TerrAmica - Num. 1 - 2014

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N° 1 - LUGLIO

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NOVITA’: L’ALBERO DELLE MELANZANE AVERE UN LUPO IN FAMIGLIA COME FARE I FORMAGGI IN CASA COLTIVARE I TARTUFI: POSSIBILE?

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sommario

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L’albero delle melanzane

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TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org Via del Gignoro, 27 - 50135 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org www.associazione.agraria.org

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ANNO I - N° 1 - LUGLIO 2014

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Direttore editoriale: Flavio Rabitti

Foto copertina: Leonardo Graziani

Il formaggio “fai da te”

Il Saarloos, un lupo in famiglia

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Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti

Direttore responsabile: Marco Salvaterra

Rich. Registraz. Tribunale Firenze del 01/07/2014

Periodicità: Semestrale

Stampa: Tipografia Baroni e Gori srl Via Fonda di Mezzana, 55/P 59100 - Prato

Redazione: Cristiano Papeschi (Responsabile scientifico Zootecnico), Eugenio Cozzolino (Responsabile scientifico Coltivazioni), Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Luca Poli, Lapo Nannucci

Sommario

Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.

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EDITORIALE Ecco il numero 1 di TerrAmica!

di Flavio Rabitti

COLTIVAZIONI di Danilo Melchiori Costruire un Lightbox di Antonio Autore Seminare con l’energia del sole di Marcello Randazzo L’albero delle melanzane di Marco Gimmillaro I nematodi galligeni Produrre Fragole ad di T. Talento e E. Cozzolino impatto “0” di Gianfranco Gamba Buone pratiche agronomiche di Guglielmo Faraone Il Nespolo del Giappone di Eugenio Cozzolino Il San Marzano D.O.P. ZOOTECNIA L’allevamento della razza di Marzia Verona Piemontese Il vermicompost, alcune di Francesco Agresti nozioni di base di Giovanni Di Cicco Alla scoperta dell’Anatra Muta La pododermatite ulcerativa di C. Papeschi e L. Sartini del coniglio di Alessandra Bruni Inarniamento di uno sciame Alimentazione della Capra “fai da te” di Stefano Tosco ANIMALI DA COMPAGNIA di Federico Vinattieri Il Saarloos, un Lupo in famiglia di Clarissa Catti Un simpatico pennuto per amico L’Arricciato del Nord, un di Federico Vinattieri elegante canarino... AGROALIMENTARE ITALIANO Le Denominazioni di di Marco Salvaterra Origine dei Vini di Mauro Bertuzzi La conservazione degli alimenti Uovo di Quaglia: alimento di di Daniel Marius Hoanca alto valore nutrizionale Alla scoperta della di Carolina Pugliese Cinta Senese D.O.P. di Cesare Ribolzi Il formaggio “fai da te” di Marco Sollazzo La fermentazione alcolica

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AMBIENTE, FORESTE E NATURA Il substrato nella coltivazione di Raoul Lenaz dei funghi Stabilità degli alberi di Alessandro Lutri in ambito urbano di Flavio Rabitti La tartuficoltura Il suolo come serbatoio di carbonio in risposta ai cambiamenti climatici di Marco Giuseppi di Nino Bertozzi L’ortica ed i suoi mille usi di Luca Poli Il bosco ceduo

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DAL FORUMDIAGRARIA.ORG di Claudio Duca Concorso “Colombo più bello” di Gianni Marcelli Concorso “Cavallo più bello”

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ASSOCIAZIONE DI AGRARIA.ORG

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Ecco il Numero 1 di TerrAmica!

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iamo finalmente arrivati al lancio del primo numero ufficiale della Rivista TerrAmica; dopo gli apprezzamenti ricevuti con la pubblicazione del “Numero 0”, progetto portato avanti in via sperimentale, abbiamo deciso di dar vita ad una rivista vera e propria, un semestrale redatto in due versioni, una cartacea ed una sfogliabile online. Tante pagine ricche di un affascinante mix di articoli tecnici e divulgativi, firmati da professionisti affermati, giovani laureati, imprenditori agricoli, docenti di Istituti Tecnici e Facoltà di Agraria e Veterinaria, ma anche da esperti appassionati. La Redazione è formata da un gruppo di laureati del settore, in gran parte under 35, che crede ancora nel binomio terra-uomo. L’obiettivo principale è quello di fornire informazioni e spunti di riflessione, anche attraverso l’esperienza di chi realmente opera nel settore e di trasmettere una nuova cultura agricola e zootecnica a chiunque desideri avvicinarsi con curiosità ed interesse a questo “piccolo mondo antico”. Antico nello spirito ma non nei metodi che, al contrario, intendono unire la tradizione all’innovazione con un occhio rivolto al passato, ma lo sguardo diretto al futuro.

Editoriale

L’interesse crescente dei giovani verso il mondo dell’agricoltura, favorito dalla disoccupazione giovanile di massa e dalla mancanza di prospettive di assorbimento del fenomeno nel settore industriale e terziario, ha fatto crescere il convincimento che non si esce dalla crisi se non si affronta il problema dello sviluppo dell’agricoltura. Diversi studi richiamano l’attenzione sulla specificità e sulla maggiore vivacità economica delle aziende agricole condotte da giovani. TerrAmica si pone anche l’obiettivo di aiutare queste imprese a crescere, sia fornendo adeguate informazioni tecnico-scientifiche, sia mettendo a disposizione di giovani agricoltori e professionisti una vetrina che vada oltre le tradizionali funzioni produttive dell’agricoltura. Il tutto con una particolare attenzione alle tecniche di coltivazione eco-compatibili e alle modalità di allevamento rispettose del benessere animale. Il Comitato di Redazione è composto da:

Cristiano Papeschi (Responsabile Scientifico Settore Zootecnico): laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa, specializzato in Tecnologia e Patologia degli Avicoli, del Coniglio e della Selvaggina presso l’Università di Napoli, è attualmente in servizio presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo); già collaboratore di numerose riviste tecniche a carattere zootecnico e veterinario, membro di comitati scientifici e di redazione.

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Eugenio Cozzolino (Responsabile Scientifico Settore Coltivazioni): diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “De Cillis” e laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli “Federico II, lavora presso il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura. Marco Giuseppi: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze Forestali ed Ambientali alla Facoltà di Agraria di Firenze, si interessa di selvicoltura urbana e della gestione degli ecosistemi urbani e periurbani; collabora all’organizzazione e gestione delle attività dell’Associazione di Agraria.org. Luca Poli: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze Forestali ed Ambientali alla Facoltà di Agraria di Firenze con la tesi riguardante lo sviluppo di una piattaforma online dedicata ad alcune specificità del mondo forestale (www.forestale.agraria.org), collabora all’organizzazione e gestione delle attività dell’Associazione di Agraria.org. Lapo Nannucci: diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie alla Facoltà di Agraria di Firenze, è iscritto all’Albo dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze; libero professionista settore pesca ed acquacoltura, è consulente esterno Federpesca per il settore pesca grandi pelagici. Marco Salvaterra: laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Bologna, è docente presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze; da anni si occupa di divulgazione in campo agricolo attraverso il network Agraria.org. Flavio Rabitti (Direttore editoriale): diplomato all’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze e laureato in Tutela e Gestione delle Risorse Faunistiche alla Facoltà di Agraria di Firenze. Dal 2009 iscritto all’Albo regionale degli Imprenditori Agricoli, gestisco una piccola azienda agricola in Toscana a Suvereto (LI), all’interno della quale produco vino, olio extravergine di oliva, miele, ed una serie di prodotti artigianali al tartufo (www.rabitti.eu). Un sentito ringraziamento va a tutti gli autori ed al Comitato di Redazione per il grande e costante impegno profuso alla realizzazione di questo numero. Una buona lettura a tutti! Flavio Rabitti - Direttore editoriale Rivista TerrAmica

Editoriale


Costruire un Lightbox In questo breve articolo vi spiegherò come ho costruito il mio Lightbox per la produzione delle piantine per l’orto di

Danilo Melchiori

Per la produzione delle mie piantine ho realizzato un Lightbox; vediamo passo passo come l’ho costruito.

da 6400K, ho messo sul frontale gli interruttori per l’accensione e come si vede in foto (Fig. 1), il termorego-

latore che controlla il riscaldamento; successivamente ho inserito un orologio per programmare in automatico l’accensione e lo spegnimento delle luci. Per riscaldare ho utilizzato dei cavetti riscaldanti (quelli per terrari sono ottimi); ne ho messi due da 100W, ognuno sul fondo del Lightbox (Fig. 2). Come si vede nella foto, ho steso i cavi e li ho fissati con cambrette (chiodi ad U); ho messo dei profilati di alluminio come spessori ed ho coperto i cavi con Fig. 1 un foglio di pvc bianco su cui si metteranno i contenitori per le piantine. Uso poi delle cassette di plastica per avvicinare le

Ne è uscito un contenitore da 130 x 55 alto 55 cm; le pareti laterali, dietro ed il fondo sono fatte in legno truciolare da 2cm di spessore, mentre il lato superiore e le porte davanti sono in plexiglass da 3mm. Ho poi costruito un secondo contenitore con misure identiche ma alto 12cm per mettere le luci, unito con

Coltivazioni

Fig. 2

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Coltivazioni

Per prima cosa ho pensato alle misure; come parametro ho preso la lunghezza dei tubi al neon che avevo intenzione di usare ed ho optato per tubi da 36W (120cm). Per la profondità ho misurato un contenitore per le piantine (52cm) ed ho preparato tutti i pannelli di legno per la costruzione.

due cerniere in modo da consentire agevolmente la manutenzione. Ho inserito 5 tubi da 36W a luce fred-

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tubi al neon. Ultimo particolare per completare la costruzione: la chiusura delle porte. Ho utilizzato delle calamite come quelle dei mobili della cucina (Fig. 6). Con la relativa barretta metallica applicata sulle porte si chiudono perfettamente.

Fig. 3

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Fig. 4 che immette e una che aspira per un miglior ricambio dell’aria all’interno del lightbox (Fig. 4).

piantine alle luci (Fig. 3). Collegato con il regolatore di temperatura ho messo due ventoline, una

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Ecco terminato il mio lightbox, pronto per essere usato; solitamente lo accendo due giorni prima per stabilizzare la temperatura su

Con una staffa ho posizionato il sensore di temperatura al centro (Fig. 5) ed ho sucFig. 6 cessivamente incollato alle pareti un pannello coibentante con rivestimento in alluminio, per riflettere maggiormente la luce emessa dai

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22 gradi. Successivamente rimane acceso per tutto il tempo necessario allo sviluppo delle piante; all’interno di questo lightbox riesco a far crescere circa 100 piante. Spero di aver fatto cosa gradita a chi avesse intenzione di cimentarsi in questa bella avventura; crescere le proprie piante da seme è una bellissima esperienza.

Danilo Melchiori Appassionato orticoltore

Coltivazioni


Seminare con l’energia del sole Produrre direttamente in azienda, attraverso l’energia solare, il combustibile utilizzato dalle trattrici; un sogno che diventa realtà di

Antonio Autore

All’inizio del secolo scorso lavorazioni come aratura, ripasso, semina erano fatte prevalentemente mediante trazione animale. Cavalli da tiro, buoi e vacche erano i fedeli compagni di lavoro dei contadini di tre generazioni fa. Poi la meccanizzazione agricola ha fatto irruzione anche nei nostri campi con l’uso di trattori con motori endotermici prevalentemente a gasolio. Da allora molto è cambiato, le macchine agricole sono diventate sempre più evolute, performanti, confortevoli e sicure, ma con una costante, vale a dire l’uso di gasolio come combusti-

bile. Nonostante esso goda di un’agevolazione fiscale che ne riduce il prezzo rispetto al normale gasolio per autotrazione, l’incidenza del carburante sui costi di produzione delle imprese agricole resta molto alta. La riduzione dei costi energetici per le imprese italiane è uno dei punti su cui bisognerà concentrarsi in misura sempre maggiore per favorire lo sviluppo di nuove imprese nel nostro paese ed aumentare la competitività di quelle già esistenti, senza inoltre trascurare il bisogno sempre più pressante di ridurre le emissioni inquinanti. Al momento ci sono stra-

de già percorribili, con tecnologie ormai consolidate, come la produzione di energia mediante pannelli fotovoltaici, o con mini-eolico, o ancora mediante l’uso delle biomasse che in agricoltura abbondano. Tutte soluzioni queste che possono però ridurre il costo della bolletta elettrica ma non quella relativa ai carburanti delle macchine agricole, per il quale invece resta ancora molto da fare. A dire il vero questo ultimo problema è stato già affrontato qualche anno fa dalla New Holland uno dei più grandi produttori di macchine agricole ed industriali sul mercato. Il progetto in

New Holland NH2 (www.newhollandmediakit.com)

Coltivazioni

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in dettaglio il trattore NH2 ha due motori elettrici, uno che serve alla trazione del trattore, l’altro che aziona i servizi (presa di forza, impianto idraulico ecc.). Ma perché questa tecnologia dovrebbe rendere le aziende agricole autosufficienti? La risposta è semplice: la tecnologia delle celle a idrogeno ha come ostacolo principale alla sua diffusione le difficoltà connesse alla produzione dell’idrogeno e al suo stoccaggio. Gli ostacoli tradizionali riguardo all’utilizzo dell’idrogeno sono soprattutto la distribuzione e la disponibilità. Il concetto di indipendenza energetica per l’azienda agricola, a cui New Holland conta di vendere questi prodotti, prevede che siano i clienti stessi a produrre in proprio l’idrogeno compresso partendo dall’acqua ed utilizzando come fonte energetica una fonte rinnovabile. Fonti rinnovabili quali

New Holland NH2 (www.newhollandmediakit.com)

questione è chiamato “NH2”. Questa singolare sigla, che ricorda una formula chimica, coniuga in realtà due sigle con significato molto diverso: NH sta per New Holland, il costruttore di macchine agricole ed industriali del gruppo Fiat Industrial, mentre H2 è la formula chimica della molecola di idrogeno. NH2 è infatti un innovativo trattore del gruppo New Holland che prevede un motore ad idrogeno, quindi completamente “green”. NH2TM (questa la sigla completa del trattore) ricorda esteticamente un trattore della serie T6000, ma a differenza di questo non utilizza gasolio come carburante bensì idrogeno, mediante la tecnologia delle celle di combustibile. Il risultato è che esso non inquina (emette solo acqua ed energia elettrica) e non fa rumore. La cella a combustibile è un generatore elettrochimico in cui, entrano un combustibile (tipicamente

idrogeno) e un ossidante (ossigeno o aria) e da cui si ricavano corrente elettrica, acqua e calore. Il prototipo, su cui New Holland ha iniziato a lavorare nel 2009, ha una potenza di oltre 100 cv (quindi un trattore di gamma medio-alta) che viene messa a disposizione dell’agricoltore grazie a dei motori elettrici che utilizzano l’energia elettrica prodotta dalle celle a idrogeno. Più

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metano prodotto dal biogas ottenuto tramite la fermentazione dei sottoprodotti o della biomassa, nonché i sistemi di produzione energetica come gli impianti eolici o i pannelli solari; per quanto riguarda l’idrogeno prodotto, potrà essere stoccato in serbatoi sotterranei, situati presso l’azienda agricola stessa. Rispetto alle automobili o agli autocarri, le macchine agricole lavorano usualmente a breve distanza dalla sede

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dell’azienda, e possono quindi essere riforniti senza problemi. Attualmente la maggior parte dei motori elettrici utilizzati anche nelle autovetture si basa sull’accumulo di energia elettrica nelle classiche batterie, per le quali, una volta esaurite, esiste anche il problema dello smaltimento. Invece il motore ad idrogeno prende l’energia elettrica dalla cella di combustibile. Questo ciclo virtuoso (energia rinnovabile -> elettricità -> idrogeno -> motore a celle di idrogeno) potrebbe un giorno portare ad una drastica riduzione del costo energetico, che sarebbe praticamente azzerato una volta realizzato l’impianto di produzione e stoccaggio dell’idrogeno mediante energia pulita rinnovabile. Il progetto NH2 premiato con la Medaglia d’oro al SIMA Innovation Awards 2009, potrebbe letteralmente rivoluzionare il mondo dell’agricoltura. Tutto questo ovviamente a patto che esso diventi una realtà commerciale e non solo un prototipo. Purtroppo, come ogni innovazione radicale, anche il progetto NH2 ha incontrato grandi difficoltà. In particolare i problemi da gestire riguardano la limitata autonomia, l’ingombro delle celle a idrogeno e infine gli elevati costi che avrebbe un trattore con questa tecnologia. Pertanto allo stato attuale esso non sarà commercializzato. Bisognerà aspettare ancora anni prima che questo progetto, o un’idea analoga di qualche altro costruttore, diventi una realtà. La strada comunque è stata tracciata. Speriamo che in futuro essa venga percorsa fino alla fine, e chissà che fra qualche anno non si possa seminare utilizzando soltanto l’energia del.... sole.

Ingegnere Antonio Autore a_autore@libero.it

Coltivazioni


L’albero delle melanzane: Solanum chrysotrichum Forse molti non lo sanno, ma è possibile cogliere melanzane anche dagli alberi... vediamo come di

Marcello Randazzo

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a Solanum chrysotrichum è una pianta originaria del Messico e dell’America centrale (più precisamente Costa Rica, Guatemala, Nicaragua e Panama); nel suo habitat

Solanum chrysotrichum e di colore bianco-giallastro nel Solanum torvum). La pianta si riproduce principalmente da seme e negli ambienti particolarmente favorevoli può rag-

attecchisce su ogni tipologia di terreno (anche se predilige quelli sciolti e sabbiosi) e per un ottimo rendimento necessita di abbondante irrigazione. La pianta nasce a fusto eretto e con il passare del tempo ramifica; è caratterizzata da grosse foglie sempre verdi e spine (più grosse nelle parti lignificate). E’ una pianta che per le sue caratteristiche si presta molto bene all’innesto soprattutto di melanzane e pomodori. L’innesto è semplice da eseguire e si può fare sia su pianta bassa che alta, in base alla propria preferenza. L’innesto può essere a corona, per approssimazione o a gemma.

L’innesto a corona Per eseguire l’innesto a corona bisogna tagliare di netto la parte superiore della pianta, incidere orizzontalmente x 4cm circa e distaccare la corteccia; successivamente è necessario inserire la piantina scelta, (o anche più di una) Esemplare di Solanum chrysotrichum innestato con melanzana precedentemente tagliata trasversalmente, nella cavita crenaturale vegeta solitamente vicino giungere i 4 mt di altezza; se inge- ata. Dopo di che è importante legare corsi d’acqua, ai margini dei boschi rita dagli animali può provocare sin- accuratamente l’innesto con rafia ed in ambienti “chiusi”. E’ molto si- tomi di avvelenamento. Le bacche alla pianta madre e poi applicare mile al Solanum torvum, dalla quale prodotte invece sono commestibili e un minima quantità di mastice che differisce per le foglie, i fiori ed i se- di un sapore vagamente somigliante serve per non fare asciugare l’innesto. Una volta innestata, la pianta, pali più grandi e per il colore della a quello delle melanzane. peluria sui giovani rametti ancora E’ una pianta molto resistente, non crescerà più vigorosa e fruttificherà non lignificati (di colore rossastro nel soffre alcuna patologia in particolare; molto di più rispetto all’origine. Fonte nozioni botaniche: http://keyserver.lucidcentral.org/weeds/data/03030800-0b07-490a-8d04-0605030c0f01/media/Html/Solanum_chrysotrichum.htm

Coltivazioni

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1. Innesto per approssimazione 1. Innesto a corona

2. Innesto per approssimazione

2. Innesto a corona

3. Innesto per approssimazione

3. Innesto a corona

...dopo

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In Sicilia, dove mi trovo, supera tranquillamente l’inverno anche esposta, fruttificando anche l’anno successivo in anticipo rispetto ad una normale coltura; in territori con inverni piÚ rigidi invece le basse temperature possono Marcello Randazzo essere un grave problema per la Appassionato orticoltore sopravvivenza 4. Innesto per approssimazione della pianta.

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Coltivazioni


I nematodi galligeni Un’insidia delle orticole ed un danno per gli orticoltori: impariamo a riconoscerli di

Marco Gimmillaro

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iverse sono le specie che possono colpire le colture orticole, ma sicuramente i nematodi appartenenti al genere Meloidogyne sono quelli più diffusi e temuti; soprattutto per i danni che possono causare e per l’elevata polifagia, che li porta a manifestarsi su moltissime colture di interesse agrario, come

pomodoro, peperone, melanzana, cetriolo, zucchino, melone, anguria, carota, patata, lattuga, asparago, bietola, radicchio, fragola e molte altre, ma anche colture industriali come tabacco e barbabietola fino a diverse colture frutticole. Questo aspetto rende difficile la lotta agronomica dato che limita fortemente la rotazione in ambienti ristretti, dove si impiegano solo determinate colture, spesso tutte suscettibili. Il sintomo principale e caratteristico è a carico della radice, dove la puntura dello stiletto e la secrezione di alcune sostanze provoca la produzione di iperplasie, dette galle; per questo motivo questi nematodi vengono detti galligeni.

Coltivazioni

L’attacco alle radici, e la compromissione dell’apparato radicale, porta generalmente ad uno sviluppo stentato della pianta, una riduzione quali-quanaprile fino a settembre ottobre. Oltre titativa della produzione ed una maggiore suscettibilità a alla temperatura, un’altra condiziovarie patologie. ne indispensabile perchè si sviluppi Queste sono un’infestazione negli strati superfisoprattutto a ciali del suolo è che si deve essere carico dell’ap- in presenza della coltura; quando il parato radicale terreno è libero o nei periodi freddi, che può es- o con un innalzamento eccessivo sere attaccato della temperature (circa 50° C) - per più facilmente esempio nel caso della solarizzazioda marciumi ne - si ha un abbassamento della causati da fun- popolazione ed una migrazione negli ghi, come le strati più profondi del suolo, anche a tracheomicosi; 70/80 cm. Qui le larve di seconda età g e n e r a l m e n - e/o le uova quiescenti permettono ai te la pianta in nematodi di conservarsi nel terreno. caso di attac- I nematodi generalmente in pieno chi gravi riduce campo compiono da 3 a 5 generadrasticamente zioni in un anno, mentre in ambiente protetto possono arrivare a riprodurNematodi su carota la lunghezza del suo ciclo si fino a 2 generazioni per ciclo colturale. colturale. Le zone più a rischio sono quelle costiere con terreni sabbiosi e le specie maggiormente diffuse sono La Meloidogyne incognita, Meloidogyne javanica e la Meloidogyne arenaria. Gli attacchi si manifestano nei periodi più caldi e si iniziano a registrare magSviluppo stentato di melanzane a causa di un attacco da nematodi giormente da

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Nematodi su cetriolo Nematodi su pomodoro Non esiste un metodo di lotta unico, ma un’integrazione di mezzi di lotta diversi, sia alternativi che chimici. Il primo mezzo agronomico è quello di mettere in atto un’opportuna rotazione, lasciando riposare il terreno o alternando colture non attaccate dai nematodi.

Nella rotazione si possono usare anche colture da sovescio per poter effettuare la biofumigazione, impiegando specie che, degradandosi, producono sostanze ad attività nematocida; tra queste esistono diverse brassicacee, mentre in commercio sono presenti alcuni concimi

organici utilizzabili a questo scopo. In caso di terreni suscettibili, si possono impiegare varietà resistenti o altra pratica valida è quella dell’innesto su portainnesti resistenti. Ai mezzi agronomici si possono alternare i mezzi fisici che impiegano il calore. In serra viene usata, infatti, la solarizzazione. Oltre ai mezzi chimici, con nematocidi ad azione specifica ed i fumiganti, ci sono in commercio diversi preparati biologici che utilizzano funghi antagonisti ai nematodi o sostanze di origine naturale ad azione nematocida. Chiaramente occorre valutare per ciascun caso l’opportuna integrazione dei vari sistemi, adeguandoli alla realtà in cui si è manifestata la problematica.

Dr. Agronomo Marco Gimmillaro marcogimmillaro@ hotmail.com

Nematodi su melone

Eventi ed attività riservate ai soci

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2014 RE PRODURTE LE PIAN TO PER L’OR RE SCEGLIE O IL MAIALINSO RAS DA ING : IL NOVITA’ DI CAVIALE LUMACA RE UTILIZZA I LIO AL MEG MACI FITOFAR

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Scontistiche per acquisti presso aziende agricole convenzionate

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Coltivazioni


Produrre Fragole ad impatto “0” La “Fragola Campana” senza residui è possibile; affrontiamo le principali patologie e le tecniche con cui combatterle di

Teodoro Talento e Eugenio Cozzolino

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n approccio pianificato e meticoloso alla lotta contro le avversità con una razionale tecnica agronomica di base, ed un impiego puntuale dei mezzi tecnici a disposizione, chimici e non, è requisito indispensabile per ottenere pro-

problematiche e le possibili soluzioni che vengono messe in atto presso la cooperativa Sole, leader europeo nel settore “fragola”, con una produzione di circa 70.000 quintali. Le piante generalmente messe a dimora in provincia di Caserta sono

sviluppo radicale. Una buona radicazione, infatti, fortifica la pianta, aumentando la resistenza alle patologie e a possibili stress. Una pianta stressata è debole e suscettibile ad avversità fungine o animali. L’utilizzo di fertilizzazioni specifiche e l’impie-

duzioni abbondanti, di alta qualità e con bassi, se non del tutto assenti, livelli di residui di prodotti fitosanitari. La programmazione di un piano di controllo fitosanitario che tende a minimizzare, ovvero ad annullare i residui di agrofarmaci sul frutto della fragola, parte in primo luogo dalla profonda conoscenza della coltura, in secondo luogo dalla consapevolezza delle problematiche fitosanitarie che si possono manifestare durante il ciclo colturale e, infine, dalla padronanza dei mezzi a disposizione per contenere dette problematiche. A riguardo, si descrive di seguito il ciclo colturale della fragola dal trapianto alla raccolta, con le eventuali

“fresche”, ovvero a radice nuda, senza foglie, estirpate dal vivaio in ottobre e nel giro di pochi giorni trapiantate su un baule di terreno appositamente sagomato. Il trapianto avviene in pieno campo, cioè i tunnel che ospitano la coltura sono senza plastica di copertura. Le piantine radicano, emettono le prime foglie e dopo qualche settimana sono coperte. In questa fase la principale crittogama è la vaiolatura (Mycosphaerella fragariae), controllabile con trattamenti a base di rame; una volta che i tunnel sono stati coperti è molto difficile che si manifesti, quindi i trattamenti chimici sono inutili. Particolare attenzione merita lo

go di micorrizze (associazioni simbiotiche tra un fungo ed una pianta) assicurano uno sviluppo adeguato della radice. Per quanto riguarda i fitofagi si precisa che, con un attento monitoraggio, si evitano trattamenti a calendario a favore di interventi mirati, tempestivi e quindi efficaci. Alla comparsa delle prime foglie sono possibili attacchi di nottue (in genere Spodoptera spp). Accertata la presenza, i mezzi chimici a disposizione sono molteplici ed efficaci, ma l’utilizzo del Bacillus thuringiensis e dei Nucleopoliedrovirus specifici riduce al minimo l’impatto sull’entomofauna utile. Durante l’autunno si possono avere

Coltivazioni

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Tornando all’autunno, nella prima metà di dicembre le fragole iniziano a fiorire: in questa fase fenologica si introducono i bombi (Bombus terrestris) per aiutare l’impollinazione. È importante che la coltivazione non presenti residui di insetticidi e/o acaricidi altrimenti i bombi non bottinano e l’allegagione non avviene correttamente, producendo frutti deformi.

anche infestazioni di afidi (Chaetosiphon fragaefolli, Aphis gossypii). Anche in questo caso il monitoraggio è fondamentale per evitare trattamenti inutili e dannosi per l’ambiente. Ancora, gli afidi si sviluppano in zone abbastanza delimitate, facilmente rilevabili e controllabili senza l’esigenza di trattare tutta la coltivazione. Individuata la specie di afide in questione, possiamo utilizzare predatori quali coccinelle (Adalia bipunctata), crisoperla (Chrysoperla carnea), o parassidoiti specifici ad esempio del genere Aphidius (Aphidius colemani) ed evitare addirittura l’utilizzo di aficidi chimici. Gli afidi si possono manifestare anche in primavera: la tecnica per il controllo resta la stessa, monitoraggio e interventi circoscritti. L’utilizzo di prodotti chimici in questa fase è sconsigliata in primo luogo per non avere residui sul frutto, ma anche per non interferire con gli impollinatori e con l’entomofauna utile. Sovente alla comparsa di afidi è riscontrabile la presenza naturale di vari ausiliari, tra i quali i predatori ditteri sirfidi (Syrphidae), attivi allo stato larvale sempre che non vengano abbattuti con insetticidi.

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Con l’avanzare della stagione, muffa grigia (Botrytis cinerea) e oidio diventano le principali crittogame. Contro la botrite il controllo più efficace è la gestione del clima in serra. Garantire una buona areazione tenendo aperte le serre, fa si che il micelio del fungo abbia difficoltà a svilupparsi. L’impiego del Bacillus amyloliquefaciens subspecie plantarum aiuta a contenere attacchi di botrite in atto. L’oidio (Sphaerotheca macularis sp. Fragariae) è la crittogama che va controllata durante tutte le fasi fenologiche. L’impiego di zolfo “elemento minerale naturale” che già a temperature superiori ai 10-12 gradi sublima, può agire sul micelio e sulle spore dell’oidio. In alcuni casi, durante l’inverno, quando le temperature sono molto basse e i frutti non sono ancora formati, è possibile integrare zolfo bagnabile con prodotti chimici, ma quando le giornate sono soleggiate, anche se la temperatura esterna è bassa, sotto serra si raggiungono le temperature atte a far sublimare lo zolfo. In genere a gennaio iniziano a comparire le prime popolazioni di ragnetto rosso (Tetranychus urticae). Anche in questo caso l’aspetto più importante per il controllo è il monitoraggio, infatti interventi tempestivi escludono l’impiego di prodotti chimici. In ogni caso si può fare un trattamento acaricida di contenimento, e poi introdurre l’antagonista: il fitoseide (Phytoseiulus persimilis) caratterizzato da una elevata capacità di ricerca ed è in grado di esplorare ampie superfici. Lo sviluppo in condizioni ottimali è anche più rapido di quello della sua preda. La fine dell’inverno fa svernare un

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altro fitofago chiave della fragola, la Frankliniella occidentalis, il tripide, contro il quale va introdotto l’orius (Orius laevigatus) antocoride predatore attivo in tutti gli stadi che si nutrono attivamente di tripidi, anche se possono utilizzare come fonte di cibo alternativo polline ed altri fitofagi, tra cui acari, afidi ed altri piccoli insetti. Come la sua preda, anche l’orius predilige stazionare nei fiori specialmente se ricchi di polline, del quale si nutre anche in assenza di prede. La chiave del successo affinché gli ausiliari raggiungano un equilibrio con i fitofagi tale da avere un danno economicamente sopportabile sta nella gestione del clima. Un’altra possibile avversità animale è rappresentata dalla mosca bianca (Trialeurodes vaporariorum). Per il controllo di questa avversità è possibile utilizzare la Beauveria bassiana, fungo entomopatogeno (in grado di causare danni a diversi tipi di insetti agendo come parassita) con aggiunta di gelatina. Come già riportato sopra, l’utilizzo su vasta scala di ausiliari e la riduzione di mezzi chimici favorisce lo sviluppo di antagonisti naturale che riducono la minaccia dei fitofagi. In definitiva il ricorso ad agrofarmaci, ove necessario, quando ancora i frutti non sono formati, assicura una buona prevenzione senza lasciare residui di prodotti chimici sulla frutta. Nel pieno della raccolta, il ricorso a strumenti di controllo biologico rende possibile consumare fragole senza alcun residuo, quindi assolutamente salubri. Se il consumatore ricerca questo tipo di prodotto “senza residui” la produzione è stimolata nella direzione della salubrità e del rispetto dell’ambiente. Dr. Teodoro Talento Technical Coop SOLE Department Strawberry Division

Dr. Eugenio Cozzolino Consiglio per la Ricerca in Agricoltura

Coltivazioni


Buone pratiche agronomiche Le rotazioni colturali nei terreni marginali; importanti pratiche agricole da mettere in atto di

Gianfranco Gamba

L

’importanza delle buone pratiche agronomiche, al di là delle imposizioni della politica comunitaria, sono uno degli aspetti spesso più trascurati, soprattutto in quelle situazioni dove l’apporto di sostanza organica dai reflui zootecnici è nullo. In questi casi l’importanza di avere una rotazione economicamente sostenibile diviene una necessità, a patto di riuscire a limitare i costi delle operazioni colturali. Tralasciando le rotazioni nelle aziende zootecniche, nelle quali è più facile mantenere delle rotazioni con leguminose da foraggio poliennali o intercalari, le rotazioni più diffuse sono in genere triennali, e tra queste si sta affermando: mais - soia - grano. A questa rotazione triennale potremmo aggiungere una intercalare, come ad esempio la trasemina del trifoglio da sovescio nel terzo anno, indicativamente nel mese di marzo; in alternativa un erbaio da sovesciare, che permetta una notevole produzione di biomassa. Il sorgo, ad esempio, può fungere da coltura da copertura ed intercettare il concime azotato residuo, rendendolo disponibile alla coltura dell’anno successivo. Oltre al beneficio in termini di sostanza organica, questa tecnica permette anche una difesa agronomica contro le erbe infestanti più semplice rispetto a una monocoltura, con minori spese e, soprattutto, fornisce una difesa contro le malattie fungine del grano e dei cereali vernini a paglia, in quanto precedentemente vi è stata una leguminosa e non un cereale. Dal punto di vista delle lavorazioni, si hanno delle finestre di lavorazio-

Coltivazioni

ne più ampie, sia per il mais (più di otto mesi) sia per la soia (sei mesi) sia per il grano, rispetto alla classica rotazione mais - grano che molti agricoltori preferiscono, ma che

in collina ed il cloruro in quelli subacidi in pianura sciolti) ad ettaro o con 70kg di unità di potassio ternario. Le principali criticità di questo sistema si riscontrano soprattutto nei terreni

comporta una finestra di lavorazioni molto stretta (anche una settimana) o l’impossibilità di seminare il cereale vernino in tempo utile, in particolare in quelle zone in cui dopo novembre i terreni diventano non lavorabili. Sulle concimazioni di fondo c’è da notare che delle abbondanti concimazioni fosfo - potassiche che necessita il mais, anche in caso di normale dotazione del terreno, ne godono essenzialmente le colture seguenti, per cui si opterà per una leggera o nulla concimazione sia per la soia che per il grano. Se si asportano i residui colturali, dovranno essere reintegrati: il coltivatore deciderà secondo la sua convenienza se sia più vantaggioso vendere la paglia e i residui di mais e soia, o doverli reintegrare con 250/300 kg di cloruro potassico (personalmente prediligo il solfato nei terreni calcarei

strettamente vocati alla maiscoltura, in particolare nel nord est e in parte del nord ovest. Può capitare, infatti, che nel triennio si abbia una produzione lorda vendibile inferiore rispetto alla classica monocultura di mais. Il calo di produzione è di solito più accentuata nei terreni irrigui e può raggiungere anche il 20%. Questo calo si riduce molto nei terreni di medio-bassa fertilità non irrigui. Da tenere conto che le produzioni non calano per la soia e ciò potrebbe, in un futuro a medio termine, far preferire questa tecnica a molti agricoltori.

Gianfranco Gamba Imprenditore agricolo

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Il Nespolo del Giappone L’importanza, attualmente, non sta nel frutto ma... di

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Guglielmo Faraone

l Nespolo del Giappone (Eriobotrya japonica) è un albero sempreverde proveniente dall’estremo oriente (India, Cina, Giappone). In Occidente fu importato, dal Giappone, dove era una delle specie fruttifere più coltivate alla fine dell’1700 ed arrivò all’orto Botanico di Palermo tramite quello di Napoli agli inizi del 1827; lì vi trovò il Mandarino (Citrus deliciosa), costituendo con esso un binomio produttivo, che tramite questa importantissima Istituzione Scientifica, si sviluppò nella Conca D’oro Palermitana. Il nespolo infatti fu usato dapprima come frutto esotico, nelle ville nobiliari; in seguito trovò la sua collocazione come frangivento per i mandarini. In Italia, oltre che in Sicilia, si trova qualche appezzamento di una certa consistenza anche in Calabria. In Europa ci fa concorrenza la Spagna, che da marze siciliane, ha selezionato cultivars con frutti leggermente più grandi ma con un solo seme, a discapito però, delle qualità organolettiche, che hanno allontanato una parte dei consumatori. Possiamo dire, dopo circa due secoli, che il nespolo è un frutto ormai palermitano per eccellenza insieme alla cultivar di Mandarino Avana di Palermo con cui, come già detto, costituiva un già felice connubio. Nelle nostre zone vocate, che troviamo in pianura e non lontane dal mare, l’albero che usufruisce delle stesse cure dell’agrumeto cresce rigoglioso e non è difficile vedere esemplari che raggiungono facilmente i 10 metri d’altezza; la fioritura avviene nel periodo autunno-vernino ed i fiori hanno una colorazione generalmente bianco-crema. Hanno una caratteristica e gradevole profumazione che riscontriamo nel miele monoflora di nespolo, prodotto dalle api esclusivamente nel sud del mediterraneo. Le cultivars è possibile classificarle

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in base al colore della polpa, alla grossezza del frutto ed alla precocità di maturazione che va da aprile-maggio a giugno. Nella zona del palermitano troviamo la cultivar denominata “Martorana”, dal frutto appariscente ma molto delicato, che completa la maturazione nella prima metà di maggio. Insieme possiamo trovare l’ottima cultivar precoce “Marcenò”, che prende il nome dal produttore che per primo la propagò nella valle del fiume Oreto; il Nespolone bianco Vaniglia invece ha la polpa di colore bianco-giallo tenue ed un caratteristico sapore dolce che la differenzia dal sapore fresco e gradevolmente acidulo e dal colore tendente all’arancio carico delle restanti cultivars, come il Nespolone rosso Tardivo di Palermo, il Nespolone dei Ficarazzi e per finire il Nespolone di Trabia. Oltre che per il frutto, che segue la crisi agrumicola, l’albero si coltiva ormai quasi solamente per il miele di nespolo, che spunta prezzi più che remunerativi, arrivando facilmente a 20 €/Kg. Oggi, la produzione del miele di nespolo, può essere assorbita nella sua totalità da parte del mercato giapponese dato che gli acquirenti, come per il Tonno Rosso, sono disposti a pagare cifre molto alte (spesso addirittura anticipate rispetto alla produzione), in conseguenza dei loro siti altamente inquinati (si noti per esempio anche i problemi radioattivi per l’esplosione di Fukushima). Il rilancio del Nespolo del Giappone quindi può e deve ripartire dal miele. In passato il nespolo aveva anche altri utilizzi; si usava dare i rametti con le foglie di potatura come alimento per i conigli e si utilizzava il legno dei nespoli per fare i ganci (in siciliano “crocchi”) per

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i panieri utilizzati per la raccolta della frutta o per farne bellissimi lavori da intaglio. Come detto, il nespolo, si avvantaggia delle cure fatte all’agrumeto; quindi le stesse concimazioni che si utilizzano per il mandarineto valgono per il Nespolo del Giappone. La pianta si propaga per seme e, se presenta frutti di qualità inferiore (come spesso accade), viene innestata; da ricordare che il frutto va raccolto già maturo poiché se raccolto ancora verde non raggiunge più la maturazione. Nelle zone o nelle annate umide viene attaccato da un fungo deuteromicete (Fusicladium eriobotrye) che provoca la Ticchiolatura del Nespolo; questa si manifesta con macchie nere sulle foglie e sui frutti che arrestano la loro crescita e spesso si spaccano (talvolta vengono attaccati anche i fiori). La lotta a questa patologia è essenzialmente agronomica, da farsi mediante arieggiamento della chioma con opportune potature e coadiuvata dall’uso dei classici sali di rame. Gugliemo Faraone Docente di Coltivazioni Mediterranee

Coltivazioni


“Il San Marzano D.O.P.” Conoscere e saper riconoscere Sua Maestà il Pomodoro S. Marzano di

Eugenio Cozzolino

Il pomodoro S. Marzano è lungo, nervoso, consistente. Esso l’unico che non si frantuma nella lavorazione; al contrario si mantiene intero e, per così dire, vivo nel barattolo. Soltanto con esso si può ottenere un pelato di alta qualità e supremo sapore. Gli Americani, che sono degli ottimi intenditori, non chiedono che pelati ottenuti con pomodori S. Marzano. Negli “shops” e negli “stores” americani di generi alimentari i nostri barattoli sono sempre in vista e ben esposti. Gli americani tenaci consumatori dei loro prodotti nazionali, non hanno un solo dubbio nella scelta quando si tratta di pomodori. Sanno bene che deve essere un prodotto italiano, anzi un prodotto della Campania. Gli altri pomodori per gli americani sono sempre di seconda qualità”. Queste le considerazioni tratte dal reportage di Domenico Rea, che, nel lontano 1957, lo scrittore napoletano volle dedicare al Re del pomodoro, il pomodoro S. Marzano. Ad oltre cinquant’anni dal viaggio dello scrittore nel territorio campano, da Pompei a Paestum, i filari del tradizionale ortaggio, sono ritornati a rosseggiare nelle campagne dell’Agro sarnese nocerino. Re Pomodoro torna nei campi dell’Agro e con esso torna l’epopea di una pianta diventata emblema dell’economia campana di questo secolo. Il San Marzano è il “pelato” di eccellenza ed è tra i massimi artefici della dieta mediterranea. Nel libro “Il pomodoro: una sapienza antica” si sostiene però che solo nel 1902, a Fiano, una località tra Nocera, San Marzano e Sarno, il “Pomme d’amour” divenne San Marzano. Delizia dei buongustai, profumo delle domeniche dei ricchi e dei poveri. Feste comandate scandite dal rosso del sugo che copriva come una

Coltivazioni

lava inebriante il bianco della pasta dei mulini di Gragnano e di Torre Annunziata. Curato, vezzeggiato come un bambino dalle famiglie contadine che lo allevavano nei caratteristici filari, tenuti sospesi con paletti e sorretti da canne o fili di ferro, tra un fogliame ricchissimo, il quale proteggeva i rossi frutti dai raggi del sole. Determinanti per la straordinaria biodiversità del Pomodoro S. Marzano, sono i terreni caldi del Vesuvio. In buona sostanza, Re Pomodoro poté fregiarsi di cotanto nome solo quando divenne S. Marzano. Nato da mirabile incrocio di tre varietà che, allora, all’inizio del Novecento erano molto diffuse a Sarno e nell’Agro: la Fiascona, la Fiaschella e la Re Umberto. Oggi il pomodoro “San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino”, è uno dei prodotti a marchio D.O.P. oggetto di maggiori contraffazioni. E’ proprio per le sue caratteristiche ben precise, come il colore rosso uniforme, la forma allungata e parallelepipeda e l’assenza di sapori e odori estranei, che ha ricevuto, nel 1996, il riconoscimento di prodotto a

Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.). La sua coltivazione, produzione e trasformazione è territorialmente circoscritta all’area a nord della provincia di Salerno e ad alcune propaggini delle province di Napoli e di Avellino, per un totale di 41 Comuni. Alla diffusione, controllo e valorizzazione del marchio è preposto un apposito Consorzio di tutela, il “Consorzio S. Marzano”, costituito nel Giugno 1999 ed incaricato dal Ministero delle Politiche agricole di svolgere funzioni di salvaguardia del prodotto. La Denominazione d’Origine Protetta (D.O.P.) “Pomodoro S. Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino” senza altra qualificazione, è riservata al pomodoro pelato ottenuto da piante delle varietà S. Marzano 2 e KIROS (ex Selezione Cirio 3). Possono concorrere alla produzione di detto pomodoro anche linee ottenute a seguito di miglioramento genetico delle suddette varietà, sempre che, sia il miglioramento che la coltivazione, avvengano nell’ambito dei territori indicati e presentino caratteristiche conformi al seguente standard.

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Per la coltivazione del pomodoro San Marzano è assolutamente necessario fare ricorso all’utilizzo di tutori costituiti da robusti pali di legno di castagno con intelaiatura costituita da fili di ferro zincato e spago La pianta e le bacche del pomodoro della varietà S. Marzano 2, KIROS o di linee migliorate, ammesse alla trasformazione per la produzione del Pomodoro S. Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino a denominazione di Origine Protetta “DOP” devono presentare i seguenti requisiti: 1) Caratteristiche della pianta: - sviluppo indeterminato di qualunque statura; - fogliame ben ricoprente le bacche; - maturazione scalare; - bacche acerbe con “spalla verde”. 2) Caratteristiche della bacca del prodotto fresco idoneo alla pelatura: a) bacca con due o tre logge, forma allungata parallelepipeda tipica con

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lunghezza da 60 a 80 mm calcolata dall’attacco del peduncolo alla cicatrice stilare; b) sezione trasversale angolata; c) rapporto assi: non inferiore a 2,2 + 0,2 (calcolato tra lunghezza dell’asse longitudinale e quella dell’asse trasversale maggiore nel piano equatoriale); d) assenza di peduncolo; e) colore rosso tipico della varietà; f) facile distacco della cuticola; g) ridotta presenza di vuoti placentari; h) pH non superiore a 4,50; i) residuo rifrattometrico a 20’ C uguale o superiore al 4,0%; l) limitata presenza di fasci vascolari ispessiti nella zona peziolare (fittone).

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Tecnica colturale Di norma viene adottato un sesto d’impianto a fila singola, con un’interfila di 1.5 m e con uno spazio fra le piante lungo la fila di 0.5 m, per un investimento di 13.330 piante per ettaro. Il trapianto è bene effettuarlo entro il mese di aprile. E’ buona norma ricorrere alla pacciamatura per i seguenti motivi: - più efficace controllo delle infestanti rispetto alle modalità meccaniche; - riduzione delle perdite d’acqua dal suolo; - induzione di un migliore sviluppo radicale per il minor compattamento del terreno; - anticipo colturale per l’azione termica sul terreno;

Coltivazioni


- incremento di produzione e di qualità dei prodotti; - maggiore pulizia del prodotto raccolto; Si possono utilizzare: - I tradizionali teli in polietilene trasparenti, fumè o neri, di spessore 0,03-0,045 mm, che sono ancora oggi i materiali più diffusi per la loro facile reperibilità, il costo conveniente e le buone caratteristiche di elasticità e resistenza. I film trasparenti e fumè consentono un maggiore accumulo di calore nel terreno e conducono quindi a un discreto anticipo produttivo; garantiscono però un minor controllo delle infestanti e, per non essere sollevati, richiedono un solido ancoraggio al terreno. - Le pacciamature fotoselettive, reperibili in commercio in bobine di colore, sviluppo e spessori diversi (di norma 0,25 mm), costituiscono una delle novità più interessanti del settore; permettono infatti il passaggio selettivo delle onde luminose, ostacolando la trasmissione delle bande di minor importanza fotosintetica per le piante. - I materiali bio-degradabili in Mater-Bi®, ormai ampiamente collaudati (adattabilità ai diversi ambienti di coltivazione, facilità di messa a dimora, elasticità, resistenza meccanica, completa degradabilità, durata nel tempo, ecc.) ed in grado di garantire un soddisfacente controllo della vegetazione infestante, presentano anche affidabili requisiti di “sostenibilità” e non vanno rimossi al termine del ciclo di raccolta delle piante e possono essere incorporati al terreno attraverso una semplice fresatura. Il piano di fertilizzazione prevede l’apporto di 150, 100 e 50 kg per ettaro rispettivamente di azoto, fosforo e potassio, preferibilmente da apportare per fertirrigazione frazionati in più interventi. E’ buona norma apportare parte dell’azoto sotto forma di nitrato di calcio per il contenimento del marciume apicale. A partire dalla seconda settimana dal trapianto e fino alla prima decade di luglio è indispensabile distribuire in fertirrigazione un prodotto a base di microelementi (Mg, Mn, Fe, Zn, B, Mo)

Coltivazioni

a cadenza di 10 giorni. L’irrigazione relative alle linee guida nazionali di viene effettuata secondo la moda- difesa integrata. E’ indispensabile lità “a goccia” con ala gocciolante in tutti i casi ricorrere all’impiego di leggera T-Tape con passo a 20 cm piantine sane e certificate, effettuache permette di mantenere costan- re il controllo dei vettori e procedere temente l’umidità del terreno a livelli all’accurato controllo delle infestanti. ottimali per la pianta, minimizzando La peronospora e le batteriosi sono il lavoro che essa deve compiere per le avversità più frequenti riscontrabili assorbirla. I volumi irrigui e il nume- sul pomodoro San Marzano mentre ro di interventi variano in relazione tra i fitofagi si segnalano le nottue foalle condizioni pedoclimatiche. In gliari e carpofaghe e gli acari. generale è una coltura esigente e si La raccolta dei frutti è compresa tra arriva a somministrare anche 2500- il 30 luglio ed il 30 settembre e deve 3000 mc per ettaro con più di 30 in- essere eseguita esclusivamente a terventi in funzione dell’andamento mano, in maniera scalare, quando climatico, della natura del terreno e essi raggiungono la completa matudella durata dei turni. Per la coltiva- razione. Il prodotto esente da difetti zione del pomodoro San Marzano e ben maturo presenta un sapore è assolutamente necessario fare ri- tipicamente agrodolce, forma alluncorso all’utilizzo di tutori costituiti da gata della bacca con depressioni robusti pali di legno di castagno che longitudinali parallele, colore rosso vengono posti sulla fila ogni 2 metri vivo, scarsa presenza di semi e di e l’intelaiatura sulla quale la pianta fibre placentari, buccia di colore rosvegeterà costituita da fili di ferro zin- so vivo e facile pelabilità. Queste, incato e spago. sieme alle caratteristiche chimico-fiPer ottenere un prodotto con uno siche, lo rendono inconfondibile sia standard qualitativo e di salubrità allo stato fresco che trasformato. sempre più elevato (limitata preBibliografia: senza di residui di agrofarmaci), http://www.consorziopomodorosanmarzanobisogna conoscere, in maniera dop.it/ sempre più approfondita le avverhttp://www.sito.regione.campania.it/agricoltura/erbacee/pdf/sanmarzano_2004.pdf sità che colpiscono il pomodoro e le opportunità che la ricerca mette a sua disposizione per contenerle. Nella moderna concezione di lotta Dr. Eugenio Cozzolino alle avversità, per ottenere risultati Consiglio per la Ricerca soddisfacenti che durino nel tempo in Agricoltura è importante non focalizzare l’attenzione su un solo mezzo di lotta, ma utilizzare tutti quelli disponibili (agronomici, fisici, biologici, fisico-meccanici, chimici) integrandoli tra loro in un concetto appunto di “strategia” che si riassume nel concetto di “produzione • Cucina casareccia integrata”.

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L’allevamento della razza Piemontese di

Marzia Verona

I sistemi di allevamento praticati nelle principali aziende prevedono: - stabulazione fissa durante tutto l’anno; - stabulazione con pascolo aziendale; - stabulazione con pascolo aziendale ed alpeggio. Se si volesse operare una distinzione tra le tipologie aziendali in base alle aree geografiche, potremmo distinguere tra:

di Vercelli e di Alessandria. Normalmente, in queste realtà, si ingrassano i vitelloni aziendali e solo un 15% pratica la mungitura. • Aziende di pianura-bassa montagna, con circa il 20% del numero di capi della razza: sono allevamenti di piccole e piccolissime dimensioni (da 2 a 30 vacche). In questo gruppo rientrano diverse tipologie di allevatori, con persone che si occupano part-time dell’attività agricola,

Zootecnia

Soggetti di razza Piemontese al pascolo • Aziende di pianura, con circa il 50% del numero di capi complessivi di Piemontese: le stalle sono di dimensioni medio-grandi (dalle 30 alle 150 vacche), dove l’intera famiglia si occupa della conduzione aziendale. Spesso si tratta di aziende ad indirizzo cerealicolo-zootecnico che utilizzano il foraggio fresco in stalla e raramente conducono gli animali al pascolo. Sono collocate nella pianura torinese, cuneese, in provincia

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affiancati da altri membri della famiglia (specialmente sulla collina ligure e lombarda in provincia di Pavia, nella montagna torinese e cuneese, in provincia di Novara, Varese e Como); aziende caratterizzate da altra attività agricola principale (viticoltura nelle Langhe e nell’Astigiano) e aziende che praticano l’agriturismo. I vitelli vengono ingrassati in azienda o, specialmente in montagna, venduti dopo lo svezzamento.

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• Aziende di collina: nell’Astigiano si sta diffondendo un sistema di allevamento “semibrado” che coinvolge il 5% delle aziende che allevano la Piemontese. • Aziende transumanti: gestite dai margari, un gruppo non molto consistente di allevatori nel complesso di chi si occupa della Piemontese, ma con un numero elevato di animali (da 50 a 300 per stalla), dei quali circa il 25% dei capi complessivi appartengono alla razza in oggetto. Questi allevatori praticano l’alpeggio nella stagione estiva: in primavera ed autunno gli animali pascolano nei prati di fondovalle-pianura, mentre in inverno sono mantenuti in stalla; esistono anche alcuni allevamenti in cui gli animali vengono tenuti all’aperto per tutto l’anno. • In ultimo citiamo un fenomeno in aumento (anche se ancora limitato); quello degli imprenditori non allevatori, cioè imprenditori di altri settori che investono nell’agricoltura/allevamento. Si tratta di aziende di grandi dimensioni, che generalmente portano avanti tutte le fasi della filiera (dalla vacca alla macelleria), gestite direttamente dall’imprenditore con l’ausilio di consulenti e manodopera esterna. In un numero sempre più ridotto di aziende, tra le quali prevalgono quelle medio-grandi che praticano l’alpeggio, troviamo anche la produzione di latte associata alla produzione di carne. L’abbandono della mungitura è legato soprattutto all’avvento delle rigorose norme comunitarie in materia di igiene e qualità del latte, che richiedono per l’azienda investimenti giustificabili solo con produzioni in grandi; inoltre le piccole aziende di Piemontese sono sta-

Zootecnia


te penalizzate anche dalla sensibile diminuzione del prezzo, verificatosi negli ultimi anni e dall’aumento degli oneri dovuti alla raccolta quotidiana di piccole quantità di latte. I vitelli generalmente restano a poppare dalla madre, attuando quella

l’accoglienza del conduttore della mandria ed eventualmente anche per il ricovero del bestiame), nelle prime settimane si sfruttano pascoli a quote intermedie, per raggiungere poi la sede d’alpeggio principale nel cuore della stagione, usufruendo

che riguarda la Piemontese, razza ormai indirizzata principalmente alla produzione di carne; ricordiamo tuttavia alcune importanti produzioni casearie legate alla Piemontese, com il Castelmagno, Nostrale d’Alpe, ecc…

L’alpeggio con bovini di razza Piemontese La transumanza: dalle pianure ai pascoli di montagna che viene definita linea vacca-vitello e vengono svezzati tra i 4 ed i 6 mesi di età.

L’alpeggio Una forma tradizionale di allevamento della razza bovina Piemontese è quella dell’alpeggio, che avviene mediante la transumanza verso i pascoli di montagna a partire dalle aziende di pianura o del fondovalle. Lo sfruttamento delle superfici pascolative attraverso gli animali domestici è necessariamente correlato alla disponibilità di erba, che a sua volta dipende dalle condizioni climatiche; ma l’inizio della stagione di pascolo in quota è vincolato anche da specifiche norme che vietano la monticazione antecedente le date stabilite sulla base anche di fasce altitudinali. Per consuetudine, l’inizio della stagione dell’alpeggio è il 24 giugno (San Giovanni), ma attualmente (a seconda anche delle zone e dell’andamento stagionale) tale momento può essere anticipato anche di alcune settimane. In certi alpeggi di estensione maggiore, costituiti da diversi “tramuti” (unità composte da pascoli e fabbricati per

Zootecnia

così dell’erba quando questa è disponibile, senza anticipare o ritardare eccessivamente il suo utilizzo. La stagione dell’alpeggio ha una durata media di 3-4 mesi, anche se in certe aree si riescono a toccare i 5 mesi, salendo a piccole tappe e successivamente scendendo di quota sino al fondovalle. I pascoli utilizzati dai bovini di razza Piemontese sono generalmente compresi tra i 800 e 2400 metri sopra il livello del mare, principalmente nelle vallate della provincia di Cuneo. La data tradizionale per la discesa dall’alpeggio è quella di San Michele (29 settembre), ma questa transumanza di ritorno risente anch’essa delle condizioni climatiche, perché abbondanti nevicate precoci possono portare ad una discesa anticipata anche quando la risorsa foraggera non sia ancora terminata; in altre situazioni può essere la siccità e la conseguente carenza d’erba a causare una discesa anticipata. Usuale era, in alpeggio, la mungitura e la caseificazione con produzione di apprezzati latticini: oggi questa consuetudine è andata via via riducendosi, soprattutto per quello

La pratica della transumanza e dell’alpeggio rappresentano non soltanto un elemento di forte tradizione nell’allevamento della razza bovina Piemontese, ma anche un fattore fondamentale nella gestione di aree marginali, specialmente di quelle montane, a grande interesse paesaggistico ed ambientale oltre che produttivo. Qui l’azione del pascolamento consente efficacemente il controllo dell’avanzamento di specie vegetali invasive, dannose sia per la qualità dei pascoli, sia dal punto di vista visivo e della fruizione turistica del territorio. Se l’allevamento comporta comunque una certa dosa di passione, è sicuramente nell’alpeggio che questa raggiunge il coronamento della maggiore soddisfazione.

Dr.ssa Marzia Verona Autrice di libri sulla pastorizia e sull’allevamento

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Il vermicompost, alcune nozioni di base Humus di lombrico? Solo se proviene da letame. Almeno secondo la legislazione italiana di

Francesco Agresti

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l decreto legislativo 75/2010 dedicato ai fertilizzanti pone dei vincoli tassativi alla definizione del vermicompost (così viene indicato dal legislatore) o humus di lombrico. Queste norme sono però vincolanti nel solo caso in cui chi produce lo faccia per immetterlo in commercio. Non ci sono restrizioni di sorta invece per chi voglia produrne per autoconsumo. In questo caso si possono utilizzare gli scarti di natura organica purché già decomposti, oltre ai letami di origine diversa da quelli indicate nel decreto legislativo.

Lettiere per vermicompost L’humus di lombrico è il prodotto di quello che viene chiamato vermicompostaggio, un processo di bio degradazione attraverso cui, grazie all’azione combinata di microrganismi e lombrichi, le proteine degli scarti organici vengono trasformati in minerali in grado di nutrire la terra.
 L’humus di lombrico è un ammendante in grado di migliorare la struttura chimica e fisica del terreno aumentandone la fertilità. E’ un concime ammesso in agricoltura biologica, già per il solo fatto di essere stato prodotto secondo quanto prescritto dal decreto 75/2010, senza

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quindi il bisogno di una ulteriore certificazione. Ma non tutti i lombrichi sono adatti a essere impiegati in questo processo. Finora ne sono state scoperte 8.300 specie. Quelle generalmente utilizzate per la trasformazione delle proteine in minerali sono 5: Eisenia andrei, Eisenia fetida, Dendrobaena veneta, Perionyx excavatus ed Eudrilus eugeniae (sperimentazioni sono state realizzate anche con altre specie). Di queste 4 vivono in zone temperate e tra queste ultime due in particolare, Eisenia andrei ed Eisenia fetida, per la loro resistenza e prolificità sono considerate le migliori. 
Gli Eisenia andrei, pur essendo biologicamente diversi, presentano caratteristiche molto simili agli Eisenia fetida. Entrambi sono in grado di sopravvivere a un intervallo di temperature compreso tra 0 e 35°, che li differenzia, ad esempio, dalla Dendrobaena veneta (chiamata anche Eisenia hortensins o European nightcrawler) che, pure avendo un peso medio di gran lunga superiore, (circa 0,90 grammi), non regge oltre i 25°C e non sopporta temperature inferiori ai 15°C. Ma non solo la resistenza alle temperature che ne fa le specie più adatte al vermicompostaggio. Le prime due Eisenia, infatti, hanno un tempo di incubazione compreso tra i 18 e i 26 giorni contro i 42 della Dendrobaena veneta e i 40 giorni di un’altra specie adatta al vermicompostaggio, il Lumbricus rubellus. Il ciclo di vita, dalla nascita alla piena maturazione, è per entrambe, - Andrei e Fetida - compreso tra 41-51

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giorni, contro i 100-150 giorni per la Dendrobaena veneta e i 120-170 del Lumbricus rubellus. Ma la variabile che fa dell’ Eisenia andrei la migliore specie, anche rispetto alla Fetida, è il tempo per raggiungere la maturità sessuale. I precoci “Andrei” sono in grado di riprodursi dopo soli 21 giorni di vita, mentre ai Fetida ne occorrono 7 in più. Mentre per il mercato va utilizzato solo letame suino, ovino, equino e bovino e/o loro miscele, chi produce per sé, oltre a queste tipi di letame, può utilizzare quelli di altri animali e/o altri tipi di scarti organici. Qualora, invece, si decida di produrre per il mercato utilizzando i lombrichi, ma dando loro in pasto matrici diverse dai letami indicati, il prodotto che viene fuori deve essere commercializzato come ammendante compostato misto e non come humus di lombrico. Al di là della questione nominale, in termini economici, il vermicompost ha un valore di mercato che è tra le 5 e le 10 volte superiore a quello di un ammendate compostato misto. Differenza che ne rende economicamente sconveniente l’impiego. A meno che, appunto, non si produca per autoconsumo. www.lombricolturabellafarnia.it info@lombricolturabellafarnia.it Francesco Agresti Lombricoltura Bella Farnia

Zootecnia


Alla scoperta dell’Anatra Muta Vediamo nel dettaglio le caratteristiche di una delle anatre più diffuse ed allevate al mondo di

Giovanni Di Cicco

Il suo nome scientifico è Cairina moschata, ma comunemente viene chiamata in molti modi, alcuni dei quali rispecchiano certe sue caratteristiche; il più diffuso è Anatra Muta, che deriva dal fatto che il maschio adulto non emette un vero e proprio verso ma solo un soffio che ha ritmo e durata variabile, al contrario delle femmine che dispongono di una vasta gamma di suoni. Altri nomi usati sono Anatra di Barberia, Anatra Muschiata (a causa dell’odore di muschio che emana il maschio adulto), Anatra Caruncolata (che prende origine dalle caratteristiche caruncole della testa) e molti altri ancora.

La forma domestica In seguito all’addomesticamento l’anatra muta ha subito numerosi cambiamenti: la taglia è aumentata notevolmente, infatti ci sono documentazioni di maschi che superano

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gli 8 kg di peso, ma la media è di 5 - 6 kg per il maschio e 3 - 4 kg per la femmina. La forma ha subito pochi cambiamenti, diventando più tozza e corta solo nei soggetti di alcuni Paesi (tipo Australia). Questo aumento di peso ha reso sempre più difficoltoso il volo, in particolare nei maschi, ma anche in alcune femmine. Altre caratteristiche soggette a cambiamenti sono state le dimensioni e il colore delle caruncole facciali: le caruncole negli animali selvatici sono poco sviluppate e prevalentemente nere, mentre nei soggetti domestici sono rosse, fortemente corrugate e si estendono, in alcuni casi, anche al collo (caratteristica frequente nei soggetti di origine statunitense). Un’altra caratteristica che ha subito delle variazioni è il ciuffo occipitale, che nella maggior parte dei sogget-

ti domestici si è fortemente ridotto e in alcuni è inesistente. Oltre a questi cambiamenti morfologici, nell’ anatra muta sono state create numerosissime varietà cromatiche, che la differenziano dalla progenitrice selvatica sia nel colore che nel disegno: la Cairina moschata ancestrale ha un piumaggio interamente nero con riflessi verdi-violacei. Nella fase giovanile la fascia dell’ala bianca è parziale o assente, ma si presenta solo dopo il primo anno di età. Questa colorazione viene chiamata “Selvatico nero”. Nei soggetti domestici le colorazioni si dividono in tre gruppi: “Selvatica”, con il piumaggio monocromatico fatta eccezione per la fascia dell’ala; “A tinta unita o Monocromatica”, come dice il nome stesso il piumaggio è monocromatico e non ci sono piume di altro colore; “Pezzata”, lo sfondo è bianco e sono presenti macchie scure su testa, dorso, coda e sottocoda. Oltre a queste tipologie di disegno sono state create delle varietà che hanno cambiato il colore delle piume: le colorazioni create dall’uomo sono la Bruna, la Grigio Perla, la Barrata, la Blu, la Testa Bianca, la Lilla, la Rippled (tradotta letteralmente significa ondulata/increspata) e quella con bavetta bianca. Queste ultime colorazioni sono le più recenti e meno diffuse e dal punto di vista genetico non ancora stabili. Tutte

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queste colorazioni possono andare a combinarsi con i tre tipi di disegno creando, per esempio, una Selvatica Bruna con Testa Bianca oppure una selvatica nera barrata con testa bianca (e molte altre ancora).

Allevamento L’anatra muta è un uccello molto adattabile, ne è la dimostrazione la sua diffusione attuale che la vede presente in tutto il globo, fatta eccezione per l’ Artide e l’ Antartide. Contrariamente alle altre anatre sopporta l’assenza di acqua, ma non bisogna mai dimenticare che sono animali acquatici ed è sempre buona norma fornire loro anche una semplice bacinella o vasca dove potersi immergere. L’ alimentazione è basata su granaglie varie (mais, grano, orzo, avena, soia, ecc.), frutta e verdura, ma sono ghiotte di larve ed insetti vari, arrivando a mangiare anche piccoli animali come lucertole e topi. L’accesso ad un buon pascolo gli permette di trovare tutto quello di cui necessitano e la presenza di arbusti ed alberi fornisce dei ripari, sia per il freddo che per il caldo eccessivo. Sono animali che formano delle gerarchie nel gruppo e gli scontri sono quasi sempre brevi e incruenti, tranne tra i maschi nel periodo riproduttivo (i quali possono procurarsi anche ferite gravi). Una volta stabilito l’ordine gerarchico sono tranquille e pacifiche, anche nei confronti delle altre specie. Si riproducono durante quasi tutto l’anno, fatta eccezione per il period o

d e l la muta ed i mesi più freddi dell’anno. Ogni maschio crea un harem compo-

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sto da 3 a 5 femmine, che protegge dai maschi rivali e, in misura minore, anche dai predatori. Ogni femmina depone alle 10 alle 25 uova alla volta, di colore tendente al crema e nonostante l’addomesticamento non ha perso l’istinto alla cova, tanto che viene utilizzata per covare le uova di altri palmipedi come oche e cigni. Il periodo di incubazione dura circa 35 giorni. Il nido viene costruito a terra in un posto sicuro dai predatori ed al riparo dalle intemperie, utilizzando erba, foglie, paglia e piume. Se gli anatroccoli vengono tolti alla madre appena dopo la nascita si possono avere anche 4 o 5 covate l’anno, ma bisogna essere consapevoli che l’animale durante la cova perde molto peso e, se si esagera con le covate annue, si rischia il deperimento e in alcuni casi persino la morte della femmina. Non è un volatile delicato e resiste molto bene alle più comuni malattie, purché le condizioni igieniche siano adeguate ed i box non siano sovraffollati.

L’Anatra Muta in Italia ed il Ceppo Autoctono Il Italia le prime grandi importazioni di Anatre Mute avvennero tra il 1930 e il 1940, con soggetti di colorazione Selvatica Nera, Bianca e Pezzata irregolare. Nate in Italia come sottorazze sparirono presto ma furono conservate in nord Europa ed Inghilterra. Rimasero quindi allevate nelle campagne le Selvatiche nere, le Bianche, le Pezzate irregolari e le rarissime Selvatiche blu. Negli anni ‘60 la Francia iniziò a diventare un importante produttrice di anatre mute per sostituire, con il fegato di anatra, il fegato di oca più difficile da produrre. Furono ottenute le mute Barrate, le Testa bianca e le Nere a petto bianco; inoltre furono riottenuti ceppi di Selvatica blu e Selvatica Grigio perla. Si fece largo uso di meticci fra le varie razze e colorazioni, importate e diffuse dai consorzi agrari ogni primavera. Pian piano i ceppi commerciali ed i gran parents di muta industriale si esaurirono, salvo alcuni ceppi di Bianche e Barrate. Attualmente la popolazione originaria si è drasticamente ridotta ed

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è continuamente minacciata dal meticciamento con soggetti industriali. Il Ceppo Autoctono si differenzia da quello industriale da vari caratteri morfologici: - il peso, che nella popolazione autoctona si aggira sui 3,5-4 kg nel maschio e 2-2,5 kg nella femmina; al contrario nel ceppo commerciale il peso è di 5-6 kg per il maschio e 3-4 kg per la femmina;

- le caruncole, che nei soggetti di Ceppo Autoctono sono molto simili a quelle delle anatre mute selvatiche, ma leggermente più sviluppate. Nella femmina sono rosse, invece nel ceppo commerciale sono interamente rosse e molto sviluppate; - il ciuffo, nei soggetti di Ceppo Autoctono, è uguale alla progenitrice selvatica, al contrario dei soggetti commerciali. La colorazione più diffusa è un Selvatico nero con macchie irregolari in particolare sulla testa e sul petto, che possono estendersi anche al resto del corpo, tanto che si possono avere soggetti quasi interamente bianchi. Per alcuni aspetti il Ceppo Autoctono si può considerare una via di mezzo tra i soggetti presenti in natura e quelli industriali, ma bisogna sempre tenere a mente che sono tre tipologie ben distinte ed è sempre la cosa migliore non ibridarle mai tra di loro.

Giovanni Di Cicco Appassionato allevatore

Zootecnia


La pododermatite ulcerativa del coniglio ...ovvero un’infiammazione della cute del piede che può esitare nella formazione di un’ulcera di

Cristiano Papeschi e Linda Sartini

L

a gestione del coniglio da carne presenta alcune problematiche che spesso si verificano, nonostante l’attenzione e la cura nella conduzione dell’attività, anche presso gli allevatori più esperti e navigati. Accanto alle malattie infettive e parassitarie vi sono tutta una serie di patologie legate alla corretta gestione degli animali e strettamente dipendenti da alcuni fattori, quali ad esempio l’alimentazione e l’ambiente di stabulazione: queste ultime sono anche note in zootecnia con il nome di “tecnopatie”, ovvero “patologie di natura tecnica”. Tra queste, la cosiddetta pododermatite ulcerativa.

Un breve accenno all’anatomia degli arti Le superfici d’appoggio dell’arto anteriore e di quello posteriore del coniglio, sono sprovviste di cuscinetti plantari a differenza di altri animali domestici quali il cane ed il gatto. In queste specie, le suddette strutture callose conferiscono protezione alle estremità, ammortizzando il peso dell’animale ed evitando abrasioni ai tessuti sottostanti. Nel coniglio, invece, osserviamo solamente la presenza di un fitto e morbido pelo che ricopre la cute dei polpastrelli isolandoli dal terreno calpestabile e preservando l’integrità della pelle. Sull’arto anteriore, la cui superficie d’appoggio misura poco più di un centimetro quadrato, grava

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una pressione pari ad appena un terzo del peso dell’intero animale mentre sull’arto posteriore tutto il resto, sebbene sia distribuito su di una superficie maggiore; questo svolge anche la maggior parte del lavoro durante la locomozione conferendo la spinta utile per la deambulazione e la corsa. Da tali considerazioni possiamo intuire quanto le zampe posteriori siano sottoposte ad uno sforzo maggiore rispetto a quelle anteriori.

Parliamo di substrato Il coniglio viene generalmente allevato in gabbia, la soluzione sicuramente più pratica al fine di ottimizzare la produzione di coniglietti e la resa in carne. Esistono diverse tipologie di gabbia, quasi tutte realizzate con pareti in rete metallica, ma quello che ci interessa ai fini della

Gabbia con fondo di paglia nostra trattazione è il pavimento di questa, meglio noto come “fondo”.

Coniglio allevato a terra Per il materiale del fondo del ricovero vengono utilizzati, di norma, solo due tipi di materiali: il ferro zincato o la plastica. Nel primo caso avremo gabbie con il pavimento in rete metallica costituito da maglie quadrate o rettangolari di dimensione diversa ma sufficiente comunque a consentire la caduta delle deiezioni in modo da evitarne l’accumulo al fine di mantenere un buono standard igienico-sanitario ed evitare la permanenza di sporco e di parassiti intestinali all’interno della struttura. Esistono poi le gabbie con il fondo in “listarelle” di plastica, bacchette a sezione rettangolare della larghezza di circa 1,5-2 cm e distanziate tra loro di poco più di mezzo centimetro, ideate sempre al fine di consentire la caduta delle feci; le listarelle sono molto più utilizzate per l’allevamento delle fattrici che non per quello degli animali all’ingrasso. Entrambe le soluzioni presentano

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dei pro e dei contro che andremo ad analizzare successivamente. Alcuni ricoveri artigianali vengono realizzati con pareti in legno e fondo in rete oppure in muratura con pavimento in cemento o terracotta. Chi ha a disposizione più spazio realizza anche piccoli recinti al chiuso, sicuramente più grandi e confortevoli rispetto alle gabbie, con il pavimento in cemento, oppure addirittura delle garenne all’aperto, cioè dei recinti più o meno grandi realizzati direttamente sul terreno in modo da consentire al coniglio di beneficiare di un pascolo e di condizioni quasi naturali. In aggiunta, alcuni piccoli allevatori rurali usano ricoprire il pavimento della gabbia o del recinto con un abbondante strato di fieno o paglia per garantire un maggiore comfort all’animale stabulato.

Vediamo i pro e i contro Analizziamo singolarmente le diverse soluzioni in funzione sia della praticità che dei risvolti sanitari. La gabbia con il fondo in rete metallica è sicuramente la soluzione più igienica in quanto l’accumulo di feci ed urine è quasi inesistente ed inoltre tale superficie è interamente lavabile, anche con prodotti igienizzanti aggressivi, e flambabile e questo ne garantisce una pulizia ed una disinfezione più accurata. Purtroppo però la rete mostra un’azione abrasiva sull’arto del coniglio, che spesso esita in piaghe, che è tanto più accentuata quanto più piccolo è il diametro del filo metallico: bisogna pertanto porre particolare attenzione a che questo diametro sia superiore ad 1,2 mm per minimizzare tali rischi. Rispetto alla rete metallica, le listarelle in plastica garantiscono una maggiore superficie di appoggio limitando ulteriormente l’insorgenza di danni agli arti e sono molto più sicure per le fattrici, regolarmente gravate dal peso dei piccoli durante la gestazione, e per i coniglietti fino al momento dello svezzamento. Il difetto risiede nell’impossibilità di usare la fiamma su questa superficie, che potrebbe altrimenti sciogliersi, e nel maggiore accumulo di feci che dovranno quindi essere asportate a mano e con regolarità. Il pavimento pieno, sia esso in cemento o ter-

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La razza di questo numero: La Bianca di Vienna Il coniglio denominato “Bianca di Vienna” è una razza domestica originaria della città dalla quale prende il nome, la capitale dell’Austria per l’appunto, oggi diffusa in Germania, Svizzera e Paesi Bassi. In Italia, inspiegabilmente, questa varietà non ha mai ottenuto un seguito soddisfacente, limitando la sua presenza a non moltissimi capi in tutta la penisoFoto Danilo Petrucci la, nonostante le ottime capacità di accrescimento; nei grandi allevamenti, infatti, gli è sempre stata preferita la Bianca di Nuova Zelanda e ad oggi, quindi, la Bianca di Vienna risulta quasi introvabile poiché pochissimi allevatori appassionati si dedicano alla sua diffusione. E’ un coniglio di medie dimensioni, con un peso che varia dai 3,5 ai 5 Kg, un corpo cilindrico e muscoloso, una linea addominale elevata, diritta e parallela a quella del dorso. La groppa è ben arrotondata, i lombi carnosi e gli arti di media lunghezza, diritti e con poco appoggio gli anteriori e robusti i posteriori. Testa forte, leggermente allungata, con un profilo lievemente convesso, occhi dal caratteristico colore blu chiaro, lucenti, ben aperti e vivaci, orecchie forti e carnose portate a V e rivolte in avanti, con una lunghezza massima di 13,5 cm. La pelliccia è di colore bianco puro, a volte con una leggera tonalità avorio, fitta e con ricco sottopelo, con giarra abbondante, fine e lucente mentre le unghie sono perlacee. Questa razza è il frutto di una selezione di conigli olandesi decolorati, mirata ad ottenere dei soggetti bianchi con gli occhi color blu, per distinguerli dai loro più prossimi parenti albini con gli occhi rossi. I primi a tentare questa impresa di selezione furono alcuni cunicoltori tedeschi ma il loro esperimento fallì in quanto i conigli tendevano ad avere macchie colorate sulla groppa, sulle orecchie e intorno agli occhi. Intorno al 1900 degli allevatori viennesi riuscirono a raggiungere l’obiettivo ma i loro conigli scomparvero durante la guerra. Nel 1910 la razza fece la sua comparsa in Germania e nel 1912 due bianchi di Vienna vennero portati in mostra ad Utrecht (Paesi Bassi). I soggetti selezionati però erano di piccola taglia, così gli allevatori viennesi cercarono rapidamente di accrescere le dimensioni di questa razza attraverso l’accoppiamento con esemplari di gigante bianco, portandoli in breve tempo a dimensioni maggiori. Nel 1926 la Bianca di Vienna venne riconosciuta ufficialmente fra le razze di taglia media.

Roberto Corridoni racotta, consente di appoggiare la zampa per intero in quanto mancano spazi vuoti ma il materiale con il quale è realizzato, soprattutto se si parla di cemento, potrebbe comunque determinare l’insorgenza di lesioni, a causa della sua ruvidezza, soprattutto in animali pesanti o in giovani particolarmente esuberanti durante le festose “sgommate”. Questo tipo di fondo è lavabile e flambabile ma raccoglie tutte le feci e l’urina prodotta e quindi rappresenta un maggiore

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rischio sanitario, a meno che non si proceda con regolarità alla pulizia ed al lavaggio della superficie. L’aggiunta di paglia o fieno rende il pavimento più soffice e confortevole e riduce al minimo l’incidenza di lesioni alle zampe, in particolare alle superficie d’appoggio degli arti, ma anche in questo caso il materiale vegetale deve essere rimosso e sostituito con regolarità onde evitare che si impregni troppo delle deiezioni costituendo così un rischio sanita-

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Pododermatite localizzata all’arto rio. Nella garenna, invece, avremo un substrato naturale, sicuramente la soluzione migliore dal punto di vista etologico in quanto molto vicino alle condizioni che il coniglio incontrerebbe in natura. Il difetto risiede nell’impossibilità di operare la profilassi sanitaria rimuovendo le feci e disinfettando l’ambiente. Pertanto il rischio sanitario aumenterà proporzionalmente al numero di animali ospitati ed alla superficie a disposizione; il consiglio è quello di non sovraccaricare il terreno e disporre di più recinti da usare a rotazione effettuando il “vuoto sanitario” periodico, lasciando che la radiazione solare e la lavorazione successiva della terra bonifichino l’area.

Cos’è la pododermatite? Tutto questo preambolo per arrivare a parlare finalmente della pododermatite ulcerativa. Il termine “pododermatite” significa letteralmente “dermatite del piede”, mentre “ulcerativa” indica la formazione di ferite sanguinanti. In sintesi potremmo dire che questa patologia è “un’infiammazione della cute del piede che può esitare nella formazione di un’ulcera”. Alla sua base

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vi è un fenomeno chiamato “necrosi ischemica” che sta ad indicare la “morte delle cellule per mancanza di apporto di sangue”. Vediamo nel dettaglio come funziona. Come abbiamo già accennato, il palmo della mano e la pianta del piede del coniglio sono ricoperti di un pelo denso e fine che protegge la pelle dal contatto con il substrato. Quanto il fondo del ricovero possiede caratteristiche di eccessiva abrasività, questo pelo tende a diradarsi, a spezzarsi ed infine a cadere completamente lasciando la cute nuda ed esposta. L’assenza di ammortizzazione provoca compressione della pelle, molto delicata e sottile, che quindi riceve meno apporto di sangue ed i tessuti perdono così elasticità e nutrimento mentre l’epidermide inizia ad infiammarsi ed esfoliarsi. Quando il problema si prolunga nel tempo, sulla cute vengono a crearsi prima delle microlesioni che successivamente esitano in vere e proprie ulcere profonde e sanguinanti. Subito al di sotto della cute sono presenti tendini, legamenti, capsule articolari ed ossa che possono essere rapidamente coinvolte nel processo patologico e subire danni irreversibili. Inoltre queste ulcere, che vengono a contatto diretto con un ambiente “sporco” e ricco di microorganismi potenzialmente patogeni, soprattutto batteri quali streptococchi, stafilococchi e pasteurelle, possono andare incontro ad infezioni secondarie che aggravano il quadro clinico con comparsa di pus e macerazione dei tessuti e possono portare, in seguito, ad osteomielite (infezione dell’osso) e setticemia (infezione generalizzata e letale). La pododermatite, dunque, viene causata essenzialmente da un fondo inadeguato in grado di ledere la zampa del coniglio ma è opinione comune che esista anche una predisposizione genetica per la quale, se un coniglio è destinato a questo tipo di problema, potrebbe manifestare il danno anche in condizioni di stabulazione ottimali. Non è raro che anche in allevamenti molto curati, con gabbie realizzate ad hoc, possano presentarsi queste lesioni molto caratteristiche, magari a causa di un piede con una copertura di pelo troppo scarsa o rada o con la ten-

denza all’alopecia localizzata. Generalmente le lesioni compaiono prima sulla superficie plantare dell’arto posteriore, che come abbiamo detto è più soggetto ad insulti meccanici e gravato da un peso maggiore, e successivamente anche sulle zampe anteriori con formazione, in entrambi i casi, di aree crostose circolari e sanguinanti con la tendenza ad espandersi. Quando si verifica questo problema, si preferisce escludere dalla riproduzione soggetti che possano trasmettere alla prole questa predisposizione. Altri fattori che ne favoriscono l’insorgenza sono l’obesità, in quanto il sovrappeso determina una maggiore compressione sull’arto, e l’accumulo di feci ed urine sul pavimento, in grado di corrodere il pelo e la cute delle zampe. I conigli allevati andrebbero osservati con cadenza regolare al fine di individuare tempestivamente eventuali alterazioni e in questo contesto; soprattutto a seguito di quanto detto fin qui, consigliamo di buttare un occhio ai piedi ogni volta che si manipola un coniglio per altri motivi. Alle prime avvisaglie di lesioni alle zampe è bene individuare in tempi brevi l’origine del problema, qualora questa fosse imputabile ad errori di gestione e correggerla tempestivamente. Le lesioni podali non guariscono facilmente e spesso peggiorano rapidamente: in caso di lesioni gravi e profonde la prognosi è spesso sfavorevole. Per la terapia si possono usare pomate cicatrizzanti ed antibiotici, da utilizzarsi esclusivamente previo parere del veterinario. La prevenzione, la corretta gestione dell’allevamento e delle gabbie e la selezione di soggetti con piedi forti è sicuramente la strategia vincente per questo problema antico quanto la coniglicoltura stessa. Dr.ssa Linda Sartini DVM Specializzata in ispezione degli alimenti di origine animale

Dr. Cristiano Papeschi DVM

Università degli Studi della Tuscia Specializzato in teconologia e patologia del coniglio, della selvaggina e degli avicoli

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Inarniamento di uno sciame di api Ecco come ho catturato una famiglia sciamata ed insediatasi all’interno della persiana di una casa di

Alessandra Bruni

La sciamatura rappresenta l’opportunità per le api di diffondere la propria discendenza ed è una caratteristica ereditaria comune a tutte le specie di Apis, più o meno evidenziata a seconda delle razze. Consi-

selezionano regine poco propense a sciamare. Lo scorso settembre mi è capitato di imbattermi in uno sciame di api insediatosi da molto tempo all’interno della persiana di un’abitazione. La casa era in vendita e le persiane chiuse davano l’idea che fosse disabitata; le api avevano quindi avuto tutto il tempo di PRODURRE LE PIANTE trasferirsi in PER L’ORTO totale tranquillità. La SCEGLIERE IL MAIALINO persiana DA INGRASSO dalla quale NOVITA’: entravano ed IL uscivano le api non CAVIALE DI era chiusa perfettamente e poteva LUMACA essere aperta anche dall’esterno; UTILIZZARE di fronte alla finestra, in terra, avevo AL MEGLIO I notato la presenza di un’arnia, sporFITOFARMACI

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ste nella partenza definitiva, da una colonia, di una regina seguita da una parte delle operaie. Oggi l’attitudine alla sciamatura è una tendenza negativa per gli apicoltori che, quindi,

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ca e polverosa con della paglia sul predellino. Qualcuno aveva già provato a prendere lo sciame ma evidentemente senza risultato. Parlando con la proprietaria dell’abitazione, la quale mi ha raccontato dell’estrema urgenza che aveva di spostare le api, ho deciso di catturare la famiglia (anche se il periodo ideale per farlo sarebbe stato la primavera successiva). L’alternativa era la distruzione della famiglia da parte del proprietario e quindi non ho avuto scelta. La mattina dopo, complice una calda e soleggiata giornata, sono tornata subito con la mia attrezzatura. Materiale:N° 0 • un’arnia vuota • 6 telai costruiti • 4 telai non armati • affumicatore • due secchi • un coltello • chiodi • spago o filo di rafia naturale • spazzola

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NOVIT CAVIA LUMAC

Zootecnia UTILIZ

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Il telaino pronto per accogliere i favi naturali Ho posizionato l’arnia davanti alla finestra (sopra quella già presente) con i 6 telai costruiti all’interno, ma per il momento senza gli altri 4. Appena aperta la persiana ho potuto vedere le dimensioni reali della famiglia, che era molto forte e numerosa (estesa su ben 8 favi naturali). Ho iniziato ad affumicare un pò ovunque e con il coltello ho tagliato i primi 2 favi di scorte, portando

La finestra a lavoro ultimato allo scoperto tutti i favi del nido. Con l’ausilio della spazzola, sempre inumidita per non irritare troppo le api, ho spazzolato i favi. I favi contenenti il miele sono stati messi nel secchio che avevo posto ad una certa distanza dallo sciame (almeno una decina di metri). A questo punto ho preso due telai vuoti (precedentemente inchiodati ai margini) ed ho legato una facciata di ognuno con il filo, intrecciandolo tra i

Zootecnia

I favi naturali “ingabbiati” nel telaio

chiodi. Dopo aver ispezionato dettagliatamente la covata e verificato che lo sciame non fosse malato di peste, ho proseguito tagliando il favo di covata compatta con celle aperte ed al suo ingabbiamento nel telaio. Successivamente ho proceduto al taglio del favo di covata opercolata, sempre a misura di telaio e l’ho ingabbiato in un altro telaio; ovviamente il favo collocato in questo modo risulta precario e tende a muoversì un pò, perciò più filo si usa e più lo si stringe e meglio è. In tutte le operazioni ho controllato i favi per cercare di scorgere la regina e man mano che tagliavo i favi ognuno veniva selezionato: quelli vuoti venivano messi nel primo secchio per poi essere destinati alla fusione ed i favi pieni di miele in un altro secchio per poi essere destinati alla torchiatura. Terminato il taglio di tutti i favi, l’arnia è stata completata così: - 4 telai di scorte, pieni di miele e polline, disposti ai lati - 2 favi di covata ingabbiati, - 4 telai costruiti.

Infine l’arnia è stata chiusa e lasciata in loco per consentire, fino a tarda sera, il ritorno di tutte le bottinatrici e di tutte le api che si erano alzate in volo al momento dell’inarniamento. E’ stata spostata la mattina seguente prima dell’alba e disposta in un luogo di quarantena per esser sicuri dell’assenza di patologie (a più di

La nuova dimora della famiglia 3km dalla postazione originaria). Al termine della quarantena, dopo aver constatato la stato sanitario delle api, l’arnia è stata portata in apiario. Dott.ssa Alessandra Bruni Laureata in Scienze e Tecn. Agrarie

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Alimentazione della Capra “fai da te” Come renderci indipendenti e gestire in autonomia l’alimentazione dei nostri caprini di

Stefano Tosco

Spesso si tende a compiere l’errore di associare ai nostri animali ogni genere di alimento: non è detto che se qualcosa piace (o fa bene) a noi, possa essere adatto anche per loro. Bisogna invece tenere conto di quelle che sono le esigenze alimentari di ciascuna specie, tanto da un punto di vista nutrizionale che funzionale, in funzione del particolare apparato digerente: è infatti estremamente improbabile che un ruminante abbia la medesima alimentazione di un monogastrico, o che un erbivoro possa mangiare quello che mangia un carnivoro. Questo è un ragionamento che per molti potrebbe apparire banale, ma che talvolta alcuni proprietari di cani, maiali, cavalli o polli tendono a non considerare. Nello specifico, quando si parla della capra, è necessario capire che certamente si tratta di un animale molto rustico, ma allo stesso tempo, essendo un ruminante, è munito di un apparato digerente complesso: tre prestomaci, uno stomaco ed un intestino. Un animale erbivoro, questo, che necessita di fibra per avviare e condurre correttamente il processo di ruminazione e che non deve essere alimentato con cibi che abbiano un’elevata concentrazione di zuccheri o che siano squilibrati in favore di taluni elementi. Il modo più semplice per non incorrere in problemi è sempre quello di

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somministrare fieno (soprattutto alla mattina prima del pascolo) e poi integrare la razione con granella o mangimi concentrati specifici. Spesso per etica personale, per scelte aziendali, o per la troppa distanza dai vari consorzi e cooperative agricole, si decide di autoprodurre il cibo per i nostri animali: ecco un breve memorandum su cosa e come possiamo fare per renderci indipendenti e gestire in autonomia l’alimentazione delle nostre amate capre. La prima cosa da tenere in conto è che la capra è un animale che ama il pascolo. Molti allevatori, soprattutto della capra domestica, decidono di adibire a

pascolo gli spazi attorno all’abitazione, pensando di sfruttare la qualità indiscussa delle capre di tenere a bada la vegetazione. Ma attenzione perché la capra, a differenza della pecora, non tiene la testa bassa cibandosi principalmente dell’erba, ma bensì cerca la

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foglia degli arbusti e degli alberi e non disdegna la corteccia di questi. Lasciare quindi una capra in un bel giardino con corredo di rose e siepi si rivelerà quanto prima una mossa non vincente: nel giro di una mattinata un singolo animale può letteralmente decimare i germogli più giovani delle vostre Rosacee, piuttosto che delle Ortensie, del Gelsomino, del Glicine, delle piante aromatiche o di quelle ornamentali. Tra queste ultime c’è da tenere conto che ce ne sono alcune che possono creare problemi alle capre: piante come l’oleandro, il lauro ceraso, le azalee, i rododendri e il tasso hanno un’elevata tossicità nociva (se non addirittura letale) per questi animali. E’ quindi opportuno osservare e riflettere a lungo su cosa le capre possano ingerire, prima di consentire loro l’accesso ad un pascolo. D’altro canto possono essere libere di pascolare in terreni incolti o abbandonati e si dimostreranno ottime ed instancabili “ripulitrici” di questi, soprattutto in presenza di pruni e rovi. Un buon pascolo deve avere più varietà di erba possibile e non deve eccedere mai con le leguminose, che se ingerite bagnate (anche di rugiada) possono creare dei problemi di meteorismo durante la ruminazione; le graminacee possono invece abbondare, ma comunque essere alternate ad altre famiglie di

Zootecnia


piante. I vari tipi di loietto, la festuca, l’orzo selvatico, l’avena selvatica, l’erba marzolina, assieme ai vari trifogli, alla veccia, al ginestrino, alla sulla, con la presenza di radicchi selvatici, ortica... sono tutte piante che costituirebbero un ottimo prato. Definito ciò, c’è da capire quanto la capra riesca a trarre sostentamento dal proprio pascolo e quindi è bene averne uno le cui piante alternino le loro fioriture, in modo da protrarre il più possibile la disponibilità di cibo. E’ possibile anche sfalciare l’erba da somministrare giornalmente nella stalla, oppure sfalciarla, lasciarla asciugare e seccare per qualche giorno e poi metterla in rastrelliera: quest’ultima pratica è la più utilizzata in presenza di erba medica o di prati a prevalenza di leguminose. Naturalmente il fieno dovrà essere il sostentamento principale per i mesi in cui il pascolo sarà scarso o non accessibile (se piove o c’è neve): è bene quindi, laddove possibile, dedicare una parte dell’azienda ai prati ed agli erbai. Un erbaio indicato per le capre (e non solo) potrebbe essere realizzato con l’avanzo dei semi degli anni precedenti: potreste seminarli in aree da adibire ad erbaio, ed in primavera inoltrata falciare prima che la spiga giunga a maturazione. Naturalmente per i prati potrete sbizzarrirvi come vorrete, cercando però di falciarli prima che la pianta sia sfiorita, poichè a quel punto il fieno risulterebbe molto coriaceo e povero di sostanze nutritive. Pascolo, erba falciata, erbai e prati: in questo modo le capre avranno la maggior parte dell’alimentazione annua assicurata. Ma se avete un oliveto, evitate di lasciarcele pascolare: sapranno fare danni importanti tanto ai rami giovani quanto al fusto degli alberi. Potrete comunque utilizzate i residui di potatura per la loro alimentazione, ricordando che li gradiranno, purchè non eccediate mai con le dosi e te-

Zootecnia

niate conto che il sapore amaro sarà in buona parte conferito al latte. Un’altra soluzione, sempre da attuare in inverno, potrebbe essere quella di far pascolare le vostre capre nei vigneti o nei frutteti, ma solo se non avrete effettuato alcun tipo di trattamento. In un periodo in cui le raccolte dei frutti saranno terminate e le foglie degli alberi saranno cadute non attirando le capre, esse si concentreranno sul prato sottostante e sino ai primi giorni di marzo potranno anche continuare a tenere pulito e concimare un terreno che non utilizzereste in altro modo: ricorda-

te però che quando le gemme della vite e degli alberi inizieranno ad aprirsi sarà bene che le capre siano altrove, altrimenti penseranno loro a decimarvi bene le piante. Anche i residui di potatura delle piante boschive saranno apprezzati (le capre adorano il leccio, il castagno, la quercia e molto altro), ma fate attenzione con le felci e le edere poichè potrebbero creare problemi in virtù della loro tossicità. Molte persone hanno l’abitudine di dare della frutta alle capre, ma l’attenzione deve essere rivolta alla masticazione: capita di frequente che una capra ingoi per intero un piccolo frutto sferico e che questo possa crearle delle difficoltà occludendo l’esofago. Tagliare tali frutti potrebbe essere una soluzione, ma non esagerate mai con le dosi in quanto la frutta, come le ghiande o le castagne, può rappresentare un’integrazione (spesso proprio mentre stanno pascolando), ma non deve essere l’alimento principale.

Veniamo poi al pane secco, ai biscotti, alle fette biscottate, per non parlare del pane bagnato o dei pastoni di pane e crusca: tutto questo non è assolutamente indicato per un ruminante e quindi neanche per le nostre capre. Seppur siano graditi, i prodotti di forneria contengono lieviti o sono derivati da lievitazioni ma in entrambi i casi questo può creare discreti problemi in fase di ruminazione. Il pane mangiamolo noi uomini, o al limite diamolo ad altri animali, ma non certo ai ruminanti. L’ultimo alimento da tenere in considerazione è quello composto da granelle aziendali come orzo, mais e avena che sono molto apprezzati dalle capre e interi, spezzati o in farina possono essere considerati i migliori coadiuvanti in un’alimentazione a base di erba e fieno. E’ buona regola somministrare tali alimenti sempre dopo che l’attività ruminale sia stata avviata e quindi dopo che le capre abbiano mangiato del fieno. Le dosi, anche in questo caso, non devono essere eccessive (soprattutto per il mais) poichè potrebbero creare problemi di acidosi ruminale e/o diarree. Ricordate sempre di chiamare il veterinario per ogni dubbio e problema che riscontrerete con i vostri animali e lasciate che sia l’esperienza a guidarvi, solo dopo che questa si sia realmente concretizzata. La capra è un animale che sa adattarsi alla maggior parte delle situazioni climatiche/ambientali e quindi anche la sua alimentazione potrà variare a seconda di quanto la Natura saprà metter loro a disposizione. Quindi è bene ricordare che possiamo alimentarle con quello che abbiamo a disposizione nella nostra azienda.

Stefano Tosco Coltivatore diretto

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Il Saarloos, un Lupo in famiglia di

Federico Vinattieri

Animali da compagnia

Il Cane Lupo di Saarloos, razza olandese derivante direttamente dal Lupo, è senza dubbio la razza canina più vicina al Canis lupus tra tutte quelle riconosciute dalla Federazione Cinologica Internazionale. Questa razza è quasi totalmente ignota in Italia e annovera pochi allevatori nell’Europa meridionale; al contrario, in Europa settentrionale, e soprattutto nel nord della Francia, Olanda, Belgio, Germania e Scandinavia, questo Cane-Lupo è abbastanza allevato e vi sono tanti centri di selezione che possiedono molti soggetti da riproduzione. Questo particolare cane possiede delle caratteristiche uniche e peculiari, prima tra tutte il tipico aspetto caratteriale. Il Saarloos all’origine fu creato come cane da utilità e nello specifico come cane guida per ciechi, anche se in realtà non è mai stato adottato per alcun impiego utile; però L. Saarloos, il creatore della razza, fu obbligato a dichiarare e abbinare una mansione, o attitudine che dir si voglia, a questi cani. Affinché nei Paesi Bassi una razza sia indicata come tale e possa ottenere il riconoscimento ufficiale è necessario che dimostri una qualche utilità e al signor Saarloos venne l’idea di dichiarare questo utilizzo, in quanto la moglie era appunto non vedente. Con il passare degli anni, il Saarloos divenne inutilizzabile per la funzione di cane-guida, poiché la sua natura schiva e diffidente non permetteva loro di mantenere quella tranquillità e disinvoltura necessaria per accompagnare le persone per strada; inoltre, con l’avvento del traffico nel dopo-guerra, queste loro paure si accentuarono ancor di più. Il Saarloos quindi non fu mai più selezionato per alcuno scopo funzionale, pertanto pian piano divenne un

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vero e proprio cane da compagnia anche se paradossalmente venne riconosciuto ed inserito nel primo raggruppamento della Federazione Cinologica Internazionale, ossia nel gruppo dei “Cani da pastore e bovari”. È strano che vi sia stata la decisione di annoverare questa razza nel suddetto gruppo, ma visto che i gruppi sono suddivisi soprattutto in base all’attitudine delle razze, il Saarloos avrebbe dovuto essere inserito tra i “cani di tipo primitivo”, dato il suo aspetto estremamente simile al cane primordiale, o addirittura nel gruppo dei “cani da compagnia”. Non v’è dubbio che il Saarloos sia uno dei cani più adatti alla vita in famiglia. La simbiosi che si viene a creare tra questa razza e il proprio padrone non ha eguali nel mondo della cinofilia. Il Saarloos vive per il

ché l’ansia da separazione è innata in lui e il suo attaccamento è indelebile. Il proprietario deve avere una grande pazienza e soprattutto una profonda sensibilità. Il primo approccio con un Saarloos può essere quasi traumatico, soprattutto se non si ha mai avuto a che fare con questa razza; quindi è opportuno entrare nell’ordine di idee che non si tratta di un “cane normale”, ma di un soggetto che ha mantenuto molti degli aspetti caratteriali e degli istinti del suo antenato lupo e non è assolutamente adatto al cinofilo neofita. Quando un cucciolo entra a far parte

proprio padrone e bisogna essere consapevoli che quando si diventa proprietari di uno di questi cani non si può delegare la sua gestione, poi-

della nuova famiglia, questo cerca subito un riferimento umano ed è incredibile con quanta facilità si affezioni ad una persona.

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Statisticamente esiste una particolare affinità per le donne; lo conferma il fatto che la percentuale di allevatori di sesso femminile è molto elevata e ciò può sembrare strano dato che un cane-lupo apparentemente sembra più adatto ad un uomo, ma conoscendo la razza si capisce bene che non è così. Il lavoro da fare per la corretta crescita fisica, ma soprattutto psicologica di un cucciolo è quasi maniacale. Solo una persona che abbia del tempo da dedicarvi può tentare di crescere uno di questi cani, in quanto una sola parola può riassumere la maggior parte del lavoro: “socializzazione”. Fin da neonato si deve infatti attuare un vero e proprio piano di addestramento psicologico, favorendo da subito il contatto diretto con il mondo che lo circonda, sottoponendo i soggetti costantemente a piccole sollecitazioni esterne. Via via che cresce, un Saarloos deve entrare in contatto con persone estranee, con rumori nuovi, con ambienti diversi e con svariati oggetti ed odori differenti. Tutto questo è di primaria importanza se si vuol ottenere un soggetto che sia in qualche modo gestibile una volta adulto. Se si lascia a sé stesso un cane di questa razza, si rischia di ritrovarsi al fianco un compagno con carattere impulsivo e ingestibile una volta uscito dal proprio ambiente, ossia dalla propria abitazione. L’istinto selvatico è innato in lui. Non mostra mai nessuna forma di aggressività, ma ha ereditato dal Lupo la diffidenza, la riservatezza e la necessità di evasione quando si trova in ambienti o situazioni che non conosce e non comprende. La costanza e la dedizione sono requisiti necessari per tutti coloro che vogliono cimentarsi nella crescita di un cucciolo acquistato in un allevamento, che ha quindi tutto da imparare. I cuccioli possiedono grande vivacità e, come succede per molte altre razze, nella crescita devono passare per la “fase distruttiva”, cioè quel periodo in cui tramite la bocca vanno a identificare tutto ciò che li circonda, rovinando sovente molti oggetti; in tal caso non bisogna reprimerli. Portare i cuccioli in mezzo alla gente, al mercato, alla stazione, in luoghi dove vi siano persone

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estranee, è per loro un importante rinforzo positivo. I cuccioli devono in sostanza comprendere che uscendo dal proprio habitat non ci si imbatte in nessun pericolo. Quando si incontrano persone interessate al cucciolo, si deve permettere loro di toccarlo,

cani più adatti alla vita insieme alla famiglia. Questa viene da lui identificata come il suo branco, dal quale non si separerebbe mai e per la quale tende ad essere molto protettivo. Chi vuole partecipare alle esposizioni canine deve lavorare ancor di

premiandolo con un bocconcino che può essere proposto direttamente dalla mano dell’estraneo. Il carattere del maschio è diverso da quello del sesso opposto: le femmine sono più guardinghe, più reattive mentre i maschi, nonostante la loro mole, sono più tranquilli e manifestano il loro affetto fino all’esasperazione. I cuccioli si dimostrano molto intelligenti e furbi, non finiscono mai di stupire per l’astuzia che dimostrano con le loro azioni: i giovani Saarloos ti studiano, non aspettano il tuo comando e agiscono sempre e solo per ottenere ciò che vogliono e non per disubbidire. E’ tangibile il loro innato istinto di sopravvivenza. Per il cibo farebbero qualsiasi cosa e nonostante in famiglia o in allevamento vengano alimentati correttamente, soddisfacendo il loro fabbisogno nutrizionale, non si sentono mai sazi. Chi ha accolto un Saarloos in casa capisce subito perché sia uno dei

più sulla socializzazione. Non tutti i giudici conoscono le caratteristiche tipiche della razza e non capiscono quale sia l’importanza del suo aspetto caratteriale, che volutamente è stato riportato sullo standard ufficiale in modo da valorizzare i soggetti che possiedono la tipicità del lupo - che è all’origine della selezione e che ne prova la purezza. Il Saarloos è un cane unico, un amico fedele nel vero senso della parola, un compagno che da grandi soddisfazioni e che mai potrà deludere il proprietario, in quanto con questo cane è impossibile soffrire di solitudine o ritrovarsi in carenza di affetto Allevamento di Fossombrone http://lupi.difossombrone.it/ Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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Un simpatico pennuto per amico I pappagalli sono fantastici animali da affezione, ma occorre fare un pò di chiarezza sulle varie tipologie di allevamento di

Clarissa Catti

L

a mattina ad allenare cavalli ed il pomeriggio rinchiusa nelle piccole aule universitarie con almeno due postazioni portatili collegati alla rete. I professori parlano e parlano, ma quasi nessuno ascolta mai quello che dicono. Alla fine della giornata due occhi così e la mente è stata tutto il giorno in movimento, pensando alle attività da fare a casa. Parcheggio la macchina nel vialetto e già da lì sento un verso gracchiante provenire dalla sala. Quando apro la porta di casa, lascio la borsa in terra e mi affaccio dalla porta del salotto. “Ciao!”, dico con un sorriso e la riposta non tarda ad arrivare. Mi lancio sul divano e guardo le gabbie dei miei coloratissimi pennuti, dove una femmina di Conuro Testa Nera mi osserva curiosa. Alzo la mano e schiocco le dita chiamandola anche con la voce, come se volessi avvicinare il mio gatto. Subito la vedo lanciarsi dalla postazione e appoggiarsi sul dorso della mia mano, punzecchiandomi la pelle con le piccole unghie nere. Arruffa le piume dai mille riflessi colorati ed inizia a giocare affettuosa con le dita. Le prendo il becco e le scuoto un po’ la testa per giocare e in cambio la sento pigolare come un pulcino nel nido. “Ciao!”, le ridico dolcemente. Dopo qualche tentativo molleggia con la testa e sottovoce ripete la mia parola. Che soddisfazione averglielo insegnato. La pappagallina non ha un nome, ma fa parte della famiglia da qualche mese.

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Alla mostra scambio di Reggio Emi- volta che cerchiamo di lia la vidi in una gabbietta di un ra- portarcelo alla bocca. gazzo della mia città: lì, ammassata A volte esaspera, ma fa fra altri esemplari che si schiaccia- sempre piacere sapere che qualcuvano l’un l’altro per un po’ di spazio, no mi aspetta a casa anche quando si aggrappava alle sbarrette grac- non c’è il mio compagno. chiando terrorizzata. Il fascino dell’esotico “Vuoi? Centocinquanta euro!”; assorta nei miei pensieri mi sento sbat- Inizialmente il bello dell’esotico si tere in faccia la ridicola offerta. Un era evoluto nell’800 con le mode del esemplare allevato a mano come tempo e ne abbiamo diverse rapprequello ne vale almeno trecento: il sentazioni nei numerosi quadri di mio ragazzo aveva sempre deside- pittori famosi. Negli ultimi anni ‘90 e rato un esemplare allevato a mano primi dei 2000 è stata magicamened in più avrei salvato un piccolo ani- te presa in considerazione l’idea di male. Tirati fuori i soldi dalle tasche avere un pappagallo come animale mi sono portata a casa la pennuta da affezione, bisognoso di attenzioni già adulta conoscendo benissimo e da viziare come fanno i nonni nei tutti i lati negativi che più avanti vi confronti dei nipotini adorati; è utile anche per la pet teraphy, per i bamspiegherò. Dopo pochi giorni era peggio dei miei cani. La compagnia è la sua passione e difficilmente vuole rimanere in una stanza senza la presenza umana. La sua richiesta è sempre la stessa: coccole, coccole e coccole e qualche volta interagisce con i Lorichetti arcobaleno presenti nella stessa stanza. Gelosa, affettuosa, educata e I Lorichetti arcobaleno “selvatici” imparano a fidarsi molto golosa. Per quanto io cerchi di impedirglielo, dal- bini con problemi di espressione e la spalla su cui sta riesce sempre a socializzazione. rubare una fettina di prosciutto ogni Ma quella che è diventata una pra-

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tica di allevamento comune si è ramificata in due correnti di pensiero: quelli a favore dell’allevamento a mano, detto anche allo stecco, e quelli assolutamente contrari se non è atto a salvaguardare una specie. Allevare a mano aiuta l’interazione umano-pappagallo, obbligando e convincendo l’animale che il nostro egoismo è essenziale per la loro sopravvivenza, sentendoci appagati. Negli ultimi anni, numerosi zoologi ed etologi hanno studiato gli sviluppi dei comportamenti di questi esemplari in cattività, sia per quanto riguarda la crescita del pullus, sia per quello che riguarda il comportamento genitoriale. La crescita di questi piccoli pet è una pratica assai delicata e, spesso, l’inesperienza di molte persone porta questi esemplari alla morte o a problematiche irrisolvibili.

Ma come funziona l’allevamento a mano? Spesso molti allevatori tolgono le uova direttamente dai nidi dei riproduttori per ottenere la schiusa in incubatrice; a volte vengono prelevati i pulcini appena dopo la schiusa o dopo qualche giorno. Vengono rinchiusi in una cosiddetta camera calda ed allevati fino all’involo alimentandoli con siringhe ed altri strumenti che possano direttamente collegare l’uomo all’animale. Si crea quindi un rapporto diretto, rafforzabile nel tempo, ma non giustificabile dal punto di vista etico, anche se vi sono notevoli vantaggi. Così facendo si priva sia il piccolo che i genitori di una parte fondamentale della loro natura. Durante la vita sociale nel nido, essi apprendono l’importanza della scelta di un partner e il sexual imprinting, indispensabile per far interagire in futuro il pappagallo con altre specie e scegliere quindi un compagno per la vita. Tutto ciò viene direzionato verso l’uomo e quando il pullo raggiungerà la maturità sessuale (almeno 3 anni per le taglie medie) gli istinti di identificazione creeranno dei problemi sociali anche verso noi stessi. Quando il pullo non ha ancora aperto gli occhi i suoi sensi riguardano solo il tatto (piumino del nido, calore della madre, ecc) e dopo pochi giorni questo impara l’interazione trami-

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te i suoni della sua stessa specie ed i gesti per l’imbecco. Si tratta quindi di lezioni di apprendimento e privarli di tutto ciò sarebbe come togliere un cucciolo di cane dalla madre subito dopo la nascita: crescerà maleducato e disorientato. La mancata socializzazione precoce con i propri simili farà si che i nostri pappagalli non siano più in grado di accoppiarsi con eventuali partner pennuti che gli offriremo nel corso della vita, sfociando in comportamenti scorretti come l’autodeplumazione, l’aggressività verso l’uomo e un evidenziato infantilismo.

noscerci, concedendo piena fiducia. Se vogliamo uccelli adatti alla vita in appartamento, dobbiamo renderci conto che l’impiego di ore e cure te-

E i genitori? Anche i genitori subiscono uno stress da parte di questa pratica. Se osserviamo gli esemplari in natura, i genitori, regolarmente, si prendono cura della prole con un ridotto numero di uova per tre covate all’anno. Togliendo le uova o i pulcini si interrompe il loro naturale etogramma, obbligandoli a colmare il vuoto comportamentale che si è creato. E come riempiranno questo vuoto? Accoppiandosi di nuovo e depondendo altre uova. Questo arricchisce gli allevatori, in quanto i pappagalli allevati a mano valgono il doppio, ma la continua produzione di uova stanca la femmina in maniera tale che spesso l’annata successiva questa non sarà in grado di sostenere il ritmo di prima, diventando sempre meno fertile o, spesso, morendo prima di giungere alla vecchiaia. Inoltre l’aumento dello stress da separazione aumenta il proliferare di batteri patogeni, aumentando così il rischio di malattie gravi.

La fiducia si guadagna Guadagnare la fiducia di un pappagallo è molto più facile di quanto si possa pensare. Questi volatili possiedono una vasta gamma di comportamenti comprensibili dall’uomo, tramite l’osservazione dei loro simili sia in natura che in gabbia, tenendo conto dell’ambiente e del clima. Informarsi è essenziale per il benessere dell’animale. Numerosi studi hanno insegnato all’uomo a socializzare con questi animali ottenendo ottimi risultati: tramite il rinforzo positivo, essi imparano a fidarsi ed a co-

La mia femmina di Lorichetto arcobaleno; non è allevata a mano eppure è confidentissima nere è essenziale per il corretto sviluppo emotivo. La somministrazione del cibo deve essere eseguita nelle modalità corrette e dobbiamo toglierci dalla testa le anti-etiche catenine a braccialetto che molti ancora comprano per tenere gli animali fissi sui trespoli. Il pappagallo non deve socializzare con metodi coercitivi, ma sarà attraverso la libertà che egli stesso sarà coinvolto con suo grande piacere e potrà dare, con il tempo, grosse soddisfazioni al proprietario. Abituare da piccoli gli uccelli, dapprima alla nostra voce e poi alla nostra presenza senza disturbare i genitori durante la cova, è un primo passo per instaurare un rapporto di amicizia con questi animali.

Clarissa Catti

nurannaproduction@ yahoo.it

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L’Arricciato del Nord, un elegante canarino... Un pò di storia ed un’analisi dettagliata di una delle razze più adatte per l’ornicoltore “alle prime armi” di

Federico Vinattieri

Q

uesto particolare e affascinate canarino fa parte dei “Canarini Arricciati”, gruppo di razze che vengono a loro volta suddivise in due sottogruppi: gli “Arricciati di Posizione”, che include Arricciato del Sud, Gibboso Italico, Gibboso Spagnolo, Melado Tinerfeno, e il sottogruppo degli “Arricciati di Forma”, che oltre all’Arricciato del Nord comprende anche Arricciato Gigante Italiano, Meringher, Padovano, Parigino, Fiorino e Rogetto, quest’ultimo di recente riconoscimento. Tra tutte queste razze, la “Nord” è sicuramente la più allevata e diffusa sia in Italia che nel Mondo. Quale sia l’origine certa della razza è tutt’oggi un’incognita e la sua storia è molto discussa e sostenuta da diverse teorie. La storia più plausibile lo fa derivare da un canarino estinto che si chiamava “Trombettiere del Re”, ed inizia durante la Rivoluzione Francese che causò la fuga e l’esilio di molti nobili, emigrati in Belgio e in Olanda. Questi aristocratici portarono con sé i propri canarini, c h e all’epoca solo i ricchi potevano permettersi di possedere, poiché questi piccoli uccelli erano considerati di grande pregio e avevano costi incredibilmente elevati ma non avevano niente in comune con la forma dei canarini attuali. Tali soggetti vennero incrociati con i canarini già presenti nei Paesi Bassi,

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i quali presentavano alcune piccole arricciature sul petto. Via via si iniziò a selezionare, quasi per gioco, alcuni volatili con arricciature più prominenti, finché nell’anno 1793 nacquero soggetti che presentavano una particolare

anomalia sul dorso, ossia delle nuove arricciature bilaterali, che vennero battezzate “spalline”: per questo particolare vennero battezzati “Trombettieri del Re”, nome che richiamava l e divise dei trombettieri alla corte del Re di Olanda, che presentavano, appunto, una sorta di spalline ornamentali. Da questi singolari canarini, di forma inedita per tutti gli allevatori dell’epoca, vennero selezionate diverse varietà tra cui il famoso “Frisé Hollandais”, l’Arricciato Olandese del Nord, ideato da appassionati belgi

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che produssero dei meticci tra il loro “Bossù belga” e il Trombettiere. Il Frisé Hollandais divenne poi il “Frisé Bossù”, che all’epoca fece scalpore e si diffuse abbastanza velocemente. Quando i francesi rientrarono nella loro Patria, riportarono con se i canarini, che negli anni avevano fissato geneticamente le arricciature sia sulle spalle che sui fianchi e sul petto. Via via la selezione andò avanti fino all’ottenimento del canarino “Olandese del Nord”, che deriva dall’importazione da parte della Duchessa de Berry, nel 1740, di alcuni arricciati dal Belgio. La taglia aumentò e aumentarono anche le arricciature. Passarono diversi lustri e questi particolari canarini vennero perfezionati e superarono diversi periodi storici critici, riscontrando sempre molto interesse da parte dei canaricoltori appassionati. Il riconoscimento ufficiale della razza avvenne solo nell’anno 1963 da parte dei delegati della Confederazione Ornitologica Mondiale (C.O.M.). Siccome la selezione della razza si articolò in tre diverse Nazioni (Belgio, Olanda e Francia), fu abolito il nome “Olandese del Nord” e fu ribattezzato definitivamente “Arricciato del Nord”. Purtroppo tutta la sua storia resta solo una teoria molto plausibile, in quanto purtroppo non è mai stata trovata una documentazione certa del lavoro di selezione svolto. Questo canarino è considerato il più antico tra tutti gli arricciati e data la sua proverbiale prolificità e robustezza, è certamente uno dei ca-

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narini più adatti all’ornicoltore “alle prime armi”. Non è assolutamente difficile far riprodurre questo volatile, il difficile, come in tutti gli arricciati, è produrre soggetti che siano esteticamente più simili possibile allo standard ufficiale. Alle mostre ornito-

divise in base alle colorazioni: giallo, arancio, bianco, pezzato con fondo lipocromico, pezzato con fondo melaninico, pezzato classico, verde, bruno/cinnamon e ardesia. L’Arricciato del Nord rappresenta un po’ un passaggio obbligatorio per

cuni Arricciati del Nord. Questi due canarini rappresentano attualmente più della metà degli arricciati presenti alle manifestazioni ornitologiche nazionali e internazionali. Oggi l’Arricciato del Nord in Italia è tutelato dall’Arricciato del Nord Club

logiche questi arricciati sono sempre presenti in gran numero e tutte le varietà di colorazione sono riconosciute e possono essere esposte. I soggetti di colore giallo lipocromico sono i più diffusi, mentre i soggetti totalmente melaninici sono i meno comuni. Durante il giudizio alle mostre ornitologiche questi arricciati vengono valutati in base alle diverse voci dello standard, alle quali sono abbinati dei punteggi: si valuta taglia, portamento, piumaggio, spalline, fianchi, jabot (nome che in gergo si riferisce alle arricciatura del petto), testa e collo, ali, arti inferiori e coda. Essendo questo canarino un arricciato di forma, ovviamente le voci più importanti dello standard sono rappresentate dalle arricciature e dal piumaggio, che devono essere più perfette possibili e devono essere limitate alle zone d’interesse, mentre tutto il resto del corpo deve essere totalmente liscio. Le categorie a concorso sono sud-

tutti gli allevatori di arricciati. Chiunque abbia intensione di allevare arricciati spesso inizia con il “Nord”, che si presta a questo scopo poiché con detta razza è molto facile capire le differenze tra le varie arricciature e come selezionarle. L’arricciatura infatti, in tutte le razze, è un fattore quantitativo, e una volta compreso questo, sarà più chiaro come affrontare la selezione dei propri soggetti in allevamento. La taglia è un altro degli aspetti di fondamentale importanza per gli allevatori di Nord. Un Arricciato del Nord deve essere il più grande possibile, pur mantenendo la lunghezza delle caratteristiche arricciature in rapporto alle sue dimensioni. L’Arricciato del Nord ha un “parente” più piccolo, ossia il canarino “Fiorino”, che è identico sotto ogni aspetto, tranne che per la presenza di soggetti a “testa ciuffata”, che nel Nord non sono ammessi. Il Fiorino è stato creato proprio partendo da al-

Italia (A.D.N.C.I.), gruppo nato di recente e affiliato alla Federazione Ornicoltori Italiani, che ha riunito i principali allevatori italiani allo scopo di incrementare la razza e confrontarsi alle varie mostre specialistiche che organizza in tutto il territorio nazionale. Quando ci si trova davanti ad un Arricciato del Nord che rappresenta perfettamente il suo standard, possiamo ammirare la sua eleganza e non è difficile comprendere perché questa razza annovera oggi un così grande numero di appassionati allevatori.

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Allevamento di Fossombrone http://ornitologia.difossombrone.it/

Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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Le Denominazioni di Origine dei Vini Sono moltissime le produzioni di pregio del nostro paese da tutelare. Una di queste è proprio il vino... di

Marco Salvaterra

L Agroalimentare italiano

a riforma dell’OCM del settore vitivinicolo (Reg. Ce 479/2008) prevede che i vini prodotti sul territorio dell’Unione Europea debbano essere classificati nelle se-

Logo europeo delle DOP (denominazione di origine protetta)

guenti tipologie: • vini a denominazione di origine: ovvero i vini che vantano uno specifico legame con il territorio geografico (DOP e IGP); • vini senza denominazione di origine: ovvero i vini che non vantano uno specifico legame con il territorio e che sono sostanzialmente rappresentati dagli ex vini da tavola. Per Denominazione di Origine Protetta (DOP) dei vini si intende il

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nome di una zona geografica particolarmente vocata alla produzione vitivinicola, che viene inserito in etichetta per dare risalto alle qualità del prodotto finito, le cui caratteristi-

Logo europeo delle IGP (indicazione geografica protetta)

che risultano connesse essenzialmente o esclusivamente all’ambiente naturale caratteristico della zona in questione ed ai fattori umani. Per Indicazione Geografica Protetta (IGP) dei vini si intende il nome geografico di una zona, utilizzato per qualificare il prodotto che ne deriva, il quale possiede qualità, notorietà e caratteristiche specifiche attribuibili a tale zona. La procedura per l’esaminazione delle domande il riconoscimento delle certificazioni DOP e IGP e per

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la modifica dei disciplinari ad oggi è cambiata e parte del processo risulta affidato direttamente alla Commissione Tecnica Europea. Il decreto legislativo n. 61/2010, con

il quale l’Italia ha adeguato la legge 164/1992 sulle denominazioni di origine dei vini, ha stabilito che i vini DOP vengano classificati in: • denominazioni di origine controllata e garantita (DOCG); • denominazioni di origine controllata (DOC). I vini IGP comprendono le indicazioni geografiche tipiche (IGT) della precedente classificazione nazionale. Le sigle DOCG, DOC e IGT possono

Agroalimentare italiano


essere utilizzate in etichetta da sole oppure possono essere affiancate alle sigle europee DOP o IGP. I vini DOP o IGP possono essere identificati con gli stessi loghi comunitari previsti per le indicazioni d’origine degli altri prodotti agro-ali-

mentale e una di tipo ispettivo. Ovviamente queste attività coinvolgono tutti i soggetti della filiera: viticoltori, vinificatori e imbottigliatori. Per quanto riguarda la fase colturale, in vigneto viene accertata la persistenza delle condizioni d’im-

Vini DOP e IGP italiani Attualmente sono più di 400 i vini italiani a marchio DOP: 330 vini DOC e 73 vini DOCG (luglio 2013). Di queste, alcune (1 DOCG e 10 DOC) sono interregionali. Le denominazioni condivise sono: DOCG - Lison (Veneto-Friuli) DOC - Colli di Luni (Toscana - Liguria) - Lago di Caldaro, Valdadige (Trentino - Alto Adige) - Lison-Pramaggiore, Prosecco (Veneto-Friuli) - Lugana, Garda (Lombardia - Veneto) - Orvieto (Umbria - Lazio) - San Martino della Battaglia (Lombardia - Veneto) - Valdadige Terradeiforti (Trentino – Veneto) Il numero totale di produzioni certificate IGT in Italia è uguale a 120, di cui 4 interregionali.

Quadro riepilogativo dei vini DOCG, DOC e IGT per Regione. mentari. La certificazione di conformità dei vini al disciplinare di produzione della DOP o della IGP non ricade più sui Consorzi di Tutela, bensì sugli Enti Terzi di Certificazione (Organismi privati accreditati alla norma EN 45011) o su Autorità pubbliche conformi alla norma EN 45011 (CCIAA - Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura). Il sistema di controllo prevede due tipologie di verifiche, una di tipo docu-

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pianto e dei parametri agronomici previsti dal disciplinare. Nell’ambito della fase di vinificazione vengono controllati alcuni fattori quali, la rispondenza quantitativa del prodotto ottenuto con quanto riportato nei registri di cantina, le operazioni tecnologiche e la presenza dei parametri qualitativi minimi del prodotto. Infine per quanto concerne i processi di imbottigliamento, viene verificata la corretta designazione del prodotto in etichetta e la corrispondenza analitica ed organolettica.

Le indicazioni condivise sono: IGT - Vallagarina (Trentino – Veneto) - Delle Venezie (Trentino – Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) - Vigneti delle Dolomiti (Trentino – Alto Adige; Veneto) - Alto Livenza (Veneto-Friuli Venezia Giulia) Prof. Marco Salvaterra Docente Istituto Tecnico Agrario Statale

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La conservazione degli alimenti Tecniche e metodologie utilizzate in passato ed al giorno d’oggi di

Mauro Bertuzzi

G

li alimenti freschi devono essere consumati in breve tempo a causa della loro deperibilità e quindi non possono essere riposti in attesa del bisogno. La conservazione degli alimenti ha lo scopo di salvaguardare, per tempi più o meno lunghi, la commestibilità, il valore nutritivo e le caratteristiche organolettiche degli alimenti.

La conservazione nel passato In passato la conservazione dei cibi si limitava all’essiccazione all’aria, all’affumicatura mediante l’esposizione degli alimenti al fumo di legna, alla salagione e all’impiego del ghiaccio. Il ghiaccio, uno dei più antichi metodi di conservazione, era l’unico capace di conservare i sapori e la consistenza originari. Questo metodo è stato utilizzato fino a pochi decenni fa in molte zone montane del nostro Paese, dove è possibile incontrare ancora oggi le caratteristiche ghiacciaie o niviere. La conservazione dei cereali poneva molti problemi che si cercava di limitare con l’essiccatura e la successiva macinatura. Per favorire una maggiore durata si utilizzava anche la tostatura, per impedire la germinazione e la formazione di muffe. La nascita delle moderne conserve alimentari risale ai primi dell’Ottocento, ad opera del ricercatore fran-

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cese Nicolas Appert (1750-1841) che arrivò alla conclusione che sigillando cibi deteriorabili all’interno di bottiglie di vetro, e a seguito dell’immersione di questi in acqua bollente, la conservazione era garantita a lungo. Nel 1810, la sua idea venne copiata dall’inglese Peter Durand, che incominciò a fare esperimenti sul modo di conservare il cibo in latte di metallo. Anche in Italia si incominciarono a studiare metodi per conservare gli alimenti deperibili e a Francesco Cirio si deve l’apertura, nel 1856, della prima fabbrica di piselli in scatola, seguita nel 1875 dal primo impianto per la lavorazione industriale di pomodoro in Campania.

Metodologia di conservazione Per consentire il mantenimento nel tempo di alimenti integri e salubri, occorre principalmente evitare la proliferazione di batteri, funghi, muffe e altri microorganismi che all’interno dei prodotti alimentari, tendono a produrre sostanze di

scarto tossiche per l’uomo, nonché cercare di ritardare l’ossidazione dei lipidi, responsabili del fenomeno dell’irrancidimento. Esistono pertanto processi particolari finalizzati

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a inibire il naturale invecchiamento che può occorrere durante la preparazione o la conservazione degli alimenti: un esempio è costituito dall’ossidazione della polpa delle mele, che dà luogo alla formazione della sgradevole patina marrone sulla superficie esposta una volta che il frutto è stato tagliato. In generale però, tutti i nutrienti, una volta esposti a ossidazione, perdono le loro originali proprietà fisiche e nutritive. Alcuni metodi di conservazione prevedono il sigillo completo dei prodotti in appositi contenitori sotto vuoto immediatamente dopo il trattamento, questo per cercare di prevenire la ricontaminazione; altri, come l’essiccazione, consentono invece il normale impacchettamento senza la necessità di ricorrere a particolari precauzioni e garantiscono la conservazione degli alimenti per lunghi periodi. I principali sistemi di conservazione degli alimenti sono: 1. Trattamenti ad alta temperatura. Esiste una relazione di inversa proporzionalità tra temperatura e tempo: la maggiore temperatura consente un trattamento di minore durata al fine di conseguire l’effetto desiderato: - Pastorizzazione; - Uperizzazione; - Sterilizzazione. 2. Trattamenti a bassa temperatura: - Refrigerazione (in atmosfera normale o modificata): è il metodo più adatto per la conservazione della frutta; - Congelazione: consiste nell’abbassare la temperatura dell’alimento ad un valore costante (inferiore a -18°C); i macrocristalli che si forma-

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no durante l’applicazione della bassa temperatura provocano lesioni alle pareti cellulari e denaturazione delle proteine. - Surgelazione: rapido abbassamento della temperatura con formazione di microcristalli che non provocano lesioni a livello delle pareti cellulari. 3. Conservazione mediante sottrazione di acqua. Questi trattamenti hanno lo scopo di sottrarre l’acqua libera ai processi degradativi togliendola dal prodotto: - Concentrazione: la quantità di acqua viene diminuita mediante riscaldamento (salse di pomodoro) o mediante raffreddamento o crioconcentrazione (vari succhi); - Essiccamento: l’acqua viene sottratta dall’alimento per evaporazione provocata da riscaldamento (frutta secca); - Disidratazione: l’acqua viene allontanata mediante l’atomizzazione e la circolazione di corrente ad aria calda (legumi e frutta); - Liofilizzazione: consiste nella disidratazione per sublimazione di prodotti previamente congelati, in par-

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ticolari condizioni di temperatura e pressione. 4. Conservazione mediante uso di additivi: -Salagione a secco o in salamoia; - Conservazione sotto aceto (“sottaceto”); - Conservazione con zucchero; - Conservazione con alcool etilico; - Conservazione sotto oli vegetali (“sottolio”); - Affumicatura; - Aggiunta di additivi (antimicrobici, antiossidanti, stabilizzanti). 5. Conservazione mediante processi microbiologici: consistono in fermentazione degli stessi prodotti alimentari con il risultato che si ottiene un aroma migliore, una più elevata digeribilità e un prolungamento della conservazione. Le fermentazioni sono di: - tipo alcolico: nel vino, nella birra, nel sidro, in alcuni latti fermentati (kefir) e nel pane; - tipo acido: nello yogurt, nel formaggio e nei crauti. 6. Altri metodi: - Conservazione in atmosfera con-

trollata: consiste nell’impiego di miscele di gas che consentono di ridurre la respirazione, frenando i processi di maturazione dei frutti e verdura; - Conservazione sottovuoto; - Trattamenti con microonde, raggi ultravioletti, radiazioni ionizzanti

Conservazione e trasformazione Abbiamo quindi visto che vi sono casi in cui l’integrazione fra conservazione e trasformazione fisica è ad un livello tale da rendere le due tecniche inscindibili, ossia la conservazione ha un impatto simile da configurarsi al tempo stesso come una vera e propria tecnica di trasformazione fisica.

Dr. Agronomo Mauro Bertuzzi bertuzzimauro@ hotmail.com

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Uovo di Quaglia: alimento di alto valore nutrizionale di

Daniel Marius Hoanca

L

a quaglia e le sue uova hanno iniziato a prendere campo nel mercato italiano come alimenti di ottima qualità. Questo vale sia per la sua carne, delicata e priva di grassi, (che può essere utilizzata senza problemi nella dieta per gli obesi e per le persone con diabete), che per le sue uova, ottime a livello dietetico essendo quasi prive di colesterolo negativo. Le uova di quaglia si sono dimostrate essere una vera fonte di proteine, minerali e vitamine, in particolare A, B1, B2, B6, B12, D, ferro, zinco, rame, fosforo, aminoacidi ed altri micronutrienti essenziali, per i quali sono raccomandate nell’alimentazione quotidiana. Le uova in generale e quelle di quaglia in particolare, sono ricche di una vasta gamma di amminoacidi molto utili nelle fase dell’accrescimento umano e negli adulti; inoltre, al loro interno, sono presenti anche antiossidanti che mantengono in forma le cellule, rallentando l’invecchiamento ed accelerando la rigenerazione delle stesse. La vitamina A: la concentrazione di questa vitamina nell’uovo di quaglia è due volte superiore a quella presente nell’uovo di gallina; la sua funzione biologica è importante per il meccanismo di trascrizione del codice genetico, per la crescita embrionale, per la funzionalità delle cellule riproduttive, per il metabolismo delle ossa, la salute della pelle e svolge inoltre un’attività antiossidante. La vitamina D: nel corpo umano viene prodotta grazie all’esposizione della pelle ai raggi del sole; è contenuta nell’uovo e riveste un’importanza basilare nel metabolismo del calcio. In medicina i bassi livelli di vitamina D sono associati a diver-

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se malattie dell’apparato muscolo-scheletrico. Proteine: l’uovo di quaglia ne contiene ben il 13%, una quota ben superiore a quello di gallina che può vantare solo l’ 11%. Le proteine sono molto importanti per la crescita muscolare. La vitamina B1: nota anche come tiamina è molto importante per la salute e la sua carenza comporta neuropatologie ottiche, sindrome di Korzkoff, Beriberi,

accentuato calo di peso, irritabilità e confusione. L’uovo di quaglia contiene un quantitativo di vitamina B1 pari a tre volte quella contenuta nell’uovo di gallina. La vitamina B2: come la vitamina A è presente in quantità doppia rispetto alle uova di gallina. Conosciuta come riboflavina, una sua carenza ha ripercussioni sulla pelle, con secchezza e desquamazione, sulle labbra, che tendono a screpolarsi, sugli occhi, con fotofobia ed arrossamento. Calcio: questo minerale, insieme alla vitamina D, è molto importante per la costituzione delle ossa e, da solo, è coinvolto nella contrattilità

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muscolare. Il fosforo: altro elemento molto importante per la vita è presente in varie funzioni biologiche ed entra a far parte di DNA ed RNA e nella membrana fosfolipidica delle cellule. Ferro e potassio: due elementi esenziali per una crescita equilibrata che non possono mancare nella nostra alimentazione. Sono presenti nell’uovo di quaglia in misura cinque volte superiore rispetto all’uovo di gallina. Il ferro è essenziale per il trasporto dell’ossigeno nel sangue e la sua carenza porta ad anemia. Una carenza importante di potassio può comportare dolori e stanchezza muscolare. Altra qualità importante dell’uovo di quaglia è che non provoca allergie ed anzi è un ottimo sostituto all’uovo di gallina nei soggetti intolleranti. Il colesterolo: l’uovo di quaglia contiene per lo più DHL, noto anche come “colesterolo buono”, che favorisce la circolazione sanguigna. Nella storia l’uovo di quaglia è stato utilizzato a scopo terapeutico: nei tempi antichi, i medici cinesi ed egiziani, lo usavano per trattare diverse malattie, ed il suo impiego sembra aver dato ottimi risultati in molti campi. Certo nessuno può affermare che faccia meraviglie, ma l’effetto positivo sul corpo umano è stato provato dai tanti ricercatori, scienziati e nutrizionisti.

Daniel Marius Hoanca dallian76@yahoo.com Appassionato allevatore

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Alla scoperta della Cinta Senese D.O.P. di

Carolina Pugliese

L

a Cinta Senese è una razza dalle antiche origini, come testimonia la presenza di un ani-

MANTELLO E PIGMENTAZIONE: cute e setole di colore nero, salvo la presenza di una fascia bianca continua che circonda completamente il tronco all’altezza delle spalle includendo gli arti anteriori. Il passaggio tra nero e bianco può essere graduale e non netto. Sono inoltre ammesse macchie nere all’interno della fascia bianca. Il setto nasale può essere depigEffetti del Buon Governo in campagna mentato. Ambrogio Lorenzetti TESTA: di medio male con caratteristiche similari a sviluppo, profilo fronto-nasale rettiliquello attuale, nell’affresco «Effetti neo; orecchie dirette in avanti, ed in del Buon Governo in campagna» basso di media lunghezza. (1338-1340) di Ambrogio Lorenzetti COLLO: allungato ed armonicamenche si trova nella sala dei Nove del te inserito nel tronco. Palazzo Pubblico di Siena. Negli anni ‘50 la maggior parte delle famiglie contadine toscane allevava questo suino, ma l’introduzione delle razze “bianche” ne ha segnato lo sviluppo fino a portarla, ai primi anni ’80, sulla soglia dell’estinzione. Grazie al prezioso intervento di allevatori e trasformatori locali, del Consorzio di Tutela, del sostegno fattivo della Regione Toscana e della Provincia di Siena, nonché di una puntuale attività di ricerca condotta dall’Università di Firenze, ad oggi si può contare su circa 140 allevamenti e su circa 5000 capi.

Standard di razza Caratteri tipici TIPO: fine, taglia media con scheletro leggero ma solido.

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TRONCO: moderatamente lungo, di forma cilindrica depressa lateralmente, torace poco profondo e ad-

dome ampio, spalle muscolose e ben fasciate, linea dorso–lombare diritta, groppa inclinata, coda attorci-

gliata, natiche ben discese. ARTI: medio-lunghi, sottili ma solidi, con articolazioni asciutte, pastorali lungo giuntati e unghielli compatti.

Cinta Senese D.O.P. Con Regolamento (UE) n. 217 della Commissione del 13 marzo 2012, la denominazione «Cinta Senese» riferita alla categoria Carni fresche

(e frattaglie), è iscritta quale Denominazione di Origine Protetta nel registro delle denominazioni di ori-

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gine protette (D.O.P.) e delle indicazioni geografiche protette (I.G.P.) previsto dall’art. 7, paragrafo 4, del Regolamento (CE) n. 510/2006. La denominazione «Cinta Senese» è riservata alle carni provenienti da suini di razza Cinta Senese allevati allo stato brado/semi-brado e derivanti da soggetti provenienti da accoppiamenti di suini entrambi iscritti nel Registro Anagrafico e/o Libro Genealogico del tipo genetico «Cinta Senese». La zona comprende tutto il territorio della regione Toscana fino ad un’altitudine di 1.200 metri slm. La zona geografica delimitata, si distingue per i suoi boschi misti, ricchi di specie quercine idonee alla produzione della ghianda e per i suoi terreni seminativi marginali. Oggi, la carne «Cinta Senese» viene direttamente associata alla sua regione di origine, anche perché nel in passato fu oggetto di un’importante attività di valorizzazione delle

porita. Il sistema di allevamento influisce anche sul colore della carne, che risulta più intensamente colorata, in parte a causa dell’età più avanzata degli animali al pascolo ed in parte per l’esercizio fisico che stimola la produzione di mioglobina. I suini allevati al pascolo presentano una maggiore percentuale di acidi grassi insaturi dovuta al maggiore tenore sia degli acidi grassi monoinsaturi, sia

Salumi tipici tradizionali toscani di Cinta Senese D.O.P. sue qualità poiché ritenuta essere espressione della tradizione alimentare toscana. I suini vengono generalmente allevati al pascolo in bosco o erbaceo; specialmente nella fase finale del finissaggio, comporta un maggiore contenuto in grasso intramuscolare ed effetti positivi sulla sapidità e sulla succulenza della carne. L’allevamento al brado e quindi l’alimentazione a base di risorse naturali del territorio (ghianda, castagna, etc), fornisce carne più marezzata e quindi più sa-

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dei polinsaturi della serie Omega-3 e Omega-6. La carne dei suini allevati all’aperto, anche dopo stagionatura, rimane più ricca di grasso di marezzatura e quindi più sapida. Affinché la caratterizzazione del prodotto avvenga, è però indispensabile che il sistema di allevamento all’aperto avvenga con tempi e modi rispettosi dell’ambiente (del bosco in particolare) e delle esigenze nutrizionali degli animali. La gestione sostenibile del bosco si concretizza attraverso un uso razionale che limiti

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i danni derivanti da un carico eccessivo di capi per ettaro e che assicuri,

al contempo, il soddisfacimento dei fabbisogni alimentari degli animali. Nella trasformazione della carne in salumi, i prodotti si contraddistinguono per le proprietà organolettiche che li rendono una vera eccellenza della tradizione toscana. La Cinta Senese produce carne di ottima qualità, le cui caratteristiche sono apprezzate soprattutto per la trasformazione in salumi. Il peso di macellazione medio è di circa 150 kg e la sua carne viene prevalentemente trasformata in salumi tipici tradizionali, quali: prosciutto, spalla salata, salsicce, gola, lardo, pancetta o rigatino, capocollo, soppressata, finocchiona, buristo. Per la produzione di carne fresca è utilizzata maggiormente la lombata e la rosticciana, che si prestano per la cottura al forno o sulla griglia. In conclusione, la Cinta Senese, con i suoi prodotti, rappresenta un patrimonio di grande valore, culturale e gastronomico, oltre che un mirabile esempio di recupero di germoplasma animale autoctono. Foto: Consorzio di Tutela della Cinta Senese

Dott.ssa Carolina Pugliese

Ricercatore - Università di Firenze Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell’Ambiente

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Il formaggio “fai da te” Hai mai pensato di produrre formaggi in casa? Ecco come fare! di

Cesare Ribolzi

N

ella sezione ‘Industria lattiero-casearia’ del www.forumdiagraria.org, tantissime persone hanno trovato un luogo virtuale dove incontrarsi, confrontarsi, chiedere e dare consigli agli altri aspiranti casari casalinghi. Arrivano utenti da tutto il mondo, dall’Europa alle Americhe, dall’Asia all’Africa e persino dall’Oceania. Molto è l’interesse sull’argomento formaggio e parecchi vogliono cimentarsi nella sua produzione. Come primo approccio alla produzione di formaggio viene sempre consigliato di fare delle prove con quelli più semplici, primo fra tutti il

‘Primo Sale’. Si tratta di un formaggio fresco, molle, senza maturazione e pronto per essere consumato appena dopo la salatura. Avvicinandoci alla stagione estiva, si dimostra un prodotto gradito per la sua freschezza e più adatto, rispetto ad altri, come ‘alleato’ per il buon esito della ‘prova bikini’. Può essere preparato e gustato al naturale o con rucola ed altre varianti, a piacere. Di seguito troverete qualche informazione sulla sua produzione ‘casalinga’. Procuratevi quindi qualche litro di latte, che sia fresco e crudo, possibilmente. Quindi sono da evitare il latte UHT e quello pastorizzato del-

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la centrale del latte. Va bene quello che si può acquistare dal contadino o che si compera alle casette distributrici di latte fresco. Questo non vuol dire che il latte UHT e quello pastorizzato della centrale del latte non siano buoni, ma semplicemente che non sono adatti a fare formaggio perché trattati con delle combinazioni di temperature e tempi tali da diminuire la loro idoneità alla produzione casearia.

Cominciamo? Procuratevi due pentole, una del volume del latte che intendete trasformare in formaggio e l’altra che possa abbondantemente contenere la prima. Nella prima metterete il latte e lo scalderete fino a 72 °C sul fuoco, mantenendolo in costante agitazione. Nell’altra metterete acqua il più fredda possibile e, raggiunti i 72 °C del latte, vi immergerete la pentola di questo facendolo raffreddare il più rapidamente possibile, fino a 40°C. Togliete ora il latte dall’acqua fredda. A questo punto mettete il caglio in quantità pari a 4 ml per ogni 10 litri di latte, miscelate bene, poi fermate il latte, ricoprite la pentola ed attendete 20 minuti circa. Il latte sarà diventato un gel che assomiglia ad un budino. Tagliate il coagulo con un coltello, in strisce di 2-3 cm, sia in senso orizzontale che in senso verticale. Lasciate riposare qualche minuto finché vedrete fiorire del siero dal caratteristico colore giallo/verdognolo, dai tagli che avete effettuato. Ci vorranno circa 5 minuti. Prendete un piccolo mestolo o una frusta da cucina e con delicatezza cominciate a far ruotare la cagliata che si taglierà in pezzi sempre più piccoli. Quando avrete raggiunto la dimensione di una nocciola, vi fermerete e lascerete riposare ancora

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qualche minuto la cagliata che sparirà ai vostri occhi depositandosi sul fondo della pentola. Con un piattino rimettete in agitazione la cagliata per qualche minuto, finché i grumi avranno preso un po’ di consistenza e non si romperanno facilmente esercitando una leggera pressione su di essi con le dita. Lasciate depositare la cagliata per qualche minuto e togliete una parte del siero. Con delicatezza travasate la cagliata dalla pentola agli stampi. Dopo una decina di minuti togliete il formaggio dallo stampo, rivoltatelo e rimettetelo nello stampo. Trascorsa mezz’ora effettuate un altro rivolta-

mento per poi mettere il formaggio con lo stampo nella salamoia, per mezz’ora ogni 400 g di formaggio. In alternativa alla salamoia spargete del sale fino sui piatti del formaggio; appena dopo il primo rivoltamento su un piatto e appena dopo il secondo rivoltamento sull’altro. Mettete in frigorifero ed il vostro Primo Sale nel giro di poche ore sarà pronto per essere consumato. Buon appetito! Caseificio Norden s.a.s. www.norden.eu Dr. Cesare Ribolzi Casaro

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La fermentazione alcolica Differenze fra fermentazione spontanea e fermentazione controllata di

Marco Sollazzo

La fermentazione alcolica è il processo in cui si ha la trasformazione degli zuccheri in alcool etilico, ad opera dei lieviti, in condizioni anaerobiche. Esistono diversi tipi di lievito e non tutti sono desiderati nel processo di produzione del vino dato che alcuni di questi possono apportare delle caratteristiche indesiderate: sono un

Fermentazione Spontanea

E’ una fermentazione che avviene in modo spontaneo dai lieviti presenti sulle uve, in modo sequenziale. Per una corretta fermentazione spontanea la qualità dell’uva deve essere in ottimo stato sanitario (fig.1), poichè è l’ecologia microbica presente sull’uva (in particolare sulla buccia) che regola la cinetica della fermentazione alcolica. Il momento della raccolta, in una conduzione di fermentazione di tipo spontaneo, deve essere scelto con più cura; successivamente sarà Fig.1 - Grappoli d’uva in ottimo stato sanitario. più complicato esempio fermentazioni incomple- gestire possibili difetti aromatici e te, composti indesiderati ed aromi gustativi che si potrebbero formare. sgradevoli. Perciò la gestione della Bisogna tenere presente che se si fermentazione alcolica è di assoluta raccoglie in maniera troppo anticipaimportanza, poichè da essa dipende ta si rischia di avere dei vini troppo la formazione degli aromi fermentati- acidi con note erbacee prevalenti, vi e la presenza di metaboliti secon- mentre se si raccoglie in maniera dari che regolano la morbidezza e la tardiva si può incorrere in un’uva non complessità gustativa del vino. perfettamente sana. La tempestività, E’ possibile condurre la fermentazio- le condizioni metereologiche, la tipone alcolica in due modi differenti: logia d’uva, il tipo di suolo e l’annata

S. Cerevisiae

in generale giocano un ruolo assolutamente fondamentale. La fermentazione condotta in modo spontaneo avviene più lentamente rispetto ad una fermentazione controllata, dato che sull’uva sono presenti diverse tipologie di lievito (tab.1) e, fra questi, i più numerosi sono quelli sensibili all’etanolo. Perciò, in una primissima fase fermentativa, gli zuccheri vengono trasformati in alcool dalla tipologia di lieviti più rappresentativa (quelli più sensibili all’etanolo). Solo in un secondo momento, quando nel vino è presente una certa quantità di alcool, iniziano a prendere il sopravvento le specie di lieviti più resistenti, che completano così la fermentazione. Il grande vantaggio che si ottiene da questo tipo di fermentazione è legato alla maggiore complessità e formazione di metaboliti secondari, ma questo tipo di conduzione è un processo “incontrollato e casuale”. Tale tipo di approccio è generalmente seguito dalle aziende che producono “vini naturali” e da alcuni vitivinicoltori che scelgono un approccio di tipo biologico o biodinamico.

Fermentazione Controllata La conduzione della fermentazione guidata è legata all’aggiunta di lieviti

S. Pombe P. membranefacis Tab.1 – Alcune tipologie di lievito che possiamo ritrovare sull’uva

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M. pulcherrima

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mi), nè troppo lento (formazione di aromi sgradevoli). B. FATTORI TECNOLOGICI - Fermentazione a differenti temperature: in alcuni casi si ricercano dei lieviti con caratteristiche di resistenze a basse temperature per una maggiore complessità aromatica e gustativa. - Resistenza all’anidride solforosa: per la conservazione del vino si addiziona anidride solforosa. Questa limita lo sviluppo di lieviti, perciò si ricercano dei lieviti resistenti a tale principio attivo. - Fattore killer: capacità di una specie di lievito di inibire la crescita di altri ceppi di lievito appartenenti alla stessa specie. Fig.2 - Mosto in fermentazione selezionati nel mosto. La prima applicazione di “fermentazione guidata” è avvenuta in un’industria birraria in Danimarca, ad opera di tecnico di nome Christian Hansen. Questo tipo di fermentazione assicura un pronto avvio della fermentazione e permette di avere un maggior controllo di essa (fig.2). Si riducono i problemi di caratteri organolettici anomali ed eventuali rallentamenti fermentativi. Allo stesso tempo aumenta la resa di trasformazione dello zucchero in alcool, ma risulta evidente che si ha una standardizzazione dell’agente microbico ed una conseguente riduzione della biodiversità dei lieviti associati sull’uva. Generalmente, i lieviti che vengono impiegati in ambiente enologico sono selezionati per fattori metabolici, tecnologici e qualitativi. Di seguito sono riportati i principali: A. FATTORI METABOLICI - Potere fermentativo: capacità del lievito di trasformare lo zucchero in alcool - Potere alcoligeno: capacità del lievito di resistere all’alcool - Purezza fermentativa: resa di trasformazione di zucchero in alcool - Vigore fermentativo: tempo di trasformazione dello zucchero in alcool. Generalmente il tempo di trasformazione non deve essere nè troppo veloce (poichè si perdono più aro-

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possano compromettere le qualità organolettiche del vino. Nei casi peggiori, quando l’uva non è completamente integra, possono prendere il sopravvento i batteri acetici (con alte produzioni di acido acetico) o batteri lattici (casi più rari, con difetto di spunto lattico). 3. Come e quanto? C’è una prima fase di reidratazione del lievito in acqua a 38°C (circa 10 minuti), solitamente aiutata con del comune zucchero da cucina. Una volta agitata la soluzione si può aggiungere del mosto della vasca che si vuole inoculare, in modo da aiutare la moltiplicazione del lievito (preparazione del pied de cuve) ed aspettare altri 10 minuti. Successivamente è possibile inoculare i lieviti nella vasca adibita alla fermentazione. E’ sempre consigliato che le temperature dei due liquidi non siamo molto differenti fra di loro. Riguardo le quantità, solitamente le dosi impiegate di lievito

C. CARATTERI QUALITATIVI: - Produzione di glicerolo, acetaldeide, alcoli superiori, ecc: tali composti aumentano la complessità del vino. Bassa produzione di acido acetico: si ricercano lieviti che producono basse quantità di questa molecola, principalmente presente Fig.3 - Modello proposto per reidratare ed inoculare il nell’aceto. lievito in maniera corretta nel mosto

Altre curiosità sui lieviti impiegati in enologia 1. Quali? I lieviti che vengono solitamente impiegati ad uso enologico appartengono al Genere Saccharomyces; i più utilizzati fanno parte della specie cerevisiae, dello stesso genere di quelli usati per il pane. In alcuni casi vengono impiegati quelli della specie bayanus, che sembrano avere un migliore potere alcoligeno ed una migliore capacità osmotollerante. 2. Quando e perchè? I lieviti sono impiegati per la fermentazione alcolica. E’ consigliabile inoculare quanto prima, finita la fase di pigiatura, per evitare che altri microrganismi

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variano dai 10 ai 30 gr/hl. A seconda della tipologia di lievito, però, la preparazione e la quantità del lievito stesso possono cambiare; in ogni caso si consiglia di seguire quanto riportato in etichetta (fig.3).

Dr. Marco Sollazzo Laureato in Viticoltura ed enologia sollazzo.marco@ hotmail.it

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Il substrato nella coltivazione dei funghi Problematiche e modalità di preparazione dei substrati per la coltivazione di varie specie fungine di

Raoul Lenaz

M

strada comprende l’utilizzazione del così detto “tunnel di pastorizzazione“; questo succede dopo eventuale trinciatura delle materie prime, la miscelazione delle medesime, loro bagnatura e stazionamento per qualche giorno in cumulo (comprendente le operazioni di mescolamento e bagnatura). Questa fase di accumulo del substrato in cumuli, che viene chiamata fase di “premassa“, può durare dai due ai quattro giorni, ovvero fino a quando il substrato non ha raggiunto il tasso ottimale di umidità desiderato. Normalmente il tunnel di pastorizzazione viene utilizzato per la preparazione del substrato del Prataiolo, dei Pleurotus e del Pioppino. Il temPioppino (Agrocybe aegerita) po di durata della fase di edodes). Molti si chiedono, quando premassa dipende dal momento clialcune muffe si presentano in fase matico, dalla struttura del substrato d’incubazione del substrato o di col- e dalle materie prime utilizzate. tivazione, in merito al perché della Tralasciando il caso del substrato loro comparsa, sui danni che pos- del Prataiolo preparato mediante sono causare e come prevenire o l’indoor compost, la preparazione curare. del substrato per i vari Pleurotus e In linea di massima, due sono le stra- per il Pioppino prevede, dopo una de che vengono percorse per pre- prima fase di “premassa“, un tratparare il substrato per funghi. Una tamento a caldo dentro al tunnel di

Ambiente, foreste e natura

pastorizzazione. Ma qual è la funzione della pastorizzazione? E’ quella di eliminare, per quanto possibile, tutte le forme di possibile inquinamento futuro, ovvero, uova e larve di insetti, nematodi, forme vegetative di muffe, batteri e spore di altri organismi fungini. Oltre all’eliminazione di queste possibili future forme di inquinamento e competizione, la pastorizzazione ha la funzione di donare al substrato una delle prerogative più importanti, ovvero una buona dose di selettività. Ma questo tipo di selettività non è sufficiente a garantire il buon esito della fase d’incubazione, ovvero la non comparsa di forme d’inquinamento, soprattutto quando il substrato si semina all’aria aperta, senza l’utilizzazione di spazi di semina protetti con filtri assoluti in sovra pressione. Un altro aspetto molto importante, che dona anch’esso un certo grado e tipo di selettività, è quello della specificità del substrato. Questa ritengo sia legata in buona parte alla sua formulazione, ovvero alle materie prime che utilizziamo nella formazione ed alle caratteristiche fisico-chimiche del medesimo. Ad esempio, se per un Pleurotus utilizziamo solo la paglia come materia prima, avremo un substrato piuttosto povero d’azoto, con un rapporto carbonio/azoto molto alto, come quando si utilizzano delle segature che contengono un contenuto di N ancora minore rispetto alla paglia. Come tutti gli organismi viventi, anche i funghi e per l’esattezza le loro ife, quando debbono invadere un

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Ambiente, foreste e natura

olti appassionati del mondo micologico che giornalmente seguono ed intervengono sul “www.forumdiagraria.org“, ed in particolare nella sezione “Funghi”, pongono quesiti in merito a tutte le problematiche che abbracciano la coltivazione dei funghi Pleurotus, Cardoncello (Pleurotus eryngii), Pioppino (Agrocybe aegerita), Prataiolo (Agaricus campestris) e, a volte, anche dello Shiitake (Lentinula

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substrato, hanno bisogno di ritrovare in esso non solo zuccheri, ma anche

sitivo le materie prime, blocchi lo sviluppo dei competitori rimasti ancora vitali (compresi quelli presenti nell’aria). Quest’ultima affermazione rappresenta la selettivittà nel suo aspetto più importante: dopo l’inoculazione del micelio, si sviluppa una biomassa viva che contribuisce alla protezione dai possibili competitori durante la fase d’incubazione. Questo tipo di selettività permette al micelio di essere il più veloce a colonizzare il substrato. Orecchietta o Orecchione (Pleurotus ostreatus) Ma, oltre a bloccare i competitori, la selettivarie forme di azoto, il tutto di facile vità serve a far risparmiare dei “solassimilazione. Ogni specie di fungo dini”. Per quale modesidera un substrato con una spe- tivo il substrato del cificità ad esso più consona. Questo prataiolo viene inolo verifichiamo facilmente quando culato con solo 0,5sullo stesso composto seminiamo ad 0,8 litri di micelio per esempio vari ceppi di Pleurotus ed quintale di substrato, anche quando, su uno stesso com- mentre quello del posto semisterile o sterile, seminia- Pleurotus con 2,5mo vari ceppi di Cardoncello. Ogni 3 litri per quintale? fungo ha delle preferenze in fatto di Per non parlare del zuccheri, amminoacidi, macro e mi- substrato del Piopcro-elementi nonché di vitamine. Sa- pino che viene inoranno quindi questi fattori, oltre alla culato con 7-8-9 litri dotazione enzimatica di ogni singo- di micelio per ogni la specie di fungo, a determinare la quintale di substrato. velocità d’invasione di un substrato. Come vedete più è Oltre alla specificità legata a queste forte la selettività in diversità, sono molto importanti e tutti i suoi aspetti e possono determinare velocità diver- meno micelio si può se d’invasione di un substrato anche inoculare per ogni le caratteristiche fisico-chimiche. La quintale di substrasua struttura e porosità, la sua den- to. Se consideriasità, il suo pH, il suo tasso di umidità; mo il substrato del tutti questi fattori nel loro insieme, Pioppino, il micelio, da solo, incide contribuiscono ad aumentare la se- per circa 10 euro a quintale, ovvero lettività del substrato. un’enormità; tutto ciò, perché sinora Adesso arriviamo però all’ intervento quelle poche aziende che produpiù importante a cui viene sottoposto cono substrato per il Pioppino non il substrato, ovvero quello della pa- sono riuscite ad ottenere una buona storizzazione. Fermo restando che selettività tale da poter permettere la pastorizzazione con il suo calore un minore uso di micelio durante la mira ad uccidere alcune forme di semina. vita dannose per il micelio, un ulte- Nel caso della preparazione del riore scopo è quello di far sviluppa- substrato per il Cardoncello (Pleure, all’interno del substrato, un certo rotus eryngii), il modo di procedere tipo di microflora (una biomassa) cambia completamente. Normalche oltre a trasformare in modo po- mente il substrato viene prima in-

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sacchettato e poi semi-sterilizzato o sterilizzato; proprio l’inverso di quanto avviene nel caso del Prataiolo, dei Pleurotus e del Pioppino. In questo secondo modo di procedere, ovvero nel caso del Cardoncello, la selettività è ottenuta in primo luogo con la sterilizzazione del substrato attraverso l’uso di una autoclave o di un forno. Superando i 100°C nel substrato per qualche ora, otteniamo un substrato diciamo “morto“ dal punto di vista microbiologico, per cui il micelio una volta inoculato non trova alcuna forma di competizione che lo può disturbare nel suo sviluppo. Infatti il tasso d’inoculazione è modesto ed i pani di 4 kg di peso (più o meno a seconda delle attrezzature utilizzate delle aziende che li preparano) impiegano mediamente circa due mesi per diventare completamente bianchi e compatti.

Cardoncello (Pleurotus eryngii) Come si può ben vedere quindi, per preparare un substrato che sia selettivo e produttivo al massimo, sono molti i fattori che vanno tenuti in considerazione, in quanto è la giusta applicazione di questi fattori a determinare la buona riuscita di un substrato. Raoul Lenaz Esperto funghicoltore lenaz.raoul@ libero.it

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Stabilità degli alberi in ambito urbano La sicurezza delle alberature e dei parchi nelle città. Un fattore irrinunciabile di

Alessandro Lutri

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ccendendo la televisione o la radio possiamo ascoltare notizie di episodi sgradevoli come la caduta di alberi all’interno dei nostri centri urbani. Ricordiamo ancora quanto avvenuto nel giugno del 2013 a Napoli in via Aniello Falcone, dove in pieno giorno un pino è caduto sopra un automobile in transito, con conseguenze disastrose. O ancora a marzo di quest’anno in

(art. 2051) ed anche “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” (art. 2043). Nel caso di verde, sia esso pubblico o privato, la responsabilità per la caduta di alberi o rami che provochi danni a persone o cose ricade su chi ne ha potere di custodia, sia essa Amministrazione Pubblica o privato cittadino.

Foto 1: Cavità su tiglio Piazza Toti a Torino, dove la caduta di un tiglio ha ferito 3 ragazzi di cui uno gravemente. Guardando indietro nel tempo si potrebbe continuare con esempi di questo tipo. Secondo il nostro codice civile “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”

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Ma da chi o da cosa è provocata la caduta di rami o di alberi interi? Gli eventi meteorici sono una delle risposte ma a questi occorre aggiungere le potature mal eseguite, siti di vegetazione non idonei, distanza tra le piante non adeguata oltre alle patologie vegetali non curate; queste sono solamente alcune delle possi-

bili risposte. Al fine di scongiurare gli episodi precedentemente citati è stato messo a punto un procedimento di analisi, chiamato valutazione di stabilità degli alberi (VTA, Visual Tree Assessment), che consente di accertare le condizioni di salute e di stabilità degli alberi, oltre ad essere riconosciuta da numerosi tribunali europei ed italiani. L’albero viene esaminato in ogni sua parte andando dalle radici al fusto, passando per il colletto, per poi procedere all’esame dell’inserzione delle branche sul fusto, i rami e la vegetazione esistente. La valutazione effettuata dal professionista, attraverso il riconoscimento e l’identificazione di sintomi esterni, permette di cogliere il segnale di eventuali difetti meccanici e fisici dell’albero, anche se privo di evidenze macroscopiche del decadimento. E’ dunque compito del valutatore individuare le condizioni di salute dell’albero e la sua propensione al cedimento, così come occorre valutare le dimensioni di cosa potrebbe cadere, poiché la caduta di un ramo provoca un danno differente dalla caduta dell’intero albero. Ma anche il contesto in cui l’evento potrebbe verificarsi: il crollo di un albero ad alto fusto all’interno di un bosco avrà sicuramente un minor impatto rispetto allo stesso albero posto in un contesto urbano, come un parco cittadino, un viale alberato o un giardino condominiale. Quali sono i sintomi che ci possono far pensare ad un probabile pericolo in seguito a riduzione di

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Foto 2: Cavità al colletto staticità dell’albero? Possono essere tanti e differenti, alcuni evidenti e macroscopici, altri non evidenti ad un occhio non esperto. Solamente a titolo esemplificativo si riportano alcuni sintomi visibili e che dovranno in seguito essere valutati approfonditamente da professionisti del settore. Grosse branche secche, hanno una flessibilità ridotta e dunque possono essere stroncate dal vento. Rami spezzati o scosciati e potature scorrette, non permettono la corretta formazione del callo cicatriziale, di-

ventando punto di ingresso per patogeni fungini che, in seguito, potrebbero portare a cavità (Foto 1). Così come anche le patologie fungine al colletto, se Foto 3: Cavità da Cerambice su Leccio trascurate (Foto 2), o l’azione di insetti patogeni come guente asfissia e morte dell’apparato radicale), la pianta risulta priva della ad esempio il cerambice (Foto 3). L’eccessiva densità in fase di messa sua naturale struttura di ancoraggio a dimora ed il successivo mancato e dunque soggetta a crolli. diradamento comporta L’applicazione dell’art.2 della legge la crescita di alberi con 10 del 2013 (Norme per lo sviluppo fusto filato (Foto 4) e degli spazi verdi urbani) secondo cui conseguente aumento “due mesi prima della scadenza di instabilità. Questo a naturale del mandato, il sindaco causa della mancanza rende noto il bilancio arboreo del di proporzionalità con la comune, indicando il rapporto fra il chioma, eccessivamen- numero degli alberi piantati in aree te pesante rispetto ad urbane di proprietà pubblica rispetuna pianta cresciuta in tivamente al principio e al termine condizioni normali, dove del mandato stesso, dando conto il rapporto h/d (dove h è dello stato di consistenza e manul’altezza dell’albero e d tenzione delle aree verdi urbane di è il diametro del tronco propria competenza” è uno spunto preso a petto d’uomo) di partenza per valutare quali degli non presenta valori ele- alberi presenti all’interno delle aree vati come nel caso di verdi censite non siano in buono stato fitosanitario e/o statico e dunque fusti filati. Talvolta, l’apparato radi- interpellare un professionista che cale, in seguito a scavi possa redigere una perizia di stabiper lavori stradali o altro lità al fine di evitare crolli accidentali. genere di lavori viene tagliato o coperto con paDr. Agronomo Alessandro Lutri vimentazione; ne conwww.progettareinverde.com segue che con il taglio alessandrolutri@ delle radici o la copertuhotmail.it Foto 4: Pini filati, si notino le piante inclinate ra di queste (con conse-

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La tartuficoltura Coltivazione dei tartufi: reale opportunità o fantascienza? di

Flavio Rabitti

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a tartuficoltura, ovvero la scienza che si occupa della coltivazione dei tartufi, è stata per molti anni celata dietro un fitto alone di mistero ed utilizzata (ahimè!) da qualche disonesto commerciante per vendere semplici piante forestali (o talvolta anche ornamentali) - senza alcuna probabilità di produrre tartufi - a peso d’oro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato? E’ davvero possibile coltivare queste “pietre preziose” che nasco-

tartufo ed analizzare velocemente i fattori che portano alla sua esistenza.

Botanica Il Tartufo non è un tubero - come molti pensano - ma un fungo ipogeo appartenente alla classe degli Ascomiceti, che vive in simbiosi micorrizica con determinate piante superiori. In realtà quello che viene mangiato ed al quale attribuiamo normalmente il nome di tartufo non è altro che

Tartufo bianchetto (Tuber borchii Vitt. o albidum Pico) no sotto terra? Prima di rispondere a queste domande è necessario fare una piccola premessa, spiegare cosa sia un

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il suo corpo fruttifero, morfologicamente simile ad un tubero, di forma più o meno rotonda, con protuberanze e cavità, a seconda della specie e

del terreno nel quale si è sviluppato. Tutti i funghi, così come il tartufo, sono caratterizzati da elementi che li rendono diversi da ogni altra specie animale o vegetale, così tanto da necessitare l’inclusione in un Regno speciale, il Regno dei Funghi. Per esempio, nessun fungo ha la fortuna di possedere la clorofilla, indispensabile invece agli organismi vegetali per elaborare la sostanza organica necessaria al loro sviluppo; di conseguenza i funghi traggono la sostanza organica da altri organismi, vivi o morti, divenendo rispettivamente parassiti o saprofiti. Un’altra possibilità è quella di costituire una vera e propria associazione simbiontica con altri organismi viventi (l’esempio più classico è attribuito al Lichene, associazione fra un cianobatterio ed un fungo), instaurando una simbiosi mutualistica, dove ambedue le specie traggono un qualche vantaggio dall’unione. Nel caso del tartufo la simbiosi mutualistica viene instaurata a livello radicale con piante superiori appartenenti a diverse specie, denominata appunto “micorrizia”, mentre l’insieme delle radici invase dal micelio prende il nome di “micorriza”. Durante la simbiosi la pianta micorrizata riceve un vantaggio dall’associazione instaurata, in quanto il fungo assorbe acqua e sali minerali dal terreno (soprattutto fosforo da forme insolubili), sostituendosi ai peli radicali (che non vengono più formati dalla radice) e ricevendo dalla pianta i carboidrati necessari al suo sviluppo. Le micorrize, oltre ad aiutare la pianta nella sua nutrizione, sembra che abbiano risvolti positivi anche sulla resistenza della pianta a condizioni ostili (acidità del suolo, freddo, aridità) ed a metalli pesanti tossici pre-

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senti nel suolo. Nel caso dei tartufi, nel momento in cui il fungo finisce di compiere il suo normale ciclo evolutivo, dal micelio iniziano ad originarsi dei corpi roton-

con determinate specie di Tuber, alle quali appartengono i nostri tartufi commestibili. Anche se i risultati della ricerca scientifica sono in continua evoluzione e molte variabili debbano

Tartufaia naturale di Tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum Pico) deggianti di vario colore, profumo e grandezza. Sono difatti proprio questi i corpi fruttiferi del fungo simbionte che, nelle specie commestibili, prendono il nome di tartufi.

essere ancora chiarite e spiegate, l’antica idea di coltivare i tartufi è divenuta per alcune specie una realtà. I terreni che solitamente vengono utilizzati per questo genere di coltivazioni sono quelli marginali, aree La coltivazione dei tartufi collinari e montane svantaggiate Per poter coltivare i tartufi è neces- dove oltre ad avere la possibilità di sario mettere a dimora delle piante incrementare il valore commerciale micorrizate (quindi che siano state del terreno è possibile effettuare anprecedentemente unite in simbiosi) che un’efficace difesa idrogeologica del suolo. L’ostacolo più grande alla coltivazione è quello di riuscire ad avere le condizioni ideali di sviluppo, che porta quindi alla conclusione che la tartuficoltura non è realizzabile ovunque e con probabilità di riuscita del 100%. I requisiti fondamentali sono quindi la componente pedologica ed ambientale del Sezione di Tartufo nero pregiato (Tuber sito in cui si vuole melanosporum Vitt.) con la sua caratteristica gleba impiantare la tartu-

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faia, la disponibilità di piante micorrizate di assoluta qualità e la corretta metodologia di impianto e delle successive cure colturali, delle quali la tartufaia necessiterà negli anni. La prima variabile è possibile accertarla attraverso l’analisi dei parametri fisici e chimici del terreno, che effettuerà il tecnico; questa dovrà essere accompagnata da un’analisi accurata dei terreni e dell’ambiente circostante, nonché dalle consultazioni delle cartine geologiche di riferimento. Il secondo parametro è dato dall’affidabilità del vivaio specializzato che sceglieremo come fornitore delle piante micorrizate, che dovrà essere dotato di mezzi adeguati e personale qualificato; le piante fornite dovranno essere certificate (es. controllo morfologico e biomolecolare), solitamente da Istituti Universitari ed altri organismi pubblici di ricerca specializzati nella tartuficoltura. La terza variabile è data invece dalla corretta metodologia di impianto (a partire dalle lavorazioni pre-impianto del terreno) e dalle successive tecniche colturali che dovranno essere adottate in base all’ambiente ad alle fasi vegetative del tartufo che si sarà scelto di coltivare (contenimento del cotico erboso, irrigazioni, lavorazioni del terreno, potature, etc). L’assoluto rispetto delle tre componenti principali descritte sopra assicurerà al tartuficoltore una buona percentuale di riuscita dell’impianto; inoltre, essendo la simbiosi micorrizica un’unione labile, essa potrà conservarsi nel tempo solo se i due partner contranti la simbiosi (pianta superiore e fungo ipogeo) troveranno le condizioni ideali di sviluppo. Bibliografia: Il Tartufo - Rivistadiagraria.org nr. 103 del 01/06/10 (Flavio Rabitti) Manuale di tartuficoltura (Regione Umbria M. Bencivenga, L. Baciarelli Falini)

Dr. Flavio Rabitti Imprenditore agricolo info@rabitti.eu

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Il suolo come serbatoio di carbonio in risposta ai cambiamenti climatici Ormai gran parte della comunità scientifica è concorde che esista una tendenza al riscaldamento globale: la temperatura media è aumentata di 0,8 °C dal 1900 di

Marco Giuseppi

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l suolo è un sistema biologico complesso composto da parti solide, liquide e gassose situate nella parte superficiale della crosta terrestre che permette di supportare la crescita di

piante superiori. È caratterizzato da strati (detti “orizzonti”) distinguibili in base al diverso stato di decomposizione della sostanza organica. Il suolo si forma attraverso fenomeni di alterazione fisica o chimica delle rocce che compongono la crosta superficiale: i fenomeni fisici provocano lo sgretolamento della roccia madre senza modificarne la composizione originaria, i processi chimici invece

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provocano un cambiamento nella composizione originaria formando minerali secondari. Una componente fondamentale nel suolo, anche in virtù del suo ruolo di accumulatore

La sostanza organica è presente nel suolo in varie forme, classificabili essenzialmente in due categorie: sostanza organica fresca o parzialmente decomposta e humus. La componente che immagazzina più carbonio è l’humus, di cui solo l’1-3% viene immesso nell’atmosfera attraverso processi di mineralizzazione, mentre la parte rimanente resta stoccata nel terreno. Il carbonio organico presente nei suoli è stimato essere circa il doppio del carbonio atmosferico e tre volte quello biotico; infatti i suoli europei contengono oltre settanta miliardi di tonnellate di carbonio. È quindi importante riuscire a capire quanto i cambiamenti climatici possano incidere accelerando i processi che portano al trasferimento di carbonio dal suolo all’atmosfera, perché anche una minima parte di carbonio liberato dal suolo può vanificare gli sforzi fatti con estreFonte: www.aqc.it ma fatica nella riduzione delle di carbonio, è la sostanza organi- emissioni in settori come l’industria. ca. La sostanza organica svolge nel Ormai gran parte della comunità suolo importantissime funzioni: non scientifica è concorde sull’esistenesiste terreno che possa ospitare la za di una tendenza al riscaldamenvita senza sostanza organica, ed è to globale: la temperatura media è la diretta responsabile della fertilità aumentata di 0,8 °C dal 1900 ed i del suolo e della sua conservazione; dodici anni più caldi osservati a livelun terreno senza sostanza organica lo globale dal 1880 si sono verificati sarà infatti facilmente soggetto a fe- tutti tra il 1990 e il 2005. Tutti gli indinomeni degradativi come desertifi- zi portano verso un unico colpevole: cazione, salinizzazione ed erosione. l’uomo, che attraverso l’immissione

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nell’atmosfera di gas serra e deforestazioni selvagge nei paesi in via di sviluppo sta mettendo alla prova i

limitare la perdita di carbonio organico dai terreni agricoli si possono eseguire tutta una serie di buone

Fonte: www.itagaribaldi.it

delicati equilibri che regolano la vita nel nostro pianeta. Il suolo non è immune a questi cambiamenti. I livelli di carbonio nel suolo sono regolati dal bilancio tra cattura di sostanza organica ed immissione di CO2 nell’atmosfera, attraverso processi degradativi. L’aumento di temperatura provocato dai cambiamenti climatici e la conseguente crescita di anidride carbonica nell’atmosfera può determinare un’accelerazione della funzione clorofilliana e quindi un incremento nella produzione di biomassa con conseguente maggiore fissaggio di carbonio. Al tempo stesso però può esaltare la mineralizzazione della sostanza organica con la conseguenza che un notevole volume di anidride carbonica sia liberato dal suolo. Purtroppo studi recenti hanno dimostrato che l’incremento di temperatura fa aumentare la mineralizzazione della sostanza organica in misura superiore rispetto all’aumento di produzione di biomassa. Un altro fattore importante che fa variare molto il contenuto di sostanza organica è il cambiamento d’uso del suolo. Il più ricco da questo punto di vista è il suolo forestale, mentre quello più povero è il terreno ad uso agricolo. Significative in questo senso sono quindi le ampie superfici di foresta abbattute per far posto all’agricoltura nei paesi equatoriali. Per

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rappresentata dalla conservazione delle torbiere. Le torbiere sono particolari tipi di suoli formatisi da depositi di resti vegetali sommersi in acqua con condizioni di scarsità di ossigeno e basse temperature. Le torbiere del nord Europa da sole ospitano il 50% del carbonio totale dei suoli europei. L’uso costante di questi terreni come combustibile o per altri scopi come il giardinaggio, unito all’aumento della temperatura, sta ponendo in serio pericolo queste formazioni difficilmente rinnovabili nel tempo. L’Unione Europea non è sorda a queste importanti tematiche; nel 2006 è stata approvata una “strategia tematica per la protezione del suolo”, concretizzatasi poi con la “Proposta di Direttiva Quadro per la Protezione del Suolo”, che mira a trovare gli strumenti per consentire al suolo di continuare a svolgere le sue funzioni e a proteggerlo da pro-

Fonte: www.agojet.com

pratiche agronomiche che risultano essere molto utili e vantaggiose nel tempo. Ad esempio l’utilizzo del letame, interrare costantemente i residui colturali, alternare colture che richiedono elevate lavorazioni del terreno ad altre che ne richiedono meno; oltre a questo utilizzare colture miglioratrici, ma soprattutto ridurre all’essenziale le lavorazioni del terreno. Un’altra grande sfida è

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cessi di degrado. Purtroppo ancora non è stato trovato l’accordo tra tutti gli Stati membri e ad oggi la direttiva resta ancora soltanto una proposta.

Dott. Marco Giuseppi Laureato in Scienze Forestali ed ambientali

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L’ortica ed i suoi mille usi di

Nino Bertozzi

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’Ortica è una pianta erbacea che appartiene alla famiglia delle Urticaceae. Al genere Ortica appartengono piante annuali o perenni, alte dai 50 ai 150 cm, che nascono spontanee ovunque, praticamente in tutte le regioni temperate del mondo. Il nome deriva dal latino urere, bruciare e si riferisce ai peli urticanti, di cui tutta la pianta è ricoperta. Dell’ortica esistono diverse specie; molto diffusa in particolare l’Ortica comune (Urtica dioica), pianta perenne che, come dice il nome stesso, è dioica, vale a dire che ci sono piante che portano solo fiori femminili e piante che portano solo fiori maschili. L’Ortica minore, o piccola, (Urtica urens), ha le stesse caratteristiche ma a differenza dell’Ortica comune è una pianta annuale, è di dimensioni inferiori ed è monoica, cioè porta nello stesso individuo sia fiori femminili sia fiori maschili; è molto più urticante. L’ortica è un’erba preziosa, utilizzata sin dall’antichità a scopi curativi. Comune ovunque, nelle campagne, lungo le strade, nelle macerie, negli orti e ai margini dei boschi, si raccoglie giovane, fino alla fioritura, ma prima che faccia i semi, perché diventa legnosa e non più utilizzabile. Le parti utilizzate sono le foglie e le radici; dell’ortica non devono essere consumati o comunque utilizzati i semi.

Proprietà medicinali La grande quantità di principi attivi fa dell’ortica una delle piante con il maggior numero di proprietà medicinali. Per uso interno vengono impiegati l’infuso ed il decotto, per uso esterno la pomata, la tintura, il succo. Le foglie contengono clorofilla in abbondanza, che conferisce alla pianta una spiccata proprietà antianemica. Si usa nell’anemia causata da man-

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canza di ferro o da perdite di sangue, perché il ferro e l’acido folico in essa contenuti stimolano la produzione dei globuli rossi. L’ortica è consigliata anche in caso di convalescenza, denutrizione e di esaurimento, dato che le foglie sono ricchissime di sali minerali, (specialmente, di fosforo, magnesio, calcio, silicio, manganese e potassio), nonchè di vitamine A, C e K, che la rendono remineralizzante, ricostituente e tonificante. Ha inoltre azione depurativa, diuretica e alcalinizzante: è indicata in caso di affezioni reumatiche, di artrite, di gotta, di calcoli renali, di renella e iperglicemia e cistite... e in generale, quando occorre produrre un’azione disintossicante. L’ortica ha una grande capacità di alcalinizzare il sangue e facilita l’eliminazione dei residui acidi del metabolismo, che sono strettamente legati a tutte queste malattie. Si ottengono buoni risultati dal suo impiego nei disturbi degli organi dell’apparato digerente; stimola la secrezione del succo pancreatico e la motilità dello stomaco e della cistifellea. Facilita quindi la digestione e migliora la capacità di assimilare i cibi. Grazie alla presenza di tannini possiede anche proprietà astringenti ed è perciò usata con successo per fermare la diarrea, in caso di colite o di dissenteria. Infine l’ortica possiede un’azione galattogena, dovuta alla capacità di aumentare la secrezione del latte materno, e perciò è consigliabile durante l’allattamento. Uso esterno: è utilizzabile in caso di malattie croniche della pelle come eczemi, eruzioni, acne. Contro la caduta dei capelli, rigenera e rende più bella la pelle. Lozioni: si applica il succo sulla zona ammalata della pelle.

Impacchi: si imbevono compresse di garza nel succo, si applicano sulla zona malata e si cambiano 3 o 4 volte al giorno. Cataplasmi: delle foglie di ortica sbollentate e tritate sono ottime per le irritazioni cutanee e per le ferite, in quanto ha un effetto cicatrizzante. In caso di artrite, reumatismi, emorroidi, sciatica, tendiniti, bruciature, distorsioni e punture d’insetti si possono integrare le cure con frizioni di pomata sulle zone doloranti. Urticazioni: con un mazzo di ortica appena tagliata si batte leggermente l’articolazione affetta da un processo infiammatorio o reumatico (ginocchio, spalla ecc.); questo produce un effetto revulsivo per il quale il sangue viene attratto in superficie decongestionando i tessuti interni.

Preparazioni Infuso di ortica: 50 gr di foglie fresche in un litro di acqua bollente per 10 minuti. Decotto di erba fresca: 30 gr di ortica fresca in mezzo litro d’acqua fredda,

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bollire per 10 minuti, filtrare e bere caldo o freddo. Pomata: sciogliere 250 gr di cera d’api sbiancata in un recipiente a bagnomaria, versarvi 30 gr di ortica essiccata e far cuocere a fuoco bassissimo per circa 2 ore. Filtrare in un recipiente coperto da un telo e mentre è ancora calda - usando guanti di gomma - spremere bene. Passare subito in vasetti di vetro scuro. Tintura: si trova già pronta in erboristeria o nelle farmacie con reparto erboristico. Per prepararla: porre 20 gr d’ortica essiccata in 100 ml di alcool a 25°C e lasciare macerare per 5 giorni, quindi filtrare e conservare in bottiglie scure. Succo: per ottenere 100 ml di succo occorrono grandi quantità di erba fresca, circa 10 kg.

Cosmesi Nel campo della cosmesi è usata per saponi, shampoo e lozioni. Curare i capelli con l’ortica L’ortica aiuta la crescita dei capelli, permette alle chiome di essere più vigorose e lucenti ed è un aiuto contro la forfora. Una lozione tonica per capelli a base di ortica si realizza in

modo semplice con questo procedimento: si mette sul fuoco una pentola contenente 3 tazze di acqua e si porta a ebollizione; quando bolle in modo intenso si aggiunge una manciata di foglie di ortica, poi si spegne il fuoco e si lascia in infusione per non meno di 20 minuti. Si filtra l’acqua per eliminare le foglie e si aggiunge una tazza di aceto di mele, più un cucchiaio di succo di limone; si mescola e si trasferisce in un con-

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tenitore, preferibilmente spray. Dopo lo shampoo si applica la lozione sui capelli bagnati e si procede all’asciugatura senza fare risciacquo.

Impiego in agricoltura Il preparato di foglie di ortica può essere utilizzato sia come antiparassitario sia come concime. Le foglie di ortica devono essere lasciate a bagno nell’acqua fino a che cominciano a fermentare, fino ad un massimo di 3 giorni; con l’aiuto di un bastone si rimescola il composto una volta al giorno. Prima dell’utilizzo il macerato deve essere filtrato con una tela grezza o un telo di tessuto non tessuto. Uso antiparassitario: con l’aiuto di un erogatore a pompa o di un vaporizzatore, si distribuisce il preparato filtrato e diluito nuovamente con acqua, in rapporto di 1:20, sulle piante e sul terreno. E’ utile contro le crittogame, numerosi insetti ed acari. In caso di pioggia ripetere la somministrazione. Meglio distribuirlo al tramonto facendo attenzione a non esagerare, dato che potrebbe provocare delle bruciature sulle foglie. Uso per concimazione: se si lascia fermentare per più di 7 giorni, fino a quando il liquido diventa molto scuro e non dà più luogo a formazione di schiuma, il macerato diventa un ottimo concime, apportatore di calcio e potassio e oligoelementi. Il macerato di ortica non diluito, distribuito direttamente sul cumulo, è utile per accelerare la maturazione del compost, mentre irrorato sul terreno tiene lontano le formiche. Diluito con acqua nel rapporto 1:20 risulta efficace per rinforzare e accelerare la crescita di tutte le piante dell’orto. Il macerato può essere utilizzato anche per bagnare le radici delle piantine prima della loro messa a dimora.

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Impieghi in cucina Le ortiche assomigliano agli spinaci, quindi i due ingredienti spesso possono essere scambiati; rispetto agli spinaci, paiono più delicate, con un gusto gradevole ma meno deciso per cui si possono usare in numerose ricette. Tagliatelle all’ortica Ingredienti per 2 persone: 1 uovo 200 gr. di farina 80 gr. di ortica già lessata e passata al mixer Lessare l’ortica, strizzarla molto bene e passarla al tritatutto per ottenere una purea molto fine. Unire

l’uovo e la farina e fare una sfoglia non molto sottile e far asciugare. Tagliare le fettuccine, cuocerle in abbondante acqua salata, scolarle. Condire con ragù di carne.

Fibra vegetale Sin dall’antichità l’ortica era usata anche per estrarre una fibra tessile dagli steli decorticati, per fare lacci, tessuti e perfino per fabbricare la carta. A partire dalla metà degli anni ’90, la ricerca di fibre a basso impatto ambientale “alternative” al cotone, ha determinato un nuovo interesse per l’ortica e, soprattutto in Germania, Austria e Finlandia, sono stati svolti progetti di ricerca sugli aspetti agronomici della sua coltivazione e sui metodi e processi tecnici per l’estrazione della fibra da destinare al settore tessile. Le stoffe ricavate dalle fibre di ortica mescolata con cotone sono particolarmente resistenti, morbide e traspiranti.

Nino Bertozzi Appassionato orticoltore

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Il bosco ceduo Una breve panoramica sulla principale forma di governo dei nostri boschi di

Luca Poli

E

sistono due modi per governare un bosco: il ceduo e la fustaia. Tralasciando comunque le forme intermedie come il ceduo composto, concentriamoci su quello a ceduo. Il governo a ceduo di un bosco ha come peculiarità il taglio della par-

prassuolo: la storia del bosco, ovvero eventi passati che possono aver debilitato l’ecosistema “bosco” come incendi o eccessivi pascolamenti; la stagione di taglio, da preferire in corrispondenza del riposo vegetativo delle piante; le modalità del taglio, che deve essere inclinato ed il più

Foto1: Ceduo di cerro dell’Appennino centrale appena sottoposto al taglio te aerea delle piante, con il conseguente rilascio delle ceppaie che, rimanendo nel terreno, provvedono alla ricostituzione del soprassuolo arboreo con il ricaccio di numerose generazioni di polloni. Per polloni s’intendono dei fusti originati da gemme (rinnovazione agamica) del tronco o delle radici, che si accrescono dopo il taglio dei fusti della generazione precedente; i polloni si originano dalla ceppaia, che è la parte della pianta rimanente dopo il taglio, comprendente anche l’apparato radicale. Il ricaccio di polloni è direttamente conseguente ad una serie di fattori che possono determinare la buona riuscita della ricostituzione del so-

Ambiente, foreste e natura

possibile raso terra; le caratteristiche della ceppaia, in funzione dell’età e della vigoria; infine, ma non meno

importante, la specie, che nella stragrande maggioranza dei casi appartiene alle latifoglie. La quasi totalità delle leggi forestali regionali, cioè delle normative che regolano l’utilizzo dei boschi, non permettono il taglio di tutte le piante di un bosco ceduo, ma bensì obbligano al rilascio di alcune, che prendono il nome di matricine. Quest’ultime possono derivare da polloni nati dopo il taglio precedente o avere anche età maggiori ed il loro rilascio può essere uniformemente distribuito (isolate ed a distanze regolari tra loro) o concentrato in poco spazio (“a gruppi”). Generalmente viene dato come valore medio quello di 60 matricine ad ettaro, al di sopra del quale si ritiene siano eccessive le piante rilasciate, che nuocerebbero con l’ombra al ceduo; non sono rari i casi in cui erroneamente e pensando di migliorare le condizioni del bosco, vengono rilasciate matricine in numero eccessivo, andando così a compiere degli interventi maggiormente riconducibili ad una conversione al bosco di alto fusto (fustaia). Altro errore sulle matricine, troppo comunemen-

Foto 2: Catasta di legna di faggio proveniente dal ceduo retrostante, pronta per essere destinata al commercio (Appennino Bolognese).

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te riscontrabile nei nostri boschi, è quello riguardante la loro scelta: le

Foto 3: Ceppaia di carpino nero piante da rilasciare dovranno avere un ancoraggio e dei cordoni radicali ben saldi, oltre che essere in grado di resistere agli agenti atmosferici avversi, come vento e neve, che, in alcune stazioni, sono molto influenti per la sopravvivenza delle matricine (soprattutto nei primi anni dopo il taglio). Dovranno infatti essere ben conformate nel fusto e nella chioma, in modo anche da essere in grado di produrre seme già dai primi anni. Una funzione affidata alle matricine, infatti, è quella di produrre seme destinato al rinnovamento delle ceppaie; in passato hanno avuto anche la funzione di produzione di legname da opera. Il bosco ceduo è tipicamente caratterizzato da tagli che vengono ripetuti periodicamente; l’intervallo tra due tagli successivi si chiama “turno”. La regolamentazione forestale definisce anche gli anni minimi e massimi entro i quali far ricadere il turno, differenziati per specie o categorie di specie. La soglia minima serve ad evitare un eccessivo asporto di biomassa e sostanze nutritive e garantire la vitalità delle ceppaie da un utilizzo troppo intensivo; la soglia massima delimita invece un valore

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indicativo al fine di evitare il man- sti maggiormente lignificati. cato o scarso ricaccio delle ceppaie Le specie che più vengono governain quanto derivanti da piante ecces- te a ceduo sono faggio, castagno, sivamente adulte, con la possibile carpino e robinia per l’arco prealpino conseguente perdita del soprassuo- e le quote medio-alte dell’Appennilo arboreo. no; nell’Appennino centro-meridioLa media dei valori indicativi per i nale si concentrano invece roverella, turni spazia tra i 15 anni per cedui cerro e leccio. di castagno molto produttivi, 20-25 Un piccolo accenno ai dati relativi anni per i querceti caducifogli (cerro, alla produttività: prendendo come roverella) e per il faggio, fino anche età di riferimento 20-21 anni, si conai 40 anni per la macchia mediter- sidera un range di valori, tra proranea con leccio. Da notare che, ad duttività molto basse ed ottimali, riesclusione di rare proprietà regolar- spettivamente compreso tra 30-40 e mente assestate, attualmente i tagli 200-400 m3 per ettaro, comprensivi del ceduo fungono da scorte patri- della legna e della fascina. Dato che moniali a cui attingere senza rego- attualmente sono consuetudine turlarità (Bernetti, 1987), seguendo es- ni superiori ai 21 anni, non è difficile senzialmente il mercato della legna ottenere i 300 m3 per ettaro all’età da ardere. dei 30 anni, nel caso di boschi con La destinazione dei prodotti legnosi produttività buone dove gli accresciritraibili da un bosco ceduo, infatti, menti si mantengono elevati anche è principalmente quella della legna con età maggiori delle piante. da ardere per la maggior parte delle Riguardo la diffusione, il governo a specie utilizzate, con la rara eccezione del castagno che trova ancora un suo mercato nella fornitura di paleria ad uso agricolo. Sono infatti largamente utilizzati pali di castagno come tutori per vigneti e recinzioni di vario genere, favoriti grazie all’ottima durabilità naturale specifica di questo legno. Altra destinazione dei prodotti di un ceduo è quella legata alla biomassa: piantagioni con specie come Foto 4: Ceduo misto nel Mugello (FI), a due anni pioppo, salice e robidal taglio si nota il ricaccio delle ceppaie nia vengono coltivate intensivamente per la produzione ceduo in Italia è molto esteso: basti di biomassa che, una volta triturata, pensare che solamente fra i boschi viene destinata alla combustione in di latifoglie i cedui sono diffusi per olcentrali energetiche o alla produzio- tre il 70% della superficie. Risultano ne di pannelli di particelle per l’edili- quindi molto importanti, oltre che per zia. I turni di questi particolari cedui le produzioni ottenibili, anche per il sono molto corti: nel caso del pioppo grande potenziale di sviluppo per le possiamo arrivare a tagli effettuati economie locali legate alla filiera boanche ogni 4 anni. I tagli di questi sco-legno-energia. cedui avvengono con una forte meccanizzazione, attraverso l’utilizzo di Dott. Luca Poli macchine di diretta derivazione da Laureato in Scienze quelle usate nel settore agricolo per Forestali ed la raccolta del mais, ma adattate per ambientali lavorare con diametri superiori e fu-

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Il Colombo più bello 2014 In “gara” solo esemplari di razza, nonostante fosse aperto a tutti... di

Claudio Duca aggiudica invece michelina84, che ha partecipato con un Modena Tedesco ed un California.

2° 1°

Il Cavallo più bello 2014 Eravamo ancora nel cuore dell’inverno quando è iniziata la competizione Gianni Marcelli

Il 29 gennaio scorso il tutto aveva inizio con poche e semplici regole; potevano partecipare gli iscritti al Forum con un massimo di 2 soggetti a testa. I tempi prevedevano il mese di febbraio per la presentazione delle foto ed il mese di marzo per le votazioni.

Gabr1982

di

Jimmyhaflinger

Alla “Tenzone” hanno partecipato 16 iscritti con i loro bei soggetti e, alla fine, dopo una lunga e tirata battaglia a suon di voti ecco la classifica finale:

Vince quindi gabry1982 con un bel Sella Italiano ed al 2° posto, a pari punti, jimmyhaflinger con Lampo, un cavallo di ben 40 anni e eunetti con una bella puledra Murgese. Complimenti ai vincitori ma onori anche a tutti i partepanti che hanno mostrato bellissimi soggetti!

Dal Forumdiagraria.org

Eunetti

1° Gabry1982 - Soggetto: Cerisemo - Sella Italiano 2° Jimmyhaflinger - Soggetto: Lampo 3° Eunetti - Soggetto: Italia di S. Candida - Murgese

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Dal Forumdiagraria.org

Quest’anno, per la prima volta dalla nascita del Forum di Agraria.org, è stato organizzato il concorso del Colombo più Bello del Forum per il periodo 2013/14. Il concorso, iniziato il 17/11/13 e conclusosi il 16/01/14, ha riscosso un grande successo e gli esemplari sottoposti a valutazione sono stati moltissimi. Gli allevatori che hanno preso parte all’evento sono stati numerosi e benché alla competizione fossero ammessi sia colombi da “volo” che “pesanti” di razza e di tipo meticcio, i soggetti che hanno partecipato sono risultati essere tutti di razza. L’unica eccezione è stata rappresentata dagli esemplari di razza California, che ad oggi non risulta riconosciuta e di conseguenza non ancora presente nel libro degli standard di razza di colombo della Federazione Italiana. I risultati hanno decretato come vincitore del concorso myk84, che ha partecipato alla gara presentando due esemplari di razza Pavoncello di colore bianco; il secondo posto va a ClaColombo con due soggetti, un Fiorentino ed un Triganino modenese. Il terzo posto se lo

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Associazione di Agraria.org

Il primo marzo 2014 l’Associazione di Agraria.org ha compiuto un anno; è stato intenso e pieno di iniziative, svolte grazie ai tanti soci che si sono uniti a noi e che stanno continuando a farlo! Una bella prova è stata la partecipazione alla Mostra Internazionale dell’Artigianato di Firenze: l’evento, che raccoglie il meglio dell’artigianato ed ha accolto ben 140.000 visitatori, ha visto l’Associazione partecipare con uno stand (di circa 70mq) dedicato all’agricoltura a 360°, dai mestieri legati al mondo rurale alle produzioni di Smart Farm. All’interno dello spazio dell’Associazione hanno trovato posto diverse esposizioni (“Orto sul balcone”, “Erbe spontanee commestibili”, “Attrezzi della pesca tradizionale”) oltreché vari laboratori (“Fare il pane insieme ai bambini”, “Composizioni floreali”) che hanno riscosso molto successo tra i visitatori. Un particolare ringraziamento per averci permesso di partecipare a questa importante manifestazione va alla nostra associata Alessandra Novelli, oltre a tutti i soci che ci hanno aiutato in tanti modi nei 7 giorni di fiera. Ma non è finita qui... l’Associazione parteciperà ad “Expo Rurale”, la manifestazione dedicata al mondo rurale promossa dalla Regione Toscana che si svolgerà a Firenze dal 18 al 21 settembre 2014 nello splendido ambiente del parco delle Cascine; sarà un’edizione speciale che anticiperà i temi fondanti dell’ Expo Milano 2015. Non sono mancati, inoltre, gli incontri mangerecci del Forum di Agraria.org. Nel mese di marzo ci siamo incontrati in provincia di Bologna, ospiti dei soci Nino e Carla; l’oc-

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casione è servita per programmare le attività dell’anno 2014. Successivamente, grazie all’impegno dei nostri soci Roberto e Claudio, ci siamo incontrati l’11 maggio nel viterbese in un agriturismo a Tarquinia. Infine, il 22 maggio, abbiamo avuto il piacere di essere ospiti di Stefano e della sua famiglia nella propria casa vicino Monghidoro, sull’Appennino Bolognese. Gli incontri hanno permesso di passare dei momenti piacevoli, non solo all’insegna dell’allegria e del buon mangiare, ma anche del confronto su vari temi della nostra passione: l’agricoltura! Visite guidate agli Arboreti di Vallombrosa (FI)

Grazie all’impegno di un gruppo affiatato di soci ispirati dalla bellezza della Riserva Naturale Biogenetica di Vallombosa, in provincia di Firenze, l’Associazione di Agraria.org in collaborazione con l’Università di Firenze ed il Corpo Forestale dello Stato garantirà per l’estate 2014 l’apertura dei bellissimi Arboreti Sperimentali di Vallombrosa. Verranno organizzate visite guidate all’interno degli arboreti, la cui storia risale al 1880 ed è legata inscindibilmente al territorio, patria dei forestali d’Italia. Vi aspettiamo quindi a Vallombrosa per una visita in quest’oasi di biodiversità! Per prenotazioni è possibile contattare l’Associazione attraverso la mail associazione@agraria.org o il cellulare 388/5867540.

Premio di Laurea “del Centenario”

L’Associazione di Agraria.org per valorizzare e premiare il merito e l’innovazione nel campo forestale ha indetto un concorso per la migliore tesi di laurea magistrale sul tema dell’innovazione nel settore forestale. Con questa iniziativa l’Associazione, in accordo con i Corsi di laurea forestali dell’Università di Firenze, intende ricordare i 100 anni di vita degli studi di forestali nel capoluogo toscano; era infatti il 1914 quando veniva inaugurato il primo corso a Firenze. Il premio in denaro riservato al vincitore è pari a 500,00 euro; per scaricare il modulo di partecipazione visitare il sito dell’Associazione (http://www.associazione.agraria.org/) o quello del corso forestale di Firenze (http:// www.forestambiente-magistrale.unifi.it).

Spazio Associazione di Agraria.org


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