TerrAmica - Num. 3 - 2015

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N째 3 - LUGLIO

2015

COLTIVARE LA ZUCCHINA CENTENARIA UNA LATTERIA PER COMBATTERE LA FAME CONOSCERE ED USARE LA PAPPA REALE ALICI, DAL MARE ALLA TAVOLA

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sommario

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La nuova regolamentazione degli agrofarmaci

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Conoscere la Pappa Reale

Africa Milk Project

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TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org Sede legale: Via del Gignoro, 27 - 50135 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org www.associazione.agraria.org

Foto copertina: Logo Expo Milano 2015

Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti

Direttore responsabile: Marco Salvaterra

Reg. Tribunale di Firenze nr. 3876 del 01/07/2014

Periodicità: Semestrale

Stampa: Tipografia Baroni e Gori srl Via Fonda di Mezzana, 55/P 59100 - Prato

Redazione: Cristiano Papeschi (Responsabile scientifico Zootecnico), Eugenio Cozzolino (Responsabile scientifico Coltivazioni), Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Luca Poli, Lapo Nannucci

Sommario

Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.

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COLTIVAZIONI La nuova regolamentazione degli di Marco Gimmillaro Agrofarmaci La Chayote o Zucchina di Guglielmo Faraone Centenaria di Cunaccia, Scartezzini, Aiello, Fusani Orti in quota di Marco Beconcini Irrigare gli agrumi in vaso di Mario Pagano Le barbatelle elettroniche di Alessandro Auzzi Le Azalee Bruciare sterpaglie non è di Ivano Cimatti più reato ZOOTECNIA di Thomas Del Greco La gallina Padovana di C. Papeschi e L. Sartini Il mangime in coniglicoltura Caratteri produttivi nell’incrocio di Vittorio Bocanelli tra razze ovine Digestione lattea e pasto di Giovanni Canu unico: un binomio possibile di Pasquale D’Ancicco I fagiani “a mantellina” di Sara Laurenti Africa Milk Project ANIMALI DA COMPAGNIA Västgötaspets, mistero e bellezza di Federico Vinattieri L’enigma del Lizard, il di Federico Vinattieri “Canarino Lucertola” AGROALIMENTARE ITALIANO di Paola Soldi Uno sguardo alla grappa di E. Bodeo e V. Giliberti Caseificazione: il caglio di Marco Sollazzo La fermentazione malolattica di Alessandra Bruni La Pappa Reale di Fabrizio Rinaldi Riutilizzare il pane secco di Lapo Nannucci Le Alici: dalla pesca alla colatura

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ANNO II - N° 3 - LUGLIO 2015 DIRETTORE EDITORIALE: FLAVIO RABITTI

EDITORIALE Expo Milano 2015, un’opportunità di Flavio Rabitti per il Paese Uno sguardo al Comitato di Redazione

AMBIENTE, FORESTE E NATURA Gli Arboreti Sperimentali di C. Gasperini e L. Poli di Vallombrosa di Nino Bertozzi La Borragine di Roberto Corridoni Il principe dei roditori: l’Istrice di Ermanno Salvaterra Mirtillo, il nostro capriolo Indennità per servitù di di Alessandro Lutri elettrodotto in cavo interrato ASSOCIAZIONE DI AGRARIA.ORG Come fare per RICEVERE TERRAMICA direttamente a casa tua

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Expo Milano 2015, un’opportunità per il Paese Dal 1° maggio al 31 ottobre 2015 Milano ospita una vera e propria vetrina mondiale, dove i Paesi hanno l’opportunità di mostrare il meglio delle proprie conoscenze e tecnologie grazie alle quali garantire a tutti un cibo sicuro, sano, rispettoso dell’ambiente e dei suoi equilibri. L’Expo (abbreviazione di Exposition), ufficialmente “Esposizione Universale Milano 2015, Italia”, ha come tema ufficiale “Nutrire il pianeta, energia per la vita” ed ha l’obiettivo di includere tutto ciò che gravità intorno all’alimentazione mondiale; si affrontano temi come la mancanza di cibo in molte zone del mondo (sono quasi 870 milioni le persone che, nel biennio 2010-2012, hanno sofferto di malnutrizione cronica), rapportandola col problema dello spreco di cibo (con valori che si avvicinano a 1,3 miliardi di tonnellate di cibo “gettato” all’anno). Un’altra importante tematica è quella dell’educazione alimentare (sono circa 2,8 milioni i decessi per malattie dovute ad un’alimentazione scorretta) e non mancano dibattiti e confronti sulle problematiche legate all’impiego di OGM. L’Italia, con la città di Milano, si è vista aggiudicare la propria candidatura a Paese organizzatore nel 31 marzo 2008, a seguito della votazione dei delegati dell’Ufficio Internazionale delle Esposizioni (BIE). Furono solo due i Paesi che presentarono la propria candidatura per ospitare la manifestazione: l’Italia (con Milano) e la Turchia (con Smirne). Nella votazione finale, Milano superò la città turca con 85 voti contro 65.

Editoriale

1,1 milioni di metri quadri di area espositiva con ben 140 Paesi ed Organizzazioni internazionali coinvolte ed oltre 20 milioni di visitatori attesi, fanno di Expo Milano 2015 il più grande evento mai realizzato sui temi dell’alimentazione e della nutrizione. Il sito ospita quattro aree tematiche: il “Padiglione Zero”, il “Future Food District”, il “Children Park“ ed il “Parco della Biodiversità“. Al palazzo della Triennale, in città, ci sarà la possibilità di visitare anche una quinta area tematica: “Arts & Foods”. Expo 2015 offre inoltre a tutti anche la possibilità di conoscere e degustare i migliori piatti del mondo e quindi anche le eccellenze enogastronomiche del nostro Paese. E’ per questo che Expo 2015 è, e deve essere, un’interessante opportunità per valorizzare le nostre aziende agricole ed agroalimentari, vero fiore all’occhiello dell’economia italiana. Il Padiglione “Italia”, la cui superficie esterna è stata costruita con particolari pannelli di cemento in grado di “catturare” alcuni inquinanti dell’aria trasformandoli in

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sali inerti, è stato progettato e concepito come edificio ad energia quasi zero, grazie anche al contributo del vetro fotovoltaico con il quale è realizzato. Al suo interno sono esposte le eccellenze italiane, la tradizione e la storia dell’enogastronomia del nostro Paese legate all’alta qualità delle materie prime e dei prodotti finali.

Il Padiglione “Italia” all’interno di Expo 2015

Image © Nemesi & Partners

Rappresenta l’intero sistema Italia costituito dalle Regioni, dai territori, dalle sue città con tutte le loro caratteristiche ma con un fil rouge unitario capace di dare la sensazione di un Paese multi sfaccettato ma unico. Oltre a questo verrà sottolineata l’importanza che ha, e che ha avuto, la parte femminile nello sviluppare e nel tramandare tutto ciò, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui le donne, anche nel comparto produttivo agricolo italiano, stanno affermandosi sempre di più, specialmente nei settori più innovativi. La presenza femminile in agricoltura è considerata infatti una risorsa chiave all’interno delle sfide con cui il settore è chiamato a confrontarsi. Il ruolo delle donne nel mondo agricolo ha subito, nel corso del tempo, importanti modifiche di carattere qualitativo; negli ultimi decenni le donne hanno dimostrato un rinnovato impegno e di essere molto attive nel migliorare la qualità del loro lavoro e delle aziende che conducono, all’interno di un panorama di profonda trasformazione. Il lavoro in agricoltura, infatti, non ha più come fine predominante quello della produzione ma sono sempre più importanti temi quali la salvaguardia dell’ambiente, del territorio e la qualità degli alimenti.

Flavio Rabitti Direttore editoriale Rivista TerrAmica

Editoriale


Uno sguardo al Comitato di Redazione di TerrAmica Cristiano Papeschi (Responsabile Scientifico Settore Zootecnico): laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa, specializzato in Tecnologia e Patologia degli Avicoli, del Coniglio e della Selvaggina presso l’Università di Napoli, è attualmente in servizio presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo); già collaboratore di numerose riviste tecniche a carattere zootecnico e veterinario, membro di comitati scientifici e di redazione. Eugenio Cozzolino (Responsabile Scientifico Settore Coltivazioni): diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “De Cillis” e laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli “Federico II, lavora presso il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura. Marco Giuseppi: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato Magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali alla Scuola di Agraria dell’Università degli Studi di Firenze, si interessa di selvicoltura urbana e della gestione e valorizzazione degli ecosistemi urbani e periurbani; collabora all’organizzazione e gestione delle attività dell’Associazione di Agraria.org. Luca Poli: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali all’Università degli Studi di Firenze; contribuisce all’aggiornamento di alcuni servizi on-line di Agraria.org (Catalogo aziende agricole, Rivista di Agraria.org) ed organizza e gestisce alcune attività dell’Associazione di Agraria.org (segretario). Lapo Nannucci: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie alla Facoltà di Agraria di Firenze, è iscritto all’Albo dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze; libero professionista settore pesca ed acquacoltura, è consulente esterno di Federpesca e CE.S.I.T, Centro di Sviluppo Ittico Toscano. Particolare esperienza nel settore della pesca di piccoli e grandi pelagici. Marco Salvaterra: laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Bologna, è docente presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze; dal 2000 si occupa di divulgazione in campo agricolo attraverso il network Agraria.org che comprende, fra le altre cose, un Catalogo di Aziende Agricole, uno di Allevatori, una Rivista quindicinale online ed un Forum del settore. Flavio Rabitti (Direttore editoriale): diplomato all’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze e laureato in Tutela e Gestione delle Risorse Faunistiche alla Facoltà di Agraria di Firenze; dal 2009 iscritto all’Albo regionale degli Imprenditori Agricoli. Gestisce una piccola azienda agricola in Toscana a Suvereto (LI), all’interno della quale produce vino, olio extravergine di oliva, miele, ed una serie di prodotti artigianali al tartufo (www.rabitti.eu).

Editoriale

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La nuova regolamentazione degli Agrofarmaci Il CLP, cosa cambia per la classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio di

Marco Gimmillaro

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Coltivazioni

l CLP (acronimo inglese che significa Classification, Labelling e Packaging) è il nuovo regolamento Europeo sulla classificazione, etichettatura ed imballaggio delle sostanze e delle miscele, che è en-

Esempio di vecchia Etichetta DPD

trato in vigore nella UE il 20 gennaio 2009. Questo regolamento, il (CE) 1272/2008, è rivolto a tutti coloro che fabbricano, importano, fanno uso o distribuiscono sostanze chimiche o miscele, inclusi i biocidi e gli agrofarmaci, indipendentemente dal

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loro quantitativo. Sostituisce gradualmente le attuali normative di riferimento per la classificazione e l’etichettatura delle sostanze e delle miscele, quindi l’attuale direttiva preparati pericolosi

DPD (acronimo di Dangerous Preparations Directive), abrogandole completamente a partire dal 1 giugno 2015. Il CLP recepisce nell’Unione Europea quanto previsto dal Sistema Globale Armonizzato GHS - Globally Harmonized System of Classification

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and Labelling of Chemicals, voluto dalle Nazioni Unite con lo scopo di armonizzare i criteri di classificazione ed etichettatura, favorendo così la libera circolazione delle merci e garantendo, al contempo, un elevato livello di protezione per l’uomo e l’ambiente, rendendo anche più facile, in tutti i paesi dove è applicato, la comprensione delle etichette. Il CLP si applica a tutte le sostanze chimiche ed alle miscele, dove a quest’ultime appartengono anche i biocidi e gli agrofarmaci, sotto forma di formulati commerciali: unica eccezione, visto l’applicazione di norme specifiche, sono i farmaci, i dispositivi medici, gli alimenti, i cosmetici e simili. La legislazione così identifica secondo quali criteri ogni sostanza o miscela deve essere classificata sulla base delle sue proprietà intrinseche e cioè chimico-fisiche, tossicologiche ed ecotossicologiche, al fine di individuare le potenziali pericolosità per l’uomo e per l’ambiente. Con la classificazione l’industria stabilisce la pericolosità di sostanze e miscele prima che vengano immesse sul mercato, mentre con l’etichettatura deve informare lavoratori e consumatori di questi pericoli, attraverso etichette e schede di sicurezza. La fase di registrazione quindi, prima di immettere gli agrofarmaci in commercio, valuta il rischio in modo da stabilire in quali condizioni il prodotto può essere impiegato senza rischi per la salute e l’ambiente.

Coltivazioni


Il CLP prevede tempistiche di applicazione differenti per sostanze e miscele: mentre le prime sono state già classificate secondo il CLP già dal 1 dicembre 2010, le miscele, e quindi gli agrofarmaci, prevedono l’immissione con la nuova etichettatura CLP obbligatoriamente a partire dal 1 giugno 2015.

viene espresso il pericolo di sostanze e miscele, che viene suddiviso, in base alla sua natura, in quattro classi (chimico-fisico, tossicologico, ecotossicologico e di destino ambientale, supplementare), a loro volta suddivise in categorie che ne specificano l’entità.

Sarà comunque possibile commercializzare prodotti con etichetta CLP prima di tale data; quindi già in commercio si trovano formulati commerciali adeguati alla nuova normativa, mentre gli agrofarmaci già immessi in commercio, entro il 1 giugno 2015, con etichetta DPD potranno essere commercializzati dai rivenditori ed utilizzati dagli agricoltori senza necessità di ri-etichettatura fino al 31 maggio 2017. Entro la stessa data sarà, dunque, possibile la presenza sul mercato di uno stesso prodotto con etichetta DPD e CLP. L’applicazione del CLP comporta cambiamenti significativi per la classificazione e l’etichettatura degli agrofarmaci introducendo importanti novità, come: • nuovi criteri di classificazione per i pericoli fisici, per la salute e per l’ambiente; • avvertenze che indicano il grado relativo del pericolo (‘Pericolo’ o ‘Attenzione’); • nuovi Pittogrammi (simboli riquadrati a forma di diamante o rombo); • nuova codifica delle indicazioni di pericolo (Frasi H) e dei consigli di prudenza (Frasi P) che andranno a sostituire rispettivamente le attuali Frasi R e Frasi S; • introduzione di informazioni supplementari (Frasi EUH). Quindi con il Regolamento CLP cambia la modalità con la quale

Coltivazioni

riporterà più alcun riferimento alla vecchia classificazione. L’applicazione del CLP non modifica gli obblighi di fornitura della SDS, che rimangono invariati, per le miscele già immesse sul mercato prima del 1 giugno 2015; tuttavia è previsto un periodo transitorio di 2 anni (fino al 31 Maggio 2017) in cui il vecchio formato con ancora la classificazione secondo la DPD potrà essere comunque utilizzato, a patto che non vi siano state modifiche che comportano l’obbligo di etichettatura e reimballaggio o revisioni. Rimane ancora da chiarire quali prodotti saranno acquistabili senza patentino, o certificato di abilitazione, dagli agricoltori; in ogni caso dal 26 novembre 2015 il certificato di abilitazione sarà obbligatorio per l’acquisto, vendita e l’utilizzo di tutti gli agrofarmaci ad uso professionale, indipendentemente dalla loro classificazione.

Esempio di nuova Etichetta CLP Le classi e le categorie di pericolo previste dal CLP sono differenti da quelle previste dalla precedente direttiva DPD. Fino al 25 novembre 2015, anno di transizione, per i prodotti in commercio sarà possibile fare riferimento alla vecchia classificazione DPD riportata sulla Scheda Dati di Sicurezza (SDS), mentre per i nuovi prodotti, dal 1° giugno 2015 al 25 novembre 2015, entrerà in vigore la nuova scheda di sicurezza che non

L’attuale normativa in materia di acquisto di agrofarmaci (art. 25 del DPR 29072001) prevede che i prodotti classificati molto tossici, tossici o nocivi possano essere venduti per l’impiego diretto, per sé o conto terzi,  soltanto a soggetti muniti dell’apposita autorizzazione (patentino). Poiché non è sempre possibile una conversione diretta tra la classificazione DPD e la nuova classificazione CLP e considerando che il patentino diventerà obbligatorio per tutti gli utilizzatori professionali solo a partire dal 26 novembre 2015 (in base a quanto previsto dal D. L. 150/2012, attuazione della direttiva sull’uso sostenibile degli agrofarmaci), in assenza di una specifica previsione normativa, la posi-

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zione di Agrofarma, in attesa di un opportuno e risolutivo chiarimento da parte delle Autorità Competenti,  è che fino alla data del 31 mag-

Nazionale per l’uso sostenibile degli agrofarmaci. Per l’agricoltore non esiste alcuna distinzione in termini di classificazione, perché’ le regole

Pittogrammi a confronto - DPD - CLP gio 2015 (salvo l’esaurimento delle scorte dei prodotti immessi sul mercato prima di tale data), in caso di commercializzazione di prodotti con etichetta CLP, si faccia  riferimento alla Scheda Dati di Sicurezza (SDS) che fino a tale data riporterà anche la classificazione DPD.

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Sullo stoccaggio degli agrofarmaci l’impatto del CLP ricade solo sul

per lo stoccaggio si applicano a tutti i prodotti. Altro impatto, quando non sarà più possibile la coesistenza di prodotti con le due classificazioni, riguarderà sicuramente anche i disciplinari di produzione, che dovranno essere adeguati. Quindi diventa fondamentale prendere confidenza con questa nuova etichettatura dei prodotti per com-

distributore: dal 1 gennaio 2015 lo stoccaggio degli agrofarmaci dovrà comunque rispettare le indicazioni riportate nell’allegato VI del Decreto 22 gennaio 2014 del Piano d’Azione

prenderne tutte le informazioni riportate, scritte o con pittogrammi, dato che questo è fondamentale per un uso sicuro e sostenibile degli agrofarmaci.

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E una buona occasione diventa anche l’obbligatorietà del certificato di abilitazione o patentino perché diventa un momento importante di formazione che ci permette di acquisire tutte quelle nozioni utili nell’acquisto, nello stoccaggio, nell’utilizzo e nello smaltimento di un agrofarmaco, che devono essere sempre fatti in sicurezza e nel modo autorizzato. A tal proposito si ricorda di stoccare gli agrofarmaci adeguatamente e di utilizzarli indossando gli adeguati dispositivi di protezione individuali (DPI), oltreché di impiegarli solo nelle colture e nelle modalità di impiego previste dall’etichetta. Infine ci sarà un impatto su altre normative correlate. Infatti le nuove disposizioni introdotte dal CLP vedono una ricaduta su ulteriori normative che fanno riferimento ai criteri di classificazione ed etichettatura, in particolare: Seveso (D. Lgs. 334/199 e s.m.i.), Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. 81/2008), Rifiuti (Allegati D e I alla Parte Quarta del D. Lgs. 152/2006 e s.m.i.), Contributo per la sicurezza alimentare (Circolare Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali del 6 febbraio 2001, n.1) e Archivio Preparati Pericolosi (art. 45 CLP e D. Lgs. 65/2003). Tratto dalla pubblicazione a cura di Agrofarma: “La classificazione e l’etichettatura degli agrofarmaci. Le nuove regole”

Dr. Agronomo Marco Gimmillaro marcogimmillaro@ hotmail.com

Coltivazioni


La Chayote o Zucchina Centenaria di

Guglielmo Faraone

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a Chayote (Sechium edule) è una pianta della famiglia delle Cucurbitacee assolutamente da riscoprire e da propagare per i suoi molteplici pregi e per le sue tante utilizzazioni. Questa particolare zucchina è originaria del Sud America e si è affermata in tutte le zone Tropicali e sub-tropicali del mondo; gli spagnoli quando occuparono il Messico trovarono che la “comida” delle popolazioni Maja ed Azteca aveva come base proprio questa zucchina. Oggi il primo paese esportatore è la Costa Rica che detiene il primato nei mercati del Nord Italia ed in Europa. Oggi con le restrizioni che sono state imposte al paese Sud Americano per problemi fitopatologici (ex. Xilella), abbiamo l’occasione di trasformare le nostre produzioni di Zucchina Centenaria (o Spinosa del Mediterraneo), attuate quasi a livello familiare, in un’occasione per produrre reddito e portare sul mercato il nostro prodotto che nulla ha da invidiare a quello Sud Americano, ma che anzi, presenta maggiori e migliori garanzie di sanità. In Sicilia, da tempo immemorabile, si coltiva vicino ai pozzi d’acqua e si fa crescere come pergolato per godere della frescura che ne deriva senza gli inconvenienti della pergola d’uva, che spesso attira i calabroni e le vespe; le eccedenze vengono portate al mercato, mentre le piantine vengono riprodotte piantando in primavera tutto il frutto. La pianta ricavata sarà una cucurbitacea poliennale che ognuno di noi dovrebbe coltivare per le sue qualità organolettiche, non più come pianta da orto familiare ma come cultivar da esportazione. Pochi studi sono stati fatti su questo prezioso ortaggio ed i pochi approfondimenti nella nostra letteratura risalgono al periodo delle colonie Italiane, quando alcune delle no-

Coltivazioni

stre famiglie siciliane si trasferirono in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Sugli altopiani etiopi, nelle famose Ambe, i nostri contadini si portarono tali ortaggi dalle proprie terre e scoprirono che potevano prosperare no-

sviluppano molteplici fusti sottili che per la loro lunghezza abbisognano di adeguate sistemazioni dove poggiare e sostenere il peso delle zucchine prodotte (il peso del frutto si aggira dal mezzo chilo al chilogrammo cir-

nostante i tremila metri e l’alternanza pioggia-secco. La Chayote è quindi una pianta pressoché perenne, con vegetazione rigogliosa e sviluppato rizoma tuberoso; da ogni rizoma si

ca). Lo sviluppo della pianta è veloce nell’anno dell’impianto se vengono fornite le giuste condizioni di terreno, clima, concimazione ed apporto idrico; ha la capacità di coprire un al-

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la acclimatata al nostro clima fin da quando venne importata dagli spagnoli all’inizio del ‘500. La Zucchina Centenaria, come già detto, si pianta in primavera (interrando non il seme ma l’intero frutto); quando il germoglio raggiunge circa i 30 cm, si traFrutti di Chayote o Zucchina Centenaria sferisce in piena bero (per esempio gelso), un muro, terra dal vaso dove si è sviluppata, una ringhiera e come accennato una trapiantandola col pane di terra in pergola in poco tempo. La vegeta- terreno di medio impasto tendenzione nel nostro clima siciliano conti- te allo sciolto. Quest’ultimo dovrà nua fino all’avvenuta raccolta, che si essere preventivamente ben conciattua a novembre e si protrae sino al mato ed amminutato. La Zucchina Natale se il freddo non sopraggiun- Centenaria, oltre alla sua poliennalige; in tal caso nelle zone più fredde tà, deve il suo nome anche al quanè buona norma proteggere il pedale titativo di frutti che riesce a produrre; dalla neve con della paglia. L’anno difatti se ben concimata e ben irrigasuccessivo la pianta continuerà il ta in estate, arriva a totalizzare circa proprio sviluppo e per molti anni an- un centinaio di zucchine a pianta. cora ogni pianta produrrà fino ad un In Sicilia e nel Sud Italia quindi pocentinaio di zucchine che potranno che piante possono ripagare lautaessere consumate fritte, in agro-dol- mente il poco lavoro di cui abbisoce, ripiene etc. Le foglie possono es- gnano; ogni frutto supera facilmente, sere utilizzate come verdura o come sempre se ben coltivato, il mezzo foraggera; le api utilizzano i suoi fiori come pascolo e chi ne ha in quantità ne sacrifica i tuberi, che sono altrettanto utilizzabili in cucina. E’ possibile riconoscerla per la forma di pera decana e per la presenza di piccole spine che non offendono chi le raccoglie; le vecchie cultivar ancoFiore di Chayote ra presenti invece si dovevano raccogliere con i guanti. chilo raggiungendo facilmente i 750 Il frutto ha un colore verde pallido a grammi di media. Nei mercati sicicompleta maturazione, ma esistono liani ogni zucchina viene venduta al anche cultivar del Centro America di dettaglio a circa 0,50€ l’una mentre colore chiaro o addirittura scuro; noi nel Nord Italia questi prezzi vengono preferiamo la verde per essere quel- almeno raddoppiati, quindi… cosa

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aspettate? Avete un’altra pianta dalle innumerevoli qualità e potenzalità, ancora tutta da sfruttare nel nostro territorio, il cui frutto è ricercato non solo per la propria bontà ma anche per l’alto contenuto di importanti sostanze come acido folico e potassio. Gugliemo Faraone Docente di Coltivazioni Mediterranee

Coltivazioni


Orti in quota Prove sperimentali di coltivazione di Cicerbita alpina ad altitudini superiori a 1000 m s.l.m. di

E. Cunaccia, F. Scartezzini, N. Aiello, P. Fusani

Dedico questo “fazöl di terra” ai maestri Ermanno Olmi (poeta) e Carlin Petrini (presidente Slow Food e Terra Madre nel Mondo) A cura di Eleonora Cunaccia

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a storia comincia a fine giugno 2013 e riguarda il “radicch dal’ors”, erba che cresce in alta montagna. Da sempre viene raccolta per scopo alimurgico, dalla gente delle vallate alpine; oggi è una specie protetta e la sua raccolta è limitata per legge, anche per me che vivo di quanto produce spontaneamente la montagna. Per questo nasce un pensiero: “Perché non provare ad addomesticarlo e coltivarlo?” Dopo aver visto gli orti alla Casa Bianca, nelle scuole, nelle piazze e gli orti urbani di Berlino, presento questa idea ai vari enti (Provincia, Parco, Comune, Forestale, etc.); inizialmente si presenta qualche ostacolo, permessi, autorizzazioni…

Eleonora e l’orto sul Monte Peller

Coltivazioni

ma mi credono e collaboriamo alla realizzazione di questo mio progetto. 24 giugno 2013, giorno di San Giovanni, protettore della Natura, una notte magica in tutta Europa; è un momento dell’anno pieno di tradizioni e credenze, dalla raccolta delle noci per il nocino, all’iperico, al lievito madre e ai falò. Localizzo dove fare il primo orto per le congiunzioni del sole a mezzogiorno, habitat, quota e umidità: Val Genova - 1690 m, nel cuore del Parco Adamello-Brenta. QUI, ci siamo! In otto giorni l’orto è fatto, grazie anche ai volonterosi uomini del Parco e al personale del CRA-MPF di Trento. Dimenticavo, addomesticare sì, ma con delle regole mie precise: - nulla esce, nulla entra e niente concime; - non si distrugge per creare (Fukuoka).

Eleonora (Noris) Cunaccia nella sua attività di raccolta di erbe spontanee 1° luglio 2013 neve a 1800 m, zero termico nella notte, non si può trapiantare, ma il giorno dopo il CRA - MPF di Trento (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, Unità di Ricerca per il Monitoraggio e la Pianificazione Forestale) porta 500 piantine germogliate da semi autoctoni ed il lavoro inizia. Nei mesi che seguono preparo altri due orti, uno sul Monte Peller (Dolomiti di Brenta) e l’altro in Val Borzago (Gruppo Adamello), sul “mont” di mio papà. L’estate, mi prendo cura con entusiasmo, lavoro e dedizione. Quando, il 13 ottobre, cade la prima neve, stanno tutti bene. Per due anni dovrò accudirli, senza raccolta, fino al terzo anno. Penso che se sia possibile fare orti a queste quote, con una stagionalità di cento giorni e clima ostile, dovrebbe

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L’orto sperimentale in Val Genova essere molto facile fare orti nei prati dietro casa. PROVATECI, CREDETECI, IMPEGNATEVI. ORA TOCCA A VOI!

Brevi note sulla specie e sulla tecnica colturale A cura di Fabrizio Scartezzini, Nicola Aiello, Pietro Fusani, Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, Unità di Ricerca per il Monitoraggio e la Pianificazione Forestale di Trento (CRA-MPF) Cicerbita alpina o violetta [Cicerbita alpina (L.) Wallr., Asteraceae] è una specie erbacea perenne distribuita allo stato spontaneo in Italia su tutto l’Arco Alpino e parte dell’Appennino settentrionale a quote comprese tra i 1000 e 2000 m s.l.m. Nelle regioni del Nord Est italiano è soggetta a raccolta spontanea dei germogli, che costituiscono un prodotto alimentare di nicchia (salse, sott’olio) conosciuto con vari nomi a seconda delle regioni: “Radic de l’ors” in Trentino, “Radìc di mont” in Friuli-Venezia Giulia, dove il prodotto è uno dei “Presidi Slow Food”. Il CRA-MPF di Trento svolge attività di ricerca su questa specie da oltre 10 anni, con gli obiettivi di definire la tecnica di coltivazione, ottenere linee selezionate per la coltivazione, offrire ai coltivatori di montagna un’opportunità di diversificazione del reddito e al contempo cercare di sostituire la coltivazione alla raccolta spontanea, limitando così i rischi di

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rarefazione della specie, che in Trentino e nelle altre regioni è sottoposta a particolare tutela. Riferimenti bibliografici sulle attività di ricerca condotte dal CRA-MPF sono scaricabili sul sito: http://sito.entecra.it/ portale/cra_pubblic.php?lingua=IT&opz_menu=7&access_flag=0 Le piante utilizzate per allestire i tre orti sono state prodotte a partire da seme di polincrocio di accessioni spontanee prelevate in provincia di Trento. La fase vivaistica richiede circa due mesi: prima della semina, il seme viene sottoposto a prerefrigerazione a 2 C° per tre mesi per eliminare la dormienza; dopo un mese dall’emergenza, le piantine vengono ripichettate in contenitori alveolati e dopo un altro mese sono pronte per il trapianto. Nel caso di trapianto in contesti difficili, come è stato il caso del Monte Peller, che non disponeva di un ombreggiamento naturale, è meglio trasferire le piantine in vaso (diametro 10 cm), il che però allunga la fase vivaistica di un mese. La specie ha esigenze particolari in termini di clima, terreno ed esposizione: si può coltivare ad altitudini superiori ai 1200 m s.l.m., dato che a quote inferiori completa il suo ciclo di sviluppo molto precocemente e svolge un secondo ciclo estivo che comporta un suo esaurimento. Non sopporta un’esposizione eccessiva: preferisce terreni orientati verso nord e dotati di un ombreggiamento naturale. Inoltre il terreno deve essere sciolto e con un discreto livello di sostanza organica, soprattutto in relazione alla fase di raccolta del germoglio. Due dei tre orti (“Monte Peller” e “Val di Genova”) sono stati allestiti ad un’altitudine superiore ai 1600 m s.l.m., il terzo (Val Borzago) ad una quota inferiore (1160

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s.l.m.) ma in una radura del bosco con una ridotta esposizione solare. La preparazione del terreno sul Monte Peller, con elevata pendenza, ha richiesto la realizzazione di piccoli gradoni. Le distanze di impianto sono variate tra 25-30 cm sulla fila e 50-70 cm tra le file: per lavorazioni meccaniche è indispensabile che la distanza fra le file delle piante sia di 70-80 cm per non danneggiare l’apparato radicale superficiale. Le piante sono state irrigate al trapianto e successivamente con interventi

Cicerbita alpina spontanea di soccorso, specie l’orto sul Monte Peller. L’attecchimento è stato ottimale nei due orti in Val Genova e Val Borzago, mentre sul Monte Peller si è verificato un certo numero di fallanze alla fine del primo anno per eccessiva esposizione. Eleonora Cunaccia Raccoglitrice di erbe spontanee Fabrizio Scartezzini, Nicola Aiello, Pietro Fusani CRA-MPF Trento

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Irrigare gli agrumi in vaso Quando l’acqua, elemento fondamentale per la vita, può trasformarsi nel primo fattore responsabile del deperimento della pianta di

Marco Beconcini

A

nnaffiare un agrume è una pratica assai semplice, bastano una fonte e un recipiente per distribuirla; assai più complicato è capire quando c’è reale bisogno di farlo. Come consulente, molto spesso, mi sono sentito chiedere quando fosse il caso di dare acqua a questa tipologia di piante. La risposta più tecnica che posso dare è: “Quando ne hanno bisogno”. Sembrerebbe una “non-risposta”, ma in realtà, è un modo per far percepire che ci sono diversi fattori su cui basarsi per svolgere correttamente tale operazione.

no l’aspetto di macchie di umido. La pianta mostra dapprima sintomi di deperimento sulla chioma fino ad arrivare alla compromissione di interi rami e/o alla morte. P. nicotianae invece attacca le radichette ed è più difficile da diagnosti-

ta le probabilità di comparsa di queste due patologie in concomitanza di eccessive irrigazioni. Il caso opposto, cioè la carenza di acqua, è un fenomeno che quasi mai accade volontariamente in quanto difficilmente ci scorderemo

care in quanto può rimanere asintomatica fino a quando l’agrume non riesce più a rigenerare le proprie radici. In tal caso in breve tempo la pianta subisce un rapido deperimento. E’ importante sottolineare che anche in presenza di asfissia radicale temporanea, lo sviluppo della pianta risulta comunque stentato. La presenza di piante con portainnesti suscettibili, ad esempio arancio amaro (Citrus aurantium L.), aumen-

di annaffiare il nostro agrume. Nel caso si verificasse una disidratazione temporanea il fenomeno sarebbe comunque reversibile e molto meno invalidante per la pianta rispetto ad un eccesso di irrigazione prolungato.

Conseguenze di un’irrigazione errata Prima di descrivere le variabili che influiscono sulla frequenza irrigua da adottare, è necessario comprendere cosa succede quando si commettono errori di annaffiatura, soprattutto in eccesso. Le patologie più severe che colpiscono gli agrumi sono di origine fungina ed attaccano due parti fondamentali della pianta: l’apparato radicale ed il colletto, che sono le porzioni di pianta più a contatto con il terreno. Phytophthora citrophthora e Phytophthora nicotianae sono due micosi che si possono sviluppare sull’agrume ed entrambe (nel caso di coltivazione in vaso) sono da considerarsi conseguenze dell’asfissia radicale (mancanza di ossigeno) dovuta all’eccesso di umidità nel substrato. P. citrophtora è l’agente patogeno della “gommosi del colletto”, la gomma (prodotta dalla pianta in risposta all’attacco fungino) fuoriesce da incrinature verticali della corteccia poste su aree necrotiche che han-

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Il corretto apporto idrico agli agrumi in vaso Per assicurare la giusta quantità di acqua è necessario conoscere gli elementi che influenzano la capacità di trattenere umidità del terreno.

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- Composizione del substrato Se l’agrume è messo a dimora in un terreno con una frazione argillosa elevata o un terriccio in cui vi è poco materiale inerte al suo interno (pomice o lapillo), l’acqua impiegherà più

di acqua, per essere adeguato, dovrà essere calibrato individualmente per ogni singola pianta. La gestione manuale è sicuramente il sistema migliore per assicurare la giusta acqua agli agrumi, a differenza dell’irrigazione automatica da utilizzare soltanto in casi di necessità.

Come capire quando è il momento giusto di irrigare

Conseguenze di un’errata irrigazione tempo ad essere smaltita e quindi le innaffiature dovranno meno frequenti. - Temperatura e vento Entrambi influenzano l’umidità del substrato in quanto sia il caldo che la ventilazione contribuiscono ad una maggiore rapidità nell’evaporazione dell’acqua.

Un agrume in vaso ha bisogno di acqua quando il terreno in cui è posto si asciuga in maniera quasi totale. Nel Rinascimento i giardinieri fiorentini riconoscevano il momento giusto dal suono che provocava l’impatto di un bastone sulla vaso di terracotta. Se il suono era sordo la conca al suo interno era

umida, al contrario, se il terreno era asciutto la sonorità che ne derivava diventava acuta. I tempi chiaramente sono cambiati così come sono cambiati i materiali dei vasi ed i terricci impiegati. Esistono due tipi di approccio per la valutazione del fabbisogno idrico: nel primo caso si prende in considerazione l’umidità del terreno, mentre nell’altro si valutano i cambiamenti fisiologici della pianta quando l’acqua a disposizione inizia a scarseggiare. Per valutare se il substrato è umido o meno possiamo semplicemente esplorare con un dito i primi 10-15 cm di terra e se essa risulta asciutta e polverosa, bisogna provvedere con l’irrigazione. In commercio, esistono anche strumenti che misurano l’umidità del suolo ed in grado quindi di fornirci un dato reale sul fabbisogno idrico effettivo della pianta. I tipi di dispositivi presenti sul mercato possono analizzare sia il con-

- Salute e vigore della pianta Se un esemplare gode di buona salute, ha una chioma vigorosa ed un apparato radicale integro, assorbirà molta più acqua rispetto a una pianta che presenta fitopatologie o una crescita stentata. - Densità di radici nel vaso Un esemplare che dimora nello stesso substrato da molto tempo, verosimilmente, dovrebbe aver colonizzato con il proprio apparato radicale gran parte del terreno a sua disposizione. In questo caso la frequenza delle irrigazioni risulterà maggiore in quanto diminuendo la frazione terrosa viene a mancare anche la capacità di trattenere acqua. Dopo aver analizzato questi fattori risulta facile comprendere come difficilmente avremo un fabbisogno idrico identico tra due o più agrumi in vaso; ciò comporta che l’apporto

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Il corretto apporto idrico

Coltivazioni


tenuto idrico espresso in volume o verificare la disponibilità di acqua (potenziale matricale). I primi, anche molto economici, calcolano l’umidità in base alla capacità o alla conduzione elettrica dell’acqua ed il valore ottenuto, quindi, aumenta o diminuisce secondo la quantità idrica presente. Se volessimo adottare questi strumenti bisogna tenere conto che la conducibilità elettrica (EC) in vaso è spesso più alta rispetto al pieno campo in quanto, essendo un sistema chiuso, il contenitore tende a favorire l’accumulo di sali provocato dalle concimazioni. Proprio questo parametro, la salinità, è in grado di “falsare” la misurazione influenzando la conduzione elettrica e rendendo quindi meno attendibile l’analisi effettuata. Proprio per questo motivo risulta più veritiera l’osservazione effettuata con un tensiometro, uno strumento che misura la tensione matriciale ovvero la forza che le radici esercitano per sottrarre l’acqua al suolo. Più forte sarà la suzione esercitata dall’apparato radicale minore sarà il contenuto idrico disponibile nel substrato e viceversa. Lo strumen-

Coltivazioni

to trasforma questa forza in un dato numerico di riferimento che ci indica la necessità o meno di irrigare. Questi dispositivi sono disponibili on-line o presso aziende specializzate in forniture per l’agricoltura.

ai tessuti. A livello visivo, sugli agrumi, si nota un abbassamento della foglia che tende ad arrotolarsi. E’ proprio all’inizio di questo fenomeno che la pianta ha effettivo bisogno di acqua. In presenza di frutti, se l’acqua scarseggia, essi tendono a divenire più “morbidi” al tatto. Qualunque sia il metodo di valutazione scelto, l’innaffiatura deve essere abbondante ma da attuarsi solo quando si presentano le condizioni descritte in precedenza. Saper irrigare correttamente un agrume in vaso è la chiave per assicurarsi piante vitali e longeve evitando problematiche spesso irreversibili.

Il secondo tipo di analisi vede come protagonista l’osservazione pianta. Quando un agrume è in deficit di acqua modifica le proprie caratteristiche soprattutto per quanto riguarda l’apparato fogliare ed i frutti. La risposta della pianta a uno stress da “secco” è data inizialmente dalla chiusura degli stomi, organi posti nella pagina inferiore della foglia, che servono per compiere scambi gassosi con l’esterno. Se la pianta percepisce un deficit idrico gli stomi si chiudono e vi è una perdita di turgore dovuta alla cessione dei liquidi

L’acqua, dunque, è un’amica su cui contare ma da usare solo al momento del bisogno. Bibliografia Fondamenti di patologia vegetale, Matta Alberto, Pàtron Editore (1996) Trattato completo di agricoltura, Gaetano Cantoni, Volume II (1855) Coltivazione degli Agrumi nei vasi

Dr. Agronomo Marco Beconcini www.marcobeconcini. com

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Le barbatelle elettroniche L’impiego di microchip (RFId) nel vivaismo viticolo come prospettiva per una completa tracciabilità del settore di

Mario Pagano

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a crescente domanda di sicurezza del consumatore e la volontà del mondo della produzione di valorizzare l’origine dei prodotti agricoli trovano il loro punto d’incontro nella tracciabilità e rintracciabilità delle informazioni sugli alimenti. Le terminologie “tracciabilità” e “rintracciabilità”, anche se sono spesso erroneamente considerate sinonimi, sono ormai ampiamente impiegate nel nostro vocabolario

ha consentito l’acquisizione di grandi quantità di dati biometrici. Infatti, la tecnologia RFId risulta un interessante strumento per soddisfare i requisiti di tracciabilità. L’identificazione tramite radiofrequenze può rappresentare una tecnologia emergente, utilizzabile con successo per la logistica, anche se essa è caratterizzata da un ampio raggio di applicazioni; infatti, la sua potenzialità è posta in evidenza attraverso sviluppo di nuove ricerche in viticoltura. L’identificazione di oggetti mediante la tecnologia a radiofrequenze Fig. 1 - Inserimento del microchip nelle giovani barbatelle è una metodologia, definita da comune. La tracciabilità della produ- numerosi autori come “lentamente zione alimentare costituisce un vali- persuasiva”, che si sta affermando strumento sia per garantire i pa- do sempre più in molteplici settori rametri igienico-sanitari imposti dalle d’attività del nostro Paese quali, ad norme legislative, sia per soddisfare esempio, i trasporti, l’organizzaziola sicurezza alimentare richiesta dal ne dei magazzini ed il rilevamento consumatore. Inoltre, la conoscenza dei parametri ambientali. delle caratteristiche qualitative dei prodotti alimentari commercializzati Attraverso l’impiego di microchips nel mondo è cresciuta, negli ultimi RFId si possono identificare univoanni, attraverso una maggiore con- camente oggetti per le più disparate sapevolezza del consumatore verso necessità, garantendone una uniprodotti sicuri e salutistici. voca tracciabilità all’interno di tutta Recentemente sono state rese di- la filiera di produzione. Nel settore sponibili differenti tecnologie per la agrario, ad esempio, questa tectracciabilità dell’informazione nei nologia è già stata impiegata con vari settori dell’agricoltura. L’uso successo nell’ambito delle ricerche della tecnologia RFId (Radio Fre- svolte per la protezione degli storici quency Identification), ad esempio, cipressi del viale di Bolgheri (LI) af-

Coltivazioni

fetti da cancro cortic a l e , indotto dal fungo Seridium cardinale Wag. Grazie all’utilizzo di microchips a radiofrequenza è stato possibile identificare univocamente ogni singolo albero oggetto della sperimentazione, avviando così, una ricerca finalizzata alla selezione di genotipi più resistenti al patogeno. In Basilicata, invece, è stato messo a punto un sistema informatizzato di tracciabilità di cultivar di agrumi nella filiera vivaistica, utilizzando sia braccialetti elettronici, che chips di vetro inseriti sotto corteccia. Tale sistema ha consentito di abbinare alla pianta un codice identificativo univoco riferito a specifiche schede tecniche. Nel gennaio 2007, invece, è stata avviata una prima sperimentazione di tracciabilità elettronica di materiale viticolo attraverso microchip inseriti all’interno di barbatelle di vite. L’attività di ricerca ha visto impegnati l’Università di Firenze, l’Università di Pisa, l’Associazione Toscana Costitutori Viticoli (Tos.Co.Vit.) e Vivai New Plants. Le osservazioni sono state avviate a partire dal momento dell’innesto e del contestuale inserimento del microchip, seguendo tutta la fase vivaistica e confermando la piena compatibilità biologica tra microchip e piante. Per le operazioni di inserimento del chip nel portinnesto sono state adottate due metodologie specificatamente messe a punto nei mesi

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precedenti l’inizio delle prove, comprendenti l’esecuzione di un foro

Un primo esempio di vigneto prototipo equipaggiato con la medesima tecnologia, è stato realizzato presso la Fattoria di Nipozzano dei Marchesi de’ Frescobaldi (Pelago, FI). Questo progetto ha visto coinvolti, oltre all’azienda viticola sopra citata, l’Università di Firenze ed il CRA-VIC di Arezzo. A tal riguardo sono stati inseriti dei microchip a radiofrequenza nelle giovani barbatelle poste a dimora (FIG. 1), garantendo così, un collegamento informatico di ogni entità genetica con la specifica scheda descrittiva. I cloni impiegati, scelti nell’ambito di vitigni ampiamente diffusi sul territorio, sono stati: Sangiovese I-SSF9-A5-48, Colorino Fig. 2 - La voce del database specifico relativa I-US-FI-PI-10 e Vernacalla barbatella cia di S. Gimignanella parte distale (a) e di una fes- no I-VP6. Le barbatelle sono sura laterale (b). Nel caso della me- state registrate con le seguenti todologia (a) il chip è stato inserito procedure: database specifico, direttamente nell’astuccio midollare foglio elettronico. Nel database del portinnesto successivamente ad specifico sono state inserite una perforazione col trapano, men- le informazioni di “default” del tre, nel caso alternativo (b), sulla genotipo etichettato come ad porzione laterale del soggetto, per esempio la varietà, la data di mezzo di un punzone mosso da una creazione, il vivaista (FIG. 2). leva, è stata realizzata un’incisione Mentre nel foglio elettronico di forma ellittica che ha interessato sono state inserite tutte le intutti i tessuti fino al midollo. Poi, con formazioni afferenti alle operaun piccolo uncino è stata sollevata zioni colturali effettuate sull’acla parte incisa ed asportato il midollo cessione posta a dimora. dal fondo della fessura. Successiva- Per ottenere, direttamente in mente, con l’aiuto di una pinzetta, campo, le informazioni dalla è stato inserito il chip nell’astuccio barbatella RFId è necessario, midollare e riposizionata la quota di indipendentemente dalla metodolotessuti in precedenza sollevati. gia di registrazione, utilizzare un dispositivo portatile specificatamente Le piante con il microchip sono equipaggiato con la medesima tecindistinguibili da quelle non mar- nologia (FIG 3). cate mantenendo l’etichettatura Inoltre, al fine di valutare la corretta elettronica - leggibile attraverso una introduzione dei microchip all’interno strumentazione apposita - per tutta delle barbatelle, sono state effettuala loro esistenza. Inoltre, la tipologia te a cadenza trimestrale prove di di microchip RFId impiegati nella lettura, direttamente in campo, con ricerca era priva di batteria e il loro strumentazione idonea al riconoscifunzionamento era subordinato all’e- mento dei microchip. La lettura di nergia proveniente dal lettore. ciascuna varietà è contraddistinta

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da una identificazione univoca che avviene attraverso il riconoscimento di un codice alfanumerico di 14 cifre. Tale codice non può in alcun modo essere confuso con quello della pianta accanto, perché la tecnologia RFId si avvale di una metodica, definita “anti-collisione”, che sovviene a tale inconveniente. Inoltre, come ulteriore conferma della validità del sistema d’identificazione delle viti, sono stati effettuati anche dei riconoscimenti ampelografici. Il monitoraggio è stato corredato anche da osservazioni sullo stato sanitario delle piante, confermando l’ottimale stato di salute dei soggetti etichettati elettronicamente. Dopo 2 anni dall’inizio delle verifiche in vigneto, è possibile affermare che la tecnologia RFId consente di monitorare con precisione ed univocità le informazioni che contraddistinguono la vita di una giovane barbatella. Infine, dall’esperienze citate nel presente articolo, risulta evidente che l’identificazione tramite radiofrequenze può rappresentare una mo-

Fig. 3 - Dispositivo portatile derna tecnologia informatica per la tracciabilità della filiera di produzione e commercializzazione del materiale vivaistico-viticolo. Mario Pagano Ph. D.

Unità di Ricerca per la Viticoltura Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria

Coltivazioni


Le Azalee Affrontiamo le principali tematiche relative alla loro coltivazione in casa o all’interno dei nostri giardini di

Alessandro Auzzi

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e Azalee ed i rododentri fanno parte del genere dei Rhododendron, famiglia delle Ericaceae (anche se in passato si pensava appartenessero a generi diversi). Le Azalee sono piante originarie del Nord Europa, dell’America e dell’Asia e sono state introdotte in Italia verso il 1800. Sono arbusti che raggiungono medie altezze, hanno foglie ovali, coriacee e pelose, rami semi-legnosi e fiori a 5 stami; il frutto è una capsula che contiene molti semi.

Coltivazione Le azalee prediligono luoghi semi-ombreggiati o ombreggiati ma ben luminosi ed areati; in ogni caso mai sotto il sole diretto. Riguardo le basse temperature, non subiscono danni se la temperatura non scende sotto i -10°C. Le azalee rientrano nelle piante acidofile. Un pH troppo elevato inibisce

Coltivazioni

l’assorbimento delle sostanze nutritive ed è la causa più frequente della clorosi (ingiallimento delle foglie). Queste piante necessitano di un terreno abbastanza acido, ricco di Azalea in vaso in uno dei giardini da me curati sostanza organica e ben drenato; per aumentare l’aci- zolfo giallo, così da aumentare l’acidità del terreno possiamo sommini- dità del terreno. strare dello zolfo giallo direttamente nel vaso o nei pressi del colletto nel L’azalea è una pianta che richiede caso di piante a terra (in quest’ulti- molta acqua ed un’umidità dell’aria ma ipotesi mai a ridosso di esso). Il elevata. Le innaffiature devono esperiodo per la somministrazione può sere abbondanti nei periodi di rialzo essere sia quello primaverile che au- della temperatura, cioè tra la fine tunnale, ma evitando il periodo esti- della primavera e per tutta l’estate; vo visto le alte temperature. Quando nel periodo primaverile si consiglia vengono piantate (in terra o in vaso) di bagnare le piante in vaso due volè sempre meglio tenerle legger- te a settimana, mentre in estate le mente rialzate in irrigazioni devono essere effettuate modo da formare la sera tardi oppure la mattina preun sorta di “mon- sto, almeno una volta ogni due giorni tagnetta” nella (soprattutto durante il periodo della zona del colletto; fioritura e per quelle piante che sono così facendo non poste in casa dove generalmente si si creeranno ri- hanno temperature più elevate con stagni idrici nella scasa umidità ambientale). zona più delicata della pianta ed Le azalee non richiedono abbonal contempo si danti concimazioni ma queste deavvantaggerà la vono essere regolari sia dal punto di pianta nella radi- vista chimico che dal punto di vista cazione, avendo temporale, in modo da facilitare ed questa un appa- aumentare la fioritura di queste belrato radicale su- lissime piante. La concimazione va perficiale. Si con- sospesa nei mesi freddi, visto che siglia comunque la pianta in quei periodi non si trova anche di interrare in fase vegetativa; i concimi usati, una manciata di generalmente, devono essere acidi.

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Solitamente vengono utilizzati concimi a base di urea e fosfati ma, nel periodo di maggiore richiesta - cioè poco prima e durante la fioritura - si consiglia l’uso di concimi a base potassica in modo da favorire la fioritura stessa. Per la ripresa vegetativa, che solitamente avviene a fine inverno - inizio primavera, si può somministrare concimi a base azotata. Questa tipologia di concimazione va bene sia per le piante in vaso che per quelle in terra.

re il metodo della talea. Questa non è altro che una porzione di ramo, tagliato dalla pianta madre. La talea, una volta preparata, va interrata in un vaso precedentemente riempito con torba, per poi essere sistemata in penombra (per sicurezza si può somministrare anche un fungicida ad ampio spettro in modo da tutelare il rametto e la futura piantina da attacchi indesiderati). Le irrigazioni vanno effettuate con cura e moderazione, stando attenti a non bagnare né il rametto né le foglie di esso. Il vaso va poi coperto con un sacchetto di plastica per mantenere la giusta umidità o, in alternativa, è sufficiente porre sulla talea un vaso di vetro rovesciato, in modo che il rametto stia al centro di esso. Dopo circa un mese la talea inizierà a sviluppare l’apparato radicale, Talea di azalea all’interno del vasetto di vetro anche se questo Le azalee non necessitano di po- sarà ancora molto esile e fragile; la tature eccessive, ma queste devo- giovane pianta riprodotta, essendo no essere piuttosto regolari. Per le ancora debole, si potrà lasciare in piante in terra la potatura si basa vaso per ulteriore tempo. Successisoprattutto sul contenimento della vamente potrà essere sistemata in forma, andando ad eliminare i rami contenitori di dimensioni maggiori. che toccano terra, areando l’inter- Così facendo, da un semplice rano di essa e togliendo i fiori a fine metto, potranno essere ottenute più fioritura in modo da non portare ul- piantine. teriore stress alla pianta (visto che La propagazione per talea è un melasciarli porterebbe alla produzione todo molto valido per moltiplicare le dei semi). Per le piante in vaso inve- nostre piante; può essere utilizzato ce si interviene in modo più regolare, con successo anche su altre specie tagliando i rami o accorciandoli, in vegetali, come per esempio gli agrumodo da favorire la crescita e rego- mi. larne la forma. La potatura generalAvversità mente deve essere fatta subito dopo la fioritura; è bene non tardare molto, Le azalee sono piante abbastanza altrimenti con i nostri tagli potremmo rustiche, ma attraverso pratiche colincidere negativamente sullo svilup- turali non corrette è possibile provocare danni sia temporanei che perpo dei nuovi rami. manenti. Di seguito affronteremo le Moltiplicazione principali problematiche relative alla La moltiplicazione per seme viene sua coltivazione. utilizzata solamente per la creazione di portainnesti; per riprodurre le no- Se le piante presentano un avvizzistre azalee possiamo invece utilizza- mento delle foglie o dei fiori è pos-

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sibile che non siano state irrigate sufficientemente; per risolvere il problema è possibile immergere il vaso in acqua, tenendocelo per alcuni minuti. In alternativa si possono effettuare due irrigazioni a distanza di 2 ore circa (soprattutto per azalee in terra). Se le nostre azalee da appartamento presentono invece chiazze brune sulle foglie probabilmente la temperatura nel locale è eccessiva; si consiglia quindi di arieggiare l’ambiente, irrigando al contempo i vasi in modo da far riacquistare la giusta umidità alle piante. Se possibile, è buona norma nebulizzare l’acqua direttamente sulle foglie. La clorosi ferrica invece si ha quando il terreno è troppo pesante o se il pH del terreno è troppo alto; ciò rende il ferro insolubile causando un’inadeguata produzione di clorofilla. Si può intervenire tempestivamente alla prima comparsa dei sintomi con prodotti a base di ferro chelato o del solfato di ferro, mantenendo il terreno ben arieggiato e soffice, irrigando con acqua povera di calcare. In questo caso si può anche aumentare l’acidità del terreno, mettendo vicino alla pianta dello zolfo giallo. Riguardo gli attacchi fungini, l’unico che può arrecare gravi danni è il Phytophthora cactorum; questo fungo provoca l’avvizzimento delle foglie e dei giovani ributti, arrivando a danneggiare anche l’apparato radicale. Per combattere questo fungo conviene fare dei trattamenti mirati con prodotti a base di rame, specialmente a fine inverno e prima dell’estate. Parlando invece di insetti, quelli più comuni che colpiscono queste piante sono le cocciniglie, il ragnetto rosso e l’oziorrinco. Se la pianta colpita è di piccole dimensioni si può procedere alla rimozione manuale dei parassiti, mentre se le piante colpite sono numerose o molto grandi conviene intervenire con insetticidi specifici. Dr. Alessandro Auzzi Giardiniere prof. auzzialessandro@ gmail.com

Coltivazioni


Bruciare sterpaglie non è più reato La pratica dell’abbruciamento, utilizzata da tempo immemorabile nelle aree rurali, vista dal punto di vista legale di Ivano

Cimatti

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egli ultimi anni, sono state emanate diverse (spesso in contraddizione fra le varie disposizioni) normazioni relativamente alla bruciatura di stoppie, ramaglie ed altro materiale vegetale di origine agricola e forestale. Originariamente, l’art. 13 del D.lgs 205/2010, modificando l’art. 185 del D.lgs. 152/2006, a suo tempo stabiliva che la paglia, gli sfalci e le potature (se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura), dovessero essere considerati rifiuti e quindi trattati come tali. Di conseguenza, l’accensione di un falò, fosse solo per bruciare residui del taglio, veniva considerata un atto contro la legge, anche in termini di illegittimo smaltimento dei rifiuti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 256 D.lgs 152/2006. Nel corso degli anni sono state molte le sentenze di condanna a soggetti colpevoli di avere bruciato i rami provenienti dalle operazioni di potatura oppure le stoppie, al fine ripulire il terreno e prepararlo alle future colture.

Coltivazioni

La giurisprudenza, opinava che in tema di gestione dei rifiuti, l’eliminazione mediante incenerimento di rami d’alberi tagliati, non usufruibili in processi produttivi, integrasse il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi (art. 256, comma primo, lett. a), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), in quanto tale materiale non avrebbe costituito materia prima secondaria riutilizzata in settori produttivi diversi senza pre-

giudizio per l’ambiente (fra le altre, Cass. Pen., 9 luglio 2014, n. 39203; Id., 9 luglio 2014, n. 41714; Id., 4 novembre 2008, n. 46213). Grazie all’emanazione del decreto

n.91 legge del 24 giugno 2014, convertito in legge attraverso la legge 11 agosto 2014, n. 116, la bruciatura non rappresenta più un reato. Infatti, il comma 8 dell’art. 14 del suddetto decreto, che modifica l’art. 256 bis, disciplinante l’attività di combustione illecita di rifiuti, prevede adesso che le disposizioni contenute nel suddetto art. 256bis “non si applicano al materiale agricolo o forestale derivante da sfalci, o ripuliture in loco degli stessi. Le attività di raggruppamento e abbracciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti (comma 6bis dell’art. 182). Di tale materiale è quindi consentita la combustione in piccoli cumuli ed in quantità non superiori a tre metri cubi per ettaro, nelle aree, periodi ed orari individuati con apposita ordi-

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nanza del Sindaco competente per ni territoriali. Concludendo che, alla bensì pone un generico divieto che il territorio in questione. luce della detta normazione, può può al massimo essere sanzionato Per quanto riguarda il periodo mas- dunque desumersi in via interpretati- come illecito amministrativo (Cass. simo rischio di inPen., 7 gennaio cendi, individuato 2015, n. 76). Detto nell’intervallo di questo, è pertantempo compreso to irrilevante ogni tra il 15 giugno possibile consideed il 15 ottobre, razione relativa al in conformità al concreto utilizzo piano regionale delle dette ceneri antincendio, è inda combustione vece severamente di residui agricovietato appiccare li come concime fuochi di qualsiasi naturale. Il legigenere. slatore ha così La normativa in voluto espressavigore, attraverso mente respingere il nuovo comma quell’orientamento 6bis, ravvisa ed della magistraesprime un inetura di legittimiquivoco contenuto tà (fra cui, Cass. depenalizzante. Pen., 4 novembre L’abbruciamento delle sterpaglie va comunque eseguito In forza di questa 2008, n. 46213) coscientemente, per evitare disastrosi inconvenienti nuova normaziosecondo cui l’une, la Cassazione, negli ultimi anni va che gli scarti vegetali sono esclu- tilizzazione delle ceneri come conha assolto molti sprovveduti agricol- si dal novero dei rifiuti (anche spe- cime naturale, non avrebbe trovato tori perché, ai sensi del richiamato ciali) e che ad essi non si applica la riscontro nell’ambito delle tecniche articolo 6bis, le attività di raggrup- formazione penale sui rifiuti ex artt. di coltivazione, con la conseguenza pamento e abbracciamento in pic- 256 e 256bis, riguardanti solamente che i materiali agricoli di scarto non N° 0 coli cumuli e in quantità giornaliere i materiali riconducibili alla categoria potessero essere considerati quale non superiori a 3 m steri per et- dei rifiuti. Ed invero, fermo restando materia prima secondaria riutilizzataro dei materiali vegetali, laddove che, in virtù dell’espresso disposto ta in diversi settori produttivi. Siccoeffettuate nei luoghi di produzione, del (novellato) secondo periodo del me già riferito, il richiamato comma “costituiscono normali pratiche agri- comma 6 dell’art. 256bis non si ap- 6-bis, precisa che le attività di ragcole consentite per il reimpiego dei plicano, comunque, le disposizioni gruppamento e di abbruciamento materiali come sostanze concimanti relative ai delitti previsti dal citato ar- (effettuate sul posto e nei limiti quanPRODURRE N° 0 costituiscono norPIANTE o ammendanti e non attività di ge- ticolo.LENon occorrendo verificare se titativi indicati) PER L’ORTO stione dei rifiuti (Cass. Pen., 7 gen- l’abbruciamento sia avvenuto in un mali pratiche agricole consentite naio 2015, n. 76). Ma non solo. Dalla periodo nel quale la Regione abbia per il reimpiego dei materiali come SCEGLIERE IL MAIALINO formulazione della disposizione in dichiarato il massimo rischio per gli sostanze concimanti o ammendanti. DA INGRASSO parola, non emerge neppure qua- incendi boschivi, dal momento che NOVITA’:nello IL statuire che in tal le sia la ipotizzabile sanzione per il il legislatore, CAVIALE DI Avv. Ivano Cimatti mancato rispetto nel caso di residui caso LUMACA “la combustione di residui vevegetali nei periodi di massimo ri- getali agricoli e forestali è sempre ivan_cimatti@ UTILIZZARE schio, ovvero in violazioni dei limiti o vietata”, non fa riferimento ad una hotmail.com AL MEGLIO I dei divieti posti dalle amministrazio- disposizione sanzionatoria penale, FITOFARMACI

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NOVIT CAVIA LUMAC

Coltivazioni UTILIZ

AL MEG


La Gallina Padovana Origini, panoramica sulla razza, sulle varie colorazioni e cenni sull’allevamento di

Thomas Del Greco

L

e origini della razza sono oscure ma già Ulisse Aldrovandi (1522-1605), naturalista, botanico ed entomologo, ne parlava intorno al 1600 nella “Historia animalium“. Probabilmente gli antenati della gallina padovana provengono da pollame polacco/russo arrivato in Europa grazie agli scambi commerciali ed alle corti reali: la sua storia probabilmente si intreccia con quella di un’altra razza italiana, la gallina Polverara. Varie sono le raffigurazioni, sia pittoriche che scultoree, susseguitesi nel tempo in tutta Europa che ci danno un’idea di come si potesse presentare il pollame a quei tempi, tanto che anche in Vaticano esiste un’antica rappresentazione di un pollo ciuffato. Col tempo, la selezione e l’allevamento, hanno portato alla creazione di varie razze con caratteristiche comuni, tutte somiglianti tra loro ma estranee al pollame mediterraneo (Houdan, Crevecoeur, Olandese ciuffata, Barbanter, Sultano e simili). Un possibile progenitore della padovana potrebbe essere le Pavlovskaya, razza rimasta immutata nel tempo che mantiene molte delle caratteristiche tipiche.

Morfologia e allevamento

Zootecnia

quasi assenza di cresta (che quando presente è solo una piccola escrescenza a cornetti) e la particolare forma assunta dalle narici, molto più grandi e rialzate. Possiede una folta barba e favoriti, un ciuffo di piume che sostituisce i bargigli, (i quali appaiono quasi assenti sotto di essa), orecchioni bianchi nascosti dalla barba ed un bel ciuffo voluminoso; il collo appare arcuato e ricco di mantellina. Il dorso è moderatamente lungo e leggermente inclinato, le ali portate orizzontali ed aderenti al corpo mentre la coda risulta semiaperta nella gallina e molto più larga nel gallo con falciformi ben arcuate. I tarsi sono fini e di color ardesia,

eccetto per la colorazione barrata. La razza, dalla grande presenza ornamentale, è produttrice di un buon numero di uova bianche e di carne di pregevole sapore. La Padovana è allevata sia nella taglia nana, che raggiunge all’incirca 1 chilogrammo di peso, che in una varietà più grande in cui il peso si attesta intorno ai 2 kg. La Padovana si presenta molto calma anche per via della presenza del ciuffo e difficilmente si assiste a grandi litigi tra i galli (ciò non è una regola).

Zootecnia

La Padovana è un pollo dal peso medio, elegante, con carattere fiducioso e mansueto, un corpo mediamente lungo e dalla tipica posizione eretta, caratterizzato da un ciuffo voluminoso ed una barba molto sviluppata. La Padovana possiede un’ernia craniale (una protuberanza ossea), caratteristica comune ad altre sue parenti, presente fin dalla nascita e ricoperta dal piumaggio che le conferisce una forma globulare ostacolando in parte la vista dell’animale. Altre caratteristiche sono la

Maschio di Padovana Nana Camoscio Orlo Bianco

Per l’allevamento necessita di piccole accortezze, come ad esempio abbeveratoi adatti poiché il ciuffo

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Femmina di Padovana Nana Camoscio Orlo Bianco tende a bagnarsi; sempre per lo stesso motivo anche un buon riparo dal fango e dalla pioggia. E’ indispensabile anche un controllo periodico del ciuffo, nel quale sono soliti annidarsi gli ectoparassiti; particolare attenzione va posta per quel che riguarda l’osservazione dei propri riproduttori, poiché trattandosi di animali molto calmi si potrebbero non individuare avvisaglie di malessere. Questa razza è caratterizzata da una media velocità di crescita. Il sesso, nei soggetti giovani, può essere determinato subito dopo la prima muta, momento in cui sui maschi iniziano a spuntare piume allungate e a punta su ciuffo, groppa e mantellina; sulle femmine invece queste piume rimangono tondeggianti (caratteri sessuali). Chi vuole iniziare l’allevamento di tale razza deve considerare anche l’acquisto di un’incubatrice o in alternativa di balie, poiché la Padovana non ha un buon istinto alla cova. La Padovana è presente in numerose colorazioni; le più comunemente

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allevate sono le camoscio orlo bianco, le oro orlo nero e le argentato orlo nero con le monocromatiche nere e bianche. In generale si presentano con un fondo diverso in base alla colorazione ed un’uniforme orlatura su tutto il piumaggio con piccole differenze tra sessi; questo a causa del piumaggio maschile che, essendo filiforme su groppa e mantellina (nel caso della padovana anche sul ciuffo), ne modifica l’aspetto in generale. Su queste colorazioni orlate è utile lavorare per compensazione nella riproduzione, cioè utilizzare soggetti con poca orlatura con soggetti con orli molto spessi, in modo da avere prole intermedia più prossima all’ideale. Altri accorgimenti selettivi sono: la forma degli orli, che preferibilmente devono contornare tutta la piuma e non essere solo sulla punta, le orlature sulle remiganti ed una corretta orlatura dei maschi. Altre colorazioni frequenti sono la nera, la bianca, la blu e la barrata; altre meno comuni sono invece la tricolore (oro orlo nero picchettato),

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Femmina di Padovana Barrata la selvatica e la crele. Altre ancora si sono perse, come l’ermellinata e la fulva. Nelle colorazioni a tinta unita bisogna riprodurre soggetti senza piume di altro colore (che possono dare indesiderate fiammature), così come è meglio evitare di utilizzare soggetti con riflessi paglia nella colorazione bianca. Da non dimenticare, inoltre, è la presenza della varietà a piumaggio riccio, che deve essere allevata in concomitanza con quella a piumaggio normale per preservarne la qualità delle piume. L’elevata presenza di allevatori nel mondo ha dato vita a numerosi club che ne promuovono l’allevamento e la diffusione, spronando al contempo anche la ricostruzione di vecchie colorazioni e la creazione di nuove.

Thomas Del Greco Appassionato allevatore

Zootecnia


Il mangime in coniglicoltura Analizziamo, in linea generale, gli elementi base per poter utilizzare al meglio il mangime nel nostro allevamento di

Cristiano Papeschi e Linda Sartini

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l mangime è un elemento fondamentale nell’allevamento di qualunque specie animale ad uso zootecnico. Nella breve trattazione che seguirà ci riferiremo ovviamente alla specie cunicola, ma i concetti espressi sono applicabili più o meno a tutte le produzioni animali, in particolare agli erbivori. Negli allevamenti intensivi, i conigli vengono alimentati esclusivamente con mangime pellettato, formulato in modo da coprire interamente il fabbisogno nutrizionale degli animali senza bisogno di ulteriori integrazioni. Al contrario, nell’allevamento rurale si tende a ridurre la percentuale di mangime nella razione integrandola con erba fresca o leggermente essiccata, paglia, fieno, prodotti dell’orto e piccole quantità di cereali e frutta. Un’alimentazione esclusivamente a base di mangime velocizza il processo di accrescimento, ma una dieta più naturale, sebbene richieda tempi più lunghi per il raggiungimento del peso di macellazione, consente un miglioramento delle caratteristiche organolettiche della carne: insomma, il gusto ci guadagna!

Il cartellino Ogni sacco di mangime deve essere accompagnato da un “cartellino”, uno strumento importantissimo per l’allevatore, che ne indica la composizione. Su di esso vengono riportate le informazioni fondamentali quali l’umidità (quantità d’acqua), la percentuale di proteine, grassi, fibra (da tenere sempre d’occhio, soprattutto nel caso del coniglio) e ceneri (sostanze minerali) nonché la presenza

Zootecnia

o integrazione di vitamine. Tra le ultime voci, quando presenti, sono riportati gli eventuali medicamenti contenuti. Un elenco delle materie prime utilizzate nella formulazione del mangime completa il quadro e fornisce informazioni utili sulla qualità del prodotto. Al momento dell’acquisto, l’allevatore coscienzioso dovrebbe sempre esaminare attentamente il cartellino per verificare che quel determinato mangime corrisponda, in quanto a composizione e a percentuali dei vari elementi, alle esigenze della propria attività e degli animali che alleva. E’ sempre buona regola acquistare mangimi appositamente formulati per le specie da noi detenute ed evitare, nella scelta, di basarsi esclusivamente sul fattore “prezzo”.

Le materie prime Le materie prime utilizzate nella formulazione di un mangime devono essere sempre di ottima qualità, fattore che determina in gran parte la riuscita di un buon prodotto. Ogni azienda ha le proprie “formule” ed impiega in diverse proporzioni le varie materie prime. Come base di ogni mangime si suole utilizzare l’erba medica, disidratata o sotto forma di fieno, per il suo elevato apporto di proteina grezza (compreso mediamente tra il 12,5 e il 18%), e la paglia di frumento, che con il suo contenuto di fibra grezza pari a circa il 40% ne innalza notevolmente il contenuto all’interno della formulazione mangimistica. Le farine di cereali, in particolare orzo e mais, vengono aggiunte per aumentare la quota calo-

Un sacco di mangime pellettato (foto Roberto Corridoni) rica della razione, e quindi l’energia, mentre le farine di estrazione, per lo più di soia e di girasole, forniscono un ulteriore elevato apporto di proteine. Altre componenti generalmente utilizzate nella formulazione di un mangime sono i sottoprodotti della soia, crusca e cruschello nonché il melasso come collante. A questa formulazione base vengono poi aggiunte vitamine in diverse quantità e proporzioni.

I diversi tipi di mangime Il mangime per conigli viene generalmente realizzato sotto forma di pellet, cilindretti di colore verde del diametro di 2-3 mm e di lunghezza di circa 1,5 cm; questo consente di fornire agli animali un prodotto uniforme, impedendo così che possa essere effettuata una scelta di ciò che è più gustoso ed evitare quindi lo spreco della materia prima, oltre a possibili fenomeni carenziali. Esistono diverse tipologie di mangime per conigli, la cui formulazione varia in funzione del momento fisiologico. Il “mangime da fattrice” è particolarmente ricco dal punto di vista proteico ed energetico per far fronte alla richiesta dell’organismo che, soprattutto nell’ultima parte della gestazione e fino ai venti giorni di allattamento, è molto elevata a fronte di una capacità di ingestione dell’alimento più bassa. Sono poi reperibili in commercio i mangimi da svezzamento (il cosiddetto “starter”), da fornire ai

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coniglietti ed anche alla madre fino allo svezzamento di questi, a partire dai 20 giorni di vita fino a circa 4045 giorni; infine è presente un mangime da ingrasso (comunemente indicato come “finissaggio”), con cui verranno alimentati gli animali fino al momento della macellazione. Per ragioni di praticità, il mangime più venduto, soprattutto nelle piccole realtà rurali, è il “ciclo unico”, un alimento formulato in maniera tale da coprire più o meno i fabbisogni di tutti gli indirizzi produttivi e fasce di età.

Il mangime medicato Questa tipologia di mangime rientra in una classificazione a parte, in quanto la sua peculiarità sta non tanto nella formulazione dal punto di vista nutrizionale, ma nell’integrazione con molecole farmacologicamente attive necessarie per il trattamento di stati patologici; queste vengono addizionate, a seconda dei casi, ai mangimi per fattrici, ai mangimi da svezzamento e ingrasso, o a quelli a ciclo unico. Avremo dunque mangimi medicati diversi tra loro e studiati in funzione del problema che si verifica in allevamento; in particolare, i mangimi medicati più spesso utilizzati, sono quelli contenenti molecole ad azione antiprotozoaria (per lo più “coccidiostatici”) ed antibiotici (soprattutto contro le patologie dell’apparato gastro-enterico e respiratorio). I mangimi medicati devono essere utilizzati sotto controllo veterinario e prima della macellazione andranno sempre osservati e rispettati i “tempi di sospensione”, cioè quel determinato numero minimo di giorni che deve trascorrere tra l’interruzione della somministrazione di un dato prodotto e il momento della macellazione: questa accortezza, obbligatoria per legge, è necessaria affinchè i residui dei farmaci nelle carni non rappresentino un rischio per la salute umana.

La razza di questo numero: L’Argentata di Champagne La razza denominata “Argentata di Champagne” è originaria della regione di Champagne in Francia e presente ormai in molti Paesi dell’Unione Europea tra cui l’Italia dove, pur non essendo diffusissima, gode di un buon numero di estimatori. E’ un coniglio dal corpo robusto e dal portamento fiero, con un carattere abbastanza difficile e sospettoso ma molto docile. Ripercorrendo a ritroso la sua storia si scopre che, questa razza, ha origini molto lontane e diversi autori ne parlano nei propri testi già a partire dal diciassettesimo secolo. In Francia, nell’Encyclopedia of Science, (1765, Volume IX, pag. 284) viene menzionato come coniglio Rich e secondo il ricercatore tedesco Max Wischer cambia per la prima volta il suo nome in “Champagne Silver Grey” in uno scritto rurale di fine settecento. Da queste testimonianze si apprende che il coniglio Rich rimane l’antenato di tutti i conigli argentati attualmente conosciuti nel mondo. La razza è stata ufficialmente riconosciuta in Francia nel 1902. La produzione di questo coniglio è diminuita nettamente nella seconda metà del ventesimo secolo a causa della sua scarsa attitudine all’allevamento intensivo. L’eccessivo peso raggiunto dai soggetti in rapporto alla robustezza degli arti inferiori e soprattutto le problematiche relative all’appoggio su rete delle zampe, creava una grande quantità di difficoltà nell’allevare questa razza. Tuttavia, le sue molte qualità hanno portato all’utilizzo dell’Argentata di Champagne per alcuni modelli genetici da parte dei produttori di ibridi. Oggi ci sono circa 490 allevamenti di Argentata, che rappresentano un punto a favore della sua sopravvivenza. Questa razza è molto apprezzata per la produzione di pelliccia, tanto che si è provato addirittura a selezionare soggetti completamente argentati senza le caratteristiche zone nere. Cosa dice lo standard: E’ un coniglio di medie dimensioni, dall’aspetto armonioso. Il corpo, robusto ed allungato, è ben fornito di masse carnose; la testa massiccia e leggermente tondeggiante è dotata di orecchie ben dritte, arrotondate alle estremità e dalla lunghezza massima di 14,5 cm, carnose e pelose. Gli arti robusti e muscolosi sono di media lunghezza mentre il petto, il bacino e il torace sono ampi e la linea dorsale è armoniosamente arcuata. Gli occhi sono vivaci e ben aperti di colore bruno. La pelliccia è fitta e pesante, ricca di sottopelo e di giarra non troppo dura. L’argentatura è determinata da due tipi di peli di giarra: peli internamente colorati di nero e peli con estremità bianco-argento. La giarra può superare la lunghezza del pelo fino ad un centimetro. Il colore di copertura è grigio argento uniforme su tutto il corpo tranne orecchie, muso, coda e zampe che appaiono più nerastre verso le estremità. Il sottocolore è blu scuro e le unghie scuro-nerastre.

La somministrazione Ogni qual volta si somministra il mangime, è necessario effettuare un controllo visivo ed olfattivo per verificare che la consistenza, la polverosità e l’odore siano nella norma. Nell’allevamento amatoriale il governo degli animali avviene manualmente, il che

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Roberto Corridoni rende le operazioni di controllo molto agevoli e rapide: basta avere un po’ d’occhio. Il mangime dovrebbe essere reintegrato giornalmente o al massimo una volta ogni due giorni, momento nel quale dovrebbe essere

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controllato l’eventuale spreco (ad es. mangime accumulato al di sotto della gabbia) e l’eventuale ristagno all’interno della mangiatoia di materiale deteriorato o di polveri. In caso di necessità è importante eliminare

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i residui prima di procedere con il riempimento della tramoggia, verificando anche che l’animale non vi abbia defecato all’interno.

La conservazione Negli allevamenti industriali si suole stoccare grandi quantità di mangime, nell’ordine di diverse tonnellate,

Silos esterni (foto Cristiano Papeschi) all’interno di grandi silos. Il mangime, trasportato sfuso all’interno di grossi camion, viene poi introdotto nei silos attraverso un condotto munito di coclea. Questo sistema di conservazione viene utilizzato per lo più per gli impianti zootecnici medio-grandi, in quanto determina l’acquisto di diverse tonnellate di mangime per volta. All’interno del silos il mangime è protetto dalle intemperie, ma queste strutture così imponenti richiedono comunque manutenzione e possono in ogni caso determinare alterazioni della materia contenuta a causa soprattutto dell’aumento della temperatura al loro interno. Negli allevamenti più piccoli si suole invece acquistare il mangime in sacchi di diversa pezzatura, del peso massimo di 50 kg a confezione. Bisogna porre, però, particolare attenzione alla conservazione delle ballette di mangime; queste infatti devono essere stoccate possibilmente in un locale asciutto, non direttamente a contatto con il pavimento e men che mai contro superfici spigolose o taglienti che possono compromettere l’integrità della confezione, particolare che deve sempre essere controllato al momento dell’acquisto. La presenza di elevati tassi di umidità determina non solo la rottura del sacco, ma anche l’imbibizione del mangime che diventerebbe così inu-

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tilizzabile per la modificazione della sua forma fisica e per il potenziale deterioramento della composizione o lo sviluppo di muffe e batteri. Un mangime deteriorato può assumere diverse caratteristiche: aumentata polverosità, odore inconsueto, maggiore friabilità o, al contrario, presenza di agglomerati. L’integrità del sacco deve essere mantenuta quanto più possibile inalterata: oltre a lesioni dovute al maneggiamento, una delle evenienze più frequenti in materia di contaminazione è data dall’intervento di roditori, topi e ratti, che ne rosicchiano la confezione. Pertanto è bene bonificare il locale di stoccaggio e, se possibile, installare trappole apposite onde evitare che i muridi possano contaminare il mangime con le loro deiezioni, che rappresentano un potenziale veicolo di malattie. Per ovviare a questi rischi, oltre alle misure preventive a livello ambientale, si potrebbe ricorrere all’utilizzo di contenitori muniti di coperchio (ad esempio bidoni), meglio se a chiusura ermetica. Prima di concludere, ci preme portare l’attenzione proprio sullo sviluppo di muffe, evento tutt’altro che remoto.

Le micotossine

sono le Aflatossine (B1 e M1), l’Ocratossina A, i Tricoteceni, lo Zearalenone e la Fumosina B1. Gli organi bersaglio, così come i sintomi clinici da esse prodotti, sono diversi da tossina a tossina e tra questi ricordiamo il fegato, il rene, l’apparato digerente, l’apparato riproduttore, il midollo osseo, il cervello ed il sistema circolatorio; l’interessamento di questi organi ed apparati comporta la comparsa di problemi di diversa natura quali ittero, difficoltà respiratoria, problemi riproduttivi e gastro-enterici. Un’intossicazione da micotossine può, in alcuni casi, passare più o meno inosservato soprattutto se i sintomi clinici sono assenti o lievi, oppure determinare l’insorgenza di segni anche gravi fino anche alla morte degli animali interessati. In caso di sospetto è bene far effettuare dei controlli da laboratori specializzati nell’ottica non solo della tutela delle specie allevate, in questo caso del coniglio, ma anche e soprattutto della salute umana. Dr.ssa Linda Sartini DVM Specializzata in ispezione degli alimenti di origine animale

Sono il prodotto del metabolismo di Dr. Cristiano Papeschi DVM alcuni microscopici funghi contami- Università degli Studi della Tuscia nanti presenti sulle materie prime e Specializzato in teconologia e nell’ambiente, tra i quali i più diffupatologia del coniglio, si in questo caso sono Aspergillus della selvaggina e spp., Fusarium spp., Claviceps spp. degli avicoli e Penicillium spp. Un ambiente caldo e umido favorisce notevolmente la loro crescita e diffusione e quindi l’accumulo di micotossine nell’alimento destinato agli animali. Per quanto la concentrazione di micotossine sia maggiore negli alimenti “ammuffiti”, la loro presenza non può essere esclusa neanche negli alimenti “apparenPonzano Veneto (TV) - Via Roma, 156 temente sani”. In linea generale le Tel. +39 348 3579498 micotossine più freilconiglio@ilconiglio.com www.ilconiglio.com quenti e dannose

Costruzione Gabbie Conigli e Polli

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Caratteri produttivi nell’incrocio tra razze ovine L’incrocio è pratica diffusa, ma spesso è condotto in modo molto casuale di

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Vittorio Bocanelli

n questo articolo andremo ad esaminare l’argomento dell’incrocio tra le razze ovine, pratica abbastanza diffusa tra gli allevatori anche se condotta in modo molto casuale e sommario. Definiamo subito cosa si intende con il termine “incrocio”: con questo termine si intende l’accoppiamento tra individui di razza diversa, oppure di una razza con un ibrido. I soggetti che nascono si chiamano meticci e, nell’incrocio tra razze pure, vengono indicati con il termine F1. Poi si passa al “meticciamento“ e con questo termine si intende l’accoppiamento tra i meticci e gli F1, i quali possiedono caratteri fortemente eterozigoti. Infatti Gregor Mendel, naturalista e matematico considerato il precursore della moderna genetica per le sue osservazioni sui caratteri ereditari, indicava gli individui eterozigoti con il termine “ibrido”. Con l’incrocio si hanno effetti opposti alla consanguineità: mentre essa fa diminuire l’eterozigosi all’interno delle popolazioni, l’incrocio si predetermina lo scopo di ottenere caratteristiche intermedie tra gli incrocianti, al fine di migliorare la produzione in un allevamento e per stabilizzare l’effetto della selezione.

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Il miglioramento genetico che si ottiene con l’incrocio è ottimale nella 1° generazione per poi diminuire nelle generazioni successive. Un altro obiettivo dell’incrocio è quello di utilizzare l’eterosi per aumentare le produzioni di carne, latte, lana ed altro, ma è ormai certo che la reddi-

Agnelli di Massese x Comisana tività dei prodotti dell’incrocio è maggiore delle produzioni dei singoli genitori; in termini semplici si rileva la superiorità dei figli sulla popolazione di base da cui derivano i genitori. Il mio obiettivo è quello di porre in esame l’incrocio tra due razze ovine da latte tra le più prestigiose del nostro paese: la razza Comisana e la Massese. Esse possiedono caratteristiche di razza molto diverse tra loro, pur rimanendo in comune le ottime qualità lattifere. Inutile rimarcare qui i caratteri specifici delle due razze, già celebrati e lodati in dettaglio in molte opere. In

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questa sede mi giova sottolineare una caratteristica spesso tralasciata (in particolare per ognuna di queste due razze) e cioè il portamento elegante e fiero che si nota nelle massesi e l’armonia nelle forme e nei colori della comisana. Nei viaggi e durante le mie visite nella zona centrale del Lazio, precisamente nell’Alta Ciociaria, nei paesi di Ferentino, Alatri, Veroli, Anagni e Fumone, ho avuto modo di rilevare la presenza di molti greggi misti, formati da ovini di razza Comisana e Massese e da incroci F1 e meticci ottenuti dalle suddette razze. Questo fatto mi ha incuriosito notevolmente, tanto da intraprendere una serie di indagini a livello notiziario tra i vari allevatori. Tutti asserivano che con questo incrocio, in particolare inserendo arieti di razza Massese su greggi di razza Comisana, si ottenevano agnelli più pesanti con accrescimenti più rapidi, pur mantenendo le ottime caratteristiche nella produzione di latte delle F1 e, in alcuni casi, proprio le F1 presentavano caratteristiche produttive superiori alle stesse madri. Nell’approfondire l’argomento ho avuto modo di rilevare che nessuno di questi allevatori perseguiva regole rigide nell’incrocio e nella selezione, tantomeno registravano

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i dati produttivi confrontandoli con le produzioni di carne e latte ante e post “fase di ibridazione”: si limitavano ad operare continui meticciamenti con arieti di una e dell’altra razza in modo alternato ed a volte in modo coevo. Visti i risultati ottenuti ed il persistere di questo incrocio, viste le ottime caratteristiche di queste due razze, vista la difficile condizione economica in cui versiamo ed il forte bisogno di ottimizzare le risorse, ci troviamo di fronte ad un’ottima base per poter sviluppare un serio ed accurato progetto di selezione e di studio di questa ibridazione. Il forte carattere produttivo della razza Comisana, con la sua alta prolificità, la grande quantità di latte e la rusticità sono così unite alla quantità e qualità del latte della razza Massese, al precoce accrescimento degli agnelli, alla sua forte vigoria, alla peculiarità delle sue carni ed alla sua notevole mole: esistono elementi per ottenere individui F1 con grandi prerogative produttive, superiori alle due razze di provenienza in purezza.

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Una selezione simile è già stata sperimentata e realizzata in passato,

Ariete di Massese x Comisana utilizzando due razze con forti caratteri produttivi diversi che hanno dato origine alla razza Assaf, la quale è stata creata in Israele nel 1955 da incroci tra 2 razze dalla spiccata attitudine alla produzione di latte: la mediorientale Awassi e la Frisona selezionata in Germania. Dopo un lungo lavoro di rigida selezione si è giunti alla costituzione di una nuova razza con caratteristiche produttive, in de-

terminati ambienti, superiori alle due razze da cui ha avuto origine. Nell’anno 2010, al solo fine di provarne l’effetto, presi un ariete Massese per inserirlo all’interno di un piccolo gregge di 15 Comisane già incrociate con la razza sarda. Effettivamente, nelle prime nascite del 2011, ottenni agnelli più pesanti, con accrescimenti più rapidi, ed una qualità delle carni notevolmente superiori, magre e saporite, in maggior misura per quel che riguarda il classico “agnellone”. Visto il numero molto limitato degli individui a disposizione e la mancanza di purezza della razza, non vi erano le condizioni di proseguire la sperimentazione a livello scientifico. Chissà se tra qualche decennio parleremo di una nuova razza di pecora, magari la chiameremo “comi-ssese” oppure “mas-sana”. Vittorio Bocanelli bocanelligeovi@ hotmail.it

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Digestione lattea e pasto unico: un binomio possibile La fase di allattamento dei vitelli bufalini è un periodo molto delicato, che causa spesso problemi sanitari: vediamo come affrontarla al meglio di

Giovanni Canu

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empre più spesso, durante le lunghe giornate passate negli allevamenti bufalini, sento allevatori chiedere spiegazioni in merito a quale, tra le molte pratiche di allattamento e svezzamento attuabili, sia quella che garantisca i risultati migliori in termini sanitari e di performance di accrescimento. Il periodo in questione inizia mediamente a fine Gennaio per terminare più o meno ad Agosto, anche se dilatazioni e contrazioni di tale periodo possono presentarsi con frequenza. E’ questo, appunto, il periodo in cui partoriscono le bufale ingravidate tra Marzo e Settembre, lasso di tempo che va a coincidere, inoltre, con l’aumento del prezzo del latte alla stalla. In questo periodo, per quanto riguarda l’allattamento dei vitelli bufalini, si possono manifestare fenomeni di natura sia sanitaria (infezioni virali, protozoarie e batteriche) che ambientali (gelate notturne, esagerati tassi di ammoniaca e di idrogeno solforato nei ricoveri) in grado di causare rallentamenti della crescita e addirittura la morte dei vitelli a causa della comparsa di episodi transitori o persistenti di diarrea. Quest’ultima diventa, molto spesso, l’unico fenomeno in grado di allarmare gli allevatori, il più delle volte troppo tardi. Durante le visite di controllo, però, mi trovo a riscontrare gravi errori di

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gestione della vitellaia e soprattutto la messa in opera di pratiche “arbitrarie” volte alla risoluzione dei fenomeni diarroici, che il più delle volte finiscono con il peggiorare la situazione. Spesso il problema risiede nell’errata preparazione dei sostituti del latte materno, in pratica il “latte in polvere”, somministrato a temperatura

troppo bassa o ricostituito con concentrazione di polvere insufficiente. Ne conseguono fenomeni di indigestione lattea con diarrea, alle quali gli allevatori reagiscono concentrando sempre meno il latte ricostituito… e così facendo la diarrea peggiora ulteriormente.

Cenni di fisiologia digestiva neonatale Il vitello in fase colostrale è un cosid-

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detto monogastrico “funzionale”: l’alimento è estremamente concentrato e la sua digestione avviene esclusivamente nello stomaco ghiandolare (abomaso) e nell’intestino tenue. In questa fase i prestomaci (reticolo, rumine ed omaso) sono “dormienti”. Quando il vitello riceve, per la prima volta, il latte ricostituito (o quello della madre) il complesso rumine-reticolo viene scavalcato grazie all’apertura di una particolare struttura anatomica (la doccia esofagea) che indirizza l’alimento direttamente all’abomaso. Qui, in ambiente acido e sotto l’azione dell’enzima rennina, si assiste alla coagulazione della caseina. Veniamo alla vera fase critica della digestione, ossia quella dei lipidi i quali, dopo aver subito un primo attacco di idrolisi già in bocca grazie alla saliva, vengono sospinti lungo il tratto gastro-enterico da specifiche contrazioni muscolari. Le sostanze che avevano subito una prima e parziale digestione nello stomaco vedono, nell’intestino tenue, completarsi la loro digestione: questi sono, in particolare, glucosio, galattosio ed acidi grassi. Data l’elevata digeribilità apparente dei grassi (98% circa), è di fondamentale importanza che lo stomaco del vitello, già dalle prime poppate, impari a formare un coagulo caseinico adeguatamente concentrato: quando ciò avviene, questa prima digestione gastrica facilita enormemente i passaggi successivi.

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Perciò preparazioni lattee poco concentrate possono dare luogo alla formazione di un coagulo poco robusto e scarsamente in grado di stimolare la secrezione gastrica ed enzimatica (ad azione proteolitica) in modo adeguato. Ciò comporta un aumento del transito abomasale e il passaggio di sostanze indigerite all’intestino, il quale in seguito a fenomeni putrefattivi ed infiammatori della mucosa provvederà ad espellerli con la diarrea.

Il pasto unico L’innovativa tecnica di allattamento con il pasto unico, se eseguita bene e senza timori, può limitare enormemente i danni da indigestione e assecondare al meglio la fisiologia digestiva del vitello. La tecnica consiste nello sciogliere in un litro di acqua circa il doppio della polvere usualmente impiegata e di far mangiare l’alimento liquido solo al mattino, lasciando acqua potabile a disposizione del vitello per il resto della giornata. Ovviamente per fare ciò si dovrebbero escludere tutte quelle tipologie

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di latte in polvere che danno già a concentrazioni normali problemi di solubilità (comparsa di grumi, difficoltà a solubilizzarsi in tempi rapidi, tendenza a fare posa sul fondo del secchio) e, cosa da non trascurare, problemi di appetibilità. Spesso aprendo i sacchi del latte non si percepisce nessun odore particolare, mentre tipologie di polvere particolarmente aromatizzate risultano più efficaci. Anche la presenza di alte quote di proteine di natura extra-lattea (soia idrolizzata o proteine da cereali) possono venire scarsamente riconosciute dall’intestino del vitello bufalino il quale, nelle somministrazioni successive, potrà manifestare reazioni allergiche e diarrea. Per effettuare una fase di allattamento ottimale con la tecnica del monopasto è necessario non solo acquistare sostituti del latte della migliore qualità, ma anche curare al meglio i ricoveri, fornire ai vitelli acqua potabile e somministrare un buon mangime da svezzamento a partire dai 15 giorni di vita. Il rispetto meticoloso di queste

semplici regole rende possibile il raggiungimento, in massimo 3 litri di soluzione, di alte concentrazioni energetiche. In pratica con la metà dei litri di “soluzione“ è possibile far ingerire al vitello la stessa quantità di polvere di latte che si somministrerebbe con il metodo tradizionale, evitando però un’abbeverata troppo diluita e non in grado di avviare correttamente una rapida ed efficace digestione. Inoltre, con questa tecnica, il vitello si avvia più velocemente allo svezzamento, mostrando maggiore curiosità verso altri alimenti (quali il mangime starter), che gli vengono lasciati a disposizione per il resto della giornata. Il vostro alimentarista saprà consigliarvi al meglio, guidandovi nell’attuazione delle migliori pratiche per svezzare i vitelli di oggi che saranno le campionesse (o i migliori tori) di domani. Dr. Giovanni Canu Nutrizionista animale canu76@gmail.com

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egli ultimi tempi, vuoi per la crescente sensibilizzazione nei confronti di qualità del cibo, rintracciabilità degli alimenti e sostenibilità della filiera, vuoi per la crisi economica che ha fatto scoprire al consumatore che acquistando prodotti che hanno fatto pochi chilometri spesso e volentieri è possibile risparmiare qualcosa, la vendita diretta ha visto aumentare considerevolmente il suo volume di affari e, attraverso gruppi di acquisto, mercati di filiera corta ed altre tipologie di vendita, inizia ad occupare una fetta non più trascurabile dell’agroalimentare. Ma come si sa, l’innovazione spesso e volentieri va di pari passo ai problemi ad essa legati: se da una parte la filiera corta garantisce che i prodotti che consumiamo vengano da aziende del territorio, dall’altra i sistemi di controllo e di certificazione sono molto più blandi e lascivi di quelli adottati dalla GDO per garantire gli standard di sicurezza alimentare che rendono l’Italia un paese relativamente all’avanguardia in materia di sicurezza della filiera agro-alimentare. Da qui la necessità da parte di Agrimè.it, giovane azienda di distribuzione di prodotti a km 0 e dell’Associazione di Agraria.org, attiva da anni a favore della divulgazione in ambito agrario, di creare un disciplinare “ad hoc”, che permetta di selezionare le aziende agricole più virtuose secondo criteri che non si limitino a certificazioni biologiche o biodinamiche, che spesso nascondono frodi alimentari di ogni genere, a cui oggigiorno siamo tristemente abituati. I criteri di valutazione si basano su pochi punti, che riguardano soprattutto i metodi di coltivazione, la predisposizione dell’azienda e del suo conduttore nei confronti di un tipo di agricoltura non intensiva e che faccia uso di energie alternative e metodi di risparmio idrico ed energetico. Sono privilegiate le aziende di dimensioni medio-piccole, condotte da personale giovane in possesso di titoli di studio in campo agrario, che utilizzino e favoriscano lo sviluppo di specie autoctone e che tengano conto del benessere animale. Una particolare attenzione è stata dedicata alla possibilità del consumatore di visitare tutte le aziende che si fregiano del marchio di qualità “Agraria.org”, in modo da rendere sempre più trasparente il rapporto tra il produttore ed il consumatore.

Il Marchio di Qualità Agraria.org è un impegno concreto: quello dei nostri giovani tecnici che lavorano per il controllo e quello degli agricoltori che devono assicurare prodotti genuini. L’attenzione nella selezione delle aziende agricole è una garanzia per il consumatore. Vuol dire condividere la stessa filosofia: la migliore qualità dei prodotti agricoli, il rispetto del lavoro del produttore, la trasparenza e la sostenibilità nei processi di produzione e distribuzione al consumatore al fine di salvaguardare l’ambiente per le generazioni future.


I Fagiani a “mantellina” Due specie molto particolari appartengono a questa singolare categoria: vediamo quali sono e come fare a riconoscerli di

Pasquale D’Ancicco

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l genere Chrysolophus appartengono due specie: il Fagiano Dorato Reale o Rosso (Crysolophus pictus) e il Fagiano di Lady Amherst (Chrysolophus amherstiae), detti anche “fagiani a mantellina” per via della parata che i maschi effettuano nel corteggiamento delle proprie femmine. Sono fagiani molto docili in cattività, si abituano presto alla presenza dell’uomo ed il loro allevamento è abbastanza semplice. Sono frugali dal punto di vista alimentare e possono tranquillamente esser nutriti con una miscela composta da granaglie e mangime per selvaggina, a cui vanno aggiunte con moderazione verdura e frutta.

Fagiano Dorato Rosso Femmina

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Fagiano Dorato Rosso Maschio Non risentono particolarmente delle condizioni climatiche; tuttavia dove vengono alloggiati vanno evitati ristagni idrici e zone fangose, in quanto questi volatili contraggono facilmente patologie gastrointestinali. Per questo motivo il fondo della voliera deve essere costituito da terra, sabbia (preferibile quella di mare) o trucioli e rimanere sempre asciutto. Sono uccelli di media taglia con dimorfismo sessuale molto marcato: i ma-

schi sono coloratissimi ed hanno lunghe code variopinte, mentre le femmine mostrano colorazioni più modeste. Il loro canto, più che quello di un fasianide, somiglia ad un cinguettio. Le voliere devono essere di almeno 2 metri di lunghezza per 2 metri di larghezza, corredate di posatoi e nidi dove le femmine possano andare a deporre senza esser infastidite; il rapporto maschi/femmine deve essere di 1:2/3, cioè due o tre femmine per ogni maschio. Il periodo degli amori inizia nei mesi di marzo ed aprile, con variazioni a seconda delle condizioni climatiche della zona in cui sono allevati e si protrae in genere fino a maggio e giugno. Le femmine, quando non entrano in cova, possono deporre fino a una trentina di uova, dal colore carnicino nei Dorati e più sul roseo nei Lady (durata di incubazione 23/24 gg). I fagianotti di entrambe le specie sono molto rustici e resistenti se paragonati ad altre specie di fagiano e possono esser alimentati con mangime specifico per selvaggina; in alternativa si può ricorrere anche a mangi-

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me per pulcini o tacchini, vista la loro frugalità. Entrambe le specie hanno dato vita a mutazioni, talune spontanee ed altre ottenute dall’uomo, di cui ci occuperemo nei prossimi numeri di TerrAmica.

Il Fagiano Dorato Rosso Più conosciuto e diffuso in cattività è

go circa 100-120 cm, di cui ben 80 cm di coda; sulla testa possiede un ciuffo scarlatto ed una mantellina a strisce sfalsate bianche e nere. I lati della faccia, composti da pelle nuda, sono grigio-chiari, mentre dal mento fino alla gola è verde metallico ed il ventre è bianco. Sul dorso e sulle ali presenta una colorazione verde

Fagiano Lady Amhrest Maschio il Fagiano Dorato Rosso: il maschio possiede sulla testa un ciuffo dorato, la mantellina intorno al collo è gialla e nera, mentre dal mento alla gola è color isabella; sul dorso è verde metallico e dalla schiena al sopracoda è giallo. Il resto del corpo è rosso, la lunga coda è un misto di marroncino e nero. Il fagiano dorato matura sessualmente durante il primo anno, ma completa il piumaggio al secondo anno di vita. Le dimensioni vanno dai 90 ai 100 cm, di cui 60-70 cm sono di coda. La femmina è di una tinta bruno-rossiccio con riflessi giallastri e striata di nero; le zampe sono giallastre, il corpo è lungo in totale circa 70 cm, di cui 35 cm di coda; le penne caudali terminano a punta e sono percorse da striature nere a spiga di grano. L’iride degli occhi è gialla nei maschi e bruna nelle femmine, carattere distintivo che torna utile per l’autosessaggio fin da pulcini.

Il Fagiano Lady Amherst Il maschio di Lady Amherst è lun-

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in commercio soggetti impuri ed a farne le spese è stata in particolare la Lady, più debole geneticamente, tanto che è difficile trovare dei soggetti fenotipicamente puri. Fortunatamente, negli ultimi tempi, siamo andati incontro ad un’inversione di tendenza e, grazie ad opere

Fagiano Lady Amhrest Femmina con tinte blu, mentre il groppone è giallo ed il sopracoda scarlatto. La femmina è lunga circa 70 cm ed ha un mantello bruno-ocra con sfumature rossicce; sulla faccia vi sono piume grigio-argentee e la pelle intorno agli occhi è ardesia, le zampe sono grigiastre e le penne della coda terminano in maniera arrotondata con striatura non a spiga di grano, al contrario delle femmine del dorato. Gli esemplari giovani presentano una colorazione simile alle femmine adulte. Il maschio raggiunge la maturità sessuale durante il primo anno di vita, ma completa il piumaggio durante il secondo anno. L’iride degli occhi è bianca nei maschi e bruna nelle femmine, ed anche in questo caso tale carattere risulta molto utile per l’autosessaggio dei pulli.

di selezione finalizzate alla ricerca della purezza, ora non è più un’impresa trovare dei bei soggetti di Lady Amherst. Per ciò che concerne il Dorato è stato recentemente varato un progetto denominato “Fagiano Dorato 5000” a cui partecipano vari allevatori europei. A tal fine sono stati recuperati dei soggetti puri (che a loro volta sono stati prelevati in natura o ottenuti a partire da esemplari di stirpe selvatica) presso zoo e aviari di tutto il mondo, allo scopo di allevarli e preservane la purezza. L’Italia partecipa a questo progetto tramite l’AIFAO che vanta tra i suoi soci numerosi allevatori di questi fagiani.

L’attualità delle due razze Purtroppo, nel corso del secolo scorso le due specie sono spesso state incrociate tra loro, per ignoranza, necessità o per la creazioni di nuove “mutazioni”; difatti spesso si trovano

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Pasquale D’Ancicco pasqualedancicco@ live.it

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Africa Milk Project La fabbrica del latte: un progetto interessante per la ripresa delle economie più deboli del terzo mondo di

Sara Laurenti - CEFA onlus

L

a giornata alla “Kiwanda Cha Maziwa” (“fabbrica del latte”, in swahili, lingua bantu diffusa in gran parte dell’Africa orientale), 1.500 metri quadrati di struttura, inizia prima dell’alba. I furgoni della latteria percorrono tutto il distretto di Njombe, nel sud della Tanzania, per ritirare il latte dai tantissimi allevatori costituiti in cooperativa. Ma c’è anche la consegna diretta: un via vai di bici, provenienti anche da molto lontano, che arrivano cariche di almeno un contenitore di alluminio, oggetto da museo oggi in Occidente, pieno di latte appena munto. Oggi si lavorano oltre 3500 litri di latte al giorno. “È una vera filiera del latte

be sono un successo in tutto il Paese. “Il prodotto principale è la mozzarella, ma anche caciotte e provoloni che finiscono sulle tavole di molti ristoranti rinomati di Dar es Salaam”, ph Diego Zanetti spiega Flavio Levati, responsabile produzione dell’azien- circa cinquecentomila euro”, conda. “E non manca nemmeno lo yo- clude Benassi. Da dicembre 2013 gurt, amatissimo dalla popolazione la Njombe Milk Factory è poi una realtà aziendale, una S.p.A famosa locale”. L’ambiente è pulitissimo, tutti gli ope- in tutta la Tanzania per la qualità dei ratori indossano rigorosamente ca- propri prodotti, che mantiene nella mici e stivali. L’impacchettatrice del sua compagine sociale una rapprelatte lavora senza sosta perché, gra- sentanza di quelli che sono i partner/ zie a questa, i bambini, un baci- beneficiari: l’associazione di allevano di utenza di 28 mila alunni, tori, gli operai, la diocesi cattolica, il ricevono a scuola un pacchet- distretto e la stessa città di Njombe. to di ¼ di litro di latte pasto- “Questa latteria-caseificio è un morizzato ogni settimana grazie dello di sviluppo inclusivo, perché al quale, dicono molti insegnanti, ridistribuisce reddito a più membri di gli scolari sono più attenti alle le- una comunità: gli 800 allevatori che zioni sempre sovraffollate. I loro conferiscono ogni giorno il latte, e i occhi allegri rivelano l’eccitazio- 40 lavoratori della latteria-caseificio ne per la consegna settimanale e le loro famiglie”, ha spiegato Paolo del latte: tutti si mettono in fila, Chesani, direttore di Cefa Onlus. “La diligentemente ed ordinatamen- razionalità economica avrebbe conte. Ogni alunno, chiamato per sigliato di ritirare il latte da un’unica nome, ritira la preziosa confe- grande stalla con qualche centinaph Diego Zanetti zione e la protegge come il bene io di capi di bestiame, ma abbiamo - raccolta, trasformazione e com- più prezioso. Questo progetto, co- scelto, invece, di coinvolgere 800 mercializzazione - che vuole aiutare nosciuto come “Africa Milk Project”, piccole imprese familiari contala popolazione locale a raggiungere è stato individuato da Expo Milano dine, che includono oltre 5000 l’autosufficienza alimentare”, spie- 2015 come una delle 5 Best Practice persone; è stata una bella sfida, ma ga Marco Benassi, responsabile di al mondo che può dare davvero una siamo convinti che non esiste vero CEFA per la Tanzania. Una volta risposta alle necessità alimentari del sviluppo, in un paese come la Tangiunto al caseificio il latte è analiz- pianeta. “Il latte, in questo caso, ol- zania, se i benefici della crescita non zato da Joachim, responsabile con- tre a essere un alimento salutare e vengono ridistribuiti nel modo più trollo qualità: i controlli sono severi, completo, è uno strumento di eman- ampio possibile”. si testa la densità, l’acidità e il pH del cipazione: generatore di reddito e Sara Laurenti latte. Nei grandi doppifondi questo motore in grado di far girare l’econoè lavorato per essere trasformato in mia della regione; basti pensare che CEFA - Il seme della formaggi di differenti qualità e sta- l’azienda ha raggiunto un fatturato solidarietà ONLUS gionature, ed infatti i latticini di Njom- annuo di oltre un miliardo di scellini,

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Västgötaspets, mistero e bellezza Un gioiello gelosamente custodito e per questo poco conosciuto al quale è giusto dare il debito risalto di

Federico Vinattieri

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siti generici sulle varie razze canine. Vediamo di descrivere e di fornire qualche informazione importante su questo magnifico cane. Västgötaspets, Swedish Vallhund, Cane dei Vichinghi, Cane dei Visigo-

ti, Cane da pastore svedese; sono tanti i nomi associati a questo piccolo cane, nomi che sono sempre e comunque associati alla sua patria, la Svezia. Nonostante molti autori abbiano espresso il loro parere sulla selezione e soprattutto sull’origine del Västgötaspets, che nella maggior parte dei casi lo fanno discendere

dal “Welsh Corgi” inglese (cane con il quale, in effetti, ha una grande somiglianza nei tratti morfologici), è stato dichiarato e ufficialmente accettato che si tratti di una razza assolutamente autoctona della Svezia e che mai, secondo quanto dicono gli svedesi, sia stata introdotta, alla sua origine, un’altra razza continentale o della Gran Bretagna con un atto di meticciamento. Come in tutte le teorie, vi è anche la “teoria inversa”, ossia che sia stato proprio lo Swedish Vallhund a dare origine al Welsh Corgi, affermazione che da ragione ai teorici Svedesi. Esistono reperti antichi nei quali sono stati documentati effettivamente delle importazioni in Scandinavia di cani di “tipo Spitz” da parte dei commercianti e dei pirati Vichinghi, i quali fra la fine dell’VIII° e l’inizio del XI° secolo d.C. erano soliti intraprendere scorrerie con le loro navi sulle isole britanniche e sulle coste francesi; ma non sappiamo però quanto questi soggetti importati abbiano influito della selezione del moderno Swedish Vallhund. Quindi, di fatto, l’origine del Västgötaspets è ignota e rimarrà purtroppo un vero e proprio mistero, a meno che i genetisti non inizino ad indagare a fondo nel suo patrimonio genetico (operazione che a mio parere

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l “Västgötaspets” o “Swedish Vallhund”, è una di quelle razze canine che per la maggior parte delle persone che non seguono il mondo cinofilo, ma anche per molti degli addetti ai lavori, risulta essere praticamente sconosciuta. Nonostante che in Svezia, nazione che ne detiene meritatamente la paternità, questo cane sia piuttosto famoso e diffuso, se si esce al di fuori della Lapponia risultano essere pochissimi gli allevamenti di questa razza. Ma perché questo cane, dall’aspetto simpatico e di piccola taglia, è rimasto così nell’ombra? La risposta è forse da ricercare nell’Ente Nazionale Cinofilo Svedese e nei Club di razza dei paesi nordici, i quali sono in qualche modo troppo protettivi nei confronti di questo loro “piccolo gioiello”. Fin da bambino, quando insieme alla mia famiglia giravo già le manifestazioni cinotecniche di tutto il mondo, questa razza mi ha sempre attratto e non ho mai smesso di seguirla e di collezionare informazioni su di essa. Navigando in rete mi sono reso conto che si possono trovare molte informazioni sulla razza, ma quasi nessuna in lingua italiana, a parte ciò che ho scritto io anni fa e qualche altra sporadica pagina nozionistica su altri

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difficilmente verrà presa in considerazione). È anche impossibile quindi definire quando sia avvenuta la “genesi” di questo cane, ma nessuno può controbattere il fatto che sia un cane dalle antiche origini. Negli anni ‘40 del Novecento, mentre la Svezia era occupata dai tedeschi durante il secondo conflitto mondiale, un uomo, che avrà un ruolo cruciale nella storia della razza, si rese conto che in Svezia esistevano questi piccoli cani e che in qualche modo avevano delle caratteristiche omogenee e quindi poteva essere considerata a tutti gli effetti una razza. Pian piano si appassionò e decise di redigere una sorta di inventario dettagliato dei soggetti presenti nella contea di “Västergötland” e in particolare attorno alla città di Vara. Questa persona, che fino ad allora era solo un amatore, effettuò un censimento ed indicò la presenza di un gruppo di soggetti dalle caratteristiche somatiche praticamente identiche. Questo uomo era il Conte Björn von Rosen che, dopo essersi cimentato anche in prima persona nell’allevamento di questi cani, decise di richiedere poi il riconoscimento ufficiale del Västgötaspets… e ci riuscì. Una grande vittoria e se non fosse stato per la sua straordinaria determinazione oggi questo cane sarebbe probabilmente presente solo in Svezia; non sarebbe comunque stato considerato una “razza”, requisito essenziale per far sì che una tipologia di animali domestici venga in qualche maniera tutelata e mantenuta nel tempo. Nel 1943 fu redatto il primo standard e la razza venne battezzata “Sven Vallhund”. Il lavoro di Björn von Rosen venne poi ereditato dal famoso addestratore K.G. Zettersten, considerato

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tutt’oggi un po’ il creatore della versione moderna del Västgötaspets, che fissò definitivamente i caratteri tipici con la sua rigorosa selezione; questa fu effettuata senza mai tralasciare l’innato istinto e la grande

attitudine al lavoro che questo cane possiede nel proprio genoma. Nel 1953 la razza assunse il nome che oggi conosciamo. È stato classificato, dalla Federazione Cinologica Internazionale, nel grande raggruppamento dei “cani di tipo Spitz e tipo primitivo” (Gruppo 5 F.C.I.), classificazione che è la conseguenza di una valutazione morfologica e non di una valutazione funzionale, come per la quasi totalità delle razze nordiche. Il Västgötaspets, anche se facente parte del suddetto raggruppamento di razze, resta in ogni modo un valido “cane da pastore”; questo infatti è sempre stato il suo lavoro e proprio per questo utilizzo è stato da sempre selezionato. Non era utilizzato per le greggi, bensì per i cavalli e soprattutto per il bestiame, quindi non è scorretto dire che il Västgötaspets è un cane da bovi, un “bovaro”, aggettivo che va inteso come associazione attitudinale e non come aggettivo di razza. Allo stesso tempo, quando si parla di Swedish Vallhund non si può fare a meno di associarne la figura del

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piccolo cane di casa, adatto a vivere con la famiglia ed ottimo cane da compagnia a tutti gli effetti. Sono cani abbastanza “precoci” come accrescimento, infatti raggiungono la loro maturità sessuale a circa 8-10 mesi di età e, allo stesso tempo, è una razza abbastanza longeva; sovente i soggetti arrivano tranquillamente ai 10-14 anni di età, senza mostrare eccessive problematiche dovute all’invecchiamento. Quando la Svezia elogia questa sua “creatura” ha certamente le proprie ragioni: bisogna tener presente che non esiste, tra tutte le razze canine riconosciute, un’altra razza con questo alone di mistero che la circonda, con caratteristiche ed attitudini così varie ed istinti così permanenti da renderla unica, non solo per la sua bellezza estetica, ma anche per le proprie potenzialità. “Unica e preziosa”, così viene definita questa razza da gli allevatori nordici. Pochi sono i soggetti introdotti in Europa meridionale e questo suo essere così raro, così poco noto e così poco allevato, ha contribuito a non “alleggerire” il suo “potenziale genetico”; questo resta legato a quelle poche linee di sangue tutt’oggi esistenti, le quali hanno tutte in comune l’innata predisposizione al lavoro e all’essere, per istinto, incondizionatamente uno dei più validi ausiliari dell’uomo. Allevamento di Fossombrone http://www.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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L’enigma del Lizard, il “Canarino Lucertola” Un volatile da compagnia dalle origine sconosciute di

Federico Vinattieri

L

a genetica degli animali domestici oramai è una materia conosciuta e studiata a fondo, un argomento che nel corso dei secoli ha generato delle vere e proprie “corse” per accaparrarsi le scoperte scientifiche legate a geni e cromosomi. L’uomo è riuscito ad osservare e comprendere il comportamento genetico di ogni specie animale che può essere allevata: dalla produzione (carne, latte, uova, etc.) a quel

conosciute nel corso degli anni hanno ricevuto le loro attenzioni e sono state scrupolosamente “esaminate”, fino ad arrivare alla completa “mappatura” del loro comportamento genetico. Tutte… tranne una. Una razza non ha ancora fornito tutte le risposte alle nostre domande. Da dove proviene? Com’è stata creata? Qual’è la sua origine? Qual’è il comportamento genetico del suo disegno? E’ il frutto di quale ibrida-

“lucertola”) è dovuto al particolarissimo disegno a scaglie, unico ed inconfondibile, che si sposa con un piumaggio folto, compatto e di grande brillantezza. Due sono i colori di base di questa razza: “Dorato” (Gold) e “Argento” (Silver), che corrispondono al Giallo (Yellow) e al Camoscio (Buff), o meglio, all’intenso (non frosted) e al brinato (frosted). Negli ultimi anni sono comparse anche altre due varietà di colorazione: Varietà della razza Lizard

che riguarda il settore del “tempo libero” e dell’hobbistica, modificando l’aspetto e le prestazioni di alcune specie come cani, cavalli, conigli, gatti, rettili, polli, e… uccelli domestici.

Un canarino tutto particolare Il canarino è stato oggetto di lunghi ed accuratissimi studi che hanno ispirato grandi trattati e testi scientifici, contribuendo in modo sostanziale ad arricchire le conoscenze di tutti i genetisti. Per quanto riguarda i canarini, l’attenzione si è basata principalmente sulla ricostruzione della loro origine e sulla genetica del disegno e del colore. Tutte le razze di canarino ri-

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zione? E’ il risultato di quale mutazione? A oggi non esiste ancora una risposta a nessuna di queste domande... questo canarino pieno di mistero è il LIZARD. Questa razza particolarissima e molto comune, da anni sta facendo impazzire tutti gli studiosi che la conoscono: “origine ignota” e “comportamento genetico del disegno ignoto”, sono le uniche cose che sappiamo… non c’è male! Il Lizard viene classificato nel gruppo dei “canarini” soltanto con metodo di esclusione, poiché in tanti anni di teorie da parte degli ornitologici, nessuno è riuscito a classificarlo altrove; il suo nome (che tradotto letteralmente dall’inglese significa

il Lizard Blu, con introduzione del fattore “bianco dominante”, ed il Lizard Rosso, ottenuto con il colorante rosso che va a sostituire il normale colorante giallo. La caratteristica del piumaggio è data appunto dalle tipiche “scaglie” presenti su quasi tutto il corpo e dalle “scaglie pettorali” dette, in gergo ornitofilo, “Rowings”. Un altro carattere tipico è la famosa “Calotta”, disegno presente sulla testa, dove risultano essere assenti le scaglie e vi è al loro posto una parte lipocromica. La calotta può essere completa, oppure può coprire anche parzialmente la zona della testa o essere addirittura totalmente assente. La calotta è uno dei tanti “misteri” che accompagnano questa razza.

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Nessuno e ribadisco NESSUNO, è mai riuscito a venire a capo del comportamento genetico di questo disegno. Non si sa quale sia la “fonte” della suo particolarissimo fenotipo; sono state solo raccolte una serie di teorie a lungo andare ufficialmente accettate, ma nessuna ha dei reali e tangibili fondamenti scientifici. La storia del Lizard è documentata, in modo frammentario, già dal 1700, secolo in cui, in diversi manoscritti, si narra già di questi canarini. Nel famoso testo francese denominato “Traitè des serins de Canaries”, del 1713, vengono descritte 29 razze e varietà, tra cui molti ornitofili riconoscono anche il progenitore del moderno Lizard. Anche nel testo inglese del 1762, intitolato “The Bird fancier’s necessary companion”, viene descritto accuratamente un canarino con caratteristiche che fanno pensare al Lizard; il testo infatti riporta chiaramente la frase: “la bella specie coperta di scaglie...”. Vi è una diffusa teoria sulle origini del “canarino lucertola”, poi divenuta ufficiale, ossia la possibile introduzione in Inghilterra da parte degli Ugonotti, in fuga dall’Europa continentale, dopo la famigerata persecuzione religiosa, durante la seconda metà del XVI secolo. Gli Ugonotti nei loro spostamenti si portarono dietro i loro animali, tra cui questi particolari canarini verdi. Da questa fase di importazione, sembra che questo canarino fu poi fatto arrivare nelle Città e Contee di Nottingham, Middlesbrough, Norwich e Spitalfields. Già allora in Gran Bretagna vi erano sporadiche associazioni ornitologiche, che non erano altro che gruppi di appassionati riuniti in delle sorte di piccoli ritrovi, capeggiati da borghesi. Pur essendo già presente questo genere di attività, non vi è rimasto niente di scritto sulla creazione della suddetta razza. La razza che più attirava le attenzioni degli ornitofili inglesi dell’epoca era il “London Fancy”, che altro non

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era che un “pezzato simmetrico”, la quale è stata descritta e sappiamo essere stata riconosciuta proprio in quel periodo. Questa è una razza oggi completamente estinta, ma che molti ritengono essere il vero

antenato dell’attuale Lizard; questa affermazione sembra sia stata confermata da un articolo ritrovato su una rivista denominata “The Illustrated London News”, risalente al 12 dicembre del 1846. In questo articolo si parlò anche del Lizard, che però venne considerato un canarino di “seconda categoria”, ossia di poco interesse. Nel 1871, al Crystal Palace di Londra, venne organizzata la prima grande mostra divulgativa del canarino Lizard, il quale prese a tutti gli effetti il posto del London Fancy; quest’ultimo venne pian piano abbandonato da tutti gli ornitofili e quindi si avviò al suo inarrestabile declino. Negli ultimi anni dell’Ottocento e primi del Novecento, nelle Contee del Lancashire e del Nottinghamshire si concentrarono le maggiori selezioni del canarino Lizard: fino al secondo decennio del Novecento, il Lizard rimase un po’ nell’ombra e la sua selezione restò circoscritta a quelle

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poche Contee inglesi. Il primo grande conflitto mondiale costrinse la maggioranza degli allevatori a cessare la loro attività, pertanto la sopravvivenza della razza restò sul “filo del rasoio” per alcuni anni; la totale estinzione fu molto vicina, ma fortunatamente quel periodo venne superato e con i pochi esemplari rimasti (si dice solo 30 coppie censite considerate “di accettabile tipicità”), gli allevatori fecero “resuscitare” la razza. Venne poi pubblicato un testo prezioso, il “Cage and aviary birds”, che con i tanti apprezzamenti espressi nei confronti dei “pionieri allevatori”, attirò una moltitudine di appassionati che contribuirono in modo considerevole all’allevamento del Lizard. Circa cinquanta appassionati ornicoltori si riunirono e fondarono l’associazione “L.C.A.” (Lizard Canary Association); da allora la società crebbe e attirò sempre più persone. Il canarino Lizard, da allora, divenne leggenda! Una piccola parte di questa affascinante storia è realmente documentata, pertanto non è da considerarsi soddisfatta la nostra curiosità di conoscere l’effettiva storia di questa razza, che resta quasi del tutto misteriosa. Che alla sua origine remota vi sia il Canarino selvatico non vi è dubbio... ma ibridato con una specie indigena? Quale specie? Quel che sia accaduto per innescare questo “paradosso della natura” è tutto ancora da scoprire. Il Lizard oggi è, tra le razze di canarini di forma e posizione lisci, una di quelle maggiormente allevate e apprezzate; l’alone di mistero che lo circonda è un ulteriore incentivo a renderlo sempre più conosciuto. Genetisti all’opera! Il canarino Lizard aspetta solo voi. Allevamento di Fossombrone http://ornitologia.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

Animali da compagnia


Uno sguardo alla grappa Un’eccellenza italiana che nasce dallo “scarto” del vino di

Paola Soldi

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Perché un distillato di vinaccia possa chiamarsi “grappa”, deve avere un minimo di tenore alcolico pari al 37,5% vol. Non c’è un limite superiore e si trovano grappe superbe anche a 50, 60 e 70 gradi alcolici. Inoltre, è previsto che il tenore massimo di metanolo nella grappa possa essere di mille grammi per ettolitro di alcol a 100% vol.; che non possa uscire dall’alambicco sopra 86%

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vol. e che debba avere un tenore di sostanze volatili pari o superiore a 140 grammi per ettolitro di alcol a 100 % vol. Questi tre limiti indicano che il distillatore non può estrarre al-

col puro dall’apparecchio, ma deve rimanere sotto 86% vol.; che il prodotto può avere un po’ di metanolo e che deve mantenere nella massa distillata le sostanze volatili che caratterizzano l’esperienza sensoriale nella degustazione di un distillato, fatta di analisi visiva, olfattiva e gustativa. Quando portiamo il bicchiere al naso, sentiamo un’esplosione di profumi che invade i nostri organi sensoriali e quando la assaporiamo e deglutiamo ci colpiscono altre sensazioni aromatiche. Questi profumi ed aromi non sono dati dall’alcol etilico, che in purezza è poco odoroso, ma piuttosto, dalle “parti volatili”, molecole che si trovano in tracce e che il nostro bulbo olfattivo è in grado di

percepire in parti per milione. Ancora oggi le distillerie italiane lavorano con strumenti che non hanno nulla a che vedere con i distillatori degli altri Paesi, dove si parte da materie liquide. La vinaccia, invece, è solida, anche se viene estratta fresca e grondante dalla fermentazione del mosto e ha bisogno di particolari attenzioni. Per questo motivo, esistono le “caldaiette a vapore”, invenzione tutta italiana, e viene applicata la distillazione a “bagnomaria”.

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al 29 maggio 1989, data dell’approvazione del regolamento CEE n.1576, la parola “grappa” indica un’eccellenza 100% italiana: l’acquavite di vinaccia prodotta in Italia esclusivamente da vinacce nazionali. Un’appartenenza totale al nostro Paese ribadita, qualche anno più tardi, dalla stessa Unione Europea con il regolamento n.110 del 2000, che porta con sé un immenso patrimonio di cultura, storia, professionalità e passione per i distillati. La grappa affonda le sue radici nella cultura contadina essenziale, quando non si sprecava nulla e si recuperava anche lo scarto del vino fatto di bucce e vinaccioli, ossia la vinaccia. Questa è la materia prima per avviare l’arte distillatoria, che oggi, grazie alla professionalità e alle competenze acquisite negli anni, conta su impianti e apparecchi senza uguali nel resto del mondo. Con il passare degli anni la grappa si è evoluta, sia nella produzione sia nei consumi ed ha smesso di essere un prodotto tipico della civiltà rurale e tipicamente maschile; difatti anche le donne hanno iniziato a berla ed a produrla e con il tempo è diventato il distillato più apprezzato all’estero, con una forte esportazione della produzione nazionale.

La distillazione è un processo di concentrazione necessario per produrre una bevanda alcolica ad elevato tenore di alcol. Con qualche eccezione, i fermenti (Saccharomyces cerevisiae) non sopravvivono oltre 14-17 gradi alcolici ed è impensabile raggiungere gradazioni elevate con la sola fermentazione. La distillazione si basa sul riscaldamento della massa alcolica a bassa gradazione - la vinaccia ha circa 4-5 gradi alcolici - seguita da un successivo raffreddamento. Questo fa sì che il vapore, sprigionato al punto di ebollizione dell’alcol, ritorni liquido quando incontra l’acqua fredda del refrigerante, ma è concentrato. Il processo inizia fornendo calore e l’alcol, al momento in cui raggiunge la propria temperatura di ebollizione, inizia a evaporare trascinando con sé anche un po’ di acqua ma è più concentrato rispetto al liquido di partenza e, raffreddandosi, dà luogo a un liquido con una concentrazione alcolica superiore. Se questo processo viene ripetuto più volte, il liquido si concentra sempre di più, fino a ottenere una miscela di elevato

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tenore alcolico; la “purezza” ricercata dagli antichi alchimisti medievali e l’ ”essenza” rarefatta che si confondeva con l’aria raggiungendo la perfezione. Oggi non si distilla più con molte distillazioni successive, chiamate anche “cotte” - il medico medievale Michele Savonarola ne indicava 10 come numero perfetto - e si ricorre alle “colonne di distillazione”, al cui interno i vari piatti formano degli schermi simili a tante distillazioni successive. La grappa, però, non può essere un alcol in purezza e qui sta tutta l’esperienza, la bravura e la storia della distillazione alcolica italiana. La grappa, infatti, esce da una distillazione “imperfetta”, necessaria per mantenere nel distillato i profumi e la ricchezza sensoriale che si trova nella massa fermentata. Ecco allora che un po’ di “testa” - ossia gli scarti dove si trovano i profumi più volatili - si unisce con la “coda” - gli scarti dove si mescolano alcoli a lunga catena, aggressivi e narcoti-

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ci, ma anche oli e molecole odorose importanti.

La promozione di un assaggio e di un consumo consapevole di grappa e distillati, esaltandone aromi, profumi e produzione, conta dal 1978 su ANAG, l’Associazione Assaggiatori Grappa e Acquaviti, attiva e presente in diverse regioni e con numerose delegazioni provinciali per promuovere una “cultura del bere” dove qualità e tradizione si uniscono a competenza e diffusione di un prodotto considerato eccellenza nazionale.

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Tradizione e novità sono i due obiettivi principali dell’associazione, anche se apparentemente in antitesi: Anag, infatti, parte dalla tradizione e dalla professionalità, riconosciuta e consolidata, dei propri associati e delle proprie attività, fatte di corsi, degustazioni guidate e concorsi che da oltre trent’anni puntano a far conoscere la qualità dei distillati italiani, grappe e acquaviti; tutto ciò guardando al futuro e cercando di avvicinarsi sempre di più ai giovani. Per raggiungere questi obiettivi, l’associazione punta molto sulla promozione di una ‘cultura del bere’ corretta, stimolando un consumo consapevole dell’alcol, attento alla qualità piuttosto che alla quantità e puntando sulle nuove tecnologie di comunicazione.

Paola Soldi Presidente Federale Anag

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Caseificazione: il caglio Per tutti i casari, “casalinghi” e non, il caglio è un elemento essenziale per la produzione dei formaggi: vediamo cos’è e come autoprodurlo di

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Ermanno Bodeo e Vincenzo Giliberti a cura di Ermanno Bodeo

processo di caseificazione avviene grazie ad una serie di fenomeni di natura fisica e chimica di varia complessità; questa volta parliamo, del caglio, il “motore” di tale processo. Il caglio riesce a trasformare una sostanza liquida, il latte, in una sostanza solida, il formaggio ed il procedimento avviene grazie agli enzimi presenti in esso, che riescono a scindere le proteine, per la precisione caseine, in paracaseinato di calcio. Questa è la spiegazione scientifica di questo processo “magico”.

Il caglio: cos’è? Esistono diverse tipologie di caglio ed un’eventuale scelta di un tipo rispetto ad un altro, dipenderà sia in funzione del formaggio che vogliamo produrre, sia da quello che riusciamo a reperire nel luogo in cui ci troviamo. In Italia, da questo punto di vista siamo siamo molto fortunati, perchè possiamo trovare facilmente tutte le tipologie di caglio esistenti: quello di origine animale, vegetale e batterico. Il prodotto di derivazione animale consiste nell’estratto enzimatico del quarto stomaco delle specie ruminanti allo stadio di lattante e generalmente viene commercializzato sottoforma liquida, in pasta o in polvere. Il caglio liquido rappresenta quello più diffuso ed utilizzato e si ottiene tramite la macerazione delle pellette (abomaso, chiamato anche centopelli per la sua forma) in acqua addizionata di sale e di un tipo di conservante. Il sale ha la funzione di estrarre dalle pellette, per via osmotica, l’enzima. Quest’ultimo, una volta finito in acqua, attraverso una successiva filtrazione eseguita in maniera molto accurata, darà vita

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al caglio liquido. Il prodotto in pasta viene elaborato con le pellette di vitello, agnello e capretto lattanti, che vengono messe a maturare sotto sale per un paio di mesi ad una temperatura di 10°C e successivamente macinate. Il caglio in polvere non è nient’ altro che il caglio in pasta di vitello depurato, essiccato e grattugiato. Il caglio di origine microbica si ottiene a partire da ceppi fungini e muffe, sviluppati in laboratorio, che molto spesso subiscono delle modifiche dal punto di vista genetico. Queste tipologie di prodotto si possono acquistare in farmacia, in qualche caseificio (nel caso la struttura sia disposta a venderne un po’) oppure su internet. Per quanto riguarda la descrizione del caglio vegetale, prodotto che risulta reperibile in natura, cedo la parola a Vincenzo Giliberti, grande appassionato dell’arte casearia, il quale vi fornirà le nozioni necessarie per ottenerlo.

Il caglio del “campo” a cura di Vincenzo Giliberti Il caglio risulta presente nell’ABC caseario fin dalla preistoria. In questa occasione ho il piacere di illustrarvi le varie fasi della produzione artigianale del caglio di origine vegetale. Nel settore caseario, dato che il mercato lo richiede, sta prendendo sempre più piede l’impiego di cagli di origine vegetale e, nello specifico, di quelli di cardo e di fico. Esistono caseifici che producono esclusivamente prodotti caseari tramite l’utilizzo di caglio vegetale, dalla mozzarella ai pecorini, allo stracchino ai formaggi da grattugia. Nonostante le vie convenzionali di

approvvigionamento, ancora oggi è possibile produrre caglio direttamente a casa nostra, con le nostre mani, ripetendo un processo semplice tramandato nella storia. Il caglio di fico viene estratto nei periodi primaverili (da Marzo a Maggio), nel momento in cui le piante sono in fase di accestimento e fioritura e di conseguenza ricche di latticello bianco. Basterà recarsi all’aperto, trovare una pianta di fico, raccogliere qualche rametto giovane con tutta la foglia e tornare a casa, dove effettueremo l’estrazione. Come prima cosa dobbiamo provvedere al lavaggio dei rametti ed alla creazione di bastoncini lunghi circa 10 centimetri, sui quali praticheremo un’incisione a croce. In seguito, posizioneremo questi ultimi in infusione in acqua naturale (di bottiglia), riscaldata a 30-35 gradi, per un tempo di 5-6 ore. Oltre a mettere in infusione i rametti, nello stesso recipiente lasceremo a sgocciolare anche le giovani foglie di fico, che perderanno qualche goccia di latticello. Il quantitativo di acqua per estrarre caglio da 5 rametti lunghi circa 10 centimetri e da una decina di foglie, secondo quanto sperimentato personalmente, è di 25 ml.

Cardo selvatico

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Durante la fase successiva, una volta eliminate le foglie gireremo i rametti, che dopo essere stati incisi con un taglio a croce anche sull’altra estremità, verranno messi in infusione nello stesso liquido per altre 5/6 ore. In seguito procederemo al recupero di questi ultimi, che una volta divisi in due parti, subiranno un’ulteriore incisione ed un altro passaggio in infusione per altre 5/6 ore. Con il passare del tempo, noteremo che il colore dell’acqua diventerà sempre più scuro, assumendo la classica tonalità brunastra tipica del caglio. A questo punto sarà nostro compito eliminare i rametti e filtrare il liquido ottenuto, che conserveremo in una bottiglietta all’interno del frigorifero, lontano da fonti luminose e fonti di calore. L’estrazione del caglio di cardo invece viene effettuata nel periodo che intercorre tra Giugno e Settembre, generalmente quando le piante presentano un elevato grado di maturazione. Come prima cosa, sulla pianta di cardo, dovremo effettuare il prelievo della testa rotonda nel mo-

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mento in cui quest’ultima assumerà un colore molto forte e vivace (generalmente viola o fucsia) e quando lo stelo raggiungerà una lunghezza di almeno 25 cm. Ne raccoglieremo abbastanza, in quanto successivamente, per la fase di estrazione del caglio, utilizzeremo delle piccole porzioni. Una volta ultimata la raccolta, legheremo insieme 5/6 teste di cardo, tramite uno spago che applicheremo dalla parte del gambo in maniera da creare un mazzetto. Quest’ultimo dovrà essere posizionato a testa in giù in un luogo fresco, asciutto e privo di fonti luminose, per un periodo di circa 20-25 giorni. Successivamente, facendo molta attenzione per le nostre mani, dovremo prelevare dalle teste dei cardi ormai secche, gli stami ed i pistilli, che adageremo all’interno di una ciotola. Il contenuto della ciotola dovrà essere pesato, con lo scopo di calcolare il quantitativo d’acqua necessario per la fase di estrazione (generalmente viene effettuata con rapporto di 1 parte di stami e 5 di acqua). In seguito, riscalderemo dell’acqua naturale (di bottiglia) ad una tem-

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peratura pari a 42-44 gradi e la verseremo sugli stami e sui pistilli, che avremo cura di schiacciare tramite pressione manuale. In seguito copriremo la ciotola con un piatto e la riporremo in un luogo buio e fresco per 24 ore, dove strizzeremo manualmente gli stami, al fine di eliminarli definitivamente. L’acqua avrà sicuramente assunto un colore brunastro molto acceso. A questo punto filtreremo il liquido, che verrà poi riposto a conservato in frigo, lontano da fonti di calore e fonti luminose. Et voilà, con alcune semplici operazioni riusciremo ad ottenere caglio vegetale da utilizzare per produrre i nostri formaggi casalinghi.

Ermanno Bodeo Casaro

Vincenzo Giliberti Appassionato casaro casalingo

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La fermentazione malolattica di

Marco Sollazzo

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a fermentazione malolattica è un processo biochimico, nel corso del quale, ad opera dei batteri lattici, avviene la conversione dell’acido malico in acido lattico. Questa trasformazione aiuta al processo di ammorbidimento naturale del vino, poichè l’acido lattico ha un sapore più morbido dell’acido malico, il quale risulta invece più aspro e pungente. Tale processo risulta ampiamente desiderato dai produttori, soprattutto per quanto riguarda i vini rossi, in quanto al termine della fermentazione alcolica il vino risulta molto astrigente, aggressivo e poco bevibile nel breve periodo (fig. 1).

di trasformazione dell’acido malico in acido lattico. Durante il processo di vinificazione in bianco, questa conversione non è solitamente desiderata perché Fig. 1 - Vignetta che focalizza l’attenzione sul vino generalmente si prima e dopo la malolattica (fonte Civiltadelbere.com) preferisce con un tono più fresco e meno morbido. Nonostante la pre- sempre la suddetta fermentazione senza di molti consumatori tradizio- prende avvio nel momento effettinalisti di vino bianco, alcuni appas- vamente desiderato. Inoltre i batteri sionati sono alla ricerca di nuove lattici lavorano meglio quando: esperienze gusto olfattive. Questo - l’Anidiride Solforosa presente nel aspetto ha comportato un’ulteriore vino non è eccessivamente alta; evoluzione delle moderne aziende - la temperatura non è troppo bassa, In correlazione alla diminuzione vitivinicole, che hanno risposto alla (al di sotto dei 18°C si possono avedell’acido malico si osserva anche richiesta del consumatore attraverso re dei rallentamenti); una disacidificazione biologica: si la realizzazione di alcune tipologie di - il pH del vino risulta superiore al verifica un’innalzamento del pH (au- vino bianco con fermentazione ma- 3,3. Qualora si vengano a mento di 0,1 – 0,2) ed creare difficoltà relatiuna diminuzione dell’avamente all’inizio della cidità totale, parametri fermentazione malolattiche portano a rendeca, si può ricorrere all’uso di re il vino più gradevole. batteri lattici selezionati che Durante la degradazione vengono aggiunti direttamendell’acido malico in acido lattico te nel vino. Sebbene l’impiego avviene anche la produzione di batteri selezionati costituisca di C02 e la produzione di alpratica raccomandabile per evitri composti secondari, tra i tare gli inconvenienti legati alla quali l’acido acetico. L’anidride possibile elevata formazione carbonica prodotta può apportare, di acido acetico da parte dei per un periodo più o meno lungo, batteri presenti origiuna sensazione di efferFig.2 - Cambiamenti gustativi con la conversione dell’acido nariamente dell’uva, vescenza, frizzantezza malico in acido lattico (fonte Garyandwine.com) ricordiamo che tale nel vino, molte volte non desiderata. La quantità e la qualità lolattica. Il prodotto che si ottiene ap- approccio risulta oneroso e poco dei composti secondari deriva prin- pare di sapore più rotondo, vellutato applicabile nell’ambito delle piccole cipalmente dalla tipologia di batteri ed in genere il tipo di accostamento realtà di cantina. responsabili della suddetta trasfor- consigliato è legato a piatti ricchi, Dr. Marco Sollazzo mazione. elaborati e più sapidi (fig. 2). I batteri lattici “omofermentati” (del Laureato in Viticoltura ed enologia genere Leuconostoc) sono quelli Lo svolgimento della fermentazione che lavorano più propriamente, ridu- malolattica richiede la presenza di sollazzo.marco@ hotmail.it cendo la presenza di composti se- una sufficiente popolazione di batcondari ed aumentando l’efficienza teri lattici nel vino, tale per cui non

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La Pappa Reale Benefici ed usi di questo magnifico prodotto delle api di

Alessandra Bruni

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a Pappa Reale è il prodotto della secrezione delle ghiandole ipofaringee e mandibolari delle api operaie che si sviluppano dai 5 ai 14 giorni della fase adulta. E’ una sostanza totalmente di origine animale e costituisce l’unico alimento per le api regine e l’alimento di tutte le larve per i primi tre giorni di vita. E’ questo nutrimento a far sì che la regina, nata da un uovo identico a quello di un’ape operaia, diventi in meno giorni due volte più grossa, più pesante e più longeva, con un allungamento della vita 20 volte superiore. Ha un aspetto gelatinoso di colore bianco-grigiastro ed un sapore acido e acre. Il pH è compreso tra 3,7 e 5 ed è solubile solo parzialmente in acqua.

tutto l’organismo esercitando una sensazione di benessere, maggior fiducia in sé, maggior resistenza alla stanchezza ed al freddo.

Ha inoltre effetti su: • l’aumento dell’appetito ed efficacia anche nei casi di obesità, • l’ulcera duodenale, • la pelle migliorandoLarva di Ape Regina immersa nella Pappa Reale ne l’elasticità, • l’attività neuro-psichica diminuendo Utilizzo l’emotività e migliorando l’umore, • la funzione sessuale migliorando Si trova in commercio fresca o liofilizzata: in granuli od in polvere. l’attività ovarica, Viene solitamente utilizzata come • l’anemia e le astenie, • la pressione arteriosa innalzandola condimento di insalate, in aggiunta a frullati, jogurt oppure in bevande per chi soffre di pressione bassa, Proprietà fredde o dessert. • le coronaropatie e miocardiopatie. La pappa reale ha effetti positivi su E’ in fase di studio anche la sua azio- E’ importante non riscaldare la pappa reale perché il calore distrugne sul cancro. Nella Pappa Reale è inoltre gerebbe gli enzimi, le vitamine ed presente una proteina re- alcune proteine a scapito delle prosponsabile del cambiamento prietà nutrizionali. L’assunzione viefenotipico della larva: la roia- ne consigliata a digiuno e per via lactina. Questa determina lo sublinguale (evitando parzialmente sviluppo delle ovaie, un ac- il trauma della digestione) con dosi crescimento maggiore dell’a- intorno ai 500 mg quando è fresca pe regina ed uno sviluppo e circa 160 mg liofilizzata. Normalinferiore dell’ape operaia (Ka- mente viene ingerita per 20-30 giorni; il consumo viene poi ripreso a dimamura, 2011). E’ presente anche l’acetilco- stanza di qualche mese o quando si lina, un neurotrasmettitore, riscontra la necessità. vasodilatatore ed antibiotico. Può essere ingerita anche stempeLe api producono questa so- rata in un cucchiaino di miele, prefestanza digerendo ed usando ribilmente al mattino, un quarto d’ora i microorganismi presenti nel prima della colazione; è sconsigliato nettare, melata e polline, ri- assumerla di sera in quanto può decavando cefalina e colina; terminare una leggera insonnia doproducono poi un enzima, l’a- vuta all’euforia che spesso procura. cetil-coenzima A, con il quale Conservazione trasformano la colina in acetilcolina. La Pappa Reale è Dato il suo elevato contenuto in acl’unico alimento contenente qua e la sua composizione chimica Pappa Reale fresca ricca di sostanze biologicamente acetilcolina.

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attive, la sua conservazione non è troppo solido per non rendere la mimolto semplice. In particolare teme scelazione difficile. In mancanza di la luce, l’ossidazione, l’attacco di muffe e l’invecchiamento. Può essere conservata: fresca, nel miele o liofilizzata. La Pappa Reale fresca si conserva bene per 10-12 mesi ad una temperatura tra 0 e 5 gradi, in recipienti opachi (o protetti dalla luce), ermetici e riempiti fino all’orlo. Evitare contenitori con tappo in metallo perché può essere Pappa Reale liofilizzata in compresse intaccato. Nel miele si conserva assai bene a questo si può amalgamare del miele patto che questo sia maturo e che liquido con del miele solido fino ad non possa fermentare nemmeno ottenere una pasta di media consicon l’aggiunta dell’acqua contenuta stenza. nella Pappa Reale. Liofilizzata si presenta come una Le dosi consigliate sono di 3 gr di polvere e viene ottenuta dal prodotto Pappa Reale ogni 100 gr di miele, disidratato attraverso la sublimazioin modo tale che durante l’assunzio- ne dell’acqua, il tutto eseguito sotne si assimili una dose di circa 250 to vuoto ed a basse temperature. mg di Pappa Reale. L’ideale sareb- Con questa tipologia è necessario be miscelare la Pappa Reale con un l’aggiunta di un’opportuna dose di miele cremoso; non troppo liquido acqua distillata per rigenerare il proin maniera che la Pappa Reale non dotto di partenza. La liofilizzazione salga in superficie ossidandosi, né è una tecnica riservata ai laboratori

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specializzati ed alle industrie e permette di conservare il prodotto a lungo e senza problemi; tuttavia la “brutalità” del processo apporta seri danni al valore biologico. Dato che la Pappa Reale, come il miele, può contenere tracce di polline di varie specie erbacee e/o arboree, per le persone sensibili o allergiche è consigliato rivolgersi al proprio medico o allergoloco prima di iniziare l’assunzione. Sitografia: Atlante di Apicoltura: www.agraria.org www.organicfacts.net www.mieliditalia.it www.apiterapia.it www.erbeerimedinaturali.com www.yogajournal.it Bibliografia: A. Contessi (2010): Le api. Biologia, allevamento, prodotti. Edagricole M. Kamamura (2011): Royalactin induces queen differentiation in honeybees. Nature 473, 478–483

Dott.ssa Alessandra Bruni Laureata in Scienze e Tecn. Agrarie

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Riutilizzare il pane secco Da rifiuto a preziosa risorsa in cucina di

Fabrizio Rinaldi

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econdo una recente indagine condotta da Coldiretti, più di quattro italiani su dieci mangiano il pane raffermo. L’abitudine di non buttare il pane “vecchio” è in crescita, a causa soprattutto della crisi economica, tanto che nel 2013 si è segnato il record nell’abbattimento degli sprechi alimentari. In Toscana, come nelle altre regioni d’Italia, è sempre stata abitudine comune il “riuso” del cibo. Il “principe” di tale pratica era, ed è tutt’ora, il pane toscano: senza sale, buonissimo appena fatto, con la crosta spessa e croccante e la midolla asciutta e morbida, dai grandi fori, non soggetta a muffe durante l’essiccazione. Quando diventa troppo duro per essere mangiato, il pane deve essere tagliato a fette sottili e conservato in un luogo asciutto dentro un sacchetto di carta o stoffa; è a questo punto che inizia la sua seconda vita. Il pane raffermo può essere utilizzato per la preparazione di “panzanella”, “ribollita”, “minestrone di verdura e cavolo nero”, “fette col cavolo” (nero appunto), “pan cotto” e “zuppa di pane”, antenata della famosissima “pappa al pomodoro”; questa già decantata nel Gian Burrasca interpretato da Rita Pavone e riportata alla ribalta con la cena offerta dal Presidente del Consiglio Renzi alla cancelliera Merkel. Ecco

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due facili ricette per riutilizzare in cucina il pane avanzato: una per l’estate (la panzanella) e una per le altre stagioni (la pappa al pomodoro).

Panzanella La panzanella è una tipica pietanza estiva. Mettere a bagno per qualche minuto le fette di pane raffermo in

Pappa al pomodoro una zuppiera con acqua fredda e due cucchiai di aceto; strizzarlo e sbriciolarlo in una zuppiera, aggiungendovi poi i pomodori, la cipolla e i cetrioli tagliati a pezzetti, il sale e il pepe. Spruzzare il tutto con aceto e per ultimo aggiungere dell’olio extravergine di oliva toscano. Mescolare il tutto molto bene, coprire e conservare in frigorifero. Ricordarsi di levare la panzanella dal frigorifero un po’ prima di consumarla, in modo da farla tornare a temperatura ambiente ed aggiungere il basilico

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prima di servire.

Pappa al pomodoro Anche la pappa al pomodoro è un piatto “povero” della cucina toscana. L’origine contadina è testimoniata dai suoi ingredienti: pane toscano raffermo, passata di pomodori, 1-2 spicchi d’aglio, basilico, olio extravergine di oliva toscano, sale e pepe. Mettere 400 grammi di fette di pane secco, precedentemente strofinate con spicchi di aglio sbucciati, in una pentola con i bordi alti. Versare sulle fette 800 grammi di passata di pomodoro; quindi aggiungere l’olio. Versare sul preparato due bicchieri di brodo e cuocere a fuoco basso per circa mezz’ora, mescolando di tanto in tanto. A cottura ultimata, aggiungere il sale e le foglie di basilico tagliate a pezzetti. Servire la pappa con abbondante olio extravergine di oliva toscano. Come accade spesso con i piatti semplici, anche la pappa al pomodoro ha subito delle piccole varianti; per esempio, l’aggiunta di un soffritto di cipolle o porri oppure di cipolle, carote e sedano. Fabrizio Rinaldi Artigiano della pasta fresca

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Le alici: dalla pesca alla colatura di

Lapo Nannucci

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’acciuga o alice (Engraulis encrasicolus, LINNAEUS, 1758), è un pesce osseo marino appartenente alla famiglia Engraulidae, che vive in acque saline o salmastre ed è diffuso nell’Oceano Atlantico orientale nel mar Mediterraneo, nel Mar Nero e nel Mare di Azov. Si tratta di una specie pelagica dalle abitudini gregarie, che vive in grossi banchi e compie importanti migrazioni spingendosi in zone molto lontane dalla costa ed avvicinandosi alla terraferma durante la fase riproduttiva, che ha luogo nel periodo compreso

Cassetta di alici appena pescate tra il mese di aprile ed il mese di novembre. Questa specie, che appartiene alla categoria del pesce azzurro, possiede carni molto gustose e nutrien-

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ti, ricche di acidi grassi della serie Omega 3 (efficienti nella prevenzione delle patologie cardiovascolari e tumorali) e caratterizzate da un buon quantitativo di proteine e da interessanti livelli di riboflavina, niacina, calcio, ferro, fosforo e selenio.

La pesca Rappresenta un’attività molto importante, che risulta fin dai tempi antichi fortemente radicata nella tradizione dei popoli mediterranei. Nei nostri mari viene generalmente praticata tramite due tecniche di prelievo: quella a volante e quella a circuizione o lampara. Il sistema a volante rientra tra quelli definiti attivi, in quanto il pesce viene catturato attraverso il movimento della rete, che in questo caso specifico viene trainata dal natante. Si tratta di un’attività molto regolamentata, che risulta vietata entro una distanza pari a 3 miglia dalla costa o nelle zone di mare caratterizzate da fondali di profondità inferiore a 50 m. La tecnica a cianciolo o lampara, nonostante le evoluzioni tecnologiche acquisite nel corso degli anni relativamente alle tipologie di imbarcazioni, alle strumentazioni di bordo ed agli attrezzi da pesca, racchiude in sé l’essenza della pesca tradizionale, risultando tutt’oggi molto affascinante e suggestiva. Si tratta di un’attività di pesca selettiva che si svolge in orario notturno e che si basa sull’attrazione in superficie dei banchi di pesce tramite la luce; questa viene prodotta da una lampada installata a poppa di alcune imbarcazioni ausiliarie, calate sulla zona di pesca da parte del natante principale.

L’azione vera e propria di cattura viene condotta da parte del natante principale, generalmente di dimensioni medio-grandi, che cala una rete effettuando una manovra atta a circuire il banco di pesce attirato in superficie dalle luci. La pesca con la lampara viene regolamentata da una serie di normative che in Mediterraneo vietano le operazioni entro una distanza di 300 metri dalla costa o all’interno dell’isobata di 50 m, nel caso in cui tale profondità venga raggiunta ad una distanza inferiore dalla terraferma. Questa attività di pesca viene praticata più o meno ovunque nei nostri mari; tuttavia esistono alcuni luoghi, come la costiera amalfitana e nello specifico la città di Cetara (SA), nei quali la pesca delle alici con la lampara riveste un ruolo da protagoniMomento della pesca con lampara

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sta, tramandato da generazioni.

La colatura di alici La “colatura” di alici è una salsa liquida dal colore ambrato, che viene prodotta tramite un tradizionale procedimento di maturazione delle acciughe in una soluzione di acqua e sale. Questo prodotto ha radici storiche lontanissime, tant’è che si ritiene derivi direttamente dal “garum”, una salsa liquida prodotta con interiora di pesce e pesce salato, dal sapore molto forte, che gli antichi Romani utilizzavano come condimento dei cibi. La ricetta originale, secondo alcune correnti di pensiero, venne recuperata e rivista da parte di alcuni monaci di un’abbazia della zona di Amalfi, che usavano salare le alici pescate tra maggio ed agosto all’interno di vecchie botti usurate dal tempo, che non apparivano idonee a contenere il vino. Man mano che l’azione del sale faceva maturare le alici, queste ultime perdevano liquidi, che percolando attraverso le fessure delle botti emanavano un aroma particolare. I monaci quindi, invogliati dal profumo che invadeva i locali di conservazione, pensarono di raccogliere i suddetti liquidi, al fine di utilizzarli per il condimento delle verdure. La colatura, ed il relativo metodo di produzione, si diffusero piuttosto rapidamente tra le famiglie di pescatori della zona, diventando una vera e propria icona della cultura marinara locale.

Il metodo di produzione tradizionale Il metodo di preparazione della colatura, nel corso del tempo si è tramandato di generazione in generazione ed è rimasto fortemente ancorato alla tradizione cetarese, tant’è che, con il passare degli anni, nei pressi della città di Cetara (SA), sono nate alcune imprese artigianali specializzate nella preparazione di questo particolare prodotto. Le alici vengono pescate nelle acque del Golfo di Salerno e del Golfo di Napoli con il sistema a cianciolo o lampara e, successivamente allo sbarco, dopo essere state decapitate ed eviscerate, vengono avviate al processo di salagione; questo viene effettuato all’interno di appositi

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contenitori, alternando strati di alici e strati di sale marino. Al termine di questa fase, il contenitore viene coperto con un disco, generalmente in teflon, sul quale vengono posizionati alcuni pesi, in funzione del quantitativo di pesce presente all’interno. Per effetto della pressatura e della maturazione, il liquido, che costituisce la base della

Colatura di alici cetarese colatura, affiora in superficie e viene via via raccolto e travasato in alcune bottiglie di vetro. Mentre la maturazione delle alici procede all’interno di locali freschi ed aerati, ad una temperatura compresa tra 18 e 20°C e per un periodo di circa 4-5 mesi, il liquido precedentemente raccolto nelle bottiglie viene esposto alla luce del sole, in maniera da far evaporare l’acqua e di conseguenza aumentarne la concentrazione. Al termine del processo di maturazione, i contenitori vengono svuotati ed il liquido viene versato all’interno di questi ultimi, in maniera da acquisire ulteriori proprietà organolettiche. Successivamente, la colatura grezza viene recuperata e dopo essere stata trasferita in un altro recipiente, subisce un processo di filtrazione, al fine di renderla limpida.

La tradizione “moderna” La colatura di alici, contrariamente

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a quanto avveniva in tempi lontani, oggigiorno non viene prodotta all’interno di locali casalinghi o cantine, bensì in apposite strutture attrezzate; il prodotto viene accuratamente controllato lungo tutte le fasi della filiera, al fine di garantire un elevato livello di sicurezza dal punto di vista igienico sanitario, in linea con le normative di riferimento. Lo stabilimento “tipo” per la produzione della colatura, generalmente appare suddiviso in due ambienti: uno per la lavorazione ed un altro per la maturazione delle alici, dove la temperatura non deve mai superare i 25°C. Al fine di rendere efficienti le operazioni di sanificazione degli ambienti di lavoro, le pareti ed i pavimenti vengono rivestiti di piastrelle facilmente lavabili e gli angoli risultano di forma arrotondata. Inoltre, per evitare l’entrata di insetti ed altri animali indesiderati, le aperture vengono dotate di apposite barriere. I tavoli e le vasche per la lavorazione sono costruiti in acciaio inox, i fusti per contenere le alici salate sono generalmente in materiale plastico per alimenti ed i coperchi sono generalmente in teflon. La colatura, nonostante il progresso tecnologico, rimane ancora fortemente collegata ad aspetti tradizionali della cultura marinara cetarese, mantenendo un gusto inconfondibile che si è tramandato fino ai giorni nostri. Questo particolare prodotto, utilizzato per insaporire primi piatti e verdure, nella città di Cetara viene impiegato per il condire gli spaghetti che per tradizione si consumano durante la cena della vigilia di Natale. Sitografia www.it.wikipedia.org/wiki/Engraulis www.lucianopignataro.it Bibliografia Tecnologia di produzione, sicurezza alimentare e analisi sul campo tra i produttori Angelo Citro, Raffaella Mercogliano e Michela Panzardi Massimo D’Antonio e Giovanni Bruno

Dr. Agronomo Lapo Nannucci lapo.nannucci@ gmail.com

Agroalimentare italiano


Gli Arboreti Sperimentali di Vallombrosa Magnifiche collezioni di piante arboree, tutte da visitare di

Cristina Gasperini e Luca Poli

U ve.

n arboreto si può definire come una “collezione vivente” di piante, arboree ed arbusti-

Ambiente, foreste e natura

Ambiente, foreste e natura

Quelli di Vallombrosa, in provincia di Firenze, sono sostanzialmente l’unico esempio di arboreto in Italia interamente dedicato agli alberi e nato per scopi scientifici e sperimentali. Gli Arboreti Sperimentali sono compresi nella Foresta demaniale di Vallombrosa, in prossimità della storica abbazia fondata nel 1016 dal monaco benedettino San Giovanni Gualberto. Sono stati creati nel 1870, con un primo esiguo gruppo di circa 200 alberi, con l’obiettivo di osservare le caratteristiche botaniche ed ecologiche di piante provenienti da tutte le parti del mondo; lo scopo era quello di aiutare gli studenti di Scienze Forestali (la cui prima scuola nasce proprio a Vallombrosa) nel percorso didattico e formativo. Un’ulteriore importante funzione era quella di osservarne l’adattamento e lo sviluppo nei nostri ambienti, per un eventuale utilizzo a scopo forestale (rimboschimenti, produzione di legno ecc.) ed ornamentale.

Gli Arboreti, che si estendono su Altro esemplare degno di nota è una superficie di circa 10 ha, sono il Cedro della California o Cedro suddivisi in varie sezioni intitolate ad dell’incenso, magnifico albero che illustri botanici e forestali: ad esem- può raggiungere più di 3 m di diapio Carlo Siemoni, metro! soprintendente forestale del Granduca Negli Arboreti troviamo soprattutto Leopoldo II di Lore- piante dell’emisfero boreale. Numena o ai vari curatori rose sono le specie giapponesi, tra Di Berenger, Pero- le quali Cryptomeria Japonica: imna, Pavari Allegri portante specie forestale nel paese ecc. di origine e dal forte significato simSi trovano su un bolico, essendo ritenuto un albero suolo siliceo, a ca- sacro. vallo della fascia del Troviamo anche numerose altre Castagneto e del- piante asiatiche o americane e non la Faggeta, ad un’altitudine di circa 950 m s.l.m. in un’area dal clima fresco ed umido che permette la coltivazione di una notevole varietà di specie. La loro posizione è favorevole dal punto di vista topografico perché in pendio, cosicché, a differenza di altri arboreti, gli alberi possono essere ben osservati non solo dalla base ma anche a distanza. La collezione comprende circa 1800 piante d’alto fusto che racchiudono 656 unità intese come specie, sottospecie e cultivar: la maggior parte sono latifoglie, anche se sono le conifere ad avere il maggior impatto visivo. Tra gli alberi monumentali, non tanto per l’età quanto più per le loro dimensioni, si ricordano una gigantesca Thuya plicata appena varcato l’ingresso, un Pinus lambertiana di oltre 40 m di altezza, alcune giganteschi abeti di Douglas, Calocedrus decurrens - Negli Stati Uniti il due bellissime sequoie: Sequoia suo legno tenero e facile da temperare è sempervirens e Sequoiadendron uno dei principali materiali utilizzati per la giganteum. produzione delle matite

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Le visite guidate curate dall’Associazione di Agraria.org e dal Corpo Forestale dello Stato mancano le specie della nostra flora: Aceri, Tigli, Carpini, Olmi, Pioppi, Querce, Abeti, Pini e moltissimi altre, oltre che a boschetti puri di Douglasia, Chamaecyparis e Thuya. Ci sono vari esemplari dalle forme

curiose come il cosiddetto Serpente (una Cryptomerya japonica var. elegans con portamento strisciante), il mappamondo (sempre una Cryptomeria ma dalla forma perfettamente sferica) o il Mostro (un Abies alba var. pendula completamente contorto). Ci sono anche vari esempi curiosi di innesti come Fagus selvatica var. Asplenifolia o Carpinus betulus var. Incisa che presentano dimorfismo fogliare, ossia foglie dalla forma diversa presenti sulla stessa pianta. L’enorme quantità di specie, varietà e forme assunte dalle piante in diverse condizioni ambientali e qui visibili in quantità e spesso le une accanto alle altre, ci dimostra la grande variabilità del mondo naturale e soprattutto la straordinaria capacità di adattamento propria delle specie vegetali che hanno elaborato nel tempo numerosissime strategie di sopravvivenza, essendo ben consapevoli che questa La magnifica Abbazia di Vallombrosa è estremamente legata al concetto di diversità.

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Nel tempo, visto il ritorno di interesse per il mondo naturale, gli Arboreti hanno assunto soprattutto un’importanza didattica nei confronti delle numerose persone che ogni anno visitano la Riserva Biogenetica di Vallombrosa. Per questo motivo, nell’estate 2014, l’Associazione di Agraria.org insieme con l’Università di Firenze e con il Corpo Forestale UTB di Vallombrosa, che attualmente gestisce l’arboreto, ha promosso un progetto per facilitarne la fruizione e la valorizzazione, in modo del tutto gratuito per i visitatori. La sua realizzazione ha visto il coinvolgimento degli studenti forestali dell’Università di Firenze che hanno dato la loro disponibilità come guide volontarie, oltreché svolgere un’attività di studio ed approfondimento sul campo. L’attività di guida e presentazione degli Arboreti è stata e sarà inoltre per tutti gli studenti un’ulteriore occasione per mettere in pratica ed assodare le conoscenze acquisite durante gli studi. Vi aspettiamo a Vallombrosa, a partire dalla primavera 2015, per scoprire l’immenso e unico patrimonio degli Arboreti!

Come arrivare Da Firenze prendere la SS 67, poi la strada aretina SR 69; In loc. Sant’Ellero imboccare la SP 88, continuare sulla SP 86 ed in loc. Tosi immettersi sulla SP 85 Vallombrosana. Informazioni e visite: - Corpo forestale dello stato: • e.betti@corpoforestale.it • v.papi@corpoforestale.it - associazione@agraria.org Pagina Facebook: digita: Arboreti Vallombrosa Dott.ssa Cristina Gasperini

Laureata in Scienze Forestali eusoucristina@ yahoo.com

Dott. Luca Poli

Laureato in Scienze Forestali luca9008@ hotmail.it

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La Borragine Una pianta spontanea dai mille usi di

Nino Bertozzi

L

a Borragine (Borago officinalis) viene chiamata, nelle diverse regioni italiane, con nomi diversi: Burraxa (Liguria), Burascena (Lombardia), Napatara (Umbria), Vorragine (Campania), Burraina (Calabria), Vurraina (Sicilia), Limboina (Sardegna).

Descrizione della specie La borragine è una pianta erbacea, annuale, della famiglia delle Borraginaceae. La pianta è originaria del Medio Oriente; dalla Siria si sarebbe diffusa in Spagna e da lì in tutta l’area mediterranea. In Italia è presente in tutte le regioni fino agli 800 metri di quota. È particolarmente diffusa sulle coste della Toscana e delle Marche, mentre nel resto dell’Italia è presente ma non abbondante. Cresce rigogliosa dove il clima è mite, negli incolti, nelle zone con sassi e ghiaia, lungo le scarpate e nei terreni pietrosi. E’ pianta rustica, selvatica, che si diffonde facilmente nell’orto se tro-

va un terreno ed una esposizione adatte, senza fatica, anzi, senza che lo si voglia. Quindi non solo coltivare la borragine è facile, ma occorre far attenzione perché si diffonde rapidamente e può diventare un’infestante. Recentemente questa pianta è stata “riscoperta” e la sua coltivazione sta prendendo sempre più piede, in primo luogo per le sue qualità officinali. C’è, infatti, un grande interesse per l’olio estratto dai suoi semi perché contiene acido linoleico che ha molteplici utilizzi sia nutrizionali, sia cosmetici, sia medicinali. Si moltiplica facilmente per seme scegliendo in primavera un luogo assolato, magari ai margini dell’orto. Si semina in primavera e si raccolgono foglie e fiori in maggio/giugno. E’ possibile coltivarla anche in vaso in un contenitore capiente, con un drenaggio molto curato. Della borragine si utilizzano soprattutto le foglie, sia per la preparazione di alcune ricette sia in erboristeria e fitoterapia; i fiori, oltre che in cucina, sono molto apprezzati per l’apicoltura, in quanto contengono molto nettare.

Proprietà La borragine ha numerose proprietà officinali: è ricca di minerali importanti come

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calcio e potassio, contiene tannini e soprattutto acidi grassi, fra i quali il principale è l’acido grasso Omega 6. E’ molto utile per mantenere giovane e integra la struttura cellulare della pelle e delle unghie e per mantenere in salute l’apparato cardiovascolare, eliminando da vene ed arterie il colesterolo cattivo. Nella pianta però sono presenti alcaloidi dannosi per il fegato e l’assunzione di grande quantità, con frequenza, può essere nociva. I fiori della borragine hanno proprietà sudorifere; le foglie hanno proprietà diuretiche e depuranti. I fitoestrogeni contenuti nella borragine stimolano nelle donne la produzione di latte materno. Grazie alle sue qualità antinfiammatorie, la borragine viene impiegata nella medicina popolare per la cura dei reumatismi e dell’artrite. Decotti ed infusi a base di borragine vengono impiegati per calmare la tosse e le infiammazioni dell’apparato respiratorio. Viene chiamata anche pianta del buonumore per la proprietà di agire sul sistema nervoso come blando calmante e di alleviare gli stati depressivi e di stress.

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Le foglie contengono molta mucillagine, che dà a questa erba anche caratteristiche lassative. L’olio ottenuto dai semi di borragine è la parte più utilizzata per scopo terapeutico, in quanto contiene la maggior parte dei principi attivi della pianta. Esso si ottiene dopo un lungo procedimento di spremitura a freddo dei semi; contiene diverse sostanze con proprietà antiossidanti che, oltre ad apportare diversi benefici alla pelle che curano e rivitalizzano, hanno la proprietà di riequilibrare il sistema ormonale femminile e stabilizzare la pressione sanguigna. Uso interno: Come emolliente, espettorante, sedativo della tosse si fa in infuso di sommità fiorite; 1,5 g in 100 ml di acqua. Tre o quattro tazzine al giorno. Come diuretico e depurativo si prepara un decotto di foglie: 2 g in 100 ml di acqua. Due o tre tazzine al giorno lontano dai pasti. Uso esterno: Per uso esterno, per curare le infiammazioni della pelle, si possono schiacciare alcune foglie di borragine ed applicarle sulla zona interes-

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sata. Sulla pelle arrossata e stanca si fa un infuso di borragine e si friziona sulla cute come impacco. Come emolliente, lenitivo, antipruriginoso, si prepara un infuso di fiori, foglie, parte aerea della pianta 5 g in 100 ml di acqua. Si fanno lavaggi, sciacqui boccali o si applicano compresse imbevute di infuso sulle parti interessate. L’olio di semi di borragine viene anche impiegato per la cura dell’acne, della psoriasi e dei problemi in generali legati all’epidermide. E’ necessario, per l’impiego di quest’olio, seguire le indicazioni dello specialista.

Uso in cucina Le foglie di borragine sono utilizzate in cucina in molte ricette tipiche, soprattutto nella tradizione ligure. Crude, hanno un gusto che ricorda quello del cetriolo; sono inserite in insalate o mescolate a formaggi freschi per insaporirli. Cotte, sono proposte come verdure di contorno, o ingredienti di zuppe e minestre. Sono molto gustose anche fritte oppure unite alle uova per un’insolita

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frittata. È importante non abbondare perché, consumate in grande quantità, le foglie di borragine possono provocare alcuni disturbi. Tra le ricette più apprezzate troviamo i ravioli con ripieno d borragine, le frittelle con le foglie passate in pastella e fritte, le frittate e la torta Pasqualina ligure, di cui sono uno degli ingredienti. In cucina si utilizzano anche i fiori, che hanno un fresco sapore che ricorda quello del cetriolo: si propongono nelle insalate, per guarnire piatti con il loro insolito colore azzurro, oppure sono usati per preparare canditi, grappe, tisane o colorare l’aceto. Se si mettono i fiori nell’acqua del contenitore per il ghiaccio, in freezer, si otterranno cubetti di ghiaccio molto decorativi per i cocktail.

Nino Bertozzi Appassionato orticoltore

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Il principe dei roditori: l’Istrice di

Roberto Corridoni

A

nimale dalle abitudini notturne, l’Istrice (Hystrix cristata) è, con i suoi 70 centimetri di lunghezza per un peso medio di 18 chilogrammi (anche 30 Kg in alcuni casi), il più grande roditore del continente europeo. Appartenente alla famiglia degli Istricidi, viene chiamato spesso con il nome comune di “porcospino” e, in alcune zone del centro Italia (tra Lazio e Toscana), con l’appellativo dialettale di “spinosa” per via dei lunghi aculei che ricoprono il corpo, dalla testa alla coda. Il suo areale, a causa dell‘abbandono di molti terreni impervi da parte dell’uomo, si sta allargando notevolmente, tanto che ad oggi l’istrice è presente in quasi tutto il territorio italiano al di sotto degli 800 metri di altitudine, fatta eccezione per la penisola salentina e per l’Isola d’Elba. In passato si riteneva che questa specie fosse stata introdotta in Italia dai Romani, ma alcuni fossili ritrovati su tutto il continente ne suggeriscono la presenza in Europa già dal Pleistocene. Durante le ore diurne vive prevalentemente tra i boschi in tane ricavate nelle spaccature delle rocce o in buche da lui stesso realizzate, scavando con le forti zampe provviste di unghie molto dure; ciononostante non disdegna le tane realizzate da altri animali, come ad esempio i tassi con cui spesso condivide il rifugio. All’interno di esse crea varie stanze dove, pur non andando in letargo, passa la maggior parte del tempo nelle fredde giornate invernali. Al calar del sole, tra la primavera, l’estate e l’autunno, l’istrice esce all’aperto in cerca di cibo: è un animale essenzialmente erbivoro e si nutre prevalentemente di bulbi e tuberi ma anche di cortecce, frutti caduti al suolo e, raramente, insetti.

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Ha una vera e propria passione per i grappoli di uva, di cui succhia gli acini e se si trova in prossimità di campi di patate o di mais non ha remore nel saccheggiarli, provocando ingenti danni e attirandosi così le antipatie dell’agricoltore di turno. Fuori della tana non è raro trovare residui di cibo e anche qualche osso che l’istrice, essendo un roditore, usa per limarsi i denti. Come quasi tutti gli animali notturni è dotata di un ottimo olfatto e una pessima vista. Dal carattere schivo e pacifico, l’istrice tende a scappare se spaventato, ma se viene messo alle strette drizza contemporaneamente gli aculei ed i peli della nuca, dando l’impressione di essere assai più grande e robusto di quanto in realtà non sia: la mobilità delle “spine” è data dai forti e ben sviluppati muscoli sottocutanei. Se la minaccia persiste l’istrice comincia a pestare rumorosamente i piedi sul terreno e ad agitare la coda a sonaglio munita di aculei caricando l’aggressore con esiti anche letali. Essendo gli aculei attaccati piuttosto blandamente alla radice, questi rimangono conficcati nella pelle di un eventuale aggressore, aumentando così l’entità del danno inflitto. L’aculeo ha, infatti, una struttura lievemente seghettata che ne rende difficile e dolorosa l’estrazione; questo in particolare per gli animali sprovvisti di pollice opponibile, tanto che spesso sono costretti a spezzare gli aculei conficcati nella pelle, col possibile rischio di infezioni. A causa di tale facilità nel perdere gli aculei, oltre al fatto che spesso questi cadono per essere rimpiazzati dai nuovi, è assai diffusa la credenza (priva di fondamento) che l’istrice sia in grado di lanciarli a distanza. Questi sono piuttosto corti a livello

della coda (in media 5 cm) ed aumentano di lunghezza sulla groppa dell’animale, raggiungendo addirittura i 40 cm. Il mantello di aculei, unico nel suo genere, oltre a incutere timore conferisce a chi lo possiede un aspetto goffo e pesante, anche perché il tronco dell’istrice poggia su arti robusti ma corti, con piedi larghi (nelle zampe anteriori il pollice è rudimentale). La testa è tozza con orecchie piccole e poco visibili perché ricoperte da setole, gli occhi sono relativamente grandi e molto mobili; Il pelo è setoloso e nerastro sul corpo, mentre la testa è di colore marroncino e sulla gola è presente una banda bianca a forma di mezzaluna. La sua andatura plantigrada può variare dal passo normale al trotto fino al galoppo a seconda della necessità: durante gli spostamenti sul territorio, che di solito conosce bene, l’istrice segue sempre gli stessi sentieri lungo i quali, in punti ben precisi, si possono osservare i suoi escrementi. Si conosce assai poco del comportamento sociale di questi animali, ma si sa per certo che tendono a vivere in gruppi poco numerosi, a volte sette od otto esemplari adulti che possono anche occupare la stessa tana. La specie forma coppie monogame e la femmina tollera la presenza del proprio compagno, mentre mostra comportamenti aggressivi con maschi estranei. La stagione riproduttiva si concentra nel periodo caldo e la femmina si dimostra disponibile all’accoppia-

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mento ponendosi con gli aculei abbassati e la coda spostata di lato per permettere al maschio di fecondarla; il ciclo estrale della femmina dura circa 35 giorni e la gestazione in media 120 giorni, al termine della quale nascono da due a quattro piccoli. Nell’imminenza del parto la femmina fodera una camera della tana con erba secca e foglie. I piccoli sono estremamente precoci, aprono gli occhi poco dopo la nascita e possiedono già gli incisivi; il corpo è ricoperto di pelo (a formare cinque strisce bianche sul dorso) e di aculei anco-

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ra morbidi. Dopo una settimana questi diventano sufficientemente duri, permettendo così all’animale di utilizzarli come arma di difesa durante le sue uscite dal nido. Attorno al mese d’età, il piccolo, è perfettamente svezzato e perde il mantello giovanile, anche se la maturità sessuale verrà raggiunta solo attorno ai due anni d’età. L’istrice può vivere in media dieci anni, ma non sono rari i casi, soprattutto in cattività, dove questo animale arriva alla veneranda età di venti anni. A causa delle abitudini notturne non è facile osservarlo nel suo ambiente naturale; è molto frequente invece trovarne le tracce (le caratteristiche impronte con gli unghioni ben in vista), le entrate delle tane e gli aculei, che vengono perduti di frequente

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lungo i sentieri tra gli arbusti. Pur essendo un animale tipicamente dalle abitudini terrestri, all’occorrenza si rivela un abile nuotatore. Per la limitatezza della sua distribuzione geografica nel continente europeo, l’Istrice è stato dichiarato una delle quattro specie di roditori strettamente protette dalla convenzione del 1979 sulla “conservazione della fauna selvatica e degli habitat naturali europei” e, dal 1977, è specie protetta dalla legislatura italiana. A causa della prelibatezza delle sue carni è oggetto di uno spietato bracconaggio, soprattutto nelle regioni dell’Italia centrale (Toscana, Umbria, Lazio) e in Sicilia. L’Istrice, che ad oggi risulta essere uno dei più particolari mammiferi europei, è una specie ancora poco studiata e di conseguenza molti dei suoi comportamenti ed abitudini sono ancora del tutto sconosciuti. Roberto Corridoni Allevatore di bovini ed appassionato cunicoltore

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Mirtillo, il nostro capriolo Storia di un cucciolo di capriolo salvato da un destino certo di

Ermanno Salvaterra

N

el periodo che va dalla tarda primavera all’inizio dell’estate (maggio-giugno) i giovani

caprioli (Capreolus capreolus) si accoppiano dando alla luce due piccoli (raramente uno o tre), dal caratteristico mantello bruno fittamente maculato. Molto spesso, le femmine lasciano il cucciolo nascosto nell’erba alta, mentre loro vagano nei paraggi in cerca di cibo. Durante la trebbiatura dei cereali i cuccioli che hanno fino ad un mese di vita rimangono immobili, incapaci di fuggire dai pericoli, rimanendo uccisi o feriti gravemente. Per prevenire tutto ciò basterebbe posizionare il giorno prima della sfalciatura delle strisce colorate all’apice di qualche palo che, muovendosi col vento spaventerebbero la madre, la quale si manterrebbe fuori dall’area. Ma questa pratica non porterebbe nessuna resa economica e perciò non viene tenuta in considerazione; così ogni anno solo nella provincia di Trento decine e decine di caprioli vengono uccisi o feriti seriamente. Questo è il caso di un cucciolo di ca-

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priolo a cui ho dato il nome Mirtillo. Era il pomeriggio del 18 giugno 2014 a Sant’Antonio di Mavignola (TN); un agricoltore stava trebbiando il grano quando non si accorse che in mezzo al campo c’era un cucciolo di capriolo. Purtroppo questo venne colpito dalla macchina, recidendo la zampa posteriore del piccolo. Poco dopo, un cacciatore di passaggio, vide il malcapitato e decise di chiamare il Casteller, il Centro di recupero animali selvatici. I tecnici consigliarono al cacciatore di non portare il cucciolo al Centro (il lungo viaggio, ben 70km, sarebbe stato fatale al piccolo) che quindi decise

di telefonare al guardiacaccia, che a sua volta gli consigliò di rivolgersi a me. Nel frattempo, nel bel mezzo di un’arrampicata ad Arco (TN) con il mio amico Andrea, ricevo la telefonata e, appresa la terribile notizia, torno velocemente a casa. Qualche ora dopo raggiungo il piccolo, alla cui visione mi struggo completamente: era all’interno di una cassetta di legno con dell’erba, senza una zampa. Mi precipito immediatamente dal veterinario, che esamina la ferita corrugando il volto: “vediamo se riesce a passare la notte, riportalo domani mattina”, mi dice. La notte è triste e passa lentamente ma il cucciolo è un duro e la mattina seguente torno subito dal veterinario. Il Dottore effettua quindi un’operazione, eliminando del tutto l’osso inclusa l’articolazione ed il muscolo

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oramai compromesso dall’infezione. L’operazione si conclude bene e terminata l’anestesia porto il cucciolo a casa; quindi comincio, insieme a mia moglie, lo svezzamento con il latte di capra (somministrato con una tettarella alla giusta temperatura). Intraprendiamo una cura a base di antibiotici per una settimana somministrata dal veterinario e continuiamo

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lo svezzamento giorno dopo giorno. All’improvviso smette di mangiare per un paio di giorni ed inizia la preoccupazione per una possibile infezione… ma fortunatamente si riprende e gli ritorna l’appetito. Nel frattempo vive in casa insieme a noi, dorme vicino al divano ed essendo troppo piccolo ancora per star fuori in giardino cambiamo 5 volte al giorno un pannolino assorbente (beve molto latte, circa 6 volte al giorno). L’ultimo pasto lo fa alle due ed il primo del giorno seguente la mattina presto. Inizia anche a muovere i primi passi… le prime volte che prova ad alzarsi sulle zampe cade e ricade

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molte volte finché poi, imparando a stare in equilibrio, inizia a girare per casa. Sembra star bene! Cominciamo a portarlo fuori in giardino insieme alla caprette ed al coniglio; sul prato corre come un missile! A luglio comincia a brucare l’erba, adora il tarassaco ed anche le foglie del frassino. Crescendo cominciamo a malincuore a lasciarlo fuori anche di notte; continuiamo ad allattarlo, sempre meno volte, fino a metà dicembre. Ora siamo a febbraio ed ha un’alimentazione consigliata dai responsabili del Centro Casteller; tuttavia è goloso di verdura fresca e quindi ogni giorno prepariamo carote tritate, molta cicoria catalogna e prezzemolo. Mirtillo è diventato un po’ viziato… ed oramai si è conquistato anche un posto nella nostra famiglia.

Ermanno Salvaterra Alpinista

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Indennità per servitù di elettrodotto in cavo interrato Esempio di calcolo di indennità per il passaggio di un elettrodotto interrato di

Alessandro Lutri

Questo articolo trae spunto dall’attività professionale del sottoscritto

N

el luglio del 2014 l’Azienda Agricola X, incaricava il sottoscritto Dott. Agronomo Alessandro Lutri di assisterla nei sopralluoghi effettuati da una nota azienda elettrica italiana per il passaggio di un elettrodotto in cavo interrato, al fine di collegare due differenti cabine elettriche e di calcolare l’indennizzo spettante per l’imposizione di servitù, così da valutare se quanto offerto dall’azienda elettrica fosse congruo. Il cavo in questione sarebbe dovuto passare su un terreno coltivato con vigneto a spalliera, lateralmente rispetto al filare esterno. La legge di riferimento che regola la servitù da elettrodotto è il Regio Decreto dell’11 dicembre 1933, n. 1775, Testo Unico delle Disposizioni di Legge sulle Acque e Impianti Elettrici. Secondo l’art. 119, ogni proprietario è tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree o sotterranee a chi abbia ottenuto da parte dell’autorità competente, temporanea o permanente autorizzazione. Il proprietario del fondo, nel nostro caso l’Azienda Agricola, non perde la proprietà o il possesso del fondo stesso (art.122); può quindi eseguire sul suo fondo, innovazioni, costruzioni o impianti che obblighino

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l’esercente dell’elettrodotto a rimuoverlo o collocarlo diversamente, offrendo altro luogo adatto all’esercizio della servitù, senza dover corrispondere alcun indennizzo o rimoborso all’esercente stesso, salvo differenti pattuizioni al momento della stipula dell’atto di costituzione di servitù. Nel caso in esame si trattava di una servitù permanente da eletrodotto

interrato e l’indennità spettante all’Azienda Agricola è stata ottenuta dalla somma dei seguenti valori: a) valore di mercato della superificie sovrastante la conduttura interrata per una larghezza di 2,50 metri, larghezza che consente il passaggio di operai e mezzi meccanici per espletare il servizio di manutenzione; b) la metà del valore di mercato della superficie ai due lati della fascia centrale (in cui passa il cavo), in cui siano limitate le colture arboree, fino a raggiungere una larghezza complessiva di 4 metri, comprensiva del-

la fascia centrale; c) un quarto del valore di mercato della superficie vincolata da limitazioni edificatorie; d) il valore di capitalizzazione degli oneri fiscali gravanti su tutta la supericie del punto a), su metà superficie del punto b), e su un quarto della superficie del punto c); e) danni immediati e danni causati durante l’esecuzione della servitù. Nel caso in questione, per il tipo e per l’estensione della servitù, per la superficie totale del fondo e per altri fattori, la diminuzione del valore del fondo per l’imposizione della servitù era irrisoria e per tale motivo considerata pari a zero; valore che altrimenti sarebbe dovuto essere sommato ai precedenti punti, calcolati però tenendo conto del valore del fondo con la servitù imposta e dunque deprezzato, al fine di non incorrere in duplicazioni di indennizzo. L’indennità spettante all’Azienda Agricola, è stata corrisposta prima dell’inizio dei lavori di imposizione della servitù, così come recita l’art.123 del già citato Regio Decreto. Dr. Agronomo Alessandro Lutri www.progettareinverde.com

alessandrolutri@ hotmail.it

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Chi siamo

Associazione di Agraria.org

L’Associazione di Agaria.org è stata costituita nel 2013 da un gruppo di giovani laureati in Agraria, Scienze Forestali e Veterinaria. In pochi mesi grazie all’impegno di tanti soci sparsi per l’Italia siamo riusciti ad essere presenti in tutto il Paese. Lo scopo dell’Associazione è quello di diffondere le conoscenze riguardanti pratiche agricole ed agro-alimentari sia a scopo amatoriale che professionale, supportare gli agricoltori ed i nuovi imprenditori nella promozione della loro attività attraverso la vendita diretta, favorire l’inserimento dei neo-diplomati e laureati nel settore agricolo e la crescita delle aziende associate.

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Incontri per imparare a realizzare composizioni floreali

TerrAmica | N. 3 - Luglio 2015

Cosa facciamo Percorsi formativi: l’Associazione organizza incontri formativi “per tutti i gusti”. Abbiamo promosso una serie di incontri per imparare a coltivare orti sul terrazzo, agrumi in vaso e realizzare composizioni floreali; abbiamo organizzato delle escursioni alla ricerca di erbe spontanee commestibili e funghi e non sono mancati percorsi di avvicinamento al vino, con la quarta edizione di “De - Gusta Vino”. A febbraio 2015 è stato organizzato un corso sull’assaggio di olio extra vergine di oliva in collaborazione con Comune di Pelago e Camera di Commercio di Firenze. Ed ancora… incontri per fare la birra in casa, giornate di

Incontri per “Coltivare gli agrumi in vaso”

Spazio Associazione di Agraria.org


Alcuni incontri a tema organizzati dall’Associazione per gli iscritti pescaturismo e di approccio consapevole al pesce che arriva sulle nostre tavole; giornate di sensibilizzazione rivolte agli agricoltori sul tema della difesa delle colture dagli ungulati. Eventi e convegni: Grazie agli amici casari del Forumdiagraria.org, in particolare ai moderatori della sezione

Partecipazione a fiere e manifestazioni: Abbiamo partecipato allestendo spazi e organizzando workshop, seminari e dimostrazioni pratiche a: Flora Firenze 2015 - Mostra spettacolo di piante e fiori made in Italy, Toscanello d’oro 2015 Pontassieve (FI), Festa del Vino Tavarnelle V.P (FI), Expo Rurale, Parco delle Cascine, Firenze. Premio di Laurea del Centenario: in occasione dei 100 anni di studi forestali a Firenze l’Associazione, in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze, ha promosso un premio per la migliore tesi di Laurea Magistrale sul tema “Innovazione in campo forestale”, con premio in denaro di 500€. Progetto Arboreti: in accordo all’ente gestore Corpo Forestale dello Stato-UTB di Vallombrosa e l’Università degli Studi di Firenze, l’Associazione conferma l’impegno anche per la stagione estiva 2015 nel servizio di visite guidate agli splendidi Arboreti sperimentali di Vallombrosa (FI). Incontri del Forum di Agraria.org: in questa priFlora Firenze 2015 - Mostra spettacolo piante e fiori “Made in Italy” mavera sono stati organizzati due pranzi con Lattiero-casearia Ermanno e Vincenzo, è stato organiz- gli amici di Agraria.org, uno in Piemonte ed uno in Sicilia. zato un laboratorio pratico sulla produzione casalinga di Si ringraziano tutti i soci e gli amici intervenuti che hanno formaggi, in provincia di Siena. Abbiamo partecipato con contribuito alla buona riuscita degli incontri. una relazione sull’incidenza della Mosca olearia sugli oliveti toscani al “Convegno sull’Olio Extra vergine di Oliva” Diventa uno di noi a Tavarnelle (FI). In collaborazione con l’azienda agricola “La Lumaca Madonita” abbiamo promosso la realiz- Entra a far parte anche tu di questa grande comunità di zazione del corso professionale di elicicoltura, presso la appassionati del mondo agricolo e ricevi i prossimi nusede aziendale di Campofelice di Roccella, in provincia meri di TerrAmica comodamente a casa tua. di Palermo. Insieme al centro studi sociali ORSA e alla Altri vantaggi per i soci: ONG Anna Lindh di Lima in Perù abbiamo pianificato la ● partecipazione ad eventi ed incontri in tutto il territorio visita di una delegazione peruviana composta da sog- nazionale organizzati dall’Associazione getti appartenenti alle istituzione e alle Università pe- ● possibilità di partecipazione a fiere nazionali sull’agriruviane, presso le più importanti aziende e consorzi coltura ed ambiente a condizioni agevolate ● visibilità per i giovani tecnici che si affacciano nel montoscani operanti nel settore vitivinicolo. L’Associazione organizzerà, nel settembre 2015 a Val- do del lavoro lombrosa (FI), la seconda edizione di “Foresta in Festa”; ● promozione delle aziende agricole guidate da giovani un fine settimana all’insegna della cultura e del diverti- imprenditori (progetto “Smart Farm”) mento con gli amici del Forumdiagraria.org che termiIscriviti online a soli 10€ l’anno su: nerà con un convegno su un tema legato alle nuove sfide www.associazione.agraria.org che l’agricoltura dovrà affrontare nei prossimi anni.

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Come fare per RICEVERE TERRAMICA direttamente a casa tua Per ricevere “TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org” è sufficiente essere soci. Per associarsi bastano 10€ l’anno! Ecco i pochi e semplici passaggi per iscriversi: 1. Accedi al sito www.associazione.agraria.org 2. Clicca in alto a destra su “Iscriviti all’Associazione” 3. Compila il modulo con i tuoi dati e scegli il metodo di pagamento desiderato 4. Decidi se pagare con Paypal, Bonifico bancario o Bollettino postale ed attendi il buon esito della registrazione 5. Versa la quota associativa e... ricevi a casa TerrAmica!

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Come associarsi


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