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La situazione Raffaele Crocco
La situazione
Raffaele Crocco
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UNHCR/G. Gordon
Crisi Finanziaria e crisi di cibo Il Pianeta è ancora ammalato
È vero che si parla di finanza. È vero che la crisi economica mondiale ha investito tutto e tutti, bloccando economie vecchiotte – in Europa e Stati Uniti – e facendo perdere slancio a quelle emergenti – Cina, Brasile –, ad esempio. Tutto questo è vero. Ma se si gratta la superficie, ci si accorge che il problema vero è che ci troviamo a vivere in un Pianeta affamato e assetato. La grande battaglia per il controllo delle risorse, quelle vere come cibo, acqua e minerali, è in pieno svolgimento. Si scatenano lì i conflitti del presente e quelli del futuro. Ce lo raccontano, come spesso accade, i dati, le cifre. Prendiamo il cibo. Nel luglio del 2011 si è scoperto che siamo semplicemente senza riserve. Cosa vuol dire? Che se venisse una grande carestia planetaria, è una teoria, per carità, avremmo cibo solo per 116 giorni, poi stop, fine. In anni di agricoltura moderna, sementi ibride e geneticamente modificate e macchine agricole, sembra incredibile, eppure è così. Perché? Da un lato per la perdita di terre coltivabili dovuta a guerre e a cambiamenti climatici. Dall’altro perché i grandi Paesi industriali hanno scoperto il biocarburante, come alternativa possibile – pur parziale – ai petroli. Hanno dato il via alla caccia ai terreni agricoli necessari per produrlo. Nella sola Africa le multinazionali e i Governi dei Paesi economicamente più forti hanno comperato a prezzi ridicoli terra pari alla superficie della Francia. E quello che viene coltivato lì, cioè cereali, vale a dire l’ossatura del sistema alimentare umano, non si può mangiare, ma solo trasformare in carburante. Ovvio, è solo un pezzo del problema. Ma la fame attanaglia oggi quasi un miliardo di esseri umani, con punte di crisi come quella che vive il Corno d’Africa. La traduzione del tutto è in migliaia di morti e in milioni di profughi che si aggirano per il Pianeta in cerca di cibo e sopravvivenza. Uomini e donne in movimento, che sconvolgono equilibri, che occupano terre e culture, creando conflitti. E i cittadini del mondo non sono solo affamati: sono assetati. L’acqua è sempre più preziosa e più difficile da avere. E chi ce l’ha la difende, armi in pugno. Nel Pianeta, l’85% dell’acqua dolce è consumata dall’11% della popolazione. Anche qui, lo sbilanciamento è mostruoso, con il Nord del Pianeta a consumare troppo. Se si analizza, poi, la distribuzione delle riserve d’acqua nei vari continenti, si scopre che l’America del Sud, con il 6% della popolazione ha il 26% del totale delle risorse idriche mondiali. L’America del Nord e Centrale con l’8% della popolazione, ha il 15% dell’acqua. L’Asia ha il 60% delle persone e il 36% dell’acqua. L’Europa ha il 13% della popolazione e l’8% dell’acqua. Infine l’Africa ha il 13% di uomini e donne e l’11% di risorse idriche.
Acqua e cibo da cercare e controllare stanno creando nuove strategie militari. Stanno contribuendo a far crescere la spesa in armi. Per le sole convenzionali nell’ultimo anno si sono spesi 1.600miliardi di euro nel mondo. Per capirci: è il Pil di un Paese come l’Italia. I migliori venditori sono gli Stati Uniti, con 688miliardi di euro. Poi la Cina con 112miliardi. Dicevamo: si è scoperto il biocarburante. È un’altra traccia da seguire sulla pista dei possibili conflitti. Il mondo industriale e altri, nuovi Paesi come Cina, Brasile, Turchia, Sud Africa hanno bisogno di energia per soddisfare i bisogni di fabbriche e uomini. Ma il modello sin qui usato – fondato su idrocarburi e carbone – è destinato a finire, ad esaurirsi, nonostante le nuove tecniche di estrazione abbiano segnalato giacimenti immensi in Sud America. Nel 2010 il Pianeta ha consumato 13,2 miliardi di tonnellate di energia. Di queste, il 33,2% è stata petrolifera, il 29,6% carbonifera, il 23,8% legata ai gas naturali, il 6,5% è stata idroelettrica, il 5,2% dal nucleare, solo 1,3% è venuta dalle cosiddette fonti rinnovabili. È evidente come, ancora oggi, tutto il sistema sia fondato sull’uso di idrocarburi e carbone, anche se – dicono gli esperti – il picco estrattivo sarà raggiunto entro pochi anni. Così, se da un lato ci si organizza per rendere ancora più redditizio il petrolio e per poterlo estrarre laddove prima era impossibile – ad esempio nell’Antartico – dall’altro si cercano fonti alternative, come l’eolico, il geotermico, il sole, senza però arrivare a risultati soddisfacenti. In questa spirale senza soluzione, chi ha il petrolio cerca ancora di trarre il massimo profitto possibile – anche politico – dalla situazione. Le rivolte nel Maghreb e la guerra di Libia hanno fatto alzare il prezzo del greggio nell’estate del 2011. Un rialzo dovuto non solo alle difficoltà estrattive nate dai conflitti, soprattutto in Libia. A far crescere il costo del barile – dicono gli analisti – è stata la volontà dell’Arabia Saudita di far pagare agli Stati Uniti e all’Europa l’appoggio dato a chi ha fatto cadere Mubarak in Egitto e Ben Alì in Tunisia. Una ritorsione vera e propria. Che paghiamo tutti. Chi ha il petrolio controlla molto del Mondo, anche oggi. Lo sa il Brasile, che progetta di difendere con nuovi sottomarini atomici – i primi in Sud America – i suoi giacimenti sotto il mare. Lo sa la Cina, che ha varato la sua prima portaerei – Shi Lang il nome – per far la voce grossa nel mar di Cina contro Vietnam e Filippine nella rivendicazioni di acque e isole ricche di petrolio. In questo modo, il gioco del controllo del Pianeta resta nelle mani di chi ha le risorse o le può sfruttare. E, sotto traccia, restano integri i pericoli di guerre potenzialmente distruttive. Gli ultimi vent’anni ci hanno abituato a “conflitti locali”, che impegnavano eserciti di piccole dimensioni, in territori comunque definiti. Abbiamo dimenticato che nel Mondo sono lì, nei depositi, pronte ad essere usate, ancora 20.530 testate nucleari. Il dato è di Sipri, la Ong svedese che dal 1966 fotografa lo stato degli armamenti nel Pianeta. Di queste 20.530 testate esistenti, circa 5.000 sono pronte per essere usate in qualsiasi momento. Le potenze nucleari sono quelle note: la Russia, con 11mila testate, di cui 2.400 pronte all’uso. Poi gli Stati Uniti, con 8.500 globali e 2.150 pronte. La Gran Bretagna ne ha 225, con 160 da usare rapidamente. La Francia 300 e 290 pronte. Seguono la Cina, con 240 testate, l’India che ne ha fra le 80 e le 100, il Pakistan con un centinaio e Israele, con le sue 80. Tante. Per decenni, sino agli anni’90, al tempo del confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’attenzione dei pacifisti è rimasta concentrata sugli arsenali nucleari su quello che si chiamava “il pericolo di olocausto” del genere umano. I Trattati internazionali, la caduta del blocco sovietico, la riduzione progressiva degli arsenali statunitensi e russi hanno illuso tutti. Hanno fatto pensare che il peggio fosse passato. Non è vero. Il pericolo è lì. India e Pakistan continuano a sviluppare armi di distruzione, senza aderire ai trattati che ne frenano la proliferazione. E i due Paesi sono in conflitto da decenni, ogni giorno si bombardano con le artiglierie lungo il confine himalayano. Dovessero un giorno decidere di usare le loro testate, anche solo un paio, creerebbero le condizioni per anni di carestie in gran parte dell’Asia e in tutto il Pianeta. È un pericolo concreto, che si aggiunge all’elenco: cibo, acqua, terre, risorse, profughi, desertificazione, cambiamenti climatici. Le ragioni della guerra crescono, apparentemente senza controllo. L’unica cosa che – pochi – sembrano saper controllare sono gli utili, i grandi guadagni, che da queste guerre nascono.
UNHCR/N. Behring