Mario Luzi
Il tempo umano è perenne vigilia con una nota di
Gianantonio Borgonovo
Metteliana
Pietro Paolo Tarasco, Il pellegrino, (Il Giubileo del 2000 di Giovanni Paolo II ), acquerello, 2000.
I
l tempo umano è perenne vigilia. Questa del Nuovo Millennio e del Giubileo è una vigilia più eccitata e insieme più pensosa. Vediamo – che cosa è in cima ai desideri più acuti e segreti e inconsci della vigilia? Che l’evoluzione così lenta e faticosa abbia un balzo in avanti? No, che prosegua senza troppo pesanti ricadute all’indietro dopo aver trovato il giusto cammino dall’informe lutulento alla forma povera e chiara. Dalla larva torbida e vischiosa all’insetto limpido e lucente. L’impasto sanguinoso di grandezze, di glorie, di crimini, di scempi nel quale la nostra civiltà si è sviluppata e abbrutita si alleggerirà – è lecito prevederlo? almeno auspicarlo? – di molta zavorra, si libererà di molti orgogliosi pregiudizi e superstizioni. La semplicità: ecco ciò di cui, dopo tante superfetazioni oziose e presuntuose, il ragionamento profondo sente urgente necessità. E la franchezza dopo tanta ipocrisia sia benvenuta.
Questo testo senza titolo e rubricato come file Comitato centrale Giubileo 03.12.99 fu pubblicato su “Letture” Anno 55 – N. 563 – gennaio 2000, p. 8 con il titolo redazionale Benvenuta franchezza!, in una serie di testimonianze sul Giubileo del 2000 da parte di vari scrittori (tra cui Cesare Viviani ed Erri de Luca). L’impaginazione della rivista non rispetta le pause e le spaziature del testo luziano, che qui si restaura nella sua lezione originale. Stefano Verdino
GIUBILEO: VIGILIA E PARRESIA di
Gianantonio Borgonovo
L’ebraico jovèl significa «montone». Per sineddoche è anche kèren jovèl, il «corno di montone», che con pochi ritocchi può diventare uno strumento musicale a fiato, simile alla tromba e al corno. Suonato la sera del sesto giorno, annuncia l’arrivo di shabbàt, l’«Amata sposa» – quasi un epitalamio imeneico – come nel famoso inno di rav Shelomò Halevì Alkabètz, maestro cabalistico del XVI secolo: Lekhà dodì likràt kallà Vieni, amato mio, incontro alla sposa: pnêj shabbàt nekabbelà accogliamo shabbàt.
Suonato soprattutto la sera di jòm kippùr, il «giorno dell’espiazione», annuncia il grande shabbàt che dà inizio al cinquantesimo anno: Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la èretz. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella èretz per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi (Levitico 25,8-12).
Jovèl diventa dunque il cinquantesimo anno, l’anno «santo», l’anno della «liberazione nella èretz [terra d’Israele] per tutti i suoi abitanti».
Da qui l’intonazione dello jubilus. In latino diventa un termine tecnico che indica una musica quale «esplosione gaudiosa di un melisma vocalico, a volte lunghissimo, senza alcun testo o parola» (G. Cattin). Agostino, nelle sue Enarrationes in Psalmos ci dà molte informazioni al riguardo. Ambrogio gli fu maestro anche in questo campo musicale. Il vescovo di Ippona, con altri, lo paragona al kèleuma, originariamente canto dei vogatori e perciò assai ritmato. Da alcune righe di Agostino sembra che lo jubilus non fosse riservato a solisti, ma fosse cantato da tutta l’assemblea. Sarebbe quindi un tripudio di voci non uniforme, e difficilmente controllabile. Forse è per questo che il grido di acclamazione di vittoria, la teru‘à, sia stato tradotto nelle antiche versioni latine con termini della stessa radice linguistica di jubilatio e jubilare. L’intreccio tra il giubileo e lo jòm kippùr mi porta a ricordare un’intrigante ipotesi, legata all’antico calendario ebraico che potremmo definire «delle settimane» o «dei sabati». Fu usato nel Santuario di Gerusalemme nel periodo del Secondo Tempio (520 a.C. – 70 d.c.) e rimase in vigore almeno sino alla metà del I secolo a.C. Ancora i manoscritti di Qumrān ci attestano che era noto nella Comunità (jàh.ad ) di Qumrān, il cui “monastero” fu distrutto dai Romani prima di salire a Gerusalemme (68 d.C.), durante la Prima Guerra Giudaica. L’organizzazione del tempo in tale calendario è perfetta: 364 giorni, ovvero 4 trimestri di 91 giorni (3 mesi di 30 giorni più un giorno intercalare), vale a dire esattamente 13 settimane ogni trimestre. Il più importante esito era di impedire che lo shabbàt fosse “cancellato” da altre feste ancorate al precedente ciclo lunare, come la festa di pèsah. « pasqua». Vi è però un problema ancora aperto: l’adeguamento con la durata dell’anno solare tropico, che come è noto è di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. L’ipotesi che propongo è la seguente. Ogni 7 anni, prima dello shabbàt successivo alla festa di jòm kippùr, ovvero dopo il 10 e prima dell’11 del VII mese, si vivevano 7 giorni intercalari, che non entravano nel computo del mese e prolungavano lo shabbàt per un totale di 8 giorni sabbatici: 7 giorni intercalari sommati all’11 del VII mese, che era già uno shabbàt. Il VII mese sarebbe poi continuato con il giorno 12, primo giorno della settimana. Una prova a sostegno di tale periodo intercalare si potrebbe trovare in Levitico 25,4: «Il settimo anno sarà come un sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore».
In questo modo era recuperato il giorno mancante. Rimaneva da recuperare il resto, circa 6 ore ogni anno. Ecco allora che nel quarantanovesimo anno, dopo la festa di jòm kippùr si sarebbero intercalati ugualmente i 7 giorni sabbatici, come in ogni settimo anno sabbatico. Al termine di essi, però, si sarebbero introdotti altri 11 giorni, come se il settimo mese fosse ricominciato dall’inizio, partendo dal quarto giorno. È quanto abbiamo indicato dal testo del libro del Levitico appena citato. Il cinquantesimo anno, il «giubileo», non sarebbe durato un anno intero, ma solo un periodo di 18 giorni intercalari che s’incuneava nel quarantanovesimo anno. Con siffatto espediente, la scansione cronologica rimane settenaria (49 anni ovvero 7 volte 7 anni): il cinquantesimo anno suggellava un periodo di 49 anni “solari”. Questa scansione numerica perfetta è attestata nel Libro di Enoc e nel Libro dei Giubilei, due apocrifi molto utilizzati anche dalla Chiesa primitiva, almeno sino al III secolo. La scansione giubilare fu fatta risorgere nel periodo medievale, forse preceduta da alcuni eventi regionali antecedenti, ma ormai con finalità diverse rispetto allo jovèl biblico. L’iniziatore fu papa Bonifacio VIII con la bolla Antiquorum habet fida relatio. In quell’anno, il giorno dell’emanazione della bolla (22 febbraio) cadeva ancora nell’anno 1299, in quanto il nuovo anno 1300 sarebbe iniziato il mese successivo, precisamente il 25 marzo, giorno dell’incarnazione del Signore, secondo il computo introdotto dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo. Ispirandosi a un’antica tradizione ebraica, il Papa concedeva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero fatto visita trenta volte, se fossero stati romani, e quindici volte, se fossero stati stranieri, alle Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura, durante l’anno 1300. Tale «anno santo» si sarebbe dovuto ripetere – secondo il progetto originario – ogni cento anni. L’afflusso dei pellegrini a Roma fu tale che così lo descrive Dante (Inferno XVIII,28-33): «come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ’l monte».
Papa Clemente VI, volle tornare alla scansione biblica dei cinquant’anni e nel 1350 decise di indire il secondo giubileo. In seguito, Urbano VI volle indire un giubileo a soli 33 anni dal precedente (gli anni della vita di Gesù), ma in realtà fu Bonifacio IX che riuscì a inaugurarlo nel 1390. È dubbio, dal punto di vista storico, che vi sia stato un giubileo nel 1423 con Martino V, mancando documentazione al riguardo. La cadenza divenne poi di soli 25 anni con Paolo II, dal 1475 in poi. Alcuni papi hanno anche proclamato degli «anni santi» straordinari, al di fuori di queste cadenze. L’8 aprile 1933 Pio XI concesse il XXIV Giubileo in occasione del diciannovesimo centenario della Redenzione. Nella bolla Quod nuper (6 gennaio 1933) Pio XI bandisce l’«anno santo» esaltando il bene della pace mondiale. San Giovanni Paolo II indisse un Anno Santo straordinario nel 1983 in occasione del 1950° anniversario della Redenzione, a cinquant’anni del giubileo del 1933 (bolla Aperite portas Redemptori del 6 gennaio 1983). L’ultimo giubileo ordinario è stato il Grande Giubileo del 2000 e papa Francesco ha indetto il Giubileo straordinario «della misericordia» (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016) con la bolla Misericordiæ vultus del 13 marzo 2015, primo giubileo tematico, in occasione dei 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Al n. 15 della Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, Papa Francesco ricorda: In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.
Leggendo questo testo, subito si è portati a ricordare il progetto ideale dello jovèl nella determinazione della seconda parte di Levitico 25 (i vv. 13-17), che già ci ha portato a parlare del senso cronologico del giubileo biblico: In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà. Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio.
Il testo del Levitico continua, dando anche delle istruzioni per la terra e le abitazioni, da vivere come dono di Dio a noi affidati in quanto custodi, perché «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (vv. 23-24). Il testo della bolla di papa Francesco, se confrontato con il testo di Levitico 25, conduce alla commovente constatazione che con questo anno giubilare siamo tornati alle origini dello jovèl e al suo primordiale significato. Dobbiamo davvero essere grati a papa Francesco. Egli, con l’indizione di questo «anno santo», ha sorpreso tutti e ha riportato la Chiesa alla sorgente e al senso originario del giubileo, creando un’occasione singolare per riscoprire la «carta d’identità» del vero Dio e per distruggere ogni tentazione idolatrica: «Jhwh, Jhwh, Dio misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di tenerezza e di fedeltà: egli conserva la sua lealtà per mille generazioni, egli perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione; egli castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34,6-7).
Questo è il senso dello jovèl: sperimentare la possibilità del ricominciamento per grazia e la teshuvà («conversione») che lo Spirito plasma in noi, mostrandoci il Volto di misericordia del Padre e facendo vivere nella nostra carne la fede del Figlio dell’Uomo, Gesù Signore, così che diventiamo anche noi capaci di plasmare il nostro mondo con il suo modo di sentire.
Tra le molte perle inanellate nell’Opera poetica di Mario Luzi, concludo con questa pagina, sicuramente amata da chi conosce e predilige il Grande Poeta: Pasqua? sì, Pasqua – ti è data ancora. Dal nero adesso, dal concavo le arriva quel vociante murmure, la tiene sveglia quell’ansito – è l’aria, questa, o l’oceano? Fatica, sente, dell’etere e del mare in quelle inquiete masse, in quegli oscuri profondissimi commovimenti e conosce quell’afono e ciclonico ricominciamento del tempo da sé medesimo… e, sì, sono pronta evento io stessa, o che altro? Sono viva e mi raggiunge la vita, sono donna e mi sopravviene, nuova, la muliebrità nell’azzurro grembo. O resurrezione, resurrezione di quel che è – pensa nel suo pensiero dove la morte manca. (da: M. Luzi, L’opera poetica, p. 763).
La carne e il sangue sono un grumo di vita teso tra l’alef e il tau che non provengono solo da ciò che è terrigeno, ma sono animati da un alito che – al di là della nostra possibile conoscenza – sta al di là del nostro mondo. Possiamo dire che sta nei cieli, purché questi siano pensati almeno nella dualità, come shamájim, quelli di sotto che anche gli uomini contemplano e quelli di sopra che Dio solo vede. Dio solo «è» in una dimensione che sta prima del bêt di bereshìt «in principio» e insieme dopo il tau di ogni «tu» o «voi» dell’jiqtol, maschile o femminile che sia.
L’uomo, in questa tensione, è simbolo ed attesa: è «perenne vigilia». La sua compiutezza è rimandata al «settimo giorno» di Dio, al suo compiersi ed essere di nuovo assimilato nell’Uno per vivere quella comunione eterna del Padre e del Figlio nello Spirito, del Creatore e del Logos nella Shekhinà. Si tratta di raggiungere quella «semplicità» che non è ingenuità né tanto meno faciloneria. Definire «semplice» una realtà o un essere umano significa dire che è piegato-una-sola-volta. Questa immagine della piega singola è molto evocativa: «semplice» non è qualcosa di già squadernato, palese, che si capisce da sé, senza alcuno sforzo, ma qualcosa che non è difficile da aprire alla propria conoscenza, e che però va appunto aperto. Ecco il segreto per sperimentare il giubilo gaudioso del volto misericordioso di Dio: vivere in semplice franchezza, ovvero con parresía – è un vocabolo caro all’Apostolo delle genti! Siamo chiamati a vivere l’attesa, attenti e intenti a perseguire la forza critica del Vangelo smascherando «tanta ipocrisia». Mi scuso con il Poeta. Avrei detto – e so che sotto specie umana Lui stesso avrebbe scritto – «tanta idolatria»!
MARIO LUZI COLOPHON
ED ECCO TORNA A LUI
Questa plaquette è stata voluta dall’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo in occasione dell’undicesimo anniversario della morte del poeta (2005-2016). È stata tirata in 250 esemplari su carta a mano Amatruda di Amalfi. Città di Castello 28 febbraio 2016 festa di San Romano
ASSOCIAZIONE MENDRISIO
MARIO LUZI POESIA DEL MONDO
Metteliana © 2016 Paolo Andrea Mettel