincente”, provvederà a comportarsi esattamente secondo il suo istinto primordiale, scavando quindi gallerie e realizzando un confortevole nido sottoterra. In allevamento, vista l’impossibilità di provvedere autonomamente alle proprie necessità, spetta all’uomo fornire a questa specie le strutture necessarie per svolgere le normali attività fisiologiche. É infatti uso comune dotare le gabbie per la stabulazione delle fattrici di appositi nidi a ridosso del momento del parto.

Come è fatto un nido

Il nido deve essere sufficientemente grande per consentire i movimenti alla fattrice (foto Roberto Corridoni)

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Il nido è fondamentalmente una “scatola” a forma di parallelepipedo che deve contenere la nidiata e, in alcuni momenti, la fattrice. Si tratta di un accessorio indispensabile nella gabbia di ogni riproduttrice in

procinto di partorire. Il nido può essere realizzato in diversi materiali, anche se la scelta da parte dei produttori di attrezzature per la coniglicoltura ricade più spesso sulla lamiera e sulla plastica o sulla sinergia dei due materiali. In molti piccoli allevamenti amatoriali invece si preferisce utilizzare il legno, soprattutto quando l’allevatore stesso abbia piacere di dedicarsi in prima persona alla costruzione di questa piccola struttura. In genere i nidi vengono realizzati con le pareti laterali chiuse ad eccezione di quella frontale, dotata di un apertura rotonda o quadrata, dalla quale gli animali (la fattrice ed i piccoli) entreranno ed usciranno secondo necessità. Generalmente l’apertura non viene realizzata a filo col pavimento ma sempre al di sopra di una sponda di almeno un paio di centimetri, per evitare che i piccoli possano rotolare fuori autonomamente od essere erroneamente trascinati dalla madre. L’apertura del nido può essere dotata di uno sportellino a scorrimento, normalmente presente nella maggior parte delle gabbie utilizzate nell’allevamento industriale, utile per aprire e chiudere manualmente il nido dall’operatore, della cui utilità parleremo più avanti. Il pavimento può essere pieno, forato o in grigliato, ma in ogni caso andrà dotato di uno strato di lettiera per proteggere i piccoli dal freddo: soprattutto nel caso di contatto con il metallo, il calore corporeo di questi verrebbe rapidamente sottratto per conduzione ed i neonati andrebbero immediata-

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mente in ipotermia, soprattutto nelle stagioni più fredde. Il lato superiore può essere chiuso oppure no, ma si preferisce in genere realizzare la parete a sportello in modo da consentire all’allevatore di ispezionare agevolmente il suo interno per controllare quotidianamente la salute della nidiata e lo stato igienico della lettiera. Per quel che riguarda le dimensioni, il nido deve avere una superficie ed un’altezza sufficienti ad ospitare la madre con la cucciolata. Le recenti linee guida fornite dal Ministero della Salute in collaborazione con il Centro di Referenza per il Benessere Animale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, suggeriscono le dimensioni minime di 24x38 cm di base e 25 cm di altezza: questo significa che è bene non scendere mai al di sotto, ma nessuno ci vieta di fornire un ambiente ancora più comodo alla nostra cucciolata aumentando di qualche centimetro le misure sopra riportate. Esistono fondamentalmente due tipi di nido in funzione del rapporto spaziale con la gabbia: esterno ed interno. Non è difficile capire quale sia la differenza e spesso la scelta ricade sull’uno o sull’altro a seconda delle preferenze dell’allevatore e della tipologia di gabbia presente in allevamento. Normalmente le gabbie che prevedono i nidi esterni sono anche dotate di appositi dispositivi di incastro ai quali questo verrà saldamente ancorato. Il nido interno viene posizionato in genere sul pavimento della gabbia ed ha il vantaggio di non ingombrare ulteriormente il locale di stabulazione, ma dall’altro lato riduce la superficie interna a disposizione delle fattrice, cosa che invece non avviene con il nido esterno. Il nido interno può essere utilizzato anche per soluzioni di stabulazioni diverse, quali ad esempio il parchetto.

La razza di questo numero: La Fulva di Borgogna Il coniglio denominato Fulva di Borgogna è una razza originaria della Francia e più precisamente della regione della Borgogna, da cui prende il nome. Ad oggi è diffusa in quasi tutti i paesi d’Europa. Allevata come animale da compagnia per il suo carattere socievole e la simpatia che induce nei bambini ma soprattutto come razza da carne, la Fulva di BorFoto Bruno Zannoni gogna appassiona ormai un numero infinito di estimatori, tanto che si contano 1130 allevamenti presenti nel vecchio continente. Anche in Italia abbiamo moltissimi appassionati di questa razza e la sua carne è molto apprezzata; viene allevata in purezza dal nord al sud della penisola e non è raro trovare allevatori che incrociano i loro soggetti con altre razze come California e Bianca di Nuova Zelanda per ottenere degli ottimi ibridi da carne. La razza ha origini molto antiche; veniva allevata principalmente per la sua rusticità, lo sviluppo precoce e la bontà della sua carne. Anche se il colore rosso era già predominante non mancavano nei soggetti chiazze di colore bianco sulla testa, sul collo e sulle zampe. Fu Albert Renard in prossimità della Grande guerra ad indicarne lo standard fissando definitivamente i caratteri propri della razza, concentrandosi in primis sul colore del pelo. Nel 1919 la rivista “L’Acclimatation” pubblicò la storia della razza e gli incroci effettuati per crearla. Una drastica selezione dei soggetti portò velocemente ad una produzione regolare della razza. Nel marzo 1998 a Chatillon-sur-Seine venne creata l’unione francese degli allevatori di conigli Fulvo di Borgogna. Il gran numero di soggetti in circolazione fanno si che la razza non sia assolutamente a rischio di estinzione, tuttavia un programma di conservazione avviato dall’INRA e dalla Fédération Francaise de Cuniculture all’interno dei progetti di conservazione delle risorse genetiche RESGEN ha fatto si che alcuni embrioni e campioni di sperma del Fulvo fossero prelevati e crioconservati. Cosa dice lo standard: E’ un coniglio di medie dimensioni, con un peso che varia dai 4 ai 5 Kg, un corpo asciutto, muscoloso e arrotondato, con torace sviluppato, buona muscolatura sulle spalle e lombi carnosi, un bacino ampio e una linea addominale ben visibile. Il dorso risulta forte e ben curvato, gli arti di media lunghezza, forti e dritti. La testa è arrotondata e salda sulle spalle, gli occhi ben aperti e vivaci di color bruno, orecchie forti e pelose portate a V con una lunghezza massima di 14 cm. La pelliccia è folta, soffice e di media lunghezza. Il colore arancio giallastro è più pregiato se uniforme su tutta la parte superiore, fianchi, petto e zampe. Leggermente più chiaro, di un color avena, sull’addome, la parte interna delle zampe posteriori e della coda, sotto le guance e nella cerchiatura degli occhi. Le unghie sono di color corno senza tendere al nero.

Roberto Corridoni

Il nido e la garenna Nel caso di animali da riproduzione allevati in garenna, ovviamente le soluzioni saranno diverse. La coniglia potrebbe comunque decidere di realizzare in maniera naturale un nido scavando nel terreno, ma in quel caso le possibilità di controllare i piccoli dopo il parto e durante

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il periodo dell’allattamento nonché provvedere alle operazioni di gestione sono pari a zero. Un piccolo pagliaio potrebbe invogliare la coniglia a realizzare la propria tana al suo interno, ma anche in questo caso diventa difficile poter ispezione il nido. In alternativa al pagliaio potremmo

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posizionare alcune balle (di paglia o di fieno) in modo tale da realizzare una piccola “camera segreta” al suo interno ed uno stretto corridoio di accesso, soluzione sicuramente più pratica del pagliaio ma indubbiamente ancora molto scomoda. Alcuni allevatori utilizzano dei pozzetti in

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Nidi esterni in un allevamento industriale cemento delle dimensioni di 40x40 o superiori, aperte su un lato con un foro di dimensioni sufficienti a consentire l’ingresso della coniglia, ed eventualmente collegato ad un tubo che ricorda all’animale l’aspetto della tana: questa struttura, dotata di un coperchio superiore, potrebbe essere una buona soluzione alternativa quando si allevano gli animali in recinto.

La preparazione del nido L’accesso al nido andrebbe consentito solamente a ridosso del parto, 3-5 giorni prima dell’evento, onde evitare che la femmina non lo riconosca come tale e possa defecarci dentro o addirittura partorire i piccoli in giro per la gabbia. All’interno della struttura andrà messo del materiale isolante (il fieno o la paglia sono un’ottima soluzione) che andrà lasciato anche a disposizione della fattrice affinché possa “aggiustare” come meglio crede la coibentazione in funzione della temperatura ambientale. Negli ultimissimi giorni di gravidanza, la coniglia inizierà a strapparsi il pelo che utilizzerà per imbottire ulteriormente la nursery che dovrà ospitare dei coniglietti piccoli, nudi e non in grado di termoregolarsi autonomamente.

Allattamento programmato Abbiamo poc’anzi accennato allo sportellino: tutte le gabbie presenti negli allevamenti professionali ne

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Il particolare di un nido con sportellino di separazione

sono dotate in quanto è prassi mantenere il nido chiuso durante tutto il giorno per mantenere separati la madre ed i piccoli, almeno fino a che questi non abbiano un’età adatta ad uscire autonomamente. Può sembrare una cosa innaturale, ma ha un suo perché: in natura la femmina allatta una sola volta al giorno e lo sportellino consente all’allevatore di decidere quando dovrà avvenire la poppata e poter controllare che tutto si svolga nel migliore dei modi. Al termine di questa lo sportellino verrà nuovamente chiuso onde impedire che la fattrice possa entrare nel nido, magari perché spaventata e schiacciare i piccoli. Inoltre, quando l’allevatore dovesse manipolare la prole o provvedere alla sostituzione della lettiera, potrebbe lavorare senza correre il rischio di infastidire oltre modo la madre ed evitare di essere aggredito.

I controlli quotidiani e l’igiene del nido Il nido dovrebbe essere ispezionato quotidianamente, operazione resa più facile in presenza dello sportellino. Le operazioni che potrebbero dover essere compiute, oltre all’allattamento programmato quando previsto, sono il controllo della vitalità dei coniglietti e la rimozione di eventuali morti, controllare l’assenza di feci ed urine della madre, quando necessario, rimuovere e sostituire la lettiera troppo sporca e maleodoran-

te. La presenza di pelo e la corretta copertura dei coniglietti va sempre verificata, soprattutto nelle stagioni fredde. Inoltre potrebbe dover essere necessario rimettere nel nido eventuali coniglietti fuoriusciti accidentalmente. Non dimentichiamo il pareggiamento delle nidiate, operazione che si compie in genere una volta sola entro 24-48 ore dal parto e che consiste nel togliere alcuni piccoli da una fattrice per introdurli nel nido di un’altra: questa operazione viene eseguita nel caso di nidiate troppo numerose ed effettuata con lo sportellino chiuso o comunque senza allarmare la femmina. Il nido viene tolto in genere quando i coniglietti hanno raggiunto l’età di 20-25 giorni e prima di essere riposto in attesa del parto successivo, dovrà essere accuratamente lavato e disinfettato per eliminare la carica batterica che popola il pavimento e le pareti.

Dr.ssa Linda Sartini DVM Specializzata in ispezione degli alimenti di origine animale

Dr. Cristiano Papeschi DVM

Università degli Studi della Tuscia Specializzato in teconologia e patologia del coniglio, della selvaggina e degli avicoli

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Quaglia della California Originaria della California, è una delle specie più diffuse nei nostri allevamenti di uccelli ornamentali di

Daniel Marius Hoanca

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a quaglia, o colino, della California (Callipepla californica), fa parte della famiglia delle Odontophoridae a differenza delle quaglie del “vecchio mondo”, che appartengono invece alla famiglia dei Phasianidae. Il nome della famiglia deriva dal termine greco “odontos” che significa “dentato”, scelto per la caratteristica peculiare del becco che possiede dei bordi dentati: questa è una delle specie di quaglia del nuovo mondo maggiormente diffusa nei nostri allevamenti di uccelli ornamentali. Gli Odontoforidi fanno parte dell’ordine Galliformes: si tratta di 34

specie che vivono sul territorio americano e sono chiamate per questo motivo anche ‘’quaglie del nuovo mondo’’. Perchè definirle “quaglie” anche se zoologicamente appartengono ad un’altra famiglia? Per via della somiglianza e delle abitudini!

Colorazione I maschi adulti possiedono dei colori decisamente più appariscenti con il petto di colore blu grigiastro, una maschera facciale nera bordata di bianco ed una macchia color castagna sul ventre. Le femmine hanno invece un colore più pallido e non hanno le

marcature facciali; entrambi i sessi presentano un’orlatura beige con bordi neri, una barratura sui fianchi ed un ciuffo di piume sporgenti sulla fronte a forma di virgola, più abbondante nei maschi rispetto alle femmine. La coda è corta e di forma quadrata. Sia il maschio che la femmina adulti hanno una lunghezza di 24-27 cm con una apertura alare di 32-37 cm e un peso di 140-230 gr. I giovani California somigliano come colorazione alle femmine, ma hanno un ciuffo più corto, mentre i nuovi nati sono gialli con delle strisce scure sulla schiena ed un ciuffo appena accennato. Si differenziano abbastanza facilmente dalle quaglie di Gambel che hanno il ciuffo dritto, la nuca di colore rosso mattone e non presentano la tipica orlatura sul petto e ventre. Per la loro stretta parentela è possibile trovare, sia in natura che in allevamento, ibridi delle due specie, per cui attenzione agli acquisti.

Il canto Il canto principale della California si compone di tre sillabe: Chi-ca-go. Di solito questo canto viene prodotto quando un individuo viene separato dal gruppo o dal compagno oppure quando lo stormo è in movimento. La chiamata dura circa 1 secondo e può essere ripetuta fino a 10 o più volte in successione. Questa specie utilizza anche un canto di allarme ripetuto, “pit-pit”, per avvisare i membri dello stormo di un pericolo

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Negli allevamenti amatoriali è possibile somministrare a questi galliformi un misto per selvaggina composto da semi per inseparabili e pastone per insettivori, miscela che può soddisfare le loro esigenze nutrizionali.

Habitat e comportamento

imminente. Un aspetto interessante è che i membri della coppia di quaglia della California si accompagnano l’un l’altro in un canto chiamato “antiphonally”: il maschio fa brevi note acute a tempo con il Chi-ca-go della femmina.

Questi animali si muovono per lo più a terra e quando vengono spaventati o disturbati possono correre incredibilmente veloce nonostante le gambe corte. Se realmente in pericolo possono spiccare un breve volo, caratterizzato da un battito d’ali molto rapido, che dura giusto il tempo di raggiungere un riparo. Le quaglie della California in autunno e in inverno formano branchetti che possono contenere diverse famiglie ed arrivare a contare più di

Le quaglie della California vivono vicino ai campi di artemisia, erba medica, trifoglio, ed altre essenze erbacee; il loro habitat originario è rappresentato dalle colline e dal deserto della California e del nord-ovest degli Stati Uniti. Sono anche degli opportunisti e frequenti visitatori di cortili, soprattutto se c’è becchime disponibile a livello del suolo. In Europa questa specie si trova solo in cattività mentre in Nuova Zelanda, Australia, Cile ed isole Hawaii è stata introdotta in natura ed acclimatata.

La nidiata I maschi spesso competono per una stessa partner e sono monogami. La femmina depone 12-16 uova per una o due volte all’anno. Le uova misurano sui 3,2 cm in lunghezza e 2,5 cm in larghezza, sono di colore bianco crema con macchie marroni di forma variabile e schiudono dopo 22-23 giorni. La femmina costruisce un nido, largo mediamente 15-20 cm e profondo 2-5 cm, in una depressione poco profonda del terreno in mezzo alla vegetazione, tra le rocce o alla base

Alimentazione Le quaglie della California generalmente si nutrono in aree aperte, ma rimangono vicino alle zone coperte di alberi e arbusti ove rifugiarsi in caso di pericolo. Questa specie è principalmente granivora, con una dieta composta dal 70% di essenze vegetali (si nutre anche di foglie, fiori e frutti di bosco) favorita dal becco corto e tozzo con bordi dentati, ma non disdegna anche la proteina animale sotto forma di piccoli invertebrati (bruchi, coleotteri, acari, millepiedi e lumache). Generalmente è possibile osservare la quaglia della California camminare, Esemplare adulto maschio di quaglia della California (foto Alessandro Pavesi) correre o razzolare al suolo cercando semi ed altri alimenti sotto 75 individui: gli animali resteranno di alberi ed arbusti che forniscono il fogliame; occasionalmente questo in questi branchi fino all’inizio della protezione. Entrambi i genitori cuvolatile si nutre anche sugli alberi. stagione degli amori. rano la prole, la quale è in grado di

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ciuffo sembra essere un’unica piuma, in realtà si tratta di un gruppo di sei piume sovrapposte. • Essendo adattate ad ambienti aridi, le quaglie della California possono vivere anche con poca acqua, ed assumono l’umidità necessaria nutrendosi di insetti e vegetazione. Durante i periodi di caldo sostenuto devono però trovare acqua potabile per sopravvivere. • I nidi di quaglia della California possono contenere fino a 28 uova. Queste grandi deposizioni possono essere il risultato di un comportamento noto come “egg-dumping’’ per cui alcune femmine affidano le proprie uova ai nidi altrui. Bibliografia

Esemplare adulto femmina di quaglia della California (foto Alessandro Pavesi) lasciare il nido subito dopo la nascita per razzolare a terra in cerca di cibo. I pulcini effettuano i primi tentativi di volo ad appena 10 giorni di vita, ma rimangono comunque a terra insieme ai genitori per almeno un mese; N° 0 successivamente salgono sugli alberi con il resto del branco.

e 1,2 milioni di esemplari solo in California. Nonostante ciò, questo livello di pressione venatoria non sembra avere un effetto negativo sulle popolazioni di quaglia della California.

• Il più vecchio esemplare conosciuto aveva 6 anni e 11 mesi di età. • La quaglia della California digerisce la vegetazione con l’aiuto di protozoi PRODURRE presenti nell’intestino. I pulcini LE PIANTE acquisiscono questa flora microbica PER L’ORTO ingerendo le feci dei genitori. SCEGLIERE • Diverse nidiate si possono mescoIL MAIALINO lare dopo la schiusa e tutti i genitori DA INGRASSO partecipano alle cure della prole miNOVITA’: IL sta: sembra CAVIALEche DI gli adulti che cresconoLUMACA i giovani in questo modo tendano a vivere più a lungo rispetto a UTILIZZARE quelliAL che non loIfanno. MEGLIO • Ad FITOFARMACI una prima occhiata, il classico

Stato di conservazione La North American Breeding Bird Survey stima che le popolazioni di quaglia della California sono aumentate dell’1,8% tra il 1966 e il 2010; Partners in Flight stima che la popolazione globale ammonti a 3,8 milioni, con il 71% degli esemplari che vive negli Stati Uniti, il 3% in Canada e l’11% in Messico. Le quaglie della California rappresentano un’apprezzatissima selvaggina cacciabile negli Stati Uniti e si considera che ogni anno vengano abbattuti tra 800.000

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Ehrlich, P. R., D. S. Dobkin, and D. Wheye. 1988. The birder’s handbook. Simon & Schuster Inc., New York. Dunne, Pete. 2006. Pete Dunne’s essential field guide companion. Houghton Mifflin, Boston.

Curiosità

2014

Calkins, Jennifer D., Julie C. Hagelin and Dale F. Lott. 1999. California Quail (Callipepla californica). In The Birds of North America, No. 473 (A. Poole, Ed.). The Birds of North America Online, Ithaca, New York.

Partners in Flight. 2012. Species assessment database. USGS Patuxent Wildlife Research Center. 2011. Longevity Records of North American Birds.

N° 0

USGS Patuxent Wildlife Research Center. 2012. North American Breeding Bird Survey 1966–2010 analysis

2014

Daniel Marius Hoanca dallian76@yahoo.com Appassionato allevatore

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NOVIT CAVIA LUMAC

Zootecnia UTILIZ

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Il Riccio di Mare L’allevamento del riccio di mare Paracentrotus lividus (Lamarck, 1816): un’importante prospettiva per l’acquacoltura di

Lapo Nannucci e Gianni Brundu

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uando parliamo di acquacoltura, sicuramente la prima immagine che ci viene in mente è quella di una bella spigola o di un’orata, specie da tempo presenti sul mercato, le cui tecniche di allevamento risultano fortemente consolidate. Quest’estate, grazie alla collaborazione di un amico e “collega”, il Dottor Gianni Brundu, biologo marino, ho potuto visitare un laboratorio di ricerca per l’allevamento del riccio di mare Paracentrotus lividus (Lamarck, 1816), ubicato presso la Fondazione IMC - Centro Marino Internazionale di Torregrande (OR). L’IMC fa parte del Parco Scientifico e Tecnologico della Sardegna ed è da tempo impegnato nello sviluppo di progetti di ricerca finalizzati a promuovere l’introduzione di tecniche innovative e sostenibili per la gestione delle risorse marine e costiere. Nel panorama delle specie oggetto di studio, a partire dal 2000, l’IMC ha portato avanti una serie di progetti rivolti specificatamente allo studio della biologia, dell’ecologia e della gestione della risorsa riccio di mare in Sardegna.

Descrizione della specie Il riccio di mare edule è un Echinoderma (dal greco echinos- spinoso, e -derma pelle) della classe Echinoidea, diffuso in tutto il Mar Mediterraneo e comune lungo le coste nord atlantiche dell’Europa, dalla Scozia fino al Marocco ed alle Canarie. Si tratta di una specie che generalmente vive in acque superficiali fino a 10-20 mt di profondità, ma talvolta si possono incontrare individui isolati anche a profondità di circa 80 mt. P. lividus viene comunemente chiamato “riccio viola”, nonostante il colore del corpo sia altamente va-

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riabile, viola scuro, nero, marrone o verde oliva, con varie sfumature intermedie. Il corpo, armato di aculei mobili relativamente lunghi, ha una forma sferoidale; longitudinalmente è suddiviso in un emisfero aborale rivolto verso l’alto, in cui si trova l’ano (periprocto), e in un emisfero orale, rivolto verso il substrato e contenente l’apparato masticatore, detto lanterna di Aristotele. La specie rappresenta il più importante macroerbivoro del Mediterraneo; predilige colonizzare le zone rocciose e le praterie di fanerogame marine (Posidonia oceanica e Zoostera marina). Attraverso la sua attività di pascolo riesce ad influenzare la struttura, la dinamica e il funzionamento delle comunità bentoniche sublitorali di substrato duro dominate da macroalghe ed in condizioni favorevoli si possono verificare fenomeni di sovrapascolo (overgrazing), con conseguente riduzione della biomassa algale. Come tutti gli Echinoidi P. lividus è una specie gonocorica, a sessi separati e non presenta dimorfismo sessuale. L’apparato riproduttore è costituito da 5 gonadi sospese nella faccia interna della teca, di colore rosso brillante-arancio acceso nelle femmine, giallo-arancio chiaro nei maschi. A seconda della zona geografia e

delle relative condizioni ambientali, la specie può avere uno o due eventi riproduttivi durante l’anno. Generalmente quello principale inizia in primavera (aprile-maggio) e si conclude nei mesi estivi (luglio-agosto),

mentre quello secondario ha luogo durante la stagione autunnale. L’emissione dei gameti maschili e femminili avviene simultaneamente e viene attivata da un segnale esterno, nella fattispecie il cambiamento di temperatura dell’acqua o un fattore di disturbo meccanico; la fecondazione delle uova avviene direttamente nella colonna d’acqua (fecondazione esterna). Entro 48 ore dalla fecondazione si raggiunge lo stadio di pluteo a 4 braccia, la caratteristica forma larvale degli echinoidi; questa ha simmetria bilaterale, è in grado di alimentarsi autonomamente di fitoplancton ed in breve tempo sviluppa ulteriori paia di braccia (pluteo a 6 e a 8 braccia). Il raggiungimento dello stadio bentonico, fenotipicamente simile alla forma adulta, avviene generalmente in un

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periodo di tempo compreso tra 20 e 30 giorni. La crescita somatica di P. lividus è estremamente lenta e sembra essere correlata principalmente alla temperatura dell’acqua, alla qualità dell’alimento disponibile ed allo sviluppo gonadico. Durante le stagioni sono state riscontrate variazioni del tasso di crescita, correlate direttamente con i livelli termici. Gli indivi-

Strutture di laboratorio per la stabulazione di P.lividus. Fonte IMC - Centro Marino Internazionale di Torregrande (OR) dui si accrescono quando la temperatura è superiore a 8°C e l’optimum termico è compreso tra 18 e 22°C; a temperature superiori la crescita tende a frenare e si arresta totalmente oltre 28°C. Generalmente si stima una velocità di crescita pari ad 1 cm l’anno, quindi un esemplare di 5 cm di diametro dovrebbe avere circa 5 anni di età.

Importanza economica ed impoverimento degli stock Da diversi anni, sul mercato globale vi è una domanda sempre crescente di Echinodermi, soprattutto gonadi di riccio, alimento considerato molto prelibato (specialmente nella cultura orientale). Il principale mercato di questi prodotti è rappresentato dal Giappone, mentre in Europa è limi-

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tato principalmente a Francia, Spagna, Grecia ed Italia. In alcune aree costiere italiane il consumo alimentare delle gonadi di P. lividus rende questa specie molto importante da un punto di vista economico. A livello nazionale il prelievo di P. lividus è disciplinato dal DM del 12 gennaio 1995, mentre in particolari regioni come la Sardegna, caratterizzate da un notevole sforzo di pesca, la regolamentazione di tale attività risulta maggiormente restrittiva. In particolari zone, inoltre, sono state istituite misure gestionali specifiche su scala locale (es. Aree Marine Protette). Per rendere ancora più efficaci le misure di tutela, si sta prendendo in considerazione l’eventualità di affiancare queste regolamentazioni con dei programmi di ripopolamento attivo della specie. Il ciclo di ripopolamento attivo di una specie inizia con il prelievo di individui adulti selvatici in determinate zone costiere, i quali vengono stabulati in apposite strutture e stimolati alla riproduzione. I giovanili prodotti vengono fatti crescere in ambienti controllati fino al raggiungimento di una certa taglia, sufficiente a garantire una buona sopravvivenza al momento della loro immissione in ambiente naturale. Generalmente il rilascio viene effettuato nelle stesse zone da cui sono stati prelevati gli individui adulti.

Allevamento Attualmente l’IMC sta portando avanti studi sperimentali relativi all’allevamento del riccio di mare, con l’obiettivo di individuare le migliori diete e condizioni di allevamento. Lo sviluppo di una catena di produzione di P. lividus basata sulla produzione e l’allevamento di individui giovanili per il ripopolamento della fascia costiera e di individui adulti per il mercato, potrebbe rappresentare una importante sfida per il futuro. I principali problemi che attualmente limitano lo sviluppo dell’echinocoltura sono rappresentati da tempi di accrescimento piuttosto lunghi, dal basso tasso di sopravvivenza di larve e individui giovanili e dalla bassa percentuale di individui metamorfosati. La metamorfosi rappresenta

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uno dei periodi più critici per la vita degli echinodermi, durante la quale si registrano bassissime percentuali di individui metamorfosati. La maggior parte delle sperimentazioni effettuate su scala di laboratorio, inoltre, evidenziano spesso risultati decisamente migliori rispetto a quelli ottenuti su scala industriale, per cui queste tecniche si rivelano di difficile applicazione a livello commerciale. L’IMC ha condotto una serie di studi mirati alla massimizzazione delle produzioni, aumentando i tassi di sopravvivenza e di metamorfosi ed accorciando i tempi di accrescimento. Le sperimentazioni sono state fatte in ambiente controllato all’interno dei laboratori dell’IMC. Durante l’allevamento era molto importante mantenere un’ottima qualità dell’acqua e monitorare i parametri chimico-fisici: temperatura pari a 19,0±2,0 °C, salinità 36,5±0,2‰ ed illuminazione continua 24/24h fornita da lampade a fluorescenza. In fase di allevamento larvale sono state testate diverse specie microalgali come fonte alimentare ed i risultati ottenuti hanno messo in evidenza una velocità di sviluppo e un tasso di sopravvivenza estremamente variabili a seconda della dieta utilizzata. I migliori risultati hanno fatto registrare tempi di sviluppo estremamente corti (14-15 giorni) e percentuali di sopravvivenza molto elevate, fino al 100% al sopraggiungere del momento della metamorfosi. Durante una sola stagione riproduttiva sono stati prodotti circa 1000 individui giovanili, che nei primi mesi di vita hanno mostrato una crescita piuttosto eterogenea. L’obiettivo è quello di identificare diete e condizioni di allevamento che consentano di produrre esemplari di taglia commerciale in tempi relativamente brevi. Dr. Agronomo Lapo Nannucci lapo.nannucci@ gmail.com

Dr. Gianni Brundu Biologo Marino IMC Oristano

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Razze avicole campane Nella regione, oltre alle più famose razze caprine e suine, erano presenti razze autoctone di polli e tacchini che al momento risultano tutte estinte di

Pasquale D’Ancicco

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ino all’inizio del ‘900 la Campania poteva vantare numerose razze nelle sue varie province, che tuttavia finirono per estinguer-

za, le ottime carni ed il fatto di esser un eccellente ovaiola con tarsi gialli e cresta simile all’Italiana. Citiamo il testo originale:

Tavola del “Summa gallicana” raffigurante un gallo scodato

Gallina ritrovata sui monti del Matese (CE) ascrivibile alla Beneventana si a causa di malattie, carestie e dell’invasione dei più precoci ibridi da carne e le più produttive galline ovaiole. Le razze di cui abbiamo documentazione storica sono la Beneventana, la Scodata, la Storza e la Monnezzara per ciò che riguarda i polli, il Fulvo di Benevento e il Bianco di Avellino per ciò che concerne i tacchini; al momento risultano tutte estinte.

La Beneventana Citata in un trafiletto sulla Rivista di Avicoltura del 1936, la gallina Beneventana era assimilabile al pollo mediterraneo diffuso sul resto della penisola; era caratterizzato da cresta semplice, dritta nei galli e piegata di lato nelle femmine in deposizione, pelle e tarsi gialli, orecchione bianco; il piumaggio prevedeva invece una varietà nera ed una fulva.

La Scodata Fu menzionata dal Pascal nella sua opera “Summa gallicana”: gli venne descritta durante il il suo soggiorno a Caserta da alcune persone anziane del luogo. Le caratteristiche di questo pollo erano, oltre all’assenza di coda che conferiva il nome alla raz-

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“Diversi vecchi della contrada ove soggiornai per vario tempo (circondario di Caserta) ricordano una gallina scodata a tarsi gialli e cresta e bargigli quasi come l’italiana. Essi affermano che la carne era molto superiore a quella della italiana, pur restando inalterata la prerogativa della fetazione abbondante”

e ridotta a camminare sui trampoli, talmente è notevole la lunghezza dei tarsi. Su per giù la gallina storza si potrebbe definire la Barbézieux a caratteri italiani: è veramente deplorevole l’abbandono di questa sottorazza che io vorrei propriamente chiamare razza“.

La Storza Descritto sempre dal Pascal nel suo “Summa gallicana”, era un pollo simile alla tipologia Italiana, con cresta rimpicciolita e tarsi più lunghi tanto che lo stesso autore diceva che “era costretta a camminare sui trampoli”; pare derivasse dall’incrocio di polli Italiani con le prime Cocincina importate, che all’epoca erano simili ad un odierno Malese. Ne riportiamo il testo: “Mi piace di citare ancora una sottorazza della gallina italiana, Gallo ascrivibile alla Storza rinvenuto nelle campagne dell’alto casertano che oramai è completamente piombata nell’oblio e forse anche Come detto, anche la Storza risulta estinta. Alludo alla gallina storza, ad ora estinta; tuttavia molte perche sino a un decennio fa inondava i sone anziane da sempre residenti cortili della Campania: la stessa non nelle campagne di Caserta dov’era è altro che la gallina italiana a cresta diffusa la Storza (S.Leucio, Vaccherimpicciolita, a volume aumentato ria e Mezzano) la ricordano ancora,

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descrivendola come simile ad uno struzzo data la lunghezza delle zam-

una sola razza largamente diffusa in Italia seppur con differenze regionali circa stazza, peso, etc.

Fulvo di Benevento Razza di tacchino che un tempo era discretamente diffusa nelle province di Benevento e Caserta le cui qualità, in particolare rusticità e precocità, erano molto apprezzate non solo per il consumo locale ma anche nei mercati di Napoli e Roma. Il piumaggio si presentava rossiccio cupo, fulvo, con Tavole del “Summa gallicana” raffiguranti gallina e gallo di Italiana dorata, simile alla Monnezzara rare macchie nere all’estremità dei vessilli delle pe e del collo stesso, con le piume penne, cosi come nere erano le redel collo e della coda che appariva- miganti delle ali, essendo il tacchino no più dure e poco armoniose rispet- di Benevento portatore del carattere to a quelle del pollame locale allora genetico “ala nera”. Il peso dei maschi non superava i diffuso. 6-7 kg anche se pare che i soggetti La Monnezzara opportunamente ingrassati potesseVeniva così chiamata per l’abitudine ro raggiungere i 10 kg; le femmine, che avevano i contadini di nutrire il ottime covatrici, non superavano i loro pollame con i resti della cucina 3-4 kg e raggiungevano a stento i e con quanto veniva scartato dall’a- 5-6 kg se ingrassate. zienda agricola. Non esiste alcuna foto o immagine della gallina Monnezzara (o Italiana Napoletana), ma può essere assimilata al tipo mediterraneo diffuso nel resto d’Italia anche se i tarsi erano un po’ più corti e l’aspetto risultava più tozzo. La cresta era semplice, abbondante, ripiegata nella femmina in deposizione, con orecchioni bianchi, pelle e tarsi gialli; le livree comprendevano il collo oro e il perniciato. Finora ho descritto le razze di cui abbiamo fonti storiche; ci sono poi altre due tipologie di galline che le persone anziane dei vari borghi e masserie antiche che ho visitato ricordano per via della loro colorazione; in particolare dalle parti dell’alto casertano, da Caiazzo fino a Gioia Sannitica che raccontano di galline dai tratti del pollo mediterraneo in colorazione millefiori. Invece nelle campagne tra i monti Tifatini, San Leucio e il Mezzano si parla di galline in colorazione cucula, chiamate in dialetto “cicirinelle” (in quanto color cenere); del resto lo stesso cav. Italo Mazzon negli anni ‘30 considerava le cucule

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Il piumaggio si presentava per lo più bianco con rare macchie nere presenti anche sulle remiganti. Ottimo pascolatore il tacchino Bian-

Esemplare impagliato di tacchino Fulvo di Benevento (foto di Alessio Zanon) co di Avellino si prestava benissimo all’ allevamento all’aperto grazie alla sua spiccata rusticità. Era una razza leggera, difatti il peso dei maschi si aggirava sui 6-7 kg, mentre le femmine raggiungevano i 3-4 kg.

Dunque gli avicoli campani risultano attualmente estinti; tuttavia effettuando ricerche presso antichi casolari e masserie di zone isolate della varie province campane sono entrato in possesso di alcuni soggetti interessanti dai quali ripartire per un’eventuale opera di ri-selezione delle varie razze, che tuttavia rimarrà Tacchino Nebraska, razza americana simile un’utopia se gli allevatori della al Bianco di Avellino nostra regione continueranno a preferire esemplari industriali Bianco di Avellino o stranieri. Il risultato sarà quello di Tacchino locale che un tempo inon- far finire nel dimenticatoio le poche dava le aie e le campagne dell’ap- tracce di avicoli locali che si sono pennino meridionale, da Lucera ad conservate fino ai giorni nostri, conAvellino e Salerno, dove in parti- dannandoli così all’estinzione. colare nell’agro-nocerino e Cerignola pare si contassero branchi di Pasquale 700\800 capi che venivano allevati D’Ancicco esclusivamente per il consumo perpasqualedancicco@ sonale o per esser venduti nei merlive.it cati locali.

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Api, piante, polline Un tema banale e complesso allo stesso tempo: vediamo cosa fanno realmente le api e perchè sono così importanti per l’uomo di

Romeo Caruceru

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e chiedessimo in giro: “Cosa fanno le api?”, la prima risposta che avremo sarebbe: “il miele”. Insistendo un po’, qualcuno si ricorderebbe della propoli, che da anni si trova anche nelle farmacie, della pappa reale, “miracoloso” alimento che riesce a trasformare una futura operaia in una regina e forse anche del polline, nonostante il suo consumo non sia molto diffuso. La cera non interessa più a nessuno, ha perso da tempo la sua battaglia contro l’elettricità e così adesso abbiamo le lampadine a LED al posto delle candele, mentre le proprietà e l’utilizzo del veleno sono quasi sconosciute ai più. Sono questi i prodotti dell’alveare, alcuni maggiormente ricercati, altri dimenticati o sconosciuti ma comunque privi di alcun valore rispetto all’unica cosa veramente indispensabile che le api fanno per noi: l’impollinazione delle piante entomofile in genere e delle colture alimentari in modo particolare. Se un domani le api smettessero di produrre il miele, non sarebbe un grosso problema, sapremo adattarci alla sua mancanza, pur con l’inevitabile rimpianto. Se invece smettessero di impollinare le piante, la sicurezza alimentare globale sarebbe a rischio: un terzo della produzione mondiale delle colture a scopo alimentare è dipendente dall’impollinazione (CORDIS, 2006). Il 70% delle specie coltivate nel mondo (84% di quelle coltivate in Europa) dipendono dall’opera degli impollinatori mentre il valore stimato di tale

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lavoro è di circa 153 miliardi di euro all’anno (CRODIS, 2008). Secondo stime più recenti, questo valore sarebbe di 265 miliardi di euro (Lautenbach et al. 2012). In Italia il valore del servizio degli impollinatori è stimato a più di 1.500 milioni di euro all’anno, di cui 1.233,8 riconducibili alle sole api. A questa attività ogni alveare partecipa con una quota che vale circa 1.240 € (Accorti, 2000). Questi calcoli non tengono conto però delle colture che servono da pascolo, delle colture sementiere o di quelle per la produzione di bio-

carburanti, né tantomeno della flora spontanea, apparentemente senza alcun valore economico. Solo il caso ha voluto che l’insetto da noi allevato per tutti i prodotti prima elencati fosse anche un ottimo impollinatore, fatto ignorato fino a non molti decenni fa; è però di grandissima utilità adesso, quando per vari motivi, tra cui l’utilizzo indiscriminato di pesticidi in agricoltura e la riduzione dell’habitat, gli altri insetti pronubi, gli impollinatori selvatici, sono in declino, molti a rischio di estinzione.

Le piante La coevoluzione di piante e insetti pronubi durata milioni di anni ha prodotto dei risultati sorprendenti con un beneficio evolutivo per tutte e due le categorie. Da una parte si ha la garanzia di una sicura impollinazione incrociata senza dover affidare al vento ed al caso il trasporto di grandi quantità di polline, mentre dall’altra si ha un compenso in cambio di… niente, visto che la ricerca del cibo è un’attività inevitabile e che il trasporto di pochi granuli pollinici non richiede alcun sforzo supplementare. Le piante hanno “scoperto” che è molto facile attirare gli insetti (ma anche mammiferi e uccelli) producendo per loro un nettare zuccherino ma avendo l’accortezza di offrirlo in modo tale da costringere l’ignaro corriere a toccare gli stami ed imbrattarsi così del polline, prezioso materiale che rimarrà attaccato allo stigma del successivo fiore visitato. Ovviamente, anche tra le piante c’è chi vuole tagliare i costi: alcune producono un nettare poco zuccherino, al limite dell’appetibilità, altre limitano la produzione ai periodi più favorevoli della giornata mentre le più “furbe” sostituiscono la dispendiosa produzione con… l’inganno. Esistono specie di orchidee altamente specializzate che imitano le fattezze di una femmina di bombo, spingendo i maschi a tentare un accoppiamento, tentativo che finisce con il maschio che si allontana con le corna… cioè, una struttura detta “pollinio” che si

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stacca dal fiore rimanendo incollata alla testa del malcapitato sotto forma di corna, per l’appunto; questa verrà trasportata dal bombo credulone al prossimo fiore della stessa specie. Da parte loro, alcuni insetti hanno scoperto che anche il polline può rappresentare una fonte di nutrimento.

Le api Sono tra gli insetti che sfruttano il polline a scopo alimentare, utilizzandolo miscelato con il miele e la pappa reale per l’alimentazione della covata e come nutrimento proteico per le api che devono produrre cera o la stessa pappa reale. Le bottinatrici possono raccogliere nettare e polline insieme oppure separatamente. Durante le visite ai fiori, il corpo delle api ricoperto di peluria si imbratta di granuli pollinici, corpuscoli che vengono spazzolati durante il volo tra un fiore e l’altro con dei pettini presenti sulle tre paia di zampe. Qui vengono amalgamati con del nettare appena raccolto o con del miele trasportato nella borsa melaria e compressi in pallottoline successivamente stipate nelle cestelle del polline, presenti sulla parte esterna della tibia delle zampe posteriori. Queste pallottole sono di notevoli dimensioni, fino a 7,5 mg e vengono trasportate nell’alveare dove la api di casa si incaricano del loro immagazzinamento. Le operaie addette al magazzino ripongono il polline nelle cellette, dopo averlo ulteriormente mescolato con del miele e lo comprimono con la testa per eliminare completamente l’aria. Durante la stagione attiva il polline viene depositato nelle vicinanze della covata, visto che servirà al suo nutrimento, mentre le scorte invernali sono posizionate sui telaini laterali e saranno utilizzate alla ripresa dell’attività, a fine inverno, quando inizierà di nuovo l’allevamento della covata. Essendo il polline indispensabile alla sopravvivenza della colonia, in caso di bisogno le api si adattano a racco-

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gliere anche quello delle piante anemofile, più frequentemente quello di ulivo e di mais, data la disponibilità; le qualità nutritive sono però inferiori e la raccolta più difficile.

Il polline Le api lo consumano sia fresco (appena raccolto) sia conservato, anche se preferiscono quest’ultimo. Nelle particolari condizioni di temperatura e umidità dell’alveare, il polline compresso nelle cellette con l’aggiunta di miele ed in mancanza di aria subisce una fermentazione lattica che lo trasforma in un alimento più nutriente e ricco di enzimi e vitamine chiamato “pane delle api”. La fermentazione e

Ape bottinatrice carica di polline le condizioni ambientali favoriscono anche il suo mantenimento inalterato per lunghi periodi, permettendo così alle api, come nel caso del miele, di creare delle riserve da sfruttare nei periodi di bisogno come la ripartenza primaverile; in questo periodo inizia l’allevamento delle nuove generazioni ma non sempre il clima permette l’uscita delle bottinatrici e l’offerta di polline fresco in natura è ancora scarsa. La raccolta del polline da parte dell’uomo avviene mediante apposite trappole poste all’ingresso dell’alveare, chiamate “pigliapolline”. In pratica si costringono le api a passare attraverso dei fori calibrati in maniera tale da permettere il passaggio delle api… senza le pallottolline di polline, quindi, le bottinatrici sono costrette a liberarsi di una parte del loro carico. Le trappole possono essere però posizionate solo per pochi

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giorni di seguito; da una parte perché le api imparano a fare pallottoline di polline più piccole tanto da poter passare attraverso i fori, mentre dall’altra perché la raccolta del polline influisce negativamente sulla raccolta del nettare. Infatti quando all’interno dell’alveare viene notata la diminuzione del flusso di polline in ingresso, una buona parte delle bottinatrici viene dirottata dalla raccolta del nettare a quella del polline. Il polline per il consumo umano deve essere preservato da fenomeni di fermentazione e dall’attacco dei parassiti. Per fare questo, fino a non molti anni fa lo si essiccava con l’ausilio di una corrente di aria calda a circa 45°C. Il risultato di tale procedimento erano delle palline molto dure, tanto da scricchiolare tra i denti, mentre il gusto non era molto apprezzato dai più, in particolare dai bambini. Il polline conservato con questo metodo perde una parte delle sue proprietà nutritive che varia a seconda delle fonti tra il 50 ed il 90%. Negli ultimi anni ha preso sempre più piede il metodo di deumidificazione a freddo con successivo congelamento oppure il semplice congelamento del polline fresco, appena raccolto. In questo modo vengono preservate tutte le qualità nutrizionali lasciandone inalterato il gusto, molto più gradevole. Anche il pane delle api, diverso dal polline per aspetto, proprietà, sapore e per la maggiore disponibilità degli elementi nutritivi, ha i suoi estimatori ma presenta anche molte difficoltà per quanto riguarda la sua raccolta. Sono state tentate diverse strade e al momento il metodo più utilizzato è la distruzione dei favi dove è immagazzinato, con la successiva vagliatura per eliminare la cera sbriciolata ed il congelamento dei granelli.

Romeo Caruceru Esperto apistico

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Il Bouledogue Francese La storia di un mini-molosso nato in Gran Bretagna, nonostante il nome indichi tutt’altra origine di

Federico Vinattieri

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hanno subito moltissime variazioni morfologiche, soprattutto nella taglia e nella massa muscolare. La storia inizia, come per la maggior parte delle razze, in Gran Bretagna. C’era una “corrente di selezione”

che privilegiava i cani grandi e forti, per cui tutti i cuccioli che nascevano o crescevano con meno robustezza venivano scartati; in rarissimi casi, questi venivano raccolti da persone del popolo, che non potevano permettersi un cane di prima scelta ma si accontentavano di cuccioli considerati “scadenti” e quindi di scarso valore. Questi esemplari vennero poi, in assenza di alternative, accoppiati con soggetti locali, tra cui diverse

varietà di “terriers”, ossia di piccoli cani con attitudine alla caccia della piccola selvaggina e in tana. Pian piano vennero selezionati cani di taglia sempre più piccola, i quali avevano delle grandi doti di cacciatori e fungevano anche, in qualche maniera, da “repellenti” naturali per i tanto detestati ratti e topi, diffusissimi a quei tempi soprattutto nelle grandi metropoli. Con gli anni si crearono quindi due realtà parallele nel tipo di cane molossoide; intorno al XVI secolo c’erano da una parte i cani imponenti e di grande taglia come il Mastino, e dall’altra cani più piccoli e con meno rusticità, che non avevano nessuna attitudine alla guardia e difesa ma che servivano al lavoro di caccia e di accompagnamento dei bovini ai macelli. Questi cani venivano chiamati “bolddoge” o anche “banddoge”, nome che con il tempo divenne “bull-dog”, ossia “cane da toro”; potevano essere più o meno grandi a seconda dell’impiego per cui erano stati selezionati. Iniziarono anche a nascere soggetti con le orecchie dritte. I piccoli molossi incominciarono ad attirare l’attenzione di molti allevatori che, con estrema dedizione, riuscirono a selezionarli in modo da ottenere una parvenza di omogeneità. È documentato ufficialmente che

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uando si pensa ad un Bouledogue francese è automatico lo stereotipo del piccolo cane con il muso “schiacciato” e le orecchie a pipistrello. Se si è appassionati di piccoli molossoidi, non si può fare a meno di restare affascinati dalla particolare estetica del Bouledogue. Non si tratta solo di un “cane da compagnia”, infatti questo “piccolo grande cane” riserva molte sorprese a coloro che decidono di introdurlo in famiglia. Piccolo ma compatto e robusto, determinato e testardo, questo simpatico cane è una sorta di “carro armato” in miniatura. Guardiano affidabile e assolutamente instancabile nei giochi, si rivelerà un vero e proprio membro della famiglia. Ma vediamo come è nata questa particolare razza, con queste tipiche caratteristiche morfologiche che lo rendono inconfondibile perfino agli occhi più inesperti. Il Bouledogue francese ha origini comuni a tutti gli altri molossi, anche quelli di taglia maggiore. Le razze, tutte le razze come le conosciamo oggi, hanno subito una lenta e laboriosa evoluzione nel corso degli ultimi due secoli. Bisogna tener conto che fino alla seconda metà dell’Ottocento, le razze canine ed i molossi in particolare,

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all’esposizione canina organizzata a Manchester nell’anno 1864 vennero esposti i Bulldog, in ben due classi differenti: quelli che arrivavano ad un peso superiore di 12 libbre e quelli al di sotto di questo peso. I più minuti venivano definiti “Toy Bulldogs”. I “Toy” erano presenti in moltissime botteghe e laboratori e per la loro stazza poco ingombrante e la loro efficienza nell’allontanare gli animali nocivi iniziarono a diffondersi notevolmente. Il Bulldog o Toy-Bulldog di quei tempi non aveva niente a che vedere con il cane che oggi tutti conosciamo, nell’estetica però si avvicinava molto di più all’odierno Bouledogue. La crisi economica fece fuggire dall’Inghilterra i commercianti della città di Nottingham, i quali portarono con sé i piccoli molossi nelle regioni settentrionali della Francia. In queste zone, i “toy-bulldog” vennero incrociati con alcuni cani locali di razza “Doguins”, tipologia di cane oggi estinta, che ricordava un po’ l’odierno Dogue de Bourdeaux, ma in versione miniatura. Oltre al “Doguins” venne inserito nella selezione il Carlino, già esistente a quei tempi, ed alcuni terrier. Dal Carlino furono ereditate caratteristiche somatiche importanti che dureranno nel tempo. I commercianti francesi si dilettarono nell’allevamento, vedendo in questi cani la possibilità di aprire un nuovo mercato e presero in mano la sele-

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zione di questo nuovo “tipo”. I francesi erano unanimi nel direzionare la selezione verso un cane con muso corto e orecchie dritte e quindi gettarono, anche un po’ involontariamente, le fondamenta della nuova razza che venne battezzata con orgoglio nazionalista “French Toy Bulldog”. L’allevatore Dick Harrison importò in Inghilterra questi piccoli molossi per la prima volta, ma fu il noto allevatore britannico M.G. Krehl che acquistò e ne importò a Londra un gruppo per esporli, con grande stupore di tutti i cinofili presenti, alla importante Esposizione del Kennel Club. Sia inglesi che francesi iniziarono una sorta di “guerra fredda” per rivendicare la paternità di questa nuova “razza” che, data la sua eterogeneità, non poteva ancora definirsi tale a tutti gli effetti. Nell’anno 1880 un gruppo di persone, veri appassionati cinofili, organizzarono una storica riunione nella quale venne fondato un “Club”, che ebbe però meno di 50 adesioni. Questi “pionieri cinofili” si cimentarono in un percorso durato quasi dieci anni la cui meta fu redigere lo standard di razza, fondamentale per poter ottenere un risultato concreto nell’allevamento. Il signor Phelps, proveniente dalla città americana di Boston, folgorato dal fascino di questi “nuovi” cani, decise di introdurre nel suo Paese d’origine alcuni soggetti e nell’an-

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no 1896 li espose al Westminster Show, la più importante mostra canina del mondo. I “Bouls” lanciarono una vera e propria moda dell’epoca: tra allevatori si arrivò a fare delle vere e proprie aste; i prezzi salirono alle stelle ed i cani divennero popolarissimi. Successivamente il mercante Gordon Bennet riuscì ad ottenere il riconoscimento della razza e nell’anno 1898 venne creato il Club degli amatori della razza Bouledogue Francese che ottenne anche il patrocinio della Società Centrale Canina francese. L’Inghilterra arrivò al riconoscimento della razza solo nel 1911, ben tredici anni dopo. Oggi il Bouledogue, tra i cani facenti parte del grande gruppo dei cani da compagnia, è una delle razze più allevate e apprezzate. Questa è la vera storia del Bouledogue francese, un cane incredibile per le sue doti caratteriali, per l’intelligenza, l’astuzia, le doti affettive e anche per il suo particolarissimo aspetto, che non può che suscitare una grande simpatia. Allevamento di Fossombrone http://www.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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La nascita del cane Origini, curiosità ed utilizzi nell’antichità dell’animale di più remota addomesticazione della storia di

Gian Piero Canalis

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a tendenza a catturare animali, specialmente cuccioli, vuoi per ragioni di curiosità e per fare regali ai bambini, vuoi per altri motivi come cibarsene successivamente o per altri scopi, è innata nell’uomo. Anche ai tempi della mia infanzia, quando le leggi non erano così restrittive come oggi, non passava anno che qualche zio mi regalasse almeno un piccolo di animale: nidiacei di tortore, falchi ed altri uccelli minori come anche cuccioli di lepre, ricci (porcospini) e tartarughe che era facile trovare in campagna. Quando poi sono diventato un po’ più

anzi probabilmente in Ucraina e risalgono alla metà del IV Millennio a.C., mentre le prime tracce di asino sono state rinvenute nell’Africa Nord Orientale. L’animale di più antica addomesticazione, però, è il cane e la data dell’inizio di questa convivenza è stata rivalutata più volte. Attualmente si parla di 33.000 anni fa, grazie ad un cranio fossile rinvenuto in una grotta dei monti Altai in Siberia: nello stesso sito, frequentato periodicamente da cacciatori, sono stati rinvenuti resti di carbone e di ossa bruciate nel-

cedenti sul DNA, il cane sia stato addomesticato in epoche, luoghi, condizioni climatiche diverse e da gruppi umani distanti tra loro che hanno realizzato incroci differenti; condizioni queste che hanno dato luogo a molteplici razze. In epoche molto antiche, cioè forse fino al neolitico quando la specie umana era poco diffusa nel mondo, pare che i lupi, come molti altri animali, non fossero diffidenti verso l’uomo. Ciò fa pensare che i canidi precedentemente citati (e anche qualche specie diversa dal lupo ed

Le numerose razze di cani, spesso anche molto diverse fra loro, hanno la stessa identica origine genetica grandicello ho iniziato a provvedere io stesso, da solo o con amici, a queste catture; in genere riuscivo a farli crescere e poi li liberavo. Da quando l’uomo ha iniziato a diventare stanziale ed a dedicarsi all’agricoltura ha anche iniziato ad addomesticare gli animali. L’elenco è davvero numeroso: cani, capre, pecore (9.000 a.C.), maiali (7.000 a.C.) e successivamente bovini. Il Pollo (Gallus gallus) fu addomesticati nel Sud Ovest Asiastico e nel 6.000 a.C. venne introdotto in Cina. Cavallo e asino sono stati addomesticati più tardi: i più antichi reperti di cavallo domestico sono stati rinvenuti nella Russia settentrionale,

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lo stesso livello stratigrafico. La data di pertinenza è stata confermata col metodo del radiocarbonio da 3 laboratori diversi. Questo cane si era già notevolmente differenziato dal lupo, nella taglia e nella morfologia, anche se alcuni tratti, come i denti, sono ancora molto simili a quelli del progenitore ancestrale. Non è però del tutto chiaro se si tratti di un animale già addomesticato o di una specie intermedia fra il lupo e il cane che era solito vivere in simbiosi con l’uomo. E’ ormai un pensiero universalmente condiviso che, contrariamente a quanto indicato da alcuni studi pre-

oggi estinta) si avvicinassero spesso agli accampamenti per cibarsi dei resti delle macellazioni e dei rifiuti, dimostrando un certo affiatamento con l’uomo e vivendo in simbiosi con esso; praticamente questi animali sarebbero stati adottati proprio da quelle comunità. Gli uomini poi cominciarono a prelevare i loro cuccioli e ad allevarli, per diletto ma anche per altri motivi: utilizzarli nella guardia, nella caccia, iniziando un’ammirevole coevoluzione che ha portato il cane ad essere il miglior amico dell’uomo. Altre usanze diffuse nell’antichità erano quella di cibarsene, abitudine tutt’ora in uso (particolarmente

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nell’Asia Orientale) e quella di offrire gli esemplari migliori in sacrificio rituale agli Dei. Questo pare succedesse anche in Sardegna dove, in pozzi sacri di epoca nuragica (circa 3.000 anni fa), sono stati rinvenuti resti di cani giovani abbastanza simili al Fonnese attuale con segni evidenti di armi da taglio. Per completezza devo dire che, sempre in Sardegna, sono stati rinvenuti anche resti di cani molto più antichi, risalenti a circa 5 mila anni fa (età del rame): uno nei pressi dello ziqqurat di Montì d’Akoddi (Nurra di Sassari), grande all’incirca come un cane Fonnese, e l’altro, più piccolo, all’interno di una grotta situata nell’abitato della città di Sassari. E’ importante evidenziare che fra uomo e cane si instaurarono dei commoventi rapporti affettivi, aldilà di quelli utilitaristici, già in epoche molto antiche; a cominciare da circa 14-30 mila anni fa, sono state rinvenute tombe accuratamente tumulate, soprattutto in Germania, dove erano sepolti dei cani ed altre dove questi erano stati sepolti accanto all’uomo. Commuovente il reperto di una tomba nella quale è stato rinvenuto lo scheletro di un uomo con una mano poggiata sulla testa di un giovane cane. L’origine esatta del cane non è ancora certa e numerosi sono i punti ancora da chiarire. È opinione diffusa che trattasi di una sottospecie del lupo, ma questo è un punto controverso: diversi ricercatori sostengono che ormai, date le notevoli ed evidenti differenze col lupo, il cane debba essere riconosciuto come una specie a se stante. È certo che il cane domestico (Canis lupus familiaris) ha 48 cromosomi esattamente come il lupo (Canis lupus), lo sciacallo dorato (Canis aureus euroasiatico) e altri canidi. Per la suddetta caratteristica comune, l’incrocio fra questi canidi può dar luogo a una prole fertile, quindi si può ragionevolmente ipotizzare che il progenitore del Canis lupus familiaris non sia necessariamente solo il lupo, ma che siano interessati anche altri congeneri, cosa che sembra dimostrata dalle analisi del DNA anche se la maggior parte delle caratteristiche genetiche comuni sono proprio quel-

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le con il lupo. Ma altre ipotesi sono state prese in considerazione: il cane domestico potrebbe discendere non direttamente dal lupo e da altri canidi, ma da una o più specie intermedie, come per esempio un canide rinvenuto in Cina e risalente a qualche centinaia di migliaia di anni fa: il Canis lupus variabilis. Le caratteristiche erano molto simili al cane domestico attuale, il che potrebbe giustificare il riconoscimento del cane come una specie a se stante (Canis familiaris), e non come una sotto specie del lupo (Canis lupus familiaris) DIFFERENZE TRA CANE E LUPO Molto significativa è la differenza del processo coronoideo della mandibola, su cui si inseriscono i muscoli massetere e temporale, che nel cane è curvo posteriormente mentre nel lupo è verticale e diretto cranialmente. Altre differenze nella morfologia delle ossa della testa, in proporzione alla taglia, sono inequivocabili: la scatola cranica è proporzionalmente più sviluppata e il cranio è meno massiccio nel cane, che possiede anche un palato più largo e denti più piccoli rispetto al lupo. Tutte queste differenze sono dovute a mutazioni spontanee e fissate ad opera della selezione naturale. Altre differenze nei caratteri fisici, presenti in diversa misura in quasi tutte le razze canine oggi esistenti, come occhi meno o per nulla obliqui, chiazze nel mantello, colore, lunghezza e tipo di pelo, coda corta ecc., pur essendo ovviamente sempre effetto di mutazioni spontanee, sono state fissate con selezione artificiale ad opera dell’uomo. Quindi il canide addomesticato, col passar del tempo, ha subìto delle trasformazioni genetiche, strutturali, comportamentali e metaboliche. Confrontando il genoma del lupo e del cane, è stato rilevato che il comportamento di quest’ultimo è andato mutando in sincronia col cambiamento del metabolismo degli amidi. Infatti, sia il lupo che il cane sono carnivori non obbligati, cioè pur avendo la carne come base della dieta all’occorrenza possono nutrirsi di frutta, radici e altre parti di vegetali, ma con l’addomesticamento,

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come sopra riportato, il cane si è differenziato dal lupo anche per il tipo di dieta, potendo tollerare e assimilare una maggior quantità di amidi e vegetali. Questi cambiamenti sarebbero cominciati nel periodo del passaggio dell’uomo dalla caccia all’agricoltura, sia perché i lupi semi-domestici, frugando fra i rifiuti, cominciavano a mangiare sempre più spesso alimenti ricchi di carboidrati, sia perché a maggior ragione gli amidi cominciavano a far parte regolare della dieta dei lupi (o altri canidi) già addomesticati. In altre parole, è stato dimostrato che i geni che regolano il comportamento sono mutati contemporaneamente ai geni che favoriscono il metabolismo degli amidi. Con il metabolismo ed il comportamento, per mutazioni successive, è cambiata anche la morfologia allargando via via sempre più la forbice delle differenze fra il cane e il lupo e generando varie razze, o meglio vari tipi di cani primitivi in diverse parti del mondo antico. Gli stessi poi, grazie ai contatti tra le diverse popolazioni, si sono meticciati dando luogo alle varie razze di cani primitivi. Naturalmente, nell’antichità venivano privilegiati, selezionati e mantenuti i cani che, prima di tutto, avevano un comportamento amichevole nei confronti dell’uomo ed una utilità pratica: guardia, difesa, pastorizia e caccia. Solo successivamente, con l’affinarsi delle civiltà, si cominciò a selezionare anche razze singolari e curiose, con poca o nessuna utilità pratica, ma soltanto per le loro caratteristiche morfologiche ed estetiche, in genere esclusive delle classi più ricche e nobili. E così, al giorno d’oggi, esistono non meno di 400 razze canine riconosciute ufficialmente, spesso incredibilmente diverse fra loro, senza contare gli innumerevoli meticci, i simpaticissimi ed intelligenti “bastardini”, che tanta gioia portano con la loro allegra compagnia ad innumerevoli famiglie. Gian Piero Canalis Appassionato allevatore di cani

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L’allevamento del canarino Introduzione, generalità e tecniche di

Federico Vinattieri

C

ercherò di sintetizzare i vari aspetti della riproduzione e di esporli con parole semplici, in modo tale che anche i neofiti possano comprendere come allevare questo straordinario uccello domestico. Il canarino non è una specie che vive in colonia, quindi per riuscire nell’allevamento bisogna disporli a coppie. Ovviamente in natura le coppie si formano per attrazione, ogni indivi-

duo ha la possibilità di scegliersi il partner e questo non può accadere in un allevamento, a meno che non si faccia uso di grandi voliere per mettere insieme molti soggetti, pratica che però non garantisce nessun risultato e tanto meno nessun genere di selezione. L’opzione migliore quindi resta la singola coppia per una singola gabbia, che deve essere comunque abbastanza ampia per dar loro la possibilità di allevare e allo stesso tempo avere lo spazio per vivere e per il loro benessere. La classica gabbia da cova ha una misura che varia dai 60 ai 90 cm di larghezza; tutte le misure superiori possono essere definite “volierette”, che sovente vengono usate per i novelli.

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Si può allevare il canarino per due scopi, che comportano due diversi metodi; per semplice divertimento e passione oppure per esporre i propri soggetti alle mostre ornitologiche. In quest’ultimo caso l’allevatore non può tralasciare alcun particolare e deve ovviamente cimentarsi nell’allevamento di una o più determinate razze riconosciute. Se si decide di allevare per puro piacere o per avere la semplice soddisfazione di veder nascere e crescere i piccoli nidiacei, allora questa pratica non è poi così difficoltosa... qualunque allevatore alle prime armi è in grado di mettere insieme due canarini di sesso opposto in una gabbietta con il nido e aspettare che inizi la stagione degli amori. Il canarino come animale è abbastanza facile da allevare, ma ben più difficile è allevarlo a scopo agonistico e selezionarne l’estetica. Se si intende allevare seriamente il canarino, l’acquisto dei primi soggetti è la chiave di tutto un futuro; il consiglio quindi è quello di documentarsi a fondo sia sulla razza che sui vari allevatori. Per partecipare alle varie esposizioni ornitologiche in Italia bisogna essere registrati come allevatori alla Federazione Ornicoltori Italiani (F.O.I.), iscrizione che è possibile effettuare tramite le varie associazioni ornitologiche presenti in ogni regione italiana. Una volta iscritto, si può far richiesta degli anellini inamovibili, sui quali verrà sempre indicato un codice R.N.A. (registro nazionale allevatori) che è unico e corrisponde al nome dell’allevatore per tutta la vita. Il periodo più indicato per mettere in casa i propri canarini, corrisponde pressappoco al periodo degli

amori degli uccelli nostrani, che va dal mese di febbraio, fino ai mesi estivi. Un’antica tradizione ornitofila vuole ufficializzare l’inizio della stagione delle cove per il giorno di San Giuseppe, il 19 di marzo, e tutt’oggi c’è chi rispetta questa scadenza per porre i nidi nelle gabbie. Ma come accorgersi che i canarini sono pronti a riprodursi? I maschi cantano a “squarcia gola” e se messi nella medesima gabbia della femmina iniziano a rincorrerla come in un gioco di velocità, mentre le femmine pronte presentano il ventre arrotondato e spezzettano la carta sul fondo della gabbia, portando piccoli pezzi nel becco da una parte all’altra.

Ma partiamo da prima dell’inizio delle cove. Tutto può mancare in un allevamento, ma non la luce; questo fattore è indispensabile. Un canarino per entrare nella fase di estro deve poter avere circa 14 ore di luce continua. Qui subentra l’astuzia dell’uomo, che ha ideato dei dispositivi programmabili per dare all’animale l’illusione dell’alba e del tramonto. Questi di-

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spositivi, da collegare all’impianto elettrico nel locale di allevamento, sono facilmente reperibili e forniscono garanzie molto soddisfacenti per

l’ottima riuscita delle cove. In ogni modo, se nel locale vi sono finestre abbastanza grandi e sono ben esposte, si può allevare anche con la sola luce naturale. Gli allevatori sono soliti somministrare ai propri riproduttori quello che viene chiamato in gergo il “trattamento pre-cova”. In cosa consiste? La pre-cova è un mix di integratori alimentari che vengono inclusi nella dieta dei canarini per prevenire tutti quelli che sono le patologie o i parassiti che possano danneggiare il regolare andamento della stagione riproduttiva. Alcuni metodi funzionano e favoriscono in modo inequivocabile la fertilità, altri trattamenti invece si rivelano scadenti. I primi tempi si va per tentativi; un allevatore inesperto deve tentare metodi differenti prima di arrivare ad avere una tabella funzionale e strategica per tutte le fasi di un allevamento. Terminato il trattamento, che può avere durata più o meno lunga, si può procedere con la fase successiva: formare le coppie. Quasi tutti gli allevatori non lasciano mai i maschi insieme alle femmine durante tutto l’anno; a cove ultimate vengono divisi e quindi ogni anno le coppie devono essere riassemblate e quasi mai vengono riproposti gli abbinamenti dell’anno precedente. Un maschio va abbinato ad una femmina seguendo criteri ben precisi di fenotipo e anche di genetica e lo stesso vale per l’inverso. Con un soggetto

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si deve tentare di compensare i difetti del soggetto di sesso opposto. La creazione delle coppie è forse la fase più difficile e qui un allevatore inesperto può senza dubbio chiedere aiuto ad uno con maggior esperienza. Il nido da impiegare nella cova del canarino è quello classico a forma di coppa, in vimini, in alluminio o in altro materiale. Insieme al nido va subito messa a disposizione una buona quantità di fibre (la più usata è la juta) che verrà utilizzata come imbottitura. Se la femmina è pronta per la riproduzione non perderà tempo per foderare subito il nido in modo meticoloso. L’atto dell’accoppiamento avviene solitamente alle prime luci dell’alba o al crepuscolo, quindi non c’è da stupirsi se non riuscire ad assistere a quel momento. Dopo pochi giorni o a volte il giorno successivo del termine della costruzione del nido, la femmina avvia la deposizione delle uova. Durante l’atto della deposizione la femmina assume una posizione quasi perpendicolare rispetto al nido e apre il becco in segno di sforzo. Depone da 3 a 6 uova, uno al giorno. La cova vera e propria, ossia l’incubazione, ha inizio dopo la deposizione delle prime 3-4 uova. Per evitare che i piccoli nascano in giorni consecutivi, si adotta il sistema di sostituire le uova vere con uova di plastica, del tutto simili a quelle reali; quando la femmina depone l’ultimo uovo, queste vengono sostituite da quelle vere, così che l’incubazione abbia inizio per tutte nello stesso giorno. Le uova vere vengono custodite in apposite vaschette e devono essere girate almeno due volte al giorno, come avviene naturalmente nel nido tramite contatto della madre. Il genitore maschio nel frattempo si prende cura della femmina, portandole volta volta del cibo e imbeccandola per farla alzare meno possibile; in tal modo la temperatura delle uova resta costante. La durata della cova è di 13 giorni. I piccoli escono dell’uovo nell’arco di pochi minuti e da subito la madre inizia il suo imperterrito lavoro, per nutrirli per tutto l’arco della giornata. All’età di circa 5-6 giorni, i piccoli devono essere anellati. L’anello è l’equivalente della nostra car-

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ta d’identità ed essendo inamovibile, lo si può inserire alla zampa solo a pochi giorni di vita del canarino, trascorsi i quali non sarà più possibile toglierlo. L’anello è assolutamente obbligatorio per partecipare alle mostre. Ogni anello, oltre ad avere il codice R.N.A. e l’anno, riporta anche un numero, che è progressivo; l’allevatore può quindi contrassegnare i soggetti che più gli interessa e può in ogni momento sapere a che numero di soggetti nati è arrivato. È fondamentale lasciare sempre a disposizione della coppia del pastoncino integrato con sostanze di origine animali; talvolta il pastone

viene integrato con uova sode tritate e/o semi germinati. Se non presentano problemi i novelli crescono in fretta ed a circa 25-30 gg (dipende dalle razze) sono svezzati ed iniziano a nutrirsi da soli. Quando si ha la certezza che il novello sia autosufficiente, lo si può allontanare dai genitori, per non disturbare la deposizione successiva. In quasi tutti gli allevamenti, si permette alla femmina di svolgere tre covate consecutive per ogni anno. Quando l’ultimo novello dell’ultima covata è prossimo allo svezzamento, si può togliere il nido dalla gabbia, così da mettere a riposo la coppia. Allevamento di Fossombrone http://ornitologia.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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I solfiti in enologia Utilizzi, limiti e proprietà dell’anidride solforosa nel vino di

Marco Sollazzo

Il diossido di zolfo (SO2), meglio noto con il nome di solforosa, è un prodotto impiegato dalla maggior parte delle aziende vitivinicole nella produzione dei vini. È comunemente impiegato sotto forma di metabisolfito del potassio K2S2O5 che in acqua produce anidride solforosa.

è in grado di inibire l’azione di alcuni enzimi ossidativi evitando la perdita di colore e la formazione di spunto acetico; - azione solubilizzante: questa proprietà della solforosa, seppur minima, può portare alla cessione di alcuni composti nel mosto durante la

La solforosa è principalmente utilizzata per la sua proprietà antiossidante, cioè è in grado di legarsi all’ossigeno attraverso la seguente reazione: SO2 + ½ O2-> SO3 Se non fosse aggiunta la solforosa nel vino, l’ossigeno presente reagirebbe con altre molecole, quali: a) polifenoli, principalmente antociani disostituiti (perdita di colore); b) molecole aromatiche, tioli in particolare (perdita di aroma); c) etanolo, acetaldeide, molecole secondarie con formazione di acido acetico ed altri composti indesiderati. Il diossido di zolfo è in grado di svolgere altre importanti funzioni: - azione antisettica: è particolarmente adatto per selezionare l’ecologia microbica del mosto e del vino. Lieviti e batteri sono sensibili all’azione della solforosa, perciò all’aumentare della dose di solforosa si può inibire l’attività di una o più specie di microrganismi che influiscono negativamente sulla qualità del vino; - azione antiossidasica: la solforosa

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macerazione. La solforosa in acqua si comporta da acido, di conseguenza favorisce l’estrazione di alcuni composti, ad esempio dei polifenoli.

Solforosa nel vino Al pH del vino, la solforosa si trova in equilibrio sotto diverse forme. Solo la solforosa molecolare, una piccolissima percentuale della solforosa libera (e totale), svolge un’azione antiossidante e antimicrobica; le altre forme risultano non utili ad esplicare queste attività (fig.1).

È inoltre noto che Saccharomyces cerevisiae, il lievito principe della fermentazione alcolica, produce solfiti come sottoprodotto del suo metabolismo. La quantità di solfiti prodotta dal lievito è variabile (la stima varia da pochi milligrammi fino a oltre 50mg per litro). Proprio per tutte le considerazioni fatte, l’uso razionale e intelligente dell’anidride solforosa in enologia deve essere valutato da una figura professionale specifica, con analisi alla mano per decidere al meglio la quantità e i momenti tecnologici ottimali di aggiunta; questi permetteranno di avere la massima dose attiva nel vino e di non superare la dose massima ammessa dalla legge. Come se non bastasse, il suo uso eccessivo, può compromettere la qualità del vino con la produzione di aromi sgradevoli.

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Tab. 1 - Alcuni composti che possono combinarsi con la solforosa

re aggiunte di anidride solforosa in particolari momenti tecnologici della produzione del vino (ad esempio quando il mosto è in fermentazione), perché oltre a svolgere un’azione antisettica, ha la capacità di legarsi a composti intermedi di fermentazione (tab.1), causando una diminuzione della sua efficacia e riducendo la resa percentuale in etanolo.

L’anidride solforosa libera si trova in concentrazione più alta a pH bassi; perciò a parità di dose aggiunta, nei vini a basso pH, la sua azione sarà maggiormente efficace. E’ stato dimostrato che anche una gradazione alcolica e una temperatura più alta, nei limiti del processo tecnologico, possono spostare l’equilibrio della solforosa verso la forma fisiologicamente attiva. E’ quindi importante evita- Fig. 1 - Diverse forme di solforosa presente nel vino

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Quando aggiungere la solforosa e quanta? Se dovessimo considerare la solforosa per la sua proprietà antiossidante, tale additivo andrebbe aggiunto dove il contatto di ossigeno può rappresentare un serio problema per la qualità del vino. Le fasi tecnologiche più critiche sono: il periodo che intercorre tra la raccolta e la pigiatura delle uve, il momento di svinatura, i travasi, le relative filtrazioni e l’imbottigliamento. Non è possibile indicare delle dosi medie, proprio per l’estrema variabilità dei prodotti, per l’aspetto salutistico e per il tipo di lavorazione che si vuole seguire.

eccessiva di solfiti sembrerebbe essere legato all’enzima solfito-ossidasi del nostro corpo. Tale enzima esplica un’azione detossificante trasformando i solfiti in solfati utilizzando quantità, seppur minime, di ossigeno: questo limiterebbe l’afflusso dell’ossigeno alla testa con conseguente sensazione di capogiro e cerchio alla testa. Non si può escludere l’azione combinata dell’alcool

nel mosto e nel vino. E’ consigliabile rivolgersi ad una figura tecnica abilitata che possa decidere i momenti tecnologici ideali di aggiunta e, prima di fare un’altra aggiunta, consultare le analisi relative alla solforosa già presente nel vino. Sono numerosi i prodotti enologici proposti in alternativa alla solforosa, ma purtroppo, alle conoscenze attuali, nessuno di questi sembra mostrare le molteplici

per tale sintomo. Proprio per la potenziale attività pseudo allergenica dei solfiti, i produttori alimentari sono obbligati a riportare in etichetta la presenza di questa sostanza qualora venga superata la dose di 10 mg/L. In generale, si stima che i solfiti causino problemi a circa lo 0,05-1% della popolazione, con un rischio sensibilmente maggiore per gli individui asmatici (circa il 5%). Non bisogna però pensare che solo il vino impieghi la solforosa come additivo, molti sono i prodotti alimentari dove i solfiti vengono comunemente aggiunti. Da uno studio emerge che, le dosi ritrovate in altri alimenti, sono risultate più alte rispetto a quelle impiegate nel vino (tab.2).

azioni svolte da quest’ultima. La ricerca sta in tal senso intensificando gli studi al fine di trovare un prodotto di origine naturale che possa risolvere gli inconvenienti salutistici dei solfiti e dei suoi derivati. Inoltre, tutte le operazioni colturali in vigna volte ad evitare l’insorgenza di patogeni (potatura invernale ed estiva, concimazioni, trattamenti fitosanitari, rimozione di materiale infetto, selezione delle uve, etc) e lavorazioni in cantina (utilizzo del freddo, impiego di gas inerti, lieviti selezionati, prodotti alternativi alla solforosa) possono favorire il contenimento dell’uso dell’anidride solforosa.

Limiti legislativi ed aspetto salutistico Nonostante le importanti proprietà dell’anidride solforosa è noto che essa ha un’azione tossica sull’uomo, che ne limita l’impiego. Negli individui sani, alle dosi comunemente impiegate nell’industria alimentare, l’anidride solforosa è con- Tab. 2 siderata un additivo sicuro. Tuttavia, alcuni individui sensibili possono manifestare, anche con basse dosi di solfiti, delle reazioni pseudo allergiche; questo perchè viene facilmente assorbita nel tratto superiore dell’apparato respiratorio e l’alta reattività la rende un composto estremamente irritante. Il tenore di solforosa massima previsto dal regolamento 606/2009 della Comunità Europea è fissato a 150 mg/L nei vini rossi e 200 mg/L nei vini bianchi. Nei vini biologici questi limiti sono ridotti rispettivamente a 100 e 150mg/L. Fanno eccezione la produzione di vini spumanti, passiti e prodotti con deroghe particolari in funzione dell’annata. I solfiti sono molecole che vengono trasformate in solfati durante il passaggio nell’apparato digerente. Il contatto dei solfiti alimentari con il pH dello stomaco genera una certa quantità di anidride solforosa che può indurre attacchi di broncospasmo nei soggetti asmatici. Il mal di testa provocato da una dose

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Conclusioni Proprio per il suo impatto salutistico e per le numerose variabili che entrano in gioco, è sconsigliato improvvisare aggiunte dei solfiti nell’uva,

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Dr. Marco Sollazzo Laureato in Viticoltura ed enologia sollazzo.marco@ hotmail.it

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Il pesce azzurro Un prodotto disponibile a prezzo contenuto sul mercato, con elevati livelli qualitativi dal punto di vista organolettico-nutrizionale di

Mauro Bertuzzi

S

olitamente come pesce azzurro vengono definite alcune specie ittiche caratterizzate da colorazione dorsale tendente spesso al blu, in qualche caso verde e da pigmentazione ventrale argentea. La denominazione di “pesce azzurro” non si riferisce ad un gruppo scientificamente definito di specie ittiche, ma viene utilizzata commercialmente per indicare alcune varietà di pesci, generalmente di piccola pezzatura, di varia forma e sfumature di colorazione, il cui costo è solitamente piuttosto ridotto a causa delle grandi quantità di prodotto disponibile sul mercato. Biologicamente parlando, il pesce azzurro fa parte delle specie a vita pelagica, caratterizzate da carni piuttosto grasse e spesso ricche di oli. Le varietà di pesce azzurro più importanti e presenti sul mercato sono: - sardina (Sardina pilchardus), - aringa (Clupea harengus), - alice o acciuga (Engraulis encrasicholus), - sgombro (Scomber scombrus), - aguglia (Belone belone), - spratto o papalina (Sprattus sprattus), - alaccia (Sardinella aurita), - lanzardo (Scomber colias), - costardella (Scomberesox saurus) - suro (o sugarello) (Trachurus trachurus) - pesce sciabola o spatola (Lepidopus caudatus)

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Nello specchio d’acqua che bagna le coste coste atlantiche americane, vive un pesce chiamato “azzurro” per via del suo colorito turchino; questo

esemplare, in realtà non ha nulla da spartire con la categoria ed è noto per essere un vorace predatore.

Qualità nutrizionali Il pesce azzurro sul mercato italiano risulta reperibile a prezzo piuttosto contenuto rispetto a quello di altre specie ittiche; tuttavia le carni delle specie pelagiche possiedono un elevato livello qualitativo dal punto di vista organolettico-nutrizionale. Il contenuto proteico è buono ed i grassi, oltre ad insaporire le carni, risultano eccezionali in termini qualitativi. Nella categoria del pesce azzurro rientrano alcuni dei pesci più ricchi in assoluto di acidi grassi della serie omega-tre; questi grassi, essenziali per il nostro organismo, oltre ad essere molto facili da digerire, espletano funzioni protettive nei confronti del cuore, dei vasi sanguigni e del cervello contribuendo a prevenire malattie come l’Alzheimer, l’aterosclerosi e l’infarto.

Il consumo di questa categoria di prodotti ittici viene spesso consigliato nell’ambito di diete caratterizzate da un ridotto livello di grassi saturi presenti in quantità significative nelle carni di altre specie animali. Inoltre, in considerazione dell’elevata presenza di calcio, questo alimento risulta attivo nel combattere i fenomeni di decalcificazione delle ossa. Queste specie ittiche sono anche ricche di minerali come il calcio, il fosforo, lo iodio ed il selenio; discreto anche il contenuto vitaminico ed in particolare di niacina, vit. B12, vit. D e vit. E. Gli esperti raccomandano di mangiare pesce azzurro almeno due volte alla settimana in modo da soddisfare il fabbisogno minimo di grassi essenziali.

Il mercato in Italia In Italia il commercio del pesce azzurro si è sviluppato principalmente nell’ambito dei mercati ittici della costa Adriatica. La commercializzazione di questo tipo di prodotto infatti nelle Marche e nell’Emilia Romagna in termini quantitativi raggiunge circa i 500 quintali, con un fatturato quotidiano di circa 250.000 euro ed un fatturato annuale di 40 milioni di euro. Cifre importanti considerando il costo all’ingrosso del pesce azzurro nei mercati ittici di riferimento, attestabile a circa 4€ /kg. Dr. Agronomo Mauro Bertuzzi bertuzzimauro@ hotmail.com

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Caseificazione casalinga Una breve introduzione all’arte di fare i formaggi in casa di

Ermanno Bodeo

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vete mai pensato di farvi la pizza in casa? Preparandovi tutti gli ingredienti, dalla farina aggiungendo l’acqua, il lievito poi magari prepararsi pure la mozzarella? Sì proprio la mozzarella, farvela in casa! Io mi preparo la pasta, la metto a lievitare poi vado al distributore del latte, ne spillo 3 litri, lo porto a casa e me le faccio; quando la pasta è lievitata e pronta da infornare ho già le mozzarelle pronte. Se posso farlo io lo potete fare anche voi! Iniziamo da questo numero a percorrere la strada che ci porterà alla realizzazione delle mozzarelle, con l’aiuto degli amici del Forumdiagraria.org che interverranno ogni volta per insegnarvi i segreti della caseificazione casalinga. Gli strumenti: pentole, mestoli, frusta, scolapasta. Li abbiamo tutti in cucina e con essi possiamo fare tutto! All’inizio possiamo arrangiarci con quello che abbiamo in casa poi magari quando saremo dei provetti casari casalinghi potremo puntare su strumenti più sofisticati. Personalmente continuo con le mie pentole da cucina, quelle che utilizzo per far da mangiare ed i miei formaggi sono sempre buoni. Altro strumento importantissimo è il termometro, direi fondamentale: lo troviamo tranquillamente nei negozi di casalinghi, io uso quello analogico per gli arrosti, ha una forma un po’ strana però è perfetto per lo scopo e l’ho pagato pochi euro. Poi se uno volesse fare delle caciottine o un primo sale, necessiterebbe anche delle fuscelle. Bel problema la fuscella... ci sono migliaia di siti su internet che le vendono. Ma noi siamo i casari casalinghi! La mitica Argan, la signora indiscussa della mozzarella del Forum, faceva gli occhi dolci al

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salumiere che gli tenesse da parte le fuscelle vuote della ricotta; io per quanto possa fare gli occhi dolci il salumiere non mi considera, per cui me le creo io. Prendo le coppette vuote del gelato, faccio tanti fori et voilà creata la fuscella. Ricordo di una volta in Umbria a casa di amici che per un primosale all’erba cipollina avevo creato le fuscelle con i bicchieri di plastica ed il formaggio è stato fantastico lo stesso! Per cui creatività, dovete crearvi le fuscelle con l’ambiente che vi circonda. In questo lavoro la creatività è all’ordine del giorno. Gli ingredienti: il latte, il caglio, i fermenti. Il latte è l’ingrediente principale per la realizzazione del formaggio, senza quello abbiamo già finito tutto. Quale è il migliore? Il latte pastorizzato del supermercato può andar bene per il primosale oppure per una caciottina morbida, mentre se vogliamo fare la mozzarella o formaggi cotti ci vuole quello crudo delle casette o della stalla. Non dobbiamo lasciarlo per forza crudo, è possibile anche pastorizzarlo, ma a temperature molto inferiori di quello che si trova in commercio perché per la caseificazione la temperatura di pastorizzazione non deve superare i 72°C; ma questo lo vedremo prossimamente. Altro ingrediente importantissimo è il caglio. Cos’è il caglio? Quello di origine animale, è l’estratto enzimatico del quarto stomaco dei ruminanti lattanti, per cui, vitello, capretto e agnello; quello vegetale, invece, è estratto principalmente dal cardo o dal fico. Ma se io volessi usare quello animale, dove posso trovarlo? Generalmen-

te in qualsiasi farmacia è possibile acquistarlo; in caso gli mancasse, in breve periodo ve lo procurano. Per quello vegetale? Vi insegneremo a

crearvelo! Detto questo ci mancano solo i fermenti, ma cosa sono? Come sono? A cosa servono? I fermenti, sono dei latti fermentati che ci aiutano nella maturazione ed a dare il sapore caratteristico ad ogni formaggio prodotto fuori dalla zona di origine. Ci sono vari tipi di fermenti; il più conosciuto, che magari alcuni di voi non sanno, è lo yogurt. Lo yogurt, grazie ai batteri contenuti, come lo Streptococcus termophilus e il Lactobacillus bulgaricus, ci permette di avere un fermento utile per molti formaggi, tra cui anche la mozzarella. Altro fermento utile è il siero innesto che viene creato maturando intorno ai 45°C il siero della lavorazione; è il più usato nella realizzazione di due dei più importanti formaggi italiani e permette lo sviluppo e il mantenimento dei fermenti autoctoni.

Ermanno Bodeo Casaro

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Le conserve alimentari Alcuni accorgimenti utili per chi decide di intraprendere questo percorso di

Michele Fuscoletti

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rmai sono tanti coloro che decidono di cimentarsi tra fornelli e pentole, come tra vasi di vetro o sacchetti da congelatore. Forse con il passare degli anni, conseguentemente alla perdita di certi valori, pian piano ci stiamo riavvicinando alle tradizioni; tempi in cui le mamme sapevano rimboccarsi le maniche e si mettevano a creare. E così attraverso ricerche online, domande sui forum, consultazione di manuali, ci si procura tutto il materiale necessario a raggiungere il livello di conoscenze dei tempi della nonna. Ma la figura della nonna si sa, costituisce sempre un miraggio lontano in quanto ad esperienza e sicurezza di sé. Da un lato quindi c’è la forte motivazione a mettersi all’opera, mentre dall’altro si vive l’ansia, non solo di riuscire a fare una conserva prelibata, ma anche sicura dal punto di vista igienico sanitario. Le paure più grandi vengono dal Clostridium botulinum, ma quanti altri pericoli ci sono? Come possiamo evitarli e stare sicuri? Nel corso di questo articolo, come vedrete, non ho intenzione di passare in rassegna tutte le tossinfezioni alimentari, bensì di proporre alcune norme di corretta prassi igienica che “dovrebbero” farci dormire sonni tranquilli. Le varie tecniche di conservazione mirano ad abbattere o inattivare la carica microbica presente nella materia prima ma cosa succede se dopo aver ottenuto un prodotto salubre l’operatore lo ricontamina prima di chiudere i vasetti nei quali avviene la conservazione? I pericoli nei quali è possibile incappare possono essere classificati in tre categorie, pericoli di natura fisica, chimica o biologica ed il compito dell’operatore è quello di ridurre al

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minimo il rischio di contaminazione del prodotto trasformato o in fase di trasformazione. Tra i rischi di tipo fisico, attribuibili ad eventuali corpi estranei presen-

za non riguarda coloro che coltivano l’orto a livello amatoriale.Tra i pericoli di natura chimica possiamo citare anche la formazione di ossido sotto le capsule danneggiate, già utilizzate

ti nell’alimento, possiamo citare ad esempio le schegge di vetro causate da un vasetto lesionato (e non ispezionato adeguatamente), l’eventuale presenza di una pietruzza che può rimanere in mezzo ai legumi oppure di un anello che inavvertitamente si potrebbe sfilare dal dito di un operatore. I pericoli di natura fisica, tra quelli precedentemente elencati, sono quelli che, con le dovute attenzioni possono essere più facilmente tenuti sotto controllo. I pericoli di tipo chimico possono essere ricollegati all’utilizzo scriteriato di prodotti fitosanitari in fase di coltivazione. I fitofarmaci devono essere impiegati sempre in maniera molto coscienziosa; risulta infatti di fondamentale importanza, prima dell’utilizzo dei differenti prodotti presenti in commercio, leggere attentamente la scheda tecnica/etichetta e rispettare il tempo di carenza (periodo che deve trascorrere tra il trattamento e la raccolta) indicato. Per quanto riguarda i prodotti classificati come Molto Tossici, Tossici e Nocivi, il loro utilizzo è subordinato al conseguimento di un apposito patentino da parte dell’operatore e di conseguen-

in precedenza. Personalmente tendo a riutilizzare le capsule delle produzioni precedenti fino al momento in cui noto il minimo segno di usura e conseguentemente le sostituisco. Alcune persone, al contrario, preferiscono gettare le capsule ancora in buone condizioni successivamente al primo utilizzo, incrementando così il volume dei rifiuti. In ogni caso la cosa importante è evitare che residui dei metalli componenti la capsula vengano trasferiti all’alimento. I pericoli biologici sono legati al metabolismo dei batteri che possono venire a contatto con l’alimento. Il principio fondamentale è quello di garantire il mantenimento di un appropriato livello di igiene nel corso di tutte le fasi della trasformazione. Bisogna quindi lavare accuratamente e mondare le materie prime ripetendo le operazioni fino al momento in cui l’acqua di lavaggio appare priva di residui di terra. È bene far presente che il pericolo non è rappresentato dalle particelle di terreno presente sulla superficie della materia prima, bensì dai microrganismi o dalle loro spore che potrebbero esservi presenti. Di conseguenza, nel

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corso delle fasi di lavaggio, talvolta è consigliabile utilizzare alcuni prodotti con potere disinfettante appositamente sviluppati per i prodotti alimentari. Come accennato in precedenza, il Clostridium botulinum è il microrganismo più notoriamente pericoloso ma ce ne sono anche altri che potrebbero creare noie; ad esempio lo Staphylococcus aureus, che si moltiplica sugli alimenti producendo una tossina termoresistente responsabile di numerose tossinfezioni alimentari, la Salmonella spp. e l’ Escherichia coli. Questi ultimi potrebbero trovarsi sulle materie prime in seguito a contaminazione di origine fecale. Un’altra potenziale fonte di rischio biologico che deve esser tenuta sotto controllo è rappresentata dalle muffe, la cui eventuale presenza deve esser monitorata attraverso un’attenta cernita delle materie prime impiegate. Inoltre appare di fondamentale importanza ricordare che, nonostante le muffe possano essere facilmente eliminate dalle superfici degli alimenti attraverso le pratiche di lavaggio, talvolta nel prodotto potrebbe persistere parte del micelio ed in alcuni casi potrebbero essere presenti anche micotossine. Ulteriori possibili fattori di rischio possono essere imputabili alle attività dell’operatore: fanno parte di questa categoria le contaminazioni causate da manipolazione degli alimenti con mani sporche, l’uso del telefono cellulare (notoriamente dotato di una elevata carica microbica), le trasmissioni di patogeni riconducibili alla presenza di microorganismi sotto anelli, unghie o ad esempio contaminazioni causate da uno starnuto. Tutte queste eventualità contribuiscono a favorire il contatto tra il pericolo e l’alimento. Inoltre è buona norma, dopo aver lavorato le materie prime “sporche”, allontanare le fonti di contaminazione, sanificare le attrezzature e le superfici; successivamente è possibile passare alle seguenti fasi di lavorazione, evitando il contatto tra l’alimento pronto e le materie prime o le attrezzature utilizzate (contaminazione crociata). I barattoli in vetro devono essere sa-

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nificati opportunamente attraverso lavaggi con acqua calda e normale detergente per stoviglie, avendo l’accortezza di utilizzare una spugna nuova e di sciacquarli accuratamente. Le spugne vecchie, infatti, non sono altro che un potenziale substrato per i microorganismi, che possono essere quindi trasferiti da una stoviglia all’altra, fino all’alimento. Un altro vettore di potenziale trasmissione di patogeni è rappresentato dagli insetti, come ad esempio mosche e zanzare, che soprattutto nel periodo estivo, quando a causa delle temperature si lavora con le finestre aperte, possono entrare negli ambienti di lavorazione. Per ovviare a questo tipo di problema, la migliore soluzione è quella di utilizzare zanzariere o tende oppure, nel caso in cui il pericolo possa essere attribuito all’infiltrazione di polvere (possibile portatrice di batteri e muffe), l’unica

Mescolate continuamente e dopo circa un’ora, quando la confettura è pronta (fate la prova del piattino), amalgamate bene gli amaretti sbriciolati, continuate a cuocere per 5 minuti e riempite i vasi quando ancora è calda. Ho notato che l’aggiunta degli amaretti non consente una lunga conservabilità, per cui si consiglia di consumare entro 6-8 mesi dalla produzione. Pomodori secchi sott’olio Ingredienti: 500g di pomodori essiccati, 1L di aceto di vino bianco, ½ L di acqua, spezie a piacere (prezzemolo, basilico, aglio, peperoncino, origano, salvia), un pizzico di sale grosso, olio extravergine di oliva q.b. Procedimento: in una pentola capiente, unite l’aceto e l’acqua, aggiungere un pizzico di sale grosso, portate ad ebollizione e scottate i pomodori secchi (se necessario a

cosa da fare è mantenere gli infissi chiusi. Infine esistono ulteriori procedure utili per tenere sotto controllo i microorganismi che normalmente sono presenti negli alimenti, ma approfondiremo l’argomento in futuro.

più riprese) per massimo 2 minuti. Scolarli, adagiarli su un canovaccio pulito ed asciutto e lasciar riposare per una notte. Il giorno seguente porre i pomodori in un contenitore, condire con olio ed un trito di spezie. Sistemare nei vasi, ricoprire con l’olio. Dopo qualche ora, se il livello dell’olio è sceso, colmate con altro olio e ponete le apposite grigliette in plastica per tenere i pomodori completamente sommersi dall’olio. Chiudete e lasciate insaporire per un mese in luogo fresco, asciutto e al riparo da luce e fonti di calore.

Ricette Confettura di zucca (adatta per accompagnare i formaggi) Ingredienti: 1kg di polpa di zucca, 200g di zucchero, 50g di amaretti, 1 limone Procedimento: tagliate a pezzettini la polpa di zucca e unitela allo zucchero in una pentola capiente con fondo spesso. Lasciare macerare per tutta la notte. Il giorno seguente ponete la pentola sul fuoco unendo lo scorza di limone grattugiata.

Michele Fuscoletti Tecnologo alimentare

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La Luganega del Trentino Una specialità locale dagli antichi sapori dimenticati di

Marco Salvaterra e Andrea Gasperi

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a presenza del maiale in Trentino risale al periodo pre-romano, quando i Reti e i Cimbri lo allevavano allo stato brado e ne utilizzavano la carne fresca. Con l’arrivo dei Romani, le popolazioni autoctone impararono a conservala salata, insaccata o affumicata. Con i Longobardi e ancor di più con i Franchi, l’allevamento del maiale divenne circoscritto nelle curtes e non più al brado e si intensificò diventando la principale fonte di approvvigionamento di carne. Dopo l’anno mille cominciarono a sorgere le prime comunità e nacquero le prime corporazioni di macellai, le prime botteghe di carne (beccarie) e si iniziò a commercializzare sia il vivo che la carne fresca o lavorata. In documenti del 1300 troviamo che le carni prevalentemente usate erano quelle di maiale, che sin dall’epoca veniva conservata salata, affumi-

Insacco del salametto cata o preparata per la confezione di insaccati. Si trova menzionata in più documenti la carn de porzel ossia carne di maiale intero, la carn e

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lard de porzel, vale a dire le due parti separate di carne e lardo ed il lard pest (lardo macinato aromatizzato con pepe e aglio) che serviva allora come unico condimento. Nei secoli successivi, l’allevamento di uno o due maiali per famiglia è una tradizione facilitata dalla pratica dell’alpeggio dei bovini nei periodi estivi e della caseificazione del latte prodotto direttamente nelle malghe. Ciò comportava la produzione di siero che veniva usato come alimento per i maiali. Al ritorno a valle si terminava l’ingrasso e in inverno si procedeva alla macellazione, costituendo una scorta di carne che durava tutto l’anno. Le parti nobili, coscia e spalla, venivano salate ed affumicate (speck) mentre il rimanente veniva macinato ed insaccato con pepe ed aglio in piccoli salami chiamati in volgare “mortadele”, le luganeghe appunto. Le informazioni sull’allevamento del maiale in Trentino e sulla trasformazione delle sue carni agli inizi dell’Ottocento sono molto precise e permettono di ricostruire lo stretto legame tra questa pratica ed il regime alimentare delle popolazioni locali, specie in alcune valli (come le Giudicarie e la Rendena in particolare). L’allevamento locale non riusciva però a soddisfare la domanda ed era massiccia l’importazione

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di lattonzoli dal Veneto e dal Nord che venivano poi ingrassati e macellati in Trentino. Con l’annessione all’Italia vennero recepite le metodiche di allevamento padane sia nei riguardi delle razze che dell’alimentazione. Riguardo le razze, l’indigena venne ben presto soppiantata da numerosi incroci importati sia dalla Germania che dall’Italia. Nel periodo tra le due guerre la situazione rimase più o meno inalterata con un leggero incremento della popolazione suina ma la lavorazione rimase per lo più a livello familiare; solo poche e modeste aziende che lavoravano nel periodo invernale erano presenti in provincia, mentre andavano aumentando le lavorazioni annesse ai negozi con smercio diretto della produzione. Dagli anni Sessanta si assistette ad un calo degli allevamenti di carattere familiare ma si incrementò la popolazione suina e l’attività dei salumifici, anch’essi di dimensione ormai industriale. E’ così che forse per reazione, nel medesimo periodo, si evidenzia un ritorno ed una promozione di prodotti locali che fossero riconducibili alla tradizione contadina trentina. L’attenzione verso la tipicità è in continuo crescendo a dimostrazio-

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ne della sempre maggiore attenzione del consumatore verso i prodotti tradizionali e naturali che richiamano gli antichi sapori dimenticati, come la luganega.

Metodo di produzione della Luganega La “Luganega del Trentino”, fresca da cuocere o stagionata, è un insaccato ottenuto da carne fresca di suini allevati in Trentino o nella zona di elaborazione delle carni del Gran Suino Padano. La zona di produzione e stagionatura comprende l’intero territorio della provincia di Trento. La materia prima utilizzata deve provenire da suini pesanti (oltre i 144 kg), in quanto è molto importante oltre il grasso di copertura, una buona marezzatura delle masse muscolari. Dalla carne fresca vengono quindi tolte le parti connettivali di maggiori dimensioni ed il tessuto adiposo molle, i linfonodi ed i grossi tronchi nervosi. La carne ed il grasso vengono tagliati a dimensioni consone per procedere alla macinazione con una trafila con fori da 5-6 mm. L’impasto è ottenuto dalla miscelazione di tagli magri (coppa e/o spalla e/o lombata e/o coscia) e da tagli grassi (pancetta e/o lardo). Altri ingredienti sono il sale a grana media, il pepe nero macinato e l’aglio fresco. Con questa lavorazione si ottiene un impasto di grana media, con un ottimo amalgama tra parti grasse e magre, nonché un’omogenea distribuzione delle stesse. Il corretto amalgama permette alla luganega di mantenere una buona morbidezza e coesione anche dopo la stagionatura. L’impasto viene insaccato in budello naturale di bovino (detto “tòrta”) secondo tradizione. La consistenza dell’impasto all’interno del budello deve essere adeguata (né troppo duro, né troppo molle). La legatura con spago fine e le particolari caratteristiche del budello utilizzato danno alle luganeghe la classica forma leggermente ricurva. Poi, le stesse sono punzecchiate con uno speciale “forìn” ad aghi di acciaio inox; questo è uno strumento che produce molti microfori che consentono la fuoriuscita dell’aria dall’interno della

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luganega, salvaguardandone la successiva asciugatura / stagionatura dall’irrancidimento. Si formano quindi delle “filze” di lunghezza variabile che vanno appese nei locali di asciugatura e di successiva stagionatura. L’asciugatura viene effettuata in appositi ambienti con una temperatura decrescente a partire da un massimo di 24°C per scendere gradatamente ai 15°C. Durante questa fase si instaura il processo fermentativo che continuerà anche nella successiva fase della stagionatura. Quest’ultima deve essere condotta in locali, naturali o condizionati, dove sia assicurato un sufficiente ricambio d’aria a temperature comprese tra i 10°C e i 15°C e sia assicurata un’umidità compresa tra il 70% e il 90%. Le filze sono appese ad appositi supporti in modo che non vengano a contatto tra di loro e per permettere un adeguato ricircolo dell’aria. Il tempo di stagionatura varia da 3 a 7 settimane. La “Luganega del Trentino” si presenta a forma esteriore cilindrica leggermente ricurva, con un peso non inferiore a 160 g e non superiore a 270 g. Il diametro del prodotto finito non deve essere inferiore a 30 mm e non superiore a 42 mm, mentre la lunghezza deve essere compresa tra un minimo di 140 mm e un massimo di 220 mm. Le piccole dimensioni sono ereditate dalla tradizione contadina: erano dovute alla necessità di una stagionatura veloce che ne permettesse l’utilizzo in tempi brevi e alla necessità di avere un prodotto di quantità misurata e facilmente trasportabile, che doveva essere consumato nella sua totalità (nei campi, nei frutteti, in montagna, nei pic-nic). Dal punto di vista organolettico si contraddistingue per avere intensità di odori ed aromi non eccessivi e predominanti; ha una bassa acidità appena percettibile e dominata

da una salatura in equilibrio con le intensità degli odori ed aromi, ma soprattutto è evidente la particolare struttura compatta e quindi relativamente tenera, ma facilmente masticabile. Al taglio, la fetta si presenta di aspetto compatto ed omogenea, caratterizzandosi per la perfetta coesione delle frazioni muscolari ed adipose, di colore rosso rubino e con uniforme distribuzione dei granelli di grasso. Si caratterizza per sapore sapido, delicato e gradevole al palato con aroma fragrante, leggermente speziato. La luganega è ingrediente fondamentale di tante ricette presenti sulle tavole dei trentini, tra cui i crauti, i cànederli e lo smacafam (una specie di torta di grano saraceno con dei

Stagionatura del salametto pezzetti di lardo, fette di luganega ed altri ingredienti che potevano essere a disposizione). Se ne faceva una torta decisamente sostanziosa che serviva, come dice il nome maccar (battere) e fam (fame), ad abbattere la fame. A tutt’oggi in Trentino non c’è festa, sagra o avvenimento popolare di qualsiasi genere nel quale non si serva panino e luganega (cruda o grigliata), o polenta e luganega.

Marco Salvaterra Docente Istituto Tecnico Agrario Statale

Andrea Gasperi Salumificio Val Rendena

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L’etichettatura degli alimenti di Ivano

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Cimatti

n linea generale, la normativa comunitaria (e quindi quella nazionale) stabilisce le basi che garantiscono un elevato livello di protezione dei consumatori in materia d’informazioni sugli alimenti; questa tiene conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia d’informazione, garantendo al tempo stesso il buon funzionamento del mercato interno. Lo scopo è l’aumento della sicurezza dei prodotti. Due sono le principali modalità con le quali la legislazione positiva agisce ed opera: da una parte ha attribuito al singolo operatore economico la responsabilità diretta della sicurezza alimentare e cioè delle informazioni sugli alimenti (art. 8 del regolamento 1169/2011) - in una parola l’operatore con il cui nome o la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto alimentare. Contestualmente, ha previsto una cospicua regolamentazione della rintracciabilità (in verità è più corretto parlare di tracciabilità) dei prodotti. Tracciare un alimento significa descrivere il percorso di una materia prima o di un lotto di produzione, attraverso i passaggi da un’entità economica ad un’altra. In questo modo, tutti i componenti della filiera alimentare sono coinvolti nel sistema di tracciabilità, cioè dalla raccolta del prodotto, passando attraverso trasformatori e distributori, fino all’anello finale: il consumatore. Ciascun passaggio di mano da un componente all’altro, dovrebbe vedere la registrazione degli alimenti o dei prodotti in ingresso, consentendo all’azienda che commercializza il prodotto finito di risalire alle materie prime di origine. Un esempio è rappresentato dall’olio di oliva. L’obbligo di specificare in etichetta il luogo di origine della materia prima (le olive) e la sede del frantoio, tu-

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tela il consumatore da eventuali frodi come olio prodotto in Italia, al contrario, con olive straniere piuttosto che lavorato all’estero da aziende italiane. In terzo luogo, la normazione positiva prevede che i prodotti alimentari (posti in vendita al consumatore finale), espongano una chiara etichetta alimentare. Per legge, l’etichetta alimentare è definita come “l’insieme delle menzioni, delle indicazioni e dei marchi di fabbrica o di commercio, delle immagini o dei simboli che si riferiscono ad un prodotto alimentare e che figura direttamente sull’imballaggio o sulla confezione o su una etichetta appostavi o sui documenti di trasporto”. Il requisito principale dell’etichetta alimentare è quello di INFORMARE il consumatore sulle reali caratteristiche del prodotto, al fine di orientarne al meglio la scelta commerciale. Ciò prevede, quantomeno, una totale chiarezza ed il divieto verso qualunque tipo di illusione qualitativa e nutrizionale. I requisiti da garantire tramite l’etichetta alimentare sono: • Chiarezza • Leggibilità (tipografia e dimensioni) e Facilità di lettura (grafica) • Indelebilità L’etichetta riporta informazioni sul contenuto nutrizionale del prodotto e fornisce una serie di indicazioni per comprendere come i diversi alimenti concorrono ad una dieta corretta ed equilibrata. Preliminarmente, sull’etichetta (ai sensi dell’art. 9 del regolamento 1169/2011), sono obbligatorie le seguenti indicazioni: - assieme alla denominazione, deve indicare lo stato fisico nel quale si trovi il prodotto o lo specifico tratta-

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mento che ha subito; - l’elenco degli ingredienti e qualsiasi ingrediente tecnologico elencato nell’allegato II (sostanze o prodotti che provocano allergie od intolleranze) usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento ed ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata; - la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti; - la quantità netta dell’alimento; - indicazioni sulla durabilità del prodotto e cioè (per i prodotti deperibili) la data di scadenza dello stesso, ovvero (prodotti conservabili più a lungo) sul termine minimo di conservazione; - le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego; - il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare che è tenuto agli obblighi informativi; - il paese d’origine od il luogo di provenienza; - le istruzioni per l’uso, per i casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento; - per le bevande che contengono almeno un 1,2% di alcool in volume, il titolo alcolometrico volumico effettivo; - il valore energico del prodotto, i grassi contenuti, acidi grassi saturi, i carboidrati, gli zuccheri, le proteine ed il sale.

Avv. Ivano Cimatti ivan_cimatti@ hotmail.com

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foto di Pietro Curti, presidente Amint

L’Iperico Utilizzi e proprietà della specie di

Nino Bertozzi

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Descrizione È una pianta perenne che mantiene le foglie tutto l’anno, alta fino a 60 cm, con fusti legnosi. È glabra, con fusto eretto percorso da due strisce longitudinali in rilievo; risulta ben riconoscibile anche quando non è in fioritura dato che ha le foglioline che in controluce appaiono bucherellate, da cui il nome perforatum. Si tratta in realtà di piccole vescichette oleose: ai margini sono visibili dei punti neri, strutture ghiandolari contenenti ipericina (da ciò il nome erba dell’olio rosso), presenti soprattutto nei petali. Le foglie sono oblunghe, portate opposte. I fiori giallo oro hanno cinque petali delicati e sono riuniti in pannocchie che raggiungono la fioritura massima verso il 24 giugno (ricorrenza di San Giovanni) da cui il nome popolare. Il frutto è una capsula ovale, che contiene semi di colore bruno. Presente in tutte le regioni d’Italia, è pianta cosmopolita in quanto si ritrova in tutto il mondo. Diffusa sia in pianura sia in montagna, predilige terreni asciutti, i margini delle strade e dei campi, le radure soleggiate, i boschi radi e luminosi e si propaga con

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estremo vigore, tanto da diventare infestante. È di facile coltivazione, cresce pressoché in qualsiasi terreno purché ben drenato e soleggiato, oppure parzialmente in ombra; si propaga di preferenza mediante divisione delle radici, da effettuarsi in primavera o in autunno.

Usi antichi e tradizioni I Greci e i Romani credevano che l’erba proteggesse dagli incantesimi delle streghe. Nell’antica Roma la pianta era sacra a Giove e considerata il simbolo della luce che disperde l’oscurità e che permette di scacciare i fantasmi e i demoni della notte; da queste credenze popolari il nome di “cacciadiavoli”. Nella notte di San Giovanni, equivalente al solstizio d’estate, secondo la tradizione si scatenano gli elementi negativi della natura e le streghe si riuniscono per celebrare i loro sabba. Il fiore dell’iperico, con i cinque petali gialli, che sembra simboleggiare il sole, viene quindi considerata un’erba solare positiva e forte che contrasta la notte. I cristiani adottarono la credenza secondo la quale l’Erba di San Giovanni era in grado di allontanare gli spiriti maligni ed il giorno di San Giovanni bruciavano la pianta in grandi falò per purificare l’aria, scacciare gli spiriti maligni e assicurare buoni raccolti. Nel Medioevo un mazzolino d’iperico, raccolto nella notte di San Giovanni, veniva messo sotto il cuscino, affinché il Santo apparisse in sonno e proteggesse dalla morte per un anno intero; essiccato, veniva mes-

so sotto le vesti o appeso sulle porte per contrastare gli aspetti negativi ed il malocchio. Secondo una delle tante leggende, lo stretto legame con il Santo si riferisce al fatto che, strofinando le foglie tra le dita, fuoriesce un liquido che le colora di rosso: questo succo è chiamato appunto “sangue di san Giovanni”. L’iperico fa parte del gruppo di 9 erbe “magiche” tradizionalmente colte nella notte del solstizio, data successivamente spostata al 24 giugno. Con Iperico, fiori di lavanda, mentuccia, ruta e rosmarino, nelle campagne intorno a Roma, era usanza preparare “l’acqua di S. Giovanni” lasciando sul davanzale della finestra la bacinella per tutta la “notte magica”. La mattina successiva, quella della festa, tutte le donne di casa si lavavano con quest’acqua assicurandosi in questo modo buona salute e pelle liscia e profumata; le ragazze in cerca di marito invece, mentre si lavavano, dovevano pensare intensamente all’amato. Questo avrebbe favorito il realizzarsi dei loro desideri matrimoniali entro l’anno. Nel passato la medicina tradizionale usava l’iperico per curare il morso dei serpenti. Il lattice di colore sanguigno, detto “sangue di S. Giovanni” era ingrediente indispensabile nella composizione di filtri e pozioni, con le quali si riteneva di poter influenzare la volontà umana. La presenza in grande quantità nel foraggio dei fiori di iperico può alterare il colore del latte, fatto che una

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ome italiano: Iperico, Erba di San Giovanni, Cacciadiavoli, Millebuchi, Erba dell´olio rosso, Pilatro, Erba trona. Linneo attribuisce un’etimologia che fa derivare il nome da yper= sopra e eicos= somiglianza, in quanto sui petali è visibile un elemento simile ad un’immagine; -ico risale al verbo eico= “sembro simile a”, “appaio”. L’epiteto specifico invece fa riferimento alla punteggiatura delle foglie, che viste in controluce appaiono come perforate da tanti forellini.

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volta era considerato sinonimo di malocchio.

Proprietà L´estratto di Hypericum perforatum preso di riferimento per ricerche cliniche e farmacologiche, è l´estratto di ipericina titolato allo 0.3% in totale. L’ipericina viene estratta dalla pianta intera, il cui raccolto viene effettuato nel periodo della fioritura. Uso Esterno Poiché stimola la rigenerazione cellulare è usato con successo in caso di: scottature, dolori articolari, gonfiori (quindi contusioni e distor-

minato integratore, anche se generalmente si ha la prevalenza di qualcuno sugli altri. Questa pianta ha principi attivi molto potenti e può interagire con altri farmaci; è consigliabile quindi chiedere sempre il parere del proprio medico prima di assumerla.

Modalità di utilizzo L’iperico viene usato in erboristeria da oltre 2000 anni per le sue proprietà vulnerarie e cicatrizzanti e rappresenta un’alternativa dolce e ad azione lenta ai farmaci convenzionali. Per uso interno si preparano tisane, con le sommità fiorite, ed ha proprietà antinfiammatorie, antisettiche, antidepressive, antivirali, lenitive e cicatrizzanti. Tisana contro la depressione Iperico (Hypericum perforatum L.) sommità fiorite 60 gr Melissa (Melissa officinalis) foglie 20 gr Basilico (Ocimum basilicum L.) fiori 20 gr

Il “Sangue di S.Giovanni” sioni), macchie della pelle, psoriasi, secchezza della pelle del viso e del corpo, invecchiamento della pelle, piaghe da decubito, smagliature, cicatrici, segni provocati dall’acne, mani screpolate, emorroidi, punture di insetti, reumatismi, bruciature, scottature da sole, pelle arrossata da pannolino. Uso interno Nel trattamento della depressione, della distonia, della gastrite, dell’ulcera. Tra le proprietà attribuibili all’iperico ci sono quelle di calmante nell’enuresi notturna, negli sbalzi di umore durante il periodo menopausa, nella depressione stagionale e nei periodi di esaurimento nervoso; parrebbe anche in grado di accrescere i livelli di serotonina, similmente a certi farmaci antidepressivi. Il modello d’azione dell’iperico è ancora oggi oggetto di ricerche e discussioni. Esistono diverse teorie ma, come spesso capita, l’effetto finale è dato dall´azione sinergica di tutti i costituenti presenti in un deter-

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Tisana Tranquillante Biancospino (Crataegus spp.) sommità fiorite 10 gr Lavanda (Lavandula angustifolia) fiori 10 gr Melissa (Melissa officinalis) sommità 10 gr Iperico (Hypericum perforatum L.) sommità fiorite 10 gr Menta (Mentha piperita L.) foglie 10 gr Le tisane vengono preparate con l’infusione degli ingredienti in acqua bollente (50 g di preparato di erbe per un litro d’acqua), lasciati per circa dieci minuti; successivamente si filtra il tutto. Per uso esterno si impiegano l’olio di iperico e la crema di iperico. Olio di iperico L’olio di iperico è molto indicato per curare le scottature casalinghe ma anche ustioni da esposizione ai raggi solari; ha un effetto efficace per

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accelerarne la guarigione. Si usa per piaghe, ulcerazioni, pruriti, emorroidi. In cosmesi per pelli secche, screpolate, atoniche. Si imbeve una garza con l’olio, si applica e si fascia. Preparazione dell’olio: Raccogliere le sommità fiorite di iperico (Hypericum perforatum L.) alla fine di giugno. Pesare 200 g e metterle in infusione in un litro di olio extravergine di oliva per 20 giorni; filtrare e riporre in bottiglie al buio. Alle proprietà dell’iperico si aggiungono, in questa preparazione, le proprietà cosmetiche dell’olio di oliva: idratante, protettivo, emolliente, con azione ristrutturante per la pelle. Per fare la crema (ancora più efficace): mettere a scaldare 700 g di olio di iperico a bagnomaria (cioè in un tegamino messo dentro ad un tegame più grande pieno di acqua, scaldato a fuoco moderato). Quando l’olio è caldo (50-60 gradi) aggiungere 300 g di cera vergine di api a pezzetti e girare lentamente fino a quando sarà sciolta completamente. La quantità di cera varia a seconda della densità che si desidera ottenere e va da un quarto a metà del peso dell’olio. Spegnere la fiamma ed aggiungere 10 cc di essenza di gelsomino (o altra essenza profumata). Versare la crema nei vasetti ancora calda. Ai benefici dell’iperico si aggiungono le spiccate proprietà emollienti e filmogene della cera d’api, importanti soprattutto nel trattamento delle pelli secche ed irritabili. L’applicazione più ricorrente è sulle ustioni: mettere la parte ustionata sotto l’acqua corrente per raffreddarla subito e poi applicare un velo di crema di iperico. L’applicazione evita la formazione di bolle e accelera la guarigione. La crema è inoltre molto utile per le mani secche e screpolate dopo i lavori della terra, che in poco tempo rende lisce e morbide.

Nino Bertozzi Appassionato orticoltore

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Il fungo marzuolo Un fungo semi-ipogeo molto difficile da “scovare” di

Matteo Ioriatti

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hiamato anche “Dormiente”, in quanto “riposa” nei boschi dalla fine della stagione invernale ben interrato o sotto la neve, Il Marzuolo (Hygrophorus marzuolus) è un ottimo fungo commestibile che negli ultimi anni sta attirando sempre più interesse da parte degli appassionati di funghi per le sue elevate qualità organolettiche e per il particolare periodo di crescita che spinge molti fungaioli alla sua ricerca. E’ un fungo piuttosto carnoso di medie dimensioni che talvolta può raggiungere notevole grandezza. Il colore del cappello varia dal bianco (quando è ancora sotto terra o coperto) al grigio scuro; le lamelle, di colore bianco-grigiastro, sono decorrenti lungo il gambo e molto spaziate, lardacee (termine che indica una certa elasticità ed un aspetto grasso); il gambo è cilindrico, spesso ricurvo, a volte panciuto quando il fungo è giovane; la carne è bianca, con sfumature grigie verso i bordi. Il suo habitat preferito sono i boschi di latifoglia misti a conifere di media montagna (preferibilmente faggio misto ad abete bianco), ma ormai da alcuni anni viene rinvenuto a diverse altitudini e habitat, addirittura in alcune pinete sul livello del mare. Per secoli ci siamo convinti che questo curioso fungo crescesse esclusivamente in aree limitate della nostra penisola, quali la foresta di abeti bianchi che circonda il monastero di Vallombrosa, in provincia di Firenze, a Monticolo in Alto Adige, sul Col di Nava in provincia di Imperia e sul monte Penna. In pochi anni, invece, sono state scoperte numerose località in cui si trovano stazioni di crescita. Probabilmente, grazie all’informazione e alla passione crescente verso il “Dormiente”, diversi appassionati si sono cimentati nella ricerca

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nella propria zona riuscendo, dopo diversi tentativi, a scoprire che il marzuolo cresce spesso più vicino alla propria zona di quanto si pensi. Il suo periodo di crescita inizia alla fine dell’inverno, quando le temperature divengono più miti. Nei boschi di montagna, la neve, sciogliendosi, lascia il terreno scoperto. E’ questo l’inizio del momento propizio per cercare il nostro fungo. Spesso, ancora sotto la neve, attende che questa si sciolga completamente, lasciando che il sole di inizio primavera unito all’umidità persistente favorisca il suo sviluppo. Al termine della primavera, verso maggio-giugno, si trova nei posti più freschi a quote di alta montagna, nei boschi di conifere. Per la particolare caratteristica di crescere in modo piuttosto interrato, viene detto semi-ipogeo, in quanto è una via di mezzo tra un tartufo (completamente interrato) ed un fungo, a crescita completamente all’aperto. E’ proprio questo aspetto, unito al colore non appariscente del fungo, che lo mimetizza e rende quindi la sua ricerca una vera e propria caccia al tesoro durante la quale il cercatore, oltre ad aguzzare l’occhio, deve servirsi di indizi nella natura per riuscire a scovarlo. Capita infatti spesso che gli animali del bosco, come i piccoli roditori, dotati di olfatto particolarmente sviluppato, trovino facilmente

questo fungo che rappresenta anche per loro una primizia e se ne nutrano, disperdendo piccoli pezzetti di carne bianca sul terreno. I cercatori, individuando facilmente i pezzetti di fungo, intuiscono che nei paraggi vi è una stazione di crescita e pertanto possono concentrarsi su un areale limitato del bosco scoprendo magari qualche bel marzuolo sotto i tipici rigonfiamenti del terreno che questi funghi provocano. Ecco che allora la soddisfazione del ritrovamento è grande, grazie alla carnosità e alla buona fattura di questo micete. La difficoltà del suo ritrovamento lo rende un fungo accessibile a pochi irriducibili che, armati di grande pazienza e concentrazione visiva, si apprestano a passare in rassegna i boschi preferiti dal Marzuolo. Il dormiente è particolarmente apprezzato anche in cucina, grazie al suo gusto dolce e delicato. E’ pertanto indicato per numerosi tipi di preparazione, dal trifolato in padella al sott’olio.

Matteo Ioriatti Studente ed appassionato di micologia

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Lotta ai cambiamenti climatici Unica salvezza per il pianeta… o tassazione nascosta? di

Marco Giuseppi

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rmai da molti anni a cadenze regolari sentiamo parlare dei “cambiamenti climatici”; in altre parole le variazioni subite dal clima provocate dall’uomo a partire dalle epoche di industrializzazione. La colpa di questi cambiamenti viene inevitabilmente imputata all’uomo, mentre è importante sottolineare come le variazioni di temperatura siano in realtà un fenomeno naturale e rientrino nei normali cicli di riscaldamento e raffreddamento del pianeta Terra. La Comunità scientifica internazionale è sostanzialmente in accordo che questi cambiamenti stiano effettivamente avvenendo, ma ci sono pareri discordanti sulle colpe da attribuire all’uomo oltre che sulla velocità con cui questi cambiamenti si stanno verificando. Semplificando, possiamo dire che esistono due correnti di pensiero riguardo ai cambiamenti climatici: la maggioranza degli scienziati è concorde nel ricercarne le cause principali nelle attività umane, mentre una parte di mondo accademico sostiene che i cambiamenti registrati rientrino nelle naturali oscillazioni climatiche, ed essendo la terra in uscita da un periodo glaciale, non ci sia tanto di cui preoccuparsi. Gli organismi internazionali, con in testa l’ONU e i principali Paesi mondiali, sono molto attenti alle esigenze ambientali e della cosiddetta energia verde, al punto che i cambiamenti del clima e le modalità di contrasto diventano spesso oggetto di campagna elettorale. In questo senso un ruolo di prim’ordine nell’influenzare l’opinione pubblica ed i governi mondiali lo svolge un gruppo di scienziati coor-

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dinati dalle Nazioni Unite chiamato IPCC, Intergovernmental Panel on

esortato ad un maggiore impegno dei governi nella tutela ambienta-

Grafico possibili evoluzioni meteorologiche. Elaborazione www.wetterzentrale.de Climate Change (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) che nel novembre 2014 ha sentenziato catastroficamente: “Se il mondo continuerà con l’inazione sui cambiamenti climatici arriveremo presto al punto di non ritorno, i gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto i livelli più alti da 800mila anni e all’umanità resta poco tempo per attuare politiche e azioni che possano mettere al riparo il pianeta da conseguenze irreversibili”. Addirittura Papa Francesco durante il suo discorso al parlamento Europeo ha

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le. La comunità internazionale non è rimasta ferma di fronte a questi gridi di allarme e attraverso conferenze mondiali sul clima, non sempre dall’esito positivo, ha cercato di arginare la deriva delle temperature verso l’alto. È notizia di poche settimane fa che i principali produttori di anidride carbonica, Stati Uniti e Cina, che da soli producono quasi il 50% dell’anidride carbonica mondiale, abbiano trovato un accordo sul taglio delle emissioni di CO2; anche nel recente vertice G20 di Brisbane, la lotta ai cambiamenti climatici

Ambiente, foreste e natura


ha avuto ampi spazi di discussione. Particolarmente interessati alla lotta ai cambianti climatici sono, per ovvie ragioni, gli stati insulari oceanici, che non mancano di farci pervenire, anche in modi bizzarri, il loro grido d’allarme riguardo al possibile innalzamento del livello del mare. Addirittura il primo ministro maldiviano per sensibilizzare l’opinione pubblica ha organizzato alcune riunioni di governo “sott’acqua”, con tanto di mini-

poco clamore lo scandalo che coin- tiche antropiche nei cambiamenti. Il volse pochi anni fa il già citato IPCC Professor Carlo Rubbia, Senatore e ed un gruppo di scienziati inglesi, in premio Nobel per la fisica nel 1984, seguito alla divulgazione delle cor- afferma che “non è riscontrabile un rispondenze interne tra scienziati rapporto tra i cambiamenti climatici che discutevano su come falsificare e le emissioni di CO2”. Qual è allora i dati raccolti per far risultare i cam- la verità? Come possiamo parlare biamenti climatici più gravi di quanto di cambiamenti climatici al netto fossero in realtà. Lo scandalo ebbe di interessi di parte? Forse come molto eco sui media, tanto da pren- spesso accade in medio stat virtus; dere il nome di “climategate”. Anche siamo di fronte a molteplici sfide sui certe catastrofiche previsioni fatte temi ambientali e fare i partigiani in passato non si sono non è un atteggiamento costruttivo. dimostrate esatte. Nel È innegabile che ci siano stati errori 1990 il panel di scien- comunicativi ed un eccesso di cataziati prevedeva che in strofismo, ma è altrettanto vero che 20 anni la temperatura grazie a queste apocalittiche camsarebbe aumentata di pagne di sensibilizzazione è aumen0,7 gradi, ma nel 2014, tata la consapevolezza che il nostro dati alla mano, la tem- pianeta è fragile e vada trattato con peratura è aumentata la maggiore cura possibile. Anche soltanto della metà; per se i cambiamenti che stiamo vivendi più da alcuni anni si do altro non fossero che oscillazioni registrano temperature naturali, non è forse un bene aver stabili e non in aumento. messo in moto scienza e ricerca Non è stato immune da che ci permetteranno in tempi relaConsiglio dei ministri delle Maldive sott’acqua errori previsionali nean- tivamente brevi di divenire indipenstri dotati di maschera, boccaglio e che l’ex vice presidente degli Stati denti da fonti energetiche destinate pinne, per mostrare al mondo cosa Uniti Al Gore, che sui cambiamenti ad esaurirsi? Anche perché, come sarebbe capitato alla sua nazione climatici ha costruito la propria car- recita un vecchio proverbio indiano: se si fosse continuato con l’inazione sul clima. Tutto questo clamore si è tradotto spesso in norme e regolamentazioni che, soprattutto in Europa, hanno contribuito ad innalzare il livello di tassazione generale, attraverso l’introduzione delle cosiddette “tasse verdi” o “ecotasse”; ciò dovrebbe servire ad incentivare, con il contributo pubblico, sistemi antinquinamento e sistemi di produzione energetica rinnovabile, altrimenti non convenienti economicamente. Tuttavia non è simpatico sapere che Calotta polare (fonte http://wpmedia.o.canada.com/) degli 847 miliardi di euro incassati in venti anni dallo stato con l’introduzio- riera e la propria fortuna; nel 2006, “il mondo non l’abbiamo ereditato ne di tasse ambientali, solo lo 0,86% Gore affermava che i ghiacciai polari dai nostri genitori, ma preso in pre(7,3 miliardi) sia stato destinato alla si sarebbero completamente sciolti a stito dai nostri figli”. protezione dell’ambiente. In alcune partire dall’estate del 2013, salvo poi zone questo deciso intervento pub- constatare che nel corso della sud- La discussione continua sulla nuova blico ha provocato anche gravi ef- detta estate i ghiacciai artici erano sezione meteo del Forumdiagraria. fetti collaterali, come sconvolgimenti aumentati del 60% rispetto all’anno org: http://www.forumdiagraria.org/ paesaggistici quando alcune opere precedente. Questi errori comuni- meteo-f133/ impattanti come mulini eolici e cen- cativi non hanno fatto altro che autrali fotovoltaiche sono andate ad mentare lo scetticismo di una parte inserirsi in un paesaggio delicato e dell’opinione pubblica sui cambiaDott. Marco Giuseppi di pregio come quello italiano. Non menti climatici e non è difficile troLaureato in Scienze Forestali sono mancati poi errori comunicativi vare anche tra i maggiori esponenti marco.giuseppi@ da parte dei principali attori dell’in- del mondo scientifico italiano voci gmail.com formazione scientifica; destò non critiche sul reale impatto delle pra-

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La Tartaruga di terra di

Cristiano Papeschi e Linda Sartini

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asseggiando per le campagne, ma anche solo osservando con attenzione il proprio orticello, è possibile fare incontri piacevoli e quanto mai inaspettati. Esistono tantissime specie diverse di tartarughe

maggiore probabilità in Sardegna. Dal punto di vista legislativo le testuggini nostrane sono incluse in Appendice II della CITES e quindi sono soggette a restrizioni sia nella detenzione che nell’acquisto e

ciò significa che non è più possibile raccogliere una tartaruga per strada e portarla a casa a meno di non incorrere in sanzioni. Cosa fare se troviamo una T. hermanni sulla nostra terra? Assolutamente nulla

Esemplare di Testudo marginata a sinistra e Testudo hermanni a destra di terra, la maggior parte delle quali caratteristiche dei climi caldi, tropicali, sub-tropicali e desertici, ma alle nostre latitudini quelle autoctone o naturalizzate appartengono tutte al genere Testudo e per questo sono anche note come “testuggini”. La specie più rappresentata in Italia è sicuramente la T. hermanni, quindi quella più facile da incontrare nelle nostre campagne ed in misura minore anche T. marginata e T. graeca. T. hermanni, nella sua varietà T. hermanni hermanni, è l’unica specie veramente autoctona della Penisola e la si può osservare con maggiore frequenza nella parte centro meridionale del nostro Paese. T. marginata è stata introdotta dall’uomo molti secoli fa ed oggi è diffusa anch’essa nell’Italia centro meridionale mentre la T. graeca, con tutte le sue numerose sottospecie, può essere ritrovata con

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vendita. Un tempo, fino al 1995, si doveva denunciare il possesso di una testuggine presso gli uffici del Corpo Forestale dello Stato e sanarne così la detenzione. Oggi questo non è più possibile e tutti gli animali di proprietà devono essere schedati e microchippati ed è fatto obbligo di denunciare eventuali nascite o decessi. Le testuggini possono essere vendute o cedute solo se ac-

Uova di Testudo hermanni compagnate dal certificato CITES;

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poiché si tratta di un animale selvatico e come tale deve rimanere libero e non può essere confinato in recinti o terrari. Chiarito questo passiamo a fornire qualche informazione di base sulla gestione di queste specie con particolare riferimento, per ovvi motivi, a T. hermanni.

Alimentazione Questi rettili sono prettamente erbivori e, liberi in natura, bilanciano autonomamente la loro dieta consumando diversi tipi di essenze vegetali secondo i propri fabbisogni che variano in funzione dell’età, dello stato fisiologico e della stagione. Quando confinate in recinto all’aperto è necessario verificare quotidianamente la presenza di pascolo verde altrimenti, come nel caso di soggetti detenuti in terrario, sarà necessario fornire i giusti alimenti quali erbe di campo, verdure, insalate, fieno

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e, in piccola quantità, frutta (mele, debilitati o malati. mento) e dipende soprattutto dalle pere, melone, fragole, fichi e ciliegie) dimensioni: 8-9 cm per i maschi e La riproduzione od ortaggi (ad esempio sono molto 10-12 per le femmine. Il sessaggio è graditi i pomodori maturi). Assoluta- L’accoppiamento nelle tartarughe è semplice e si basa sull’osservazione mente da evidel piastrone (più tare alimenti concavo nel madi origine anischio e tendenmale quali inzialmente piatto setti, croccannella femmina), tini per cani o sulla dimensiogatti, latticini ne della coda e formaggi. (tozza e lunga In natura la nel maschio e tartaruga asculminante in sume l’acqua uno sperone direttamente corneo, mentre dai vegetali nella femmina è La corazza è una struttura protettiva ricoperta da scaglie cornee (sinistra); che consuma piuttosto corta) e l’impalcatura ossea della corazza sottostante gli scuti (destra) ma in cattività, dagli scuti caudali o in territorio confinato, è buona nor- un evento piuttosto violento: il ma- del carapace (più ricurvi nel maschio ma lasciare sempre a disposizione schio insegue (si fa per dire!) la fem- rispetto alla femmina). In genere, a un piattino od un sottovaso, con i mina e la colpisce ripetutamente sul parità di età, i maschi sono più piccarapace senza risparmiarle anche coli delle femmine. bordi piuttosto bassi, pieno d’acqua. qualche morso e, spesso, qualche Il letargo Note sull’allevamento ferita. La deposizione avviene in buTrattandosi di animali cosiddetti “a che scavate nel terreno, eventual- Il processo di sviluppo ed indurimensangue freddo”, le tartarughe no- mente ammorbidito con l’urina e poi to delle ossa e quindi anche della strane tendono ad andare in letar- ricoperte fino alla schiusa. La dura- corazza che è costituita da tessuto go quando la temperatura diventa ta dell’incubazione naturale dura in osseo ricoperto dagli scuti cornei, ritroppo bassa e quindi insufficiente media 3 mesi ma, essendo forte- chiede calcio e vitamina D3. Il calcio a garantire i processi metabolici in- mente influenzata dalla temperatura viene assunto con la dieta vegetale dispensabili per la sopravvivenza. ambientale, può subire variazioni. In ma la suddetta vitamina necessita All’aperto questi rettili si autoregola- una stagione (da maggio ad ottobre) della radiazione solare per essere no e smettono di mangiare, al fine la femmina può effettuare più depo- sintetizzata direttamente dall’animadi purgarsi e liberare l’apparato dige- sizioni anche se, solitamente, sono le. In natura, i raggi del sole, svolrente; questo accade circa un mese in media solamente 2-3 per un totale gono egregiamente questo compito di anticipo sull’ingresso in letargo di circa 6-12 uova. Dopo la nascita, mentre in ambiente chiuso spesso che avviene, di norma, da novembre i tartarughini di proprietà dovranno gli animali non possono beneficiare ad aprile, ma con notevoli differenze essere protetti dai predatori e da di questa risorsa naturale. Pertanto il in funzione del clima del posto. Per il eventuali traumi da schiacciamento proprietario oculato ed attento dovrà letargo viene scelta un’area di solito poiché il loro carapace non è anco- prevedere, all’interno del terrario, la appartata dove la tartaruga si inter- ra in grado di proteggerli appieno; presenza di lampade a raggi UVA ra per sfuggire alle rigide tempera- dovranno quindi essere spostati in e UVB, oltre alle normali lampade ture invernali per poi ricomparire in un terrario, anche all’aperto, recin- riscaldanti od altri dispositivi atti a primavera, momento in cui inizia la tato ed a prova di intrusione. Vista controllare la temperatura; questo in stagione degli accoppiamenti. In l’aggressività e la territorialità dei modo da sostituire l’indispensabile cattività, soprattutto per i soggetti maschi è necessario, quando si ra- ruolo della radiazione solare. detenuti in terrario, la temperatura giona su animali detenuti in ambienti Dr.ssa Linda Sartini ambientale può essere regolata in chiusi o confinati, mantenerli isolati DVM maniera artificiale e quindi la deci- dalle femmine e da altri maschi ad Specializzata in ispesione su quando far entrare in letar- eccezione del momento dell’accopzione degli alimenti di go questi animaletti corazzati spetta piamento. Se si ha a disposizione un origine animale al proprietario. Si consiglia, in ogni terreno recintato piuttosto ampio e si caso, di cercare di rispettare quan- vuole lasciar fare quanto più possibiDr. Cristiano Papeschi DVM to più possibile le condizioni naturali le alla natura, bisogna però valutare Università degli Studi della Tuscia al fine di non provocare disagi fisici bene la densità ed evitare un rapporSpecializzato in alle testuggini. In molti casi, nei primi to numerico sbilanciato tra maschi e teconologia e patologia del coniglio, due anni di vita, si sceglie di non far femmine. La maturità sessuale viene della selvaggina e entrare “in sonno” le giovani tarta- raggiunta dopo alcuni anni (variabili degli avicoli rughe od anche i soggetti adulti se in funzione della velocità di accresci-

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La raccolta del legno Introduzione alle tecniche, attrezzature e modalità operative di

Luca Poli

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er iniziare l’insieme delle operazioni selvicolturali che vengono racchiuse nella fase della raccolta del legno, occorre identificare la particella, o per meglio dire il bosco, che intendiamo tagliare: andranno controllati innanzitutto i confini per poi procedere alla valutazione del bosco al fine di scegliere la tipologia di intervento migliore. E’ bene però ricordare che tutte le

operazioni in bosco sono sottoposte prima di tutto alle competenti legislazioni forestali regionali e, nel caso sia presente, alle prescrizioni previste nel piano dei tagli, o di gestione, della proprietà. Nel nostro Paese, per le operazioni di taglio del bosco, nella gran parte dei casi, viene scelta la formula

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della vendita del bosco in piedi: basandosi su una stima del materiale ritraibile dal bosco (es. m3/ha) la proprietà si accorda con una ditta di taglio boschivo per eseguire il lavoro. La ditta praticamente acquista il materiale legnoso quando ancora “in piedi” e procede direttamente alle operazioni di taglio, esbosco, eventuali altre lavorazioni (differenziate a seconda degli assortimenti) e rivendita di esso. Grandi proprietà accorpate ricorrono a volte anche ad operai stipendiati mentre, nel caso di piccole superfici od usi civici del bosco, sono gli stessi privati a procedere con la raccolta del legno. I progressi tecnologici del settore forestale nell’ultimo secolo sono stati molti e ben evidenti: dai tagli con accetta e segone alle prime rudimentali motoseghe impiegate solo a partire dal 1960, per poi evolvere i lavori in bosco verso una sempre maggiore meccanizzazione ed automatizzazione. Nel complesso dei lavori della raccolta del legno in bosco, si possono distinguere due fasi principali: il taglio, nel quale comprendiamo anche le operazioni di allestimento cioè le prime lavorazioni alla pianta abbattuta per la preparazione dell’assortimento (es. legna da ardere, tronchi da sega). Successivamente l’esbosco, nel quale comprendiamo tutte le operazioni necessarie al trasporto del materiale legnoso dal bosco fino ad una strada o altra via di comunicazione. Attualmente il sistema di taglio più diffuso in Italia è quello effettuato con la motosega: all’abbattimento delle piante si procede recidendo il fusto alla base (taglio con tacca di direzione) facendo cascare la pianta nella direzione di atterramento prescelta, che è prefe-

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ribile coincida con quella di caduta naturale dell’albero nel caso di piante inclinate o con chioma sbilanciata. Una volta atterrata la pianta, l’operatore con la motosega procede con l’eliminazione dei rami (“sramatura”) ed il taglio degli assortimenti a lunghezze prescelte. Negli ultimi anni sono comparse anche in Italia delle macchine operatrici in grado di svolgere l’abbattimento oltreché la sramatura ed il sezionamento in più parti del tronco: di tecnologia nord-europea, gli ultimi modelli sul mercato sono delle vere e proprie macchine per la raccolta del legno (in inglese “harvester”), che riescono a raggiungere livelli di produttività e sicurezza inimmaginabili con il taglio classico con motosega. Queste macchine hanno però diverse limitazioni nel loro impiego: oltre all’alto costo d’acquisto iniziale (qualche centinaia di migliaia di euro, a seconda dei modelli), non sono in grado di percorrere tutti i tipi di terreni ma solo quelli con pendenze fino al 40% e liberi da ostacoli (massi, terrazzamenti ecc.). Sono inoltre in studio gli impatti alle piante (nel caso di diradamenti) e al suolo che queste grandi macchine possono arrecare ai nostri boschi, che sono differenti per struttura e composizione dalle piantagioni nord-europee di Svezia e Finlandia dove gli Harvester sono stati progettati. Durante la fase di esbosco si adottano tecnologie e mezzi diversi a seconda della tipologia di bosco, del tipo di taglio, della morfologia del territorio e delle distanze da far percorrere al materiale legnoso. In caso di terreni in pendenza, può essere utilizzato l’esbosco per avvallamento, che consiste nel far scivolare il

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legname a valle sfruttando la forza di gravità: nell’arco alpino è ormai quasi superato l’utilizzo dei percorsi in legname e pietrame costruiti appositamente per far confluire i tronchi tagliati. Così facendo si evi-

per l’inclinazione della gabbia verso il trattore durante il trasporto e per favorire lo scarico al momento opportuno. Possono essere montate anche anteriormente al trattore, al posto delle zavorre anti-ribaltamen-

Forworder, macchina per l’esbosco di tronchi o piante intere tava che questi prendessero troppa velocità (diventando così pericolosi ed incontrollabili) o che si danneggiassero eccessivamente. Nel caso di legna da ardere o legname di piccole e medie dimensioni possono essere utilizzate delle canalette in plastica rigida, che prendono il nome di risine: esse non sono altro che di sezioni di tubo tagliate longitudinalmente, lunghe 2-3 m, che vengono montate e smontate per l’occasione dell’esbosco. Un metodo molto utilizzato è quello dell’esbosco a strascico con trattore e verricello: questo metodo si basa sull’utilizzo di un verricello forestale, che ha un funzionamento simile ad un comune verricello ed è montato su una piastra collegata posteriormente ad un trattore forestale. Il tamburo del verricello che raccoglie il cavo d’acciaio, viene azionato grazie alla presa di potenza del trattore. Si utilizza per tronchi dritti, lunghi anche 12 m, che vengono trainati a strascico dietro al trattore. Per legna di corte dimensioni, tipicamente destinata al mercato della legna da ardere, il trattore può essere dotato di gabbie o di rimorchio. Le gabbie non sono altro che delle piastre chiuse lateralmente e posteriormente, montate al sollevatore idraulico posteriore del trattore; sono dotate di martinetto idraulico

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to, aumentando così la portata. I rimorchi sono generalmente dotati di ruote motrici che si rendono necessarie per lavorare con le difficili condizioni che si possono riscontrare in bosco. Un trattore con rimorchio può arrivare ad una capacità di carico compresa tra le 3 e le 6 tonnellate, mentre un trasporto con le gabbie raramente supera le 3 t. Un caso particolare di trattore con rimorchio è quello del Forworder, macchina simile all’Harvester, ma equipaggiata di gru idraulica; viene utilizzato per l’esbosco di legname o anche di piante intere, grazie al suo grande e funzionale pianale di carico. In tutti i casi elencati, le trattrici e i mezzi operativi da usare in bosco dovrebbero possedere particolari protezioni ed accorgimenti utili per limitare i danni a parti meccaniche o particolarmente sensibili, come protezioni sotto il motore, rinforzi ai cerchi dei pneumatici o griglie di protezione per i vetri della cabina dell’operatore. Nel caso il territorio sia adatto, può essere conveniente prendere in considerazione l’utilizzo di teleferiche, o gru a cavo, dove il legname viene trasportato sospeso ad una fune

lungo linee lunghe anche 2000 m. Spesso, anche se richiedono molta formazione del personale per essere utilizzate, sono sistemi convenienti perché, a differenza di quelli sopra citati, non sono condizionati dalle caratteristiche del terreno come accidentalità, umidità o presenza di neve. Un sistema di esbosco eccezionale è quello effettuato con l’uso dell’elicottero: sperimentato già dal 1970 in paesi come U.S.A. e Russia, viene spesso utilizzato per lavori di particolare difficoltà (es. boschi in alta montagna) per l’esbosco di legnami di alto valore commerciale. Il trasporto del materiale legnoso al successivo utilizzatore di filiera (segheria, centrale termica, privato) adotta esclusivamente il trasporto su gomma, generalmente tramite autocarri ed autoarticolati. La prossima volta che incrociate un trasporto di materiale legnoso (tronchi, legna da ardere ecc.), provate ad immaginare quanto lavoro c’è dietro e quanto ne subirà ancora!

Carico di legna di douglasia su rimorchio di autoarticolato Dott. Luca Poli

Laureato in Scienze Forestali luca9008@ hotmail.it

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Chi siamo

Associazione di Agraria.org

L’Associazione di Agaria.org è stata costituita nel 2013 da un gruppo di giovani laureati in Agraria, Scienze Forestali e Veterinaria. In pochi mesi grazie all’impegno di tanti soci sparsi per l’Italia siamo riusciti ad essere presenti in tutto il Paese. Lo scopo dell’Associazione è quello di diffondere le conoscenze riguardanti pratiche agricole ed agro-alimentari sia a scopo amatoriale che professionale, supportare gli agricoltori ed i nuovi imprenditori nella promozione della loro attività attraverso la vendita diretta, favorire l’inserimento dei neo-diplomati e laureati nel settore agricolo e la crescita delle aziende associate.

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Incontro per “casari casalinghi” a Siena

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Cosa facciamo Percorsi formativi: l’Associazione organizza incontri formativi per tutti i gusti: da ottobre a dicembre 2014 abbiamo promosso una serie di incontri per imparare a coltivare orti sul terrazzo ed a fare composizioni floreali. Abbiamo poi organizzato delle escursioni alla ricerca di erbe spontanee commestibili con la guida dei nostri associati esperti Mara Fiesolani e Valter Bagnoli; non sono mancati percorsi di avvicinamento al vino ed alla grappa con visite guidate in cantina e degustazioni. E ancora… incontri per fare la birra in casa, giornate di pescaturismo e di approccio consapevole al pesce che arriva sulle nostre

78° Mostra Internazionale dell’Artigianato

Spazio Associazione di Agraria.org


Alcuni incontri a tema organizzati dall’Associazione per gli iscritti tavole; abbiamo anche promosso una giornata di sensibilizzazione rivolta agli agricoltori sul tema della difesa delle colture dagli ungulati. Da febbraio 2015 partirà un corso sull’Assaggio di Olio Extra Vergine di Oliva in collaborazione con Comune di Pelago e Camera di Commercio di Firenze.

Cena del sabato sera di “Foresta in Festa” Eventi e convegni: L’Associazione ha organizzato il 2728 settembre 2014 a Vallombrosa (FI) “Foresta in Festa”, una “due giorni” di attività ricreative e culturali culminate con un convegno sull’innovazione in campo forestale che ha visto come relatori massimi esponenti del mondo forestale italiano. In novembre insieme agli amici casari del Forumdiagraria.org ci siamo ritrovati due giorni in provincia di Siena per un laboratorio pratico sulla produzione di formaggi in casa. A dicembre 2014 abbiamo partecipato con una relazione sull’incidenza della Mosca olearia sugli oliveti toscani al “Convegno sull’Olio Extra vergine di Oliva” a Tavarnelle (FI). Partecipazione a fiere e manifestazioni: Abbiamo partecipato allestendo spazi e organizzando workshop, seminari e dimostrazioni pratiche a: Expo Rurale 2014, Parco delle Cascine, Firenze, 18/21 settembre, 78° Mostra Internazionale dell’Artigianato di Firenze, Festa dell’Olio 2014 Pontassieve (FI), Festa del Vino 2014 Tavarnelle V.P (FI). Premio di Laurea del Centenario: in occasione dei 100 anni di studi forestali a Firenze, l’Associazione in colla-

Spazio Associazione di Agraria.org

borazione con l’Università di Firenze, ha promosso un premio per la migliore tesi di Laurea Magistrale sul tema “Innovazione in campo forestale” con premio di 500€; bando scaricabile al link www.forumdiagraria.org/miscellanea-f72/premio-di-laurea-del-centenario-t83201.html Progetto Arboreti: insieme all’ente gestore Corpo Fore-

Convegno “Innovazione Forestale” a Vallombrosa (FI) stale dello Stato-UTB di Vallombrosa e l’Università degli Studi di Firenze, l’Associazione si è impegnata durante la stagione estiva nel servizio di visite guidate agli splendidi Arboreti sperimentali di Vallombrosa (FI).

Diventa uno di noi Entra a far parte anche tu di questa grande comunità di appassionati del mondo agricolo e ricevi i prossimi numeri di TerrAmica comodamente a casa tua. Altri vantaggi per i soci: ● partecipazione ad eventi ed incontri in tutto il territorio nazionale organizzati dall’Associazione ● possibilità di partecipazione a fiere nazionali sull’agricoltura ed ambiente a condizioni agevolate ● visibilità per i giovani tecnici che si affacciano nel mondo del lavoro ● promozione delle aziende agricole guidate da giovani imprenditori (progetto “Smart Farm”) Iscriviti online a soli 10€ l’anno su: www.associazione.agraria.org

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Come fare per RICEVERE TERRAMICA direttamente a casa tua Per ricevere “TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org” è sufficiente essere soci. Per associarsi bastano 10€ l’anno! Ecco i pochi e semplici passaggi per iscriversi: 1. Accedi al sito www.associazione.agraria.org 2. Clicca in alto a destra su “Iscriviti all’Associazione” 3. Compila il modulo con i tuoi dati e scegli il metodo di pagamento desiderato 4. Decidi se pagare con Paypal, Bonifico bancario o Bollettino postale ed attendi il buon esito della registrazione 5. Versa la quota associativa e... ricevi a casa TerrAmica!

Per qualsiasi problema o informazione scrivi a associazione@agraria.org o telefona al numero +39 388 5867540

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Come associarsi


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